Dalla deposizione di Mubarak a quella di Morsi L

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Dalla deposizione di Mubarak a quella di Morsi L
Dalla deposizione di Mubarak
a quella di Morsi
L’Egitto che resta in Piazza
A due anni dalla cacciata di Mubarak
Andrea Leoni | 12 febbraio 2013
la criminalità e sono venute fuori nuove problematiche sociali
come quella delle molestie sessuali (che talvolta diventano veri e
propri stupri) in piazza Tahrir. C’è chi dice che gli stupratori
siano gente pagata per impaurire e per scoraggiare le donne a
scendere in piazza, ma ciò viene smentito quando una donna si
imbatte in qualsiasi vicolo del Cairo.
Le luci del giorno svaniscono, la giornata invece non
finisce pacificamente proprio quando alcune centinaia di attivisti
si recano davanti al Palazzo presidenziale, che sembra essere il
nuovo epicentro delle proteste, il tutto degenera in scontri verso le
8 di sera: lancio di pietre da una parte e gas lacrimogeni
dall’altra.
“La rivoluzione non si fa in due giorni e neanche termina in due
anni”. È questa l’aria che si respira a piazza Tahrir, insieme alla
sabbia quando va bene o ai lacrimogeni quando va meno bene.
Certo è che in pochi vedono quei famosi diciotto giorni come
l’inizio e la fine, qui al Cairo la rivoluzione è solo iniziata.
Ieri ricorreva l’anniversario delle dimissioni di Hosni Mubarak,
era l’11 febbraio e molti lo ricordano come un giorno di festa. La
gente usciva in strada, erano in milioni. Le trattative tra
diplomazie e opposizioni, infatti, si concludevano con il discorso
di Omar Suleyman, il vice, che comunicava come da quel
momento gli affari dello Stato sarebbero stati diretti dall’Esercito.
Era l’11 febbraio 2011, il Rais destituito fugge (a Sharm elSheikh, peraltro) ma qui, a distanza di due anni, si continua a
morire in piazza. Alla caduta del tiranno seguono avvenimenti
che marcano una continua rivoluzione: delle elezioni
regolarmente svolte, l’approvazione di una nuova Costituzione e
un referendum, ma anche le stragi di Port Said (dell’anno scorso e
di quest’anno), la strage di Suez pochi giorni fa, ma anche i
notevoli scontri di piazza ad Alessandria, a Tanta o al Cairo.
Come quelli di ieri.
A piazza Tahrir il clima è disteso e se nella mattinata era stato
allestito un campo da calcio per il “torneo dei martiri”, partite che
non si interrompevano neanche al passaggio di rumorosi motorini
in mezzo al campo, nel susseguirsi della giornata le azioni degli
attivisti si fanno decise, ma non degenerano in scontri. Subito
viene bloccato l’accesso dell’ufficio presidenziale Mogamma (per
il secondo giorno di fila) dove si registrano un paio di tafferugli
che vengono magistralmente sedati dai più anziani, nel
pomeriggio invece i famosi black block riescono a interrompere
le corse della metropolitana del centro.
Nel frattempo le manifestazioni impazzavano in tutta Cairo, una
di queste si avvia decisa con slogan contro Morsi e polizia, a casa
di Gaber Salah, meglio conosciuto con il soprannome di “Gika”,
assassinato dalla polizia di uno Stato cui lui stesso aveva dato
fiducia. La sua faccia è su tutti i muri del Cairo e lui è uno dei
simboli delle nuove proteste antigovernative, ma anche di come
la cosiddetta primavera a cui lui stesso aveva fatto parte è stata
tradita. “Il tiranno da buttar giù è Morsi e farà la stessa fine di
Mubarak” dicono i manifestanti e son molto decisi a far cadere il
“nuovo tiranno”.
L’illusione di una democratizzazione del Paese è ben lontana:
l’esercito continua ad avere privilegi che non vogliono perdere,
sempre più ragazzi vivono per strada e l’aumento della benzina
come quello della vita impazza, il turismo (una delle principali
fonti di guadagno degli egiziani) è ai minimi storici. E’ cresciuta
Gli scontri di ieri in Egitto e una guerra
civile alle porte
Andrea Leoni | 16 febbraio 2013
Il venerdì è il giorno della preghiera per i musulmani, ma in
Egitto è anche il giorno delle proteste: è dal 28 febbraio nel
famoso “venerdì della collera” di due anni fa che la gente si
riversa in piazza per manifestare il dissenso. Ieri ancora una volta
violenti scontri ovunque e un morto in Gharbiya, ma la situazione
sembra degenerare.
In settimana abbiamo assistito ad un vero e proprio bollettino di
guerra: attivisti trovati morti, un bambino venditore di patate pure
e le varie accuse di torture mosse contro la polizia. Il venerdì
dopo tutto ciò si fa sempre più caldo e le proteste impazzano in
tutto il Paese: i Fratelli Musulmani e gruppi di salafiti si
raccolgono alla Cairo University, migliaia dicono siano i
partecipanti in una manifestazione “contro le violenze”, “contro
l’opposizione” e a supporto del presidente Mohamed Morsi, tra
barbe lunghe, spille e magliette con la faccia del presidente,
bandiere dell’Islam e un servizio d’ordine molto attento. Le
arringhe dal palco sono perlopiù contro l’opposizione, rea di esser
il cervello delle violenze che sono riesplose dal 25 gennaio in
Egitto.
A piazza Tahrir, invece, ci sono centinaia di attivisti che si
raccolgono: ci sono le donne scortate dal servizio d’ordine, gli
Ultras che ricordano i loro martiri e tanta gente normale. Si canta
e balla per le vie del centro. Poco prima che il sole tramonti però
gli Ultras locali (quelli dell’Al Alhi perlopiù) si raccolgono
davanti a una delle sedi militari del Cairo, anche qui urlano
slogan contro Morsi e contro la polizia, c’è un clima da stadio,
dove tantissimi giovani saltano e sventolano bandiere. Dopo
un’oretta però, il corteo muove verso il palazzo presidenziale a
Qubba, lì si radunano in migliaia: ultras, giovani, donne, uomini e
donne che sono scesi in piazza nel 2011 e che ora vogliono
un’altra rivoluzione. Si incrocia anche il famoso gruppo di “black
bloc” che ovviamente ha rimandi europei, ma che qui funge
piuttosto da servizio d’ordine (ma anche da prima linea) durante
le manifestazioni e da gruppo quasi paramilitare negli altri giorni,
rivendicando anche attacchi ai Fratelli Musulmani.
Le forze dell’ordine cercano di disperdere la folla con gli idranti,
non riuscendoci. Un gruppo di giovani riesce anche ad
arrampicarsi sulle colonne del palazzo presidenziale deviando per
alcuni momenti il getto dell’acqua che viene sparata dai camion.
Si prova a sfondare il cancello d’entrata con bastoni usati come
arieti, mentre giovanissimi lanciano pietre e molotov contro il
palazzo. La folla è gigantesca. La risposta delle forze dell’ordine
però non si fa attendere e un fitto lancio di gas lacrimogeni (qui è
alquanto nocivo) infesta la piazza: aria insopportabile. I camion
della polizia ne approfittano per uscire e i manifestanti arretrano.
La situazione degenera completamente: numerosi sono i feriti che
vengono soccorsi dai medici, tra cui anche un fotoreporter
statunitense. Ma sono pochi quelli che vengono portati via con le
autoambulanze, molte delle quali già spiegate fuori dal palazzo
presidenziale, perché in tal modo verrebbero identificati: così gli
abitanti del posto offrono acqua e un posto al riparo per chi è
intossicato e alcune ambulanze fungono da ospedale da campo.
La battaglia continua per ore: lacrimogeni da una parte e pietre
dall’altra. Si sentono anche vari spari. Succede l’incredibile. Un
gruppo di persone (si dice che siano alcuni ikhwan del posto,
ovvero sostenitori dei Fratelli Musulmani) riesce a prendere uno
di questi “black bloc” lo smaschera e lo vuole portare con se. In
soccorso arrivano gli altri compagni incappucciati sennonché uno
del gruppo che tenta di portar via il ragazzino (diciottenne al
massimo) tira fuori una pistola, che qui non è una rarità, le urla
della gente non fermano il parapiglia che si è venuto a creare e un
colpo di pistola viene sparato in aria. Gli uomini riescono a
portare via il ragazzo, alcune voci dicono che sia stato
successivamente liberato, ma non sono rari gli episodi in cui
ragazze e ragazzi vengono rapiti durante le manifestazioni. Lo
scenario è quello di una vera e propria guerra civile: la situazione
è diventata incontrollabile.
Di seguito alcune anteprima del fotoreportage consultabile
all’indirizzo seguente:
http://firstlinepress.org/gli-scontri-del-15-febbraio-al-cairo/
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sull’approvazione della Costituzione.
Come muore una Primavera
Redazione | 11 dicembre 2012
In Egitto l’esercito ha ricoperto sempre un ruolo di primo piano e
decisivo. In questa fase però sembrava per lo meno neutrale, con
la revoca delle azioni da stato di emergenza, ma con i subbugli in
piazza, l’assalto a sedi governative e di partito, Morsi sta
riaprendo poteri anche alle forze armate, che in azioni congiunte
con la polizia è ritornato a compiere arresti.
Definitivamente ammazzata la Primavera Araba e le sue
speranze, ora c’è il fiato sul collo degli aiuti finanziari del Fondo
Monetario Internazionale e l’irremovibile posizione del
Presidente, che non vuole posticipare la data del referendum,
proponendo colloqui all’opposizione, che però continua a
rifiutarli, preoccupata per i diritti degli altri credi religiosi nel
Paese e per l’emancipazione delle donne, ma soprattutto per le
condizioni di povertà in cui verte la maggior parte della
popolazione.
In Egitto sembra essere proprio calato l’inverno.
La preparazione dell’Egitto al referendum costituzionale,
previsto, ma assolutamente non certo, per il prossimo 15
Dicembre, è fatto di tumulti, arresti sommari, esplosioni,
denunce, baratro politico e tremendo specchio con un passato che
sembrava essere stato spazzato via dai clamori della Primavera
Araba.
Costituzione approvata in Egitto, ma la
Cosa sta succedendo?
rivoluzione
La Costituzione proposta dal mandato Mohammed Mursi viene
contestata dall’opposizione, dai liberali, dalla sinistra, dal Fronte
di salvezza nazionale, dall’autorevolezza del Premio Nobel
Mohamed Mustafa ElBaradei e dal vecchio politico Amr Moussa,
segretario generale della Lega araba, che in una recente
intervista ha spiegato i motivi per i quali in Egitto nulla è
cambiato e la rivoluzione non ha portato i frutti sperati.
Si contesta alla presidenza di aver redatto una carta costituzionale
che in qualche modo non rappresenta tutto l’Egitto, ma solo
quello islamico, come se la Costituzione fosse stata dettata dai
Fratelli Musulmani, alleati politici di Mursi. Inoltre la nuova
carta sembrerebbe istituire un nuovo Rais, con poteri accentrati
nel Presidente e nomine di posti di rilievo della società tutte
gestite dal Governo. Le fiamme delle piazze però non sembrano
derivare solo da una voglia di multiculturalismo nel Paese, dove
si fronteggiano sostenitori del Governo e laici preoccupati, ma
non solo, perché sono riscesi in piazza anche tutti quelli che
reclamano pane e burro a prezzi accettabili. Il quaranta per cento
della popolazione continua a vivere sotto la soglia di povertà e le
misure economiche del Governo non facilitano la situazione.
La pressione del Fondo Monetario internazionale su Mursi
Dietro l’innalzamento delle tasse c’è, come quasi sempre in
questi casi, la mano del Fondo Monetario Internazionale, che per
il prossimo 19 Dicembre ha fissato un appuntamento inerente alla
decisione sui prestiti da elargire all’Egitto. Naturalmente per
queste concessioni richiede misure di austerità al Paese. Ciò vuol
dire tagli ai servizi ed innalzamento del prelievo fiscale. Il FMI
ha chiesto garanzie di donazioni anche a Stati Uniti ed Unione
Europea, di quest’ultima però alcuni Paesi hanno deciso di
bloccare gli aiuti, visti i problemi sulla Costituzione “troppo
islamica”. Anche per questo il mandato di Mohammed Morsi non
può posticipare dopo il 15 Dicembre il referendum
politica ha perso il suo fervore post-
Redazione | 2 gennaio 2013
Il referendum ha decretato l’approvazione della nuova
Costituzione in Egitto, quindi in parte una vittoria del Presidente
Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani. In realtà il distacco
dal fervore politico della piazza si sta già segnando in un
solco che vede, come tragica tradizione vuole, la politica da una
parte e le esigenze del popolo da un’altra. Solo il 33% ha risposto
alla votazione. Un calo in contrasto con tutto quello successo
nelle passate votazioni post-rivoluzione.
L’opposizione politica a Morsi vede nella scarsa affluenza una
delegittimazione della votazione stessa e del consenso al
Governo, ma intanto i nuovi assetti legislativi ed economici
devono trovare punti concordanti tra tutte le parti politiche. La
Banca Mondiale è già dietro l’angolo, con la richiesta di politiche
di austerità, prima di elargire qualsiasi tipo di aiuto economico.
Le masse si sono tenute lontane dalle votazioni per l’odore di
morte che prepotente ancora era vivo a seguito degli scontri delle
scorse settimane, oltre che per la totale disorganizzazione ai
seggi, dove ci sono state file infinite e ritardi, causati in parte dal
ritiro di molti giudici di sorveglianza. Tuttavia risiede solo in
parte negli scompensi disorganizzativi il distacco dal fervore
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politico della gente vogliosa di democrazia.
taccuini o telecamere.
C’è disillusione verso molti partiti costituitisi come alternativa
alla passata dittatura, perché il problema del prezzo del pane è il
medesimo di quando si scese in piazza contro Hosni Mubarak e la
classe politica è rintanata, come in quei tempi, nelle proprie
stanze, lontane dalle piazze.
Seppur in una situazione da scassinatore dello stereotipo
“rivoluzione” sono attratto dal suo simbolo massimo qui in
Egitto: Piazza Tahrir. Col sole asfissiante che mi appiccica
all’asfalto dell’incrocio enorme che porta alla piazza, mi rendo
conto della desolazione che si è appropriata di questo posto. C’è
solo qualche tenda sparsa: presidi di chi ricorda i martiri delle
proteste. Se non fosse per gli enormi murales con disegni e slogan
rivoluzionari, che, partendo dall’Università americana del Cairo,
accerchiano tutta la zona, l’odore delle manifestazioni e degli
scontri sarebbe molto lontano. Eppure il ragazzo del movimento
liberale mi aveva avvertito di fare attenzione per la tensione
presente a Tahrir: tuttavia l’unico stato d’ansia è dovuto dal
silenzio e dai gruppi di ragazzini che girano attorno come
avvoltoi.
Cosa ne sarà di una rivoluzione? Voci
dal Cairo
Lorenzo Giroffi | 7 maggio 2013
Si è spesso abusato della parola rivoluzione, considerandola come
legata ad un singolo evento, capace di un cambiamento
immediato. Andrea Leoni ci ha raccontato già l’Egitto
della violenza sui bambini di strada, dei problemi di ordine
pubblico e della polizia ancora indecisa su chi difendere, ho
pensato quindi di percorrere la downtown della capitale egiziana,
lontana dalle piramidi ed immersa nella quotidianità di chi la
rivoluzione l’ha per forza di cose sentita (Piazza Tahrir è nelle
vicinanze). Tra l’odore di chicha, i gatti come iene sui
marciapiedi, le strade stracolme di umanità ed oggetti arrugginiti,
venditori di frutta marcia, umanità sparsa di pelli ed abiti diversi
tra di loro, mercanti-attori che inventano qualsiasi approccio pur
di venderti qualcosa, carretti con uomini anziani a battere la frusta
sull’asino ed ad urlare qualcosa: incontro un ragazzo appartenente
ad un partito politico di cui non vuol dirmi il nome, ma che
definisce vicino all’ideologia liberale. In passato è stato
arrestato. “Con Mubarak era impossibile organizzarsi, sia per
colpa della repressione del regime, che per la pigrizia degli
egiziani, che si lamentavano sotto voce, ma, quando si era in
tanti, in piazza al massimo si raggiungevano le duecento
persone”.
Ogni venerdì, a due anni dalla caduta del regime, continuano a
spuntare gruppi di persone in piazza, per manifestare: libertà di
stampa, diritti civili, salario più agiato per i lavoratori.
“Abbiamo bisogno di lavorare ancora, c’è stato solo un primo
passo della rivoluzione. Certo, chi ne ha approfittato di più sono
stati sicuramente i Fratelli Musulmani, che rappresentano
comunque buona parte del Paese, anche se la loro intenzione di
interazione con le altre realtà politiche islamiche del medioriente
la trovo impraticabile. L’Egitto non è come gli altri Paesi arabi,
ad esempio mi viene in mente il Bahrein. Non intendo che non
siamo arabi, ma abbiamo storie diverse: qui siamo vicini
all’Africa e te ne accorgi dai colori della gente e dalle nostre
abitudini”.
Mentre continua ad offrirmi sigarette, mi allontano da questo
ragazzo da cui potrei prendere appunti, ma non è la situazione per
“È così tranquillo oggi perché sono giorni di festa”. Alle mie
spalle sbuca un uomo minuto, con dentatura alterna e voglia di
comunicare. In effetti si festeggia la Pasqua copta. Nonostante in
un Paese di 85 milioni di persone, nel quale i cristiani siano solo
il 10% (minoranza che di recente non ha avuto vita facile) durante
la festa tutti sono rispettosi o comunque ne approfittano del relax.
Papa Teodoro II, 118° papa copto, ha celebrato la sua prima
Pasqua nella chiesa Copta del Cairo, al cui esterno c’è stato
qualche coro di protesta, ma nulla di particolarmente grave.
Teodoro II si è lamentato però rispetto al fatto che il governo
presieduto da Mohammed Morsi non protegge abbastanza i
luoghi di culto dei cristiani. Nonostante le tensioni però un certo
clima di convivenza è possibile, basti pensare che non c’è alcuna
legge che vieta matrimoni tra copti e musulmani.
Quest’uomo saltato fuori da Tahrir mi ricorda tale festività e mi si
presenta come artista della rivoluzione. Mi porta subito nei pressi
di un muro della piazza, dove, a suo dire, c’è un’opera da lui
realizzata (nella foto segnalata in alto: tratta da un video
consultabile in Voci dal Cairo 4). È un disegno sprezzante verso i
Fratelli Musulmani, che sono ritratti con mani sul martello della
Corte, respinto dal popolo, che da sotto respinge il controllo da
ogni postazione della società. “Abbiamo cacciato Mubarak. Ora
non abbiamo bisogno di una nuova dittatura. I Fratelli
Musulmani hanno già piazzato il loro controllo su ogni aspetto
della nostra vita”. Si riferisce anche all’emendamento della legge
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che il presidente Morsi ha modificato lo scorso novembre, dando
in pratica pieno potere al ministero preposto, controllato appunto
dai Fratelli Musulmani, che così possono gestire direttamente i
sindacati, perché i suoi capi sono nominati dal Governo. Anche
per questo il primo maggio l’Egyptian Federation of Independent
Trade Unions ha manifestato dinanzi lo Shura Council, per
chiedere garanzie ai lavoratori ed un salario minimo di 1,200 lire
(170 dollari). Nelle divagazioni economiche si parla anche della
volontà di Mohammed Morsi di introdurre il sukuk, una forma di
prodotto finanziario islamico, sponsorizzato dal Ministro delle
Finanze, Al Mursi Al-Sayed Hegazy. Quest’ultimo ha dichiarato
che il sukuk potrebbe generare 10 milioni di dollari l’anno, anche
grazie al supporto delle banche islamiche, come la già presente
Faysal islamic bank of Egypt.
Quest’anziano artista minuscolo si stacca dai binari socio-politici
per rimpolpare la propria vanità e mi conduce nella sua bottega
d’arte: a due passi da Tahrir. “Guarda, questo palazzo è tutto
mio. Prima qui avevo anche delle vetrine, quelle che ora sono
distrutte. Durante le manifestazioni gli islamici vicini alla
Fratellanza mi hanno distrutto tutto, perché io sono contrario
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alle loro posizioni”. È iniziata l’ora della sua messinscena. Il
confine tra la sua verità e le cose realmente accadute inizia a
restringersi: vuole accattivarmi con gli stereotipi dell’occidentale
che guarda con diffidenza all’Islam e farmi sembrare le sue opere
più sovversive, così da acquistarle con maggior piacere. Capisco
della trasformazione artista/venditore e lo lascio nel suo
“laboratorio”.
Jika e una Rivoluzione da completare
Andrea Leoni | 15 febbraio 2012
Il suo nome era Gaber Salah conosciuto ai più con il soprannome
di Jika, un sedicenne che è divenuto il simbolo delle nuove rivolte
egiziane: quelle contro Morsi. I suoi amici lo ricordano spesso
con cortei che partono da Tahrir e che arrivano sotto la casa dove
i genitori, i suoi fratelli e le sue sorelle non smettono di chiedere
giustizia.
Di seguito alcune anteprime del fotoreportage, consultabili di
seguito:
http://firstlinepress.org/jika-e-una-rivoluzione-da-completare/
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Voci dal Cairo [parte II]
Lorenzo Giroffi | 9 maggio 2013
Dai vicoli in cui si sente ancora l’ululare dei cani randagi e le
canzoni dalla gola tamburellata, mi sposto nel traffico impazzito
dell’incrocio, dove le automobili sono frecce pronte a falciarti,
oltre ogni segnale stradale. Su di un pezzo di giornale riconosco il
volto del Ministro dell’Informazione, Salah Abdul Maksoud,
spiacevole protagonista nei giorni scorsi di un dialogo con Nada
Mohamed. La giornalista, durante una conferenza stampa, ha
posto una domanda in merito alle violenze sulle donne in crescita
nel Paese e dunque quali metodologie poter adottare. Il Ministro
ha così risposto: “Vieni qui con me e ti faccio vedere”.
In Egitto oltre le manifestazioni per il diritto al pane restano
molto intense quelle che cercano di sbrigliare la matassa dei
diritti civili, per le donne e di emancipazione della religione dalla
sua ristrettezza: molti praticanti chiedono una visione laica della
sfera pubblica.
Ad ottobre potrebbero esserci le elezioni per stabilire il nuovo
assetto del Parlamento egiziano.
In questo periodo, ma come consuetudine storica, l’Egitto è anche
territorio armato della lotta israelo-palestinese. Dal Sinai, regione
confinante con quelle realtà, nei pressi del valico verso Gaza, a
Rafah, la Qassam Brigades, gruppo islamico palestinese, che
vuole incidere con maggior violenza rispetto alle azioni di
Hamas, ha intrapreso lanci di razzi verso il Sud di Israele. Hamas
ha concordato colloqui con le milizie per far interrompere tali
azioni, mentre Israele è ormai con un piede dentro il conflitto
siriano. Intanto la porta verso Gaza, Rafah, è resa ancora più
incandescente. L’esercito egiziano è impegnato in questi giorni
nella chiusura dei valichi sotterranei che dall’Egitto sbucano a
Gaza, bypassando l’isolamento commerciale della Striscia. Armi,
droga e tratte criminali sono i sequestri dichiarati dall’esercito,
anche se da quei tunnel passano pure beni di prima necessità,
negati da tratte commerciali “normali”. La situazione si è
incrinata ancora di più quando le autorità del Cairo, nei giorni
scorsi, hanno negato a due esponenti di Hamas di entrare da
Rafah, pratica divenuta consuetudine nell’ultimo anno: non sono
state rilasciate motivazioni a tal proposito. Restando per queste
strade si ha la sensazione di toccare varie sponde del mondo,
diversi
tasselli
dello
scacchiere
internazionale.
È ormai sera ed è il primo sabato del mese, appuntamento fisso
nella piazza Adeen del Cairo per tutte le forme di espressione e
soprattutto per l’appropriazione degli spazi pubblici. Dopo la
rivoluzione qui si riuniscono artisti di ogni genere, che portano il
proprio talento al pubblico, che ha in gola sempre cori
rivoluzionari, negli occhi e nelle orecchie la voglia di restare
svegli, per migliorare ancora la rivoluzione. Una ragazza mi dice
che alcuni gruppi si esibivano già prima della rivoluzione (dai
tempi di Nasser), con canti in memoria della resistenza, poi con la
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caduta del regime, oltre i musicisti storici, si sono riuniti tanti
emergenti, che compongono col sogno di libertà: c’è un grosso
palco per le esibizioni musicali ed esposizioni varie.
L’appuntamento si chiama El-Fan Midan e vuol far in modo che
le piazze, addormentate durante la dittatura, restino sempre
vivaci, con la vita a scorrerci dentro e le idee a fomentarsi. Tanto
la notte sarà lunghissima, come tutte quelle del Cairo, con gente
come fiume su cemento ad occupare le strade buie, illuminate
solo dai fari delle automobili e dei motorini, tutti con degli
altoparlanti sul manubrio, che cacciano musica e fumo.
Mentre godo dei canti e degli incontri di questa piazza, mi
confermano la notizia della chiusura dell’Egypt Independent,
giornale libero e di qualità, che, in lingua inglese, ha portato
avanti il risveglio delle coscienze egiziane. La chiusura è
riconducibile a motivi finanziari e pressioni politiche.
Se la polizia egiziana se la prende con i
bambini di strada
Andrea Leoni | 19 febbraio 2013
Durante gli scontri di venerdì, quando il cannone ad acqua faceva
arretrare un po’ tutti, una ragazzina magrissima, vestita di rosa, di
dieci anni, completamente zuppa, rimaneva nelle prime file ad
urlare contro il Palazzo presidenziale. Ma lei non era l’unica
bambina nelle prime file.
La ragazzina è una di quelle di piazza Tahrir, la prima volta che
l’ho vista mi avevano parlato di lei come la “grande bambina”.
Mi avevano raccontato che era in prima linea il venerdì
precedente a Ettehadieh e che era dentro a ogni rivolta. Come lei
ce ne sono un centinaio di ragazzini in piazza Tahrir, dormono
nelle tende i più fortunati e qualcuno di loro la mattina presto si
mette a tirare i sassi e qualche volta anche qualche molotov dai
cubi di cemento che bloccano l’ingresso alla piazza.
importa niente a nessuno. O quasi a nessuno.
Uno degli ultimi casi di violenza contro i bambini non ha fatto
troppo scalpore, se n’è parlato per qualche giorno sui giornali
egiziani. La polizia ha detto che era stato un incidente e tutto è
finito lì. Il bambino era un venditore di patate: è stato trovato a
terra scansato ai bordi di un marciapiede come fosse immondizia:
aveva delle ferite di proiettili che lo hanno colpito al petto e alla
testa. Si chiamava Omar Salah, aveva solo 12 anni e la sua colpa
è stata quella di vendere le patate vicino a Tahrir. Un ufficiale
militare, Ahmed Mohammed Ali, dopo giorni dal ritrovamento
del corpo, fa sapere (dalla sua pagina facebook) che le forze
armate si “scusano per l’errore”. Ma questo non è l’unico caso e
la stima è impossibile averla molti di loro entrano in carcere
senza carta d’identità.
Di tutto questo ne ho parlato anche con Amira Kobt un’attivista e
membra di organizzazioni per i diritti umani che insieme ad un
gruppo di attivisti ha lanciato l’iniziativa: “The popular campaign
for the protection of children” che fornisce un numero sul quale è
possibile segnalare qualsiasi tipo di abuso. Sono coordinati con
un’equipe di avvocati che seguono legalmente le centinaia di
bambini di strada che vengono arrestati. Amira ci spiega un po’
tutta la situazione generale, sul perché di questo tipo di iniziativa
e sulle metodologie:
“C’è da sapere prima che durante la rivoluzione molti bambini
sono scomparsi e successivamente sono stati ritrovati torturati,
dopo che sono passati alla custodia della polizia. Questa
iniziativa nasce per questo e per la numerosa mole di bambini
che fanno parte degli scontri o si trovano nei dintorni di piazza
Tahrir. Peraltro, noi abbiamo notato che ci fosse una vera
violazione da parte delle istituzioni sui bambini e cerchiamo di
far che queste tipi di violazioni non avvengano in futuro,
cercando di risolvere il problema alla radice e facendo pressione
alle istituzioni. Il primo tipo di lavoro che siamo andati a fare è
quello di documentare questo tipo di violazioni: durante il mese
di dicembre del 2011 ci fu un’enorme retata di arresti di bambini
e molti di loro furono ritrovati con evidenti segni di
tortura. Cerchiamo appunto di fermare questo tipo di pratiche e
prima di tutto documentando ciò che è successo, poi abbiamo
aperto questa linea telefonica, dopo di che quello che abbiamo
fatto è anche aprire un luogo di discussione dove i bambini
possano testimoniare cosa hanno subito: le esperienze di quando
loro sono stati trasferiti nei centri di sicurezza della polizia a
seguito dell’arresto”.
Venerdì scorso poi è stato simbolicamente celebrato il funerale
del venditore di patate in piazza Tahrir, quando il corteo
rumoroso è stato seguito dai colleghi del bambino assassinato.
Anche loro avranno avuto poco più di 10 anni, con le mani nere,
le scarpe rimediate, i vestiti strappati e la faccia innocente, ma
che orgogliosamente trascinavano il proprio carretto silenziosi.
Quella dei bambini che si aggregano alle rivolte non è
ovviamente una storia nuova: è prassi in altri Stati anche europei
e non servono sociologi per dire che questi ragazzini non abbiano
famiglia e siano poveri. Qui in Egitto però la rivoluzione l’hanno
fatta anche loro ed a testimonianza di ciò i numeri delle centinaia
di ragazzini che sono stati violentemente arrestati, torturati,
abusati nel 2011 e che continuano ad essere incarcerati e torturati,
solo che a differenza dei blogger o di altri particolari attivisti non
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Disubbidienza civile a Port Said
del coprifuoco al memoriale per le vittime delle ultime violenze: i
manifestanti esigono che le autorità si prendano le loro
responsabilità delle morti.
Andrea Leoni | 22 febbraio 2013
Anche se nessun giornale ne parla, la disubbidienza civile si sta
espandendo in molte altre città dell’Egitto e anche lì i cittadini
sono determinati e non di certo badano alle elemosine del
presidente Morsi, che subito ha cercato, non riuscendoci
ovviamente, di sedare la protesta con vane promesse.
Un amico italiano, da molti anni qui al Cairo, raccontava come
fosse quasi un modo di dire che “Il Cairo ci prova sempre ma
Port Said poi ci riesce” uno dei tanti sfottò tra le due città rivali.
Lui però si riferiva alla disubbidienza civile che la città portuale
sta portando avanti con parecchia determinazione al contrario di
quella malriuscita della capitale.
Per quattro giorni consecutivi, infatti, uno dei palazzi del governo
e di rilevante importanza al Cairo, il Mogamma (o Mogama), è
stato bloccato. All’edificio che si trova proprio in piazza Tahrir,
ne è stato vietato l’accesso: un piccolo numero di manifestanti,
perlopiù della piazza, ma anche lavoratori, hanno cercato di
portare avanti una disubbidienza civile che è durata veramente
poco e non ha avuto un notevole appoggio della popolazione, anzi
(c’è uscito pure qualche parapiglia). I giornali parlavano di come
dietro all’azione ci fossero i famigerati black bloc, ma nulla di
tutto questo, e il quinto giorno è stato riaperto l’edificio. Ma a
Port Said la cosa è diversa.
La città è ancora sotto il coprifuoco imposto dal presidente Morsi
(così come anche Suez e Ismailya), decisione che è arrivata dopo
le violenze (terminate con 42 manifestanti morti) che si sono
scatenate a seguito delle 21 sentenze di morte pronunciate rispetto
agli scontri dello scorso anno dove proprio a Port Said rimasero
uccisi 74 tifosi. Ragazzini in divisa stanno sopra i carri armati ad
ogni angolo della città, frequenti pullman della polizia, dei
militari passano per una città (che è già militarizzata di suo)
quanto frequenti sono le scritte “acab” (all cops are bastard) su
ogni muro. Un piccolo campo, stile Tahrir, sorge in una piazza
non lontana dallo stadio delle violenze, è stato creato dagli ultras
di Port Said, quelli coinvolti nelle violenze: i Green Eagles. Il
piccolo campo è stato subito supportato dai familiari delle vittime
che stringono in mano i cartelloni con le facce dei propri cari e
che sono lì, in presidio insieme ai tanti cittadini che chiedono
giustizia rispetto alle condanne a morte e agli spari indiscriminati
dei militari e della polizia che hanno colpito a morte 42 persone a
fine gennaio, tra cui anche cittadini che non stavano protestando,
ma che erano solo di passaggio.
Tutta questa ennesima ingiustizia ha portato la gente di Port Said
ad insorgere. Succede così che ogni mattina (oggi è il quinto
giorno di fila) i lavoratori si ritrovano per la via principale (via 23
luglio) e in migliaia sfilano per le strade della città. Questa è la
disubbidienza civile: treni bloccati, servizio autobus in tilt (anche
se i minibus funzionano), molti negozi chiusi, banchi di scuola
vuoti (quando qualche scuola è aperta). Gli ultimi sono i
lavoratori del canale di Suez che si sono aggiunti alla protesta e
hanno anche loro lasciato il lavoro. E ora una delle ultime è che i
cittadini si rifiutano di pagare le bollette: telefono, gas, acqua e
elettricità. Le richieste sono chiare e passano dalla fine immediata
La repressione politica in Egitto e la
voglia di imparare la democrazia
Lorenzo Giroffi | 12 maggio 2013
L’Egitto della sua rivoluzione è capace di mostrarti i versi più
disparati: dall’incremento della criminalità alla sete di
democrazia, dalla delusione già divenuta rassegnazione alla
voglia di restare in uno stato di cambiamento. Qui , mentre vengo
strattonato o per eccesso di generosità (mi viene offerta
l’ennesima seduta in un bar) o per affari fastidiosi, m’imbatto in
una manifestazione in una piazza al centro del traffico cittadino
del Cairo. Appaiono così nel giorno di festa del venerdì.
A midan (piazza) Talaat Harb, nel vortice centrale del Cairo,
dove si dilungano quattro arterie stradali, c’è il busto di quello
che è stato l’economista egiziano che ha fondato Banque Misr
(The Bank of Egypt): è al centro di un chiassoso ed affumicato
bacino. Sulla statua vengono portate catene. Un ragazzo si fa
lanciare su Talaat Harb, che è a circa cinque metri d’altezza,
mette le manette, affigge tre foto ed inizia un canto. In un attimo
sotto la statua, a danzare con le auto per schivarle e raggiungere il
punto, appare una folla di circa duecento persone, che srotolano
cartelloni e megafoni. Svariate donne si pongono al centro e
replicano al coro iniziato dal ragazzo, invocando la libertà, la
giustizia ed il rispetto delle promesse fatte dai Fratelli
Musulmani.
Dopo la rivoluzione gli arresti degli oppositori politici non sono
ultimati con il regime. Dissentire in Egitto ad oggi procura ancora
9
problemi.
Tra le foto esposte sui cartelloni ci sono ragazzi morti in scontri
con la polizia durante manifestazioni o persone al momento in
carcere, con l’accusa di aver offeso il Governo od il suo
Presidente Morsi. Tra le riproduzioni di volti più celebri c’è
quella di Ahmed Douma, attivista e blogger che è ancora in
carcere dopo un processo ambiguo, che lo ha più volte giudicato
colpevole di offese. A difendere Douma c’è l’avvocato Khaled
Ali, oppositore politico della Fratellanza.
Ricordando altri casi di arresti dovuti a censura c’è Hassan
Mostaf, nella prigione di Alessandria per aver organizzato una
manifestazione richiedente giustizia per la morte di cinquanta
bambini uccisi dalla polizia ad Assiut, sempre a seguito di
proteste. Mostafa era già stato in carcere come dissidente durante
la dittatura di Mubarak, sintomo di quanto il grado di libertà
possa essere ancora poco paragonabile ad una democrazia. Il caso
più recente è quello di Ahmed Maher, arrestato in aeroporto
mentre stava rientrando da un viaggio negli Stati Uniti, dove
appunto aveva tenuto una conferenza sui nuovi metodi di libertà,
applicati con le nuove tecnologie in Egitto. Anche per lui l’accusa
è di offesa alle istituzioni e di vandalismo, in merito alle proteste
del 29 marzo scorso dinanzi il Ministero dell’Interno, quando
accusò il nuovo Governo di prostituirsi comunque ad un regime.
In quell’occasione furono arrestati quattro esponenti del
Movimento 6 Aprile, di cui Maher è il fondatore.
Durante la manifestazione sono in molti a parlare di tradimento
compiuto dai Fratelli Musulmani, che avevano promesso libertà e
che invece ora vengono accusati di perseguire metodi repressivi
per le voci politiche diverse dalle loro posizioni. È comune sentir
parlare di “Brotherhoodization”. Tutto ciò mentre il Governo
egiziano si è apprestato ad affrontare una sorta di rimpasto, con la
nomina di nove nuovi ministri, volti sicuramente a dare una
facciata di stabilità, utile alla trattativa con la Banca Mondiale,
che ha già messo sul piatto 4,8 miliardi di dollari, per un prestito
in cambio di misure di austerità. Al momento l’aiuto esterno è
dato dagli Stati Uniti, che supportano gli investimenti militari
egiziani per 1,3 miliardi l’anno.
“Siamo passati da uno Stato di polizia, nel quale c’erano agenti
ad ogni angolo, ad un Paese dove la polizia non è più neanche in
grado di controllare il traffico, vista la perdita di potere, ma che
si concentra solo nella repressione dettata da chi è ora al
potere”. Questa la frase di un manifestante che mi si avvicina.
La rivoluzione, l’anarchia, l’autodisciplina, i sogni di democrazia:
la tempesta nella testa che mi si fissa dai cori e dalle canzoni di
questa gente.
Una persona m’invita una fermata di metro dopo Sadat, dove c’è
un centro culturale che ha l’intenzione di farsi custode dei valori
della democrazia, della giustizia sociale, della pluralità di
voci, dove s’incontrano socialisti, liberali, comunisti, persone
rifugiate dalla Siria, stanziatesi qui da anni dopo la fuga dal
Sudan, insomma, dove c’è voglia di imparare la democrazia
tramite un miscuglio di esperienze, anche storiche.
Quando arriviamo al centro sta per essere proiettato un film che
ricorda della resistenza spagnola al regime di Franco “La voz
dormida”. Un racconto dal carcere femminile di Madrid, dove lo
spionaggio, la pena di morte di un’andalusa appena divenuta
madre e la violenza sono i protagonisti.
Guardiamo tutti il lavoro del regista Benito Zambrano, tratto dal
romanzo di Dulce Chacón, con la consapevolezza che il fascismo
non sia solo passato, che la paura per la repressione debba essere
sempre alta, che la democrazia ha bisogno di studio, di
allenamento, di passione, come quella che mi pare di assaggiare
in questa serata dal vento pieno di sabbia e l’odore fortissimo di
Nilo.
Egitto: la crisi economica, gli aiuti
esterni, il processo al regime e la
chiusura di un giornale indipendente
Lorenzo Giroffi | 14 maggio 2013
In questi giorni l’Egitto è con uno sguardo rivolto verso il suo
passato. Innumerevoli le immagini dell’ex dittatore Hosni
Mubarak, riapparso nella Corte di Giustizia, dagli occhiali scuri
ed il pigiama da anziano malato sulla sua sedia. Sono lontane le
scene trionfalistiche del Rais, accusato di corruzione e del
massacro di novecento persone durante le manifestazioni del
gennaio 2011. Prima di entrare in aula Mubarak ha rilasciato
un’intervista al giornale El-Watan, che ha fatto il giro di tutto il
Paese. Il processato più famoso dell’Egitto ha dichiarato che il
lavoro del nuovo presidente Mohammed Morsi è molto
complicato, dicendosi poi preoccupato per la situazione di
recessione economica, che aumenta ogni giorno il grado di
povertà.
Intanto nei pressi dell’ambasciata statunitense sono stati
intensificati ancor di più i controlli, ciò a seguito dell’arresto di
tre
persone,
che,
su
dichiarazione
del
Ministro
dell’Interno, Mohamed Ibrahim, sarebbero legate alla rete di AlQaeda dell’area pakistana. L’operazione, secondo il Ministro,
farebbe parte di un piano volto a fomentare le cellule terroristiche
nel Maghreb islamico. Le autorità riferiscono che i tre erano in
possesso di 22 libbre di esplosivo, pronto a farlo saltare in
un’ambasciata di un Paese occidentale, non ancora scelta, ma
quella più quotata era a stelle e strisce.
Tra le trame strane di quest’attentato, l’Egitto cerca soluzioni per
l’ormai inarrestabile crisi economica, che da due anni colpisce
tutte le sfere sociali. Prima di cadere nel vortice della sirena del
Fondo Monetario Internazionale, che ha pronti 4,8 miliardi di
10
dollari, in cambio di misure di austerità e privatizzazione di
qualche comparto pubblico, il Governo sta continuando a
richiedere l’aiuto di Nazioni arabe e musulmane. Subito dopo
l’insediamento dei Fratelli Musulmani al Governo, nel luglio
dell’anno scorso, il Qatar ha depositato 5000 milioni di dollari
nelle casse egiziane, chiedendo il tasso d’interesse del 5% a 18
mesi.
medioriente. Sicuramente il nostro lavoro è stato importante per il
racconto dei fatti dell’Egitto, ma soprattutto per aver creato una
nuova forma mentale su come fare informazione in maniera
libera, sviluppando una certa indipendenza dalle istituzioni».
Il Presidente egiziano, Mohammed Morsi, mentre sta trattando un
tasso più agevole, ha però ricevuto dal Primo Ministro del
Qatar, Sheikh Hamad bin Jassim al-Thani, altri 3 milioni di
dollari, che dovranno restare nella banca centrale egiziana fino a
quando il Ministero delle Finanze non distribuirà obbligazioni
(con tasso d’interesse del 3,5%) dello stesso valore per il Qatar.
Anche la Libia ha provato a scuotere l’economia del Cairo,
depositando 2 miliardi di dollari.
«La rivoluzione ha certamente preso molto spazio nella nostra
copertura giornalistica, perché ci ha dato la possibilità di
esplorare temi che prima ci mancavano. Abbiamo potuto
incontrare e raccontare minoranze etniche, viaggiando fuori dal
Cairo e vedendo cosa ha portato questo periodo storico nelle
comunità ai margini».
Pensando a questo scenario d’incertezza prendo al volo un
pullman: non è una metafora dato che qui alle fermate decelerano
solo. Fisso per bene il mio corpo nella vettura. Fingo che quello
che guardo dal parabrezza non sia la realtà della strada, ma un
film d’azione nel quale si ha qualcuno da inseguire: questo è lo
stile di guida dell’autista, ma come di tutti quelli incastrati nel
traffico del Cairo.
«Una democrazia ha bisogno di provare a rispondere alle
domande delle persone e questo non ha solo la forma delle
elezioni. La Comunità Internazionale crede che le elezioni siano
un segno chiaro di democrazia, ma vivendo oggi l’Egitto ci si
rende conto che la caduta del regime ha si scaturito elezioni, ma i
motivi per cui la gente scese in piazza il 25 gennaio 2011, per
rovesciare il regime di Mubarak, erano inerenti alla giustizia
sociale ed alla dignità. Queste cose non sono cambiate, non si
risponde ancora a tali esigenze e le elezioni non credo ridurranno
questo gap verso il processo democratico».
Incontro Lina Attalah, direttrice di un giornale che ha dovuto fare
i conti con una crisi finanziaria ed il boicottaggio dei poteri forti:
Egypt Independent. Giornale che dal 2009 si era messo nel mezzo
del monopolio informativo, pro governativo o anti, tenuto in piedi
dai due colossi Al-Ahram ed Al-Wafd. L’editore Al-Masry AlYoum aveva tirato su questa redazione, per lavorare con un
respiro internazionale (completamente in inglese) ed oltre le
logiche della critica a prescindere o della difesa del potere. Una
maniera nuova di fare giornalismo, non perseguita però ed
abbandonata dallo stesso editore, che non ha permesso ai propri
giornalisti di pubblicare su carta l’ultimo numero di congedo,
perché critico rispetto a chi non ha creduto fino in fondo in un
nuovo modello d’informazione. La motivazione editoriale è
un’accusa al proprio gruppo di giornalisti, definiti una barca
ibrida e senza posizioni sostenibili. Lina Attalah è una direttrice
che soffre per tutti i progetti di redazione, con colleghi ed amici,
che sono stati così congelati, e per il tradimento del proprio
editore. Lina è ancora convinta che tutto il gruppo di lavoro non
debba sfaldarsi e che si debbano cercare nuove vie per continuare
il lavoro.
Durante il tuo lavoro, nella raccolta delle storie del tuo Paese,
cosa hai notato? Cosa sta cambiando post-rivoluzione?
A tuo avviso quale è la priorità per una democrazia stabile?
Direttrice di una voce libera
dell’informazione egiziana: Egypt
Independent, storia di un giornale che
chiude
Lorenzo Giroffi | 16 maggio 2013
Negli ultimi due anni la parola rivoluzione è stata accostata
molto spesso a Nord Africa o alla Primavera Araba. Cosa c’è
di sbagliato in quest’assonanza e cosa è rimasto di quel
periodo?
«Penso ci sia tutto di sbagliato nella denominazione
“rivoluzione”, perché si prende questa come un evento che può
cambiare ogni cosa al 100%. Al momento ciò è disatteso, quindi,
a mio avviso, non può essere un termine-evento, ma uno stato
mentale continuo, che può trasformare qualcosa nel lungo
termine».
Puoi raccontare il lavoro dell’Egypt Independent, dei suoi
obbiettivi e dei suoi successi?
«Nasciamo nel 2009 e ci attestiamo subito come un successo
editoriale tra i media indipendenti arabi. Di fatti siamo stati il
primo giornale privato nel Paese ad emanciparsi dal controllo dei
partiti politici. Un gruppo di giovani giornalisti egiziani, ma non
solo, c’erano colleghi provenienti anche da altre zone del
Riesci a trovare un motivo per cui i Fratelli Musulmani
potrebbero essere un freno al processo democratico
dell’Egitto ed uno per cui invece potrebbero essere un
garante di esso?
«I fratelli Musulmani stanno procedendo verso una riconferma
alle elezioni, ma come dicevo prima questo non è sinonimo di
processo democratico: sarebbe riduttivo. I Fratelli Musulmani
sono saliti al potere, con il Presidente Morsi. Lo Shura Council è
composto da una maggioranza della Fratellanza, ma cosa ne è
stato delle richieste della gente? Ci sono solo decisioni unilaterali,
che stanno consolidando un gruppo di potere, una classe dirigente
alla guida del Paese e questo lo considero un freno per ogni tipo
11
di processo democratico. Sul fatto invece che loro potrebbero
essere dei garanti di questo processo, non credo proprio possano
esserlo in alcuna maniera. Sento solo la loro paura di perdere il
ruolo che hanno conquistato nel Paese. Noi avremo bisogno di
una visione e gestione della cosa pubblica più pluralista, ma al
momento sfortunatamente siamo lontani da questa prospettiva».
La gente continua a scendere in piazza ed ad organizzare
manifestazioni. Quanto è lontano il loro punto di vista da
quello della classe politica?
«C’è sicuramente un problema tra le richieste politiche della
gente per strada e le istituzioni che dovrebbero rappresentarle
(partiti, unioni sindacali). Il gap crea rabbia, soprattutto verso
quelle parti politiche che dovrebbero rappresentare l’opposizione
ed impegnarsi nell’adempimento di offerte alternative. Provo a
fare un esempio chiaro di questo distacco: molte persone, durante
le proteste, hanno avuto problemi con la polizia, che ha usato
violenza sproporzionata, quindi la gente è arrabbiata e diffidente
oggi verso di essa. La parata della polizia però non ha cambiato il
proprio rituale dopo la rivoluzione, ha festeggiato ugualmente.
Avrebbe potuto sospenderla, con l’avallo del Governo, per
almeno riparare e non irritare la gente che ha subito violazioni dei
diritti umani. Dopo la rivoluzione non è cambiato per nulla il
rapporto con la polizia, che compie ancora abuso del proprio
potere».
Quale è per te l’aspetto più critico della società egiziana
contemporanea?
«In Egitto la condizione della donna, i bambini di strada, la
povertà e l’instabilità sono tutti tasselli della crisi. La più grande
criticità però è proprio la mancanza di un processo politico. Non
sto vedendo nulla di tutto ciò, vedo solo una grossa penuria di
programmaticità politica, che per i problemi detti prima vuol dire
peggioramento di tutto. In assenza di politiche, la
marginalizzazione crescerà e l’instabilità non si fermerà».
Voci di piazza Tahrir
Andrea Leoni | 26 febbraio 2013
Puoi descrivermi lo scenario attuale dei partiti politici
egiziani?
«Molti partiti egiziani hanno perso al momento la regione
d’esistere, soprattutto quelli vecchi che avevano come unica
vocazione quella di debellare il regime di Mubarak. Il fenomeno
più interessante post-rivoluzione per i partiti è quello della
trasformazione politica all’interno degli stessi partiti, tra la
vecchia e la nuova generazione. Ci sono molte lotte circa le
modalità con le quali questi partiti debbano istituzionalizzarsi, per
le proprie elezioni, e su chi proporre come rappresentante. La
sfida per tutti è sicuramente quella di capire come ci si debba
presentare alle elezioni. In altre parole i partiti politici potrebbero
essere più attivi negli spazi sociali del Paese, per poi essere in
grado di compensare alla presenza massiccia dei Fratelli
Musulmani ed essere capaci di mobilitare di più giovani,
sviluppandosi in diverse comunità».
In che stato è l’informazione egiziana e la libertà di
espressione? (l’arresto del comico Bassem Youssef, per satira
sul presidente Morsi. C’è da segnalare invece il rilascio di
Ahmed Maher, fondatore del Movimento 6 Aprile [ne abbiamo
scritto qui], a tal proposito i fratelli Musulmani, in una
dichiarazione distensiva, hanno affermato di essere stati sempre
contrari al suo arresto)
«Dopo la crisi e la chiusura del giornale posso dire ancor di più
che la sfera dei media in Egitto sta soffrendo un controllo statale.
In questa maniera non possiamo avere un’informazione
indipendente e voci autonome in grado di raccontare le storie
onestamente. Questa è un’enorme sfida perché ci sono molti
problemi per i media, incluso l’uso legale della censura da parte
del Governo sui giornalisti, protagonisti televisivi e comici,
facendo scattare poi il meccanismo della paura. Naturalmente i
problemi finanziari sono strettamente legati alla possibilità di fare
buona informazione».
A due anni passati dall’inizio della Rivoluzione egiziana chi c’è
ancora in piazza, come funziona l’organizzazione, gli ultimi casi
che l’hanno sconvolta, quali le possibilità e anche qualcosa su
questi “black bloc” egiziani
Se la vedi dall’alto piazza Tahrir sembra poco più di una rotonda,
ma ora con tutte le tende di materiale recuperato assomiglia più a
uno di quegli accampamenti militari, complici i colori. Il Museo
egizio che svetta da una parte e il Mogamma (edificio
istituzionale) dall’altra e poi l’Università Americana ora trasferita
altrove, in una zona più al sicuro. Il suo nome lo deve alla
precedente Rivoluzione egiziana, quella del 1919, ma quello che
ha rappresentato questa piazza lo deve agli avvenimenti del 2011,
anno in cui proprio in cui il posto fu da epicentro di un
cambiamento, riuscendo ad accogliere milioni di persone. Ora la
piazza è bloccata, blocchi di cemento la tengono lontano dai
Palazzi istituzionali, dalla sede dall’Ambasciata statunitense
fondamentalmente. Quando questi blocchi voluti per isolarli dal
ministero degli Interni sono assenti, gli attivisti hanno posto
alcune barriere legate tra loro da filo spinato, formando un mini
posto di blocco dove tre ragazzi si alternano 24 ore su 24 per
prevenire attacchi da polizia che tenta di sgomberarli o da nemici
politici.
Chi è rimasto dentro la piazza nelle tende si dice che sia perlopiù
la gente di strada, i poveri e chi ha perso il lavoro (con il calo del
turismo soprattutto). Si è vero, ma a piazza Tahrir ci sono anche
avvocati, dottori, manager e ne ho incontrato uno che mi spiega:
“la piazza viene screditata dai media che vogliono farla
diventare una fogna. Vogliono che quella piazza che è stata il
luogo simbolo delle proteste imploda da sola e che così si screditi
anche la stessa Rivoluzione. In piazza ci sono tutti, dai bambini
12
di strada alle donne e non solo derelitti della società come
dicono i media e i Fratelli Musulmani. Gli stupri alle donne, i
rapimenti di persone, i furti sono scientemente pensati a tavolino
e i criminali vengono pagati per commettere questi reati qui. Noi
lo sappiamo e per questo ci difendiamo”. Difendersi significa
farlo con tutti i metodi e non è un segreto, qui si trovano molotov
(in un posto segreto che conoscono in pochi), ma anche bombe
artigianali, coltelli, bastoni, ma anche pistole perlopiù fabbricate
fai-da-te.
Alle 6 di mattina un allarme che viene suonato con un bastone su
un tubo di ferro sveglia a tutti i ragazzi delle tende, alcuni sono
già fuori, dietro il filo spinato che urlano per organizzarsi tra di
loro e con un lungo coltello bene in vista. Ci si ripara alla meglio
dalla polizia, uno dei più gagliardi è un vecchietto con frecce di
ferro e arco al seguito. Alla sicurezza fanno parte tutti i ragazzi
della piazza che ci vivono, oltre che ad alternarsi nei cambi di
guardia, riescono anche a rispondere agli attacchi ed a tenere
sicura la piazza. Mi spiega un certo Mohamed: “Noi siamo
armati perché i nostri nemici ci vogliono uccidere. Nelle
manifestazioni ci hanno sparato, si infiltravano tra i manifestanti
e sparavano ai ragazzi che erano nelle prime linee a combattere:
molti martiri sono stati assassinati con un colpo di proiettile
sparatogli alle spalle e non dalla polizia che era davanti. Ma
anche ora noi abbiamo subito numerosi attacchi, solo questa
settimana la polizia ha provato a farci andare via per tre volte e
noi siamo andati in massa. Abbiamo fatto vedere cosa abbiamo e
che siamo disposti a combattere. I membri della divisione
speciale della polizia sono scappati”. Le pistole non vengono da
chissà dove, sono fabbricate manualmente: “Noi siamo in grado
di costruirci le nostre armi. Ovviamente non abbiamo come loro
tutta la disponibilità economica sia per comprarle, che dove
comprarle e quindi le costruiamo. Molti di noi sanno come si
possono fare, ma hai solo un tiro in canna”. Le hanno utilizzate,
ma solo per spaventare persone che venivano per destabilizzare
l’area.
blaterare, niente di tante altre fantasie che girano, qui “tutti
possono essere black bloc, compri una maschera ti vesti di nero e
il gioco è fatto. Non c’è una vera organizzazione piramidale, è
solo un’idea e tutti possono accettare questa sfida: ti vesti di nero
e compri una maschera, è una moda. Tutti anche possono creare
un profilo facebook, è un gioco da ragazzi, no? Alla fine tutto il
popolo egiziano è black bloc” mi dice un ragazzo della piazza.
Sta di fatto che dalla sua formazione, il gruppo ha rivendicato
vari attacchi alle sedi dei Fratelli Musulmani e sono loro
probabilmente gli autori dell’incendio di una sede di un partito
legato a Morsi nelle vie principali del Cairo.
Oltre a loro, in piazza, ci sono molti ragazzini di strada, un
ragazzo della piazza mi spiega: “I giovanissimi si sono uniti alle
rivolte e hanno partecipato attivamente perché erano d’accordo
con noi, si sono interessati sin dall’inizio, perché anche loro
subiscono quotidiane ingiustizie, perché si vogliono ribellare a
un sistema che li ha relegati in quella miseria, ma poi perché
difendono loro difendendo noi. Noi gli abbiamo dato una casa,
gli abbiamo dato il cibo, una famiglia. Noi siamo la loro famiglia
e loro difendono la loro famiglia difendendo noi”. E lo hanno
fatto fin troppo, pagandone con tortura e arresti (centinaia di
bambini arrestati solo dal 25 gennaio di quest’anno). Dello stesso
avviso è un anziano signore che ha una tendina rettangolare nel
mezzo della piazza. E’ conosciuto da tutti come il padre dei
bambini della rivoluzione: “Finché ci sarà Morsi noi
combatteremo, noi vogliamo che lui se ne vada e che finisca
questo governo comandato da persone che pensano a fare leggi
per loro. I Fratelli Musulmani stanno facendo le leggi solo per la
loro gente. La Rivoluzione non è finita e noi siamo ancora qui
per combattere e come abbiamo fatto per Mubarak, faremo con
Morsi. A tutte queste ingiustizie, il divario sempre più enorme tra
ricchi e poveri chi è che ne deve rispondere? Guardate quanti
migliaia di bambini in che condizioni sono costretti a vivere”.
Lui come tanti altri mi dice che non si sente rappresentato da
nessuno dell’opposizione.
Il servizio d’ordine della piazza è riuscito a respingere oltre che
gli attacchi dei nemici politici e la polizia anche a tenere sicura
l’area. Con l’escalation degli stupri a piazza Tahrir e dei furti la
sicurezza si è organizzata molto meglio e oltre a creare un vero e
proprio servizio di bodyguard che facesse da scorta per le donne,
occhi sempre svegli ti osservano in qualsiasi posizione tu sia.
Così capita spesso che un gruppo di persone porti dentro una
tenda ad un destabilizzatore di turno e lo faccia parlare, per
sapere chi c’è dietro. “Non sono però i black bloc a tenere buona
la piazza. O meglio, magari ci sono anche loro” mi spiega Islam.
Difatti è un po’ un sentimento comune qui in piazza, la gente le
boicotta le elezioni, ma prima che un capo di turno come El
Baradei invitasse a farlo. I leader qui non sono troppo ben visti,
“tanto che ogni volta che vengono e semmai si ricordano di farlo,
vengono con decine di persone che le tengono lontani dalla
gente. E come può parlarci con noi?” mi dice una giovane
ragazza. Ma ci sono gli stessi attivisti dello stesso partito (Fronte
di Salvezza Nazionale) di El Baradei in piazza, ma sono lì non in
veste ufficiale perché riconoscono “come il partito sia molto
lontano dalle esigenze della gente” mi spiega Mohammed.
Il fenomeno black bloc è arrivato anche qui a quanto pare, ma in
modi e maniere diverse. In Europa i famosi incappucciati sono
chiamati i ragazzi antagonisti che si scontrano nelle prime linee
contro la polizia. Qui invece sono nati con una cerimonia (con
tanto di preghiera) molto altisonante, ma erano appena una
ventina, poi l’idea si è diffusa grazie a facebook e al marchio di
stile europeo, le bancarelle che stazionavano nei pressi della
piazza hanno iniziato a vendere anche passamontagna, le tante
voci che si susseguivano (sono pagati da Morsi per destabilizzare,
sono quelli del vecchio partito di Mubarak, sono criminali,) e il
gioco è fatto. Ma perlopiù il fenomeno è mediatico: i black bloc
durante gli scontri fungono non di più che da vero e proprio
servizio d’ordine, a uno di loro riesco a strappare poche parole
che sono le solite che vengono lanciate come slogan nei loro
social network in arabo: “questa è un’idea, e un’idea non può
morire. Noi siamo qui per difendere il popolo egiziano”. Niente
di anarco-insurrezionalismo come qualcuno ha provato a
La prima volta che vedi la piazza, ti sembra che la Rivoluzione
sia andata allo sfacelo, che sia finita in mano a qualche
movimentino o a qualche ragazzo di strada, ai nasseriani sempre
presenti con le loro tende in prima fila. Sembra che sia ridotta ad
una partita di calcio, tra giovani che giocano a piedi scalzi e
bambini che danno noia. Poi però vedi che dentro quelle tende c’è
chi fabbrica maschere antigas con lattine, carbone e cotone e chi
le protezioni con i tubi plastica, come per dire: noi saremo qui in
attesa che la marea monti di nuovo …
13
Gli ultras, Port Said e un verdetto
ancora in ballo
Andrea Leoni | 5 marzo 2013
un migliaio i feriti. In tutto questo caos, come poi i video
testimonieranno, i poliziotti presenti rimangono solo a guardare,
non riescono o non vogliono contenere i gruppi di violenti che
attaccano giocatori e tifosi dell’Al-Ahly, alcuni sostengono che la
stessa polizia abbia aperto le barriere che separavano le due
tifoserie. Successivamente
il
capitano
dell’Al-Masry
pubblicamente attacca la polizia e il suo operato. L’allenatore
dell’Al-Ahly dice che il massacro era orchestrato. Chi c’era dietro
la mattanza non si può ricercare dietro agli ultras locali, ma
piuttosto si deve ricondurre a gruppi di criminali pagati da
qualcuno e con il benestare e l’accordo della polizia.
Port Said è una città militarizzata e sembra che tutto fosse già
previsto: si doveva confezionare la vendetta agli ultras che resero
Tahrir la piazza della Rivoluzione e i militari avevano un conto in
sospeso. Avviene l’1 febbraio del 2012, il primo anniversario di
tragici fatti del 2011 a Tahrir, quando dei criminali a cavallo,
fecero irruzione nella piazza picchiando violentemente chi vi si
trovava.
Nell’inizio della rivoluzione del 2011 uno zoccolo duro dei
manifestanti era costituito, al Cairo, dagli ultras dell’Al-Ahly, la
squadra locale della capitale. Hanno giocato un ruolo
fondamentale alla caduta di Mubarak, continuano a ricordare, ma
ora, sotto l’era Morsi, gli ultras non hanno preso una posizione
netta anche se i loro tamburi continuano a rimbombare durante gli
scontri.
L’Al-Ahly è la prima squadra del Cairo ed è un po’ come il Milan
o la Juventus per gli italiani, i loro ultras sono molto caldi e
furono molto attivi nelle prime proteste. Il calcio qui è il primo
sport ed è molto seguito, come in Italia, gli ultras, sono
organizzati, colorati e gli scontri contro la polizia erano frequenti
(ora il campionato si svolge a porte chiuse). I murales e le scritte
ultras riempiono le vie e talvolta, soprattutto a Port Said, si
incontra qualche rimando all’Italia “Brotherood in Curva Sud”
campeggia nella strada vicino al palazzo presidenziale al Cairo,
“Libertà”, “Curva” o termini simili in tutta Port Said. Ad oggi i
tifosi dell’Al-Ahly organizzano presidi, come quello che fu al
Ministero degli Interni, ma un po’ si sono defilati ufficialmente
come gruppo, anche se la loro presenza in piazza è costante.
I loro nemici storici, oltre a quelli di Ismailia, sono gli ultras
Green Eagles, della squadra di Port Said l’Al-Masry Club, la
squadra fondata dopo la prima rivoluzione, quella del 1919. La
rivalità è enorme, ogni volta non era solo un derby. Succede
quindi che, durante il campionato egiziano, la Egyptian Premier
League, l’1 febbraio del 2012, sono in molti a seguire il match tra
le due squadre odiate l’Al-Masry e l’Al-Ahly, ma nessuno ha il
minimo sentore di cosa stia succedendo.
Le prime sentenze si sono pronunciate il mese scorso e contro dei
giovani “presi a caso” nella tifoseria dei Green Eagles: 21 di loro
dovranno subire la pena capitale. Nelle proteste davanti ai
cancelli però si inscena un’altra protesta, che viene repressa dalla
polizia in maniera violenta: 27 i morti. La polizia dice che
qualche persona sarebbe stata fatta evadere dal carcere: “cosa che
non sta ne in cielo ne in terra, noi sappiamo che ci sono nove
porte da oltrepassare all’interno del carcere e come avremmo
potuto fare? Una bugia bella e buona per sparare a innocenti” si
difendono i cittadini di Port Said. Durante la lettura delle sentenze
la polizia spara indiscriminatamente colpendo a morte anche
persone che non rientrano neanche nella civile protesta che si
stava inscenando.
Ora Port Said è in subbuglio, è da giorni che molti cittadini
chiedono verità e giustizia e subiscono ancora la violenta
repressione della polizia. A guidare le proteste ci sono gli ultras
locali che rimbalzano su facebook le notizie, le richieste e gli
appuntamenti. Gli stessi che hanno organizzato un piccolo
presidio, stile Tahrir, in una delle piccole piazze a pochi passi dal
carcere e non troppi dallo stadio. La partecipazione è costante e
numerosa: operai, ultras, studenti come anche lavoratori del
canale e pensate, qualche militare, ieri, si è aggiunto alle proteste.
Fra pochi giorni, il 9 marzo, saranno lette le altre sentenze sulla
strage. I presupposti per un’altra Rivoluzione ci sono tutti:
stavolta, però, da Port Said.
Dai racconti di chi alla partita era presente, quella sera i controlli
non c’erano: “C’era un clima di caos generale, tutti potevano
entrare con coltelli, spranghe e bastoni senza che ci fosse nessun
controllo. Si poteva entrare senza biglietto e per una partita del
genere era una cosa stranissima” raccolta un giovane ragazzo.
Uno striscione esposto dal settore locale, scritto in inglese,
recitava: “stiamo per uccidere tutti”. La partita inizia con una
mezz’ora di ritardo, la squadra locale subisce, è in svantaggio e a
pochi minuti dal termine inizia il putiferio: un vero e proprio
gruppo organizzato inizia ad attaccare i tifosi e i giocatori ospiti
con spranghe, coltelli e bastoni. Il bilancio è tragico: 74 i morti,
molti per colpi da arma da taglio, altri per commozioni cerebrali,
14
Quando il calcio non è più sport
Redazione | 21 marzo 2013
Egitto Mohamed Morsi è presidente da ormai un anno. La
Costituzione approvata da un referendum popolare sarà giudicata
dalla Corte di Giustizia egiziana il prossimo 2 giugno ed ad
ottobre saranno, forse, indette le elezioni per la composizione del
Parlamento.
Perché si scende ancora in piazza?
Venerdì Tahrir ha ripreso i colori, le folle e le bandiere dei canti
di rabbia degli inizi di rivoluzione, come se i due anni passati non
avessero soddisfatto, ma deluso, come se i processi democratici
non siano riusciti a trasmettere la carica dalla piazza alle
istituzioni.
Migliaia di egiziani hanno preso parte alla celebrazione del
funerale di Salah Abdel Azim, la vittima numero quarantotto
delle ormai tristemente note vicende di Port Said. Gli scontri di
questo mese sono avvenuti dopo la condanna a morte di ventuno
persone, giudicate responsabili dalle autorità egiziane dei fatti del
Febbraio 2012, quando furono massacrati settanta tifosi della
squadra di calcio Club Ahly.
La maggior parte dei condannati sono tifosi invece della squadra
di calcio Al-Masry, proprio di Port Said, luogo ormai simbolo del
malumore egiziano e focolaio di nuovi movimenti di protesta. Il
venticinquenne è rimasto vittima degli scontri con la polizia,
infatti, Waleed al-Gamey’s, cugino della vittima, ha dichiarato di
aver visto il parente essere stato colpito alle spalle da un cecchino
delle forze governative.
Piazza Tahrir si riaccende
Lorenzo Giroffi | 19 maggio 2013
La polizia si tiene a debita distanza dalla manifestazione; la strada
è transennata da sedie e tavoli rovesci; automobilisti impazziti,
con la strada bloccata, scendono dalle vetture per cercare risse;
motociclette con bandiere egiziane attaccate ovunque passano tra
la gente; un grosso palco su cui si tengono discorsi ed incitamenti
a nuovi cori; spari di pistola in lontananza. Sui muri che
costeggiano l’area, vengono ricalcati o disegnati nuovi graffiti
rivoluzionari, in ricordo dei martiri, degli attivisti arrestati e pieni
d’insulti per il bersaglio preferito: Morsi. La campagna, che si è
legata alla manifestazione di questo venerdì è denominata
Tamarod (ribellione), che ha l’intento di raccogliere firme utili
alle dimissioni del presidente, che fu votato, nel giugno dell’anno
passato, da tredici milioni di egiziani. Al momento sono due
milioni le firme raccolte, ma si prevedono grossi numeri per la
campagna, già criticata però da un esponente dei Fratelli
Musulmani, Ahmed Rami, che ha definito l’azione come un
attacco alle libere elezioni e del referendum popolare espressosi
favorevole alla Costituzione. Il Supreme Judical Council dovrà
appunto giudicare quanto la religione influenzi il nuovo testo
costituente e la Fratellanza ha già pronta una serie di critiche
verso i giudici, a loro avviso ancora legati all’era del vecchio Rais
Hosni Mubarak.
Tamarod è stata appoggiata anche dall’attivista Ahmed Douma,
al momento in carcere e per cui si sta scatenando un’altra ondata
di sospetti nel Paese. L’avvocato di Douma, Sayed Fathi, è
scomparso a seguito di un attacco cardiaco e sicuramente nella
manifestazione di domani, in solidarietà dei sei attivisti arrestati e
condannati a cinque anni, che si svolgerà dinanzi la corte di New
Cairo, peserà anche questo episodio. Dal’inizio del 2013 sono già
duemila gli arresti avvenuti per scontri politici.
Tornando al fermento di Paizza Tahrir c’è da sottolineare la
diversità di bandiere ed appartenenze ideologiche, che sono
semplicemente stanche di essere controparte del potere e che
vorrebbero essere parte di decisioni importanti. Ci sono foto del
vecchio Nasser, cartelli di gente che ha votato i Fratelli
Musulmani e che si sente delusa, ma soprattutto urla di chi sente
il legame dell’incertezza politica con la povertà galoppante.
In piazza incontro uno dei tanti rappresentanti di movimenti di
protesta e di opposizione, Adel Salalideem, al quale chiedo perché
si ritorna costantemente in piazza:
Ash-shaʻb yurīd isqāṭ an-niẓām (la gente vuole la caduta del
regime) questo il coro, che alternato ad altri, sento mentre
m’infilo a Piazza Tahrir. Due anni fa quando tutto iniziò in
Tunisia era lo stesso il motivetto, ma lì c’era ancora un regime da
debellare in ogni angolo di società. Sono poi arrivate le elezioni,
come qui. Sono iniziati i lavori per le nuove Costituzioni ed i
Parlamenti a riempirsi delle parti politiche scelte dal popolo. In
<<Questa manifestazione è contro il presidente Morsi perché
pensiamo che dopo la rivoluzione i Fratelli Musulmani non si
siano dimostrati una buona leadership per il progresso di questo
Paese. Da un anno siamo in recessione, ogni cosa è in calo, quindi
proponiamo subito, da giugno, di cambiare il presidente, affinché
ci sia una persona che non appartenga a partiti o alla Fratellanza,
ma che sia di tutto l’Egitto e che lavori per il Paese intero>>.
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Quale è la colpa di Mohamed Morsi?
<<Prima di tutto c’è il dramma economico, la lira sterlina
egiziana è spaventosamente giù. Due anni fa, col regime, pur
sempre indecente, di Mubarak un Egypt pound valeva 5,5 dollari,
ora 1 Egypt pound vale 7 dollari. Inoltre ci sono problemi anche
con la distribuzione di benzina, divenuta di colpa razionata.
Alcuni distretti cittadini vengono privati dell’energia elettrica per
molte ore della giornata. Senza dimenticare tutta l’area del Sinai,
andata alla malora, con sequestro di soldati egiziani. L’Egitto
merita un presidente forte, che sia equo con tutti. Qui c’è la stessa
gente che ha portato alla rivoluzione, che è rimasta, anche dopo la
caduta del regime, fuori dalle sfere decisionali e di potere. La
Fratellanza ha attaccato la rivoluzione. Noi sappiamo cosa la
Fratellanza ha dovuto subire dal regime, quindi rispettiamo tutti.
Nessuna discriminazione di sesso o religione: pretendiamo le
stesse opportunità per tutti>>.
Il riferimento al Sinai è in merito alla perdita di controllo delle
autorità egiziane, che hanno portato recentemente all’incremento
di sequestri nella zona. Da registrare il rapimento di tre poliziotti
e quattro militari, nel nord della penisola, a El-Arish. Nell’area
sono spariti anche turisti ungheresi, israeliani e norvegesi, per la
cui liberazione è stato chiesto il rilascio di leader beduini e
jiahidisti in carcere. La chiusura dei valichi da Rafah, i razzi
sparati, la scomparsa di stranieri: tutti fattori che rendono Gaza,
da questa prospettiva di entrata, al momento troppo lontana.
Intanto l’Egitto continua a riscaldare i canti e le azioni di
rivoluzione, in attesa che essa porti le esigenze di tutti a
rappresentare il Paese.
Nairobi da un tetto del Cairo
Lorenzo Giroffi | 26 maggio 2013
hanno ospitato è stato proiettato, su un tetto al quinto piano di un
edificio in zona Maadi, Nairobi Half life. Il film di David ‘Tosh’
Gitonga, in lingua swahili, in alcune parti inglese, è il sogno di un
giovanissimo artista di periferia, che si trasferisce nella capitale
del Kenya, dove viene investito da tre milioni di persone, che
corrono più forte della sua provincia e che non si radunano
intorno a lui quando inizia una qualche esibizione od imitazione.
Gli avvertimenti dalla realtà rurale si rivelano fondati: Nairobi per
il piccolo (di statura e di età) Mwas si rivela da subito un inferno.
Appena sceso dall’autobus viene derubato, poi, per un beffardo
equivoco, si ritrova nelle celle super affollate della capitale, dove
spala escrementi ed insulti. Come nelle migliori favole ruvide,
dietro le sbarre trova la sua guida negli inferi, che gli propone un
posto dove chiedere aiuto: una volta fuori deve dirigersi verso il
quartiere denominato Gaza. L’esperienza in carcere dura poco e
Mwas segue il consiglio, che gli permette di iniziare un lavoro
umile, ma che può rimediare ad un guaio scaturito dal furto
subito. Il profeta conosciuto in carcere, una volta in libertà, si
ritrova anche lui nel quartiere Gaza e nota subito la scaltrezza di
Mwas, costringendolo a lasciare il lavoro da lavapiatti, per farlo
diventare membro della sua gang.
La microcriminalità diventa il perno della storia, con gli stereotipi
della società che appaiono forzati, ma forse necessari
all’architettura dello scenario, per chi vive in posti lontani.
Sembra infatti un film rivolto ad un pubblico non di certo
africano (la produzione è in parte tedesca), ma la maestria degli
attori e la forza della fotografica, con musiche che tuonano ed
azioni veloci, rendono la pellicola esteticamente piacevole.
Il protagonista arrivato dalle periferie si ritrova nel limbo, perché
col carisma riconosciutogli dalla gang, inizia a proporre affari
sempre più grandi, creando faide tra bande, ma è anche riuscito a
perseguire il suo sogno di attore, entrando in una compagnia
teatrale che l’ha ingaggiato. Le prove da attore però devono
restare all’oscuro della banda, ormai divenuti tutti amici, perché
lo squallore di quella vita merita la sua dignità e, tra i bordelli
dove lavora la fidanzata del capo e le pistole da lucidare, il teatro
forse spaventerebbe.
La grossa messinscena si perde poi in un finale forse scontato, ma
che dà allo spettatore un altro spiraglio della società keniota: la
violenza della polizia.
Il film finisce. Resto con l’Egitto e la conca di complessi
problemi, aspettative accatastatesi ed in fermento postrivoluzione. L’Egypt Supreme Constitutional Court ha espresso
parere negativo rispetto agli slogan religiosi in campagna
elettorale, perché potrebbero destabilizzare le cognizioni
dell’elettore. Sembrano inasprirsi ancora di più così i rapporti tra i
Fratelli Musulmani ed i giudici.
Le notti della capitale egiziana si somigliano ai giorni per gli
stessi rumori, l’incredibile flusso di persone che in maniera
scoordinata calpestano le strade, urlano ad un taxi, sfiorano le
risse. Tra il giovedì ed il venerdì si condensano incredibili eventi
diversi tra di loro. Girando un angolo e poi un altro del
marciapiede ci si può immedesimare nel coro di differenti
manifestazioni: tutti a richiedere qualcosa. Il canto incessante che
veste la città di religione, le vetrine illuminate d’occidente, i
bambini di strada che instancabili ti salgono sui passi.
Una rassegna di cinema africano, African movie week, si ripara
dai rumori della città in un edificio che sperimenta la formula del
coworking. Il nome del collettivo è The District, la sera che mi
Un recente piano, reso pubblico dal presidente Mohammed Morsi,
proporrebbe una modifica dell’età pensionabile per i giudici,
facendola scendere da 70 a 60 anni. In questo modo tredicimila
giudici potrebbero smettere di operare, soddisfacendo parte della
Fratellanza, che critica parte della magistratura, perché ancora
legata al vecchio regime.
Tra una questione interna ed un occhio verso gli aiuti del Fondo
Monetario Internazionale, Morsi, durante il meeting dell’African
Union, ha mantenuto i dialoghi con John Kerry, segretario di
Stato degli Stati Uniti, quest’ultimo sicuro che i 4,8 miliardi di
dollari di prestito siano necessari per l’Egitto.
Il sostegno finanziario sarebbe sicuramente vettore di altri
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condizionamenti per il Paese, che deve anche relazionarsi col
problema della perdita di controllo del Sinai e quindi anche del
relativo valico di Rafah verso Gaza. Questo è stato riaperto
mercoledì, dopo la chiusura per lo sciopero dei poliziotti in
agitazione per il sequestro dei sette colleghi misteriosamente
rilasciati. Misteriosamente perché ancora non ci sono state
rivendicazioni dei sequestratori, con cui il Governo egiziano
aveva assicurato di non voler condurre alcuna trattativa: chi ha
condotto
la
trattativa, su
quali
sospettati
si
sta
indagando? Domande che per ora l’Egitto ha preferito
rispondere con l’intensificazione della presenza militare nella
penisola del Sinai e la missione di dieci giorni dell’associazione
salafita Ansal al-Sunna, inviata da Morsi per un dialogo con i
capi tribù beduini del Nord e del Sud dell’area, così che possa in
qualche modo avvenire uno scambio di esigenze ed arrivare alla
cessazione dei disordini.
tempo di Mubarak non si poteva vendere per le strade
abusivamente”. Che stanno nascendo “nuovi” modi di protesta e
non nuove sigle o fenomeni marginali ai quali la stampa da un
rilievo che non meriterebbero (tipo i black bloc), molte città si
stanno mobilitando e la partecipazione è sempre enorme.
Il Sinai verso la Palestina è in questo periodo intasato da azioni
militari ed incongruenze geopolitiche divenute difficilissime da
seguire.
Un amico mi chiedeva “ma com’è ora la situazione in Egitto?”
E’ complicata, scontri permanenti al Cairo, piazza Tahrir
continua a difendersi, le donne vengono stuprate come “gesto
politico” (ma che se ne parli come problema è già sintomo di un
cambiamento), i bambini di strada vengono assassinati e torturati
(ma che si parli della tortura già è un cambiamento, vedi anche in
Italia), l’arroganza e la violenza della polizia è quotidiana, i
rapimenti di attivisti, di donne o di bambini sono quasi prassi, la
povertà aumenta, ma anche i privilegi. A Port Said l’ingiustizia è
sovrana. Morsi, nel frattempo, ha indetto nuove elezioni e poi le
ha spostate perché coincidevano con la festa copta, l’opposizione
le ha boicottate e ora sarebbero bloccate per una legge elettorale.
Il Fronte di Salvezza Nazionale non raccoglie nessun consenso
in piazza (ma magari El Baradei qualche follower da qualche
occidentale), i Fratelli Musulmani hanno organizzazioni quasi
paramilitari e stanno costituendo un potere sempre più radicale
mentre i salafiti stanno facendo il doppio gioco (anche un po’ per
ripulirsi la faccia). Poi c’è pure una crisi e il Fondo Monetario
Internazionale di mezzo e ora i tunnel per i palestinesi saranno
buttati giù. Questo e molto altro succede in Egitto, magari con
qualche foto si capisce meglio il tutto…
Ramallah, Nablus, Gaza, Gerusalemme ed Harifa hanno però,
fino al 31 maggio, rinnovato l’appuntamento col Palestine
Festival of Literature, creato dallo scrittore egiziano Ahdaf
Soueif, che trasforma la Palestina in un palcoscenico per scambi
letterari e workshop.
Egitto, una rivoluzione dopo una
rivoluzione
Andrea Leoni | 19 marzo 2013
Ora c’è un altro tiranno da buttar giù, mi hanno detto in molti, e
alla fine chi governa ora il Paese è chi sta tutelando gli interessi di
pochi, o meglio, di una casta: proprio come faceva il suo
predecessore. Tutto ciò trova conferma negli ultimi scontri
dell’altro giorno, dove centinaia di attivisti si sono ritrovati per
contestare i Fratelli Musulmani che avrebbero aggredito dei
giornalisti. A difesa della libertà di stampa sono scesi con le
pietre. Gli scontri, negli ultimi giorni, sono stati sempre più
frequenti e sono ricominciati per giorni alla Corniche vicino
Piazza Tahrir (riaperta per un giorno neanche).
Molti esperti in parecchi campi sono intervenuti cercando di
riassumere la storia di un Paese che ha attraversato moti di rivolta
e che li continua a vivere in una definizione: primavera araba. Se
per wikipedia e per chi deve vendere il proprio
libro/compendio/storiellina la Rivoluzione in Egitto è durata un
anno (o meglio, diciotto giorni), per il popolo no. Anzi.
E’ ovvio che le mobilitazioni non sono paragonabili a quei giorni
del 2011, ovvio che a Piazza Tahrir non ci sono molte
componenti sociali e che al limite sono proprio cambiate. E’ vero
che i Fratelli Musulmani stanno svolgendo un nuovo ruolo, che
si sono “istituzionalizzati”. Ma è anche vero che il malcontento
persiste, che il povero e lo sfruttato sono sempre a piedi scalzi che
girovagano per le strade e che libertà non è sinonimo di “al
17
le attività delle Ong.
Il link del fotoreportage:
http://firstlinepress.org/fotogallery-egitto-una-rivoluzionedopo-una-rivoluzione/#prettyPhoto[slides]/0/
Una legge minaccia le Ong in Egitto
Ora Morsi intende continuare sulla linea del suo predecessore
proponendo un progetto di legge che intende “imbavagliare” le
Ong secondo quanto ha dichiarato il capo dell’ufficio di Human
Rights Watch in Egitto, Heba Morayef. La proposta di legge
permetterà al governo egiziano di intervenire in quasi ogni
aspetto della vita di una ong: dalla composizione e l’elezione dei
membri del consiglio fino alle loro competenze e al loro
orientamento politico. Oltre a considerare le Ong come istituzioni
dello Stato e i loro dirigenti e membri come funzionari statali, la
legge prevede controlli amministrativi e finanziari a cadenza
bimestrale e istituisce un rigido processo di registrazione per le
Ong. Verrà istituito un comitato composto da 9 membri che sarà
incaricato di approvare la registrazione delle Ong e potrà rifiutare
la registrazione di quelle organizzazioni considerate in contrasto
con i “bisogni” della società egiziana.
Insomma un vero e proprio attentato alla libertà di espressione e
di organizzazione della società civile egiziana che teme che
l’approvazione di questa legge possa decretare la nascita di un
nuovo stato di polizia, ancora più repressivo di quello precedente.
Se la proposta dovesse diventare legge le Ong in Egitto avranno
vita dura, se non impossibile.
Redazione | 29 maggio 2013
“Tutti i difensori dei diritti umani in Egitto
continuano a subire processi” Intervista a
Rawda Ahmed
Lorenzo Giroffi | 19 giugno 2013
Il presidente egiziano Mohamed Morsi ha inviato al consiglio
consultivo, la camera alta del Parlamento, la proposta di legge
sulle Ong. Una legge che, si teme, possa paralizzare la società
civile egiziana.
Nonostante le parole pronunciate da Morsi oggi nel corso di una
conferenza sulle organizzazioni non governative in cui si è
dichiarato consapevole dell’importanza delle Ong e del ruolo che
esse svolgono nel promuovere lo sviluppo del paese, la legge che
la camera alta del parlamento si appresta ad approvare ridurrà
drasticamente la libertà di azione di oltre 41.000 organizzazioni
non governative che operano sul territorio egiziano.
La legge, infatti, permetterà al governo di intervenire nelle attività
e nella gestione delle organizzazioni della società civile e di
controllarne i finanziamenti. In questo modo, come hanno fatto
notare diversi critici, tutte le Ong egiziane diventeranno parte
integrante dell’apparato statale egiziano perdendo totalmente la
loro indipendenza.
Le interferenze del governo egiziano nelle attività delle ong non
sono nuove: Mubarak durante il suo regime aveva fatto largo uso
della legislazione repressiva per scoraggiare le organizzazioni
della società civile che denunciavano le frodi elettorali, gli abusi e
le torture. Nel 2002 era stata approvata la legge 86, aspramente
criticata per aver affidato allo stato il controllo sulla creazione e
L’Egitto ha un substrato di desideri ed una spinta emotiva che a
tratti si sono già trasformati in disillusione, ma che comunque
pulsano e che sono tangibili in ogni angolo di strada.
La nuova Costituzione, gli apparati di potere, i legami col vecchio
regime, la nuova egemonia dei fratelli Musulmani e la difesa dei
dritti umani. Tutti temi che proveremo ad analizzare con diverse
personalità, perché l’Egitto può davvero essere una sorta di
cartina di torna sole, riconoscendone tutte le differenze, per chi
vuole costruire mattone per mattone un nuovo tipo di società.
Partiamo dalla legge e dagli ultimi strumenti di essa, volti a
tutelare la voglia di libertà dopo anni di dittatura.
Rawda Ahmed, avvocato a capo dell’Arabic Network for Human
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Rights Information, è una giovane che può al meglio
rappresentare il sentimento di una generazione che mette a
servizio dei desideri della rivoluzione il proprio sapere. La sua
attività e quella del gruppo di legali col quale lavora è affianco di
tutti gli attivisti, i bloggers, i protestatari ed i difensori dei diritti
umani che si sono trovati sul proprio groppone un processo od
accuse della Corte di Giustizia.
generiche comunque sono di appartenere ad un gruppo violento e
di aver insultato i Fratelli Musulmani, ma comunque c’è un
grosso buco nero sulla reale definizione dei reati>>.
Rawda Ahmed prova a farci capire quali limiti deve affrontare la
società egiziana, anche post-rivoluzione, nei confronti di una
legge ancora poco propensa alla tutela della libertà d’espressione.
La incontro nella Downtown infuocata del Cairo, in uno di quei
palazzi che ha iniziato ad ospitare associazioni di ogni genere, in
cui tutti sono volenterosi di cambiare la quotidianità del Paese e
magari scendere in piazza il venerdì.
<<In realtà ci sarebbero molte modifiche da fare, perché anche lo
stesso lavoro degli avvocati non rispetta la legge, ma il volere
politico. All’interno della Corte di Giustizia operano ancora
giudici e pubblici ministeri legati al vecchio regime. A loro fa
comodo tenere questi standard di accuse contro ad esempio i
Black Bloc, così possono controllare e reprimere gli attivisti o
comunque i dissidenti di ogni genere. Noi abbiamo portato avanti
proposte per migliorare il sistema, ma al momento non abbiamo
ricevuto risposte>>.
Cosa è cambiato per la libertà di espressione dopo la
rivoluzione del 2011?
<<La libertà prima della rivoluzione era sicuramente in uno stato
pessimo, ma dopo la caduta di Hosni Mubarak non è che sia
cambiato molto. Prima della rivoluzione il lavoro nel campo dei
diritti umani era perseguitato. I bloggers e gli attivisti dovevano
subire processi: proprio come ora. Tutti i difensori dei diritti
umani continuano a subire processi. L’unica differenza è che ora
gli attivisti lottano con decisione per il rispetto dei loro diritti.
Prima della rivoluzione c’era il divieto dichiarato della libertà
d’espressione in Egitto, ma dopo di essa ci sono stati nuovi casi
di persecuzione, come il reato d’oltraggio, con procedimenti a
carico di chi ha insultato il presidente eletto Morsi: per questa
ragione l’attivista Ahmed Douma sta subendo un processo.
Anche l’opinione pubblica è deviata da questi processi, perché ad
esempio si concentra sui procedimenti penali contro i Black Bloc,
pensando che quel gruppo di attivisti sia la causa principale di
tutti i problemi in Egitto>>.
Si cercano sempre complicati parallelismi tra i Black Bloc in
Egitto e quelli che hanno operato negli ultimi anni in
Occidente. Tuttavia le loro azioni sembrano molto diverse.
Puoi raccontarmeli e soprattutto in che modo la legge
egiziana li contrasta?
<<I Black Bloc sono un gruppo di persone (riconoscibili per i
volti mascherati) che va per strada, principalmente per difendere i
manifestanti dalle violenze della polizia e di frange che non
hanno nulla a che vedere con gli intenti di piazza, ma agiscono
anche per evitare le violenze sessuali sulle donne che si trovano
in corteo e che spesso sono prese di mira. Quindi noi come
avvocati siamo rimasti sorpresi dell’arresto di alcuni dei Black
Bloc, viste le loro intenzioni. Il Ministero degli Interni tratta loro
come se non fossero persone. Le indagini sono condotte senza
alcun rispetto. Viene setacciato tutto il materiale internet, da
Twitter a Facebook e vengono coinvolte tutte le persone che
hanno roteato attorno a gruppi di protesta. La polizia compie vere
e proprie retate in casa ed arresta i sospettati. Ci sono violazioni
dei diritti per questi processi, perché in pratica questi non ci sono.
Dopo l’arresto si fanno subito i conti con le accuse: in prigione da
sospettati. Al momento ci sono otto arrestati definiti dalle autorità
come appartenenti ai Black Bloc>>.
Generalmente quali tipi di accuse e quali procedimenti penali
devono subire gli attivisti arrestati in Egitto?
La legge egiziana al momento ha gli strumenti necessari per
difendere il lavoro degli attivisti, dei giornalisti, degli avvocati
e di tutte le persone vogliose di esprimersi liberamente?
Nelle lacune che racconti quanto può incidere la nuova
Costituzione? Quanto questa potrà diventare garante di
libertà? Quali invece i passaggi a vuoto che rappresenta?
<<La nuova Costituzione è una parte della nuova società, quella
che ha potuto lavorare ad essa, ma c’è stata anche una bella fetta
che ne è stata esclusa. Questo è il grande problema, perché non
garantisce la libertà di tutti, perché non tutto il popolo egiziano ha
potuto lavorare all’elaborazione della Costituzione. Questo nuovo
testo non rispetta le ambizioni della società egiziana. È lontana
dalla libertà d’espressione, che viene repressa. Per fare in modo
che vengano applicate le leggi di libertà, deve essere modificata
questa Costituzione, perché il suo punto di vista fa perdere tempo
alle richieste di libertà e dignità scaturite dalla rivoluzione>>.
La rivoluzione impressa nei muri
egiziani
Andrea Leoni | 19 marzo 2013
Alcune anteprima degli scatti del foto-reportage, consultabile per
intero al seguente link:
http://firstlinepress.org/la-rivoluzione-impressa-nei-muriegiziani/#prettyPhoto
<<Al momento non sono chiare le accuse contro gli attivisti tratti
in arresto. Il tutto è poco chiaro e molte volte il Pubblico
Ministero compie rettifiche continue sul singolo caso. Le accuse
19
20
manifestanti e brutale repressione che non ha risparmiato proprio
nessuno: bambini uccisi e donne stuprate.
Il bilancio di un anno possiamo definirlo disastroso per l’era
Morsi e ciò è testimoniato da troppi episodi. Ancora una volta,
una parte privilegiata degli egiziani (i Fratelli Musulmani) si
ritrovano in vere e proprie guerriglie contro un’altra parte della
società che è ostile al governo. Scene raccapriccianti come
l’assedio al palazzo presidenziale in cui il palazzo viene difeso
non solo da militari e polizia ma anche da squadre paramilitari
legate al partito di governo, aggressioni con pistole contro gli
oppositori (che vengono rapiti) commesse dagli stessi gruppi
legati ai Fratelli Musulmani, un clima da guerra civile a bassa
intensità. Le violenze non si fermano: negli scontri settimanali
a Mahalla e Kafr El-Sheikh si sono opposti “uomini
barbuti” come riporta il quotidiano egiziano Ahram Online con
oppositori a Morsi (due ragazzi, di cui uno di 12 anni sarebbero
rimasti gravemente feriti)
L’Egitto in attesa del discorso di Morsi
e del 30 giugno
Andrea Leoni | 25 giugno 2013
Il 30 giugno prossimo, Mohamed Morsi, compierà il primo anno
di mandato alla guida di presidente dell’Egitto, fu votato da più di
tredici milioni di persone. Alla sua vittoria caroselli e
festeggiamenti impazzavano per le strade del Cairo, Tahrir era in
festa anche perché gli stessi Fratelli Musulmani erano parte
integrante delle proteste che riuscirono a destituire Hosni
Mubarak. I Fratelli Musulmani fino a quel momento furono
l’unica opposizione negli anni più o meno riconosciuta (venne
brutalmente repressa in alcuni periodi dell’era Mubarak), e ciò ha
dato sempre un enorme vantaggio a Morsi e al suo partito nei
confronti degli altri schieramenti d’opposizione: il forte
radicamento si riscontrava un po’ dappertutto nelle zone rurali.
Morsi si presentò con vari obiettivi, primo tra tutti ridare la
“dignità” agli egiziani dopo anni di dittatura: diritti per tutti e
tutte (anche per le donne, e ciò era inserito anche in un punto
programmatico) e indipendenza da qualsiasi altro apparato,
religioso (anche se il partito si ispirava alla legge islamica) e
militare. Così non è stato: uno dei momenti di rottura “ufficiali” è
stato il decreto con il quale Morsi si è attribuito poteri giudiziari,
la situazione per molti egiziani ed egiziane non è migliorata, la
tanto declamata “libertà di opinione” non si è mai vista e piazza
Tahrir si è riempita di nuovo. Come la famigerata piazza del
Cairo anche molte città del Paese hanno visto scendere in piazza
milioni di persone: ancora una volta giorni di scontri (come quelli
famosi dello scorso anno a Tahrir e al palazzo presidenziale o
quelli legati alla “vicenda calcistica” di Port Said), uccisioni di
Ad un anno da tutto ciò la gente è ancora decisa e pronta per
scendere in piazza, si parla del “30 giugno” da troppo tempo, e
mentre venerdì scorso (un’altra manifestazione del genere si
svolgerà questo venerdì) le piazze si sono riempite di manifestanti
filo-governative (salafiti inclusi), domenica prossima si aspettano
milioni di persone che invaderanno le strade di qualsiasi città in
Egitto. In piazza ci si aspettano quelli e quelle della campagna
Tamarod appoggiata da shyfeencom, dal movimento Keyafa,
dal Fronte di salvezza nazionale e dal Movimento 6 aprile, ma
anche dagli sciiti che hanno segnato 100mila firma delle 15
milioni che era l’obiettivo per il 30 giugno appunto.
In tutto questo clima da guerra civile, ad alzare la tensione c’ha
pensato l’esercito. Con un avvertimento il Ministro della Difesa
(nonché capo delle forze armate) Abdel Fatah el Sissi ha fatto
sapere che l’esercito non rimarrà a guardare la caduta del Paese in
un “conflitto incontrollabile”, i militari sono stati sempre dalla
parte del popolo e hanno sempre combattuto per la volontà del
popolo ha sottolineato. El Sissi ha detto pure che se fin’ora gli
apparati militari si sono tenuti fuori dalla politica, avrebbero
comunque sia la responsabilità “morale” di intervenire per evitare
qualsiasi entrata in “tunnel oscuri”. Nell’analisi dello stato del
paese il capo delle forze armate ha sottolineato la “divisione” del
popolo stesso, un discorso che ha diffuso parecchia
preoccupazione. I militari, c’è da ricordarlo, sono stati
determinanti nella Rivoluzione del 2011 e sono intervenuti anche
a margine di guerriglie successive (come quelle derivate dalla
“disubbidienza civile” a Port Said), sono molti peraltro gli episodi
che testimoniano la contrarietà tra loro e la polizia (e ciò è anche
dato dal fatto che la leva è obbligatoria per tutti).
La risposta ai militari da parte del portavoce del presidente
Morsi, Ihab Fahmy, è stata secca e stizzita: “c’è un presidente
che governa il Paese in maniera democratica, a seguito di
elezioni democratiche. Non possiamo immaginare che l’esercito
possa tornare. L’esercito ha un solo compito: proteggere i
confini e garantire la sicurezza delle istituzioni strategiche. Non
c’è alcun ruolo politico per l’esercito”. Gli stessi vertici del
governo hanno ulteriormente reso l’aria più tesa quando (anche se
non è la prima volta) i corrispondenti stranieri al Cairo hanno
ricevuto una convocazione al palazzo presidenziale proprio in
vista del 30 giugno.
A tutto ciò vanno aggiunte le altre notizie non poco
rilevanti: Ahmed Shafiq, uno dei concorrenti alle elezioni che
hanno decretato la vittoria di Morsi ha fatto ricorso sostenendo
che i Fratelli Musulmani avevano preparato già delle schede
21
prestampate per il voto (e il suo avvocato dice di avere le prove),
il termine dell’archiviazione non decade dal momento in cui
“sorgono nuove prove”, quindi il ricorso di Shafiq è ancora in
tempo spiega ancora l’Ahram Online. Le proteste a seguito della
nomina (decisa da Morsi) del nuovo governatore di Luxor,
l’esponente del movimento integralista Jamaa Islamiya, Adel el
Khayat, hanno trovato riscontro, infatti dopo che molti
manifestanti avevano impedito l’accesso nel suo ufficio, el
Khayat si è dimesso. Essendo il governatorato un luogo peraltro
molto fertile di turismo, era impensabile secondo i manifestanti
che a capo di questa regione ci possa essere un membro
della Jamaa Islamiya uno dei gruppi accusati dell’attacco del
1997 in cui rimasero vittime ben 58 turisti.
Non ultimo il brutale attacco in un villaggio appena fuori dal
Cairo nella provincia di Giza: quattro sciiti sono stati pestati nelle
loro case a morte da migliaia di sunniti dopo che quest’ultimi li
avevano invitati a lasciare il villaggio entro il tramonto. Tutto ciò
per motivi religiosi.
indisponibilità inerente a tale ipotesi e così le manifestazioni, che
non hanno mai smesso di cadenzare la vita quotidiana egiziana, si
sono ritrasformate in violenze, con nemici da individuare
dall’altro lato della strada. I sostenitori della Fratellanza sono
scesi anch’essi armati in strada, per contrastare tutti i sostenitori
della campagna Tamarod, che invece continuano con fermezza
a volere nuove elezioni.
In queste ore il Paese vive in un limbo. I vertici militari avevano
dato un ultimatum al presidente Morsi per risolvere gli squilibri
di ordine pubblico di questi giorni, perché, in caso di incapacità,
l’esercito, senza chiarire in che termini, ha dichiarato di voler
intervenire. L’Egitto è già stato teatro di colpi di Stato militari,
che hanno poi consolidato il regime per anni, dunque lo scenario
non è rassicurante.
Mohamed Morsi ha incontrato uno dei maggior esponenti
dell’esercito egiziano, Abdel-Fattah el-Sissi, assieme al Primo
Ministro Hesham Kandil, fino poi, qualche ore fa, dichiarare di
non voler rispettare l’ultimatum decretato dall’esercito.
Intanto nelle ore di proteste viene usata ancora la violenza sulle
donne come atto politico di destabilizzazione. Dal 2011 ad oggi
sono state molte le manifestazioni volte a far sentire le donne
meno sole, più consapevoli del fatto che ogni diritto reclamato
non possa trasformarsi in un bersaglio contro di loro.
Voci dal Cairo [parte 3] Le violenze
sulle donne come gesto politico
Lorenzo Giroffi | 2 luglio 2013
Dal 25 maggio 2005, quando la giornalista Mona Eltahawi,
durante una manifestazione contro il dittatore Hosni Mubarak, fu
assaltata dalla polizia, arrestata, picchiata e violentata, ogni anno,
in questa data, associazioni e cittadini liberi si organizzano
dinanzi la sede del sindacato dei giornalisti presenti al Cairo, per
ricordare la brutalità di quell’episodio e debellare la consuetudine
delle molestie sessuali contro le donne. Nel video segnalato,
realizzato al Cairo, Abeer Saddy, vice presidente del sindacato
egiziano dei giornalisti, e Miriam Kirollos, attivista
dell’Organizzazione Anti-Sexual Harassment/Assault, spiegano le
lacune legislative in merito alle punizioni su chi commette tali
violenze, ma anche le proposte che vengono dalla ventata
rivoluzionaria.
Restando sulla cronaca di questi giorni e ripercorrendo le stime
dell’Egyptian Center for Women’s Rights, che rintraccia la
percentuale dell’83% per le donne egiziane che hanno subìto,
almeno una volta nella loro vita, molestie sessuali, in queste ore,
durante ed a seguito della grossa manifestazione di domenica 30
giugno, sarebbero stati già 46 i casi di violenza sessuale contro
donne che si erano riversate in piazza per protestare.
Il video è disponibile presso il canale youtube FirstLinePress
al seguente indirizzo:
http://www.youtube.com/watch?v=taRdO0Ckxx0
L’Egitto dal 25 gennaio 2011 non ha mai smesso di sentire la
responsabilità di esprimere il proprio dissenso, scendendo in
piazza affinché i diritti, i sogni e le ambizioni della rivoluzione
fossero rispettati.
Naturalmente i numeri, per una maggiore certezza, dovranno
essere confermati dopo che saranno raccolte tutte le denunce ed i
medicamenti presso le strutture ospedaliere. Intanto l’ Op AntiSexual Harassment/Assault, che si organizza con tanti volontari
ad ogni manifestazione, per formare presidi che danno
assistenza a donne prese di mira, conferma le 46 vittime, tutte
molestate a Piazza Tahrir del Cairo. Il partito liberale di
opposizione, The Free Egyptian Party, ha dichiarato che queste
violenze sono orchestrate dal Governo per delegittimare e
spaventare ulteriormente i protestatari. Nelle ultime
manifestazioni sono oggetto di violenza anche le donne
accompagnate da uomini.
Questi giorni il tutto si è amplificato, perché il terreno dello
scontro si è spostato su di una richiesta specifica verso una parte
politica: le dimissioni del presidente Mohamed Morsi.
I Fratelli Musulmani hanno da sempre dichiarato la loro
22
Il discorso di Morsi e le incertezze che
proseguono in Egitto
disposto a sacrificare me stesso”. Il suo discorso era seguito sia
dalle folle che in gola avevano canti denigratori ed immagini
offensive verso di lui, che dai suoi sostenitori, in piazza con testi
sacri e baci per l’effigie del presidente.
Gli oppositori, che sono arrivati al culmine della protesta dopo la
raccolta di ventidue milioni di firme, finalizzate alle dimissioni di
Morsi, si avvalgono della benedizione del premio
Nobel Mohamed ElBaradei.
Redazione | 3 luglio 2013
Egitto: il dopo-Morsi, l’esercito e la
fase due della rivolta
23 morti, 100 casi di molestie sessuali ed interconnessioni di
potere saltate. In questo scenario si è inserito il discorso di ieri
sera del presidente egiziano Mohammed Morsi. Frasi poco
incisive da un punto di vista politico, ma dirette ai sentimenti
degli egiziani: nessuna linea politica; ammissione di alcune colpe;
elogio della democrazia che l’ha portato ad essere eletto; mano
tesa a tutte le istituzioni del Paese, compreso
l’esercito. Quest’ultimo è stato velatamente ammonito dal
presidente, che ha dichiarato: “Chiunque s’intrometterà nel
processo democratico avrà sulla coscienza i desideri degli
egiziani”.
L’atteso discorso, scaturito dalla scia delle proteste, che vedono le
strade piene di scontri tra chi sostiene questo Governo e chi
invece chiede nuove elezioni perché insoddisfatto, ha avuto il suo
il perno centrale nella legittimazione della nuova Costituzione e
quindi della elezione di un anno fa. In pratica è stato bypassato da
Morsi l’invito dell’esercito a trovare soluzioni con l’opposizione
od a concedere le dimissioni, perché il presidente vuole si un
dialogo, ma che parta comunque dal riconoscimento del suo ruolo
di guida. A supportare tale posizione tutti i vertici dei Fratelli
Musulmani, che rassicurano i loro sostenitori parlando di una
strategia già pronta nel caso ci fosse un intervento dell’esercito.
Morsi ha chiesto a tutte le opposizioni di dialogare, ma ha chiesto
anche ai manifestanti di non schierarsi contro la polizia e
l’esercito, perché componenti fondamentali del Paese: “La
violenza e lo spargimento di sangue aiutano solo i nostri
nemici”.
La crisi economica, che già investiva il Paese, con gli ultimi
episodi di violenza non ha fatto altro che progredire, con il prezzo
del petrolio che ha raggiunto velocemente prezzi altissimi,
arrivando sino a 102 pound a barile.
Mentre gli attacchi alle donne in piazza continuano e le
violazioni dei diritti umani, in tale scenario di incertezza,
aumentavano, il presidente Morsi dichiarava: “Se il prezzo per
difendere la legittimità democratica è il mio sangue allora sono
Redazione | 4 luglio 2013
Difficile analizzare degli avvenimenti a caldo, quando la
situazione è ancora fluida e le notizie si susseguono veloci.
Quello che si può fare, tuttavia, è tracciare una mappa, una
panoramica dei vari fatti e delle questioni aperte in quel gran
calderone caotico che è la situazione egiziana di queste ultime
ore.
Partiamo riprendendo le fila degli accadimenti, con una rapida
successione dei fatti.
Domenica 30 giugno è stata una giornata di enorme mobilitazione
da parte della popolazione egiziana, come vi abbiamo
raccontato. Dopo questa data, che entrerà nella storia come una
delle più importanti, tanto da dare il nome anche al Fronte unito
dell’opposizione – chiamato appunto “30 giugno” e includente
tra gli altri il gruppo Tamarrod, promotore della mobilitazione,
musulmani, copti, laici e i seguaci di Muhammad El-Baradei,
nominato portavoce – lunedì 1 luglio l’establishment militare
lancia un ultimatum ufficiale: entro 48 ore, ossia le 18 di
mercoledì 3 luglio, il presidente della Repubblica Araba d’Egitto
Muhammad Morsi deve dare un segnale di apertura alle piazze
egiziane e all’opposizione che lo contestano, facendosi da parte e
23
trovando soluzioni in nome della riconciliazione nazionale.
Martedì 2 luglio arriva, in serata, il discorso di Morsi, che
annuncia con determinazione la sua volontà di restare in carica,
aprendo all’opposizione, ma solo lasciando intatta la sua
presidenza legittimata da un “processo democratico” passato per
le elezioni presidenziali-parlamentari e per un referendum di
approvazione della nuova Costituzione. Si arriva poi al fatidico
giorno, mercoledì 3 luglio. Dopo una serie di indiscrezioni che
già dal primo pomeriggio parlavano di destituzione e di arresti
domiciliari per Morsi, arriva l’annuncio ufficiale sul canale
nazionale.
Il Ministro della Difesa e comandante in capo del Consiglio
Supremo delle Forze Armate (SCAF) ‘Abd al-Fattah alSisi annuncia la rimozione di Morsi dalla presidenza per non aver
adempiuto al suo dovere di esaudire le richieste della nazione.
Dichiara
inoltre
temporaneamente sospesa
la
Costituzione recentemente approvata e illustra una roadmap per il
futuro del Paese. ‘Adly Mansour (foto in alto), presidente della
Corte Costituzionale (in carica da domenica scorsa, dopo esserne
stato vicepresidente e dopo aver lavorato come giudice per anni,
sia sotto Mubarak che sotto Morsi) è scelto come presidente ad
interim. A giorni verrà formato un nuovo governo “inclusivo”,
altamente rappresentativo delle diverse correnti, oltre a dei
comitati (altrettanto variegati) in grado di elaborare
degli emendamenti alla Carta costituzionale sospesa. A seguito di
rapide riforme costituzionali, verranno indette nuove libere
elezioni, sia presidenziali, che parlamentari. Stamane Mansour ha
prestato giuramento, parlando di unità nazionale, di spirito della
“rivoluzione guidata dai giovani” da seguire, di obbedienza
all’unico Dio e non a “presidenti tiranni” venerati come semidei.
Così, l’ondata di rivolte cominciata il 25 gennaio 2011, troppo
frettolosamente chiamata “primavera” egiziana (e mai realmente
terminata), vive oggi una “fase due”. Il regime figlio (solo
cronologicamente) di quell’esperienza è fallito e caduto dopo
appena due anni e gli egiziani sono in attesa di vederne nascere
un altro, stavolta figlio di quel 30 giugno 2013 che – stando alle
parole di Mansour nel suo discorso d’insediamento – avrebbe
“corretto” il 25 gennaio. L’ennesima transizione che un Egitto in
panne deve vivere.
L’opinione pubblica sembra essere divisa tra chi saluta con favore
la mossa dei militari, che avrebbero attuato le volontà di una
nazione in piazza (è quello che dice anche il Fronte di Salvezza
Nazionale, che ieri ha incontrato le Forze Armate alla presenza
del rettore di Al-Azhar e del Patriarca copto), e chi invece grida
al “golpe militare”contro una coalizione islamista al potere
democraticamente eletta. La verità, probabilmente, sta nel mezzo.
E’ un fatto che Muhammad Morsi è stato il primo presidente
legittimato dal voto popolare nella storia dell’Egitto indipendente.
Malgrado la non facile gestione delle elezioni, che sono avvenute
a scaglioni nell’arco di vari mesi e con procedure farraginose, la
consultazione si è svolta sostanzialmente in libertà e senza
particolari brogli o turbamenti. Che i Fratelli Musulmani godano
di grande consenso nel Paese è un dato di fatto. La Società ha una
lunga storia nel Paese, e dal 1928 ad oggi, con varie vicissitudini,
ha costruito un sistema di welfare e di servizi alternativo
(approfittando delle disastrose politiche neoliberiste imposte da
Banca Mondiale e Fondo Monetario, che Sadat e Mubarak hanno
accettato togliendosi il cappello di fronte agli Stati Uniti) che
significa anche un enorme bacino di voti. Gli Ikhwan (i “Fratelli”
in arabo) hanno acquisito da anni un enorme potere prima nelle
associazioni di categoria, negli ordini professionali e nei
sindacati, lasciati più liberi dalla repressione nei loro confronti
condotta da Nasser in poi (oltre che nella società e
nell’economia); e in un secondo momento anche in Parlamento,
sotto mentite spoglie, utilizzando candidati indipendenti e altri
nomi di partito (aggirando l’interdizione per i partiti di utilizzare
riferimenti religiosi). Fino all’exploit che li ha portati a vincere le
elezioni e ad ottenere la presidenza della Repubblica.
Allo stato attuale, i Fratelli Musulmani non usciranno certo di
scena facilmente, nonostante gli arresti domiciliari di Morsi e
del suo entourage, l’arresto della guida suprema (murshid
‘amm) Muhammad Badie e il mandato di cattura nei confronti
di tutti i vertici dell’organizzazione fondata da Hassan alBanna. Anche il neo-presidente Mansour li ha riconosciuti in
una dichiarazione come “una parte del Paese invitata a
contribuire alla ricostruzione della nazione”.
Ma, come dice un cartello comparso a Tahrir, è vero anche
che “la democrazia non è solo quella delle urne, ma sono anche le
persone scese in piazza”. Se bastassero le elezioni a rendere un
Paese democratico, la democrazia sarebbe ben diffusa nel mondo.
Ma non è così. Morsi è stato sordo alle richieste della
popolazione, ha esitato nelle riforme governando finora a
vantaggio di una ristretta élite, ha tradito le aspettative di chi ha
partecipato alle rivolte, ha portato avanti la repressione contro i
manifestanti anziché l’allargamento dei diritti civili e militari.
Non si trattava di vera democrazia neanche lì. Le manifestazioni
che noi di First Line Press vi abbiamo narrato dal Cairo con i
nostri inviati nei mesi scorsi ne sono una dimostrazione.
Altra variabile impossibile da omettere è che tutto ciò è sempre
avvenuto sotto l’egida dell’esercito. Che dal 1952 è il vero
timoniere, politico ed economico, sulle rive del Nilo (come in
Tunisia, per esempio, lo è la polizia). Membri dell’esercito hanno
in mano una grande fetta dell’economia egiziana, oltre che i
gangli del potere. E’ stato l’esercito che di fatto ha prima deposto
Mubarak, poi Morsi. Per quanto ragazzi e militari si abbraccino
nelle piazze, per quanto i proclami parlino di un esercito che ha
agito in base alla volontà del popolo, le dinamiche sono un po’
più complesse. I timori rispetto alla possibilità di Morsi di dare un
nuovo corso all’Egitto erano anche in questo, nella capacità di
gestione del rapporto tra la presidenza e il potere militare dello
SCAF.
E’ consigliabile, in generale, non farsi prendere da facili
entusiasmi. La Costituzione è sospesa, l’esercito è al potere anche
palesemente, la libertà di stampa viene ancora una volta messa a
repentaglio (vedi l’occupazione della sede egiziana di Al-Jazeera,
il network satellitare di un Qatar vicino alla Fratellanza), il
procuratore generale dell’era Mubarak ‘Abd al-Magid
Mahmoud è stato rimesso al suo posto dopo che Morsi lo aveva
destituito su richiesta del movimento del 25 gennaio 2011.
Per il momento davanti alla popolazione egiziana c’è –
riprendendo il titolo del sito di Al-Akhbar – l’orlo di un abisso
(lo stesso che c’era anche con Morsi). Il cielo è buio sopra il
Cairo, nonostante i fuochi d’artificio e gli elicotteri con le
bandiere egiziane fatti volare in questi giorni dall’esercito (in un
Paese senza petrolio e con la gente in fila dai benzinai: lo
segnalano Marina Petrillo e Sarah El-Sirgany su Twitter).
Inoltre, ci sembra poco credibile che in tutto ciò non ci sia almeno
il beneplacito degli Stati Uniti e delle potenze occidentali, molto
interessati all’area (non dimentichiamo che ai confini c’è Israele,
con l’Arabia Saudita baluardo degli interessi a stelle e strisce in
Medio Oriente).
24
Staremo a vedere. Intanto la gente è, come sempre, allo stremo. Si
rinfocola la “guerra civile” tra sostenitori e oppositori
degli Ikhwan, continuano gli scontri (undici morti e 480 feriti
nella sola giornata di mercoledì), bisognerà capire anche come
si evolverà il rapporto tra copti e musulmani, nelle ultime
manifestazioni uniti nella contestazione di Morsi.
Voci dal Cairo 4 – Le motivazioni di
Tamarod
Lorenzo Giroffi | 9 luglio 2013
perché chi ha votato ed ancora sostiene i Fratelli Musulmani non
può accettare la presa di potere dell’esercito, mentre chi ha
denunciato l’incapacità del governo di Morsi e gli spiragli di un
nuovo regime con esso acclama le forze armate per le strade. Al
momento la repressione colpisce di più gli islamici, che urlano in
piazza:“Il presidente Morsi ritornerà nel palazzo”. L’ala politica
della Fratellanza, The Freedom and Justice, che si è attestò
vincitrice nelle prime elezioni libere egiziane del 2012, parla di
rivoluzione rubata dai carri armati. Questa componente politica,
che detiene ancora grosso consenso nel Paese, invoca l’intervento
della comunità internazionale, per evitare ulteriori massacri e non
far diventare l’Egitto una nuova Siria.
I manifestanti sparati ed uccisi dall’esercito sono stati definiti, dal
Nour Party, un incidente a fuoco tremendo: massacro. Il Nour
party è un partito di salafiti che ha appoggiato la campagna
Tamarod per opporsi al Governo dei Fratelli Musulmani, ma in
queste ore tutto sta mutando ed ogni analisi potrebbe risultare
superficiale od esposta a rapidi mutamenti.
Il Sinai, zona bollente dell’Egitto, in questi giorni non può che
riempirsi di ulteriori incertezze ed infatti è stato attaccato il
gasdotto della città di el-Arish. L’esercito ha già dichiarato di
voler rafforzare la propria presenza nella zona, affinché si dichiari
ufficialmente guerra alle bande, definite dai più jihadisti, ma che
sono composte anche dagli insoddisfatti beduini, abbandonati in
quella regione, che comunque attaccano le postazioni
dell’esercito egiziano.
Nel video segnalato ci sono interviste raccolte a Piazza Tahrir:
chi ha fortemente voluto la cacciata di Mohammed Morsi,
persone che hanno determinato l’intervento dei militari, perché
spaventati da un atteggiamento della Fratellanza troppo simile ad
un regime ed oppressi dal peggioramento della crisi economica.
Il video è disponibile nel canale youtube FirstLinePress al
seguente indirizzo:
http://www.youtube.com/watch?v=DiVnxsmo3DQ
Continuiamo il viaggio nell’Egitto che sembra stia costruendo
un’anomala parte seconda della sua rivoluzione. Più di
cinquanta i sostenitori di Mohammed Morsi ancora agli arresti
domiciliari perché in protesta contro l’esercito. Le forze armate a
loro volta hanno dato un altro ultimatum ai sostenitori dei
Fratelli Musulmani: sgomberare le strade dalla protesta,
altrimenti verranno legittimati gli scontri a fuoco.
In un paradossale risveglio dai sogni di rivoluzione, l’Egitto è
piombato in uno stravolgimento delle proprie aspettative, con la
piazza che, soddisfatta per la deposizione di Morsi, intona cori
d’incitamento verso l’esercito. Un fronte composto da liberali,
comunisti, laici, salafiti, tutti però a dipendere dalle decisioni
delle forze armate.
Intanto il presidente temporaneo ad interim, Adly Mansour, che
sarà in carica fino alle elezioni annunciate dai generali, ha negato
un incontro con il premio Nobel per la Pace, Mohamed
Elbaradei, finalizzato ad una sua compartecipazione alla
presidenza. ElBaradei è definito dalle forze islamiche come un
uomo troppo vicino agli Stati Uniti d’America.
Tra le strade di tutto il Paese i motivi per affrontarsi sono tanti,
25
Voci egiziane 5 – Prima e dopo Morsi:
le denunce della Fratellanza
Lorenzo Giroffi | 17 luglio 2013
Il video è disponibile nel canale youtube FirstLinePress al
seguente indirizzo:
http://www.youtube.com/watch?v=T6K_oXtM8K0
La Costituzione, considerata da molti dei partiti scesi in piazza
per destituire Morsi come troppo rispettosa dei valori islamici e
non dell’intera società, è invece difesa da Soudan, che parla di
come sia un libro aperto a modifiche, da attuare in seduta
parlamentare da chi sarà eletto. A tutti i partiti che si sono opposti
alla Fratellanza chiede di fare il lavoro della politica, cercando
consenso e dando voce agli egiziani, senza criticare a vuoto,
cercando solo l’appoggio dell’esercito.
Inoltre la Fratellanza non vuol sentir parlare di elezioni in questo
contesto, perché vuole prima che ritorni ad essere legittimato e
scarcerato il presidente eletto, Mohammed Morsi, che cessi la
repressione, così poi da poter concorrere nuovamente ad elezioni
libere. Nella video-intervista Mohammed Soudan chiede ai vertici
militari la liberazione dei leader politici e che le torture contro i
manifestanti in piazza smettano di inquietare. La convinzione al
momento è quella di rimanere per strada, fino a quando non verrà
ripristinato lo scenario politico ante 30 giugno 2013.
_____________________
Durante gli incontri con folle, idee, movimenti, volti, presidii e
scontenti egiziani abbiamo raccontato una serie di realtà che
nell’ultimo anno, dopo il primo gesto palese post-rivoluzione, le
elezioni che diedero a Mohammed Morsi la presidenza, si sono
riunite proprio per contestare tale nuovo “governo”. Governo in
maggioranza formato da Fratelli Musulmani e Giustizia e
Libertà, che hanno preso le redini del Paese, con la Costituzione
da redigere (fatto) ed elezioni parlamentari da aspettare (a questo
punto saltate).
Tra denunce di repressione, di cattivi vizi di potere ripercorsi
dalla Fratellanza, attivisti sul piede di guerra e giornalisti
insoddisfatti è nata la campagna Tamarod. Miscellanea di
liberisti, salafiti, partiti di sinistra e liberali, che, dal 30 giugno,
hanno coinvolto l’esercito, arrivando all’ormai nota destituzione
di Morsi, con i militari a dirigere la “ricostruzione” degli apparati
decisionali.
Presidenza provvisoria ad Adly Mansour, Costituzione da
modificare, nuove elezioni da indire e più libertà di espressione
da garantire. Tamarod, che era opposizione, è diventata in un
colpo maggioranza, con Fratelli Musulmani e Giustizia e Libertà
a subire destituzione e delegittimazione, con i suoi sostenitori in
piazza, a protestare contro tale decisione, a patire la repressione
dell’esercito e dei cecchini.
Nel
video
segnalato c’è
l’intervista
a Mohamed
Soudan, responsabile degli affari esteri di Giustizia e Libertà
(Freedom & Justice), realizzata nella prima parte ad Alessandria
e nella seconda via Skype. Lui denuncia un nuovo Stato di polizia
che ha cancellato i sogni di democrazia raggiunti con la
rivoluzione del 25 gennaio 2011, che permise l’elezione libera di
Mohammed Morsi. Parla di tutto quello che è accaduto dal 30
giugno come una perdita di tempo e di soldi, di nuovi problemi
voluti da Tamarod, che ha avallato di nuovo una struttura militare
al Governo. Per Soudan questo sta reprimendo, arrestando,
torturando ed uccidendo.
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First Line Press ha iniziato la sua avventura nel novembre
2012, un modo diverso di raccontare le storie dal mondo e
dall'Italia. L'abbiamo fatto proponendo documentari (uno sui
nuovi metodi repressivi in Europa
“Repressione ai tempi della
recessione”
e
l’altro
sulla
situazione dei prigionieri politici
nei Paesi Baschi “Odissea
Basca”), vari videoreportages
(sul caso Veolia da Londra; sui
manifestanti
spagnoli
per
l’università pubblica; sul lavoro
degli immigrati in Italia, sugli
intricati scenari egiziani, sulla situazione curda, su problemi
ambientali italiani), reportage fotografici (dagli scontri ad
Atene a quelli di Roma, dal Kurdistan all'Egitto, fino alla
Cisgiordania ed alle manifestazioni studentesche italiane) e
un quotidiano approfondimento su cosa succede nel
mondo.
Poi c'è First Line Week che ogni martedì raccoglie articoli
di approfondimento: incontri diretti dei redattori con la realtà
che intendono raccontare: tra le periferie londinesi e quelle
parigine, tra gli indignados a Madrid e tra le macerie di
Belfast, in Egitto tra Port Said in rivolta e una Cairo che non
si è placata, in un Kosovo che ancora non è pacificato, ad
Atene tra gli anarchici che non dimenticano un loro ragazzo
assassinato, con i migranti in Italia che non hanno un
futuro, nelle istituzioni europee a Bruxelles per dialogare
sulla questione curda in Turchia e un colloquio diretto col
leader del PYD, partito curdo siriano. Per l’appunto tanto
mondo, ma anche molta Italia. Abbiamo approfondito e
stiamo approfondendo i temi come la gestione del diritto
all'acqua pubblica, abbiamo raccolto testimonianze dai
migranti dell'emergenza Nord Africa, delle battaglie
NoTav, di quelle degli operai dell’Ilva e della gestione dei
rifiuti.
Il fine settimana del giornale ospita quella che un tempo si
chiamava “terza pagina”, la pagina culturale, con First Line
Week End, con le rubriche dei nostri bloggers. Questi
parlano di disabili e di immigrazione, dell'Ilva e di Paesi in
rivolta, come anche di Balcani, di musica e di cinema o
anche di politica estera. Il tutto condensato da pungenti
vignette, pronte a disegnare fatti di politica interna ed
estera.
Ci puoi trovare …
sul nostro sito: www.firstlinepress.org
su twitter: @FirstLinePress
su facebook: First Line Press
su youtube: www.youtube.com/user/FirstLinePress
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