Dalla deposizione di Mubarak a quella di Morsi L
Transcript
Dalla deposizione di Mubarak a quella di Morsi L
Dalla deposizione di Mubarak a quella di Morsi L’Egitto che resta in Piazza A due anni dalla cacciata di Mubarak Andrea Leoni | 12 febbraio 2013 la criminalità e sono venute fuori nuove problematiche sociali come quella delle molestie sessuali (che talvolta diventano veri e propri stupri) in piazza Tahrir. C’è chi dice che gli stupratori siano gente pagata per impaurire e per scoraggiare le donne a scendere in piazza, ma ciò viene smentito quando una donna si imbatte in qualsiasi vicolo del Cairo. Le luci del giorno svaniscono, la giornata invece non finisce pacificamente proprio quando alcune centinaia di attivisti si recano davanti al Palazzo presidenziale, che sembra essere il nuovo epicentro delle proteste, il tutto degenera in scontri verso le 8 di sera: lancio di pietre da una parte e gas lacrimogeni dall’altra. “La rivoluzione non si fa in due giorni e neanche termina in due anni”. È questa l’aria che si respira a piazza Tahrir, insieme alla sabbia quando va bene o ai lacrimogeni quando va meno bene. Certo è che in pochi vedono quei famosi diciotto giorni come l’inizio e la fine, qui al Cairo la rivoluzione è solo iniziata. Ieri ricorreva l’anniversario delle dimissioni di Hosni Mubarak, era l’11 febbraio e molti lo ricordano come un giorno di festa. La gente usciva in strada, erano in milioni. Le trattative tra diplomazie e opposizioni, infatti, si concludevano con il discorso di Omar Suleyman, il vice, che comunicava come da quel momento gli affari dello Stato sarebbero stati diretti dall’Esercito. Era l’11 febbraio 2011, il Rais destituito fugge (a Sharm elSheikh, peraltro) ma qui, a distanza di due anni, si continua a morire in piazza. Alla caduta del tiranno seguono avvenimenti che marcano una continua rivoluzione: delle elezioni regolarmente svolte, l’approvazione di una nuova Costituzione e un referendum, ma anche le stragi di Port Said (dell’anno scorso e di quest’anno), la strage di Suez pochi giorni fa, ma anche i notevoli scontri di piazza ad Alessandria, a Tanta o al Cairo. Come quelli di ieri. A piazza Tahrir il clima è disteso e se nella mattinata era stato allestito un campo da calcio per il “torneo dei martiri”, partite che non si interrompevano neanche al passaggio di rumorosi motorini in mezzo al campo, nel susseguirsi della giornata le azioni degli attivisti si fanno decise, ma non degenerano in scontri. Subito viene bloccato l’accesso dell’ufficio presidenziale Mogamma (per il secondo giorno di fila) dove si registrano un paio di tafferugli che vengono magistralmente sedati dai più anziani, nel pomeriggio invece i famosi black block riescono a interrompere le corse della metropolitana del centro. Nel frattempo le manifestazioni impazzavano in tutta Cairo, una di queste si avvia decisa con slogan contro Morsi e polizia, a casa di Gaber Salah, meglio conosciuto con il soprannome di “Gika”, assassinato dalla polizia di uno Stato cui lui stesso aveva dato fiducia. La sua faccia è su tutti i muri del Cairo e lui è uno dei simboli delle nuove proteste antigovernative, ma anche di come la cosiddetta primavera a cui lui stesso aveva fatto parte è stata tradita. “Il tiranno da buttar giù è Morsi e farà la stessa fine di Mubarak” dicono i manifestanti e son molto decisi a far cadere il “nuovo tiranno”. L’illusione di una democratizzazione del Paese è ben lontana: l’esercito continua ad avere privilegi che non vogliono perdere, sempre più ragazzi vivono per strada e l’aumento della benzina come quello della vita impazza, il turismo (una delle principali fonti di guadagno degli egiziani) è ai minimi storici. E’ cresciuta Gli scontri di ieri in Egitto e una guerra civile alle porte Andrea Leoni | 16 febbraio 2013 Il venerdì è il giorno della preghiera per i musulmani, ma in Egitto è anche il giorno delle proteste: è dal 28 febbraio nel famoso “venerdì della collera” di due anni fa che la gente si riversa in piazza per manifestare il dissenso. Ieri ancora una volta violenti scontri ovunque e un morto in Gharbiya, ma la situazione sembra degenerare. In settimana abbiamo assistito ad un vero e proprio bollettino di guerra: attivisti trovati morti, un bambino venditore di patate pure e le varie accuse di torture mosse contro la polizia. Il venerdì dopo tutto ciò si fa sempre più caldo e le proteste impazzano in tutto il Paese: i Fratelli Musulmani e gruppi di salafiti si raccolgono alla Cairo University, migliaia dicono siano i partecipanti in una manifestazione “contro le violenze”, “contro l’opposizione” e a supporto del presidente Mohamed Morsi, tra barbe lunghe, spille e magliette con la faccia del presidente, bandiere dell’Islam e un servizio d’ordine molto attento. Le arringhe dal palco sono perlopiù contro l’opposizione, rea di esser il cervello delle violenze che sono riesplose dal 25 gennaio in Egitto. A piazza Tahrir, invece, ci sono centinaia di attivisti che si raccolgono: ci sono le donne scortate dal servizio d’ordine, gli Ultras che ricordano i loro martiri e tanta gente normale. Si canta e balla per le vie del centro. Poco prima che il sole tramonti però gli Ultras locali (quelli dell’Al Alhi perlopiù) si raccolgono davanti a una delle sedi militari del Cairo, anche qui urlano slogan contro Morsi e contro la polizia, c’è un clima da stadio, dove tantissimi giovani saltano e sventolano bandiere. Dopo un’oretta però, il corteo muove verso il palazzo presidenziale a Qubba, lì si radunano in migliaia: ultras, giovani, donne, uomini e donne che sono scesi in piazza nel 2011 e che ora vogliono un’altra rivoluzione. Si incrocia anche il famoso gruppo di “black bloc” che ovviamente ha rimandi europei, ma che qui funge piuttosto da servizio d’ordine (ma anche da prima linea) durante le manifestazioni e da gruppo quasi paramilitare negli altri giorni, rivendicando anche attacchi ai Fratelli Musulmani. Le forze dell’ordine cercano di disperdere la folla con gli idranti, non riuscendoci. Un gruppo di giovani riesce anche ad arrampicarsi sulle colonne del palazzo presidenziale deviando per alcuni momenti il getto dell’acqua che viene sparata dai camion. Si prova a sfondare il cancello d’entrata con bastoni usati come arieti, mentre giovanissimi lanciano pietre e molotov contro il palazzo. La folla è gigantesca. La risposta delle forze dell’ordine però non si fa attendere e un fitto lancio di gas lacrimogeni (qui è alquanto nocivo) infesta la piazza: aria insopportabile. I camion della polizia ne approfittano per uscire e i manifestanti arretrano. La situazione degenera completamente: numerosi sono i feriti che vengono soccorsi dai medici, tra cui anche un fotoreporter statunitense. Ma sono pochi quelli che vengono portati via con le autoambulanze, molte delle quali già spiegate fuori dal palazzo presidenziale, perché in tal modo verrebbero identificati: così gli abitanti del posto offrono acqua e un posto al riparo per chi è intossicato e alcune ambulanze fungono da ospedale da campo. La battaglia continua per ore: lacrimogeni da una parte e pietre dall’altra. Si sentono anche vari spari. Succede l’incredibile. Un gruppo di persone (si dice che siano alcuni ikhwan del posto, ovvero sostenitori dei Fratelli Musulmani) riesce a prendere uno di questi “black bloc” lo smaschera e lo vuole portare con se. In soccorso arrivano gli altri compagni incappucciati sennonché uno del gruppo che tenta di portar via il ragazzino (diciottenne al massimo) tira fuori una pistola, che qui non è una rarità, le urla della gente non fermano il parapiglia che si è venuto a creare e un colpo di pistola viene sparato in aria. Gli uomini riescono a portare via il ragazzo, alcune voci dicono che sia stato successivamente liberato, ma non sono rari gli episodi in cui ragazze e ragazzi vengono rapiti durante le manifestazioni. Lo scenario è quello di una vera e propria guerra civile: la situazione è diventata incontrollabile. Di seguito alcune anteprima del fotoreportage consultabile all’indirizzo seguente: http://firstlinepress.org/gli-scontri-del-15-febbraio-al-cairo/ 3 sull’approvazione della Costituzione. Come muore una Primavera Redazione | 11 dicembre 2012 In Egitto l’esercito ha ricoperto sempre un ruolo di primo piano e decisivo. In questa fase però sembrava per lo meno neutrale, con la revoca delle azioni da stato di emergenza, ma con i subbugli in piazza, l’assalto a sedi governative e di partito, Morsi sta riaprendo poteri anche alle forze armate, che in azioni congiunte con la polizia è ritornato a compiere arresti. Definitivamente ammazzata la Primavera Araba e le sue speranze, ora c’è il fiato sul collo degli aiuti finanziari del Fondo Monetario Internazionale e l’irremovibile posizione del Presidente, che non vuole posticipare la data del referendum, proponendo colloqui all’opposizione, che però continua a rifiutarli, preoccupata per i diritti degli altri credi religiosi nel Paese e per l’emancipazione delle donne, ma soprattutto per le condizioni di povertà in cui verte la maggior parte della popolazione. In Egitto sembra essere proprio calato l’inverno. La preparazione dell’Egitto al referendum costituzionale, previsto, ma assolutamente non certo, per il prossimo 15 Dicembre, è fatto di tumulti, arresti sommari, esplosioni, denunce, baratro politico e tremendo specchio con un passato che sembrava essere stato spazzato via dai clamori della Primavera Araba. Costituzione approvata in Egitto, ma la Cosa sta succedendo? rivoluzione La Costituzione proposta dal mandato Mohammed Mursi viene contestata dall’opposizione, dai liberali, dalla sinistra, dal Fronte di salvezza nazionale, dall’autorevolezza del Premio Nobel Mohamed Mustafa ElBaradei e dal vecchio politico Amr Moussa, segretario generale della Lega araba, che in una recente intervista ha spiegato i motivi per i quali in Egitto nulla è cambiato e la rivoluzione non ha portato i frutti sperati. Si contesta alla presidenza di aver redatto una carta costituzionale che in qualche modo non rappresenta tutto l’Egitto, ma solo quello islamico, come se la Costituzione fosse stata dettata dai Fratelli Musulmani, alleati politici di Mursi. Inoltre la nuova carta sembrerebbe istituire un nuovo Rais, con poteri accentrati nel Presidente e nomine di posti di rilievo della società tutte gestite dal Governo. Le fiamme delle piazze però non sembrano derivare solo da una voglia di multiculturalismo nel Paese, dove si fronteggiano sostenitori del Governo e laici preoccupati, ma non solo, perché sono riscesi in piazza anche tutti quelli che reclamano pane e burro a prezzi accettabili. Il quaranta per cento della popolazione continua a vivere sotto la soglia di povertà e le misure economiche del Governo non facilitano la situazione. La pressione del Fondo Monetario internazionale su Mursi Dietro l’innalzamento delle tasse c’è, come quasi sempre in questi casi, la mano del Fondo Monetario Internazionale, che per il prossimo 19 Dicembre ha fissato un appuntamento inerente alla decisione sui prestiti da elargire all’Egitto. Naturalmente per queste concessioni richiede misure di austerità al Paese. Ciò vuol dire tagli ai servizi ed innalzamento del prelievo fiscale. Il FMI ha chiesto garanzie di donazioni anche a Stati Uniti ed Unione Europea, di quest’ultima però alcuni Paesi hanno deciso di bloccare gli aiuti, visti i problemi sulla Costituzione “troppo islamica”. Anche per questo il mandato di Mohammed Morsi non può posticipare dopo il 15 Dicembre il referendum politica ha perso il suo fervore post- Redazione | 2 gennaio 2013 Il referendum ha decretato l’approvazione della nuova Costituzione in Egitto, quindi in parte una vittoria del Presidente Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani. In realtà il distacco dal fervore politico della piazza si sta già segnando in un solco che vede, come tragica tradizione vuole, la politica da una parte e le esigenze del popolo da un’altra. Solo il 33% ha risposto alla votazione. Un calo in contrasto con tutto quello successo nelle passate votazioni post-rivoluzione. L’opposizione politica a Morsi vede nella scarsa affluenza una delegittimazione della votazione stessa e del consenso al Governo, ma intanto i nuovi assetti legislativi ed economici devono trovare punti concordanti tra tutte le parti politiche. La Banca Mondiale è già dietro l’angolo, con la richiesta di politiche di austerità, prima di elargire qualsiasi tipo di aiuto economico. Le masse si sono tenute lontane dalle votazioni per l’odore di morte che prepotente ancora era vivo a seguito degli scontri delle scorse settimane, oltre che per la totale disorganizzazione ai seggi, dove ci sono state file infinite e ritardi, causati in parte dal ritiro di molti giudici di sorveglianza. Tuttavia risiede solo in parte negli scompensi disorganizzativi il distacco dal fervore 4 politico della gente vogliosa di democrazia. taccuini o telecamere. C’è disillusione verso molti partiti costituitisi come alternativa alla passata dittatura, perché il problema del prezzo del pane è il medesimo di quando si scese in piazza contro Hosni Mubarak e la classe politica è rintanata, come in quei tempi, nelle proprie stanze, lontane dalle piazze. Seppur in una situazione da scassinatore dello stereotipo “rivoluzione” sono attratto dal suo simbolo massimo qui in Egitto: Piazza Tahrir. Col sole asfissiante che mi appiccica all’asfalto dell’incrocio enorme che porta alla piazza, mi rendo conto della desolazione che si è appropriata di questo posto. C’è solo qualche tenda sparsa: presidi di chi ricorda i martiri delle proteste. Se non fosse per gli enormi murales con disegni e slogan rivoluzionari, che, partendo dall’Università americana del Cairo, accerchiano tutta la zona, l’odore delle manifestazioni e degli scontri sarebbe molto lontano. Eppure il ragazzo del movimento liberale mi aveva avvertito di fare attenzione per la tensione presente a Tahrir: tuttavia l’unico stato d’ansia è dovuto dal silenzio e dai gruppi di ragazzini che girano attorno come avvoltoi. Cosa ne sarà di una rivoluzione? Voci dal Cairo Lorenzo Giroffi | 7 maggio 2013 Si è spesso abusato della parola rivoluzione, considerandola come legata ad un singolo evento, capace di un cambiamento immediato. Andrea Leoni ci ha raccontato già l’Egitto della violenza sui bambini di strada, dei problemi di ordine pubblico e della polizia ancora indecisa su chi difendere, ho pensato quindi di percorrere la downtown della capitale egiziana, lontana dalle piramidi ed immersa nella quotidianità di chi la rivoluzione l’ha per forza di cose sentita (Piazza Tahrir è nelle vicinanze). Tra l’odore di chicha, i gatti come iene sui marciapiedi, le strade stracolme di umanità ed oggetti arrugginiti, venditori di frutta marcia, umanità sparsa di pelli ed abiti diversi tra di loro, mercanti-attori che inventano qualsiasi approccio pur di venderti qualcosa, carretti con uomini anziani a battere la frusta sull’asino ed ad urlare qualcosa: incontro un ragazzo appartenente ad un partito politico di cui non vuol dirmi il nome, ma che definisce vicino all’ideologia liberale. In passato è stato arrestato. “Con Mubarak era impossibile organizzarsi, sia per colpa della repressione del regime, che per la pigrizia degli egiziani, che si lamentavano sotto voce, ma, quando si era in tanti, in piazza al massimo si raggiungevano le duecento persone”. Ogni venerdì, a due anni dalla caduta del regime, continuano a spuntare gruppi di persone in piazza, per manifestare: libertà di stampa, diritti civili, salario più agiato per i lavoratori. “Abbiamo bisogno di lavorare ancora, c’è stato solo un primo passo della rivoluzione. Certo, chi ne ha approfittato di più sono stati sicuramente i Fratelli Musulmani, che rappresentano comunque buona parte del Paese, anche se la loro intenzione di interazione con le altre realtà politiche islamiche del medioriente la trovo impraticabile. L’Egitto non è come gli altri Paesi arabi, ad esempio mi viene in mente il Bahrein. Non intendo che non siamo arabi, ma abbiamo storie diverse: qui siamo vicini all’Africa e te ne accorgi dai colori della gente e dalle nostre abitudini”. Mentre continua ad offrirmi sigarette, mi allontano da questo ragazzo da cui potrei prendere appunti, ma non è la situazione per “È così tranquillo oggi perché sono giorni di festa”. Alle mie spalle sbuca un uomo minuto, con dentatura alterna e voglia di comunicare. In effetti si festeggia la Pasqua copta. Nonostante in un Paese di 85 milioni di persone, nel quale i cristiani siano solo il 10% (minoranza che di recente non ha avuto vita facile) durante la festa tutti sono rispettosi o comunque ne approfittano del relax. Papa Teodoro II, 118° papa copto, ha celebrato la sua prima Pasqua nella chiesa Copta del Cairo, al cui esterno c’è stato qualche coro di protesta, ma nulla di particolarmente grave. Teodoro II si è lamentato però rispetto al fatto che il governo presieduto da Mohammed Morsi non protegge abbastanza i luoghi di culto dei cristiani. Nonostante le tensioni però un certo clima di convivenza è possibile, basti pensare che non c’è alcuna legge che vieta matrimoni tra copti e musulmani. Quest’uomo saltato fuori da Tahrir mi ricorda tale festività e mi si presenta come artista della rivoluzione. Mi porta subito nei pressi di un muro della piazza, dove, a suo dire, c’è un’opera da lui realizzata (nella foto segnalata in alto: tratta da un video consultabile in Voci dal Cairo 4). È un disegno sprezzante verso i Fratelli Musulmani, che sono ritratti con mani sul martello della Corte, respinto dal popolo, che da sotto respinge il controllo da ogni postazione della società. “Abbiamo cacciato Mubarak. Ora non abbiamo bisogno di una nuova dittatura. I Fratelli Musulmani hanno già piazzato il loro controllo su ogni aspetto della nostra vita”. Si riferisce anche all’emendamento della legge 35, in merito ai rapporti commerciali, presente in Egitto dal 1976, che il presidente Morsi ha modificato lo scorso novembre, dando in pratica pieno potere al ministero preposto, controllato appunto dai Fratelli Musulmani, che così possono gestire direttamente i sindacati, perché i suoi capi sono nominati dal Governo. Anche per questo il primo maggio l’Egyptian Federation of Independent Trade Unions ha manifestato dinanzi lo Shura Council, per chiedere garanzie ai lavoratori ed un salario minimo di 1,200 lire (170 dollari). Nelle divagazioni economiche si parla anche della volontà di Mohammed Morsi di introdurre il sukuk, una forma di prodotto finanziario islamico, sponsorizzato dal Ministro delle Finanze, Al Mursi Al-Sayed Hegazy. Quest’ultimo ha dichiarato che il sukuk potrebbe generare 10 milioni di dollari l’anno, anche grazie al supporto delle banche islamiche, come la già presente Faysal islamic bank of Egypt. Quest’anziano artista minuscolo si stacca dai binari socio-politici per rimpolpare la propria vanità e mi conduce nella sua bottega d’arte: a due passi da Tahrir. “Guarda, questo palazzo è tutto mio. Prima qui avevo anche delle vetrine, quelle che ora sono distrutte. Durante le manifestazioni gli islamici vicini alla Fratellanza mi hanno distrutto tutto, perché io sono contrario 5 alle loro posizioni”. È iniziata l’ora della sua messinscena. Il confine tra la sua verità e le cose realmente accadute inizia a restringersi: vuole accattivarmi con gli stereotipi dell’occidentale che guarda con diffidenza all’Islam e farmi sembrare le sue opere più sovversive, così da acquistarle con maggior piacere. Capisco della trasformazione artista/venditore e lo lascio nel suo “laboratorio”. Jika e una Rivoluzione da completare Andrea Leoni | 15 febbraio 2012 Il suo nome era Gaber Salah conosciuto ai più con il soprannome di Jika, un sedicenne che è divenuto il simbolo delle nuove rivolte egiziane: quelle contro Morsi. I suoi amici lo ricordano spesso con cortei che partono da Tahrir e che arrivano sotto la casa dove i genitori, i suoi fratelli e le sue sorelle non smettono di chiedere giustizia. Di seguito alcune anteprime del fotoreportage, consultabili di seguito: http://firstlinepress.org/jika-e-una-rivoluzione-da-completare/ 6 Voci dal Cairo [parte II] Lorenzo Giroffi | 9 maggio 2013 Dai vicoli in cui si sente ancora l’ululare dei cani randagi e le canzoni dalla gola tamburellata, mi sposto nel traffico impazzito dell’incrocio, dove le automobili sono frecce pronte a falciarti, oltre ogni segnale stradale. Su di un pezzo di giornale riconosco il volto del Ministro dell’Informazione, Salah Abdul Maksoud, spiacevole protagonista nei giorni scorsi di un dialogo con Nada Mohamed. La giornalista, durante una conferenza stampa, ha posto una domanda in merito alle violenze sulle donne in crescita nel Paese e dunque quali metodologie poter adottare. Il Ministro ha così risposto: “Vieni qui con me e ti faccio vedere”. In Egitto oltre le manifestazioni per il diritto al pane restano molto intense quelle che cercano di sbrigliare la matassa dei diritti civili, per le donne e di emancipazione della religione dalla sua ristrettezza: molti praticanti chiedono una visione laica della sfera pubblica. Ad ottobre potrebbero esserci le elezioni per stabilire il nuovo assetto del Parlamento egiziano. In questo periodo, ma come consuetudine storica, l’Egitto è anche territorio armato della lotta israelo-palestinese. Dal Sinai, regione confinante con quelle realtà, nei pressi del valico verso Gaza, a Rafah, la Qassam Brigades, gruppo islamico palestinese, che vuole incidere con maggior violenza rispetto alle azioni di Hamas, ha intrapreso lanci di razzi verso il Sud di Israele. Hamas ha concordato colloqui con le milizie per far interrompere tali azioni, mentre Israele è ormai con un piede dentro il conflitto siriano. Intanto la porta verso Gaza, Rafah, è resa ancora più incandescente. L’esercito egiziano è impegnato in questi giorni nella chiusura dei valichi sotterranei che dall’Egitto sbucano a Gaza, bypassando l’isolamento commerciale della Striscia. Armi, droga e tratte criminali sono i sequestri dichiarati dall’esercito, anche se da quei tunnel passano pure beni di prima necessità, negati da tratte commerciali “normali”. La situazione si è incrinata ancora di più quando le autorità del Cairo, nei giorni scorsi, hanno negato a due esponenti di Hamas di entrare da Rafah, pratica divenuta consuetudine nell’ultimo anno: non sono state rilasciate motivazioni a tal proposito. Restando per queste strade si ha la sensazione di toccare varie sponde del mondo, diversi tasselli dello scacchiere internazionale. È ormai sera ed è il primo sabato del mese, appuntamento fisso nella piazza Adeen del Cairo per tutte le forme di espressione e soprattutto per l’appropriazione degli spazi pubblici. Dopo la rivoluzione qui si riuniscono artisti di ogni genere, che portano il proprio talento al pubblico, che ha in gola sempre cori rivoluzionari, negli occhi e nelle orecchie la voglia di restare svegli, per migliorare ancora la rivoluzione. Una ragazza mi dice che alcuni gruppi si esibivano già prima della rivoluzione (dai tempi di Nasser), con canti in memoria della resistenza, poi con la 7 caduta del regime, oltre i musicisti storici, si sono riuniti tanti emergenti, che compongono col sogno di libertà: c’è un grosso palco per le esibizioni musicali ed esposizioni varie. L’appuntamento si chiama El-Fan Midan e vuol far in modo che le piazze, addormentate durante la dittatura, restino sempre vivaci, con la vita a scorrerci dentro e le idee a fomentarsi. Tanto la notte sarà lunghissima, come tutte quelle del Cairo, con gente come fiume su cemento ad occupare le strade buie, illuminate solo dai fari delle automobili e dei motorini, tutti con degli altoparlanti sul manubrio, che cacciano musica e fumo. Mentre godo dei canti e degli incontri di questa piazza, mi confermano la notizia della chiusura dell’Egypt Independent, giornale libero e di qualità, che, in lingua inglese, ha portato avanti il risveglio delle coscienze egiziane. La chiusura è riconducibile a motivi finanziari e pressioni politiche. Se la polizia egiziana se la prende con i bambini di strada Andrea Leoni | 19 febbraio 2013 Durante gli scontri di venerdì, quando il cannone ad acqua faceva arretrare un po’ tutti, una ragazzina magrissima, vestita di rosa, di dieci anni, completamente zuppa, rimaneva nelle prime file ad urlare contro il Palazzo presidenziale. Ma lei non era l’unica bambina nelle prime file. La ragazzina è una di quelle di piazza Tahrir, la prima volta che l’ho vista mi avevano parlato di lei come la “grande bambina”. Mi avevano raccontato che era in prima linea il venerdì precedente a Ettehadieh e che era dentro a ogni rivolta. Come lei ce ne sono un centinaio di ragazzini in piazza Tahrir, dormono nelle tende i più fortunati e qualcuno di loro la mattina presto si mette a tirare i sassi e qualche volta anche qualche molotov dai cubi di cemento che bloccano l’ingresso alla piazza. importa niente a nessuno. O quasi a nessuno. Uno degli ultimi casi di violenza contro i bambini non ha fatto troppo scalpore, se n’è parlato per qualche giorno sui giornali egiziani. La polizia ha detto che era stato un incidente e tutto è finito lì. Il bambino era un venditore di patate: è stato trovato a terra scansato ai bordi di un marciapiede come fosse immondizia: aveva delle ferite di proiettili che lo hanno colpito al petto e alla testa. Si chiamava Omar Salah, aveva solo 12 anni e la sua colpa è stata quella di vendere le patate vicino a Tahrir. Un ufficiale militare, Ahmed Mohammed Ali, dopo giorni dal ritrovamento del corpo, fa sapere (dalla sua pagina facebook) che le forze armate si “scusano per l’errore”. Ma questo non è l’unico caso e la stima è impossibile averla molti di loro entrano in carcere senza carta d’identità. Di tutto questo ne ho parlato anche con Amira Kobt un’attivista e membra di organizzazioni per i diritti umani che insieme ad un gruppo di attivisti ha lanciato l’iniziativa: “The popular campaign for the protection of children” che fornisce un numero sul quale è possibile segnalare qualsiasi tipo di abuso. Sono coordinati con un’equipe di avvocati che seguono legalmente le centinaia di bambini di strada che vengono arrestati. Amira ci spiega un po’ tutta la situazione generale, sul perché di questo tipo di iniziativa e sulle metodologie: “C’è da sapere prima che durante la rivoluzione molti bambini sono scomparsi e successivamente sono stati ritrovati torturati, dopo che sono passati alla custodia della polizia. Questa iniziativa nasce per questo e per la numerosa mole di bambini che fanno parte degli scontri o si trovano nei dintorni di piazza Tahrir. Peraltro, noi abbiamo notato che ci fosse una vera violazione da parte delle istituzioni sui bambini e cerchiamo di far che queste tipi di violazioni non avvengano in futuro, cercando di risolvere il problema alla radice e facendo pressione alle istituzioni. Il primo tipo di lavoro che siamo andati a fare è quello di documentare questo tipo di violazioni: durante il mese di dicembre del 2011 ci fu un’enorme retata di arresti di bambini e molti di loro furono ritrovati con evidenti segni di tortura. Cerchiamo appunto di fermare questo tipo di pratiche e prima di tutto documentando ciò che è successo, poi abbiamo aperto questa linea telefonica, dopo di che quello che abbiamo fatto è anche aprire un luogo di discussione dove i bambini possano testimoniare cosa hanno subito: le esperienze di quando loro sono stati trasferiti nei centri di sicurezza della polizia a seguito dell’arresto”. Venerdì scorso poi è stato simbolicamente celebrato il funerale del venditore di patate in piazza Tahrir, quando il corteo rumoroso è stato seguito dai colleghi del bambino assassinato. Anche loro avranno avuto poco più di 10 anni, con le mani nere, le scarpe rimediate, i vestiti strappati e la faccia innocente, ma che orgogliosamente trascinavano il proprio carretto silenziosi. Quella dei bambini che si aggregano alle rivolte non è ovviamente una storia nuova: è prassi in altri Stati anche europei e non servono sociologi per dire che questi ragazzini non abbiano famiglia e siano poveri. Qui in Egitto però la rivoluzione l’hanno fatta anche loro ed a testimonianza di ciò i numeri delle centinaia di ragazzini che sono stati violentemente arrestati, torturati, abusati nel 2011 e che continuano ad essere incarcerati e torturati, solo che a differenza dei blogger o di altri particolari attivisti non 8 Disubbidienza civile a Port Said del coprifuoco al memoriale per le vittime delle ultime violenze: i manifestanti esigono che le autorità si prendano le loro responsabilità delle morti. Andrea Leoni | 22 febbraio 2013 Anche se nessun giornale ne parla, la disubbidienza civile si sta espandendo in molte altre città dell’Egitto e anche lì i cittadini sono determinati e non di certo badano alle elemosine del presidente Morsi, che subito ha cercato, non riuscendoci ovviamente, di sedare la protesta con vane promesse. Un amico italiano, da molti anni qui al Cairo, raccontava come fosse quasi un modo di dire che “Il Cairo ci prova sempre ma Port Said poi ci riesce” uno dei tanti sfottò tra le due città rivali. Lui però si riferiva alla disubbidienza civile che la città portuale sta portando avanti con parecchia determinazione al contrario di quella malriuscita della capitale. Per quattro giorni consecutivi, infatti, uno dei palazzi del governo e di rilevante importanza al Cairo, il Mogamma (o Mogama), è stato bloccato. All’edificio che si trova proprio in piazza Tahrir, ne è stato vietato l’accesso: un piccolo numero di manifestanti, perlopiù della piazza, ma anche lavoratori, hanno cercato di portare avanti una disubbidienza civile che è durata veramente poco e non ha avuto un notevole appoggio della popolazione, anzi (c’è uscito pure qualche parapiglia). I giornali parlavano di come dietro all’azione ci fossero i famigerati black bloc, ma nulla di tutto questo, e il quinto giorno è stato riaperto l’edificio. Ma a Port Said la cosa è diversa. La città è ancora sotto il coprifuoco imposto dal presidente Morsi (così come anche Suez e Ismailya), decisione che è arrivata dopo le violenze (terminate con 42 manifestanti morti) che si sono scatenate a seguito delle 21 sentenze di morte pronunciate rispetto agli scontri dello scorso anno dove proprio a Port Said rimasero uccisi 74 tifosi. Ragazzini in divisa stanno sopra i carri armati ad ogni angolo della città, frequenti pullman della polizia, dei militari passano per una città (che è già militarizzata di suo) quanto frequenti sono le scritte “acab” (all cops are bastard) su ogni muro. Un piccolo campo, stile Tahrir, sorge in una piazza non lontana dallo stadio delle violenze, è stato creato dagli ultras di Port Said, quelli coinvolti nelle violenze: i Green Eagles. Il piccolo campo è stato subito supportato dai familiari delle vittime che stringono in mano i cartelloni con le facce dei propri cari e che sono lì, in presidio insieme ai tanti cittadini che chiedono giustizia rispetto alle condanne a morte e agli spari indiscriminati dei militari e della polizia che hanno colpito a morte 42 persone a fine gennaio, tra cui anche cittadini che non stavano protestando, ma che erano solo di passaggio. Tutta questa ennesima ingiustizia ha portato la gente di Port Said ad insorgere. Succede così che ogni mattina (oggi è il quinto giorno di fila) i lavoratori si ritrovano per la via principale (via 23 luglio) e in migliaia sfilano per le strade della città. Questa è la disubbidienza civile: treni bloccati, servizio autobus in tilt (anche se i minibus funzionano), molti negozi chiusi, banchi di scuola vuoti (quando qualche scuola è aperta). Gli ultimi sono i lavoratori del canale di Suez che si sono aggiunti alla protesta e hanno anche loro lasciato il lavoro. E ora una delle ultime è che i cittadini si rifiutano di pagare le bollette: telefono, gas, acqua e elettricità. Le richieste sono chiare e passano dalla fine immediata La repressione politica in Egitto e la voglia di imparare la democrazia Lorenzo Giroffi | 12 maggio 2013 L’Egitto della sua rivoluzione è capace di mostrarti i versi più disparati: dall’incremento della criminalità alla sete di democrazia, dalla delusione già divenuta rassegnazione alla voglia di restare in uno stato di cambiamento. Qui , mentre vengo strattonato o per eccesso di generosità (mi viene offerta l’ennesima seduta in un bar) o per affari fastidiosi, m’imbatto in una manifestazione in una piazza al centro del traffico cittadino del Cairo. Appaiono così nel giorno di festa del venerdì. A midan (piazza) Talaat Harb, nel vortice centrale del Cairo, dove si dilungano quattro arterie stradali, c’è il busto di quello che è stato l’economista egiziano che ha fondato Banque Misr (The Bank of Egypt): è al centro di un chiassoso ed affumicato bacino. Sulla statua vengono portate catene. Un ragazzo si fa lanciare su Talaat Harb, che è a circa cinque metri d’altezza, mette le manette, affigge tre foto ed inizia un canto. In un attimo sotto la statua, a danzare con le auto per schivarle e raggiungere il punto, appare una folla di circa duecento persone, che srotolano cartelloni e megafoni. Svariate donne si pongono al centro e replicano al coro iniziato dal ragazzo, invocando la libertà, la giustizia ed il rispetto delle promesse fatte dai Fratelli Musulmani. Dopo la rivoluzione gli arresti degli oppositori politici non sono ultimati con il regime. Dissentire in Egitto ad oggi procura ancora 9 problemi. Tra le foto esposte sui cartelloni ci sono ragazzi morti in scontri con la polizia durante manifestazioni o persone al momento in carcere, con l’accusa di aver offeso il Governo od il suo Presidente Morsi. Tra le riproduzioni di volti più celebri c’è quella di Ahmed Douma, attivista e blogger che è ancora in carcere dopo un processo ambiguo, che lo ha più volte giudicato colpevole di offese. A difendere Douma c’è l’avvocato Khaled Ali, oppositore politico della Fratellanza. Ricordando altri casi di arresti dovuti a censura c’è Hassan Mostaf, nella prigione di Alessandria per aver organizzato una manifestazione richiedente giustizia per la morte di cinquanta bambini uccisi dalla polizia ad Assiut, sempre a seguito di proteste. Mostafa era già stato in carcere come dissidente durante la dittatura di Mubarak, sintomo di quanto il grado di libertà possa essere ancora poco paragonabile ad una democrazia. Il caso più recente è quello di Ahmed Maher, arrestato in aeroporto mentre stava rientrando da un viaggio negli Stati Uniti, dove appunto aveva tenuto una conferenza sui nuovi metodi di libertà, applicati con le nuove tecnologie in Egitto. Anche per lui l’accusa è di offesa alle istituzioni e di vandalismo, in merito alle proteste del 29 marzo scorso dinanzi il Ministero dell’Interno, quando accusò il nuovo Governo di prostituirsi comunque ad un regime. In quell’occasione furono arrestati quattro esponenti del Movimento 6 Aprile, di cui Maher è il fondatore. Durante la manifestazione sono in molti a parlare di tradimento compiuto dai Fratelli Musulmani, che avevano promesso libertà e che invece ora vengono accusati di perseguire metodi repressivi per le voci politiche diverse dalle loro posizioni. È comune sentir parlare di “Brotherhoodization”. Tutto ciò mentre il Governo egiziano si è apprestato ad affrontare una sorta di rimpasto, con la nomina di nove nuovi ministri, volti sicuramente a dare una facciata di stabilità, utile alla trattativa con la Banca Mondiale, che ha già messo sul piatto 4,8 miliardi di dollari, per un prestito in cambio di misure di austerità. Al momento l’aiuto esterno è dato dagli Stati Uniti, che supportano gli investimenti militari egiziani per 1,3 miliardi l’anno. “Siamo passati da uno Stato di polizia, nel quale c’erano agenti ad ogni angolo, ad un Paese dove la polizia non è più neanche in grado di controllare il traffico, vista la perdita di potere, ma che si concentra solo nella repressione dettata da chi è ora al potere”. Questa la frase di un manifestante che mi si avvicina. La rivoluzione, l’anarchia, l’autodisciplina, i sogni di democrazia: la tempesta nella testa che mi si fissa dai cori e dalle canzoni di questa gente. Una persona m’invita una fermata di metro dopo Sadat, dove c’è un centro culturale che ha l’intenzione di farsi custode dei valori della democrazia, della giustizia sociale, della pluralità di voci, dove s’incontrano socialisti, liberali, comunisti, persone rifugiate dalla Siria, stanziatesi qui da anni dopo la fuga dal Sudan, insomma, dove c’è voglia di imparare la democrazia tramite un miscuglio di esperienze, anche storiche. Quando arriviamo al centro sta per essere proiettato un film che ricorda della resistenza spagnola al regime di Franco “La voz dormida”. Un racconto dal carcere femminile di Madrid, dove lo spionaggio, la pena di morte di un’andalusa appena divenuta madre e la violenza sono i protagonisti. Guardiamo tutti il lavoro del regista Benito Zambrano, tratto dal romanzo di Dulce Chacón, con la consapevolezza che il fascismo non sia solo passato, che la paura per la repressione debba essere sempre alta, che la democrazia ha bisogno di studio, di allenamento, di passione, come quella che mi pare di assaggiare in questa serata dal vento pieno di sabbia e l’odore fortissimo di Nilo. Egitto: la crisi economica, gli aiuti esterni, il processo al regime e la chiusura di un giornale indipendente Lorenzo Giroffi | 14 maggio 2013 In questi giorni l’Egitto è con uno sguardo rivolto verso il suo passato. Innumerevoli le immagini dell’ex dittatore Hosni Mubarak, riapparso nella Corte di Giustizia, dagli occhiali scuri ed il pigiama da anziano malato sulla sua sedia. Sono lontane le scene trionfalistiche del Rais, accusato di corruzione e del massacro di novecento persone durante le manifestazioni del gennaio 2011. Prima di entrare in aula Mubarak ha rilasciato un’intervista al giornale El-Watan, che ha fatto il giro di tutto il Paese. Il processato più famoso dell’Egitto ha dichiarato che il lavoro del nuovo presidente Mohammed Morsi è molto complicato, dicendosi poi preoccupato per la situazione di recessione economica, che aumenta ogni giorno il grado di povertà. Intanto nei pressi dell’ambasciata statunitense sono stati intensificati ancor di più i controlli, ciò a seguito dell’arresto di tre persone, che, su dichiarazione del Ministro dell’Interno, Mohamed Ibrahim, sarebbero legate alla rete di AlQaeda dell’area pakistana. L’operazione, secondo il Ministro, farebbe parte di un piano volto a fomentare le cellule terroristiche nel Maghreb islamico. Le autorità riferiscono che i tre erano in possesso di 22 libbre di esplosivo, pronto a farlo saltare in un’ambasciata di un Paese occidentale, non ancora scelta, ma quella più quotata era a stelle e strisce. Tra le trame strane di quest’attentato, l’Egitto cerca soluzioni per l’ormai inarrestabile crisi economica, che da due anni colpisce tutte le sfere sociali. Prima di cadere nel vortice della sirena del Fondo Monetario Internazionale, che ha pronti 4,8 miliardi di 10 dollari, in cambio di misure di austerità e privatizzazione di qualche comparto pubblico, il Governo sta continuando a richiedere l’aiuto di Nazioni arabe e musulmane. Subito dopo l’insediamento dei Fratelli Musulmani al Governo, nel luglio dell’anno scorso, il Qatar ha depositato 5000 milioni di dollari nelle casse egiziane, chiedendo il tasso d’interesse del 5% a 18 mesi. medioriente. Sicuramente il nostro lavoro è stato importante per il racconto dei fatti dell’Egitto, ma soprattutto per aver creato una nuova forma mentale su come fare informazione in maniera libera, sviluppando una certa indipendenza dalle istituzioni». Il Presidente egiziano, Mohammed Morsi, mentre sta trattando un tasso più agevole, ha però ricevuto dal Primo Ministro del Qatar, Sheikh Hamad bin Jassim al-Thani, altri 3 milioni di dollari, che dovranno restare nella banca centrale egiziana fino a quando il Ministero delle Finanze non distribuirà obbligazioni (con tasso d’interesse del 3,5%) dello stesso valore per il Qatar. Anche la Libia ha provato a scuotere l’economia del Cairo, depositando 2 miliardi di dollari. «La rivoluzione ha certamente preso molto spazio nella nostra copertura giornalistica, perché ci ha dato la possibilità di esplorare temi che prima ci mancavano. Abbiamo potuto incontrare e raccontare minoranze etniche, viaggiando fuori dal Cairo e vedendo cosa ha portato questo periodo storico nelle comunità ai margini». Pensando a questo scenario d’incertezza prendo al volo un pullman: non è una metafora dato che qui alle fermate decelerano solo. Fisso per bene il mio corpo nella vettura. Fingo che quello che guardo dal parabrezza non sia la realtà della strada, ma un film d’azione nel quale si ha qualcuno da inseguire: questo è lo stile di guida dell’autista, ma come di tutti quelli incastrati nel traffico del Cairo. «Una democrazia ha bisogno di provare a rispondere alle domande delle persone e questo non ha solo la forma delle elezioni. La Comunità Internazionale crede che le elezioni siano un segno chiaro di democrazia, ma vivendo oggi l’Egitto ci si rende conto che la caduta del regime ha si scaturito elezioni, ma i motivi per cui la gente scese in piazza il 25 gennaio 2011, per rovesciare il regime di Mubarak, erano inerenti alla giustizia sociale ed alla dignità. Queste cose non sono cambiate, non si risponde ancora a tali esigenze e le elezioni non credo ridurranno questo gap verso il processo democratico». Incontro Lina Attalah, direttrice di un giornale che ha dovuto fare i conti con una crisi finanziaria ed il boicottaggio dei poteri forti: Egypt Independent. Giornale che dal 2009 si era messo nel mezzo del monopolio informativo, pro governativo o anti, tenuto in piedi dai due colossi Al-Ahram ed Al-Wafd. L’editore Al-Masry AlYoum aveva tirato su questa redazione, per lavorare con un respiro internazionale (completamente in inglese) ed oltre le logiche della critica a prescindere o della difesa del potere. Una maniera nuova di fare giornalismo, non perseguita però ed abbandonata dallo stesso editore, che non ha permesso ai propri giornalisti di pubblicare su carta l’ultimo numero di congedo, perché critico rispetto a chi non ha creduto fino in fondo in un nuovo modello d’informazione. La motivazione editoriale è un’accusa al proprio gruppo di giornalisti, definiti una barca ibrida e senza posizioni sostenibili. Lina Attalah è una direttrice che soffre per tutti i progetti di redazione, con colleghi ed amici, che sono stati così congelati, e per il tradimento del proprio editore. Lina è ancora convinta che tutto il gruppo di lavoro non debba sfaldarsi e che si debbano cercare nuove vie per continuare il lavoro. Durante il tuo lavoro, nella raccolta delle storie del tuo Paese, cosa hai notato? Cosa sta cambiando post-rivoluzione? A tuo avviso quale è la priorità per una democrazia stabile? Direttrice di una voce libera dell’informazione egiziana: Egypt Independent, storia di un giornale che chiude Lorenzo Giroffi | 16 maggio 2013 Negli ultimi due anni la parola rivoluzione è stata accostata molto spesso a Nord Africa o alla Primavera Araba. Cosa c’è di sbagliato in quest’assonanza e cosa è rimasto di quel periodo? «Penso ci sia tutto di sbagliato nella denominazione “rivoluzione”, perché si prende questa come un evento che può cambiare ogni cosa al 100%. Al momento ciò è disatteso, quindi, a mio avviso, non può essere un termine-evento, ma uno stato mentale continuo, che può trasformare qualcosa nel lungo termine». Puoi raccontare il lavoro dell’Egypt Independent, dei suoi obbiettivi e dei suoi successi? «Nasciamo nel 2009 e ci attestiamo subito come un successo editoriale tra i media indipendenti arabi. Di fatti siamo stati il primo giornale privato nel Paese ad emanciparsi dal controllo dei partiti politici. Un gruppo di giovani giornalisti egiziani, ma non solo, c’erano colleghi provenienti anche da altre zone del Riesci a trovare un motivo per cui i Fratelli Musulmani potrebbero essere un freno al processo democratico dell’Egitto ed uno per cui invece potrebbero essere un garante di esso? «I fratelli Musulmani stanno procedendo verso una riconferma alle elezioni, ma come dicevo prima questo non è sinonimo di processo democratico: sarebbe riduttivo. I Fratelli Musulmani sono saliti al potere, con il Presidente Morsi. Lo Shura Council è composto da una maggioranza della Fratellanza, ma cosa ne è stato delle richieste della gente? Ci sono solo decisioni unilaterali, che stanno consolidando un gruppo di potere, una classe dirigente alla guida del Paese e questo lo considero un freno per ogni tipo 11 di processo democratico. Sul fatto invece che loro potrebbero essere dei garanti di questo processo, non credo proprio possano esserlo in alcuna maniera. Sento solo la loro paura di perdere il ruolo che hanno conquistato nel Paese. Noi avremo bisogno di una visione e gestione della cosa pubblica più pluralista, ma al momento sfortunatamente siamo lontani da questa prospettiva». La gente continua a scendere in piazza ed ad organizzare manifestazioni. Quanto è lontano il loro punto di vista da quello della classe politica? «C’è sicuramente un problema tra le richieste politiche della gente per strada e le istituzioni che dovrebbero rappresentarle (partiti, unioni sindacali). Il gap crea rabbia, soprattutto verso quelle parti politiche che dovrebbero rappresentare l’opposizione ed impegnarsi nell’adempimento di offerte alternative. Provo a fare un esempio chiaro di questo distacco: molte persone, durante le proteste, hanno avuto problemi con la polizia, che ha usato violenza sproporzionata, quindi la gente è arrabbiata e diffidente oggi verso di essa. La parata della polizia però non ha cambiato il proprio rituale dopo la rivoluzione, ha festeggiato ugualmente. Avrebbe potuto sospenderla, con l’avallo del Governo, per almeno riparare e non irritare la gente che ha subito violazioni dei diritti umani. Dopo la rivoluzione non è cambiato per nulla il rapporto con la polizia, che compie ancora abuso del proprio potere». Quale è per te l’aspetto più critico della società egiziana contemporanea? «In Egitto la condizione della donna, i bambini di strada, la povertà e l’instabilità sono tutti tasselli della crisi. La più grande criticità però è proprio la mancanza di un processo politico. Non sto vedendo nulla di tutto ciò, vedo solo una grossa penuria di programmaticità politica, che per i problemi detti prima vuol dire peggioramento di tutto. In assenza di politiche, la marginalizzazione crescerà e l’instabilità non si fermerà». Voci di piazza Tahrir Andrea Leoni | 26 febbraio 2013 Puoi descrivermi lo scenario attuale dei partiti politici egiziani? «Molti partiti egiziani hanno perso al momento la regione d’esistere, soprattutto quelli vecchi che avevano come unica vocazione quella di debellare il regime di Mubarak. Il fenomeno più interessante post-rivoluzione per i partiti è quello della trasformazione politica all’interno degli stessi partiti, tra la vecchia e la nuova generazione. Ci sono molte lotte circa le modalità con le quali questi partiti debbano istituzionalizzarsi, per le proprie elezioni, e su chi proporre come rappresentante. La sfida per tutti è sicuramente quella di capire come ci si debba presentare alle elezioni. In altre parole i partiti politici potrebbero essere più attivi negli spazi sociali del Paese, per poi essere in grado di compensare alla presenza massiccia dei Fratelli Musulmani ed essere capaci di mobilitare di più giovani, sviluppandosi in diverse comunità». In che stato è l’informazione egiziana e la libertà di espressione? (l’arresto del comico Bassem Youssef, per satira sul presidente Morsi. C’è da segnalare invece il rilascio di Ahmed Maher, fondatore del Movimento 6 Aprile [ne abbiamo scritto qui], a tal proposito i fratelli Musulmani, in una dichiarazione distensiva, hanno affermato di essere stati sempre contrari al suo arresto) «Dopo la crisi e la chiusura del giornale posso dire ancor di più che la sfera dei media in Egitto sta soffrendo un controllo statale. In questa maniera non possiamo avere un’informazione indipendente e voci autonome in grado di raccontare le storie onestamente. Questa è un’enorme sfida perché ci sono molti problemi per i media, incluso l’uso legale della censura da parte del Governo sui giornalisti, protagonisti televisivi e comici, facendo scattare poi il meccanismo della paura. Naturalmente i problemi finanziari sono strettamente legati alla possibilità di fare buona informazione». A due anni passati dall’inizio della Rivoluzione egiziana chi c’è ancora in piazza, come funziona l’organizzazione, gli ultimi casi che l’hanno sconvolta, quali le possibilità e anche qualcosa su questi “black bloc” egiziani Se la vedi dall’alto piazza Tahrir sembra poco più di una rotonda, ma ora con tutte le tende di materiale recuperato assomiglia più a uno di quegli accampamenti militari, complici i colori. Il Museo egizio che svetta da una parte e il Mogamma (edificio istituzionale) dall’altra e poi l’Università Americana ora trasferita altrove, in una zona più al sicuro. Il suo nome lo deve alla precedente Rivoluzione egiziana, quella del 1919, ma quello che ha rappresentato questa piazza lo deve agli avvenimenti del 2011, anno in cui proprio in cui il posto fu da epicentro di un cambiamento, riuscendo ad accogliere milioni di persone. Ora la piazza è bloccata, blocchi di cemento la tengono lontano dai Palazzi istituzionali, dalla sede dall’Ambasciata statunitense fondamentalmente. Quando questi blocchi voluti per isolarli dal ministero degli Interni sono assenti, gli attivisti hanno posto alcune barriere legate tra loro da filo spinato, formando un mini posto di blocco dove tre ragazzi si alternano 24 ore su 24 per prevenire attacchi da polizia che tenta di sgomberarli o da nemici politici. Chi è rimasto dentro la piazza nelle tende si dice che sia perlopiù la gente di strada, i poveri e chi ha perso il lavoro (con il calo del turismo soprattutto). Si è vero, ma a piazza Tahrir ci sono anche avvocati, dottori, manager e ne ho incontrato uno che mi spiega: “la piazza viene screditata dai media che vogliono farla diventare una fogna. Vogliono che quella piazza che è stata il luogo simbolo delle proteste imploda da sola e che così si screditi anche la stessa Rivoluzione. In piazza ci sono tutti, dai bambini 12 di strada alle donne e non solo derelitti della società come dicono i media e i Fratelli Musulmani. Gli stupri alle donne, i rapimenti di persone, i furti sono scientemente pensati a tavolino e i criminali vengono pagati per commettere questi reati qui. Noi lo sappiamo e per questo ci difendiamo”. Difendersi significa farlo con tutti i metodi e non è un segreto, qui si trovano molotov (in un posto segreto che conoscono in pochi), ma anche bombe artigianali, coltelli, bastoni, ma anche pistole perlopiù fabbricate fai-da-te. Alle 6 di mattina un allarme che viene suonato con un bastone su un tubo di ferro sveglia a tutti i ragazzi delle tende, alcuni sono già fuori, dietro il filo spinato che urlano per organizzarsi tra di loro e con un lungo coltello bene in vista. Ci si ripara alla meglio dalla polizia, uno dei più gagliardi è un vecchietto con frecce di ferro e arco al seguito. Alla sicurezza fanno parte tutti i ragazzi della piazza che ci vivono, oltre che ad alternarsi nei cambi di guardia, riescono anche a rispondere agli attacchi ed a tenere sicura la piazza. Mi spiega un certo Mohamed: “Noi siamo armati perché i nostri nemici ci vogliono uccidere. Nelle manifestazioni ci hanno sparato, si infiltravano tra i manifestanti e sparavano ai ragazzi che erano nelle prime linee a combattere: molti martiri sono stati assassinati con un colpo di proiettile sparatogli alle spalle e non dalla polizia che era davanti. Ma anche ora noi abbiamo subito numerosi attacchi, solo questa settimana la polizia ha provato a farci andare via per tre volte e noi siamo andati in massa. Abbiamo fatto vedere cosa abbiamo e che siamo disposti a combattere. I membri della divisione speciale della polizia sono scappati”. Le pistole non vengono da chissà dove, sono fabbricate manualmente: “Noi siamo in grado di costruirci le nostre armi. Ovviamente non abbiamo come loro tutta la disponibilità economica sia per comprarle, che dove comprarle e quindi le costruiamo. Molti di noi sanno come si possono fare, ma hai solo un tiro in canna”. Le hanno utilizzate, ma solo per spaventare persone che venivano per destabilizzare l’area. blaterare, niente di tante altre fantasie che girano, qui “tutti possono essere black bloc, compri una maschera ti vesti di nero e il gioco è fatto. Non c’è una vera organizzazione piramidale, è solo un’idea e tutti possono accettare questa sfida: ti vesti di nero e compri una maschera, è una moda. Tutti anche possono creare un profilo facebook, è un gioco da ragazzi, no? Alla fine tutto il popolo egiziano è black bloc” mi dice un ragazzo della piazza. Sta di fatto che dalla sua formazione, il gruppo ha rivendicato vari attacchi alle sedi dei Fratelli Musulmani e sono loro probabilmente gli autori dell’incendio di una sede di un partito legato a Morsi nelle vie principali del Cairo. Oltre a loro, in piazza, ci sono molti ragazzini di strada, un ragazzo della piazza mi spiega: “I giovanissimi si sono uniti alle rivolte e hanno partecipato attivamente perché erano d’accordo con noi, si sono interessati sin dall’inizio, perché anche loro subiscono quotidiane ingiustizie, perché si vogliono ribellare a un sistema che li ha relegati in quella miseria, ma poi perché difendono loro difendendo noi. Noi gli abbiamo dato una casa, gli abbiamo dato il cibo, una famiglia. Noi siamo la loro famiglia e loro difendono la loro famiglia difendendo noi”. E lo hanno fatto fin troppo, pagandone con tortura e arresti (centinaia di bambini arrestati solo dal 25 gennaio di quest’anno). Dello stesso avviso è un anziano signore che ha una tendina rettangolare nel mezzo della piazza. E’ conosciuto da tutti come il padre dei bambini della rivoluzione: “Finché ci sarà Morsi noi combatteremo, noi vogliamo che lui se ne vada e che finisca questo governo comandato da persone che pensano a fare leggi per loro. I Fratelli Musulmani stanno facendo le leggi solo per la loro gente. La Rivoluzione non è finita e noi siamo ancora qui per combattere e come abbiamo fatto per Mubarak, faremo con Morsi. A tutte queste ingiustizie, il divario sempre più enorme tra ricchi e poveri chi è che ne deve rispondere? Guardate quanti migliaia di bambini in che condizioni sono costretti a vivere”. Lui come tanti altri mi dice che non si sente rappresentato da nessuno dell’opposizione. Il servizio d’ordine della piazza è riuscito a respingere oltre che gli attacchi dei nemici politici e la polizia anche a tenere sicura l’area. Con l’escalation degli stupri a piazza Tahrir e dei furti la sicurezza si è organizzata molto meglio e oltre a creare un vero e proprio servizio di bodyguard che facesse da scorta per le donne, occhi sempre svegli ti osservano in qualsiasi posizione tu sia. Così capita spesso che un gruppo di persone porti dentro una tenda ad un destabilizzatore di turno e lo faccia parlare, per sapere chi c’è dietro. “Non sono però i black bloc a tenere buona la piazza. O meglio, magari ci sono anche loro” mi spiega Islam. Difatti è un po’ un sentimento comune qui in piazza, la gente le boicotta le elezioni, ma prima che un capo di turno come El Baradei invitasse a farlo. I leader qui non sono troppo ben visti, “tanto che ogni volta che vengono e semmai si ricordano di farlo, vengono con decine di persone che le tengono lontani dalla gente. E come può parlarci con noi?” mi dice una giovane ragazza. Ma ci sono gli stessi attivisti dello stesso partito (Fronte di Salvezza Nazionale) di El Baradei in piazza, ma sono lì non in veste ufficiale perché riconoscono “come il partito sia molto lontano dalle esigenze della gente” mi spiega Mohammed. Il fenomeno black bloc è arrivato anche qui a quanto pare, ma in modi e maniere diverse. In Europa i famosi incappucciati sono chiamati i ragazzi antagonisti che si scontrano nelle prime linee contro la polizia. Qui invece sono nati con una cerimonia (con tanto di preghiera) molto altisonante, ma erano appena una ventina, poi l’idea si è diffusa grazie a facebook e al marchio di stile europeo, le bancarelle che stazionavano nei pressi della piazza hanno iniziato a vendere anche passamontagna, le tante voci che si susseguivano (sono pagati da Morsi per destabilizzare, sono quelli del vecchio partito di Mubarak, sono criminali,) e il gioco è fatto. Ma perlopiù il fenomeno è mediatico: i black bloc durante gli scontri fungono non di più che da vero e proprio servizio d’ordine, a uno di loro riesco a strappare poche parole che sono le solite che vengono lanciate come slogan nei loro social network in arabo: “questa è un’idea, e un’idea non può morire. Noi siamo qui per difendere il popolo egiziano”. Niente di anarco-insurrezionalismo come qualcuno ha provato a La prima volta che vedi la piazza, ti sembra che la Rivoluzione sia andata allo sfacelo, che sia finita in mano a qualche movimentino o a qualche ragazzo di strada, ai nasseriani sempre presenti con le loro tende in prima fila. Sembra che sia ridotta ad una partita di calcio, tra giovani che giocano a piedi scalzi e bambini che danno noia. Poi però vedi che dentro quelle tende c’è chi fabbrica maschere antigas con lattine, carbone e cotone e chi le protezioni con i tubi plastica, come per dire: noi saremo qui in attesa che la marea monti di nuovo … 13 Gli ultras, Port Said e un verdetto ancora in ballo Andrea Leoni | 5 marzo 2013 un migliaio i feriti. In tutto questo caos, come poi i video testimonieranno, i poliziotti presenti rimangono solo a guardare, non riescono o non vogliono contenere i gruppi di violenti che attaccano giocatori e tifosi dell’Al-Ahly, alcuni sostengono che la stessa polizia abbia aperto le barriere che separavano le due tifoserie. Successivamente il capitano dell’Al-Masry pubblicamente attacca la polizia e il suo operato. L’allenatore dell’Al-Ahly dice che il massacro era orchestrato. Chi c’era dietro la mattanza non si può ricercare dietro agli ultras locali, ma piuttosto si deve ricondurre a gruppi di criminali pagati da qualcuno e con il benestare e l’accordo della polizia. Port Said è una città militarizzata e sembra che tutto fosse già previsto: si doveva confezionare la vendetta agli ultras che resero Tahrir la piazza della Rivoluzione e i militari avevano un conto in sospeso. Avviene l’1 febbraio del 2012, il primo anniversario di tragici fatti del 2011 a Tahrir, quando dei criminali a cavallo, fecero irruzione nella piazza picchiando violentemente chi vi si trovava. Nell’inizio della rivoluzione del 2011 uno zoccolo duro dei manifestanti era costituito, al Cairo, dagli ultras dell’Al-Ahly, la squadra locale della capitale. Hanno giocato un ruolo fondamentale alla caduta di Mubarak, continuano a ricordare, ma ora, sotto l’era Morsi, gli ultras non hanno preso una posizione netta anche se i loro tamburi continuano a rimbombare durante gli scontri. L’Al-Ahly è la prima squadra del Cairo ed è un po’ come il Milan o la Juventus per gli italiani, i loro ultras sono molto caldi e furono molto attivi nelle prime proteste. Il calcio qui è il primo sport ed è molto seguito, come in Italia, gli ultras, sono organizzati, colorati e gli scontri contro la polizia erano frequenti (ora il campionato si svolge a porte chiuse). I murales e le scritte ultras riempiono le vie e talvolta, soprattutto a Port Said, si incontra qualche rimando all’Italia “Brotherood in Curva Sud” campeggia nella strada vicino al palazzo presidenziale al Cairo, “Libertà”, “Curva” o termini simili in tutta Port Said. Ad oggi i tifosi dell’Al-Ahly organizzano presidi, come quello che fu al Ministero degli Interni, ma un po’ si sono defilati ufficialmente come gruppo, anche se la loro presenza in piazza è costante. I loro nemici storici, oltre a quelli di Ismailia, sono gli ultras Green Eagles, della squadra di Port Said l’Al-Masry Club, la squadra fondata dopo la prima rivoluzione, quella del 1919. La rivalità è enorme, ogni volta non era solo un derby. Succede quindi che, durante il campionato egiziano, la Egyptian Premier League, l’1 febbraio del 2012, sono in molti a seguire il match tra le due squadre odiate l’Al-Masry e l’Al-Ahly, ma nessuno ha il minimo sentore di cosa stia succedendo. Le prime sentenze si sono pronunciate il mese scorso e contro dei giovani “presi a caso” nella tifoseria dei Green Eagles: 21 di loro dovranno subire la pena capitale. Nelle proteste davanti ai cancelli però si inscena un’altra protesta, che viene repressa dalla polizia in maniera violenta: 27 i morti. La polizia dice che qualche persona sarebbe stata fatta evadere dal carcere: “cosa che non sta ne in cielo ne in terra, noi sappiamo che ci sono nove porte da oltrepassare all’interno del carcere e come avremmo potuto fare? Una bugia bella e buona per sparare a innocenti” si difendono i cittadini di Port Said. Durante la lettura delle sentenze la polizia spara indiscriminatamente colpendo a morte anche persone che non rientrano neanche nella civile protesta che si stava inscenando. Ora Port Said è in subbuglio, è da giorni che molti cittadini chiedono verità e giustizia e subiscono ancora la violenta repressione della polizia. A guidare le proteste ci sono gli ultras locali che rimbalzano su facebook le notizie, le richieste e gli appuntamenti. Gli stessi che hanno organizzato un piccolo presidio, stile Tahrir, in una delle piccole piazze a pochi passi dal carcere e non troppi dallo stadio. La partecipazione è costante e numerosa: operai, ultras, studenti come anche lavoratori del canale e pensate, qualche militare, ieri, si è aggiunto alle proteste. Fra pochi giorni, il 9 marzo, saranno lette le altre sentenze sulla strage. I presupposti per un’altra Rivoluzione ci sono tutti: stavolta, però, da Port Said. Dai racconti di chi alla partita era presente, quella sera i controlli non c’erano: “C’era un clima di caos generale, tutti potevano entrare con coltelli, spranghe e bastoni senza che ci fosse nessun controllo. Si poteva entrare senza biglietto e per una partita del genere era una cosa stranissima” raccolta un giovane ragazzo. Uno striscione esposto dal settore locale, scritto in inglese, recitava: “stiamo per uccidere tutti”. La partita inizia con una mezz’ora di ritardo, la squadra locale subisce, è in svantaggio e a pochi minuti dal termine inizia il putiferio: un vero e proprio gruppo organizzato inizia ad attaccare i tifosi e i giocatori ospiti con spranghe, coltelli e bastoni. Il bilancio è tragico: 74 i morti, molti per colpi da arma da taglio, altri per commozioni cerebrali, 14 Quando il calcio non è più sport Redazione | 21 marzo 2013 Egitto Mohamed Morsi è presidente da ormai un anno. La Costituzione approvata da un referendum popolare sarà giudicata dalla Corte di Giustizia egiziana il prossimo 2 giugno ed ad ottobre saranno, forse, indette le elezioni per la composizione del Parlamento. Perché si scende ancora in piazza? Venerdì Tahrir ha ripreso i colori, le folle e le bandiere dei canti di rabbia degli inizi di rivoluzione, come se i due anni passati non avessero soddisfatto, ma deluso, come se i processi democratici non siano riusciti a trasmettere la carica dalla piazza alle istituzioni. Migliaia di egiziani hanno preso parte alla celebrazione del funerale di Salah Abdel Azim, la vittima numero quarantotto delle ormai tristemente note vicende di Port Said. Gli scontri di questo mese sono avvenuti dopo la condanna a morte di ventuno persone, giudicate responsabili dalle autorità egiziane dei fatti del Febbraio 2012, quando furono massacrati settanta tifosi della squadra di calcio Club Ahly. La maggior parte dei condannati sono tifosi invece della squadra di calcio Al-Masry, proprio di Port Said, luogo ormai simbolo del malumore egiziano e focolaio di nuovi movimenti di protesta. Il venticinquenne è rimasto vittima degli scontri con la polizia, infatti, Waleed al-Gamey’s, cugino della vittima, ha dichiarato di aver visto il parente essere stato colpito alle spalle da un cecchino delle forze governative. Piazza Tahrir si riaccende Lorenzo Giroffi | 19 maggio 2013 La polizia si tiene a debita distanza dalla manifestazione; la strada è transennata da sedie e tavoli rovesci; automobilisti impazziti, con la strada bloccata, scendono dalle vetture per cercare risse; motociclette con bandiere egiziane attaccate ovunque passano tra la gente; un grosso palco su cui si tengono discorsi ed incitamenti a nuovi cori; spari di pistola in lontananza. Sui muri che costeggiano l’area, vengono ricalcati o disegnati nuovi graffiti rivoluzionari, in ricordo dei martiri, degli attivisti arrestati e pieni d’insulti per il bersaglio preferito: Morsi. La campagna, che si è legata alla manifestazione di questo venerdì è denominata Tamarod (ribellione), che ha l’intento di raccogliere firme utili alle dimissioni del presidente, che fu votato, nel giugno dell’anno passato, da tredici milioni di egiziani. Al momento sono due milioni le firme raccolte, ma si prevedono grossi numeri per la campagna, già criticata però da un esponente dei Fratelli Musulmani, Ahmed Rami, che ha definito l’azione come un attacco alle libere elezioni e del referendum popolare espressosi favorevole alla Costituzione. Il Supreme Judical Council dovrà appunto giudicare quanto la religione influenzi il nuovo testo costituente e la Fratellanza ha già pronta una serie di critiche verso i giudici, a loro avviso ancora legati all’era del vecchio Rais Hosni Mubarak. Tamarod è stata appoggiata anche dall’attivista Ahmed Douma, al momento in carcere e per cui si sta scatenando un’altra ondata di sospetti nel Paese. L’avvocato di Douma, Sayed Fathi, è scomparso a seguito di un attacco cardiaco e sicuramente nella manifestazione di domani, in solidarietà dei sei attivisti arrestati e condannati a cinque anni, che si svolgerà dinanzi la corte di New Cairo, peserà anche questo episodio. Dal’inizio del 2013 sono già duemila gli arresti avvenuti per scontri politici. Tornando al fermento di Paizza Tahrir c’è da sottolineare la diversità di bandiere ed appartenenze ideologiche, che sono semplicemente stanche di essere controparte del potere e che vorrebbero essere parte di decisioni importanti. Ci sono foto del vecchio Nasser, cartelli di gente che ha votato i Fratelli Musulmani e che si sente delusa, ma soprattutto urla di chi sente il legame dell’incertezza politica con la povertà galoppante. In piazza incontro uno dei tanti rappresentanti di movimenti di protesta e di opposizione, Adel Salalideem, al quale chiedo perché si ritorna costantemente in piazza: Ash-shaʻb yurīd isqāṭ an-niẓām (la gente vuole la caduta del regime) questo il coro, che alternato ad altri, sento mentre m’infilo a Piazza Tahrir. Due anni fa quando tutto iniziò in Tunisia era lo stesso il motivetto, ma lì c’era ancora un regime da debellare in ogni angolo di società. Sono poi arrivate le elezioni, come qui. Sono iniziati i lavori per le nuove Costituzioni ed i Parlamenti a riempirsi delle parti politiche scelte dal popolo. In <<Questa manifestazione è contro il presidente Morsi perché pensiamo che dopo la rivoluzione i Fratelli Musulmani non si siano dimostrati una buona leadership per il progresso di questo Paese. Da un anno siamo in recessione, ogni cosa è in calo, quindi proponiamo subito, da giugno, di cambiare il presidente, affinché ci sia una persona che non appartenga a partiti o alla Fratellanza, ma che sia di tutto l’Egitto e che lavori per il Paese intero>>. 15 Quale è la colpa di Mohamed Morsi? <<Prima di tutto c’è il dramma economico, la lira sterlina egiziana è spaventosamente giù. Due anni fa, col regime, pur sempre indecente, di Mubarak un Egypt pound valeva 5,5 dollari, ora 1 Egypt pound vale 7 dollari. Inoltre ci sono problemi anche con la distribuzione di benzina, divenuta di colpa razionata. Alcuni distretti cittadini vengono privati dell’energia elettrica per molte ore della giornata. Senza dimenticare tutta l’area del Sinai, andata alla malora, con sequestro di soldati egiziani. L’Egitto merita un presidente forte, che sia equo con tutti. Qui c’è la stessa gente che ha portato alla rivoluzione, che è rimasta, anche dopo la caduta del regime, fuori dalle sfere decisionali e di potere. La Fratellanza ha attaccato la rivoluzione. Noi sappiamo cosa la Fratellanza ha dovuto subire dal regime, quindi rispettiamo tutti. Nessuna discriminazione di sesso o religione: pretendiamo le stesse opportunità per tutti>>. Il riferimento al Sinai è in merito alla perdita di controllo delle autorità egiziane, che hanno portato recentemente all’incremento di sequestri nella zona. Da registrare il rapimento di tre poliziotti e quattro militari, nel nord della penisola, a El-Arish. Nell’area sono spariti anche turisti ungheresi, israeliani e norvegesi, per la cui liberazione è stato chiesto il rilascio di leader beduini e jiahidisti in carcere. La chiusura dei valichi da Rafah, i razzi sparati, la scomparsa di stranieri: tutti fattori che rendono Gaza, da questa prospettiva di entrata, al momento troppo lontana. Intanto l’Egitto continua a riscaldare i canti e le azioni di rivoluzione, in attesa che essa porti le esigenze di tutti a rappresentare il Paese. Nairobi da un tetto del Cairo Lorenzo Giroffi | 26 maggio 2013 hanno ospitato è stato proiettato, su un tetto al quinto piano di un edificio in zona Maadi, Nairobi Half life. Il film di David ‘Tosh’ Gitonga, in lingua swahili, in alcune parti inglese, è il sogno di un giovanissimo artista di periferia, che si trasferisce nella capitale del Kenya, dove viene investito da tre milioni di persone, che corrono più forte della sua provincia e che non si radunano intorno a lui quando inizia una qualche esibizione od imitazione. Gli avvertimenti dalla realtà rurale si rivelano fondati: Nairobi per il piccolo (di statura e di età) Mwas si rivela da subito un inferno. Appena sceso dall’autobus viene derubato, poi, per un beffardo equivoco, si ritrova nelle celle super affollate della capitale, dove spala escrementi ed insulti. Come nelle migliori favole ruvide, dietro le sbarre trova la sua guida negli inferi, che gli propone un posto dove chiedere aiuto: una volta fuori deve dirigersi verso il quartiere denominato Gaza. L’esperienza in carcere dura poco e Mwas segue il consiglio, che gli permette di iniziare un lavoro umile, ma che può rimediare ad un guaio scaturito dal furto subito. Il profeta conosciuto in carcere, una volta in libertà, si ritrova anche lui nel quartiere Gaza e nota subito la scaltrezza di Mwas, costringendolo a lasciare il lavoro da lavapiatti, per farlo diventare membro della sua gang. La microcriminalità diventa il perno della storia, con gli stereotipi della società che appaiono forzati, ma forse necessari all’architettura dello scenario, per chi vive in posti lontani. Sembra infatti un film rivolto ad un pubblico non di certo africano (la produzione è in parte tedesca), ma la maestria degli attori e la forza della fotografica, con musiche che tuonano ed azioni veloci, rendono la pellicola esteticamente piacevole. Il protagonista arrivato dalle periferie si ritrova nel limbo, perché col carisma riconosciutogli dalla gang, inizia a proporre affari sempre più grandi, creando faide tra bande, ma è anche riuscito a perseguire il suo sogno di attore, entrando in una compagnia teatrale che l’ha ingaggiato. Le prove da attore però devono restare all’oscuro della banda, ormai divenuti tutti amici, perché lo squallore di quella vita merita la sua dignità e, tra i bordelli dove lavora la fidanzata del capo e le pistole da lucidare, il teatro forse spaventerebbe. La grossa messinscena si perde poi in un finale forse scontato, ma che dà allo spettatore un altro spiraglio della società keniota: la violenza della polizia. Il film finisce. Resto con l’Egitto e la conca di complessi problemi, aspettative accatastatesi ed in fermento postrivoluzione. L’Egypt Supreme Constitutional Court ha espresso parere negativo rispetto agli slogan religiosi in campagna elettorale, perché potrebbero destabilizzare le cognizioni dell’elettore. Sembrano inasprirsi ancora di più così i rapporti tra i Fratelli Musulmani ed i giudici. Le notti della capitale egiziana si somigliano ai giorni per gli stessi rumori, l’incredibile flusso di persone che in maniera scoordinata calpestano le strade, urlano ad un taxi, sfiorano le risse. Tra il giovedì ed il venerdì si condensano incredibili eventi diversi tra di loro. Girando un angolo e poi un altro del marciapiede ci si può immedesimare nel coro di differenti manifestazioni: tutti a richiedere qualcosa. Il canto incessante che veste la città di religione, le vetrine illuminate d’occidente, i bambini di strada che instancabili ti salgono sui passi. Una rassegna di cinema africano, African movie week, si ripara dai rumori della città in un edificio che sperimenta la formula del coworking. Il nome del collettivo è The District, la sera che mi Un recente piano, reso pubblico dal presidente Mohammed Morsi, proporrebbe una modifica dell’età pensionabile per i giudici, facendola scendere da 70 a 60 anni. In questo modo tredicimila giudici potrebbero smettere di operare, soddisfacendo parte della Fratellanza, che critica parte della magistratura, perché ancora legata al vecchio regime. Tra una questione interna ed un occhio verso gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale, Morsi, durante il meeting dell’African Union, ha mantenuto i dialoghi con John Kerry, segretario di Stato degli Stati Uniti, quest’ultimo sicuro che i 4,8 miliardi di dollari di prestito siano necessari per l’Egitto. Il sostegno finanziario sarebbe sicuramente vettore di altri 16 condizionamenti per il Paese, che deve anche relazionarsi col problema della perdita di controllo del Sinai e quindi anche del relativo valico di Rafah verso Gaza. Questo è stato riaperto mercoledì, dopo la chiusura per lo sciopero dei poliziotti in agitazione per il sequestro dei sette colleghi misteriosamente rilasciati. Misteriosamente perché ancora non ci sono state rivendicazioni dei sequestratori, con cui il Governo egiziano aveva assicurato di non voler condurre alcuna trattativa: chi ha condotto la trattativa, su quali sospettati si sta indagando? Domande che per ora l’Egitto ha preferito rispondere con l’intensificazione della presenza militare nella penisola del Sinai e la missione di dieci giorni dell’associazione salafita Ansal al-Sunna, inviata da Morsi per un dialogo con i capi tribù beduini del Nord e del Sud dell’area, così che possa in qualche modo avvenire uno scambio di esigenze ed arrivare alla cessazione dei disordini. tempo di Mubarak non si poteva vendere per le strade abusivamente”. Che stanno nascendo “nuovi” modi di protesta e non nuove sigle o fenomeni marginali ai quali la stampa da un rilievo che non meriterebbero (tipo i black bloc), molte città si stanno mobilitando e la partecipazione è sempre enorme. Il Sinai verso la Palestina è in questo periodo intasato da azioni militari ed incongruenze geopolitiche divenute difficilissime da seguire. Un amico mi chiedeva “ma com’è ora la situazione in Egitto?” E’ complicata, scontri permanenti al Cairo, piazza Tahrir continua a difendersi, le donne vengono stuprate come “gesto politico” (ma che se ne parli come problema è già sintomo di un cambiamento), i bambini di strada vengono assassinati e torturati (ma che si parli della tortura già è un cambiamento, vedi anche in Italia), l’arroganza e la violenza della polizia è quotidiana, i rapimenti di attivisti, di donne o di bambini sono quasi prassi, la povertà aumenta, ma anche i privilegi. A Port Said l’ingiustizia è sovrana. Morsi, nel frattempo, ha indetto nuove elezioni e poi le ha spostate perché coincidevano con la festa copta, l’opposizione le ha boicottate e ora sarebbero bloccate per una legge elettorale. Il Fronte di Salvezza Nazionale non raccoglie nessun consenso in piazza (ma magari El Baradei qualche follower da qualche occidentale), i Fratelli Musulmani hanno organizzazioni quasi paramilitari e stanno costituendo un potere sempre più radicale mentre i salafiti stanno facendo il doppio gioco (anche un po’ per ripulirsi la faccia). Poi c’è pure una crisi e il Fondo Monetario Internazionale di mezzo e ora i tunnel per i palestinesi saranno buttati giù. Questo e molto altro succede in Egitto, magari con qualche foto si capisce meglio il tutto… Ramallah, Nablus, Gaza, Gerusalemme ed Harifa hanno però, fino al 31 maggio, rinnovato l’appuntamento col Palestine Festival of Literature, creato dallo scrittore egiziano Ahdaf Soueif, che trasforma la Palestina in un palcoscenico per scambi letterari e workshop. Egitto, una rivoluzione dopo una rivoluzione Andrea Leoni | 19 marzo 2013 Ora c’è un altro tiranno da buttar giù, mi hanno detto in molti, e alla fine chi governa ora il Paese è chi sta tutelando gli interessi di pochi, o meglio, di una casta: proprio come faceva il suo predecessore. Tutto ciò trova conferma negli ultimi scontri dell’altro giorno, dove centinaia di attivisti si sono ritrovati per contestare i Fratelli Musulmani che avrebbero aggredito dei giornalisti. A difesa della libertà di stampa sono scesi con le pietre. Gli scontri, negli ultimi giorni, sono stati sempre più frequenti e sono ricominciati per giorni alla Corniche vicino Piazza Tahrir (riaperta per un giorno neanche). Molti esperti in parecchi campi sono intervenuti cercando di riassumere la storia di un Paese che ha attraversato moti di rivolta e che li continua a vivere in una definizione: primavera araba. Se per wikipedia e per chi deve vendere il proprio libro/compendio/storiellina la Rivoluzione in Egitto è durata un anno (o meglio, diciotto giorni), per il popolo no. Anzi. E’ ovvio che le mobilitazioni non sono paragonabili a quei giorni del 2011, ovvio che a Piazza Tahrir non ci sono molte componenti sociali e che al limite sono proprio cambiate. E’ vero che i Fratelli Musulmani stanno svolgendo un nuovo ruolo, che si sono “istituzionalizzati”. Ma è anche vero che il malcontento persiste, che il povero e lo sfruttato sono sempre a piedi scalzi che girovagano per le strade e che libertà non è sinonimo di “al 17 le attività delle Ong. Il link del fotoreportage: http://firstlinepress.org/fotogallery-egitto-una-rivoluzionedopo-una-rivoluzione/#prettyPhoto[slides]/0/ Una legge minaccia le Ong in Egitto Ora Morsi intende continuare sulla linea del suo predecessore proponendo un progetto di legge che intende “imbavagliare” le Ong secondo quanto ha dichiarato il capo dell’ufficio di Human Rights Watch in Egitto, Heba Morayef. La proposta di legge permetterà al governo egiziano di intervenire in quasi ogni aspetto della vita di una ong: dalla composizione e l’elezione dei membri del consiglio fino alle loro competenze e al loro orientamento politico. Oltre a considerare le Ong come istituzioni dello Stato e i loro dirigenti e membri come funzionari statali, la legge prevede controlli amministrativi e finanziari a cadenza bimestrale e istituisce un rigido processo di registrazione per le Ong. Verrà istituito un comitato composto da 9 membri che sarà incaricato di approvare la registrazione delle Ong e potrà rifiutare la registrazione di quelle organizzazioni considerate in contrasto con i “bisogni” della società egiziana. Insomma un vero e proprio attentato alla libertà di espressione e di organizzazione della società civile egiziana che teme che l’approvazione di questa legge possa decretare la nascita di un nuovo stato di polizia, ancora più repressivo di quello precedente. Se la proposta dovesse diventare legge le Ong in Egitto avranno vita dura, se non impossibile. Redazione | 29 maggio 2013 “Tutti i difensori dei diritti umani in Egitto continuano a subire processi” Intervista a Rawda Ahmed Lorenzo Giroffi | 19 giugno 2013 Il presidente egiziano Mohamed Morsi ha inviato al consiglio consultivo, la camera alta del Parlamento, la proposta di legge sulle Ong. Una legge che, si teme, possa paralizzare la società civile egiziana. Nonostante le parole pronunciate da Morsi oggi nel corso di una conferenza sulle organizzazioni non governative in cui si è dichiarato consapevole dell’importanza delle Ong e del ruolo che esse svolgono nel promuovere lo sviluppo del paese, la legge che la camera alta del parlamento si appresta ad approvare ridurrà drasticamente la libertà di azione di oltre 41.000 organizzazioni non governative che operano sul territorio egiziano. La legge, infatti, permetterà al governo di intervenire nelle attività e nella gestione delle organizzazioni della società civile e di controllarne i finanziamenti. In questo modo, come hanno fatto notare diversi critici, tutte le Ong egiziane diventeranno parte integrante dell’apparato statale egiziano perdendo totalmente la loro indipendenza. Le interferenze del governo egiziano nelle attività delle ong non sono nuove: Mubarak durante il suo regime aveva fatto largo uso della legislazione repressiva per scoraggiare le organizzazioni della società civile che denunciavano le frodi elettorali, gli abusi e le torture. Nel 2002 era stata approvata la legge 86, aspramente criticata per aver affidato allo stato il controllo sulla creazione e L’Egitto ha un substrato di desideri ed una spinta emotiva che a tratti si sono già trasformati in disillusione, ma che comunque pulsano e che sono tangibili in ogni angolo di strada. La nuova Costituzione, gli apparati di potere, i legami col vecchio regime, la nuova egemonia dei fratelli Musulmani e la difesa dei dritti umani. Tutti temi che proveremo ad analizzare con diverse personalità, perché l’Egitto può davvero essere una sorta di cartina di torna sole, riconoscendone tutte le differenze, per chi vuole costruire mattone per mattone un nuovo tipo di società. Partiamo dalla legge e dagli ultimi strumenti di essa, volti a tutelare la voglia di libertà dopo anni di dittatura. Rawda Ahmed, avvocato a capo dell’Arabic Network for Human 18 Rights Information, è una giovane che può al meglio rappresentare il sentimento di una generazione che mette a servizio dei desideri della rivoluzione il proprio sapere. La sua attività e quella del gruppo di legali col quale lavora è affianco di tutti gli attivisti, i bloggers, i protestatari ed i difensori dei diritti umani che si sono trovati sul proprio groppone un processo od accuse della Corte di Giustizia. generiche comunque sono di appartenere ad un gruppo violento e di aver insultato i Fratelli Musulmani, ma comunque c’è un grosso buco nero sulla reale definizione dei reati>>. Rawda Ahmed prova a farci capire quali limiti deve affrontare la società egiziana, anche post-rivoluzione, nei confronti di una legge ancora poco propensa alla tutela della libertà d’espressione. La incontro nella Downtown infuocata del Cairo, in uno di quei palazzi che ha iniziato ad ospitare associazioni di ogni genere, in cui tutti sono volenterosi di cambiare la quotidianità del Paese e magari scendere in piazza il venerdì. <<In realtà ci sarebbero molte modifiche da fare, perché anche lo stesso lavoro degli avvocati non rispetta la legge, ma il volere politico. All’interno della Corte di Giustizia operano ancora giudici e pubblici ministeri legati al vecchio regime. A loro fa comodo tenere questi standard di accuse contro ad esempio i Black Bloc, così possono controllare e reprimere gli attivisti o comunque i dissidenti di ogni genere. Noi abbiamo portato avanti proposte per migliorare il sistema, ma al momento non abbiamo ricevuto risposte>>. Cosa è cambiato per la libertà di espressione dopo la rivoluzione del 2011? <<La libertà prima della rivoluzione era sicuramente in uno stato pessimo, ma dopo la caduta di Hosni Mubarak non è che sia cambiato molto. Prima della rivoluzione il lavoro nel campo dei diritti umani era perseguitato. I bloggers e gli attivisti dovevano subire processi: proprio come ora. Tutti i difensori dei diritti umani continuano a subire processi. L’unica differenza è che ora gli attivisti lottano con decisione per il rispetto dei loro diritti. Prima della rivoluzione c’era il divieto dichiarato della libertà d’espressione in Egitto, ma dopo di essa ci sono stati nuovi casi di persecuzione, come il reato d’oltraggio, con procedimenti a carico di chi ha insultato il presidente eletto Morsi: per questa ragione l’attivista Ahmed Douma sta subendo un processo. Anche l’opinione pubblica è deviata da questi processi, perché ad esempio si concentra sui procedimenti penali contro i Black Bloc, pensando che quel gruppo di attivisti sia la causa principale di tutti i problemi in Egitto>>. Si cercano sempre complicati parallelismi tra i Black Bloc in Egitto e quelli che hanno operato negli ultimi anni in Occidente. Tuttavia le loro azioni sembrano molto diverse. Puoi raccontarmeli e soprattutto in che modo la legge egiziana li contrasta? <<I Black Bloc sono un gruppo di persone (riconoscibili per i volti mascherati) che va per strada, principalmente per difendere i manifestanti dalle violenze della polizia e di frange che non hanno nulla a che vedere con gli intenti di piazza, ma agiscono anche per evitare le violenze sessuali sulle donne che si trovano in corteo e che spesso sono prese di mira. Quindi noi come avvocati siamo rimasti sorpresi dell’arresto di alcuni dei Black Bloc, viste le loro intenzioni. Il Ministero degli Interni tratta loro come se non fossero persone. Le indagini sono condotte senza alcun rispetto. Viene setacciato tutto il materiale internet, da Twitter a Facebook e vengono coinvolte tutte le persone che hanno roteato attorno a gruppi di protesta. La polizia compie vere e proprie retate in casa ed arresta i sospettati. Ci sono violazioni dei diritti per questi processi, perché in pratica questi non ci sono. Dopo l’arresto si fanno subito i conti con le accuse: in prigione da sospettati. Al momento ci sono otto arrestati definiti dalle autorità come appartenenti ai Black Bloc>>. Generalmente quali tipi di accuse e quali procedimenti penali devono subire gli attivisti arrestati in Egitto? La legge egiziana al momento ha gli strumenti necessari per difendere il lavoro degli attivisti, dei giornalisti, degli avvocati e di tutte le persone vogliose di esprimersi liberamente? Nelle lacune che racconti quanto può incidere la nuova Costituzione? Quanto questa potrà diventare garante di libertà? Quali invece i passaggi a vuoto che rappresenta? <<La nuova Costituzione è una parte della nuova società, quella che ha potuto lavorare ad essa, ma c’è stata anche una bella fetta che ne è stata esclusa. Questo è il grande problema, perché non garantisce la libertà di tutti, perché non tutto il popolo egiziano ha potuto lavorare all’elaborazione della Costituzione. Questo nuovo testo non rispetta le ambizioni della società egiziana. È lontana dalla libertà d’espressione, che viene repressa. Per fare in modo che vengano applicate le leggi di libertà, deve essere modificata questa Costituzione, perché il suo punto di vista fa perdere tempo alle richieste di libertà e dignità scaturite dalla rivoluzione>>. La rivoluzione impressa nei muri egiziani Andrea Leoni | 19 marzo 2013 Alcune anteprima degli scatti del foto-reportage, consultabile per intero al seguente link: http://firstlinepress.org/la-rivoluzione-impressa-nei-muriegiziani/#prettyPhoto <<Al momento non sono chiare le accuse contro gli attivisti tratti in arresto. Il tutto è poco chiaro e molte volte il Pubblico Ministero compie rettifiche continue sul singolo caso. Le accuse 19 20 manifestanti e brutale repressione che non ha risparmiato proprio nessuno: bambini uccisi e donne stuprate. Il bilancio di un anno possiamo definirlo disastroso per l’era Morsi e ciò è testimoniato da troppi episodi. Ancora una volta, una parte privilegiata degli egiziani (i Fratelli Musulmani) si ritrovano in vere e proprie guerriglie contro un’altra parte della società che è ostile al governo. Scene raccapriccianti come l’assedio al palazzo presidenziale in cui il palazzo viene difeso non solo da militari e polizia ma anche da squadre paramilitari legate al partito di governo, aggressioni con pistole contro gli oppositori (che vengono rapiti) commesse dagli stessi gruppi legati ai Fratelli Musulmani, un clima da guerra civile a bassa intensità. Le violenze non si fermano: negli scontri settimanali a Mahalla e Kafr El-Sheikh si sono opposti “uomini barbuti” come riporta il quotidiano egiziano Ahram Online con oppositori a Morsi (due ragazzi, di cui uno di 12 anni sarebbero rimasti gravemente feriti) L’Egitto in attesa del discorso di Morsi e del 30 giugno Andrea Leoni | 25 giugno 2013 Il 30 giugno prossimo, Mohamed Morsi, compierà il primo anno di mandato alla guida di presidente dell’Egitto, fu votato da più di tredici milioni di persone. Alla sua vittoria caroselli e festeggiamenti impazzavano per le strade del Cairo, Tahrir era in festa anche perché gli stessi Fratelli Musulmani erano parte integrante delle proteste che riuscirono a destituire Hosni Mubarak. I Fratelli Musulmani fino a quel momento furono l’unica opposizione negli anni più o meno riconosciuta (venne brutalmente repressa in alcuni periodi dell’era Mubarak), e ciò ha dato sempre un enorme vantaggio a Morsi e al suo partito nei confronti degli altri schieramenti d’opposizione: il forte radicamento si riscontrava un po’ dappertutto nelle zone rurali. Morsi si presentò con vari obiettivi, primo tra tutti ridare la “dignità” agli egiziani dopo anni di dittatura: diritti per tutti e tutte (anche per le donne, e ciò era inserito anche in un punto programmatico) e indipendenza da qualsiasi altro apparato, religioso (anche se il partito si ispirava alla legge islamica) e militare. Così non è stato: uno dei momenti di rottura “ufficiali” è stato il decreto con il quale Morsi si è attribuito poteri giudiziari, la situazione per molti egiziani ed egiziane non è migliorata, la tanto declamata “libertà di opinione” non si è mai vista e piazza Tahrir si è riempita di nuovo. Come la famigerata piazza del Cairo anche molte città del Paese hanno visto scendere in piazza milioni di persone: ancora una volta giorni di scontri (come quelli famosi dello scorso anno a Tahrir e al palazzo presidenziale o quelli legati alla “vicenda calcistica” di Port Said), uccisioni di Ad un anno da tutto ciò la gente è ancora decisa e pronta per scendere in piazza, si parla del “30 giugno” da troppo tempo, e mentre venerdì scorso (un’altra manifestazione del genere si svolgerà questo venerdì) le piazze si sono riempite di manifestanti filo-governative (salafiti inclusi), domenica prossima si aspettano milioni di persone che invaderanno le strade di qualsiasi città in Egitto. In piazza ci si aspettano quelli e quelle della campagna Tamarod appoggiata da shyfeencom, dal movimento Keyafa, dal Fronte di salvezza nazionale e dal Movimento 6 aprile, ma anche dagli sciiti che hanno segnato 100mila firma delle 15 milioni che era l’obiettivo per il 30 giugno appunto. In tutto questo clima da guerra civile, ad alzare la tensione c’ha pensato l’esercito. Con un avvertimento il Ministro della Difesa (nonché capo delle forze armate) Abdel Fatah el Sissi ha fatto sapere che l’esercito non rimarrà a guardare la caduta del Paese in un “conflitto incontrollabile”, i militari sono stati sempre dalla parte del popolo e hanno sempre combattuto per la volontà del popolo ha sottolineato. El Sissi ha detto pure che se fin’ora gli apparati militari si sono tenuti fuori dalla politica, avrebbero comunque sia la responsabilità “morale” di intervenire per evitare qualsiasi entrata in “tunnel oscuri”. Nell’analisi dello stato del paese il capo delle forze armate ha sottolineato la “divisione” del popolo stesso, un discorso che ha diffuso parecchia preoccupazione. I militari, c’è da ricordarlo, sono stati determinanti nella Rivoluzione del 2011 e sono intervenuti anche a margine di guerriglie successive (come quelle derivate dalla “disubbidienza civile” a Port Said), sono molti peraltro gli episodi che testimoniano la contrarietà tra loro e la polizia (e ciò è anche dato dal fatto che la leva è obbligatoria per tutti). La risposta ai militari da parte del portavoce del presidente Morsi, Ihab Fahmy, è stata secca e stizzita: “c’è un presidente che governa il Paese in maniera democratica, a seguito di elezioni democratiche. Non possiamo immaginare che l’esercito possa tornare. L’esercito ha un solo compito: proteggere i confini e garantire la sicurezza delle istituzioni strategiche. Non c’è alcun ruolo politico per l’esercito”. Gli stessi vertici del governo hanno ulteriormente reso l’aria più tesa quando (anche se non è la prima volta) i corrispondenti stranieri al Cairo hanno ricevuto una convocazione al palazzo presidenziale proprio in vista del 30 giugno. A tutto ciò vanno aggiunte le altre notizie non poco rilevanti: Ahmed Shafiq, uno dei concorrenti alle elezioni che hanno decretato la vittoria di Morsi ha fatto ricorso sostenendo che i Fratelli Musulmani avevano preparato già delle schede 21 prestampate per il voto (e il suo avvocato dice di avere le prove), il termine dell’archiviazione non decade dal momento in cui “sorgono nuove prove”, quindi il ricorso di Shafiq è ancora in tempo spiega ancora l’Ahram Online. Le proteste a seguito della nomina (decisa da Morsi) del nuovo governatore di Luxor, l’esponente del movimento integralista Jamaa Islamiya, Adel el Khayat, hanno trovato riscontro, infatti dopo che molti manifestanti avevano impedito l’accesso nel suo ufficio, el Khayat si è dimesso. Essendo il governatorato un luogo peraltro molto fertile di turismo, era impensabile secondo i manifestanti che a capo di questa regione ci possa essere un membro della Jamaa Islamiya uno dei gruppi accusati dell’attacco del 1997 in cui rimasero vittime ben 58 turisti. Non ultimo il brutale attacco in un villaggio appena fuori dal Cairo nella provincia di Giza: quattro sciiti sono stati pestati nelle loro case a morte da migliaia di sunniti dopo che quest’ultimi li avevano invitati a lasciare il villaggio entro il tramonto. Tutto ciò per motivi religiosi. indisponibilità inerente a tale ipotesi e così le manifestazioni, che non hanno mai smesso di cadenzare la vita quotidiana egiziana, si sono ritrasformate in violenze, con nemici da individuare dall’altro lato della strada. I sostenitori della Fratellanza sono scesi anch’essi armati in strada, per contrastare tutti i sostenitori della campagna Tamarod, che invece continuano con fermezza a volere nuove elezioni. In queste ore il Paese vive in un limbo. I vertici militari avevano dato un ultimatum al presidente Morsi per risolvere gli squilibri di ordine pubblico di questi giorni, perché, in caso di incapacità, l’esercito, senza chiarire in che termini, ha dichiarato di voler intervenire. L’Egitto è già stato teatro di colpi di Stato militari, che hanno poi consolidato il regime per anni, dunque lo scenario non è rassicurante. Mohamed Morsi ha incontrato uno dei maggior esponenti dell’esercito egiziano, Abdel-Fattah el-Sissi, assieme al Primo Ministro Hesham Kandil, fino poi, qualche ore fa, dichiarare di non voler rispettare l’ultimatum decretato dall’esercito. Intanto nelle ore di proteste viene usata ancora la violenza sulle donne come atto politico di destabilizzazione. Dal 2011 ad oggi sono state molte le manifestazioni volte a far sentire le donne meno sole, più consapevoli del fatto che ogni diritto reclamato non possa trasformarsi in un bersaglio contro di loro. Voci dal Cairo [parte 3] Le violenze sulle donne come gesto politico Lorenzo Giroffi | 2 luglio 2013 Dal 25 maggio 2005, quando la giornalista Mona Eltahawi, durante una manifestazione contro il dittatore Hosni Mubarak, fu assaltata dalla polizia, arrestata, picchiata e violentata, ogni anno, in questa data, associazioni e cittadini liberi si organizzano dinanzi la sede del sindacato dei giornalisti presenti al Cairo, per ricordare la brutalità di quell’episodio e debellare la consuetudine delle molestie sessuali contro le donne. Nel video segnalato, realizzato al Cairo, Abeer Saddy, vice presidente del sindacato egiziano dei giornalisti, e Miriam Kirollos, attivista dell’Organizzazione Anti-Sexual Harassment/Assault, spiegano le lacune legislative in merito alle punizioni su chi commette tali violenze, ma anche le proposte che vengono dalla ventata rivoluzionaria. Restando sulla cronaca di questi giorni e ripercorrendo le stime dell’Egyptian Center for Women’s Rights, che rintraccia la percentuale dell’83% per le donne egiziane che hanno subìto, almeno una volta nella loro vita, molestie sessuali, in queste ore, durante ed a seguito della grossa manifestazione di domenica 30 giugno, sarebbero stati già 46 i casi di violenza sessuale contro donne che si erano riversate in piazza per protestare. Il video è disponibile presso il canale youtube FirstLinePress al seguente indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=taRdO0Ckxx0 L’Egitto dal 25 gennaio 2011 non ha mai smesso di sentire la responsabilità di esprimere il proprio dissenso, scendendo in piazza affinché i diritti, i sogni e le ambizioni della rivoluzione fossero rispettati. Naturalmente i numeri, per una maggiore certezza, dovranno essere confermati dopo che saranno raccolte tutte le denunce ed i medicamenti presso le strutture ospedaliere. Intanto l’ Op AntiSexual Harassment/Assault, che si organizza con tanti volontari ad ogni manifestazione, per formare presidi che danno assistenza a donne prese di mira, conferma le 46 vittime, tutte molestate a Piazza Tahrir del Cairo. Il partito liberale di opposizione, The Free Egyptian Party, ha dichiarato che queste violenze sono orchestrate dal Governo per delegittimare e spaventare ulteriormente i protestatari. Nelle ultime manifestazioni sono oggetto di violenza anche le donne accompagnate da uomini. Questi giorni il tutto si è amplificato, perché il terreno dello scontro si è spostato su di una richiesta specifica verso una parte politica: le dimissioni del presidente Mohamed Morsi. I Fratelli Musulmani hanno da sempre dichiarato la loro 22 Il discorso di Morsi e le incertezze che proseguono in Egitto disposto a sacrificare me stesso”. Il suo discorso era seguito sia dalle folle che in gola avevano canti denigratori ed immagini offensive verso di lui, che dai suoi sostenitori, in piazza con testi sacri e baci per l’effigie del presidente. Gli oppositori, che sono arrivati al culmine della protesta dopo la raccolta di ventidue milioni di firme, finalizzate alle dimissioni di Morsi, si avvalgono della benedizione del premio Nobel Mohamed ElBaradei. Redazione | 3 luglio 2013 Egitto: il dopo-Morsi, l’esercito e la fase due della rivolta 23 morti, 100 casi di molestie sessuali ed interconnessioni di potere saltate. In questo scenario si è inserito il discorso di ieri sera del presidente egiziano Mohammed Morsi. Frasi poco incisive da un punto di vista politico, ma dirette ai sentimenti degli egiziani: nessuna linea politica; ammissione di alcune colpe; elogio della democrazia che l’ha portato ad essere eletto; mano tesa a tutte le istituzioni del Paese, compreso l’esercito. Quest’ultimo è stato velatamente ammonito dal presidente, che ha dichiarato: “Chiunque s’intrometterà nel processo democratico avrà sulla coscienza i desideri degli egiziani”. L’atteso discorso, scaturito dalla scia delle proteste, che vedono le strade piene di scontri tra chi sostiene questo Governo e chi invece chiede nuove elezioni perché insoddisfatto, ha avuto il suo il perno centrale nella legittimazione della nuova Costituzione e quindi della elezione di un anno fa. In pratica è stato bypassato da Morsi l’invito dell’esercito a trovare soluzioni con l’opposizione od a concedere le dimissioni, perché il presidente vuole si un dialogo, ma che parta comunque dal riconoscimento del suo ruolo di guida. A supportare tale posizione tutti i vertici dei Fratelli Musulmani, che rassicurano i loro sostenitori parlando di una strategia già pronta nel caso ci fosse un intervento dell’esercito. Morsi ha chiesto a tutte le opposizioni di dialogare, ma ha chiesto anche ai manifestanti di non schierarsi contro la polizia e l’esercito, perché componenti fondamentali del Paese: “La violenza e lo spargimento di sangue aiutano solo i nostri nemici”. La crisi economica, che già investiva il Paese, con gli ultimi episodi di violenza non ha fatto altro che progredire, con il prezzo del petrolio che ha raggiunto velocemente prezzi altissimi, arrivando sino a 102 pound a barile. Mentre gli attacchi alle donne in piazza continuano e le violazioni dei diritti umani, in tale scenario di incertezza, aumentavano, il presidente Morsi dichiarava: “Se il prezzo per difendere la legittimità democratica è il mio sangue allora sono Redazione | 4 luglio 2013 Difficile analizzare degli avvenimenti a caldo, quando la situazione è ancora fluida e le notizie si susseguono veloci. Quello che si può fare, tuttavia, è tracciare una mappa, una panoramica dei vari fatti e delle questioni aperte in quel gran calderone caotico che è la situazione egiziana di queste ultime ore. Partiamo riprendendo le fila degli accadimenti, con una rapida successione dei fatti. Domenica 30 giugno è stata una giornata di enorme mobilitazione da parte della popolazione egiziana, come vi abbiamo raccontato. Dopo questa data, che entrerà nella storia come una delle più importanti, tanto da dare il nome anche al Fronte unito dell’opposizione – chiamato appunto “30 giugno” e includente tra gli altri il gruppo Tamarrod, promotore della mobilitazione, musulmani, copti, laici e i seguaci di Muhammad El-Baradei, nominato portavoce – lunedì 1 luglio l’establishment militare lancia un ultimatum ufficiale: entro 48 ore, ossia le 18 di mercoledì 3 luglio, il presidente della Repubblica Araba d’Egitto Muhammad Morsi deve dare un segnale di apertura alle piazze egiziane e all’opposizione che lo contestano, facendosi da parte e 23 trovando soluzioni in nome della riconciliazione nazionale. Martedì 2 luglio arriva, in serata, il discorso di Morsi, che annuncia con determinazione la sua volontà di restare in carica, aprendo all’opposizione, ma solo lasciando intatta la sua presidenza legittimata da un “processo democratico” passato per le elezioni presidenziali-parlamentari e per un referendum di approvazione della nuova Costituzione. Si arriva poi al fatidico giorno, mercoledì 3 luglio. Dopo una serie di indiscrezioni che già dal primo pomeriggio parlavano di destituzione e di arresti domiciliari per Morsi, arriva l’annuncio ufficiale sul canale nazionale. Il Ministro della Difesa e comandante in capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) ‘Abd al-Fattah alSisi annuncia la rimozione di Morsi dalla presidenza per non aver adempiuto al suo dovere di esaudire le richieste della nazione. Dichiara inoltre temporaneamente sospesa la Costituzione recentemente approvata e illustra una roadmap per il futuro del Paese. ‘Adly Mansour (foto in alto), presidente della Corte Costituzionale (in carica da domenica scorsa, dopo esserne stato vicepresidente e dopo aver lavorato come giudice per anni, sia sotto Mubarak che sotto Morsi) è scelto come presidente ad interim. A giorni verrà formato un nuovo governo “inclusivo”, altamente rappresentativo delle diverse correnti, oltre a dei comitati (altrettanto variegati) in grado di elaborare degli emendamenti alla Carta costituzionale sospesa. A seguito di rapide riforme costituzionali, verranno indette nuove libere elezioni, sia presidenziali, che parlamentari. Stamane Mansour ha prestato giuramento, parlando di unità nazionale, di spirito della “rivoluzione guidata dai giovani” da seguire, di obbedienza all’unico Dio e non a “presidenti tiranni” venerati come semidei. Così, l’ondata di rivolte cominciata il 25 gennaio 2011, troppo frettolosamente chiamata “primavera” egiziana (e mai realmente terminata), vive oggi una “fase due”. Il regime figlio (solo cronologicamente) di quell’esperienza è fallito e caduto dopo appena due anni e gli egiziani sono in attesa di vederne nascere un altro, stavolta figlio di quel 30 giugno 2013 che – stando alle parole di Mansour nel suo discorso d’insediamento – avrebbe “corretto” il 25 gennaio. L’ennesima transizione che un Egitto in panne deve vivere. L’opinione pubblica sembra essere divisa tra chi saluta con favore la mossa dei militari, che avrebbero attuato le volontà di una nazione in piazza (è quello che dice anche il Fronte di Salvezza Nazionale, che ieri ha incontrato le Forze Armate alla presenza del rettore di Al-Azhar e del Patriarca copto), e chi invece grida al “golpe militare”contro una coalizione islamista al potere democraticamente eletta. La verità, probabilmente, sta nel mezzo. E’ un fatto che Muhammad Morsi è stato il primo presidente legittimato dal voto popolare nella storia dell’Egitto indipendente. Malgrado la non facile gestione delle elezioni, che sono avvenute a scaglioni nell’arco di vari mesi e con procedure farraginose, la consultazione si è svolta sostanzialmente in libertà e senza particolari brogli o turbamenti. Che i Fratelli Musulmani godano di grande consenso nel Paese è un dato di fatto. La Società ha una lunga storia nel Paese, e dal 1928 ad oggi, con varie vicissitudini, ha costruito un sistema di welfare e di servizi alternativo (approfittando delle disastrose politiche neoliberiste imposte da Banca Mondiale e Fondo Monetario, che Sadat e Mubarak hanno accettato togliendosi il cappello di fronte agli Stati Uniti) che significa anche un enorme bacino di voti. Gli Ikhwan (i “Fratelli” in arabo) hanno acquisito da anni un enorme potere prima nelle associazioni di categoria, negli ordini professionali e nei sindacati, lasciati più liberi dalla repressione nei loro confronti condotta da Nasser in poi (oltre che nella società e nell’economia); e in un secondo momento anche in Parlamento, sotto mentite spoglie, utilizzando candidati indipendenti e altri nomi di partito (aggirando l’interdizione per i partiti di utilizzare riferimenti religiosi). Fino all’exploit che li ha portati a vincere le elezioni e ad ottenere la presidenza della Repubblica. Allo stato attuale, i Fratelli Musulmani non usciranno certo di scena facilmente, nonostante gli arresti domiciliari di Morsi e del suo entourage, l’arresto della guida suprema (murshid ‘amm) Muhammad Badie e il mandato di cattura nei confronti di tutti i vertici dell’organizzazione fondata da Hassan alBanna. Anche il neo-presidente Mansour li ha riconosciuti in una dichiarazione come “una parte del Paese invitata a contribuire alla ricostruzione della nazione”. Ma, come dice un cartello comparso a Tahrir, è vero anche che “la democrazia non è solo quella delle urne, ma sono anche le persone scese in piazza”. Se bastassero le elezioni a rendere un Paese democratico, la democrazia sarebbe ben diffusa nel mondo. Ma non è così. Morsi è stato sordo alle richieste della popolazione, ha esitato nelle riforme governando finora a vantaggio di una ristretta élite, ha tradito le aspettative di chi ha partecipato alle rivolte, ha portato avanti la repressione contro i manifestanti anziché l’allargamento dei diritti civili e militari. Non si trattava di vera democrazia neanche lì. Le manifestazioni che noi di First Line Press vi abbiamo narrato dal Cairo con i nostri inviati nei mesi scorsi ne sono una dimostrazione. Altra variabile impossibile da omettere è che tutto ciò è sempre avvenuto sotto l’egida dell’esercito. Che dal 1952 è il vero timoniere, politico ed economico, sulle rive del Nilo (come in Tunisia, per esempio, lo è la polizia). Membri dell’esercito hanno in mano una grande fetta dell’economia egiziana, oltre che i gangli del potere. E’ stato l’esercito che di fatto ha prima deposto Mubarak, poi Morsi. Per quanto ragazzi e militari si abbraccino nelle piazze, per quanto i proclami parlino di un esercito che ha agito in base alla volontà del popolo, le dinamiche sono un po’ più complesse. I timori rispetto alla possibilità di Morsi di dare un nuovo corso all’Egitto erano anche in questo, nella capacità di gestione del rapporto tra la presidenza e il potere militare dello SCAF. E’ consigliabile, in generale, non farsi prendere da facili entusiasmi. La Costituzione è sospesa, l’esercito è al potere anche palesemente, la libertà di stampa viene ancora una volta messa a repentaglio (vedi l’occupazione della sede egiziana di Al-Jazeera, il network satellitare di un Qatar vicino alla Fratellanza), il procuratore generale dell’era Mubarak ‘Abd al-Magid Mahmoud è stato rimesso al suo posto dopo che Morsi lo aveva destituito su richiesta del movimento del 25 gennaio 2011. Per il momento davanti alla popolazione egiziana c’è – riprendendo il titolo del sito di Al-Akhbar – l’orlo di un abisso (lo stesso che c’era anche con Morsi). Il cielo è buio sopra il Cairo, nonostante i fuochi d’artificio e gli elicotteri con le bandiere egiziane fatti volare in questi giorni dall’esercito (in un Paese senza petrolio e con la gente in fila dai benzinai: lo segnalano Marina Petrillo e Sarah El-Sirgany su Twitter). Inoltre, ci sembra poco credibile che in tutto ciò non ci sia almeno il beneplacito degli Stati Uniti e delle potenze occidentali, molto interessati all’area (non dimentichiamo che ai confini c’è Israele, con l’Arabia Saudita baluardo degli interessi a stelle e strisce in Medio Oriente). 24 Staremo a vedere. Intanto la gente è, come sempre, allo stremo. Si rinfocola la “guerra civile” tra sostenitori e oppositori degli Ikhwan, continuano gli scontri (undici morti e 480 feriti nella sola giornata di mercoledì), bisognerà capire anche come si evolverà il rapporto tra copti e musulmani, nelle ultime manifestazioni uniti nella contestazione di Morsi. Voci dal Cairo 4 – Le motivazioni di Tamarod Lorenzo Giroffi | 9 luglio 2013 perché chi ha votato ed ancora sostiene i Fratelli Musulmani non può accettare la presa di potere dell’esercito, mentre chi ha denunciato l’incapacità del governo di Morsi e gli spiragli di un nuovo regime con esso acclama le forze armate per le strade. Al momento la repressione colpisce di più gli islamici, che urlano in piazza:“Il presidente Morsi ritornerà nel palazzo”. L’ala politica della Fratellanza, The Freedom and Justice, che si è attestò vincitrice nelle prime elezioni libere egiziane del 2012, parla di rivoluzione rubata dai carri armati. Questa componente politica, che detiene ancora grosso consenso nel Paese, invoca l’intervento della comunità internazionale, per evitare ulteriori massacri e non far diventare l’Egitto una nuova Siria. I manifestanti sparati ed uccisi dall’esercito sono stati definiti, dal Nour Party, un incidente a fuoco tremendo: massacro. Il Nour party è un partito di salafiti che ha appoggiato la campagna Tamarod per opporsi al Governo dei Fratelli Musulmani, ma in queste ore tutto sta mutando ed ogni analisi potrebbe risultare superficiale od esposta a rapidi mutamenti. Il Sinai, zona bollente dell’Egitto, in questi giorni non può che riempirsi di ulteriori incertezze ed infatti è stato attaccato il gasdotto della città di el-Arish. L’esercito ha già dichiarato di voler rafforzare la propria presenza nella zona, affinché si dichiari ufficialmente guerra alle bande, definite dai più jihadisti, ma che sono composte anche dagli insoddisfatti beduini, abbandonati in quella regione, che comunque attaccano le postazioni dell’esercito egiziano. Nel video segnalato ci sono interviste raccolte a Piazza Tahrir: chi ha fortemente voluto la cacciata di Mohammed Morsi, persone che hanno determinato l’intervento dei militari, perché spaventati da un atteggiamento della Fratellanza troppo simile ad un regime ed oppressi dal peggioramento della crisi economica. Il video è disponibile nel canale youtube FirstLinePress al seguente indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=DiVnxsmo3DQ Continuiamo il viaggio nell’Egitto che sembra stia costruendo un’anomala parte seconda della sua rivoluzione. Più di cinquanta i sostenitori di Mohammed Morsi ancora agli arresti domiciliari perché in protesta contro l’esercito. Le forze armate a loro volta hanno dato un altro ultimatum ai sostenitori dei Fratelli Musulmani: sgomberare le strade dalla protesta, altrimenti verranno legittimati gli scontri a fuoco. In un paradossale risveglio dai sogni di rivoluzione, l’Egitto è piombato in uno stravolgimento delle proprie aspettative, con la piazza che, soddisfatta per la deposizione di Morsi, intona cori d’incitamento verso l’esercito. Un fronte composto da liberali, comunisti, laici, salafiti, tutti però a dipendere dalle decisioni delle forze armate. Intanto il presidente temporaneo ad interim, Adly Mansour, che sarà in carica fino alle elezioni annunciate dai generali, ha negato un incontro con il premio Nobel per la Pace, Mohamed Elbaradei, finalizzato ad una sua compartecipazione alla presidenza. ElBaradei è definito dalle forze islamiche come un uomo troppo vicino agli Stati Uniti d’America. Tra le strade di tutto il Paese i motivi per affrontarsi sono tanti, 25 Voci egiziane 5 – Prima e dopo Morsi: le denunce della Fratellanza Lorenzo Giroffi | 17 luglio 2013 Il video è disponibile nel canale youtube FirstLinePress al seguente indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=T6K_oXtM8K0 La Costituzione, considerata da molti dei partiti scesi in piazza per destituire Morsi come troppo rispettosa dei valori islamici e non dell’intera società, è invece difesa da Soudan, che parla di come sia un libro aperto a modifiche, da attuare in seduta parlamentare da chi sarà eletto. A tutti i partiti che si sono opposti alla Fratellanza chiede di fare il lavoro della politica, cercando consenso e dando voce agli egiziani, senza criticare a vuoto, cercando solo l’appoggio dell’esercito. Inoltre la Fratellanza non vuol sentir parlare di elezioni in questo contesto, perché vuole prima che ritorni ad essere legittimato e scarcerato il presidente eletto, Mohammed Morsi, che cessi la repressione, così poi da poter concorrere nuovamente ad elezioni libere. Nella video-intervista Mohammed Soudan chiede ai vertici militari la liberazione dei leader politici e che le torture contro i manifestanti in piazza smettano di inquietare. La convinzione al momento è quella di rimanere per strada, fino a quando non verrà ripristinato lo scenario politico ante 30 giugno 2013. _____________________ Durante gli incontri con folle, idee, movimenti, volti, presidii e scontenti egiziani abbiamo raccontato una serie di realtà che nell’ultimo anno, dopo il primo gesto palese post-rivoluzione, le elezioni che diedero a Mohammed Morsi la presidenza, si sono riunite proprio per contestare tale nuovo “governo”. Governo in maggioranza formato da Fratelli Musulmani e Giustizia e Libertà, che hanno preso le redini del Paese, con la Costituzione da redigere (fatto) ed elezioni parlamentari da aspettare (a questo punto saltate). Tra denunce di repressione, di cattivi vizi di potere ripercorsi dalla Fratellanza, attivisti sul piede di guerra e giornalisti insoddisfatti è nata la campagna Tamarod. Miscellanea di liberisti, salafiti, partiti di sinistra e liberali, che, dal 30 giugno, hanno coinvolto l’esercito, arrivando all’ormai nota destituzione di Morsi, con i militari a dirigere la “ricostruzione” degli apparati decisionali. Presidenza provvisoria ad Adly Mansour, Costituzione da modificare, nuove elezioni da indire e più libertà di espressione da garantire. Tamarod, che era opposizione, è diventata in un colpo maggioranza, con Fratelli Musulmani e Giustizia e Libertà a subire destituzione e delegittimazione, con i suoi sostenitori in piazza, a protestare contro tale decisione, a patire la repressione dell’esercito e dei cecchini. Nel video segnalato c’è l’intervista a Mohamed Soudan, responsabile degli affari esteri di Giustizia e Libertà (Freedom & Justice), realizzata nella prima parte ad Alessandria e nella seconda via Skype. Lui denuncia un nuovo Stato di polizia che ha cancellato i sogni di democrazia raggiunti con la rivoluzione del 25 gennaio 2011, che permise l’elezione libera di Mohammed Morsi. Parla di tutto quello che è accaduto dal 30 giugno come una perdita di tempo e di soldi, di nuovi problemi voluti da Tamarod, che ha avallato di nuovo una struttura militare al Governo. Per Soudan questo sta reprimendo, arrestando, torturando ed uccidendo. 26 First Line Press ha iniziato la sua avventura nel novembre 2012, un modo diverso di raccontare le storie dal mondo e dall'Italia. L'abbiamo fatto proponendo documentari (uno sui nuovi metodi repressivi in Europa “Repressione ai tempi della recessione” e l’altro sulla situazione dei prigionieri politici nei Paesi Baschi “Odissea Basca”), vari videoreportages (sul caso Veolia da Londra; sui manifestanti spagnoli per l’università pubblica; sul lavoro degli immigrati in Italia, sugli intricati scenari egiziani, sulla situazione curda, su problemi ambientali italiani), reportage fotografici (dagli scontri ad Atene a quelli di Roma, dal Kurdistan all'Egitto, fino alla Cisgiordania ed alle manifestazioni studentesche italiane) e un quotidiano approfondimento su cosa succede nel mondo. Poi c'è First Line Week che ogni martedì raccoglie articoli di approfondimento: incontri diretti dei redattori con la realtà che intendono raccontare: tra le periferie londinesi e quelle parigine, tra gli indignados a Madrid e tra le macerie di Belfast, in Egitto tra Port Said in rivolta e una Cairo che non si è placata, in un Kosovo che ancora non è pacificato, ad Atene tra gli anarchici che non dimenticano un loro ragazzo assassinato, con i migranti in Italia che non hanno un futuro, nelle istituzioni europee a Bruxelles per dialogare sulla questione curda in Turchia e un colloquio diretto col leader del PYD, partito curdo siriano. Per l’appunto tanto mondo, ma anche molta Italia. Abbiamo approfondito e stiamo approfondendo i temi come la gestione del diritto all'acqua pubblica, abbiamo raccolto testimonianze dai migranti dell'emergenza Nord Africa, delle battaglie NoTav, di quelle degli operai dell’Ilva e della gestione dei rifiuti. Il fine settimana del giornale ospita quella che un tempo si chiamava “terza pagina”, la pagina culturale, con First Line Week End, con le rubriche dei nostri bloggers. Questi parlano di disabili e di immigrazione, dell'Ilva e di Paesi in rivolta, come anche di Balcani, di musica e di cinema o anche di politica estera. Il tutto condensato da pungenti vignette, pronte a disegnare fatti di politica interna ed estera. Ci puoi trovare … sul nostro sito: www.firstlinepress.org su twitter: @FirstLinePress su facebook: First Line Press su youtube: www.youtube.com/user/FirstLinePress 27