…Il Niger è un paese poverissimo, in cui i ritmi della vita e il destino
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…Il Niger è un paese poverissimo, in cui i ritmi della vita e il destino
…Il Niger è un paese poverissimo, in cui i ritmi della vita e il destino delle persone girano intorno alla qualità del raccolto e all'andamento dei prezzi dei prodotti agricoli. Chiudete gli occhi e immaginate di viaggiare su una jeep, con un braccio, quello fuori dal finestrino, più abbronzato dell'altro, lungo una strada sterrata di color rosso fiammeggiante. In alto il cielo, di un blu quasi artificiale, e tutto intorno il verde intenso e infinito dei campi di miglio, miglio e poi ancora miglio ovunque riusciate a vedere fino all'orizzonte. I colori sgargianti invadono la vostra visione e vi rapiscono, mentre vi soffermate con lo sguardo su un termitaio di dimensioni strabilianti. Il viaggio è il momento più rilassante della giornata, in cui per poco vi dimenticate dei mali terribili che incombono sugli abitanti di questo paesaggio meraviglioso. Com'è possibile, vi domandate, che in un luogo del genere si possa morire di fame? Ma la fame può significare cose diverse: quando eravate piccoli vostra madre vi intimava di non far avanzare niente nel piatto e di pensare ai bambini africani che non avevano da mangiare, poi da più grandi li avete visti centinaia di volte , in tv o in fotografia, con quei corpicini scheletrici che forse vi hanno indotti a partire. E ora siete proprio qui, in Africa e vi sembra che qualcuno abbia spezzato il rettangolo della macchina da presa e possiate osservare soggetti mai inquadrati prima. Ma è un attimo. Dopodiché la vettura si arresta, voi smontate e non c'è più tempo di guardare; solo di fare. Vi trovate in un villaggio nel cuore della brousse, la boscaglia, prendete contatto con la gente e cominciate a lavorare. Perché i bambini muoiono in Niger? Gli abitanti del villaggio di Gangaran sono preoccupati: damana, la stagione delle piogge è arrivata tardi quest'anno e il raccolto non è buono; alcuni dicono persino peggio di quello del 2004, che poi ha determinato la grave crisi dell'anno scorso. Vi capita di conoscere un anziano, ultranovantenne. Il vostro entusiasmo conoscitivo e la vostra sensibilità antropologica toccano picchi elevatissimi, perché sapete bene che è un'occasione più unica che rara di investigare nel profondo di una cultura e di una tradizione riprodotte prevalentemente per via orale. Quest'uomo comincia a raccontarvi di tutte le carestie più drammatiche di cui ha memoria fino ad oggi e, strappando qualche ramoscello qua e là, vi mostra nelle annate differenti che cosa la gente si è ridotta a mangiare. È interessante, perché ogni volta si è trattato di piante diverse, dal cibo per gli animali alle foglie di certi alberi; negli anni Venti hanno riciclato persino i calebas, dei contenitori semisferici ottenuti per essiccazione dalle scorze di zucca, in quel caso polverizzati e impastati con la sabbia dei termitai per renderne più gradevole il sapore. Dunque è vero, l'apparente rigogliosità delle coltivazioni in realtà non copre sempre il fabbisogno alimentare di queste popolazioni? In parte sì, è questo. Ma parlando con le persone, coi padri di famiglia che migreranno inventandosi un secondo mestiere per tirare avanti, scoprite che i prodotti della terra come i fagiolini, il sorgo e le arachidi devono essere venduti per procurarsi i vestiti e gli strumenti necessari alla vita di tutti i giorni e che, ad esempio una porzione unitaria di miglio, venduta oggi per due, trecento franchi CFA, durante la stagione secca sarà ricomprata al costo di sette, novecento franchi. Allora vi rendete conto che la fame spesso è un effetto dell'influenza di più variabili strutturali, socio-economiche, politiche, tra cui non omettiamo la speculazione da parte di alcuni privilegiati, ben più articolata e complessa del semplice problema del ritardo delle prime piogge. È ora di rientrare; raccogliete il megafono e i cartelloni della sensibilizzazione, salutate gli abitanti e il capo del villaggio e assieme ai vostri assistenti riprendete la strada in senso opposto. Arrivati alla base, vi incamminate verso i tendoni dell'ospedale, che è lì a due passi. Eccoli lì, i bambini pelle e ossa che avevate visto già tante volte prima di partire. A qualcuno ogni tanto con dolcezza sussurrate due parole in italiano; se ne hanno la forza sono gli unici che vi capiscono lo stesso. Non sono molto diversi da come ve li eravate aspettati, siete voi che siete diversi. Ora sapete che non sono semplicemente bambini che non hanno da mangiare mentre i bambini europei avanzano il cibo nel piatto; sapete che sono magri a quel modo perché disidratati; sono malnutriti, non denutriti; hanno ingerito bevande e alimenti in condizioni igieniche dal nostro punto di vista pressoché insussistenti e si sono ammalati. Può sembrare assurdo agli occhi di un occidentale, ma i bambini del Niger muoiono di diarrea, ciò che da noi è visto solo come un fastidio imbarazzante se siamo a scuola o al lavoro. Del resto basti pensare che persino il colera altro non è che una diarrea (virale) violentissima e purtroppo fatale e che lo si potrebbe evitare semplicemente lavandosi le mani col sapone e facendo attenzione a cosa si mangia. Ciò non significa che la fame di questa gente sia un problema meno grave di come ce lo rappresentiamo nel nostro salotto di casa. Piuttosto vuol dire che essa non dipende solo dai capricci di madre natura e che qualcosa effettivamente si può fare. È per questo che ora vi trovate lì e cercate di far passare un messaggio che cambi le abitudini delle persone, dei gruppi, delle istituzioni. A volte siete pieni di zelo e vi sembra di migliorare le loro vite; altre volte vi sentite un po' frustrati perché, anche se capiscono tutto, vi sembra che non interiorizzino abbastanza; altre volte ancora vi spaventate da soli per il cinismo di un pensiero che vi gira per la testa: chi siete voi per insegnare agli altri come devono vivere? L'igiene, la prevenzione sono concetti occidentali che qui rischiano di passare come vuote regole prive di un significato denso e contestualizzato. Certo quando si tratta di assistere migliaia di sfollati inseguiti dai ribelli non avete dubbi su quale sia il vostro ruolo, ma qui il nemico non sono gli uomini armati, sono le abitudini e i comportamenti quotidiani e vi chiedete se avete il diritto di rivelare come dèi una presunta verità assoluta a qualcuno che già possiede la propria, per quanto possa sembrarvi priva di alcun senso. E, ciò che più vi impietrisce, arrivate a domandarvi se forse non dovreste lasciarli alle loro vite. Compresa la morte. Siete ancora nell'ospedale e vi ricordate di un neonato che recentemente era stato portato d'urgenza per la malaria e che rischiava il coma. Avevate pensato: “è arrivato troppo tardi”. E invece è lì, sveglio, e le sue condizioni sono confortanti. Un dottore si sta occupando di lui. Ha fatto il turno di notte e oggi non ha ancora mangiato, dev'essere esausto, ma non dà segni di cedimento. “Sono circondato da persone eccezionali”, pensate e all'improvviso tutti i vostri dubbi svaniscono e avvertite la sola e semplice evidenza che bisogna fare quello che bisogna fare. Avete un solo desiderio: essere accanto a quei medici; e non pensate più. Ora siete a casa, in Europa. È bello essere a casa. I vostri amici e la famiglia sono venuti a prendervi all'aeroporto. Sono le persone che continuano i vostri riti quando voi non ci siete e ve li riconsegnano intatti al vostro ritorno. La casa è questo, continuità. Tutto vi sembra identico a come lo avevate lasciato e il tempo qui sembra non essere passato, eppure qualcosa è cambiato: voi. Vi accorgete che tutti vi fanno domande a cui non vi interessa rispondere. Poi, quando siete voi a raccontare qualcosa, vi sembra che loro non ascoltino. Forse non vi sentite più troppo italiani e sicuramente non siete nigerini. Che cosa siete? Siete rimasti degli espatriati? Una cosa è certa: i vostri pensieri sono ancora là sul terreno, accanto a quei medici. E non è inverosimile credere che il vostro corpo li raggiungerà al più presto.