Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Merito del cinema americano è di trovare, da sempre, spazi e successo sia nell’ambito del più totale disimpegno e
sostegno al sistema vigente sia in quello dell’autocritica e della revisione dei valori sui quali si fonda la società
americana. Rubacuori prestatosi a film di ogni genere, ma divenuto famoso con un film dell’ “indipendente” Gus
van Sant, Affleck fa parte del nutrito gruppo di bravi registi capaci di fare entrambe le cose al tempo stesso.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
scenografia:
musica:
distribuzione:
120 MINUTI
USA
2012
BEN AFFLECK
CHRIS TERRIO
RODRIGO PRIETO
WILLIAM GOLDENBERG
SHARON SEYMOUR
ALEXANDRE DESPLAT
WARNER BROS
BEN AFFLECK (Tony Mendez), BRYAN CRANSTON (Jack O'Donnell), ALAN ARKIN
interpreti:
(Lester Siegel), JOHN GOODMAN (John Chambers), VICTOR GARBER (Ken Taylor), TATE DONOVAN (Bob Anders),
CLEA DUVALL (Cora Lijek), SCOOT MCNAIRY (Joe Stafford), RORY COCHRANE (Lee Schatz), CHRISTOPHER
DENHAM (Mark Lijek), KERRY BISHÉ (Kathy Stafford).
premi e nomination:
2013 - Premio Oscar, 7 nomination: miglior film, miglior attore non protagonista
ad Alan Arkin, miglior sceneggiatura non originale a Chris Terrio, miglior montaggio a William Goldenberg, miglior
sonoro a John Reitz, Gregg Rudloff e Jose Antonio Garcia, miglior montaggio sonoro ad Erik Aadahl ed Ethan Van
der Ryn, miglior colonna sonora ad Alexandre Desplat.
Ben Affleck
Ben Affleck, all'anagrafe Benjamin Géza Affleck-Boldt, è nato a Berkeley, in California il 15 agosto del 1972, da
Christine Anne Boldt, maestra di scuola, e Timothy Byers Affleck, assistente sociale. La coppia, in seguito, ha
avuto un secondo figlio, Casey, anch'egli attore. È di origini irlandesi, scozzesi e inglesi. Ben Affleck conosce fin
dalla più tenera età colui che sarà il suo migliore amico, un bambino di due anni più grande di lui e che abita nel
suo stesso quartiere. Di nome fa Matthew e di cognome Damon. Ha la sua prima esperienza recitativa in uno
spot per Burger King, ma il debutto sul grande schermo avviene nella pellicola The Dark End of the Street (1981)
di Jan Egleson, mentre a otto anni entra nella miniserie The Voyage of the Mimi (1984). Dopo aver frequentato
l'Università del Vermont e il California's Occidental College, senza però aver terminato gli studi, cerca di
proseguire la carriera di attore, affiancandosi all'amico del cuore, senza però grandi risultati.
Nel 1993 gira I Killed My Lesbian Wife, Hung Her on a Meat Hook, and now I Have a Three-Picture Deal at Disney,
il suo film d'esordio come regista.
Si fa conoscere come attore nel 1995 con il film Generazione X. Il successo gli arriva però dal cinema
indipendente, e in particolare dal film di Gus van Sant Will Hunting - Genio ribelle (1997), scritto e interpretato
con il migliore amico Matt Damon, insieme al quale vince il Golden Globe e l'Oscar per la miglior sceneggiatura
originale. Cominciano le apparizioni in film di successo, tra cui Shakespeare in Love (1998), Armageddon, di
Michael Bay. Nel 1999 torna a recitare assieme a Matt Damon in Dogma, mentre nel 2000 affianca Gwyneth
Paltrow, sua fidanzata dal 1998 al 1999 in Bounce.
Nel 2001, Michael Bay lo rivuole per il ruolo di Rafe in Pearl Harbor, accanto a Kate Beckinsale e Josh Hartnett; il
film avrà un successo straordinario. Nel 2002 recita in Amore estremo - Tough Love, accanto a Jennifer Lopez, con
la quale ha una relazione. Il successo però produce anche effetti collaterali e la sua passione per il bere diventa
una dipendenza dall'alcol. Affleck decide allora di farsi ricoverare al Promises Rehabilitation Center di Malibù.
Tornato sui grandi schermi, è scelto da John Woo per affiancare Uma Thurman nella pellicola di fantascienza
Paycheck (2003). Nel 2003 è anche protagonista di Daredevil, accanto a Colin Farrell e a quella che due anni dopo
sarebbe diventata sua moglie, Jennifer Garner. Prima però ha un’intensa relazione con Jennifer Lopez, con la
quale interpreta due film che risultano dei flop e rischiano di minare la sua carriera. La Garner, con cui ha tre figli,
sembra produrre su di lui effetti più positivi, e nel 2006 vince la Coppa Volpi per la migliore interpretazione
maschile alla 63ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, per il film Hollywoodland.
Nel 2007 esce il suo primo film da regista, Gone Baby Gone, con protagonista il fratello Casey. Nel 2010 egli
stesso è protagonista del suo secondo film da regista, The Town, che presenta alla Mostra Internazionale d'Arte
Cinematografica di Venezia. Nel 2012 ha una parte in To the Wonder, per la regia di Terrence Malick; infine, è
regista e attore protagonista di Argo. Il film gli frutta due Golden Globe come miglior film e miglior regista, e
ottiene diverse nomination all’Oscar, consacrandolo come uno dei registi di maggior talento del panorama
mondiale.
La parola ai protagonisti
Intervista a Ben Affleck
Affleck, il tuo è un film storico, politico o di fiction?
La crisi degli ostaggi è un fatto storico che creò molti problemi a Carter. Io comunque non volevo fare un film
politico, ma cementare questa storia forte nella mente delle persone. Non volevo parlare della presidenza Carter,
volevo solo raccontare una storia incredibile e reale e rendere omaggio ai protagonisti di allora. Detto ciò, è ovvio
che mi interessa la politica e non ho difficoltà a dire che voterò per Obama.
Diciamo che ho cercato di rendere omaggio a questi personaggi e restare fedele alla storia.
Cosa pensi dell'oggi?
Quando anni fa cominciai a riflettere su questo film, immaginavo similitudini tra sostegni non voluti dati ai
dittatori e primavere arabe, e oggi sono davvero intristito dalla tragedia di Bengasi e da ciò che è successo al
Cairo,questo mai avrei potuto prevederlo. Mi ha reso triste il fatto che la storia si sia ripetuta. Guardi i girati di
trent'anni fa, e capisci che non ci si è allontanati poi tanto da quella situazione.
Ma, alla tua terza regia dopo "Gone Baby Gone" e "The Town", com'è stare dietro la macchina da presa?
Faticoso, e mi vedo sempre pieno di errori. Ci è voluto un po' per rilassarmi, calmarmi, e passare alla regia. Ma
non è solo questione di trovare il materiale giusto e la fiducia per intraprendere questa avventura. È sempre una
pura questione di fortuna: da attore ho lottato tanto per trovare dei ruoli. C'erano periodi in cui facevo i provini,
ma non ottenevo le parti. Poi d'un tratto è arrivato il successo e continuavano a inviarmi copioni. È una questione
un po' pericolosa, perché puoi diventare bulimico e accettare tutto. Devi calmarti un po' e ricordarti quali sono i
tuoi sogni.
E della Hollywood strapazzata dai personaggi del film che pensi?
Hollywood è un luogo in cui tutti cercano di arrivare avanti agli altri, sfruttare ogni cosa, ma è anche un luogo in
cui ho amici e in cui ci sono persone che non mentono. E mi piace la parte di Hollywood che lavora, quelli che
non vengono pagati tanto, lavorano molto e sono invisibili.
E, dopo tutto questo, è facile tornare davanti alla macchina da presa?
Dopo aver lavorato come regista, non discuto più con i registi con cui lavoro, li capisco. Capisco anche che un
attore debba cercare di prendere la direzione della barca del regista e non un'altra.
Nei tuoi film, rispetto a quando sei diretto da altri registi, fai meno, cioè reciti in sottrazione, con pochissimi
movimenti ed economia di gesti. E’ il modo in cui pensi di dare il meglio?
L’underacting è una scelta che risponde al mio gusto. Io credo sia il modo migliore di recitare, occorre fare
pochissimo perchè la macchina cattura tutto di te, anche le più piccole espressioni. Quando vedo attori recitare
in maniera esagerata penso sempre che mi vogliano vendere qualcosa, sono tirato fuori dal film. Nella vita vera le
persone fanno espressioni minuscole, alle volte nessuna.
La storia è stranissima e viene da un articolo di Wired, tu come ci sei entrato in contatto?
La prima stesura me l'ha passata George Clooney due anni fa, voleva produrlo e farlo fare a me. Mi è piaciuto
subito. Era un buon periodo per me, The town era appena uscito e stava andando bene, quindi avevo una
finestra di tempo buona per far partire un altro film. A quel punto è entrato il vantaggio di essere un attore.
Recitare ad Hollywood è la miglior scuola di cinema possibile perchè entri in contatto con professionalità
incredibili. Così ho contattato Rodrigo Prieto, il direttore della fotografia di Inarritu, volevo il suo realismo gretto,
poi la costumista che avevo visto sul set di Terrence Malick e Alexandre Desplat sempre da Malick.
La cosa più strana però è che tu non abbia firmato la sceneggiatura nonostante sia un ottimo sceneggiatore...
Sinceramente all’inizio pensavo di scriverlo da me, prendere quella prima stesura solo come riferimento. George
[Clooney] mi ha convinto ad incontrare Chris Terrio e ne sono rimasto affascinato, era espertissimo, aveva fatto
molta ricerca e con lui abbiamo riscritto diverse parti del film con grande affiatamento.
Cosa avete inventato e cosa avete tenuto della vera storia?
Come filmmaker sento due responsabilità: la prima è fare il miglior film possibile per il pubblico, la seconda è
essere onesto nei confronti della storia. Per mantenere questo bilanciamento ho tenuto i fatti essenziali intatti al
loro posto, aggiungendo più tensione nel terzo atto.
Per il resto mi sono limitato a sottrarre personaggi o scene magari importanti a modo loro ma meno focali per il
film. Non è stato facile ma andava fatto.
La tensione a un certo punto diventa fortissima: come l’hai costruita?
La suspense in questo film viene tutta dalla recitazione, solo così puoi vivere quella situazione assieme ai
personaggi. Se pensate a Il braccio violento della legge, un film con un inseguimento famosissimo pieno di
suspense, e io credo che sia per via di Gene Hackman, per il modo in cui urla al volante, è per quello che sei con
lui e senti la tensione del momento.
Se recitazione e ambienti sono credibili devi fare molti meno calcoli per costruire la suspense, e come regista,
sebbene sia quasi controintuitivo, la cosa migliore è levarsi dai piedi evitando che il pubblico pensi "Ah è un film".
Hai fatto delle ricerche?
Sì ma in Iran non ci sono nemmeno potuto andare a fare una visita. Ho guardato solo dei video e poi ho
incorporato molti iraniani nel film, alcuni dei quali registi. È stato davvero educativo e mi ha fatto capire meglio
quel posto. Purtroppo quasi nessuno che parli il farsi ha voluto partecipare al film come attore, per timore che lo
stare in una produzione americana avrebbe reso la vita più difficile per sè e la propria famiglia.
Durante la fase di scrittura ho incontrato anche il vero Tony Mendez, il mio personaggio, è stato molto gentile
come del resto anche la CIA. E’ un uomo ambaile e molto tranquillo, è venuto alla premiere e mi è sembrato che
il film gli sia piaciuto, oppure è molto educato!
E’ vero che hai guardato a Tutti gli uomini del presidente per gli interni della CIA?
Si, è vero. Volevo che quegli uffici somigliassero a quelli del Washington Post di quel film. Aevo imparato che
quello è il modo giusto di lavorare sul set di State of play (di nuovo la grande scuola di Hollywood). Inoltre mi
piaceva quell’uso di costumi e abitudini dell’epoca radicalmente lontani dai nostri, tipo le sigarette fumate di
continuo. Invece per la parte ambientata ad Hollywood volevo creare qualcosa di simile ad un film poco noto di
Cassavetes, L’assassinio di un allibratore cinese, che racconta la Los Angeles degli anni ‘70 con una patina e dei
contrasti che fanno sembrare l’immagine povera ma invece guardando bene ti rendi conto che ha una
composizione molto raffinata. E poi La battaglia di Algeri per la parte in Iran.
Si vede anche per quell’uso di un’immagine a grana grossa
Si, c’è una tecnica particolare che abbiamo usato. Si prende la rotella all’interno della macchina da presa e se ne
tagliano via i denti che si infilano nei buchi a lato della pellicola per farla scorrere. In questo modo in un
medesimo fotogramma entrano due immagini. Una nella metà superiore e una in quella inferiore. Chiaramente
sono più piccole del normale e quando le ingrandisci per dargli il formato corretto diventano sgranate come
serviva a noi. E’ una tecnica usata nel cinema indipendente per risparmiare pellicola.
Recensioni
Gabriele Niola. Mymovies
Nel 1979, in seguito alla fuga negli Stati Uniti dello Scià iraniano Mohammad Reza Pahlavi durante la rivoluzione,
l'ambasciata americana di Teheran fu presa d'assalto dai rivoluzionari e i suoi impiegati sequestrati per più di 400
giorni. Sei cittadini statunitensi riuscirono a fuggire di nascosto e trovare rifugio nella residenza dell'ambasciatore
canadese, il quale, a proprio rischio e pericolo, concesse clandestinamente ospitalità e supporto.
Per riportare in patria i propri connazionali la CIA organizzò una missione di esfiltrazione particolarmente audace,
ideata dall'esperto del campo Tony Mendez e coadiuvata da una vera produzione hollywoodiana. Basandosi su
una sceneggiatura realmente acquistata dal sindacato sceneggiatori fu data l'illusione a tutti (soprattutto alla
stampa, in modo che si producessero articoli in materia) che c'era l'intenzione di girare un film di fantascienza in
Iran, così da poter ottenere dal Ministero della cultura iraniano il permesso di entrare ed uscire dal paese e, nel
fare questo, poter portare via i sei ospiti dell'ambasciatore canadese spacciandoli per maestranze del film.
Il titolo del finto film in questione era Argo.
Sulle basi di questa vera storia Ben Affleck orchestra un film che forza la realtà dei fatti quanto serve per creare
tensione e suspense ma non manca mai di rimarcare gli elementi di veridicità e di confinare in maniera netta le
licenze cinematografiche.
Il risultato è un'opera di sorprendente solidità, animata da un'etica di ferro e capace di muoversi attraverso i tre
registri principali del cinema, amalgamandoli con l'invisibile maestria di un veterano del cinema. Nonostante sia
solo al suo terzo film da regista Ben Affleck si conferma uno degli autori giovani più interessanti in assoluto,
capace di fondere l'azione da cinema di guerra della prima parte con la commedia hollywoodiana della seconda e
infine la tensione del dramma storico della terza. Un viaggio tra diversi toni in cui l'unica costante è il regista
stesso, che incarna il protagonista Tony Mendez con una recitazione minimalista e pacata, esplorando tutte le
declinazioni di un'infinita malinconia di sguardo che fa il paio con il rigore morale profuso nel raccontare la sua
storia.
In questo straordinario esempio di modernità cinematografica c'è tutta l'esperienza del cinema politico, teso e
aggressivo della Hollywood degli anni '70, unita ad uno stile fluido ed invisibile, ad un gusto post-Mad Men per la
precisa ricostruzione dei diversi costumi della società di qualche decennio fa e ad una capacità non comune di
lavorare sul dettaglio della messa in scena. […]
Bernardo Valli. La Repubblica
Da un episodio marginale di un grande dramma politico, Ben Affleck ha ricavato non solo un bel film, ma anche
uno spettacolo intelligente: un thriller in cui la suspense, pur conservando intatta la carica, è condita con l’ironia,
a tratti con il sarcasmo. E in cui, soprattutto, la realtà diventa metafora. Sottolineo subito quest’ultimo aspetto
perché mi sembra l’impronta geniale di Argo. Il quale è il titolo del film vero, che vediamo noi; e al tempo stesso
di quello che non sarà mai girato, ma che viene presentato come un progetto autentico, nella tragica farsa al
centro del racconto. L’obiettivo del secondo film, quello finto, è di sedurre, gabbare l’apparato poliziesco e
teocratico di Teheran. La capitale degli ayatollah vive un fanatismo religioso congeniale all’idea di uno spettacolo
di fantascienza, quale è appunto la versione immaginaria di Argo. Al punto che i pasdaran sembrano identificarsi
nei protagonisti. Negli alieni naviganti su vascelli fantasma come risultano negli schizzi che illustrano la finta
sceneggiatura. Così quel film fantasma diventa un lasciapassare per i sei americani rimasti imprigionati nella
Teheran rivoluzionaria, in cui si impiccano i nemici e i peccatori. A portarli in salvo è Tony Mendez, il vero agente
della Cia interpretato da Ben Affleck.
La trama del thriller si dipana lineare, veloce, senza intoppi surreali, senza divagazioni capaci di appesantire il
racconto, come potrebbe far pensare la precedente annotazione. Il film è basato su fatti realmente accaduti e
resi noti parecchi anni dopo. […] Il piano, accolto con scetticismo dai responsabili politici, è di trasformare i sei
americani in membri di una finta troupe cinematografica canadese impegnata in un sopralluogo per le location. E
l’Iran è l’ideale. Il film non affronta l’attualità, non tratta il presente, anzi descrive un mondo irreale. Niente
insomma, viene spiegato alle autorità iraniane, che possa offendere la loro rivoluzione. Un momento chiave è
quando all’aeroporto di Teheran i sei americani, nella veste di cinematografari canadesi, hanno difficoltà a
superare i controlli e allora sfoderano come un passaporto supplementare lo storyboard in cui sono raffigurati
personaggi del film immaginario: gli alieni, appunto. E allora i pasdaran sedotti dalle immagini in cui sembrano
riconoscersi, danno via libera all’imbarco sull’aereo diretto in Occidente. Cioè all’evasione.
[...] Nel film che vediamo domina il dramma, così come è avvenuto nella realtà, e la suspense non è attenuata dai
momenti in cui prevale l’ironia. Un po’ semplicistiche, sbrigative ci appaiono tuttavia le immagini della Teheran
khomeinista, fortunatamente gabbata in quell’occasione, ma poco dopo destinata ad avere un ruolo di rilievo
nella politica di Washington.
[…] Numerosi contatti segreti con gli ayatollah furono promossi sia da Reagan, sia da Carter. Il rilascio degli
ostaggi avrebbe portato voti decisivi a chi avesse potuto aggiudicarsene il merito. Carter non fu favorito, poiché
gli ayatollah, in segno di omaggio o per ricompensa, dopo un accordo raggiunto ad Algeri, rimandarono in patria
gli americani quando Reagan entrò alla Casa Bianca, nel gennaio ‘81. Cosa ebbe Teheran in cambio di quel gesto
di riguardo? Nel frattempo era cominciata la guerra tra Iraq e Iran: e soltanto l’Iraq di Saddam Hussein riceveva
armi dagli americani, l’Iran di Khomeini essendo ritenuto infrequentabile. Ma sottobanco, e spesso tramite
Israele, gli americani avrebbero fornito armi anche a Khomeini. Vale a dire simultaneamente a entrambi i
belligeranti, in una guerra che fece più di un milione di morti. E parte del denaro di quel traffico d’armi servì per
armare i “contra”, i controrivoluzionari che si battevano contro i sandinisti in Nicaragua. Guardando il generoso
film di Ben Affleck, uno al corrente dei fatti successivi pensava che gli iraniani cosi crudelmente descritti sullo
schermo stavano per diventare a quell’epoca interlocutori utili.
Roy Menarini. Mymovies
Oltre alla solidità narrativa e all'innegabile bravura di tutti gli attori, diretti con sensibilità da Ben Affleck con
l'occhio rivolto a certo cinema artigianale degli anni Settanta, Argo brilla di luce propria grazie ad almeno altre
due intelligenti strategie.
Anzitutto si tratta di un film di onesta propaganda democratica. [...]Schematicamente: la rappresentazione
bonaria di Hollywood come industria surreale ma patriottica, la faccia buona della CIA e dei suoi funzionari in
grado di trascendere gli ordini per il bene delle persone comuni, la condanna delle derive islamiste del mondo
arabo ma al contempo l'autocritica sulle politiche mediorientali (l'appoggio allo Scià), l'idea di una nazione in
grado di scartare l'opzione militare e usare l'ingegno... tutti pregi che Affleck, pur narrando di un fatto storico,
sembra indicare come qualità imprescindibili nella nazione americana, le stesse che echeggiano nelle idee e nelle
promesse di Obama.
Tuttavia, Argo - se non un grande film - è certamente un ottimo lavoro anche per come pone riflessioni sul ruolo
dell'immaginario nel cinema e nella realtà. All'altezza dei primi anni Ottanta, Hollywood come enorme macchina
di falsificazione dell'immaginario è una sorta di patrimonio riconosciuto e storicizzato. Fingere di girare un film di
fantascienza in Iran diventa credibile persino per la Guarda Rivoluzionaria perché si riconosce all'esotismo
hollywoodiano un assoluto sprezzo del ridicolo e contemporaneamente una capacità di creare storie e miti
inarrivabile. Solo il fatto che il cinema americano sa notoriamente costruire mondi e universi posticci rendendoli
credibili (o quanto meno narrabili) permette di usare il cinema per falsificare la realtà politica. Il corto circuito,
dunque, contiene indicazioni non banali sul mondialismo hollywoodiano e intorno alle interpretazioni mitiche su
cui poggia. [...]
Dario Zonta. L'Unità
Argo è un film che si basa su di una storia vera e ha al suo centro la forza dell'immaginario cinematografico come
leva per cambiare il corso della Storia. Realtà e finzione, verità e immaginazione, storia e fantasia. Eterni binomi
che in questo film d'azione e di genere trovano un qualche motivo di originalità. [...] Siamo nel gennaio del 1980.
Sei diplomatici riescono a scappare da un'uscita secondaria e trovano riparo presso la residenza
dell'ambasciatore canadese Ken Taylor. Sono al sicuro, ma non per molto. I pasdaran sono ovunque e a caccia
spietata di «clandestini» americani. La copertura dell'ambasciata canadese non può durare a lungo e comunque
la loro permanenza può mettere a rischio l'incolumità degli ospiti. È necessario che i sei diplomatici escano da
Teheran inosservati, il che è praticamente impossibile. Fin qui i fatti e la storia. Quello che segue, ovvero il modo
in cui i sei escono dall'Iran, potrebbe sembrare una pura fantasia cinematografica, anzi una spacconata
hollywoodiana, il seguito immaginifico di una storia vera. Il bello è che proprio di spacconata hollywoodiana si
tratta, ma vera, realmente accaduta. […] Nell'incredibile procedere della vicenda anche se la fine è nota, tutti
rimangono con il fiato sospeso, come in un buon thriller, e soprattutto si rimane increduli nel verificare come
nella Teheran di Khomeini una manciata di improbabili cinematografari presunti canadesi abbiano infinocchiato i
pasdaran. Bellissima la scena all'aeroporto quando tirano fuori lo storyboard del film di fantascienza e i pasdaran
gongolano sognandosi eroi a Hollywood. Regista del film Ben Affleck, anche interprete di Tony Mendez, è
inespressivo come sempre, ma efficace. [...]
Giona A. Nazzaro. Micromega
Si dovrebbe imparare a fare cinema politico dagli americani. E non solo perché comprendono istintivamente
dove poggia il punto fra racconto e morale del raccontare stesso, ma perché il loro cinema, fondato su una
morale del fare, meglio di qualunque altra cinematografia riesce a restituire il senso e la progettualità di un altro
fare. […] Si dovrebbe quindi imparare a fare cinema politico dagli americani perché questo poggia
eminentemente sul gesto e non sulla parola, dove il gesto è il paradigma di una possibilità di socializzazione. Le
rivoluzioni si fanno e non si parlano. Per dirla con Jean-Marie Straub, per un cineasta sbagliare un inquadratura
(fare…) è come per un politico sbagliare politica.
Non è un caso, dunque, che il cinema americano abbia sempre come sottotesto la nascita di una nazione (e che
Toni D’Angela abbia intitolato il suo studio sul western proprio “Western – Una storia dell’Occidente”).
Il cinema americano è politico perché è un cinema plurale calato sempre nell’oggi che attraverso il fare cinema
s’interroga sui gesti necessari per fondare un’appartenenza, una comunità. Chiedere a John Ford per conferme.
Sarebbe pertanto ingenuo operare delle distinzioni in seno al cinema statunitense tentando di individuarvi la
politica lì dove sono in evidenza contenuti “politici” e allontanando lo sguardo quando apparentemente si parla
“d’altro”. Argo di Ben Affleck, in questo senso, è un film interessante perché pone la questione dell’immaginario
collettivo al centro non solo dell’agire politico ma come elemento imprescindibile per riorientarsi nel mondo.[...]
È ben noto che Guerre stellari di George Lucas sia stato progettato originariamente dal regista come un’allegoria
della guerra del Vietnam e che lo stesso Francis Coppola abbia iniziato a pensare a Apocalypse Now ragionando
con l’amico George di morte nera e impero.
La crisi degli ostaggi statunitensi all’indomani della presa del potere di Khomeini in Iran avviene sullo sfondo del
successo planetario di Guerre stellari. E Affleck è molto acuto nel mettere in scena, attraverso piccoli indizi, il
terremoto sociale e psichico provocato dal film di Lucas nell’immaginario collettivo dell’epoca i cui effetti sono
evidenti e presenti ancora oggi. [...]
Sia come sia, il protagonista di Argo, interpretato dallo stesso Affleck, intuisce che qualcosa è cambiato nelle
modalità di immaginare il mondo. Cadono le categorie umanitarie degli insegnanti nel terzo mondo, una ipotesi
di copertura per favorire la fuga, e avanza l’irresistibile fascino del fare un film. Occhio però: non si tratta
dell’abusata capacità di sedurre della polvere di stelle. Non si tratta di fare un film e basta. No: si tratta di fare un
film che evochi altri mondi. Ossia una possibilità, una differenza. Entrambe contenute come promesse nella
fantascienza e nel fantastico. Ma non una semplice fuga escapista. No: una fuga in avanti. Un riorganizzare il
mondo. Costruire una nazione, ma meglio. D’altronde: cos’altro racconta Avatar, il maggiore film politico degli
ultimi anni? La nascita di una nazione.
Ed è dunque lavorando con questa promessa, più che con la copertura, che il personaggio di Affleck riesce a
mimetizzarsi nella società iraniana che ancora credeva alla promessa palingenetica dei teocrati. Perché la sua
promessa è sostanzialmente identica a quella degli ayatollah. O meglio: entrambe sono alimentate dalla
medesima speranza. Ed è un autentico colpo di genio, il momento in cui il film da fare (Argo, appunto), attraverso
i disegni dello storyboard, diventa lo specchio rovesciato della situazione iraniana posta invece all’inizio del film a
ridosso dei titoli di testa. All’opposto del medesimo spettro abbiamo dunque la situazione politica oggettiva, la
premessa della rivoluzione khomeinista, e dall’altro il suo racconto come epica, condivisione di un film che non si
farà. Una promessa di un domani migliore.
In quel momento il guardiano della rivoluzione e il diplomatico che si finge executive hollywoodiano parlano il
medesimo linguaggio: entrambi sognano un altro mondo. […] Il valore politico di Argo, dunque, risiede non nella
rivelazione di una storia incredibile, cosa comunque non trascurabile, quanto nel mettere in scena il lavoro
necessario per creare e agire le strutture dell’immaginario collettivo che si manifestano come principio di realtà
e, soprattutto, di individuazione. Se a tutto questo si aggiunge il montaggio parallelo più emozionante visto al
cinema dai tempi del finale di Amabili resti di Peter Jackson, il gioco è fatto.
Marco Doddis. Effettonotte
E chi se lo aspettava un Ben Affleck così? Sia chiaro: non parliamo solo dell'aspetto fisico, di come Ben appare in
questo Argo. Certo, quell'espressione controllata, sempre sull'orlo della malinconia, incorniciata con barbetta
d'altri tempi (ma sta tornando di moda) e con capello lungo da bravo ragazzo, ci regala una maschera nuova
dell'attore che tutti conosciamo. Tuttavia, ci piace soffermarci più che altro sul regista Affleck; anzi, considerando
che il film è a tutti gli effetti suo (lo ha prodotto insieme a George Clooney e Grant Heslov), diremmo sull'autore
Affleck.
Ciò che conta nel cinema, come nella vita, è la continuità, la non episodicità, la capacità di mantenere uno
standard elevato nel proprio lavoro. Per la serie: vincere è difficile, ma lo è ancor di più ripetersi. Ora, dal
momento che il nostro, a quarant'anni, è giunto alla terza fatica dietro la macchina da presa e che le sue capacità
di scrittura sono acclarate dai tempi di Will Hunting, non si può fare a meno di guardarlo con un serio occhio
monografico. Dopo Gone Baby Gone e The Town, Affleck era atteso dalla verifica del "non c'è due senza tre". Non
ha deluso. Di più: ha dato prova di sapersi muovere tra diversi registri e di poter fare un cinema di impegno ma di
intrattenimento, "di pubblico" ma di "di critica". Si è insomma iscritto all'elitaria università del cinema classico
made in USA, dove, per intenderci, sono passati gli Hawks e i Wilder, gli Eastwood e i Clooney. Solo il tempo dirà
se anche Ben riuscirà a portare a casa la laurea. Per ora, godiamocelo in quest'opera, basata su una storia vera,
che ha ottenuto eccellenti incassi in America e che potrebbe dire la sua anche nella corsa all'Oscar. [...]
Argo non si colloca propriamente nel filone del film politico americano nato negli anni Settanta. E non è
nemmeno un film storico: infatti, nonostante i fatti siano veri, mancano quegli approfondimenti e quelle
contestualizzazioni indispensabili per chi non sa abbastanza sulla vicenda USA-Iran (inoltre, in un film storico,
certi anacronismi non sarebbero ammissibili: l'insegna di Hollywood mezza distrutta, come appare agli occhi di
Affleck prima di sbarcare a Los Angeles, era in realtà stata ristrutturata nel 1978, un anno prima della crisi degli
ostaggi in Iran; la bandiera dell'Iraq mostrata verso la fine del film è sbagliata: quel vessillo sarebbe entrato in
vigore solo nel 1991, all'epoca di Saddam). Argo, dunque, è più che altro un thriller, non privo di elementi di
commedia. È girato con un'ottima gestione del ritmo, tutto proteso al raggiungimento del climax finale. La
pellicola sembra, a dirla tutta, una storia inventata, raccontata come reale. Anche Affleck ne è consapevole, tanto
che sceglie di accompagnare i titoli di coda con foto vere, sistemate accanto alla loro fedele ricostruzione su
cellulosa. Non è una mossa casuale, ma serve per dire allo spettatore: "guarda, era tutto vero, proprio tutto!"
(oltre a "guarda quanto sono stati bravi il direttore della fotografia, i truccatori, gli scenografi e i responsabili
degli effetti speciali..."). Colpisce dunque questa sovrapposizione tra "realmente accaduto" e "ricostruito in
pellicola". Se si tratti di un punto di forza del film o di una sua debolezza, è ampiamente opinabile. A nostro
avviso, è un elemento di forza, perchè dimostra una verità indiscutibile: il cinema, anche con semplicità, persino
con la pedissequa riproduzione del reale (pedissequa non è mai, perchè ogni autore ha il proprio sguardo), riesce
a portare nello stomaco ciò che passa attraverso la testa. Alla fine, lo spettatore si è emozionato, anche se, a
conti fatti, si è dovuto confrontare con delle circostanze storiche nude e crude.
Argo è quindi la magia della Fabbrica dei Sogni, la (auto)celebrazione di Hollywood. Là, dove la creazione si
impone su tutto, basta una storiella di fantascienza e due sgangherati organizzatori per risolvere una questione
diplomatica. "Anche una scimmia può diventare regista in un giorno!", esclama il produttore Siegel, riferendosi al
ruolo di Mendez. Non è vero, e Affleck lo sa bene, frequentando l'università di cui sopra. Ma, laddove tutto è
illusione, pure a una scimmia è concesso di risolvere una crisi internazionale. Lo spread è avvertito: altro che
professori...
Mariarosa Mancuso. Il Foglio
“John Wayne è nella tomba da sei mesi, e guarda come si è ridotta l’America”. La linguaccia di Alan Arkin –
produttore del finto film che servirà a tirare fuori sei ostaggi americani da Teheran, in barba ai guardiani della
rivoluzione e all’Ayatollah Khomeini – intreccia il cinema con la politica. Poteva funzionare come slogan per la
campagna elettorale appena conclusa: entra perfettamente in un tweet, manca solo qualcosa di paragonabile a
John Wayne, per entrambi gli schieramenti. Il produttore, che chiamano Lester Siegel, è l’unico personaggio
inventato dallo sceneggiatore Chris Terrio (segnatevi il nome per gli Oscar). Non di sana pianta, naturalmente. In
gran parte si ispira a Jack Warner, il fondatore della Warner Bros. [...]. Non è inventato John Chambers, che nel
finto studio di produzione faceva il truccatore, mentre per davvero aveva fabbricato le maschere del “Pianeta
delle scimmie” e le orecchie a punta del dottor Spock (nel film, l’attore è l’immenso John Goodman). Studio Six
Production era il nome della ditta, installata a tempo di record negli uffici dove Michael Douglas aveva lavorato
per “Sindrome cinese”. Fu trovata una sceneggiatura fantascientifica così confusa che era difficile capirci qualcosa
(“Star Wars” aveva fatto il botto, si cercavano altre miniere d’oro, e deserti come quello dell’Iran). Fu stampato
un manifesto con la scritta “Argo”, il buco di una pallottola, lo slogan “A Cosmic Conflagration”. Tutto a prova di
controlli: la fantasia nella copertura era pari soltanto al rischio dell’azione in territorio nemico. Così a prova di
controlli che lo Studio Six Production ricevette una ventina di vere sceneggiature, una a firma Steven Spielberg.
Intanto a Teheran si era aperta la caccia agli americani spariti: i ragazzini facevano i puzzle con le striscette
recuperate dalla macchina che tagliuzzava i documenti. Ben Affleck – dimenticate l’orribile “Gigli” con Jennifer
Lopez – porterà a casa una pioggia di Oscar. Così anni Settanta che c’è anche il pulmino Volkswagen.