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La Summer School giorno per giorno Lunedì 14 giugno Abbiamo incontrato i docenti e gli altri studenti alla Newman House di Dublino. Nella cornice austera di questa casa settecentesca, i docenti ci hanno introdotto il corso tra calici di vino, tartine e camerieri eleganti. I coordinatori erano Brian Jackson, direttore del John Hume Institute for Global Irish Studies, Pat Cooke, Direttore dell'UCD Arts Management and Cultural Policy, e Ian Russel, giovane professore originario di Chicago. I diversi accenti, a volte un po' ardui a comprendersi (sconsiglierei un corso del genere a chi non abbia una conoscenza più che buona dell'inglese), si mescolavano con quelli dei corsisti, tra cui c'erano altre due italiane oltre me, una portoghese, una statunitense, una messicana, due ungheresi, una turca. Il contesto formale iniziale, è diventato subito più rilassato: siamo passati dalla casa elegante direttamente al pub O'Neill tra pinte di Guinness e musica irlandese. La Newman House ll Pub O’Neill’s A questo clima di amicizia immediata tra noi studenti, ha contribuito il vivere tutti sullo stesso piano di un residence del campus universitario di Dublino. Ognuno aveva la sua stanza singola con bagno in camera, ma condividevamo la cucina e tutte le uscite, da quelle per andare a colazione e a pranzo (per i quali ci hanno dato appositi buoni-pasto) nella mensa universitaria, a quelle per andare ai corsi, a quelle serali. Un pranzo nel ristorante universitario Serata nel campus universitario Martedì 15 giugno Il professor Ian Russell ci ha introdotto il concetto di heritage sotto vari punti di vista: quello teorico, quello legislativo, quello dell'opinione pubblica. Abbiamo iniziato vedendo un video preso dal sito www.discoveringireland.com da cui è scaturito un dibattito riguardante la rappresentazione culturale di una nazione, in questo caso l'Irlanda, e quale immagine voglia dare di sé. E' emerso che l'immagine dell'Irlanda proposta dal video è un po' forzata: non piove mai, le persone sono tutte bianche e felici mentre impegnano le loro giornate facendo sport, danzando al suono di musiche folk e mangiando gigantesche aragoste alla brace. Ci siamo resi tutti conto di avere in testa la stessa immagine dell'Irlanda proposta dal video, soprattutto relativamente alla musica: è stato un po' deludente sapere che in realtà il folk è ormai più "roba da turisti", un po' come la tradizione dei gondolieri a Venezia. E nel video, ovviamente, non si faceva minimamente cenno alla sanguinosa storia irlandese, seppur recente. Per esemplificare il concetto di questa rappresentazione irreale dell'Irlanda, il professore ci ha mostrato l'immagine di un'arpa di plastica realizzata nel 1991, opera d'arte che si riferisce al simbolo nazionale "plastificato" dalle logiche di mercato che vanno a modificare anche l'identità culturale di un popolo. Da questo discorso sulle rappresentazioni culturali e stereotipate di un Paese, si è passati a definire tutti gli elementi (come oggetti/cose materiali, idee, fattori economici, accordi, persone e popoli, leggi, eredità, questioni genetiche ed etniche) che si possono includere nel campo semantico heritage, concetto flessibile e fluido. La necessità di definire che cosa è l'heritage, coinvolge in primo luogo l'ambito legislativo (per maggiori informazioni cfr. Bunreacht na héireann del 1937, Heritage Act del 1995, Heritage strategic plan del 2007-2011) e l'opinione pubblica. Per verificare quale fosse la percezione degli irlandesi rispetto al loro patrimonio sono stati realizzati vari sondaggi da cui sono emersi vari dati interessanti: nel 1999 l'Heritage Awareness Survey ha mostrato che la parola heritage veniva associata alla storia e al passato, poco al paesaggio; nel 2007 l'Heritage Survey ha mostrato una maggiore consapevolezza e uno slancio verso la preservazione della "true essence", della vera essenza, contro la commercializzazione; nel 2005 la Wicklaw Survey ha mostrato una fortissima identificazione degli irlandesi con il loro patrimonio, tanto da arrivare all'affermazione "proteggere l'heritage equivale a proteggere se stessi". Nostalgia, senso di appartenenza, nazionalismo, preoccupazione rispetto al futuro: sono vari gli aspetti coinvolti dall'approccio al patrimonio, che vanno a intrecciarsi direttamente con questioni politiche e con temi scottanti come quello dell'immigrazione. L'idea di identità e di "national pride", di orgoglio nazionale, verso cui si indirizza l'opinione pubblica nelle indagini più recenti, va infatti a incontrarsi/scontrarsi con le heritages delle persone di altre nazionalità che vivono in Irlanda. Il rapporto patrimonio nazionale/patrimonio altrui è talmente rilevante che l'UNESCO sta definendo il concetto di heritage of diversity ma le questioni irrisolte sono numerose (e con queste domande è terminato il dibattito): heritage o heritages? Patrimonio irlandese o patrimonio in Irlanda? Cosa significa essere irlandese? Nel pomeriggio siamo andati nella zona di Temple Bar, comunemente nota per essere zona turistica e piena di pub irlandesi più o meno autentici. In realtà la zona ospita anche associazioni e centri culturali come il Temple Bar Cultural Trust e il Project Arts Center: abbiamo visitato entrambi, ascoltando le presentazioni di rappresentanti e direttori. La giornata è terminata alla Newman House, la casa elegante e austera della prima sera, con una discussione dal titolo Heritage and Irish society, in cui hanno preso parte Aidan Pender (Direttore del Failte Ireland, Policy and Industry Development), Pat Cooke (Direttore dell'UCD Arts Management and Cultural Policy), Eugene Downes (CEO, Culture Ireland). Il tema è stato più o meno quello affrontato nel corso della mattinata, ovvero la definizione di heritage (ci sono criteri con cui distinguere ciò che è heritage da ciò che non lo è?) e le relazioni esistenti tra il concetto di patrimonio culturale con la conservazione, l'educazione e il turismo. Mercoledì 16 giugno Siamo andati alla Chester Beatty Library, biblioteca-museo che contiene manoscritti, stampe, icone, miniature, libri e oggetti provenienti da diversi paesi dell'Asia, del Medio Oriente, dell’Africa del Nord e dell'Europa. Il direttore Michael Ryan ci ha spiegato i criteri curatoriali, a volte sottostanti a delicati equilibri politici e culturali viste le implicazioni religiose di alcuni testi esposti. Nel pomeriggio abbiamo visitato il National Museum of Ireland, creato per mettere in mostra i reperti di una civiltà preistorica evoluta in uno slancio di "national pride" avente come bersaglio indiretto il governo britannico. Con rammarico non ho potuto visitare il secondo piano perché era in programma una visita al poco distante Natural History Museum. Non sono una fan di luoghi del genere, ma i marchingegni interattivi del museo di Londra visitato quasi un anno fa, erano riusciti miracolosamente a suscitare in me qualche curiosità verso il mondo naturale. Mi aspettavo un museo del genere, e invece ho trovato un affastellamento di animali imbalsamati esposti riproducendo una situazione “viva” (come una famiglia di scoiattoli che giocano), i quali occupano uno spazio troppo piccolo dall'odore nauseabondo. Tutto sa di vecchio: per vedere la collezione di farfalle bisogna sollevare grandi copertine in pelle color bordeaux che coprono le teche in vetro. E questo stile così "old" è anche divertente. Ma gli animali morti che sembra che giochino, no! Mera questione di gusti, considerato che su più di dieci persone sono stata l'unica a uscire con la faccia perplessa. La giornata si è conclusa con una conferenza sui musei e le comunità nell'Irlanda del Nord, tenuta dalla Professoressa Elizabeth Crooke dell'Università di Ulster. Si è partiti dal concetto generale di community, (raggruppamento di persone omogeneo per etnia, religione, classe o idee politiche e con propri codici culturali e simboli di appartenenza) per arrivare alle iniziative culturali di alcune comunità cattoliche o protestanti dell'Irlanda. Emblematico è il Museum of Free Derry, che conserva oggetti direttamente legati alla tragica domenica passata alla storia come Bloody Sunday, per esempio un indumento insanguinato indossato da uno dei ragazzi uccisi dall'esercito britannico. La Chester Beatty Library fuori e dentro Natural History Museum Indumento insanguinato nel Museum of free Derry Giovedì 17 giugno Abbiamo incontrato Terry Fagan, Direttore del Dublin Folklore. Avendo letto la parola "folklore" nel programma, credevo si parlasse di musica; invece l'anziano signore dall'accento, devo ammettere, per me molto difficile, ci ha parlato di una zona di Dublino denominata Monto, di storie di prostituzione, di povertà e di guerra di un quartiere che ha tuttora molti problemi sociali, in primo luogo di droga. Nel pomeriggio, continuando il percorso di scoperta delle heritages meno convenzionali, abbiamo incontrato Monica Sapielak di Ars Polonia, un centro di cultura polacco non istituzionale. Quella polacca è infatti una comunità molto significativa, rimasta chiusa in se stessa in quanto le ragioni dell'immigrazione sono soprattutto di natura economica e commerciale e non creano slanci rivolti all'integrazione. Ars Polonia è nata appunto per dar spazio a chi invece è emigrato in Irlanda per coltivare interessi artistici e culturali ed è diventata un centro propulsore di concerti e mostre che prevedono la collaborazione di artisti polacchi e irlandesi. L’incontro con Terry Fagan del Dublin Folklore Seguendo Terry Fagan L’incontro presso Ars Polonia Venerdì 18 giugno Il professor Hugh Campbell dell'UCD e la dott.ssa Sarah Lappin della Queen's University di Belfast hanno tenuto una conferenza nella Wood Quay Hall a Dublino. Questa sala in legno ingloba parte delle mura medievali della città, lasciandole visibili: il luogo era perfetto per un dibattito sull'architettura in rapporto al patrimonio e alla città e sulla relazione tra ciò che è già riconosciuto come patrimonio comune e le nuove costruzioni. In particolare la questione centrale è quella del "local" in rapporto al "global": l'architettura contemporanea viene accusata infatti di non essere abbastanza "irlandese" e questo problema riguarda soprattutto i waterfronts, quelle zone limitrofe a canali, fiumi, corsi d'acqua, riqualificate con la costruzione di edifici uguali sia che si trovino a Buenos Aires, Chicago, Lisbona o Barcellona, e quindi senza specificità, senza identità. Sabato 19 giugno Dopo aver ascoltato all'UCD Anne Bonnar (Trustee delle National Galleries of Scotland e direttrice del National Theatre of Scotland), verso mezzogiorno siamo partiti per Loughcrew e Tara, entrambi siti di interesse archeologico e naturalistico. Loughcrew si presenta come un'enorme collina immersa nella campagna irlandese. Percorrendo il sentiero verso la cima, lo sguardo si perde nel verde che sembra andare oltre l'orizzonte. Ma il su e giù dell'erba non è la sola meraviglia: sulla sommità della piccola altura escono a sorpresa i resti di varie costruzioni megalitiche in pietra molto simili ai nostri nuraghi (risalenti al 3300 a. C. circa), in cui sono stati ritrovati resti umani: non si sa se servissero da tombe o se vi si facessero dei sacrifici umani. La loro disposizione serviva sicuramente a segnare il territorio ed era strettamente correlata a fattori astronomici. Entrando infatti nella costruzione centrale più grande, circondata da costruzioni simili ma più piccole, si notano dei graffiti rappresentanti elementi vegetali, cerchi, spirali e parti del corpo umano, che vengono gradualmente illuminati dal fascio di luce solare che penetra nella cavità nel corso degli equinozi. Il luogo è talmente suggestivo da aver dato adito a leggende e racconti popolari secondo cui sul colle si incontrerebbero le streghe durante la notte. Dopo il pic-nic molto in stile gita-scolastica (un po' perché ci hanno dato loro i sacchetti già pronti, un po' per il pulmino retrò con cui viaggiavamo), ci siamo diretti verso la collina di Tara. Dapprima siamo entrati nella chiesa di St. Patrick: all'improvviso alcuni teli si sono srotolati sulle vetrate colorate in stile neogotico ed è partito un audiovisivo. Nel video abbiamo visto Tara dall'alto: i segni astratti e i cerchi concentrici quasi disegnati sul paesaggio verdissimo, la fanno sembrare un'opera di Landart ante litteram. Questi segni impressi sulla natura sono in realtà reperti archeologici che vanno dal periodo neolitico al 1000 d.C.: la collina di Tara infatti, nota come la residenza dei Grandi Re d'Irlanda, mantenne per secoli il suo potere come centro politico e religioso. La collina di Loughcrew La collina di Tara Lunedì 21 giugno In viaggio verso Belfast. Lungo il tragitto, abbiamo fatto una sosta a casa del fotografo Anthony Haughey, situata quasi al confine tra Irlanda del Sud e Irlanda del Nord. Il fotografo ci ha accolto in modo molto caloroso, con the caffè e scones fatti in casa per tutti. Gli scones sono dolcetti tipici irlandesi che vanno mangiati con burro e marmellata, deliziosi. L'artista ci ha presentato il progetto Borderlands, un archivio di fotografie e racconti di persone che vivono ai confini tra nord e sud, dal quale è nato un libro che ci ha mostrato. Abbiamo ascoltato alcune interviste raccolte, delle quali ricordo una sola, ma significativa frase: "credevo che il confine fosse la fine del mondo". Oltre a questa frase, mi ha colpito il fatto che molte persone vollero ritrattare quanto detto nelle interviste, fatto che mise il fotografo e gli altri curatori del progetto davanti a un importante questione etica e legale che terminò con le parti da eliminare date alle fiamme. Dopo questo piacevolissimo incontro, siamo arrivati a Belfast, nella cui Università la Dott.ssa Laura MacAtacney ci ha spiegato la tradizione dei murales dipinti su numerosissime facciate di questa città in cui l'aria di conflitto si respira in modo ancora molto forte. La tradizione dei murales nasce all'inizio del ventesimo secolo: i "lealisti" (protestanti filobritannici) usano questo mezzo espressivo per rappresentare personaggi e temi storici (come ad esempio William of Orange e la Battle of the Boyne del 1690). Mentre questi murales tendono a celebrare lo status quo, dagli anni ottanta del novecento compaiono murales di protesta realizzati dai repubblicani, i quali danno vita a una tradizione più dinamica che include eventi storici contemporanei e temi di attualità anche internazionale (per esempio è apparso di recente un murales sulla guerra in Palestina). Seguendo l'esempio dei repubblicani, anche i "lealisti" cominciano a includere temi più attuali, caratterizzati da simboli paramilitari e da slogan spesso aggressivi (per esempio: "prepared for peace, ready for war"). In entrambi i casi, la tradizione è tuttora molto viva, in quanto i murales rappresentano un mezzo diretto ed efficace per comunicare l'identità e marcare il territorio in una città in cui le mura di separazione e il controllo della polizia sono segnali eloquenti di un conflitto che aleggia ancora nell'aria (io almeno ho avuto questa sensazione di ansia opprimente). A casa del fotografo Anthony Haughey (al centro) Murales a Belfast Martedì 22 giugno Visita alla Kilmainham Gaol, prigione in cui sono stati rinchiusi e giustiziati molti leader della ribellione irlandese al governo britannico. La guida ci ha invitato a mantenere un comportamento rispettoso, quasi fossimo in un luogo sacro, introducendo e concludendo la visita in gaelico con una solennità sacerdotale. In effetti questo è un luogo in cui la conoscenza storica passa anche attraverso l'impatto emotivo che si ha nel percorrere quei corridoi bui e nell'entrare in quelle celle di 28, angustissimi, metri quadrati in cui i prigionieri, tra cui anche numerosi bambini e donne, vivevano in cinque con una candela come unica fonte di luce. Poco lontano dalla prigione, c'è l'Irish National War Memorial Gardens, un monumento in memoria dei 49,400 soldati irlandesi morti nel corso della grande guerra. Sebbene voluto sin dal 1919, questo memorial è stato presentato ufficialmente solo nel 2006 per ritardi dovuti inizialmente alle indecisioni relative alla scelta del luogo adatto e successivamente allo stato d'abbandono in cui versava il monumento a partire dagli anni Trenta, quando arbusti e animali selvatici invasero il complesso ormai quasi concluso. Il risultato odierno è un insieme armonico di natura "naturale" (il fiume, gli alberi, i prati), di natura "artificiale" (aiuole curatissime) e architettura in granito (templi ed edifici vari). Il luogo, pur avendo la maestosità e la solennità di un monumento ai caduti, non resta distaccato dalla città, ma è un luogo vissuto: anziani portano a spasso i cani, giovani si godono il sole sui prati, sul fiume passano le canoe. Abbiamo concluso questo interminabile giorno andando all'IMMA, l'Irish Museum of Modern Art dopo una pausa pranzo in un ristorante finto-italiano dal tipico nome "La Dolce Vita". Ricordo che la pausa non è stata per niente ristoratrice: la giornata era afosa e noi esausti. E di lì a poco un'altra conferenza! Questa volta sui rapporti heritage-arte contemporanea, il rapporto della contemporaneità con un passato storico così ingombrante (lo stesso museo è all'interno di un'ex struttura militare), le inattese somiglianze metodologiche tra arte contemporanea e archeologia, entrambe tese a inserire oggetti in un "frame". Sono intervenuti Christina Kennedy, Head of collections, che ha parlato di alcune mostre tenutesi al museo, un artista e Ian Russell, che hanno invece parlato di una mostra tenutasi alla Newman House, l'elegante casa georgiana della prima sera, i cui spazi classicheggianti sono stati messi in rapporto e in contrasto con installazioni e video contemporanei. Unica, grande pecca del programma: organizzare una conferenza all'IMMA senza lasciare il tempo per vedere il museo, di cui ho visto solo il cortile interno. E la sala-conferenze, naturalmente! Kilmainham Gaol Irish National War Memorial Gardens La nostra guida Irish Museum of Modern Art Mercoledì 23 giugno, ultimissimo giorno Dopo una lunghissima camminata sui bordi del fiume Liffey, abbiamo incontrato Mary McCarthy. Non ricordo assolutamente a che titolo parlasse, ma ci ha brillantemente illustrato il progetto di riqualificazione dell'area dei Docklands. Immensi palazzi di vetro, alcuni dalle forme nuove, alcuni un po' anni Novanta nonostante i materiali "moderni", sono sorti in un'area che non so bene come fosse. Ma era un'area della working class, di gente che lavorava sulle navi e nei porti. Alla comunità locale sono state destinate aree più interne e le loro eventuali rimostranze sono state placate attraverso iniziative soprattutto educative (per esempio borse di studio o l'edificazione di una scuola professionale). L'area ha indubbiamente il suo fascino: sarà il ponte di Santiago Calatrava che sembra una vela tesa dal vento o il gioco di curve e specchi di alcuni edifici ma qui tutto sembra in movimento. Nonostante tutto taccia: molti edifici sono vuoti, non ci sono bimbi a giocare nelle strade, nessun panno steso è appeso sui rari balconi. Gli edifici residenziali sono pochi: vi abitano per lo più impiegati che nel week-end scappano via. C'è un che di anonimo che mi lascia piena di contraddizioni: al mio gusto personale sempre in bilico tra nostalgia per il "come eravamo" e il fascino delle nuove forme si mescolano considerazioni estetiche ma anche sociologiche. Più all'interno, sopravvive un'area in mattoncini rossi vicino la ferrovia. Tra le case a punta spicca un grande palazzo rettangolare, chiamato "cheese" per gli oblò che bucano le facciate color celeste-pastello. L'edificio è un centro per le attività ricreative della comunità locale (gli abitanti stessi hanno scelto il progetto), ospitate da sale realizzate con materiali accuratamente selezionati in base alle esigenze di isolamento e acustica. Dopo esser saliti all'ultimo piano e osservato dall'alto delle sue finestre rotonde quest'area dalle mille contraddizioni, siamo tornati all'università. Il ponte di Santiago Calatrava e l’area dei Docklands Un’area interna rimasta immune dal progetto di riqualificazione; sullo sfondo e a destra il Community Center Vista dagli oblò del Community Center Ed ecco che è arrivata di colpo l'ultima sera. Siamo stati ricevuti in un'altra casa molto elegante all'interno del campus universitario. Questa ottocentesca casa giallina che ora ospita il Clinton Institut of American Studies è quasi invisibile tra i grandi palazzi dell'università. E infatti non l'ho trovata subito, arrivando un po' in ritardo alla serata e entrando con un po' di imbarazzo in un ambiente ritrasformatosi nel contesto formale della prima sera. Tra coppe di vino e fragole ci hanno consegnato gli attestati; poi ci siamo fatti le foto in un piccolo e rigoglioso giardino, ci siamo seduti sui prati scoscesi del campus fino alle 23,00, meravigliandoci ancora una volta di quanto in Irlanda faccia buio tardi. E tra saluti, scambi di indirizzi e inviti qua e là è giunta la fine della nostra Summer School. Un'esperienza umana e di studio con un rapporto qualità-prezzo senza pari! L’ultima sera I professori Ian Russell e Brian Jackson Il professor Pat Cooke e alcuni studenti Ringrazio – Thanks to i Professori Carlo Nati, Linda Giannini, Brian Jackson, Pat Cooke, Ian Russell, l'Ambasciata Irlandese, l'UCD, il Ministero degli Esteri e i compagni di studio per questa indimenticabile esperienza