Il tempo delle sartine
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Il tempo delle sartine
Otto Cultura, personaggi e miti dell’Irpinia «Patr’ Nostr’ ricciulill’, jangh’,russ e picc’rill’ cu na vesta r’ tre gunnell’, Gesù mije quand’ si bell’. Ije songh’ na povra piccatric’nun m’ pozz’ cunfssà...» o Domenica 27 febbraio 2011 VII «Mentre imparavo a cucire, la sarta mi faceva stirare molto, con il ferro a carbone: d’estate facevamo il fuoco, anche se faceva caldo» dialetti e tradizioni trapassato presente A sinistra il quaderno del sarto. In alto un ferro a vapore il tempo delle sartine il concorso i solito le donne erano addette alla cura della casa e dei figli, oltre che ad aiutare gli uomini nei lavori agricoli. “L’o m po rta li c alzun, la femm’na staje rind a fa’ la calzetta” (l’uomo porta i pantaloni, la donna sta in casa a lavorare a maglia), era il motto dei nostri nonni. Uno dei pochi lavori fuori casa, non disdicevoli per la donna, a parte quello di andare a servizio nelle case dei signorotti locali, era quello della sarta. Un lavoro umile, che richiedeva anni di apprendistato e qualche sacrificio iniziale, come ad esempio l’acquisto di “na machna p’ cos’” (una macchina per cucire), ma che poi si basava solo sulla maestria e “’ngimma a r’ man’ r’or’ r’ la femm’na” (e sulle mani d’oro della donna). La sarta doveva non solo saper tagliare la stoffa, ma anche saperla cucire ed eventualmente ricamare. Più cose sapeva fare, più era richiesta. Per i pagamenti si procedeva “nu poc’ a la vota” (un po’ alla volta, ossia a rate) o con il classico baratto, raramente si pagava in contanti alla consegna della merce. Ovviamente, si andava dalla sarta in occasioni particolari, quali erano ad esempio i matrimoni o “p’ s’ fa cos’ lu v’stit p’ quann’ s’ mor” (per farsi cucire il vestito da indossare in occasione della morte) per far preparare il corredo, in occasione della prima comunione e così via. In tutti gli altri giorni dell’anno ci si vestiva in maniera molto modesta, riutilizzando abiti smessi da fratelli o sorelle più grandi. Sentita sulla propria gioventù, Franc’schina, una sarta di Vallata racconta: “la prima volta che sono andata da una sarta, per fare pratica, avevo 17 anni. Ricordo che con l’avvicinarsi delle feste lavoravamo il doppio perché tutti, giovani, vecchi e bambini volevano sfoggiare “lu v’st’tiell’ nuov” (il vestito nuovo). Mentre imparavo a cucire, la sarta mi faceva stirare o Con l’avvicinarsi delle feste lavoravamo il doppio perché tutti, volevano sfoggiare “lu v’st’tiell’ nuov” molto, con il ferro a carbone: d’estate facevamo il fuoco, anche se faceva caldo, ma poi, dopo qualche tempo imparai che se d’inverno facevo “na bella vracia” (una bella brace) e poi spegnevo il fuoco con l’acqua, potevo conservare i carboni per l’estate, senza bisogno di sprecare tanta legna. Quando invece usavamo i ferri chiusi, li portavamo al forno la sera «Uno dei pochi lavori fuori casa, non disdicevoli per la donna, a parte quello di andare a servizio nelle case dei signorotti locali, era quello della sarta. Un lavoro umile, che richiedeva anni di apprendistato e qualche sacrificio iniziale, come ad esempio l’acquisto di “na machna p’ cos’” (una macchina per cucire), ma che poi si basava solo sulla maestria e “’ngimma a r’ man’ r’or’ r’ la femm’na” (e sulle mani d’oro della donna). La sarta doveva non solo saper tagliare la stoffa, ma anche saperla cucire ed eventualmente ricamare. Più cose sapeva fare, più era richiesta. Per i pagamenti si procedeva “nu poc’ a la vota” (un po’ alla volta, ossia a rate) o con il classico baratto, raramente si pagava in contanti alla consegna della merce» o di MARIANGELA CIORIA E TERESA LAVANGA prima e poi andavamo a riprenderlo la mattina presto, prima di iniziare il lavoro. Una volta, ero all’inizio dell’apprendistato ho “’ndaccat’” (tagliato inavvertitamente) con le forbici un vestito da sposa. Avevo così tanta paura che non ho detto nulla e l’ho nascosto in un cassetto. Tutte le sere pregavo la Madonna affinchè riparasse il vestito, perché io ancora non ero in grado di farlo. La preghiera che dicevo era: “Patr’ Nostr’ ricciulill’, jangh’,russ e picc’rill’ cu na vesta r’ tre gunnell’, Gesù mije quand’ si bell’. Ije songh’ na povra piccatric’nun m’ pozz’ cunfssà, né cu prev’t’, né cu muon’c’, sul’ cu te e m’eja fa sta p’ntenza.” (Padre Nostro ricciolino, bianco, rosso e piccolino con una veste con tre gonnelle Gesù mio quando sei bello. Io sono una povera peccatrice e non mi posso confessare nè con preti nè con monaci, solo con te e dovresti farmi questa penitenza). Ero così disperata, che tutti i giorni di nascosto controllavo se il vestito era nelle stesse condizioni o se per miracolo si fosse aggiustato. Un giorno la sarta si accorse dell’accaduto e chiese a tutte le ragazze di chi fosse la colpa. Nessuna rispose e lei, rassegnata disse “nun fac’ nient’ lu taglije lu facim’ scì ‘ndà la cus’tura o facim’ na r’presa” (non fa nulla, il taglio lo facciamo entrare in una cucitura o facciamo una ripresa). Feci un sospiro di sollievo, o Tutte le sere pregavo la Madonna affinchè riparasse il vestito, perché io ancora non ero in grado di farlo pensando che la Madonna aveva esaudito le mie preghiere”. Continuando a raccontare, Franc’schina ricorda che una volta, negli anni ’50 andò con SMARRITA Questa è la foto che ha ottenuto il quintoposto nel concorso “Irpinia Mia”. A realizzarla Eliana Sci altre apprendiste e una sarta al Formicoso (località nei pressi di Vallata). Qui dormì in camere così piccole che le mancava l’aria. Condivideva il letto con altre ragazze e spesso non riusciva a dormire perché “li struppun’ r’ li spuoglije m’ facev’n mal ‘ndà li rin” (i torsoli di spiga, usati per riempire il materasso, mi facevano male alla schiena). “La padrona di casa ci trattava bene, le sarte professioniste prendevano circa 500 lire al giorno, noi apprendiste avevamo vitto e alloggio gratis. Le prime cose che imparai a fare furono i punti di cucitura: innanzitutto “l’ind’rland” (una sorta di imbastitura che serviva da guida per il taglio della sto ffa), po i “lu sopramman, lu zig zag, la chiocca e la rbbatt’tura” (punto molto stretto, zig zag, l’asola e l’orlo). Fu poi la volta del ricamo, quindi imparai a fare “lu smerl, lu punt p’san, lu sflat e la reta” (lo smerlo, il punto pisano, lo sfilato e la rete). In seguito, quando ho imparato tutto, ho iniziato a cucire per conto mio. Da giovane apprendista, stavo sempre a casa della sarta, ma quando mi sono messa in proprio a volte andavo anche “casa casa” (di casa in casa) per fare i vari lavori. E’ stato un lavoro umile ma molto gratificante, che mi ha consentito di guadagnare abbastanza da poter vivere bene con la mia famiglia”.