Print Current Page

Transcript

Print Current Page
Scandalo e dialogo
Meret Oppenheim al Masi di Lugano
/ 20.02.2017
di Gianluigi Bellei
Due sono le opere feticcio di Meret Oppenheim: Déjeuner en fourrure (Tazza in pelliccia) e Ma
gouvernante del 1936. La prima acquistata dal Museum of Modern Art di New York, diretto da
Alfred Barr Jr., subito dopo l’esposizione surrealista alla galleria Charles Ratton di Parigi nel 1936, e
l’altra, dopo un’esposizione, dal Moderna Museet di Stoccolma, diretto dal mitico Pontus Hultén nel
1967. La tazza diventa subito un’icona del movimento surrealista e non a caso viene esposta nella
vetrinetta di Parigi accanto al Portabottiglie di Marcel Duchamp. Opera scandalosa, irriverente,
erotico-sovversiva, che unisce sesso e cibo. Magari un sesso godurioso come si sospetta possa essere
sotteso quello di accostare alla bocca qualcosa di peloso. Ma gouvernante rappresenta due scarpe
tagliate e incollate assieme con, sopra i tacchi a spillo, della carta bianca ritagliata. Sembrano due
cosce di pollo; il tutto posto sopra un vassoio d’argento.
Se mettiamo assieme cosce e tacchi alti non possiamo far altro che pensare a qualche fantasia
sessuale. E così di solito viene spiegata. Per altri è la rivisitazione della storia di San Giovanni
Battista. Salomè balla a un banchetto ed Erode per questo vuole assecondare un suo desiderio.
Salomè chiede consiglio alla madre Erodiade che vuole la testa di San Giovanni, portata poi su di un
piatto d’argento. Ambedue le opere erano presenti, nella retrospettiva dedicata all’artista, al
Kunstmuseum di Berna a cura di Therese Bhattacharya-Stettler (vedi «Azione» del 18 luglio 2006).
Una mostra degna di tale nome non può fare a meno di esporle.
Il Museo d’arte della Svizzera italiana dedica un piano della sua struttura al lavoro della Oppenheim.
Il curatore Guido Comis spiega che nonostante la copertina del catalogo porti soltanto il nome
dell’artista è nel frontespizio interno che se ne svelano gli intenti. Opere in dialogo. La nostra
artista/musa/modella è quindi raccontata in rapporto, «stretto e controverso», con gli artisti suoi
contemporanei. Insomma, per il curatore le precedenti mostre non hanno osato mettere a confronto
la Oppenheim con altri artisti ingombranti quali appunto Man Ray, Marcel Duchamp o Max Ernst
per non sminuirne la portata. Messa così suona bene, se non si riflette sul fatto che è da anni che
questi dialoghi vengono imbastiti, prima dal Museo cantonale e ora dal Masi. Una pratica ricorrente,
quindi, che spesso nasconde le fragilità delle esposizioni stesse. Non solo mancano unicamente le
due opere feticcio delle quali si parlava all’inizio – citate abbondantemente e ripetutamente anche
nei vari interventi presenti nel catalogo della mostra, come una sorta di convitate di pietra – ma, per
giunta, la maggioranza dei lavori esposti proviene da semplici collezioni private. Imbarazzante (…).
La mostra si snoda fra «possibili rimandi» e relazioni apparenti; «così ci sembra», scrive il curatore,
in un rapporto fra cibo e sessualità, corpo e indumenti, travestimenti e identità sessuale. Mescolando
contingente e futuro, apparente e realtà. Das Paar della Oppenheim del 1956 (due polacchine che si
uniscono per la punta) viene così accostata a Le modéle rouge di René Magritte del 1947 (due
scarpe che terminano con altrettanti piedi) a T42 di Mona Hatoum del 1999 (due tazze da tè unite
assieme) o a Schuhspanner für Das Paar di Daniel Spoerri del 1958 (due tendiscarpe uniti per la
punta). In un’altra sezione troviamo la fotografia Les galets (i ciottoli) di Man Ray del 1933 accanto a
Steinfrau (donna di pietra) della Oppenheim dipinta nel 1938.
Poi le usuali fotografie scattate da Man Ray negli anni Trenta alla modella Oppenheim, nuda e
andrògina, magari sdraiata e vista dal basso a gambe aperte. Scandalosa, sì, ma non così tanto, dato
che da decenni circolavano immagini e filmati di sesso esplicito fra gli artisti e non solo.
Nel 1932 Meret Oppenheim si trasferisce giovanissima a Parigi e qui crea i suoi capolavori: Déjeuner
en fourrure viene realizzata quando ha soli ventitré anni. «Un momento di gloria epocale», scrive
Bice Curiger in catalogo, che si interrompe con l’avvento della guerra e il suo ritorno a Basilea dove
trova «l’invidia degli artisti locali e il sospetto dei puritani». Fino al riconoscimento pubblico con la
consegna del Premio d’arte della Città di Basilea nel 1975. Qui, durante il suo discorso, affronta il
tema dell’androginìa dicendo: «Come il poeta, l’artista, il genio deve richiamare lo spirituale
femminile che ha in sé per poter creare l’opera, così le poetesse, le artiste e le intellettuali devono
coinvolgere nella creazione dell’opera lo spirituale maschile che è in loro. Le donne sono quindi
muse, che vengono baciate dal genio così come l’uomo, il genio, è baciato dalle muse».
La Oppenheim, musa e infine sciamana – come si definisce nell’autoritratto con tatuaggio del 1980 –
apre le porte all’arte del periodo successivo. Soprattutto alla body art per via di quel famoso
happening realizzato nel 1959 a Berna, La festa di primavera: un banchetto con sei invitati che si
cibano utilizzando solo la bocca, e senza l’aiuto delle mani, direttamente dal corpo nudo di una
ragazza sdraiata. Poi la Curiger indica come personaggi affini Robert Gober – presente in mostra con
una scarpa rossa di cera colorata – per il suo surrealismo interiore, e Félix González-Torres, con la
sua intimità e il senso di «scintillante re-incantamento».
Esposizione comunque da vedere, dopo un pellegrinaggio a Carona dove a Casa Costanza, la villa di
famiglia, era solita passare le vacanze durante l’adolescenza e lunghi periodi estivi negli ultimi anni.
La nipote Lisa Wenger sostiene che per Meret Parigi era la città che l’ha vista nascere come artista,
Basilea quella della formazione, Berna il luogo dove ha vissuto con il marito Wolfgang La Roche e
Carona il suo centro «emozionale», dove gli amici venivano a trovarla per star bene e «dormire come
un bebè». È sepolta proprio qui, nel locale cimitero.