L`attesa - Il mondo dello scrittore

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L`attesa - Il mondo dello scrittore
Introduzione
L'anno appena trascorso ha condotto verso nuove iniziative che hanno dato modo agli autori di
potersi esprimere su varie tematiche. 7 giorni di follie ha dato questa opportunità, lasciando che
fosse la fantasia di ognuno a esprimersi sulle pagine del blog omonimo e sul gruppo segreto di
facebook “riflessi allo specchio”. Tanti sono stati gli autori che si sono succeduti e che ci hanno
arricchito con le loro storie, i loro sogni, le speranze e i tormenti. Ogni scritto riporta la chiara
impronta personale dell'autore, ogni brano è una breve testimonianza della mente creativa di chi ha
condiviso un determinato pensiero. Dunque ringraziamo tutti coloro che hanno partecipato a questa
iniziativa, regalando, anche in questo caso, una raccolta di tutto quanto è stato scritto. E come nel
caso della raccolta di Christmas Fast vogliamo specificare che questo non è un libro, non è
identificato con un codice ISBN e noi non siamo degli editori. Christmas Seven vuole essere un
omaggio alla vostra bravura e alla vostra incredibile capacità versatile di poter scrivere di un
qualsiasi argomento venga scelto. Non ha alcuna importanza che siate stati più creativi verso alcune
tematiche e meno verso altre, ciò che importa è lo sforzo che è stato fatto e la volontà che è stata
posta nel volersi cimentare in qualcosa, che non fosse circoscritto al genere al quale siete
normalmente avvezzi. Dunque vi ringrazio, cari Portatori di Penne, per il contributo che avete dato
alle pagine del blog 7 giorni di follie, grazie per la vostra fantasia e per i frammenti di anima che si
colgono nei brani postati.
Buone Feste a tutti voi.
Erotismo
L'erotismo è da sempre una delle tematiche preferite dalla letteratura mondiale, molti sono gli autori
che, pur scrivendo altri generi, si sono comunque cimentati in questa prova di scrittura. Non è
sicuramente facile ricreare un'atmosfera che sappia coinvolgere il lettore, senza cadere nella
pornografia, così come non è semplice lanciarsi in determinate descrizione emotive, senza sembrare
scontati, stucchevoli oppure ridicoli.
7 giorni di follie, cari Portatori di Penne, inizia con questo accattivante tema scelto, ovviamente non
a caso, per stuzzicare la vostra fantasia, sia come lettori che come scrittori. Siamo certi che le idee
non mancheranno e siamo altresì convinti che, nonostante alcune “tinte forti”, saprete condire
l'argomento con la giusta dose di malizia, follia e atmosfere calde. Buon divertimento.
Andrea Leonelli
Mia
Il buio che sgocciola dalle lampade spente
si raccoglie sul pavimento,
striscia negli angoli come una nebbia consapevole.
evita, sembra, il solo cono di bianchissima luce
che trasforma il tuo corpo appeso con lacci di cuoio
alle catene che si srotolano dal soffitto.
I tuoi polsi, circondati dai lacci,
tenuti ben alti e lontani l’uno dall’altro
quanto lo consente la lunghezza delle tue braccia
sono arrossati e dolenti
così come le tue spalle.
Alla violenta luce appari diversa da come normalmente sei.
I chiaroscuri evidenziano alcuni tratti,
nascondendone altri.
Schiariscono la pelle, e cambiano di colore ai tuoi capelli,
gli occhi sembrano infossati e gli zigomi più sporgenti.
I seni più grandi e il ventre, in ombra, più piatto.
Le gambe, tenute aperte da un mozzo, legate alle caviglie
sembrano più lunghe e più snelle.
Sei un perfetto oggetto…
Indifesa, esposta, spaventata,
eccitata dall’essere inerme
bollente di desiderio
terrorizzata dal dover ancora attendere.
Il gioco però ha le sue regole,
la soddisfazione dei desideri
dipende dallo sfizio di chi domina.
Mi vedi avvicinarmi.
poi ti bendo, non mi vedi più
abbasso anche l’intensità della luce
perché non voglio che ti ferisca
prima di me
adesso non sai da che parte arriverà la carezza o lo schiaffo.
Cammino silenzioso
ti giro intorno
ti circondo con lo sguardo
lo senti sulla pelle
attendo
trasali al minimo rumore
attendi
alle tue spalle ti prendo per i capelli
tiro indietro la testa
tieni il fiato
un bacio
sospiri
la mano sulla gola si chiude
ansimi
addolcisco la presa
rantoli piacere nei respiri affannati.
Sento sotto le mie mani il tuo corpo che brucia.
Corde
uso corde per circondarti,
costringerti,
renderti difficile resistere…
Aumento ed esalto il tuo essere in mio potere
sollevo il mozzo che ti tiene le caviglie
e ti lascio sospesa
esposta anche negli angoli più intimi
completamente indifesa
ho pieno accesso ad ogni tuo recesso
ogni centimetro del tuo corpo a mia disposizione.
Baci, morsi, carezze, colpi,
la frusta.
Ho il dominio completo di te.
Prolungando il tuo piacere
quando lo deciderò,
lo avrò anche della tua mente.
Mi sarai schiava sottomessa e fedele,
serva ubbidiente,
ansiosa di compiacermi
con dedizione assoluta
e con il tuo corpo
che non esiterò a marchiare
con dolore e piacere.
Adesso accendo il tuo desiderio
Con parole sussurrate
sfiorandoti appena
rendendo sensibile e ricettiva la tua carne.
Ti porto alla soglia del piacere
usando il tuo stesso desiderio.
Mi fermo.
Obbligo il tuo corpo in nuove pose sempre più dolorose
umiliando la tua mente
al desiderio di compiacermi
Godo della tua frustrazione
Ricomincio
in un gioco paziente e crudele.
Mi implori di farti raggiungere l’apice dell’orgasmo
ma io te lo nego.
Sarà ancora maggiore il dominio;
quando avrò finito
Tornerai domani per godere il tuo dolore
e poi ancora
non avrai ricevuto che il supplizio
ed il piacere che potrai ottenere non lo avrai ottenuto da me.
Chiederai ancora di far parte dei miei giochi
ti piegherai sempre più alle pratiche più umilianti
e lo farai con gioia
e speranza disperata
di ottenere da me quel che non ti darò
se non saltuariamente, per sfizio
e ancora di più lo anelerai
e ancora di più mi sarai schiava
finché io lo vorrò.
Quando ti caccerò
soffrirai il mio abbandono
come fosse l’abbandono della tua stessa vita.
Succube
La sua silhouette si stagliava nel riquadro della porta del balcone. Il suo corpo in negativo, bagnato
dalla luce della luna e dal buio della stanza. L’ovale delle testa, il lungo collo che si unisce alle
spalle, e poi giù, scendendo fino alla vita, stretta e poi i fianchi generosi, le lunghe gambe.
Il vento portava odore di lei, un po’ selvaggio, un po’ sudore, un po’ sesso e sigaretta. Il fumo di
quest’ultima ne decorava i contorni danzandole attorno lieve, e l’ho invidiato, per la vicinanza, la
delicatezza del tocco, l’artisticità degli arabeschi.
Si gira, aspira dalla sigaretta e la brace le illumina, crudele, il bel volto trasformandolo in un ghigno
satanico, rosso, spietato. Lancia la sigaretta che descrive una curva come cometa triste per l’essere
stata gettata via, rifiutata dopo essere stata sfruttata. Il suo passo, sicuro, lieve e implacabile come
quello di un predatore mentre si avvicina al letto, dal quale la stavo osservando.
Scivola e mi fissa con quei suoi occhi verdi, quasi luminosi, indagatori… Sta cercando di leggermi
dentro, e probabilmente ci sta riuscendo. Sono abbastanza lineare, scoperto, semplice.
Mi fissa, e mi sento come cadere, una vertigine. Allunga una mano e mi sfiora il torace senza
smettere di fissarmi, mi sta sfidando, e sa benissimo che io ho già perso. Come lo so io.
Dopo avermi così guardato può chiedermi di fare qualsiasi cosa e sa che le ubbidirò senza
protestare, mi annulla, non riesco a ribellarmi… E’ come se mi ipnotizzasse…Intanto la sua mano
vaga sul mio corpo, continua a sfiorarmi, delicatissima e al contempo dura, incide con le unghie
lunghe la mia pelle, ma senza dolore, lievissima.
Si alza, si volta e dandomi le spalle mi dice: “Vattene adesso. Se e quando ti vorrò rivedere ti
chiamerò io, Intesi!?”
Chino il capo, accenno un silenzioso si nel momento in cui volge la testa dalla mia parte sopra la
spalla, raccolgo le mie cose e me ne vado. Mi rivesto in un’altra stanza, fuori dalla sua vista, poi
sempre silenziosamente esco chiudendo delicatamente la porta della sua casa…
Mi avvio verso la mia abitazione pensando alla mia miseria, e alla angosciosa attesa che mi aspetta.
Solitudine, tristezza, ansia… Il desiderio di lei, che mi domina, che mi usa per il suo piacere, è
insopportabile, ma so che devo ubbidire, altrimenti mi punirà negandomi la sua presenza. Troppo
dolore la consapevolezza che lei esista e sia irraggiungibile. Meglio servire “a chiamata” che mai.
Sono succube. Di LEI.
Estrai il mio cuore
Sei sopra di me,
mi sovrasti,
le tue mani
sul mio petto
appoggi le unghie
le spingi nella carne
mi squarci il petto
arrivi al mio cuore
lo estrai
e cominci
lentamente
teneramente
a carezzarlo
come per assaggiarlo,
allunghi la tua lingua
rosso strumento di tortura
e gliela passi sopra
più e più volte
voluttuosamente
mentre continui
dolcemente a strofinarlo
infine, come a cibartene
lo succhi,
come per estrarne
l’essenza
che infine esplode
marchiandoti
riponi a posto
il mio cuore
ti alzi
mi sorridi
te ne vai
il mio cuore
dopo te
non sarà mai più lo stesso
Irma Panova Maino
Il mio nome
Lento il respiro si sofferma sulle labbra, mentre il gemito ha la stessa eco del battito che rallenta,
diventando profondo. La mano si distende sul lenzuolo candido cercando quell’appiglio che
impedirà ai sensi di volare via, di perdersi nel caleidoscopio di colori che dipingi sulla mia pelle.
Nel silenzio sento scivolare le tue dita, come se avessero la stessa consistenza della seta che mi
accoglie, graffiandomi l’anima con la tenerezza del gesto, marchiandomi nel fuoco che ancora non
brucia, ma consuma.
È il calore del mio amante, quello che scorgo dietro la benda, il suo sapore che risveglia i miei
sensi, il sentore della sua passione che mi scuote, scaraventandomi oltre il reale, in quel mondo
onirico in cui le anime si fondono e si confondono con le ombre della sera.
Mi danza intorno, sfiorando le estremità della mia coscienza, sussurrando quelle catene che
imprigioneranno il mio volere, riducendomi schiava di quella brama che non riesco più a
nascondere.
Il fiato pare congelarsi in quell’attimo in cui comprendo, in cui sciolgo i nodi delle corde che mi
hanno tenuta legata, a una verità che non mi appartiene più. Sento quella parte di me che era rimasta
assopita e dormiente, tendere verso i confini del mio mondo antico, cercare quel passaggio che
potrebbe condurre il mio essere a nuova vita, verso colui che mi ha dato il mio nome celato. Che mi
ha chiamata, con quel sussurro portato dal vento, usando l’unica parola che avrebbe aperto quel
mausoleo in cui ero stata rinchiusa. E quel gemito lieve diventa tempesta, diventa l’uragano che
spazza via i detriti, le rovine, i cocci di un passato ormai obsoleto.
Chiamami con il mio nome. Quello vero, quello che hai compreso perché hai visto l’essenza di ciò
che sono. Chiamami per portarmi a te, cavalcando quella tempesta che solca i cieli e illumina le
tenebre con i suoi lampi di passione e i suoi tuoni di ardore.
Richiama a te gli ioni che crepitano nell’aria e che sono le molecole del mio essere tuono e fulmine
e tempesta, particelle cariche di quell’elettricità che solca i nostri corpi, bagnandoli di quella patina
umida che aumenta il desiderio represso. Fammi arrivare fino a te attraverso quel lieve pronunciare,
attraverso i sensi protesi e le mani che si sfiorano esitanti, tremanti, quasi incredule.
Dimmi ciò che sono. Nulla di ciò che è stato mi appartiene più, non ho più identità, corpo e forma.
Sarò ciò che tu vuoi che io sia, perché sarà il tuo calore a modellare la mia essenza, adattandola alla
tua. E mentre languo nell’attesa, aspettando che tu definisca i miei contorni, lascio i mie pensieri
vagare nelle sensazioni che creo nella mia mente, ricordando te, i timbri della tua voce, dei tuoi
sospiri. È un corpo che s’inarca, che si tende verso un sole che ancora non è sorto, ma che tinge
l’orizzonte annunciando la nuova era. Un corpo pronto per spiccare il volo verso l’astro nascente,
pronto a bruciare al suo calore, ancora e ancora, come se non potesse mai morirne e mai saziarsi.
Invece muoio e risorgo ogni giorno sulle tue labbra, avvelenato miele che mi riduce a brandelli
l’anima, trascinandomi nei desideri torbidi della tua brama, senza darmi tregua, senza lasciarmi quel
respiro essenziale, che mi permetterebbe di vivere.
Tuttavia, cosa sarebbe questa vita, senza la tortura che mi infliggi, senza il fuoco che mi consuma.
Cosa sarebbe senza la tua voce che mi sussurra e m’incatena nell’illusione?
Allora chiamami, fammi risorge nel mio nuovo mondo, sovrana della tua terra, padrona del tuo
cuore. Lascia che sia di nuovo fertile e produttiva la tua terra. Sono la vita che spira fra le fronde,
riportando nuova speranza. Nuovi boccioli sui rami spogli.
Pronuncia il mio nome e rendimi eterna, lasciando che l’alba ci colga sfiniti e colmi della sola
tenerezza che alberga nei cuori.
Dammi il nome che mi spetta, l’unico che veramente conta, che serra i ferri sulla mia carne,
facendomi tua.
Chiamami amore
Gianluca Frangella
Follia
Follia.
Lessi così intensamente le tue parole d’eros, che densamente esse han preso possesso di me, e
inevitabilmente ho provato l’orgasmo!
Follia.
Giochi d’ombre
La musica ondeggia lentamente nella stanza. Suonano le note contro le pareti, rimbalzano, si
scontrano e penetrano la mente di chi le ascolta. Segretamente penetrano il corpo, e assorbite dalla
pelle, iniziano, lente, a scorrere nel sangue. Ombre di candela si cercano, si uniscono, si fondono. Il
morbido seno si delinea in curve dolci, che ora vengono afferrate da una mano. Profili di corpi
scivolano lungo la bianca parete, e con discrezione, nel gioco di luci ed ombre, ora si fondono al
buio degli occhi di chi non può vedere. Si afferrano e i visi si incontrano, si uniscono in un bacio, e
ora, adagio, i baci di un uomo scivolano sul corpo di donna col capo rivolto verso l’alto, a
richiamare attenzione al collo. Dondolano i capelli, spogli di forme, bidimensionali, nel continuo
gioco di ombre, mentre il seno spunta di nuovo, tondo e morbido, lasciato dal bacio dell’uomo. Ora
è sulla pancia, le sue mani abbracciano il corpo della donna. Scende lentamente, guidato da note
melodiche che riempiono la stanza. La donna solleva una gamba, la mano dell’uomo l’afferra. Ora
lei prende il suo capo e lo spinge verso il suo corpo, lui si lascia andare al consiglio del piacere
dettato dal momento. E la lingua, lieve, suona i tasti dell’immenso piacere; risale la sua bocca sul
seno, mentre le mani accarezzano le cosce.
Lei china il suo viso sopra il suo capo. Ora tutto il suo seno e nella sua bocca, morsi pregni di
passione su capezzoli irrigiditi dalla voglia di essere posseduta, cadono le note ancora.
La gamba dal braccio continua a levarsi verso l’alto. L’uomo è in ginocchio, davanti a lei. La gamba
sale sulla sua spalle. Nel bidimensionalità del gioco d’ombre, baci roventi accarezzano labbra
infuocate. Il piacere del suo sesso è lava di un vulcano che sta per eruttare. Il piede si distende,
segno di rigidità di un orgasmo bramato. Mentre le ombre ora si muovono con leggeri scatti, quasi
isterici, quasi incontrollati. Le note suonano, i baci scivolano, le labbra mordono, si afferrano, e le
ombre si uniscono si dividono, si afferrano si rincorrono. Lei scivola sul pavimento, le ombre si
fondono, si cercano di nuovo e ora di nuovo scappano. La sua bocca sul suo sesso, risale verso
l’alto, e ora di nuovo, l’ombra del suo seno, si mescola con l’uomo. Le gambe si sollevano, lui si
distende sul suo corpo…
La vita che vorrei
Le sue gambe dalla morbida pelle bruna mi avvolgevano mentre il suo corpo lo vedevo contorcersi
dal piacere sotto il mio; e bruciava il fuoco dei suoi desideri più erotici, dando luogo, con la sua
fiamma ardente, ad un incendio di sensazioni implacabili dentro di me, che per tutta la notte ci
accompagnò fino a lasciarci andare ad un sospiro d’immenso piacere, per poi scivolare in un dolce
sonno, abbracciati. Io e lei.
Storia di un libro mai scritto
Ora tutto tace, c’è chi legge, chi sogna, chi dorme, chi balla in discoteca, chi fa l’amore. E tutto
tace. Tu dove sei ora? Forse sei davanti al portone e stai salendo le scale di casa, fine della serata.
Forse appoggiato su uno scalino trovi un libricino, lo prendi, lo guardi. Non è tuo lo sai, qualcuno lo
avrà perso senza accorgersene. Lo posi sullo scalino, ma poi ti guardi intorno e forse pensi sia il
caso di lasciarlo sulla buca della posta. Lo apri e leggi “Sono qui per te. Sono il tuo libro, la tua
seduzione mentale, il tuo desiderio nascosto”. Troppo ridicolo come inizio, forse un poco
presuntuoso, ma la curiosità di scoprire c’è. Nell’ingenuità di poche parole, si cela la curiosità di
donna che è il tuo dono. Lo tieni, lo porti con te. Lo guardi mentre apri la porta di casa, forse
dovresti ridarlo al legittimo proprietario. La porta è aperta, accendi la luce nel soggiorno. E’ vuoto.
C’è silenzio. Apri di nuovo il libro e continui a leggere “Non mi credi? Allora perché esiti? Ti basta
lasciarmi dove mi hai trovato. E’ semplice, molto più semplice di quel che pensi. Ma nulla può
cambiare il fatto che io sono qui per te, che sono la tua seduzione mentale”. Richiude il libro. E’
impensabile che si possa leggere un qualcosa di così assurdamente infantile. Eppure, seppure è nel
tuo dovere, restituire quel libro, ti chiudi dietro la porta pensando che domani potrai sempre
riposarlo dove lo hai trovato. Giusto una notte con te, una sola notte. Solo una notte per capire di
cosa sta parlando.
Ora sei nel tuo soggiorno, poggi il libro per disfarti dei tuoi abiti. Il cappotto sull’attaccapanni, le
scarpe le sfili e le lasci accanto alla porta. Cammini scalza fino al divano portando con te il libro, ti
lasci cadere. Richiami a te le gambe, ti massaggi i piedi, e continui a leggere.
“Come sei bella nel tuo vestito nero. Hai un corpo che mi seduce i sensi” e sorridi, nel notare il tuo
vestito nero scivolare su dolci lineamenti. “Si. Sto parlando proprio di te. Di te e del tuo neo sul
collo” ti sfiori “Ti stai sfiorando” ti fermi “ma non ti fermare, ti prego, forse è solo una misera
coincidenza la mia. Ma io continuerò a parlare di te”. Distendi le gambe. L’inchiostro nero su fogli
bianchi assumono nella tua mente un senso indistintamente umano, caldo, e ti abbracciano i
complimenti. Ti senti sola probabilmente, o forse poco attraente, come accade a molte donne, ma
non per questo dovresti lasciarti andare a poche parole di un libro. Eppure lui è lì, tra le tue mani, e
ora lo riapri per continuare a leggere.
“Sapresti immaginare le mie mani sul tuo corpo? Ebbene io ti sogno da sempre, ti scruto, ti
immagino, ti vivo, ti respiro. Il tuo profumo. Sento il tuo profumo propagarsi nella stanza” di colpo
chiudi il libro, ti guardi intorno. Non c’è nessuno intorno a te, sei sola. Sei tu e quel libro. Non c’è
alcun titolo, non c’è autore, non c’è quarta di copertina. In questo istante una gamba si distende sul
divano e la tua mano si accarezza. Ti guardi mentre istintivamente la mano risale il ginocchio e
solleva il vestito fino a mezza coscia. Ti fermi, riapri il libro. Leggi.
“Sei sensuale. La sensualità è la virtù di una donna. C’è femminilità nei tuoi gesti. Perché ti sei
fermata? Perché hai frenato l’istinto? Mostrami di più, ho voglia di sedurti per dissetarmi l’anima di
piacere. Sono le parole del tuo desiderio più nascosto, sono il tuo eros più profondo. E tu non ci
credi che parlo di te, ma vorrei tanto tu provassi a fidarti. Continua ad accarezzarti”.
Lo so, è strano a dirsi. Eppure è così. Rileggi le parole, ma non cambiano, sempre le stesse. E l’idea
di un occhio indiscreto che ti guarda accarezzarti, ti eccita. Ti senti spiata nella tua intimità. Così,
per curiosità, continui a risalire la coscia sollevando il vestito fino a mostrare il ricamo dell’intimo.
“Bianco. Il candore del bianco sulla tua pelle abbronzata. I miei baci, le mie carezze, il mio respiro
sono lì, sulla tua gamba. Mi senti? Le mie mani sono le tue , mi muovo attraverso te. Posso sentire
la tua pelle scivolare sul palmo. Posso sentire la tua morbida coscia sotto le mie labbra. Posso
sentire il tuo profumo, e odo il tuo respiro ansimare”.
Ora ansimi. Costretta ad arrenderti, richiudi il libro e ti copri la gamba. Ora basta. Questo è troppo.
Ti copri e riapri il libro.
“Perché? Perché mi privi di tanto piacere? Potessi esser lì, su quel divano al tuo fianco! Vorrei
baciarti la caviglia, massaggiarti il piede. Lasciati andare, mentre ti spoglio di tanta paura. Lasciati
rivestire di sicurezza, di serenità. Sei così bella. E i miei baci no, non li fermare. Dammi la mano,
lasciala guidare di nuovo lungo la coscia, lasciala svestire fino al piacere”. Ora cosa succede? La tua
mano è risalita e la tua coscia è di nuovo spoglia.
“Sono qui, lungo le tue gambe”. Tu le allarghi leggermente. “Sono qui, vicino il tuo sesso. Sento
l’intimo sfilarsi” La tua mano si posa sul pube. “Sono qui, sono le mie dita che senti, ed è la mia
lingua ad accarezzare le tue labbra roventi” Le tue mani sfilano l’intimo. “Lo senti il piacere? Senti
il mio respiro sul tuo corpo? Sento il tuo sesso bagnarsi, e il godimento scorrermi sulla lingua” Ti
tocchi. “Come sei bella, scusami se mi ripeto, mentre ti penetro dolcemente e continuo a leccare il
tuo sesso” La tua mano sfiora il clitoride. “Ora sto risalendo il tuo corpo, sento il tuo seno sul palmo
della mano” Una gamba si piega verso il petto, e si allarga. La mano è sul pube, vorresti reagire,
arrenderti non è facile, richiudi le gambe e stringi con forza la mano, come per fermarla. Ti volti su
un lato “Come sei attraente quando mi resisti. Il tuo corpo è rigido, il tuo seno sodo. I capezzoli si
sono induriti dal piacere, i muscoli si contraggono. Distendi le tua gambe, sconfiggimi, resistimi,
ma io sono la tua seduzione mentale” Le tue gambe si allungano, i piedi si stirano, senti fremere il
piacere, il desiderio invadere la tua mente. Ti rigiri, provi a ribellarti, ora sei di nuovo con le gambe
aperte e la mano nell’intimo tocca il clitoride.
“Sono qui, sono qui sul tuo seno, mentre la lingua gioca a sedurre i capezzoli, prima uno poi l’altro.
Afferrami forte la schiena. Senti salire l’orgasmo, lascialo scorrere nelle vene, e non frenare l’atto
della passione. Penetrare” Un gemito fuoriesce dalla bocca. “Penetrare. Lasciami entrare dentro di
te” Altro gemito, e non puoi evitare di toccarti. Scagli il libro in terra, lo rialzi, lo sfogli, e intanto ti
tocchi. Provi un immensa sensazione di purezza, di sublime trasgressione, e di voglia. Ti tocchi e ti
contorci. I gemiti diventano più acuti, non li sai più gestire, non ti sai più gestire, fin quando col
fiatone il tuo corpo cede. Respiri guardando il soffitto. Gli occhi sbarrati, l’espressione seria.
Affannata ti volti lentamente, raccogli il libro dal pavimento. Lo apri e ti accorgi che tutte le pagine
di quel libro, sono bianche.
Nadia Milone
Sogno
Mi giro nel letto, allungo una mano e ti sfioro. La tua pelle é liscia e morbida. Avrei voglia di
accarezzarti, di baciarti e di morderti, però non lo faccio, ti aspetto. Consapevole del mio desiderio
mi respingi per gioco, ma poi mi cerchi. Sembriamo due adolescenti sotto le lenzuola e la cosa mi
eccita e annulla ogni mia inibizione. Adesso non sei il moralista di sempre, vero? No, adesso sei
solo il mio giocattolo preferito.
Il gioco continua, ormai siamo entrambi in preda ad un desiderio incontrollabile. Il fuoco ci brucia e
i sensi esplodono in una danza di amore e passione. Siamo nudi, completamente privi di indumenti
e di difese, l’uno accanto all’altra senza maschere né costumi e ci uniamo in un unico corpo e in
un’unica mente. I nostri corpi si muovono in perfetta sincronia, come in una danza. Ora non mi
respingi più, finalmente mi vuoi, mi desideri come io ho sempre desiderato te
Baci ogni centimetro del mio corpo ed io rispondo ai tuoi baci con ardore, è una vita che desidero
sentirti così! Fremo al calore del tuo corpo sopra il mio e al tuo respiro ansimante sul collo, sento la
tua lingua che mi cerca e mi esplora e le tue mani stringono il mio seno fino a farmi male ma non
mi lamento anzi, mi piace. Mi conduci con te fino alle vette più alte del piacere e voliamo insieme
verso mondi proibiti, sfidando il peccato. Se è all’inferno che devo andare, allora voglio essere con
te.
Mi guardi e sorridi malizioso, sei insaziabile e vuoi ricominciare. Ancora, ancora e ancora.
Apro gli occhi e mi guardo intorno, ma tu non ci sei più. Dove sei? Era un sogno? Sì, lo era. Un
incredibile e bellissimo sogno. No, non mi voglio svegliare, non ora. Richiudo gli occhi e,
finalmente, possiamo riprendere da dove ci siamo fermati…
Ronnie Corbo
2 Spade
Notte fonda e poca gente in circolazione. Solita vita di una noiosa cittadina di provincia. Stava
girovagando in macchina da un pub all’altro senza trovare nessuno di interessante. Non aveva
voglia di darsi all’alcool come faceva abitualmente. Quella sera no. Poi all’improvviso gli venne in
mente quel locale di quarta categoria dove spesso si trovava gente strampalata, mariti con le loro
amanti segrete, tutte donne di una certa età in cerca di un ultima avventura prima di raggiungere la
pace dei sensi. Donne con i collant a rete strappati sui talloni e minigonne stropicciate sempre
troppo corte per i fisici di quell’età. C’era di tutto in quel posto: ubriachi uomini d’affari ormai in
bancarotta e donnacce pronte a tutto pur di rimediare una scopata come dio comanda. Lui c’era
andato qualche volta in passato e data la sua età, al di sotto della media del posto, aveva subito
trovato una donna che ci aveva provato: proposta rifiutata con garbo ed educazione come era nel
suo stile. Ma non fu quello il motivo che lo spinse a tornare quella sera. Il motivo si chiamava Lele.
Così chiamavano quel ragazzo, se poi si chiamasse Raffaele o Samuele lo ignorava, non era questo
che rendeva speciale quel ragazzo dai capelli lunghi, leggermente mossi e neri come la notte. La
cosa che lo ossessionava di Lele era che quando lo vedeva gli prendeva qualcosa di strano allo
stomaco, come dei crampi, come se avesse un coniglietto che si dibatteva nelle sue budella. Lui non
aveva mai pensato a certe cose, agli uomini, lui amava le donne fino all’adorazione religiosa, fino
all’ossessione. Ma cosa gli faceva quel tipo? Cosa aveva che gli altri non avevano? Ora lo voleva
scoprire. Parcheggiò difronte al locale ed entrò. Come previsto lo trovò seduto ad uno sgabello
mentre parlava con un vecchio gay cliente fisso del posto. Rideva ed era bello. Sì. Semplicemente
bello. Il coniglietto cominciò a dimenarsi. “Ora basta” si disse mentre lentamente si mise vicino a
lui. Ordinò rum e coca e gli sorrise. Lui ricambiò col viso illuminato di gioia. “Ci siamo”. Sapeva
che di lì a poco Lele gli sarebbe andato più vicino e gli avrebbe detto qualcosa. Così fu. “Ciao, che
bello rivederti… ma dov’eri finito?” La sua voce da effemminato lo eccitava da morire. Solo lui
aveva questo potere. Conosceva altri gay ma nessuno di loro aveva questo effetto su di lui.
Incomprensibile ma allo stesso tempo piacevole. Lele gli si fece molto vicino, lo toccava con la
gamba destra e poteva sentire il calore del suo corpo infiammato dal desiderio. Prese il bicchiere
con la mano quasi tremante e lui avvicinandosi all’orecchio gli sussurrò: “Poi andiamo…sì?”
Ancora quella voce, ancora quell’eccitazione incontrollabile. Si volto e sfiorandogli il viso con la
bocca rispose sottovoce: “Sì..non vedo l’ora”. Poi tornò nei suoi panni e con un colpo da maestro
del bere trangugiò tutto il rum e coca in un fiato, gettò dei soldi sul bancone senza guardare quanti
fossero, non importava più niente in quel momento, c’erano solo lui e Lele. Uscirono di corsa e via
in macchina fino a quando non trovarono un luogo appartato dove poter dar sfogo alla loro voglia di
sesso. Fu Lele a prendere l’iniziativa baciandolo partendo dal collo e pian piano avvicinandosi alla
sua bocca. Cominciò a sentire la sua lingua sulle labbra che poco dopo aprì facendola entrare in
contatto con la propria. Si stupì di come il suo bacio fosse delicato come quello di una donna.
Questo lo mise ancor più a proprio agio e si sciolse definitivamente. Anche lui ora si muoveva
seguendo il solo piacere, nient’altro importava al mondo. Si baciarono come due amanti
appassionati. Sentiva il sapore di Lele e gli piaceva ne avrebbe voluto ancora e ancora e ancora.
Cominciarono a spogliarsi, le due camicie volarono via come fazzoletti al vento e i jeans si
abbassarono contemporaneamente. Ora il gioco si faceva più interessante visto che lui non aveva
mai nemmeno toccato un altro cazzo in vita sua. Combatté e vinse questa sua mancanza prendendo
in mano quello di Lele e cominciando ad accarezzarlo delicatamente. Stava scoppiando di piacere.
Gli leccava il petto e i capezzoli poi su di nuovo al collo e alla bocca. I respiri si incavallavano
sembrando un’unica creatura in preda a spasmi di piacere. Lo baciò sul petto, poi sullo stomaco
piatto e liscio fino a quando cominciarono i peli mori e ricci. Non si fermò e scese ancora. Lo
teneva ancora in mano quel cazzo pulsante e lo guardò sorridendo prima di aprire la bocca e
cominciare a succhiarlo con impressionante e inaspettata avidità. Si accorse di quanto fosse bollente
quella carne ma anche buona da mangiare. Si fermò solo quando Lele glielo chiese, era sul punto di
venire. Evidentemente anche se non lo aveva mai fatto era un gran spompinatore. Poi si misero uno
sopra all’altro, i due cazzi duri si sfidarono come due spade in un duello mozzafiato. Si strisciarono
un po’ poi fu la volta di Lele che si lasciò scivolare tra le sue gambe e questa volta toccò a lui
godere delle attenzioni di quel magico ragazzo. Mentre glielo stava succhiando si sentì qualcosa in
mezzo alle chiappe. Era un dito che gli stava entrando nel culo. Lo lasciò fare capendo presto di
aver fatto la scelta più azzeccata della sua vita perché il piacere che provò fu disarmante. Lele
succhiava e accarezzava il suo cazzo con la lingua e muoveva avanti e indietro il suo dito medio.
Lui stava provando qualcosa di indescrivibile. Mai avrebbe potuto immaginare di godere in quel
modo così assurdo ,incredibile. Non riuscì a trattenersi e gli sborrò urlando dal piacere in pieno
volto. La cosa non lo sorprese affatto ma, anzi, cominciò a leccarsi la bocca come i bambini dopo
aver mangiato il gelato. Gli piaceva lo sperma, era evidente. Lui era ancora sdraiato sul sedile col
petto che prendeva aria ansimando come quello di un grosso pesce fuor d’acqua. Aveva goduto
come non mai. Poi Lele gli si fece sopra e lo baciò sulla bocca. Aveva ancora le labbra umide di
sperma ma andava bene. Si abbracciarono per un po’ poi si rivestirono e tornarono al locale.
Entrando la gente si voltò a guardarli, erano entrambi sudati. Se ne fregarono altamente e presero da
bere qualcosa di fresco. I cuori ancora a mille e le guance arrossate. Erano felici, soddisfatti. Gli
altri uomini ubriachi presto si dimenticarono di loro e tornarono alle loro baldracche da due soldi.
Finirono i drink e si salutarono con la promessa di rivedersi presto. Lui accese il motore, mise la
prima e si avviò sorridendo verso casa. Si sentiva leggero.
Ora era tutto a posto. Adesso il mistero era risolto e avrebbe guardato il mondo con occhi diversi,
con occhi di chi sa qualcosa in più degli altri. Era felice, voleva bene ancora alle donne ma alla lista
si era aggiunta una nuova voce: Lele.
Un segreto
I loro sguardi si incrociarono soltanto quella sera in quel ristorante. Lei col suo fidanzato e lui con
sua moglie, ma il pomeriggio prima non fu così. Non si sarebbero dimenticati così facilmente del
loro incontro nel parcheggio sotterraneo del centro commerciale dove avevano parcheggiato vicino
nell’angolo più buio e isolato. Lei aveva appena riposto le borse con gli abitini nuovi sui sedili
posteriori quando girandosi si accorse di lui che la fissava incantato con un gomito appoggiato alla
capote della sua Mercedes. La cosa non la sorprese, sapeva di fare quell’effetto agli uomini,sapeva
di essere tremendamente bella e ciò la riempiva di gioia. Le veniva voglia di concedersi a tutti quelli
che la guardavano in quel modo come per riconoscenza, adorava essere ammirata più di ogni altra
cosa al mondo. Lui la fissava anche se lei gli si era messa dritta davanti, non aveva vergogna di
essere stato scoperto oppure era davvero incantato dalla vista del suo corpo perfetto. La giovane
fece scivolare una mano lungo il suo ventre piatto fino alle cosce poi si fermò per un istante mentre
inarcando le dita prese il bordo della minigonna a ventaglio e lentamente se la sollevò fino a
mostrare all’uomo le sue cosce bianche e carnose, di burro. Ora solo le mutandine di pizzo rosa
separavano la sua fica da lui. Fece quattro passi e sollevandosi in punta di piedi lo baciò dolcemente
sulle sue labbra immobili. Poi gli sussurrò “Cosa ne dici, ti va?” La sua vocina ebbe un effetto
ipnotico su di lui che rispose quasi come un automa “Sì”. In un attimo furono sulla spaziosa
Mercedes, i sedili buttati giù con violenza e i loro corpi stretti nella morsa della passione. La
ragazza non aveva perso tempo e affondando una sua manina nei pantaloni aveva trovato quello che
si aspettava, un grosso cazzo già duro e pulsante di desiderio, poteva sentirne anche le vene rigonfie
di sangue bollente. Lui le aveva tolto le mutandine con due dita, come se non avessero alcuna
consistenza al confronto delle sue grandi mani muscolose, e le stava massaggiando la fica con
movimenti circolari. Poteva già sentire la calda umidità sulle dita tra quelle cosce bianche di una
giovane fanciulla che avrebbe potuto essere sua figlia. Ma non lo era. I respiri si facevano più
affannati e mentre lui si stava facendo largo con le dita nelle labbra arrossate e calde lei gli strinse
con forza il cazzo e, con una sicurezza che mai nemmeno sua moglie aveva mai avuto, disse “Ora
diamoci un taglio” e aggrappandosi a lui con un solo braccio usò la mano libera per infilarsi dentro
il suo membro con una tale decisione da sembrare una donna di almeno quindici anni più grande.
Gemette solo un po’ quando quel grosso pezzo di carne la riempì, poi gli si strinse come un serpente
al torace e lo accolse in sé per tutta la sua lunghezza. L’uomo le sbottonò istericamente la camicetta
e succhiò avidamente da quel petto giovane e bianco come la luna, le stelle e tutto quanto di magico
c’è in natura. Scoparono in quell’angolo buio di mondo senza timore di essere visti e senza alcun
ritegno. L’uomo rimase stupefatto solo quando lei gli sussurrò di tirarlo fuori dalla fica perché
aveva voglia di essere scopata anche di dietro e quasi era sul punto di dire “Non esageriamo” o
qualcosa del genere, come se solo in quel caso il suo senso del pudore si facesse sentire, ma poi
acconsentì immediatamente quando la sentì precisare che, in caso affermativo, avrebbe potuto
sborrargli nel culo. La cosa finì come la ragazzina si era prefissata e il cinquantenne si sentì un
miracolato. Sapeva che mai più in vita sua gli sarebbe capitata una cosa del genere e proprio per
questo era infinitamente grato alla sorte e a quell’angelo trovato per caso in uno squallido
parcheggio.
Furono attimi senza tempo per l’uomo. Per lei forse non era la prima volta e di sicuro neanche
l’ultima. Erano due mondi lontani entrati in un piacevole conflitto, due generazioni con niente in
comune se non il fatto di vivere sullo stesso pianeta e di cenare allo stesso ristorante.
“C’è qualcosa che non va caro?” gli chiese la moglie vedendolo assorto nei suoi pensieri, “No
tesoro, va tutto bene…tutto bene”.
Mal’âq ‘Ȃnf Fràn’
I nostri cuori: sono scrigni d’Amore, di Passione e…
L’ora è arrivata!
Mi lascio dietro le spalle il sole caldo d’Oriente, bello, radioso, raggiante pieno di meraviglia e
stupore, e intraprendo il mio viaggio di ritorno verso l’Occidente.
Durante il viaggio, mi metto ad osservare il cielo, limpido, azzurro, di una nitidezza indescrivibile.
La mia attenzione si posa sul sole che è quasi al tramonto, in cui la luce dell’est comincia ad
indebolirsi per diventare notte. Si, proprio notte, una notte oscura, buia, spenta…
Mi soffermo, con un rammarico nel cuore, con la consapevolezza che al mattino dopo, quando mi
sveglierò e vedrò la luce del sole, non sarà la stessa, non sarà la stessa luce che ho visto in questi
giorni.
Il cuore mi si rattrista, e mi chiedo:<< perché ti rattristi anima mia, e perché tu gemi su di me? Dove
mai potrò trovare il mio conforto paragonabile a quella che la beata ventura mi ha presentato? In chi
dovrò sperare?>>.
Il mio amato non c’è, non è qui con me. I miei occhi grondano lacrime, senza cessare.
Entrambi abbiamo varcato le ali del ritorno, lui ad oriente ed io ad occidente, vie opposte ben
distanti l’una dall’altra. Perché tutto questo!
Attimi infiniti che irrorano nel tempo, che hanno segnato la nostra storia, la nostra vita, il nostro
Amore.
Come potrò mai dimenticarlo, come potrò levarmi di mente la sua infinita dolcezza. Lui è stato per
me non una Musa greca, ma un Profeta di Sion, venuto da terra straniera. Un profeta capace di far
intrecciare Passione e Amore in un’unica cosa.
Mi ha coinvolto in tutto.
Tutti i miei sensi sono stati partecipi. Ci accarezzavamo, le nostre mani scivolavano sui nostri nudi
corpi come se stessimo sfiorando seta pura. I nostri corpi emanavano soavi profumi, un’essenza
afrodisiaca che scaturiva dalla nostra libidine.
Gli occhi restavano chiusi, solo cosi ci si vedeva internamente e l’udito ci permetteva di sentire la
voce del calore, che pian piano aumentava, perché il godimento era forte. Mi nutrivo dei baci della
sua bocca, la nostra saliva scorreva sulla nostra pelle, la rendeva umida, permettendo alle nostre
mani di scivolare in maniera soave.
Le nostre lingue si adagiavano reciprocamente, strisciavano nelle nostre bocche, percorrevano i
nostri corpi, da cima a fondo senza fermarsi.
Le parti intime diventano luogo di ritrovo per le nostre bocche, leccandoci e succhiandoci senza
sosta.
Eravamo entrambi bagnati, ma non era orgasmo, era una secrezione dettata dalla libidine, che ci
comunicava che eravamo pronti per godere ancora di più, di prenderci, di entrare l’uno nell’altro…
Ci siamo donati vicendevolmente, Tu mi hai fatto tuo, mi hai preso, sei entrato dentro di me con il
tuo membro, ed io ti ho accolto serenamente, con garbo, perché, mentre entravi in me, mi stringevi,
mi stringevi così forte da garantirmi una forte e sicura protezione. Mi tenevi per mano come se fossi
un bambino, ed io ti facevo più intimo dell’intimo mio.
Tu mi hai preso, Tu mi hai stregato, ed io godevo nel sentirti dentro di me, e tu godevi quando mi
penetravi, urlando di infinito piacere…
Siamo diventati una sola cosa, un solo corpo unito ed un’anima dalla quale pulsa l’essenza della
vita. Mio Amore e mio tutto!!!
Anche quando si raggiungeva il culmine del piacere, il sublime orgasmo, fragrante come l’incenso,
e poi Continuavamo imperterriti a gustarci, i nostri corpi, docile miele, nettare puro…
Restavamo fermi, lì, sempre abbracciati a sussurrarci tenere parole.
Il verbo aveva preso forma e materia in noi, si era solidificato. Non potrò mai dimenticare la nostra
prima volta, imbarazzati e curiosi, ma con tanta voglia di conoscerci e di godere. Ecco fatto, ci
siamo riusciti.
Adesso il giorno volge al suo desio, anche se non ti vedo realmente, sono cosciente che sei dentro di
me, ed io in te.
Due mezze parti che si sono completate nell’atto di una nobile penetrazione… Non solo sesso
carnale, ma elevazione del corpo allo Spirito, che era tra noi.
Ricordati che hai tatuato il tuo nome nel mio cuore, ed io ho impresso il mio nel tuo.
Nessuno potrà mai separarci da tutto ciò…
Tuo!
Ora!
Per sempre….. Ti custodirò …..nel mio Cuore, che è un prezioso scrigno d’oro e d’avorio, lavorato
da due artigiani: l’Amore e la Passione….che c’è stata, che c’è, e che….ci sarà!!!
In confidenza
Fu una giornata all’insegna del lavoro, stanchi, affaticati e con tanta voglia di mandare le traduzioni
a quale paese. Io e Joshua, un collega del dipartimento di ricerca di letteratura e filosofia ebraica,
con il quale avevamo trascorso circa sei mesi assieme tra le sudate carte.
Quel giorno eravamo sfiniti, frutto di un lavoro assiduo, senza sosta che durava da quasi un mese…
Erano quasi le 18:00, il sole era all’imbrunire, ma il caldo era sempre soffocante; si faceva fatica a
respirare. Lui mi chiese se poteva rinfrescarsi un po’ utilizzando la mia doccia ed io gli risposi di si.
Sinceramente non mi interessava più di tanto, già la fatica cedeva il suo passo alla stanchezza.
Joshua si inoltra nella doccia, io nel frattempo prendo una bibita per rinfrescarmi…
Trascorrono dieci minuti e mi sento chiamare. Mi chiede se potevo dargli un telo più grande per
asciugarsi.
Mentre gli passo il telo, lui apre la tenda della doccia. Li per li mi sono bloccato un attimo, lui mi fa
un sorriso, ed io gli cedo subito il telo ed esco…Appena ritorno in cucina mi sdraio sul divano, e
subito mi è venuta in mente la sua immagine sotto la doccia. Uno spettacolo della natura, un corpo
lineare, pulito, liscio, l’acqua che gli scorreva addosso dava l’immagine di un corpo velato. Un
corpo asciutto, ben scolpito, sembrava che fosse stato fatto da Fidia, lo scultore greco che dava vita
al marmo…
Lui uscì dalla doccia, si ritirò in camera per vestirsi ed io mi alzai per andarmi a lavare..
Si, una doccia fredda mi ci voleva, per distrarmi da quella sensazione strana che d’un tratto mi ha
reso quasi cieco…
Esco dopo un po’ senza pensarci più, ma quando ritorno in cucina ancora con il telo attorno alla
vita, vedo che lui non si era vestito, era rimasto tale e quale come era prima
Mi invita a sedermi e bere una birra. Nel frattempo aveva preparato un po’ di stuzzichini, olive,
salse piccanti, crostini di pane, insomma la fame si faceva sentire…
Mentre banchettavamo, mi chiede di prendergli un libro, che era posto sul tavolo a lato del divano.
Appena mi giro per prenderlo, lui mi afferra da dietro, ridacchiando e dicendomi: “adesso sei mio”.
Io li per li non ho detto nulla, mi sono solo messo a ridere, ma lui è rimasto indifferente a tale risata.
Iniziò prima a baciarmi il collo, poi iniziò a farmi dei succhiotti sul lato destro del collo.
Oh, povero io! Mi dicevo, tra me e me stesso.
Lui non mi dava tregua, mi girò e si distese su di me, il suo corpo era infuocato, la sua saliva aveva
un sapore piccante, ma piacevole, e la saliva che emetteva era paragonabile ad un valanga di neve…
Siamo rimasti un bel po’ a strusciarci come due serpenti , fino a quando lui con la sua afosa bocca
iniziò a leccarmi sul torace, a giocare con i miei capezzoli mentre con le mani mi continuava a
massaggiare delicatamente. Scendeva sempre più giù e iniziò a leccarmi le parti intime,
soffermandosi molto sull’inguine per poi leccarmi l’ano…
Quella è stata per me una esplosione, il brivido che sentivo era fortissimo…. La punta della sua
lingua, talmente vibrava veloce … che sembrava la lingua biforcuta di un serpente…
Risale al leccarmi, ma dalla schiena fino ad arrivare al collo, punto di partenza
Si alza e mi chiede di gustare il suo membro, di assaporarlo come se fosse un piatto da me tanto
amato… Iniziai a tenerlo fra le mie mani, mi accorsi che era già umido. Lo presi in bocca e
cominciai a deliziarlo, e nello stesso tempo mi deliziavo io…. L’eccitazione era talmente
insostenibile, non si riusciva a controllare…
Mi alzo e mi sdraio con il fianco destro sul divano, Gli chiesi di appoggiarsi dietro di me, a di
strusciarmi il suo membro tra i mie glutei….Si, era bellissimo, ma ad un certo punto, tra fatiche,
sudori e piaceri, non ci ho visto più. Alzo lentamente la gamba sinistra, prendo il suo nerboruto
membro e lo posizione sulla bocca dell’ano.
Penetrami, voglio sentirti dentro!
Penetrami con dolcezza, questo è un meritato godimento per entrambi!
Lui iniziò ad adagiare dentro di me tutto di se stesso, anima e corpo.
Siamo stati ancora un bel po’, avvolti dal silenzio dei nostri gemiti, dai sospiri ormai senza aria, fino
a quando un urlo, di meritata soddisfazione ci fa arrivare ad un orgasmo simultaneo.
Il gemito cedette il passo alla soddisfazione:
Ipse dixit: era quello che volevo!
Nutrimi
Vieni, vieni qui.
Perché ti nascondi?
Io ho bisogno, ho bisogno della tua presenza.
Ti voglio vero,
ti voglio sentire
come quando si tiene con mano una luminare candela.
Trascorre il tempo, anche se sono solo pochi attimi,
sembra un’eternità. Oh, tempo dannato è il mio.
Ma solo dopo, una immeritata attese,
vedo al di là di questa misera fiamma
il tuo Essere che avanza, silenzioso a passo felpato.
Un attimo, un attimo ancora
e la candela che tengo tra le mani inizia a spegnersi,
mentre Tu inizi ad emanare una luce speciale.
Inizi ad accarezzarmi, a sussurrarmi parole dolci,
io sento man mano delle forti e piacevoli sensazioni,
il brivido della passione
mi arriva in tutto corpo.
Io dannato! Si, ma con orgoglio!!!
La tua bocca inizia a sfiorarmi il collo, il lobo dell’orecchio,,,,,
le tua labbra, poi….. ardono di puro piacere!
No,
non c’è tempo,
anche io,
anch’io voglio partecipare a questo incontro di labbra,
accogliere le tue….
Ed ecco che a d’un tratto
le nostre labbra si sono unite,
le succhiavo come se fossero rossi frutti,
succosi come la melagrana.
Le nostre mani scivolavano lungo i nostri corpi.
Non c’era tregua!!!
Ormai, i nostri corpi divampavano,
ardevano di passione.
Ardevano e io volevo che quell’istante non passasse mai.
Ti prego, resta ancora,
continua a a nutrirmi,
non lasciarmi solo.
La candela ormai si è spenta!
Nutrimi ancora!!!
Ricordami anche Tu…
Sono quasi le 18:00, ed io, come al solito mi reco nei pressi dell’Ulivo.
Si, l’Ulivo, l’albero che si trovava non molto distante della mia abitazione. L’albero che un giorno
mi riempì di grazia…
Arrivato, come al solito, distesi la mia coperta per terra, mi sono seduto ed inizia a leggere. Ad un
tratto fui distratto dal canto delle tortorelle, che avevano fatto un piccolo nido, tra i suoi rami
frondosi, ed una docile melodia, causata dalla brezza pomeridiana che saliva dal mare, e dalle
fugaci volpi che rovistavano tra i vigneti.
Ad un certo punto, alzo gli occhi verso la collina, e vedo una luce, una nobile presenza, che scende
verso valle.
Non sapevo chi fosse, non ero in grado di riconoscere, perché tanta era la sua bellezza, la luce che
emanava che facevo veramente fatica…
Allora, mi alzai da terra, e in un batter d’occhio, tale presenza era dietro l’albero, dietro quel
possente fusto secolare, che con i suoi frondosi rami abbracciava buona pare del terreno, anzi alcuni
addirittura lo sfiorarono.
Io rimasi in estasi, ma non capivo chi fosse. Oh, povero me!!!
Non disse nulla, mi fisso negli occhi e mi fece un nobile sorriso.
Io ricambiai allo stesso modo e subito ci siamo seduti. Iniziammo a leggere, ma la mia mente, i miei
occhi fissavano il suo volto. Ad un certo punto mi disse: “avvicinati a me, sono qui, perché ti turbi,
perché non ti fai convinto?” Mi si aprirono gli occhi, mi si aprirono, umidi di lacrime, lacrime di
gioia, iniziai a singhiozzare e Lui mi prese fra di sei, mi strinse e mi sussurrò: “Sono qui, con te,
stringimi anche Tu, affinché possa trasmetterti il calore che tanto desideravi”. Era forte il desiderio
che mi si era innescato, la sua luce mi radiava, il suo profumo mi inebriava, sembrava mirra,
incenso, più l’annusavo e più mi venivano i brividi. Le sue mani scivolavano lungo il mio torace,
come se stesse spianando qualcosa mentre le mie erano distese in aria, verso l’alto. Mi modellava,
ecco quello che faceva…
Mi spogliò, iniziò a riempirmi di baci, mi sfiorava con la bocca, poi con la lingua, man mano che la
sua lingua scivolava sul mio corpo mi lasciava un segno, come se fosse passata una lumaca.
Io non riuscivo più a contenermi, dovevo far qualcosa, ed ecco, con forza gli tolsi i vestiti, perché
anche la minima cosa addosso, per me era un nemico, un rivale: ero geloso, anche della natura che
ci guardava, silenziosa o forse sbalordita!
Non importa, eravamo uniti, in silenzio, si sentiva la musica del nostro ansimare, l’affanno non
della stanchezza, ma della forza che scaturì in noi, travolti dal turbine della Casta passione.
Gemiti, gemiti e ancora gemiti di piacere, quando le nostre lingue iniziarono a salpare i luoghi
dell’intimo, gustando totalmente quanto ci eravamo serviti.
Lui era già bagnato, ma non importa, che cosa vuoi che sia, miele, nettare o forse ambrosia, non
importa era dolcissimo al gusto.
Io non resistevo, non volevo lasciarlo andare, ma lui capì che era il momento, si inserì tra le mie
gambe, con dovuto rispetto iniziò a leccarmi l’ano, a massaggiarlo prima con la lingue e poi si aiutò
con le dita, lubrificandolo ben ben facendo in modo che fosse pronto per essere accolto.
Si mise dietro di me, di fianco, mi giro la testa verso di lui e si attacco alla mia bocca come se fosse
una ventosa, e lentamente la sua mano, accompagno il suo valido scudiero alla mia porta.
Mi sussurro all’orecchio, ansimando: “Prendilo, prendilo, tanto l’hai desiderato, adesso non ti
lascio, voglio che raggiungi la settima stanza, la stanza dove il sublime si incontra con il piacere”.
Continuava, senza fermarsi, non mi dava pace….eppure godevo da morire!!!
Ad un certo punto uscì dal mio corpo, mi girò verso di lui, si alzò e si mise d’innanzi alla mia
faccia, invitandomi a gustarlo ancora, ma io ero troppo eccitato, non mi diede il tempo di gustarlo a
dovere che io raggiunsi l’orgasmo… Lui godeva, godeva, in silenzio, solo ad un certo punto emise
un urlo straziante, ho avuto paura, e ben che non si dica mi riempi il volto del suo seme. Non avevo
parole, era caldo, un profumo agre, denso, sono rimasto senza parole. Si distese su di me, tenendomi
le braccia, immobilizzandomi… Si, non aveva finito, iniziò a leccarmi il viso, a imbalsamarmi fino
al collo e poi risalendo sul mio viso, si fermò nella mia bocca. Gustai, gustai con coraggio tale
invito: meritava pienamente.
Stanchi e affannati cademmo in un torpore di sonno. Dopo un po’ mi svegliai, mi girai intorno e non
c’era.
C’era silenzio, la brezza era cessata, e le tortorelle non cantavano più. Il vigneto era deserto, e il
sole era quasi scomparso all’orizzonte. La luce era svanita. C’era solo l’Ulivo, con i suoi frondosi
rami, pendenti, come se fossero rami di salice. Sentii un misero fruscio di foglie, un fruscio mesto,
cupo.
Alzo gli occhi verso la collina, risento il fruscio delle foglie, ma non era il fruscio, era il Ricordo di
un ricordo che rivivevo tutte le volte che mi sedevo sotto l’Ulivo. Lui non c’è, è andato via, anche
questa volta, o forse non è mai arrivato. Io l’ho visto, l’ho toccato, l’ho sentito, l’ho fatto mio.
Allora ti chiedo di ricordarmi… ancora una volta, qui sotto l’Ulivo, in cui scorre linfa di pace,
serenità e miele dai suoi fiori.
Ricordami… ancora una volta!….
Ho bisogno che mi riabbracci, come la prima volta.
Come l’ultima… volta, sussurrami il tuo alito di vita e……. tienimi stretto, a Te: ……non mi
lasciare!
Rossana Roxie Lozzio
Hollywood e dintorni (estratto dal volume omonimo)
All’improvviso, alcuni suoni appena percettibili, gli giunsero all’orecchio. I tuoni,
momentaneamente, erano echi lontani e non sovrastarono quei gemiti soffocati che cominciò a
distinguere, come appartenenti ad un pianto sommesso… anche se disperato.
Doveva esserci qualcun altro, su quella che gli era parsa una spiaggia deserta, quando aveva
cominciato a passeggiare. La vide immediatamente, stagliata, a pochi passi da lui, in piedi, in riva
all’oceano…una figura, inequivocabilmente femminile. Terrel rabbrividì, quando, la luce
chiarissima di un lampo, gli permise di scorgerne, dapprima, i capelli… era voltata ma l’avrebbe
riconosciuta comunque, anche se fosse stata più distante. “Nikki…”. Mormorò, stupito per averla
incontrata a Santa Monica, da sola e per di più, a mezzanotte passata da alcuni minuti.
Che cosa ci poteva fare, sulla spiaggia che aveva contribuito a farlo innamorare perdutamente di lei,
durante una sera di un anno prima? E perché mai, stava piangendo disperatamente?
L’osservò, rimanendole alle spalle, in silenzio e gli sembrò maledettamente infelice. Così sola… e
gli parve davvero ingiusto, considerato il fatto che, una donna meravigliosa come lei, avrebbe
dovuto avere il meglio dalla vita. Sentì, prepotente, il desiderio di raggiungerla… magari, avrebbe
potuto posarle una mano sulla spalla e dirle semplicemente “ciao, come stai?” e poi, le avrebbe
offerto il suo aiuto.
Invece, scosse il capo, rendendosi conto che, anche se faceva male, la realtà era la stessa… Nikki
era ancora la signora Forester e lui doveva stare fuori dalla sua esistenza. Evitare di intromettersi
nel suo rapporto di coppia, in modo da non complicarlo.
Si accinse ad allontanarsi, attento a non produrre rumore, quando, un nuovo lampo, illuminò il cielo
e si stagliò, ad illuminare la figura di Nikki… Terrel sussultò, nell’accorgersi che si era appena
girata ed i loro sguardi s’incontrarono, così, poté distinguerne il bellissimo viso, dannatamente
triste. Adesso, restava una sola cosa da fare… in fondo, non era cambiato niente, gli sarebbe bastato
voltare le spalle e tornare sui suoi passi, fino a raggiungere la sua automobile, per poi correre via, in
macchina, verso casa.
“Terrel…”. Ma lei lo chiamò, con la voce incrinata dal pianto e continuò a guardarlo, ne fu certo,
nonostante l’oscurità non gli permettesse di appurarlo.
Restò immobile, aspettando il prossimo lampo per ottenere una nuova visione della donna che
amava. “Ciao…”. Esordì, abbozzando un inutile sorriso. “Non intendevo disturbarti, stavo facendo
una passeggiata… ma me ne vado subito”.
Nikki scosse il capo. “Non a causa mia, ti prego”. Gli disse, schiarendosi la voce, nel tentativo di
frenare il pianto che l’aveva scossa fino a quell’istante. “Non fare caso a me, d’accordo? Prosegui
pure la tua passeggiata, la spiaggia non è mia…”.
“Non è per questo, che…”. S’interruppe, decidendosi ad avanzare in sua direzione e le si fermò di
fronte, in modo da poterla vedere anche senza dover usufruire della luce prodotta dai lampi. “Non
sei tu, a darmi fastidio, anche se la sensazione che avverto…”.
“Quale sarebbe?”. Gli chiese, passandosi una mano sul volto bagnato. “Sta cominciando a
piovere…”.
“Avverto un dolore profondo… il tuo”. Rispose Terrel, posandole le mani sulle spalle. “E se tu
soffri, non posso fare a meno di desiderare…”.
“Lo so”. Lo interruppe, sfiorandogli una mano con il viso. “Vorresti confortarmi… ma non sono una
bambina, ormai, sono una donna”.
“Una donna sposata”. Convenne, sottolineando quell’ultima parola.
Scosse il capo, scostandosi da lui e si passò le mani fra i capelli bagnati dalla pioggia, che stava
cominciando a scendere fittamente. “Avresti potuto risparmiartela…”. Mormorò, tirando su con il
naso.
“Vieni qui…”. Terrel l’attirò a sé, con fermezza e la strinse fra le braccia. “Che cosa succede… si
tratta di Claire?”.
Nikki avvertì una fitta lancinante trapassarle il cuore. Chissà che cosa stavano facendo, in quel
momento, Clay e la madre del suo primogenito? Si allontanò, bruscamente, mentre si accorse che
ogni cellula del corpo reagiva elettricamente, allo sguardo magnetico di quel bellissimo uomo.
Un nuovo lampo illuminò i loro volti, indurendo, insolitamente, i tratti energici di quello di Terrel.
“Avanti, vieni con me!”. Le ordinò, all’improvviso. Scorgendola immobile, l’afferrò per un braccio
e la trascinò, lungo la spiaggia, per raggiungere la macchina. “Dio mio, sono fradicio…”. Aggiunse,
rendendosene conto, come se si fosse appena svegliato da un breve sonno profondo. “Okay, ti porto
a casa”.
Nikki scosse la testa, più volte, seguendolo malvolentieri. “Non torno, a casa… non mi costringerai
a farlo, te l’assicuro”. Decretò, divenendo furente. “Ed ho la mia auto… non darti tanto disturbo per
me, Kendall!”.
“Disturbo…”. Ripeté, passandosi una mano fra i capelli inzuppati d’acqua, come i loro abiti. “C’è
una cabina, per lo meno, ripariamoci dalla pioggia…”.
Quando furono all’interno del momentaneo rifugio, il tintinnio della sua cintura che urtava il
pavimento, l’indusse a trasalire. “Che cosa accidenti, stai facendo?! Esci immediatamente…”.
Terrel la spinse da una parte, seccato per il modo in cui lo stava trattando, divenendo indisponente,
come doveva essere stata da bambina. Tutto sommato, avrebbe anche potuto ridere, di quella
situazione grottesca… un giorno, forse, quando lo avrebbe ricordato, certo, non ora. “Mi sto
sbarazzando di questi vestiti bagnati… forse, non l’hai notato ma negli ultimi pochi minuti, la
temperatura è scesa di almeno dieci gradi”. Affermò, con tono autoritario. “E nemmeno il rispetto
del tuo virginale pudore, m’indurrà a starmene ancora qui, vestito, a rischiare una polmonite!”.
Involontariamente, la toccò di nuovo e Nikki trattenne il fiato, sentendosi schiacciata contro quel
corpo che aveva conosciuto perfettamente… avrebbe voluto evitare di ricordare quanto erano stati
bene, insieme ma si abbandonò nel circolo protettivo delle braccia di Terrel, dimenticando la rabbia
che l’aveva sconvolta, fino a pochi attimi prima. Si rilassò, mentre il battere incessante dei loro
cuori e la spinta di quel corpo aitante contro il suo ventre, le fecero scorrere nelle vene un desiderio
che divenne insopportabile. La dura carezza della sua peluria sul seno, era incredibilmente erotica…
Nikki mosse i fianchi, d’istinto ed avvertì la reazione istantanea di Terrel, contro le sue cosce
tremanti.
“Piccola…”. Mormorò, ansante, imprigionandole il viso fra le mani. Cercò invano, per un
interminabile istante, di resistere alla bellezza di quel corpo e di quel volto, contornato dai capelli
grondanti di acqua, si sforzò di contenere l’irresistibile forza che lo spingeva a sfogare le emozioni
che era stato costretto a reprimere per un anno. Arrendendosi al desiderio, infine, s’impossessò con
uno slancio devastante di quelle labbra meravigliose… che trovò pronte ad accoglierlo.
Senza quasi rendersene conto, Nikki si trovò seminuda, distesa sul pavimento, sotto di lui… che
tremando convulsamente, lottava per controllare l’uragano di passione che stava per travolgerli e
che li avrebbe condotti ad un’inevitabile conclusione.
Avvertendo la sua resa, si divincolò bruscamente, trattenendo il fiato. “Nikki, stai accendendo un
fuoco che potrebbe divampare…”. L’avvertì, rivolgendosi soprattutto alla parte razionale di sé.
Inebriata da quel senso di potere, completamente inatteso e cosciente della propria femminilità, fece
scivolare le sue fino a dove il torace dell’uomo si restringeva nella vita… Terrel non si mosse,
rimanendo muto e proprio quel silenzio, quella passione così faticosamente repressa, l’eccitarono
immensamente. Quando la sua mano giunse ai riccioli lievi che circondavano l’ombelico, sentì
tremare i suoi muscoli addominali. “Nikki…”. Protestò, in un gemito che l’indusse a desiderarlo
ancora di più. “Che cosa stai facendo?”.
“Non voglio parlare”. Sussurrò, sfiorandogli il collo con le labbra morbide. “Non costringermi a
parlare…”.
La bocca di Terrel piombò, affamata, su un capezzolo della ragazza e la ruvida carezza della sua
lingua, la fece fremere convulsamente. Dopo essergli passate sui fianchi, le sue dita scivolarono a
cercare il centro del suo rovente ardore.
“Mi stai uccidendo…”. Mormorò lui, con voce rauca, sistemandosi in modo da assecondarla.
I tuoni continuavano ad esplodere e la pioggia scrosciava, ormai assordante, cancellando ogni
ragionamento. Per Nikki c’erano soltanto Terrel ed il suo possente magnetismo, che li
imprigionavano, insieme. Perduta nel desiderio che pulsava interiormente, cominciò a muoversi con
un ritmo regolare, invitandolo ad unirsi a lei nell’eterna danza dell’amore ma si rese conto che
continuava a contenersi.
“Non mi vuoi?”. Gli chiese, provocandolo ulteriormente.
Terrel le si accasciò sopra, nascondendo la faccia nei suoi capelli bagnati. “Se ti voglio? Oh, mio
Dio… come puoi domandarmelo?”. Rispose, piano. “Per me, significherebbe molto più di…”. La
voce gli mancò, mentre le mani di Nikki cominciarono ad esplorargli gli angoli più segreti del
corpo.
Catturandole i polsi con le mani, glieli sollevò al di sopra della testa. Attraverso la semioscurità
della piccola stanza, i suoi occhi cercarono il corpo perfetto, appena illuminato. Dio, pensò, quanto
era bella… ma così terribilmente vulnerabile. Il momento era sbagliato… avrebbe dovuto impedire
che accadesse l’inevitabile. Avrebbe voluto che non stesse soffrendo, al punto da spingersi a
donargli se stessa.
“Nikki, Nikki…”. Nemmeno lui, riconobbe quella voce così inasprita dal desiderio.
Le fece scorrere le labbra sulla guancia, sugli incavi delicati, così incredibilmente belli, sotto gli
zigomi. Le assaggiò la gola setosa… e poi, fu inesorabilmente attratto dai seni perfetti. Nel
sentimento che provava per lei, c’era il loro passato… tutto il futuro, se Nikki avesse voluto, lo
sapeva.
“Oh, Terrel, ti prego…”. Quella sommessa implorazione, fu sommersa dallo scroscio della pioggia
sul tetto della cabina ma lui l’udì ugualmente, la sentì e provando quasi uno stupore sacro, davanti a
quello che poteva sembrare un miracolo, accantonò ogni ritegno e completò la loro unione.
Devastato da un sentimento così profondo, da superare ogni violento impulso sensuale, si
abbandonò alla marea che lo travolgeva e quando sentì Nikki avvinghiarlo con selvaggia felicità, le
fece scavalcare insieme a lui l’onda più alta. Si trattenne sulla cresta, per attimi ansanti, ineffabili,
prima di lasciarsi ricadere, esausto, in acque più tranquille.
Lentamente, con indefinibile dolcezza, galleggiarono in una calda e dorata nebbia… entrambi senza
parole, senza più pensieri coerenti. Fuori, Santa Monica… i tuoni che continuavano a rumoreggiare,
lasciarono dietro nuove raffiche violente di pioggia.
Elisa Vangelisti
Il ragno e l’iguana (estratto dal volume omonimo – Cap. 25 riveduto)
Rimasi in piedi di fronte a lui a perdermi tra i suoi baci per un po’. Mi stringeva con attenzione per
non esagerare, facendo scivolare le mani sul mio pigiama con gentilezza, molto lentamente.
Mi prese in braccio portandomi a letto e nella penombra della stanza lo spogliai un po’ alla volta.
Mi ero aggrappata a lui come al solito, mentre mi baciava senza fermarsi, in preda a una frenesia
che aveva bisogno di sfogarsi in maniera più marcata del solito. Mi voleva. Mi voleva subito e
finalmente sembrava che fosse il momento giusto. Mi diede una mano se era necessario e per il
resto mi lasciò fare. Le mie mani scivolarono lentamente dal collo al torace, frugando nella camicia,
slacciando un bottone dietro l’altro. Cercavo di essere concentrata in quel che stavo facendo per non
perdere il coraggio.
Non avevo mai fatto nulla di simile, prima. Né con lui né con nessun altro. Avrei dovuto essere un
po’ timida, forse, ma in realtà non era così. Ero curiosa. Trovavo ogni aspetto del suo corpo così
intrigante da non fermarmi neppure a pensare alle conseguenze di quel che stavo facendo. Quando
la mia mano scese a perlustrare la zona pericolo mi sfuggì un sospiro: non me l’aspettavo.
La sua pelle era morbida come il resto del suo corpo o, se possibile, ancora di più. La dolcezza di
quella pelle di seta, però, era ingannevole, perché sotto la superficie pareva essere fatto d’acciaio.
“Stringi” me lo soffiò all’orecchio, la voce bassa, nessun tremito e respiro spezzato, ma sapevo che
gli piaceva. Gli piaceva senz’altro. Era difficile per lui riuscire a dimostrarlo, ma – non essendo più
completamente umano – parlare era l’unico modo per compensare questa sua mancanza.
La prepotenza del suo desiderio era lì di fronte a me, esibita come sempre, del resto; ma trovarmela
fra le mani fu tutta un’altra cosa.
“Non essere timida, Rynn, non ti mangio” mi sfuggì quasi una risata. Sul fatto che non mi
mangiasse ci sarebbe stato da discutere.
“Non sono timida. Ho paura di non sapere molto bene quello che devo fare…” mi sollevò il viso
con due dita, quando gli occhi s’incrociarono mi cedettero quasi le gambe, fra le quali stava
accadendo qualcosa di molto strano. Lui non disse nulla. Si limitò a togliere la mia mano dai suoi
boxer e poi iniziò a leccarla, infilandosi le dita in bocca come se volesse mordermi.
La saliva era una delle poche cose umane che gli restavano e non serviva solo a chiudere le ferite
dei suoi denti su di me, evidentemente. Mentre passava coscienziosamente la lingua sul mio palmo
e fra le dita, mi sembrava di sentirla addosso altrove. Poi, quando sentì di essersi impegnato
abbastanza, la rimise dov’era.
“Stringi. Sai che non puoi farmi male. Muovi quella mano, Rynn. Sai che non vedo l’ora di essere
dentro di te, ma ancora è presto” chiusi gli occhi sentendolo duro e tiepido fra le mie dita. Non ero
per niente d’accordo, desideravo solo farlo. Subito. A qualunque costo. Contro qualunque timore.
Lo amavo così tanto.
“Prendimi” il suo sesso fra le mie dita sembrava urlare di desiderio e prendendoci confidenza
pareva si gonfiasse ancora, se possibile. Mi trattenevo dal mordermi le labbra solo per lasciarle
totalmente a sua disposizione. Mi sentivo vergognosamente bagnata, giù in basso, la seta del
pigiama era madida di certo, non avevo bisogno di controllare. Non avrei raggiunto quel livello di
eccitazione nemmeno toccandomi da sola e in quel momento non mi stava proprio toccando
nessuno. Avrei voluto che lo facesse: gli sarebbe piaciuto?
Arrivò, il bacio. Sentirmi la sua lingua fresca in bocca mentre lo masturbavo mi diede la scossa, un
effetto a voltaggio letale. Una scintilla vitale scaturita da lui e da me, potenziata al massimo dal
sentimento che ci animava e ci faceva perdere la testa. La tensione continuava a salire e avevo paura
di non riuscire più a pensare. La sua eccitazione si fondeva con la mia trasformando il desiderio in
una forma sottile di dolore. Avrei voluto morderlo, morderlo e basta, ma non lo feci, perché appena
mi fece riprendere fiato mi parlò sulle labbra e le sue parole erano l’unica dimostrazione chiara di
come si sentiva.
“Non sei pronta”.
“Sì invece” ansimai posando la bocca contro la pelle tiepida del suo collo. “Sono così pronta che
non ne hai un’idea. Non mi sono mai sentita così… così…” ma non potevo continuare, perché non
trovavo le parole.
“Lo spero, Rynn, spero di piacerti” spero di piacerti? Il mio ragazzo era un vero idiota. Stavo per
prendere fuoco, altro che piacermi!
Ci inginocchiammo sul letto e Gabriel si mise dietro di me, portandomi le mani sui bottoni del
pigiama per farli uscire uno ad uno, mentre mi annusava il collo. Aprì la bocca mordendomi per
finta e fece scivolare via il pigiama dalle braccia. Indossavo ancora i pantaloni, ma lo sentivo
appoggiato contro di me in maniera tale che era come se non avessi niente addosso.
Posò entrambe le mani sul mio stomaco, facendole poi scomparire oltre l’elastico dei pantaloni,
mentre mi baciava piano il collo e dietro l’orecchio. Mi sentivo bruciare. Percepivo il suo corpo
fresco in maniera vaga, come attraverso la nebbia di un geyser.
Mi accarezzava pigramente come se non dovesse andare oltre a questo. Iniziavo a rantolare.
Pensavo che non mi sarei sentita mai più eccitata di così, ma mi sbagliavo. Mi sdraiò sul letto e
sollevai i fianchi per togliere i pantaloni, poi mi baciò nel punto in cui prima mi stava accarezzando.
E allora persi davvero la ragione.
La sua lingua morbida si scontrò contro la punta di un iceberg in fiamme. Ardevo. La mia passione
esplose contro la sua bocca e lanciai un urlo che smorzai contro un cuscino. Lo sentivo bagnarmi,
accarezzarmi, esplorare ogni piega ed ogni anfratto con una lentezza straziante.
“Ti amo, Rynn. Piccola ragazzina perversa, ti amo da morire” me lo sussurrò in mezzo alle gambe,
mentre mi spalancavo sotto l’assalto dei suoi baci.
M’inarcai contro di lui presa da una frenesia che sommerse ogni cosa: la prudenza, la paura, la
fiducia, persino l’amore. Non ero altro che questo, come creta fra le sue mani. Avrebbe potuto fare
tutto quello che gli sarebbe passato per la testa ed io non l’avrei fermato.
Con il leggero velo di razionalità che mi era rimasto, capii perché avesse insistito tanto sul fatto che
dovevamo provare di giorno. Non so come si sentisse Gabriel ma, nello stato in cui ero io, se la
situazione fosse stata ribaltata l’avrei prosciugato fino all’ultima goccia.
Lo chiamai quasi piangendo, avevo bisogno di sentirmelo contro, subito. Lo cercai con le mani e
allora coprì il mio corpo con il suo. Poi, baciandomi sulla bocca e senza aspettare ancora, entrò
dentro di me.
Lo desideravo così tanto che istintivamente sollevai i fianchi andandogli incontro. Sentii un dolore
improvviso e bruciante che mi fece tornare di botto sul materasso, oltre al quale però non potevo
andare. Gabriel mi sussurrò delle parole che non riuscivo a capire, ma il tono della voce bastò a
tranquillizzarmi. Me lo aspettavo. Restammo immobili per un momento, poi lentamente lui
ricominciò a muoversi, riprendendo a baciarmi.
Capivo perché mi aveva bagnata tanto, perché avesse preteso lo stesso per lui, perché aveva voluto
aspettare che il desiderio mi rendesse così umida da grondare desiderio fino in mezzo alle cosce.
Per lui. Perché riuscissi ad accoglierlo senza che infastidisse troppo la mia carne tenera di vergine
inesperta.
Bruciava. Sentivo un dolore che si faceva via via sempre più lieve ogni volta che si sollevava e
tornava a spingersi dentro di me. Era dolcissimo e non so quanto gli costasse essere così delicato. O
forse no: forse era normale così. A volte in certi film vedevo scene di passione più violente e mi ero
sempre chiesta che tipo di desiderio avrebbe condotto due esseri umani ad essere così ferocemente
presi dal godimento da non avere nessun tipo di riserva. Ero inesperta, ma non ingenua ed era
chiaro che la prima volta era necessario una specie di rodaggio. Se non altro per me.
Avevo le mani abbandonate oltre al cuscino, gli occhi chiusi e le cosce leggermente sollevate: mi
venne in mente il quadro che mi aveva tanto colpita nell’atelier. Poi nella mia testa non rimase più
spazio per nulla.
Sentivo un piacere sottile che mi attraversava a ondate, che aumentava lentamente e combaciava
con il movimento dei suoi fianchi su di me. Lo strinsi afferrandolo per la schiena, senza dire niente.
Aprii un attimo gli occhi rapita dalla curiosità, senza più l’ombra di imbarazzo. Era fulgido e
lucente come la stella del mattino e aveva gli occhi chiusi. Era bellissimo. Gli baciai la mezzaluna
sulla tempia e sorrisi. Poi il piacere divenne più forte, mi sovrastò al punto che mi lasciai condurre
senza oppormi e richiusi gli occhi anch’io. Allora mi lasciai andare e non decisi più nient’altro.
Alessia Cutrufo
Improvviso
Il mio corpo disteso sui cuscini rossi di uno scricchiolante divano, una musica dolce di sottofondo,
nell’aria l’odore intenso delle ore appena trascorse. I suoi passi leggeri, accompagnati dall’aroma
caldo del caffè appena preparato. Il suo sorriso che si avvicina, avido ancora di noi.
Quella notte era nata così, come il bisogno astratto ma potente di svestirci dei panni del consueto
vivendo di battiti. Un incontro casuale, una birra tra amici in un pub in cui il fumo delle sigarette
faceva ancora da padrone sull’intenso odore di birra e di frittura. I bicchieri erano intarsiati di
minuscole goccioline, giocavo con un dito a farle incontrare, forse sperando che spezzassero il
silenzio. Poi, la sua voce…Alzai gli occhi, pronunciò solo il mio nome,nient’altro, in quel breve
istante in cui gli sguardi si toccarono forse per la prima volta, era racchiuso quello scioccante
uragano che ci avrebbe di lì a poco travolti.
La nostra mente si liberò…non ricordo nemmeno come, ma le sedie si avvicinarono e io per la
prima volta in quella serata rimasi senza respiro. Il calore delle sue labbra salì potente sul mio viso,
ricordo il suo sapore mentre cercava con la sua di trovare la mia lingua …Le loro danze si portarono
presto alle nostre mani… si cercavano, si trovavano, per poi perdersi di nuovo…
Ansimanti ci fermammo, forse per un istante capimmo che l’uomo al tavolo vicino ci stava
guardando sorridendo.
Mi sentii tirare, presi veloce la borsa…non avrei mai immaginato che potesse avere tanta forza e
che il desiderio poteva portarci a correre per strada, continuando a cercarci con le labbra.
…Le mie mani tremavano nelle sue…
Salimmo di corsa le scale del mio hotel, di quelli più simili a vecchie case d’incontri, con la
moquette che raccontava di rapporti di pelle e di respiri interrotti, e la carta da parati che sembrava
voler scoprire un muro vivo.
Sentivo il suo calore sulla pelle, il suo petto si muoveva sempre più velocemente finché non
arrivammo a quel freddo letto dalle lenzuola blu…
Conosceva me, le mie paure, la mia storia…mi prese per mano e mi accompagnò su quel letto…mi
baciò iniziando a spogliarmi dolcemente ma con la passione di un uomo che mai avevo visto prima.
In quel momento il tempo e lo spazio dilatarono, i nostri corpi si desideravano, si volevano e noi
non potevamo far altro che accontentarli. Furono ore in cui il piacere raggiunse più volte l’apice, i
nostri corpi si fusero, le nostre mani scoprirono angoli inesplorati, i nostri respiri inebriarono
l’aria…
Più volte crollammo sfiniti sui morbidi cuscini, fissandoci, in silenzio, baciandoci dolcemente per
far rallentare i battiti….più volte le sue mani e la sua bocca mi condussero in luoghi lontani
facendomi gridare…Le nostre fantasie si fondevano, compenetravano pianeti che mai avremmo
pensato di esplorare…Uniti come se la paura più forte fosse perdere anche un solo istante di quella
strana alchimia.
Era un poeta, quella notte scrivemmo insieme, nudi, dopo aver fatto l’amore…Mi porse la tazzina,
fuori albeggiava… tra le mani il foglio con la nostra poesia, mi abbracciò da dietro … Sapevamo
che mai più avremmo vissuto quella notte …Sorridemmo nell’ultimo bacio…per fermare il sapore
di un amore destinato a rimanere inchiostro sul foglio bianco...
Carmine Rosano
Istantanee
Il profumo del caffè che brontolava in cucina giunse fino al soggiorno, dal suo suono capì che era
ormai pronto e si allontanò, tornando poco dopo per servirglielo.
Sofia osservava con attenzione ogni suo movimento, sorridendo a tratti del suo modo di fare un po’
impacciato, sentendosi lusingata per quella gentilezza colma di tenerezza e per le piccole attenzioni
con cui lui la serviva.
Sembrava quasi un bambino, Enrico, aveva un sorriso timido e ingenuo. Molte volte si erano
incrociati nel cortile del condominio o sul pianerottolo, aveva notato il modo in cui lui la guardava,
il suo sguardo in cui traspariva il desiderio soffocato dall’imbarazzo, dal non saper trovare il modo
di avvicinarla. In quegli occhi poteva leggere la passione di un amante dolce, insaziabile, poteva
intuire il fremito del suo corpo, immaginarlo nudo e imperlato di sudore mentre raggiungeva
l’estasi. Un giovane uomo dalla pelle morbida da saggiare a piccoli morsi, facendo vibrare il suo
piacere con sapienti carezze, fino a sentirlo suo, per poter leggere nei suoi occhi il calore di un
amore incondizionato, implorante, come quello che tanti le avevano già giurato, morendo tra le sue
braccia.
Ma c’era molto di più nei suoi occhi, c’era qualcosa di ineffabile, una tristezza profonda, misteriosa,
una strana familiarità che la incuriosiva e la spingeva a ricambiare quegli sguardi impacciati.
Lo colse di sorpresa, invitandolo a farle compagnia per una passeggiata e lui accettò, quasi
balbettando e annuendo con eccessiva enfasi, arrossendo quando Sofia rise della sua reazione.
Camminarono a lungo per le strade della città avvolta nel torpore di un giorno di festa, indugiando
nella lentezza di un tempo che ricadeva su se stesso.
Ascoltarono i propri passi risuonare tra le case di quella piccola città, abbandonandosi alla dolce
nenia del suo silenzio. Le strade vuote e assolate, sembrava si fossero scrollate di dosso quel
frastuono frenetico che le opprime e nasconde la loro vera bellezza, per pochi istanti tornavano a
splendere tra i bagliori di una purezza originaria e senza tempo.
Era proprio come loro quella città, persa nella propria solitudine e travolta da vite estranee che la
investivano senza badare a lei, ed ora l’ascoltavano insieme quella voce solitaria, parlando con essa
e attraverso di essa con le vibrazioni silenziose delle loro anime, che sembravano essere talmente
vicine da potersi baciare mentre camminavano l’uno accanto all’altra senza parlare.
Ora sedevano sul divano, sorseggiando il caffè, il loro pomeriggio li aveva uniti senza farli
conoscere, avevano comunicato solo con il silenzio, come se le parole fossero troppo pesanti per
loro, non sapevano nulla delle rispettive vite, ma era come se si conoscessero da sempre, come se
quel momento così intimo li avesse attesi a lungo. Il brivido di un’attesa indefinita soffiò tra le
tende di quell’atmosfera soffusa, nella luce rischiarata dalla crescente penombra del tramonto che
entrava nella stanza. Sofia fece scivolare un piede fuori dalla scarpa e lo allungò poggiandolo sulle
sue gambe, cercando le carezze che di lì a poco lo accolsero con un delicato tepore che salì
lentamente, sfiorandole le cosce.
“Adagio” pensò tra sé, mentre il suo giovane amante indugiava, solleticando lentamente ogni lembo
della sua pelle, come se potesse ascoltare i suoi desideri.
Trattenne i fremiti di quel piacere come se non volesse perderli, assaporandoli con gli occhi chiusi,
mentre seguiva ogni carezza, facendo riecheggiare quel brivido sul petto liscio di Enrico, frugando
nel tepore che sentiva pulsare sotto il proprio piede.
Sentì quelle mani sconosciute e familiari, nel tocco lieve che percorreva i sentieri ombrosi del suo
piacere, come un viandante che fa ritorno alla città natia dopo un lungo viaggio in terre lontane.
Enrico le sollevò il piede e se lo portò alle labbra, sfiorandolo con piccoli e lunghi baci sulle dita,
accarezzando con la punta della lingua il sapore della sua pelle, lo bevve a piccoli sorsi, lasciando
che quel piacere lo riempisse fino a traboccare, riversandosi nella sua anima assetata.
Erano emozioni soffici, le loro, come la neve che cade nel silenzio della notte, e Sofia si abbandonò
ad esse, frugando tra i suoi capelli mentre l’umido della sua bocca seguiva la calda scia lasciata
dalle mani, che ora la stringevano in vita tenendo su la gonna.
Lo attirò a sé, baciandolo e sentendo il sapore del proprio piacere nell’abbraccio morbido della sua
lingua, lasciando che Enrico la penetrasse dolcemente, restando fermo dentro lei e accarezzandole il
seno ansimante.
Rimasero così per alcuni istanti, fissandosi negli occhi come per cercare la propria immagine
riflessa, immobili e uniti nella tensione di un amplesso sospeso nella carezza dei loro respiri.
Si scrutarono nei loro amori passati, immergendosi in un tempo in cui forse si erano già amati, in un
ricordo intenso ed evanescente, tra i bagliori di quella illusione, del sogno improvviso che li aveva
travolti, giocando con la solitudine dei loro destini che per un attimo si erano intrecciati.
Poi Sofia distolse lo sguardo e lo spinse via, allontanandolo da sé, trattenendo il tepore dell’ultimo
abbraccio dei loro respiri.
Si alzò, rivolgendogli un ultimo dolce e misterioso sorriso… e in silenzio, così com’era entrata,
uscì, portando con sé il profumo di un ricordo intrappolato tra le onde del tempo.
Massimiliano Cara
L’ascensore
Lo trovai nudo dentro l’ascensore. Come una risposta arrogante. Come uno schiaffo in pieno volto.
Che domanda feci per meritarmi tanta sconcia audacia…
Mi vestivo. Mi spogliavo. Mi guardavo nuda di fronte allo specchio. Uscivo dalla doccia e poi
entravo in camera con la finestra sempre senza la censura delle tende.
Sapevo che mi guardava. E lui sapeva che io non lasciavo niente al caso.
L’ultima volta rimase fermo, come sempre. Con il suo sguardo fisso su di me. Con l’unica
differenza che lasciò andare un po’ di se sul pavimento. Risposi con un sorriso compiaciuto e un po’
stronzo.
Dopo aver messo lo stop all’ascensore, mi prese e mi portò in alto.
Ero ancora bella e ordinata. Pronta per andare dai miei alunni.
Incollò la sua bocca vorace sul collo. Sul seno. Sulla mia bocca.
Scostò le mutandine. Rispose con un sorriso malizioso e compiaciuto. Mi trovò già tutta bagnata.
Dieci minuti di coito. Ancora mi tremano le gambe. Anche se ora sono seduta sul letto. Fisso lo
specchio.
Fisso la finestra senza tende. Ma lui non c’è.
Andrea Mazzolini
Rosa Bianca (estratto)
Certe cose si sanno. Anche se non sono scritte sui giornali. Che il sindaco se la faccia con la Bruna,
quella dell’anagrafe, lo sanno tutti. Fossi sua moglie lo butterei fuor di casa a calci. E invece eccoli
lì, la domenica che vanno bellini bellini alla messa abbracciati come due fidanzati. Che ipocrisia,
gente! Le cose si sanno, dicevo. Come? Venite in negozio da noi, basta una semplice messa in piega
e quando uscite saprete tutte le ultime novità. Certo, certo, dipende dalle clienti. Tutte amano
ascoltare ma mica tutte raccontano tutto, magari solo qualche tessera. Ma datemi un paio di
settimane, basta incrociare le voci e il mosaico è completo. E pensare che io non sono pettegola, io
non spiattello tutte le novità. Ci pensano le altre ragazze, Teresa in particolare. Io chiacchiero,
chiacchiero, ma in termini generali, non mi piace fare riferimenti alle mie clienti; e quasi sempre me
ne esco con una frase a effetto. Per questo mi chiamano la filosofa, e manco so cos’è la filosofia.
Insomma certe cose si sanno. Anche se l’ultima notizia è di quelle da tenere segrete. Veramente.
Me l’ha confidata Teresa. C’è quella nuova palestra che hanno aperto, sulla strada per andare in
città, Perfect Body, mi sembra. Pare che oltre alle normali attività ci sia un massaggiatore, molto in
gamba. Secondo Teresa è un dio del sesso, no, lei non c’è mai stata ma che dici, è sposata (e parla
sempre male del marito), l’ha sentito dire in giro, delle amiche sue hanno voluto provare una volta.
Lo chiamano “il consolatore“. Insomma questo massaggiatore, finito il lavoro per cui viene pagato,
fa una domanda innocente alle clienti che gli piacciono. Serve altro? E se la cliente risponde “ha
ancora del tempo per me?”, il gioco è fatto, il tempo si trova.
Sono diverse settimane che voglio andare in questa palestra. No, che avete capito, a me il
massaggio basta e avanza, non voglio altro, con gli uomini ho chiuso. Sono soltanto curiosa di
vedere come è fatto questo dio del sesso. Che c’è di male?
Per fortuna il lunedì pomeriggio questa palestra è aperta e c’è pure il massaggiatore: con gli orari
che faccio gli altri giorni non ce la farei proprio.
Sono arrivata in palestra con un bell’anticipo rispetto all’orario fissato. Al telefono mi aveva
risposto una tizia fintamente gentile, dev’essere questa qua con i capelli rossi che sta all’ingresso.
Ma chi gliel’ha tinti così male? Arrivato il mio turno sono entrata in una stanzetta profumata, con un
lettino, le luci soffuse e questa musica new age. Dice che faccia rilassare, mah. Eccolo qua, ma
quale dio del sesso, ma che dice Teresa? Io mi aspettavo un vichingo di due metri, con due spalle
così ed ecco questo signore anonimo, si chiama Guido, ma che nome brutto è Guido; avrà più di
quarant’anni, altezza media, non brutto ma niente di speciale, già qualche capello bianco. Mi chiede
di cosa ho bisogno. Secondo te cosa sono venuta a fare qua? A raccontare barzellette? Rispondo che
sto tutto il giorno in piedi, in negozio, e soffro di male alla schiena e alle gambe. Ci penso io, ha
risposto. Ma questo Guido ha mai detto in vita sua una frase con più di tre parole? Mi ha chiesto di
spogliarmi, di rimanere soltanto con le mutandine, ah, lo vedi questo qua, devo pagare per farmi
vedere le tette. Se pensa che poi, io Samanta, alla fine, gli chiederò dell’altro, si sbaglia di grosso.
Senza nessun preambolo mi fa sdraiare sul lettino e comincia a spargermi di oli profumati e poi a
massaggiarmi. Devo ammettere che ci sa proprio fare con le mani, però. Ma dove ha imparato? Mi
viene in mente che il primo e ultimo uomo che mi ha messo le mani addosso è stato Francesco, il
mio ex fidanzato, saranno passati quattro anni dall’ultima volta, poi mi ha lasciato. La sera, a letto,
mi saltava addosso, mi strizzava le tette, faceva i suoi sporchi comodi, rantolava un po’, mi diceva ti
amo (i primi tempi, poi aveva smesso), si girava dall’altra parte e si addormentava. Ma che te ne fai
degli uomini, dico io, è stato un bene che se ne sia andato con quella zoccola polacca.
Ma perché parlo ogni tanto di Francesco? Ma chi se ne frega! Questo massaggio, piuttosto, è una
cosa speciale, non so come descriverlo, sono una filosofa mica una scrittrice, io. Sto bene, le sue
mani sanno come muoversi sulla mia pelle. Saranno le luci soffuse, sarà questa musica, non lo so
che è, ma bisogna spargere la voce a tutte le clienti del negozio. Questo Guido vi rimette al mondo.
Non lo so poi quanto è durato questo massaggio, devo aver perso la cognizione del tempo. Alla fine
lui si allontana e mi fa: serve altro? Ed io, così, senza pensarci due volte: ha ancora del tempo per
me? Certo, risponde lui, abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Non so come ha fatto ma mi ha tolto
le mutandine come fosse il gesto più naturale del mondo; ha cominciato a baciarmi il collo, poi,
molto lentamente è sceso sul mio petto e ancora più in giù, fino alla parte interna delle cosce. Con le
sue mani così abili si è fatto subito strada ed ha cominciato a baciarmi là nel mezzo, Francesco
queste cosa non la faceva, diceva che non gli piaceva l’odore. La lingua di Guido invece si è mossa
rapida e ha continuato a muoversi dolcemente, esplorando la mia femminilità, seguito dalle sue dita.
Mi sono sentita uno strumento, il suo strumento. E lui un musicista straordinario. Con le sue mani e
la sua bocca tirava fuori di me una musica nuova, intensa, mai sentita prima. Poi è salito su di me ed
è entrato nel mio giardino. Ho sentito di nuovo le sue mani dappertutto, ma non come prima durante
il massaggio. Le sue mani questa volta mi hanno avvinghiata, sembrava mi volesse strappare la
pelle. Il ritmo ora era diventato quasi brutale. Oh cielo. Ho sentito l’odore forte della sua pelle. Ho
sentito l’odore della sua bocca che sapeva del mio odore. E’ l’ultima cosa che ricordo. Poi sono
volata in un’altra dimensione, fuori da quella stanza, da quella palestra. Lui era il mio dio del sesso,
io in quel momento la sua dea.
Quando sono uscita dalla stanza non ero la stessa Samanta di quando ero entrata. Il mio consolatore
invece è rimasto lì, la sua giornata non era che all’inizio. Ho cercato le chiavi nella borsetta, sono
salita in macchina, mi sono guardata nello specchietto retrovisore per rimettermi a posto. E nello
specchietto sapete chi ho visto? C’era Teresa che entrava rapida in palestra… Certe cose si sanno,
ma forse è meglio non raccontarle troppo in giro.
Adriana P.
Sam (estratto)
“Non ci mise molto a farle salire il primo piano di scale, mentre continuava a giocare con la lingua
nella sua bocca, e ancora meno tempo impiegò a toglierle di dosso quella sola tunica che ancora
portava: la spinse sul letto, in quella grande stanza, e si fermò a rimirare ogni angolo della sua
bellezza, sospirando estasiata ad ogni occhiata. Pensò a cosa avrebbe voluto farle, in un attimo di
indecisione: avrebbe voluto sfiorare il suo corpo, nella sua interezza, con la punta della lingua e
assaporarla lentamente, godendo e gioendo del suo gusto, eppure avrebbe anche voluto possederla,
stringerla, passionalmente, velocemente, per respirare a pieno il suo piacere. Si avvicinò al letto,
decisa ormai a comportarsi come il suo corpo e la sua mente in quel momento le chiedevano, e,
sentendo il suo cuore battere nel torace all’impazzata, le strinse i seni, quel tanto che bastò a far
sussultare la sua amante: avvicinò la bocca e morse prepotentemente prima uno e poi l’altro
capezzolo, gustando il loro dolce sapore. Non poteva resisterle, non poteva attendere ancora oltre:
voleva vederla fremere di piacere per lei, in un orgasmo così intenso da non poterlo dimenticare.
Anche Sam si spogliò, velocemente, e tornò a stringerle il florido seno, mordendole i dolci
capezzoli: i loro caldi corpi, iniziarono a muoversi, fregandosi e sfregandosi, uno contro l’altro, in
un movimento continuo, ripetitivo e sinuoso. Non si conoscevano, eppure si desideravano. Non si
conoscevano, eppure si stavano dando ciò che desideravano. E più Sam la stringeva più lei fremeva;
e più Sam la mordeva più lei si eccitava. E quell’eccitazione, tra le sue gambe, non passava
inosservata a Samantha, che bramava nel conoscerne il sapore: fece scivolare la sua bocca lungo la
pancia e i rotondi fianchi, baciandoli e lasciandoli umidi al passaggio delle sue labbra, e arrivò a
quel pube di un colore castano chiaro, leccando dolcemente il centro del suo piacere. Al passaggio
sentì la sua lingua bagnarsi della sua goduria; sentì i suoi muscoli inguinali contorcersi, chiedendo
ancora di essere stimolati. Samantha lasciò libera la sua lingua di lambire e libere le sue labbra di
baciare con passione ed insistenza quel piacere e quella goduria, di entrambe. La lingua si insinuava
a conoscere la nuova amante, in ogni suo dettaglio, e tentennava ad attimi alterni nel volerla
conoscere ancora, più approfonditamente. Lei fremeva, sospirava, si contorceva ed, eccitata, amava:
donandosi completamente a chi ancora non conosceva. Eppure già si fidava: il corpo intriso di
umori si concedeva, si fidava, e godeva. Quand’ancora Samantha stava nella sua intimità, un
piacevole urlo squarciò il silenzio venutosi a creare nella notte. Quand’anche Samantha iniziò ad
esplorare col tatto la provenienza di quell’amplesso e le sue dita ad accarezzare quel pube color
castano chiaro, un altro estasiato urlo percosse le pareti. E più il letto si bagnava di piacere, più
Samantha era desiderosa di darne; e più lei si eccitava più avrebbe voluto dar piacere a Samantha.
Quando riuscì a metterla sotto il suo corpo, Sam scoprì le più focose voglie della sua nuova amica:
la voleva possedere, forse anche troppo violentemente, eppure tutto questo la stava facendo godere
come mai le era accaduto. Sentiva le sue mani e le sue labbra muoversi lungo il suo corpo e, come
se fosse in uno stato di trance, lasciava che lei facesse ciò che più desiderava, senza alcun freno
inibitore, che invece era subentrato in molte altre circostanze: sentiva di voler ricevere in eguale
modo il piacere regalato e, stranamente, più i suoi sensi si perdevano negli amplessi, più voleva
perdersi; più sentiva lei pervaderla e invaderla, più la voleva in sé a colmarla.”
Horror
Abbiamo concluso la settimana dedicata all’horror e alcuni pezzi hanno lasciato senza fiato molti
dei lettori, per non parlare degli incubi, che sorgeranno con il favore delle tenebre, al ricordo di
alcuni testi veramente accattivanti. Un consiglio spassionato per tutti coloro un po’ deboli di cuore,
non leggete questi racconti con il calare del buio. Non vi svelo nulla per non togliervi il piacere di
andare a verificare di persona quanto possano farvi paura, ma preparatevi a sentire gli scossoni che
alcuni racconti vi daranno emotivamente.
Irma Panova Maino
Cristalli di ghiaccio
“Che dice Capitano, un altro poveraccio morto dal freddo?” L’uomo chiamato in causa si strinse nel
cappotto provando un brivido gelido e non tanto per la temperatura polare, quanto per l’ennesimo
corpo rinvenuto durante quella settimana, inspiegabilmente deceduto a causa di un unico colpo
inferto al petto. Un buco scavato fin dentro nel ventricolo, il quale aveva paralizzato il cuore,
interrompendo qualsiasi funzione vitale e dai primi rilevamenti, le uniche tracce utili erano state dei
cristalli ancora ghiacciati, rinvenuti all’interno di quel tunnel letale, come se l’arma fosse stata un
punteruolo gelato oppure un pezzo di stalattite strappata da qualche cornicione.
Il Capitano alzò lo sguardo verso il proprio Maresciallo, scuotendo la testa sconsolato. “Queste
morti mi stanno facendo perdere il sonno. Nessun testimone, nessuna traccia utile, niente di niente e
non so più a quale santo votarmi.” L’altro non rispose, non aveva nulla da aggiungere e in quella
fredda mattina di febbraio, risparmiare sul fiato aiutava a trattenere il calore corporeo. Tuttavia un
giornalista zelante non si lasciò sfuggire l’occasione di sorprendere il titolare del caso da solo, senza
avere l’immancabile codazzo di cronisti, fotografi, reporter e cameramen al seguito.
“Capitano? Capitano una domanda!” L’altro sbuffò producendo una nuvola di condensa, che parve
cristallizzarsi prima ancora di riuscire a disperdersi nell’aria.
“Merini, fa un freddo cane questa mattina, non possiamo rimandare?” Il giornalista sorrise
allungando il proprio palmare sotto al naso dell’ufficiale. “Capitano e quando mi ricapita più di
beccarla da solo?”
Il Maresciallo, felice di non essere lui quello sottoposto alle domande della stampa, sgattaiolò verso
la macchina di servizio, sfregandosi le mani e battendo i piedi prima di entravi. Al Capitano non
rimase altro da fare che sorridere di buon grado, in attesa che il giornalista facesse il suo lavoro.
“Avanti Merini, mi faccia le sue domande e cerchi di sbrigarsi.”
“Ecco la prima Capitano, questo è il quarto morto in una settimana, si tratta forse di una vittima di
un omicida seriale?” L’ufficiale squadrò l’uomo con un certo astio, non sapendo se mandarlo subito
a quel paese o trattenersi il tempo necessario per cercare di confutare certe ipotesi: scatenare il
panico non era nell’interesse della comunità. “Non userei certi termini, Merini. Parlare di serial
killer è eccessivo.”
“Tuttavia non può negare che quattro cadaveri siano veramente tanti. Due uomini, una donna, un
ragazzo… tutte persone diverse fra di loro, senza nulla che parrebbe accomunarle… a me sembra
che…” L’ufficiale lo interruppe, prima che le divagazioni prendessero una piega imbarazzante.
“Senta Merini, se lei ne sa più di me, allora sono io che dovrei fare le domande a lei e non
viceversa. Nulla lascia supporre che si tratti di un maniaco o roba del genere, quindi non scriva
fesserie e non faccia congetture controproducenti!” Il giornalista non perse il proprio sorriso, ma
negli occhi ogni traccia di divertimento si spense.
“Capitano, ci sono quattro morti che chiedono giustizia e la cittadinanza ha il diritto di sapere se
può aggirarsi liberamente dopo le cinque del pomeriggio per le strade!”
“E chi glielo impedisce?” borbottò il graduato arrivando in prossimità della macchina, ma prima di
riuscire a salire a bordo, il giornalista gli pose ancora una domanda: “Sono stati tutti uccisi con
qualcosa di affilato, no? E lei questo come lo definisce?” Per un momento i due uomini si
guardarono negli occhi, ognuno cercando di decifrare quanto ne sapesse l’altro, alla fine l’ufficiale
si produsse in un sorriso tirato. “Maresciallo, porti il signor Merini in caserma, direi che è una
persona informata sui fatti e forse è in grado di far luce su quello che per noi è un caso
inspiegabile.”
“Ma lei non può…” protestò subito il giornalista. “Non posso fare cosa? Interrogarla? Vogliamo
vedere?”
“Senta Capitano, mettiamoci d’accordo, io le dirò quello che so e lei mi dirà quello che può.”
L’ufficiale si lasciò sfuggire una risata alquanto amara. “Quello che io posso dire? Andiamo Merini,
ha voglia di scherzare! Le sue fonti sono migliori delle mie, a quanto pare. Io ho quattro morti che
aspettano e nessun colpevole da portare ai miei superiori. Ho un’arma del delitto che pare
inesistente e nessuna spiegazione valida.”
“Il ghiaccio Capitano, il ghiaccio. Sono stati uccisi con qualcosa di gelato, anche l’ultimo, non è
vero?” L’ufficiale si appoggiò stancamente alla macchina, facendo cenno al Maresciallo di rientrare
nel veicolo, come se la conversazione in corso dovesse rimanere privata. Guardò il palmare in mano
al giornalista e questi, intuendo le intenzioni dell’altro, spense l’apparecchio e lo ripose in tasca.
“Merini cosa sa veramente di questo caso?” L’altro valutò per un istante che cosa rispondere, poi
con un sospiro fece un cenno con la testa verso il punto in cui la scientifica stava ancora facendo i
rilevamenti intorno al cadavere. “Anche quello è morto pugnalato al cuore, no?”
“Sì Merini, anche quello. Allora cosa sa?” Il giornalista tornò a fissare lo sguardo in quello del
carabiniere e finalmente parvero intendersi. “Conosco un barbone, che a sua volta conosce un altro
barbone, che dice di aver visto qualcosa la sera dell’uccisione del ragazzo, quello uscito
dall’università.”
“La seconda vittima?”
“Sì, quella. L’amico del mio amico dice di aver visto una strana cosa, una forma tutta bianca,
aggirarsi per quel tratto di strada, ma nevicava troppo forte per capire esattamente che cosa fosse.”
L’ufficiale parve trasalire.
“Come sarebbe a dire una forma bianca? Una forma di cosa? Di formaggio?” la tensione nella voce
era palpabile, così come l’improvviso nervosismo del Capitano. Merini istintivamente fece un passo
indietro, alzando le mani come per volersi difendere da un’eventuale accusa.
“Ehi, non sono io che sto dicendo questo! Nemmeno io ho capito che cosa voglia dire questa storia
della forma bianca… oltretutto la mia fonte nell’Istituto di Medicina Legale mi ha confermato che
le uniche tracce trovate, nell’unica ferita rilevata sui cadaveri, presentava residui di acqua piovana e
una certa percentuale del pulviscolo presente nell’atmosfera. E questo fa pensare ad un’arma fatta
con del ghiaccio. Lo so che sembra assurdo, ma sono giunti tutti alla stessa conclusione.” Il
Capitano sbuffò risentito. “A qualcuno di quelli del laboratorio metto le manette ed un bavaglio! Va
bene… e quindi? Questa forma bianca che forma ha?”
Il giornalista sventolò le mani come a voler cercare le parole adatte, ma non trovandole, alla fine
sospirò di nuovo scuotendo la testa.
“Non lo so… non ho ben capito quello che ha tentato di dirmi il mio amico e credo che nemmeno
lui abbia capito bene che cosa intendesse dire il barbone di sua conoscenza, ma sembra quasi che
stiamo parlando del classico fantasma con un lenzuolo.” Il Capitano sgranò leggermente gli occhi
ed un lieve sorriso ironico si dipinse sulle sue labbra. “Un fantasma con lenzuolo? Come quello dei
castelli scozzesi con tanto di catene? Ma andiamo Merini, non crederà veramente ad una panzana
del genere?”
“Non so cosa credere Capitano, ma tutto questo è strano, non trova? Sono arrivato presto sul posto,
questa mattina, ho visto anch’io che non c’erano impronte intorno al cadavere…”
“Non significa nulla, ha nevicato parecchio nelle ultime ore, qualsiasi traccia potrebbe essere stata
seppellita sotto altri cumuli di neve!” Tuttavia, proprio mentre lo diceva, il Capitano parve dubitare
delle proprie parole e istintivamente lo sguardo corse verso il cadavere che veniva issato in quel
momento sulla barella, per essere portato via da un’ambulanza in attesa.
Per quanto assurdo potesse sembrare, anche lui aveva avuto l’impressione che non vi fossero
impronte intorno al cadavere, anche se queste avrebbero potuto essere nascoste sotto altri strati di
neve fresca. E se mancavano delle impronte intorno al morto, allora cosa lo aveva ucciso? Un
fantasma con un lenzuolo bianco, armato di un punteruolo fatto con il ghiaccio? Scosse la testa
senza nemmeno rendersi conto del gesto. Più ci pensava e più gli sembrava verosimile come ipotesi,
ma era certo che nessuno avrebbe creduto ad una teoria del genere.
*
Fa freddo in questo immenso mondo candido e ghiacciato. Fa freddo e sento le estremità rigide,
totalmente inutili. Non so nemmeno io perché mi trovo in questo stato, perché sono stato costretto
in questa immobilità, rattrappito dentro a questo involucro.
Non ricordo nulla di ciò che è stato, nulla di quello che ho vissuto, provato, assaporato… sento la
mia anima congelata alla stessa stregua delle mani o dei piedi. Vorrei poter dire che la mia vita sia
servita a qualcosa, ma non ricordo nulla. Loro sono vivi, sono tutti vivi e questa certezza mi divora,
mi strazia, rende la mia consapevolezza del mondo un luogo orribile in cui condividere il mio
orrore. Sento l’odio pervadere le mie vene inutili, riempirle con dell’acido astioso, dando vitalità a
un corpo che non esiste. Loro mi guardano, mi deridono, mi girano intorno con le loro faccette
insignificanti. Mi toccano, palpeggiano senza alcun riguardo per i miei sensi, i miei desideri. Sono
invadenti, non si curano del male che potrebbero farmi, mi rimodellano pensando solo al proprio
divertimento, alla gioia dei loro figli, piccoli vandali in erba. L’odio è il carburante che porta
energia nelle mie forme, l’odio corroborante che fa smuovere il mio piccolo universo gelato. Vedo
le altre vite scorrermi intorno e non posso interagire come vorrei, non posso comunicare… posso
solo uccidere…
*
Il bambino guardò fuori dalla finestra. La sua camera si affacciava proprio sul giardino interno,
dandogli la gioia di potersi godere la neve attraverso i vetri. La neve e quelle costruzioni fatte con
mamma e papà, l’igloo, il pupazzo… Per un momento rimase immobile a guardare quello spazio
immacolato, delimitato dalla recinzione che circondava la proprietà, poi si agitò così all’improvviso
sulla sedia da doversi afferrare al bordo della scrivania per non cadere. “Mamma! Mamma, vieni a
vedere! Il pupazzo di neve è di nuovo sparito!”
Andrea Leonelli
La sposa
I petali sanguinano sul pavimento lucido fino a essere quasi uno specchio, riflettendosi e
moltiplicandosi, perdendosi in spazi aperti e vuoti.
Entrando nella casa l’atmosfera è moderna e minimalista. Superfici piane, poche fotografie alle
pareti: quasi lapidi in bianco e nero su arredamento e spazi altrettanto bianchi e neri. Pavimento,
mobili e suppellettili, tutto un contrasto di positivo e negativo. In questa casa non c’è spazio per
altro che non sia netto, delineato. Anche le linee della casa sono categoriche, dritte.
A terra una traccia di petali rossi. Come la scia lasciata da un ferito che sanguina, sono petali
freschi, con il colore ancora vivo.
Quando saranno secchi diverranno neri, intonandosi al resto della casa.
I petali scarlatti guidano attraverso locali scarni, nudi, tutto in bianco e nero, bianco e nero, sempre
e solo bianco e nero. Tutto: colonne, rivestimenti delle pareti, infissi, mobili.
Ossessivamente.
Ripetitivamente.
Esclusivamente.
Bianco e nero.
Seguendo la traccia rossa fino a una porta e fin dentro la camera da letto.
Vuota a eccezione del giaciglio di ferro battuto, le coperte candide.
La sposa, nel suo abito bianco giace sul letto. Bianco su bianco.
Anche in viso la ragazza mostra un pallore cadaverico. Quasi diafana. Morta.
Morta il giorno del matrimonio, o almeno così lascia intendere il vestito.
Il vestito che una donna si mette una sola volta. Una cosa definitiva.
E’ perfetta: una sposa rubata all’altare, strappata al percorrere la navata nelle sue scarpe nuove,
candide, con l’acconciatura appena coperta da un velo finissimo. Le mani, curate, pronte a ricevere
l’anello nuziale e ora appoggiate in grembo.
Unica nota di colore, stonato, un rossetto vermiglio, che risalta in tutto quel bianco come sangue
sulla neve, come una ferita, uno strappo rosso al posto delle labbra.
L’espressione della donna è tranquilla, serena, sembra veramente che potesse dormire al momento
della morte. C’è, sulle labbra artificialmente sanguigne, l’ombra di un sorriso, l’enigmatica
espressione di Monna Lisa riportata in carne, morta, e ossa.
Silenziosamente, minuziosamente, quasi religiosamente raccolgo i petali: stonano adesso in questo
ambiente bicolore.
Torno silenzioso sui miei passi.
Ho goduto della mia opera d’arte, la mia artistica costruzione. Il mio tocco da maestro è stata
l’aggiunta della sposa morta e delle sue labbra. Ho affascinato me stesso con questa creazione di
dolore non sofferto. Con questa composizione di cose morte in ambiente puro. Ho contaminato la
bellezza con altra bellezza. L’incorruttibile con il decomposto.
Adesso per cancellare le mie tracce senza rovinare la mia creazione dovrò purificare tutto con il
fuoco.
Ho già tutto predisposto, il gas, i timer, gli inneschi. Il materiale contenuto nella casa, le vernici, i
mobili e quant’altro è contenuto fra queste mura, è infiammabile. Inferno controllato tramite
telefono. Adesso uscirò, andandomene definitivamente. Chiudo la porta e come con la preghiera,
trovo pace.
Luigi Bonzanini
Verso l’Abisso
Il giovine ed aitante marchese Vitellozzo Della Rogna si rimirò per l’ennesima volta nel grande
specchio che troneggiava nel suo salotto privato e non poté frenare un moto di compiacimento
contemplando l’immagine elegante,sobria e virile che il cristallo gli rimandava. Scrutando il proprio
volto affilato, la fronte ampia e pensosa, gli occhi grigi ed a tratti balenanti come schegge d’acciaio,
non poté trattenere un moto quasi fanciullesco di legittimo orgoglio: ” Bello!… Quanto sei bello! ”
sussurrò con la sua voce suadente e vellutata rivolto al baldo giovane che lo fissava dalle profondità
dello specchio. D’un tratto, il sorriso vago ed ingenuo che indugiava sulle labbra di corallo
dell’aitante Vitellozzo si mutò in un’espressione pensosa ed assorta: egli meditava ora sulle alterne
vicende dell’umano destino e di una forza al mondo, lo sapeva ormai per esperienza, avrebbe potuto
distrarlo dalla sua meditazione solitaria e malinconica che a tratti si impossessava di lui
estraniandolo dal mondo anche per ore ed addirittura giorni.
” Ma che cos’è mai questa mia povera vita, a paragone dell’eternità?… ” mormorò fra sé e sé. ” E’
vero: sono bello, raffinato, colto, ricco, intelligente; le donne mi rincorrono, gli uomini sbavano
d’invidia, ma a che vale questa mia esistenza che si trascina annoiata fra gli agi, le mollezze e le
orgie sfrenate?… Forse null’altro che un sogno vano! ” Proprio in quel punto, comparve sulla soglia
la pallida ed emaciata figura del vecchio maggiordomo Calogero. Vitellozzo si volse a fissarlo con
occhi di brace e, con gelida calma, lo redarguì:
” Che vuoi, vile bifolco?… Non vedi che sono assorto nei miei malinconici pensieri?! ” Il vecchio e
smunto Calogero fissò a sua volta Vitellozzo strabuzzando gli occhi e, con un sorriso spettrale,
rispose esitante: ” Venivo a riferire che il suo eccellente padre, il marchese Callisto Della Rogna,
l’attende con ansia malcelata nella serra per colloquiare con lei di cose intime e segretissime. Se ho
fallato, mi punisca pure, signorino Vitellozzo, ma sia indulgente con questo vecchio canuto ed un
po’ rincoglionito sulle cui ginocchia ella ha giocato da piccino!… “
Udendo queste parole oneste e sincere, sgorgate dall’intimo del tremulo vegliardo, Vitellozzo non
poté trattenere un moto di disappunto. Corse verso il saggio Calogero e lo strinse forte al proprio
petto esclamando:
“Vecchio, dolce, caro e rimbambito Calogero, come ho potuto dubitare della tua rettitudine?! Orsù,
abbracciami!”
Entrambi commossi il vecchio smunto e l’aitante giovane s’abbandonarono ad un lungo e tenero
abbraccio, finché una lacrima solitaria spuntò sul ciglio del venerando vecchio.
*
Dopo aver lasciato il fido maggiordomo ad asciugarsi i lucciconi che gli brillavano negli occhi
stanchi, il giovane e fiero Vitellozzo s’avviò, camminando rapido e sicuro sulle uova come aveva
appreso a fare fin da piccino, verso la serra. Traversò con inquietudine mista ad un vago scoramento
molte sfarzose stanze dell’avita dimora finché, trepidante e trafelato giunse nell’immensa serra dove
il padre Callisto lo attendeva. Costui, uomo di rude stampo, piccolo di statura, calvo, rincagnato e
notoriamente irascibile, vedendo il figlio appressarsi con tanta sollecitudine si volse di scatto e lo
fissò a lungo con i suoi freddi occhi cerulei. Intimorito da quello sguardo d’acciaio, Vitellozzo
indietreggiò d’un passo, ma subito il marchese Callisto gli tese le braccia e mormorò con voce resa
stentorea dall’emozione:
“ Figlio mio, vieni fra le mie braccia!…”
Colto da una gioia subitanea, Vitellozzo si precipitò fra le braccia del padre gridando:
“ Babbo!…Oh, babbo mio!…”
” Figlio, io ti riveggo ancora; ma come ti sei smagrito dall’ultimo nostro incontro! “
” Babbo caro, ci siamo lasciati soltanto iersera e già mi rimproveri di trascurarti?!… “
” Figlio diletto, la lontananza, sai, è come il vento: spegne i fuochi piccoli, ma accende quelli
grandi! “
” E’ vero, babbo caro!… Hai ragione come sempre! “
Il vecchio ed indomito marchese fece assidere Vitellozzo su di un divano foderato di seta turchina e
lo squadrò a lungo, senza più proferire verbo alcuno. Poi, con uno scatto subitaneo, gli afferrò le
mani e disse:
” Figliolo caro, prole dei miei lombi, debbo darti una notizia che ti farà felice: domani sposerai la
contessina Amarilli Degli Albigesi! “
Il volto di Vitellozzo si fece terreo; dalle labbra illividite a stento gli uscì un flebile lamento:
” Ma, caro babbo, io non l’amo!…”
” E perché?!…” Chiese il venerando padre, rabbuiandosi di colpo.
Sempre più confuso e stordito, il giovane rispose:
” Ma, caro ed amato babbo mio, la contessina ha la gobba!…”
” E a te cosa te ne cale?!… Ella è immensamente ricca e di nobile lignaggio! “
Vitellozzo cominciò ad annaspare sentendosi venire meno l’animo già provato dal recente incontro
con Calogero.
” Babbo mio, costei sarà anche ricca, ma ho sentito mormorare che soffre pure di alitosi e
meteorismo!…”
” Sciocchezze!… Pettegolezzi di gente plebea. Ascolta la voce del sangue e mostrati degno di
cotanto padre!… Ricorda le glorie della nostra stirpe!… “
Qui il truculento vegliardo s’arrestò di botto avvedendosi che Vitellozzo, bianco come un cadavere,
era caduto riverso sui cuscini del divano e non dava più segno di vita. Sorpreso e deluso, il
marchese Callisto prese a schiaffeggiare sonoramente e sistematicamente le guance esangui del
figlio finché un flebile gemito gli dischiuse nuovamente le labbra:
” No!…La gobba no!!!… “
” E ché, figliolo caro, vorresti dunque lasciar morire il tuo vecchio genitore nella più nera
indigenza?! “
” Ma babbo, tu sei ricco da fare schifo!… “
” Non più, pargolo mio, non più!… ” E qui il vecchio trasse un sospiro cavernoso. ” Sappi dunque il
vero: noi siamo rovinati!… “
” Che odono le mie orecchie!…”
” Ahimè, il vizio del gioco mi ha trascinato a questo: devo sacrificare il mio diletto figlio per
salvarmi dalla galera. Altre alternative non ho se non quella di ficcarmi una palla nel cervello!… “
” Non sarebbe poi un’idea malvagia!… “
” O serpe ingrata, dovrò dunque morire per muovere a compassione il tuo cuore di pietra?!… Che
cosa ti chiedo in fondo?… Soltanto d’impalmare una dolce e pia creatura forse non perfetta
esteriormente, ma certo bellissima dentro. “
” E ché, le hai fatto dunque una radiografia?… “
Udendo quest’oziosa domanda, il volto del marchese Callisto si fece di brace per la collera. Puntò
l’indice della sua scarna ed eburnea mano verso il tristo figliolo e proferì queste tremende parole:
” Odi, Vitellozzo!… Odi e trema!… Se non sposerai la gobba, la maledizione di tuo padre colpirà te
e tutta la tua progenie fino alla quarta generazione! Osi ancora ribellarti?… “
Annichilito e ferito nell’imo del cuore, il misero giovane non poté far altro che assentire:
” Ebbene, sposerò la gobba!… “
Dopodiché svenne per la seconda volta.
*
Fu così che quella stessa sera, il livido e tremante Vitellozzo, anche se sorretto dal fido Calogero,
dovette affrontare il primo abboccamento con la contessina Amarilli Degli Albigesi, venuta in visita
a palazzo con la di lei madre contessa Cunegonda onde definire i dettagli degli sponsali. In effetti,
la fanciulla non si poteva definire proprio una bellezza: alta un metro e cinquanta, anoressica e
distrofica, oltre che di una scoliosi assai pronunziata soffriva visibilmente di strabismo e di
un’incipiente alopecia. All’opposto, la contessa Cunegonda apparve agli occhi del misero giovane
come una matrona bulimica ed ansimante che subito gli si gettò addosso piena d’entusiasmo e volle
ad ogni costo abbracciarlo e baciarlo sulla bocca riversandogli in faccia un alito simile ai miasmi
delle fogne di Calcutta. Vitellozzo si sentì venir meno e le ginocchia gli si piegarono; valse a
salvarlo dal crollo fatale soltanto la stretta dell’indefesso Calogero che, ancora commosso per le
effusioni del mattino, frenava tuttora a stento le lacrime ed ogni tanto mormorava fra sé:
” O rimembranze!… “
Sfoderando in un truculento sorriso gli ultimi dieci denti che le restavano in bocca, la contessa
madre spinse innanzi con un gesto pieno di grazia la figliola e, con voce colma di materno orgoglio,
dichiarò:
” Ecco la mia piccina!… La mia asinella adorata! “
Era infatti cosa risaputa che la dolce Amarilli univa alle scarse doti fisiche un’intelligenza anche più
scarsa: in pratica era una mezza scema. E tuttavia, quale soave espressione di gaudio illuminò il
volto della poverina appena ch’ebbe adocchiato Vitellozzo: strabuzzando gli occhi dietro le spesse
lenti correttive, dalle sue labbra minute scaturì un grido spontaneo:
” Ih, ih, ih, ih!!!… “
Udendo quella risata sinistra, lo sventurato marchese barcollò per l’ennesima volta e, ancora una
volta, l’onnipresente Calogero provvide a sorreggerlo. Pallido come un morto, Vitellozzo trovò
comunque la forza d’animo bastante a fare gli onori di casa: fece sedere le due dame ad un prezioso
tavolo d’ebano intarsiato ed ordinò con voce stentorea che fosse servito l’apéritif avec des bonbons.
Il solerte e mesto Calogero, non molto ferrato in francese, rimase immoto a fissarlo con
un’espressione assorta da baccalà. Imbarazzato e con i nervi a fior di pelle, Vitellozzo ripeté
l’ordine:
” Calogero, l’aperitif avec les bonbons!… “
Sul ciglio di Calogero spuntò un’altra lacrima furtiva mentre il poverino, paonazzo di vergogna,
restava immobile senza saper che pesce pigliare. La contessa Cunegonda, piuttosto scocciata, non
perse l’occasione d’interloquire:
” Ma dove l’avete trovato quel pesce lesso di maggiordomo!… Mio Dio, in che casa sono capitata!“
Subito Amarilli le fece eco con la sua risata cavallina:
” Ih, ih, ih, ih!!!… “
Colmo d’ira e di frustrazione, Vitellozzo sbraitò alla volta di Calogero:
” Imbecille, gli aperitivi con i dolci!!!… Cosa aspetti, una richiesta scritta?!… “
Basito ed umiliato, il vecchio servo fedele chinò il capo e scappò via dalla sala guaendo come un
cane bastonato.
Dopo questa scena penosa, Vitellozzo affrontò l’immane sforzo di mostrarsi cortese con le ospiti:
atteggiò il viso ad un piacevole sorriso che in realtà si rivelò un ghigno deforme e si rivolse alla sua
promessa sposa con una domanda originalissima:
” E che fa di bello la signorina, studia?… “
” Ih, ih, ih, ih!!!.. “
La vecchia Cunegonda, rispose facendo le veci della figlia:
” Studiare?… No, non studia. Però ci sono fior di professori che studiano lei. “
” E perché mai?… ” chiese il giovane Della Rogna, incuriosito. L’ombra di un ricordo penoso passò
sulla faccia spettrale della contessa.
” È giusto che lei sappia!… Questo mio bocciolo di rosa, alla tenera età di dieci anni cadde per
disgrazia nella concimaia della nostra tenuta di campagna e vi rimase per un giorno ed una notte in
compagnia dei maiali prima che la ritrovassimo. Da allora, il trauma subito l’ha resa praticamente
muta e sorda. Ancora non s’è trovata una cura adeguata. Capisce ora, marchese, quale strazio lacera
questo mio cuore di madre?!… “
” Capisco, capisco! E avete già pensato ad una località per il viaggio di nozze? “
” Se a lei va bene, avremmo già deciso per Lourdes. Naturalmente io verrò con voi! “
” Che bello… ” balbettò Vitellozzo che improvvisamente provava un bisogno impellente di
vomitare.
Riapparve il tremulo Calogero, con gli occhi rossi di pianto, recando un vassoio d’argento sul quale
faceva bella mostra di sé un grosso zampone modenese ancora fumante con contorno di lenticchie.
Vedendolo, Amarilli, entusiasta, prese a battere le manine ed a squittire come una pantegana:
” Ih, ih,ih, uh,uh,uh,!!!… “
Vitellozzo, furibondo, si rivolse al mesto Calogero sbraitando:
” Deficiente, che cosa ci hai portato?!… “
Confuso e tremante, Calogero non riuscì a far altro che balbettare:
” O marchesino, perdoni questo vecchio stolto. Se ho fallato mi punisca, ma sia indulgente verso
questa mia vetusta canizie. Pensi al tempo felice della sua infanzia quand’ella giocava beato sulle
mie ginocchia!… “
” Calogero, che ti pigli un accidente, a te ed alla tua canizie! “
Ancora una volta la contessa s’intromise nella discussione:
” Ma non fa nulla!… Anzi, io e la mia frugoletta avevamo giusto voglia di zampone con le
lenticchie!… Lei permette, nevvero, marchese?… “
Senza nemmeno aspettare una risposta, la contessa afferrò lo zampone con le mani nude e prese a
divorarlo strappandone grossi bocconi con i dieci denti che le restavano in bocca. Nel giro di pochi
minuti lo zampone era già scomparso nel poderoso stomaco della vecchia che, una volta placata la
fame, si rivolse con garbo alla figliola:
” Suvvia, cara. Mangiati pure le lenticchie. Tu devi badare alla linea e mantenerti snella per il tuo
futuro sposo! “
Senza farselo ripetere due volte, Amarilli afferrò il vassoio e prese a leccare le lenticchie
direttamente dal fondo, sbrodolandosi tutto il leggero vestito di tulle che lasciava chiaramente
intravedere la totale assenza di seni.
Una tale visione fu per Vitellozzo la mazzata finale. Lo sciagurato spalancò la bocca come per
lasciarne uscire un grido disperato, ma non si udì invece alcun suono. Le pupille del giovane si
arrovesciarono all’indietro, egli s’accasciò esanime sulla sedia e svenne per la terza volta nello
stesso giorno.
*
Un mesto epilogo
Circa due mesi dopo, in una solare mattina di primavera, la lussuosa vettura del vecchio marchese
Callisto Della Rogna correva speditamente lungo una strada di campagna costeggiata di platani in
piena fioritura. Curvo e terribilmente corrucciato, il Della Rogna se ne stava rincantucciato in un
angolo del sedile posteriore foderato di pelle di leopardo. La macchina avanzò a lungo per tornanti
polverosi finché si fermò davanti al cancello di un’amena villa campestre che una targa di bronzo
incastrata nel muro di cinta identificava come Villa Gaudiosa. Un autista compassato ed asettico
aprì la portiera posteriore ed il marchese sgattaiolò fuori dall’auto. Suonò il campanello ed il
cancello s’aprì con uno scatto secco. Callisto, sempre scuro in volto, s’incamminò a passo svelto
lungo il sentiero alberato che correva in mezzo al grande giardino della villa. Un uomo in camice
bianco gli venne incontro a braccia tese.
” Caro, caro marchese, quale gioia vederla qui! “
Il marchese si lasciò abbracciare senza entusiasmo e, sempre corrucciato, sbottò:
” Esimio dottore, bando alle ciance. Sono qui per vederlo e rendermi conto del suo stato. Ci sono
speranze?… “
Il celeberrimo dottor Magnapoco scosse mestamente la testa.
“Ahimè, egli non mostra alcuna volontà di guarire. Ma, caro amico, venga con me e constaterà lei
stesso! “
S’avviarono dunque i due vegliardi verso un angolo solitario del giardino popolato da strani
personaggi dai visi inquietanti intenti alle più strane incombenze. Chi camminava sulle mani con le
gambe all’aria, chi se ne stava disteso carponi abbaiando come un cane; chi, infine correva da un
albero all’altro cercando vanamente d’afferrare i passeri al volo. Fra tutti quegli infelici, ecco infine
l’aitante figura dello sfortunato Vitellozzo che se ne stava appollaiato sul ramo più basso d’un
secolare abete, col bel viso ormai del tutto inespressivo rivolto al vaporoso orizzonte, scrutando con
occhi vacui le nuvole migranti nel cielo turchese.
Il marchese Callisto s’appressò al figlio fin quasi a toccarlo e, con voce rotta dai singhiozzi,
gemette:
” Vitellozzo, figlio mio adorato, non mi riconosci?… Sono il tuo babbo che tanto t’ama!. “
Il figlio parve non essersi nemmeno accorto della presenza del genitore e continuò impassibile a
fissare l’orizzonte. Con un tono ancora più accorato il vecchio ripeté la domanda:
” Vitellozzo, non riconosci dunque più il tuo povero babbo?… “
Per un breve attimo il giovane parve destarsi dal suo torpore, gettò un’ occhiata in tralice al vecchio,
scosse la testa come per destarsi da un sogno penoso e poi, di colpo, rispose con uno strano verso
querulo:
“Ih, ih, ih, ih!!!…”
Le Larve
A novembre avanzato, il tempo si manteneva ancora insolitamente mite. Quasi ogni giorno, verso le
prime ore del mattino, una pioggerella tiepida ed oleosa bagnava la città per poi lasciarla in preda ad
un tepore umido e malsano fino al crepuscolo. La gente si rendeva conto assai distrattamente che,
molto più a nord, nelle desolate regioni artiche, i ghiacci si stavano lentamente sciogliendo, ma la
cosa non li preoccupava più di tanto. In fondo, si trattava solo d’una piacevole estate di S. Martino.
Lazzaro Loisio, violoncellista ormai anziano e senza più illusioni, in una di queste mattinate
stranamente afose ed umide, s’avviò al suo tormento quotidiano, immerso come sempre in tetre
meditazioni. Con Loisio la vita era stata eccezionalmente avara di gratificazioni: questo era un fatto
inoppugnabile del quale egli era fin troppo cosciente. Anche a causa del suo carattere scostante e
poco incline al compromesso si ritrovava, non più giovane, in una situazione quanto mai ostica.
Niente legami familiari, niente amici, un passato colmo di ricordi penosi ed un futuro pieno di
incognite. La sua croce peggiore: l’orchestra. Non che avesse nulla da rimproverarsi riguardo alla
sua professione, salvo il fatto di non aver intuito per tempo che il talento conta assai poco in un
ambiente ottuso e gretto come quello in cui s’era ritrovato fin dai giorni lontani della sua gioventù.
In una situazione così disgraziata, per mettersi in evidenza e fare un po’ di carriera avrebbe dovuto
usare le armi che più aborriva: lusinghe ed opportunismo. Ovviamente Loisio, onesto e privo di
malizia, si ritrovava ora, alla fine del suo cammino esistenziale, completamente spiazzato ed
emarginato. Il suo destino s’era arenato in una palude d’indifferenza e di astio assai amari da
sopportare ma era anche inutile lamentarsi: i suoi svagati coetanei si mostravano sempre infastiditi
se egli mostrava un qualche moto di ribellione. Niente è più tedioso di un’ uomo che si lamenta
della sua sorte ingrata, specialmente se le sue ragioni sono ben fondate. Dunque Loisio aveva
appreso a tacere e sopportare e trascinava i suoi giorni in una palude di rancori inespressi.
*
” Questa è la volta buona che lo conciamo per le feste! ” L’illustre maestro Behemot con questa
dichiarazione suggellò la sua totale sudditanza alla degna combriccola di celeberrimi musicisti che
gli stavano attorno. Manco a farlo apposta stavano disquisendo sulla sorte del disgraziato Loisio e la
dichiarazione di Behemot riassumeva perfettamente le intenzioni dei presenti nei suoi confronti. Per
la cronaca, nella simpatica congrega, oltre al raffinato Behemot, erano presenti altri musici di chiara
fama: la signorina Petulia, il primo violoncello Maestro Asmodeo, l’allampanato Vassago, afflitto da
un leggerissimo strabismo che comunque non oscurava minimamente il suo fascino virile e l’illustre
spalla dei primi violini. Tutti questi formidabili talenti erano debitori nei confronti del Loisio di una
o più lezioni di vita. Presi singolarmente, costui non aveva avuto problemi a strapazzarli come i loro
meriti richiedevano, ma così coalizzati stavano per diventare un vero e pressante problema. Proprio
in quel momento la vittima potenziale di tanta acredine fece la sua comparsa nel golfo mistico e,
notando immediatamente i loro sguardi carichi d’astio feroce, non poté fare a meno di tremare. Il
maestro Asmodeo gli si avvicinò ridacchiando e gli sibilò poche parole: “Per stasera, abbiamo
programmato una prova supplementare per la sola fila dei violoncelli!…”
Sul volto di Loisio apparve una smorfia amara, ma in tono sommesso rispose soltanto: “Va bene!
…”
Evidentemente, in quell’ accenno apparentemente innocente riguardo alla prova a sezioni, Loisio
aveva intuito la volontà precisa di tutti i presenti di metterlo sotto torchio fino a farlo crollare.
Comunque, da quanto ho saputo in seguito, Loisio non pensò affatto si sottrarsi alla prova. Ricordo
però che quella sera lo vidi uscire dal teatro visibilmente sconvolto. Il giorno seguente non si
presentò in orchestra e neanche nei giorni immediatamente successivi. Vi fu chi tentò di contattarlo
telefonicamente al fine di evitargli sanzioni disciplinari, ma ogni tentativo fallì. Verso la fine della
settimana, fu chiaro finalmente a tutti che Loisio era misteriosamente e definitivamente scomparso.
*
Nelle settimane successive alla scomparsa di Loisio il tempo atmosferico continuò a mostrarsi
innaturalmente clemente a parte i soliti scrosci di una pioggerella tiepida ed oleosa che fece salire
l’umidità a picchi inusuali mentre la temperatura di quel novembre avanzato si manteneva
ostinatamente afosa contro ogni ragionevole previsione. La stampa cittadina si occupò con fervore
dell’argomento, anche per una sua carenza cronica di temi più interessanti. L’unico giornale locale a
grande tiratura, essendo platealmente e sistematicamente schierato con il partito al governo, non
s’azzardava mai a trattare temi di rilievo sociale per il perenne timore di mostrarsi critico nei
confronti del sussiegoso e permaloso potere costituito. Per tale ragione, la notizia del subbuglio
climatico venne sviscerata e discussa in tutte le sue forme possibili, avvallando e negando
contemporaneamente tutte le ipotesi. Si giunse così agli ultimi giorni di novembre quando, in una
brumosa e quieta serata, finita la prova dell’orchestra, la donna addetta alle pulizie, una robusta ed
attempata somala, svolgendo le sue mansioni abituali notò negli angoli del retropalco minuscoli
depositi di piccole uova oblunghe e biancastre. Non vi fece molto caso e, semplicemente, provvide
a rimuoverle. Tuttavia, il mattino seguente le capitò di notare che gli strani depositi s’erano
riformati durante la notte. Provvide nuovamente a rimuoverle, ma il terzo giorno le uova erano
ancora disseminate negli angoli e la donna cominciò a preoccuparsi.
Nel frattempo, la vita della piccola comunità musicale che vegetava nel golfo mistico del teatro
comunale, trascorreva noiosa e fiacca come al solito. Verso la metà di dicembre, in un mattino
grigio e piovoso, avvenne finalmente un fatto curioso che per qualche ora ruppe la monotonia. In
pratica si trattò soltanto d’un bizzarro incidente: semplicemente, due signorine non più giovani,
entrambe violiniste nell’orchestra, stavano discutendo di fatti insignificanti quando una di loro, notò
sul leggio dinnanzi a sé qualcosa che a prima vista le parve un magnifico fiore tropicale. Incuriosita
e vagamente eccitata, s’avvicino per scrutare meglio; il suo viso si chinò sui petali d’un rosso vivo
screziati di nero. Già la sia mano s’era levata per toccarlo quando, d’improvviso, il fiore s’animò: i
petali scarlatti si rizzarono di scatto per serrarsi sul suo collo ed Elisa percepì la morsa di due
minuscole mandibole che le artigliavano il labbro inferiore. La donna gettò un urlo penetrante e
prese a scuotere il capo tentando di liberarsi da quella morsa dolorosa. Strinse fra le dita lo stelo del
fiore malefico cercando di staccarlo da sé; il dolore al labbro si fece di colpo insopportabile: il fiore
le sgusciò fra le dita con un guizzo subitaneo per ricadere a terra con un frammento di carne viva
serrato fra i lunghi petali rossastri che si torcevano come artigli. Qualcuno ebbe la presenza di
spirito d’afferrare il leggio ed usarlo per colpire la creatura che restò spiaccicata sul pavimento con
un rumore sinistro simile al fruscio di un’enorme foglia secca. Appena il trambusto si fu calmato e
la donna col labbro sanguinante fu spedita in ospedale, qualcuno si prese la briga di esaminare i
resti del fiore maligno: benché ciò che ne restava fosse soltanto una poltiglia piuttosto disgustosa,
alla fine fu chiaro che non si trattava d’un vegetale, ma d’un insetto e precisamente d’una mantide
di grandezza inusuale. L’ ovvia domanda conseguente a tale scoperta fu: com’era finita quella
creatura nel golfo mistico del teatro, a migliaia di chilometri dalle regioni e dai climi a lei
congeniali?
*
A questo punto, io stesso che scrivo il resoconto di questa storia, mi devo fare avanti come
testimone. Non credo opportuno dilungarmi troppo sulle mie vicende personali; spero che basti
precisare che anch’io per quasi tre decenni fui un membro dell’orchestra e quando, per l’età e la
mancanza di prospettive, le mie capacità di strumentista cominciarono a declinare inesorabilmente,
fui messo da parte senza troppi riguardi. Dovetti accontentarmi di restare nell’ambito del teatro con
la mansione molto più modesta di guardiano notturno. Sempre meglio che la fame. Avevo
frequentato Loisio per molti anni ed ero forse l’unica persona che un’ uomo così scostante avesse
accettato come amico. Il mondo è crudele con i perdenti e noi avevamo in comunque lo stesso
destino fallimentare che ci accomunava in una sorta di malinconica alleanza. Dopo la sua
inesplicabile scomparsa, ero stato l’unico che si fosse preso la briga di fare qualche ricerca, peraltro
del tutto inutile.
Nel frattempo, la mantide spiaccicata era stata infilata in un sacchetto di plastica e gettata in un
cassonetto senza che nessuno si curasse più di indagare oltre sulla sua provenienza. Volendo seguire
fino in fondo una mia incerta premonizione, io recuperai di nascosto il sacchetto e con esso mi
presentai alla sezione Entomologia del Museo di Scienze Naturali. Riuscii a convincere un
assistente piuttosto distratto ed indaffarato ad esaminare i resti della mantide. Il giovanotto parve
sconcertato e mi chiese dove l’avessi trovata. Mentii: “ Nel giardino di casa mia.”
“Incredibile! Si tratta di una specie tropicale piuttosto rara: il nome scientifico è Idolum
Diabolicum. Le viene dalla sua capacità di assumere le sembianze d’un fiore dai colori sgargianti;
gli insetti ne sono attirati e lei li cattura con le zampe prensili simili a petali per divorarle.”
Quella stessa sera tornai in teatro per svolgere il mio turno di lavoro. Casualmente notai un bidone
della spazzatura piazzato proprio a lato dell’ingresso principale. Incuriosito, vi sbirciai dentro: era
stracolmo di sacchetti di plastica dove erano stati raccolti i resti spiaccicati di altre mantidi; ne
contai più di una cinquantina. Quello che temevo s’era avverato: grazie forse al perdurante clima
umido e caldo, le larve s’erano schiuse.
*
Quando lo spettacolo è finito, i musicisti se no sono andati e tutte le luci vengono spente, nel teatro
deserto e buio cosa accade? In teoria non dovrebbe accadere nulla, ma chi lo può affermare con
certezza assoluta? La notte che seguì fu una fra le peggiori della mia vita. La mia condizione attuale
è già abbastanza colma di desolazione e, come se non bastasse, il dovere mi obbliga a vegliare per
interminabili notti in quell’edificio strano e misterioso, vagando per le sale ed i praticabili immersi
nell’oscurità, senza niente di meglio da fare se non riandare con la memoria al passato, quando ero
un giovane musicista pieno di speranze. Forse si tratta dell’ultimo infame scherzo del mio destino
gramo: essere condannato da vecchio a vagare in solitudine nel teatro che mi vide giovane ed illuso.
Ma quella notte qualcosa doveva succedere; era un presentimento che mi sentivo pesare addosso
come una cappa. Forse perché il mio amico Loisio era scomparso ed a me non restava più nessuno
con cui condividere la mia solitudine, forse perché il tempo era ancora così innaturalmente afoso ed
umido in pieno dicembre, forse per la strana invasione delle mantidi diaboliche misteriosamente
apparse dal nulla. E in effetti qualcosa accadde. Verso le tre del mattino, mi aggiravo nei pressi del
foyer immerso nel buio, girando all’intorno il fascio di luce d’una torcia elettrica. Il silenzio
assoluto fu rotto di colpo da un rumore lontano: qualcosa di simile ad un lamento. In principio non
vi diedi importanza, ma poi il suono si ripeté una seconda volta, e poi una terza. Pareva provenire
dall’ala sinistra dell’edificio. Salii una breve rampa di scale e mi incamminai nel praticabile che
dava accesso alla prima fila di palchi. Avanzavo con circospezione, cercando di dissipare l’oscurità
del corridoio con la luce della mia torcia. Alla fine lo vidi: se ne stava immobile in cima ad una
scaletta dinnanzi alla porta che conduceva al palcoscenico. Era livido, con le occhiaie infossate, il
suo corpo sembrava non avere più consistenza ma brillava piuttosto d’una luce irreale. Spaventato e
sbalordito, mi avvicinai di qualche metro puntandogli addosso il fascio di luce e notai altri
particolari: i suoi capelli che lui portava abitualmente lunghi s’erano fatti candidi ed i suoi occhi, in
quel volto dal colore cinereo, erano senza pupille: non ne scorsi altro che la sclera bianca infossata
nei cerchi neri delle occhiaie. Vidi le sue labbra muoversi come per formulare una frase, ma ne uscì
soltanto un altro gemito lieve come un soffio di vento. Nonostante il mio sgomento, avanzai ancora
fino ai piedi della scaletta ed in quel momento Loisio disserrò nuovamente la bocca e da essa scaturì
un sussurro assai simile al fruscio delle foglie secche d’inverno. Disse qualcosa come: “ Non posso
più suonare!…”
Poi, di colpo, la sua figura immobile s’animò e parve lievitare nel buio. Lo vidi protendere le
braccia in avanti, verso di me. Restò per un attimo sospeso a mezz’aria e poi, rapido come un
lampo, mi si precipitò addosso. Udii ancora le foglie fruscianti che mi sussurravano: “ Giù, giù!…
Nel profondo abisso!…”
Fui investito da qualcosa assai simile ad una folata di vento gelido che mi attraversò letteralmente
da parte a parte, gettandomi a terra per poi dileguarsi nelle tenebre oltre le mie spalle. Caddi
all’indietro e la torcia mi scivolò di mano; probabilmente gridai ma nessuno udì il mio richiamo ed
io rimasi immobile nel buio, pieno di terrore e disperazione perché ora sapevo che Loisio era morto,
ma sapevo anche che la morte non gli aveva dato la pace che tutti meritiamo ed egli, dalla regione
desolata in cui vagava, era tornato per chiedermi di aiutarlo.
*
Anche i peggiori incubi hanno una fine e, quando Dio volle, l’alba pose fine a quella notte
maledetta. Per parecchi giorni rimasi letteralmente barricato in casa senza vedere nessuno. Poi,
quando finalmente mi costrinsi a rivedere la luce del giorno, tornai per una forma di coazione
irrefrenabile a quel teatro che per me era diventato l’anticamera dell’inferno. L’estate di S. Martino
adesso era veramente finita. Tornai al teatro in un mattino tetro e piovoso agli inizi di dicembre, un
vento freddo da settentrione spazzava le strade e smuoveva nel cielo la pesante cappa di nubi grigie
che ristagnava sulla città. Quando fui nei pressi del teatro, mi avvidi subito che qualcosa di grave ed
ineluttabile era accaduto. Alcune ambulanze sostavano presso l’ ingresso principale assiepato di
curiosi. Dal portone uscirono degli uomini in tuta che recavano delle barelle coperte con teli
bianchi. Sotto i teli si distinguevano delle forme umane. Mi avvicinai facendomi strada fra la ressa,
giunsi accanto ad una delle barelle e, con un gesto meccanico, sollevai il lenzuolo. Quello che scorsi
doveva essere l’illustre maestro Behemot, almeno a giudicare dalla corporatura dato che non aveva
più la faccia. Tutto ciò che restava del suo volto erano le ossa del teschio scarnificate con precisione
quasi chirurgica. Anche i bulbi oculari erano stati strappati; sulla sommità del cranio un lacerto di
pelle conservava ancora un ciuffo sparuto dei suoi inconfondibili capelli tinti di biondo. Mi rivolsi
ad uno dei portantini e chiesi: “ Sono state le mantidi?…”
Più che una domanda era un’affermazione. L’uomo in tuta mi rispose: “ Adesso non ci sono solo le
mantidi. Là dentro c’è un’ intera collezione di bestie schifose, una più enorme dell’altra. Hanno
fatto fuori almeno sette persone, senza contare quelle che sono scomparse senza lasciare traccia.
Entro stasera inonderemo tutto l’edificio con l’iprite: pare che sia l’unico sistema per farle crepare.
Dio ci salvi, questo posto è maledetto.”
Io varcai la soglia e lui subito m’afferrò per una spalla: “ Non vorrà mica entrare?!… È
assolutamente vietato!” – “ L’iprite non servirà a niente! Io credo invece di sapere dove sta il loro
nido.” – “Non se ne parla neanche! Torni a casa e ci lasci lavorare!” – “Va bene.”
Arretrai dalla porta e m’allontanai. Imboccai un vicolo laterale e girai attorno all’edificio finché mi
trovai sul lato opposto rispetto all‘ingresso principale. Lì c’era un piccolo portone che immetteva
direttamente nell’attrezzeria. Nei pressi non scorsi nessun uomo in tuta. Evidentemente erano sicuri
che nessuno sarebbe stato così incosciente da entrare volontariamente nella tana degli insetti
assassini. Io, invece, ero abbastanza pazzo da correre il rischio e, anche se le gambe mi tremavano,
entrai.
*
Il magazzino era immerso nell’oscurità; tentai di far scattare l’interruttore della luce ma non
accadde nulla. Evidentemente l’impianto elettrico era saltato ed io non avevo portato neanche la
mia torcia. Avanzai a tentoni fino all’ascensore: quando lo raggiunsi, dal buio alla mia destra udii
una serie di scatti secchi seguiti da un curioso ronzio. Mi frugai nelle tasche e ne trassi un
accendino. Al lume di quella fiammella tremula mi diressi verso la sorgente dei suoni e lo vidi:
doveva appartenere alla specie dei coleotteri, probabilmente un cervo volante. Completamente nero;
era lungo più d’un metro ed alto almeno una ventina di centimetri. Sbatteva ritmicamente le enormi
mascelle con fare aggressivo e le sue elitre ronzavano frenetiche smuovendo l’aria stagnante
all’intorno. Arretrai istintivamente mentre quello si levava in volo per aggredirmi. L’accendino mi
cadde di mano ed io, in preda al panico , annaspai cercando all’intorno qualunque cosa fosse utile
per difendermi. Trovai soltanto una vecchia asse di legno e con quella colpii l’aria alla cieca finché
si udì un cozzo sordo. Il ronzio delle elitre comunque non cessò; mi gettai carponi sul pavimento
alla disperata ricerca del mio accendino. Lo trovai e, quando la fiamma incerta riprese a rischiarare
l’oscurità scorsi l’ insetto che, steso a terra a pancia in su, girava su sé stesso come impazzito. Le
lunghe mascelle prominenti erano ripiegate su sé stesse, probabilmente spezzate, e le zampe si
muovevano nel vuoto con un ritmo frenetico e disperato. Senza più curarmi dell’insetto, schizzai
verso l’angolo dove sapevo trovarsi le scale di servizio e presi a scendere verso i piani sotterranei.
*
Iniziai così, nel buio più fitto, la mia discesa nei meandri più segreti del teatro; giù, sempre più giù
verso l’abisso di disperazione ed orrore in cui presentivo si fosse rifugiato Loisio dopo la sua
cacciata dall’orchestra. Giunsi nel locale delle caldaie, ma non mi fermai, soltanto io sapevo che in
un angolo remoto dell’immenso locale c’era l’accesso ad un’ulteriore rampa di scale che portava
ancora più in profondità, verso i sotterranei che da decenni nessuno aveva più frequentato.
Raggiunsi l’imboccatura delle scale: i gradini erano di legno fradicio e le pareti di calcare. Ripresi a
scendere, ansimando per lo sforzo e l’aria stantia. Non so dire quanto durò questa la mia calata agli
inferi: ricordo che raggiunsi un corridoio angusto, col pavimento di terra battuta, in fondo al quale
scorsi un vago bagliore verdastro. Avanzai per parecchi metri lungo il tunnel largo appena a
sufficienza per consentire ad un uomo di media corporatura di avanzare a capo chino a causa del
soffitto troppo basso. Su entrambi le pareti s’aprivano dei pertugi bui e maleodoranti: la fiamma del
mio accendino ne illuminava a stento l’interno dove scorsi cataste di ciarpame: avanzi di vecchie
scenografie, casse sfondate, costumi ammuffiti. Alla fine del cunicolo mi trovai dinnanzi ad un
apertura più ampia delle altre: quella da cui proveniva il chiarore spettrale. Entrai, e ciò che vidi non
lo potrò mai scordare, per quanto lungo sia il tempo che mi resta da vivere su questa terra. C’erano
larve ovunque: sul pavimento, pendenti a grappoli dal soffitto, ammucchiate in grumi oleosi negli
angoli: erano tutte enormi, le più piccole misuravano almeno quanto un uovo di struzzo. Diafane e
trasparenti, lasciavano intravedere le crisalidi all’interno e, soprattutto, emanavano una luminosità
verdastra e quasi maligna che mi permise di scorgere ciò che s’ergeva al centro del locale.
Finalmente avevo ritrovato Loisio, o almeno quello che ne restava dato che il suo povero corpo era
ormai ridotto ad una carcassa quasi del tutto scarnificata. Purtroppo, assieme al mio vecchio amico
avevo trovato anche la sua assassina: la Mantide Imperatrice. Doveva superare i sei metri d’altezza
e muoveva il capo a scatti con un movimento meccanico da destra a sinistra e da sinistra a destra.
Fra le sue zampe posteriori stavano i resti martoriati di Loisio mentre quelle anteriori, d’un acceso
colore vermiglio, erano giunte nella classica posizione simile a quella di un essere in preghiera. Per
parecchi secondi restai a fissarla paralizzato dall’orrore finché la Mantide smise di girare il capo
all’intorno e, lentamente, si protese verso di me. Io gettai un urlo ed indietreggiai istintivamente
verso il cunicolo. Colto da un panico irrefrenabile inciampai e caddi a terra, mi rialzai a fatica e
presi a fuggire lungo il corridoio. Alle mie spalle udii uno strano lamento simile al suono di un ramo
secco che si spezza. Continuai a correre nell’oscurità, incespicando, cadendo e rialzandomi e,
mentre correvo, continuavo a balbettare: “ la porta è troppo stretta!… Non può uscire!… Non può
uscire!…” Raggiunsi il locale delle caldaie e, per lunghi minuti senza fine, annaspai nel buio in
cerca delle scale. Alla fine le trovai e ripresi la salita fino al magazzino degli attrezzi. Ma lì, nella
penombra, percepii ancora una volta qualcosa che mi gelò il sangue nelle vene. L’aria intorno a me
risuonava ovunque di ronzii assordanti. Fui sfiorato dal frullo di dozzine di elitre vibranti. Il
magazzino era ormai completamente invaso dagli insetti: l’esercito della Mantide aveva già invaso
ogni recesso del teatro. Non so come ci riuscii, ma raggiunsi la porta da cui ero entrato e mi ritrovai
di colpo sotto la pioggia scrosciante, nella luce fredda del mattino. M’appoggiai contro un muro per
riprendere fiato illudendomi che l’incubo fosse finalmente finito. Proprio in quel momento sentii
che la parete dietro di me cominciava a vibrare: vi fu in primo fremito, quasi impercettibile e poi un
altro più distinto e prolungato. Ebbi la sensazione che la strada sotto i miei piedi prendesse ad
animarsi e fui colto da un senso di nausea. Udii sinistri scricchiolii provenienti dalla base
dell’edificio e, di colpo, una larga crepa squarciò l’intonaco del muro a cui m’ero appoggiato.
Allora capii: la furia distruttiva della Mantide stava scardinando le fondamenta del vecchio teatro.
Feci l’unica cosa che mi restava da fare: fuggii correndo verso casa.
*
Adesso sono nella mia stanza, disteso sul letto. Ho serrato le persiane per non far entrare la luce
grigia del giorno. La pioggia continua a martellare la città senza requie e a tratti odo in lontananza
l’eco snervante delle sirene. Probabilmente il vecchio teatro ha ormai ceduto alla furia
dell’assassina ed è crollato con tutto il suo carico di fasti decrepiti e di dolore senza riscatto. Forse è
meglio così. Forse sulle sue rovine se ne costruirà uno nuovo dal quale saranno bandite la
prevaricazione, l’opportunismo e le lotte meschine per il potere. Un nuovo teatro creato solo per la
musica, dove gli uomini possano semplicemente rinfrancare le loro anime ferite dal tedio della vita.
Resta una domanda senza risposta: da quale mondo oscuro è giunta fra noi la Mantide col suo
esercito di mostri?
Posso solo avanzare un’ipotesi: per anni Loisio aveva sopportato in silenzio angherie e soprusi
senza mai lamentarsi. Quando finalmente capì che in quel suo ristretto mondo ormai saturo di
ipocrisia per lui non c’era più posto, era fuggito verso l’oscurità e dal germe del suo rancore tanto a
lungo covato era nata, per una qualche misteriosa trasmutazione, una nemesi mostruosa che aveva
divorato il suo creatore per poi spargere all’intorno i semi dell’odio e della vendetta.
Il Pozzo delle anime
Guardavo il cielo scuro attraverso i vetri della finestra e speravo che l’alba fosse vicina. In realtà
l’alba è sempre lontana anni luce per chi, come me, non riesce a dormire in pace. Così mi sono
rimesso a letto e sono rimasto solo nel buio a fare i conti con me stesso. Ovviamente i conti non
tornano mai. Devo essermi addormentato, ma il mio era un sonno estremamente inquieto; attorno al
mio letto percepivo un continuo tramestio; in principio mi sono illuso che fosse il gatto affamato
che veniva a reclamare la sua cena, ma poi ho capito che erano tornati gli spettri. Per non vederli
tenevo gli occhi serrati ma, anche con le palpebre chiuse, potevo distinguere vagamente ciò che
accadeva nella penombra.
Mia madre fluttuava silenziosa sopra di me e mi fissava con occhi ostili; evidentemente, la mia
indipendenza attuale la indisponeva. Ho cercato di raggiungere con le mani la lampada elettrica
sopra la mia testa, ma quella non voleva saperne di accendersi. Alla fine mia madre è sparita senza
dire una parola ed è apparsa la vecchia zia: sembrava più grigia e scheletrica del solito: forse anche i
morti soffrono come noi e si consumano con le loro ossessioni. La zia si è avvicinata al mio
capezzale ed ha infilato un pacchetto di dolci sotto il mio cuscino, poi ha sussurrato qualcosa come:
“ Ricordati di darne anche agli altri! ”
Quali altri? ho pensato, di tutta la famiglia son rimasto solo io in questa casa cadente.
Lentamente, in un silenzio irreale, anche la zia si è allontanata. Ora la luce funzionava; in preda
all’agitazione mi sono vestito in fretta e sono uscito. Sopra i tetti, una luna tonda e giallastra
illuminava le strade scure e deserte. Senza una meta precisa, mi sono avviato verso il fiume.
Camminando, rimuginavo: una città di gente gretta ed inerte: gli unici che hanno vita facile qui
sono i vigili urbani che sguazzano nel traffico caotico. Sul lungofiume c’è una vecchia casamatta
austriaca dove anni fa dei drogati vagabondi sono stati bruciati vivi: non si è mai saputo chi sia stato
a spargere la benzina e ad appiccare il fuoco mentre quelli dormivano perduti nei loro sogni
intossicati. Comunque, il mattino successivo quel cumulo di ossa carbonizzate non era precisamente
un bello spettacolo e dal tugurio si levava un lezzo infernale di carne bruciata. Uno soltanto aveva
evitato il rogo gettandosi dal bastione nel fiume sottostante, ma s’era spezzato le gambe e la testa
sull’argine.
Ho proseguito lentamente fino al Pozzo delle Anime: soltanto una vecchia cisterna vuota dalla
quale, in certe notti di plenilunio, si odono uscire gemiti soffocati. Ho sporto la testa oltre il bordo:
nella pallida luce lunare ho intravisto una miriade di mani spettrali che si tendevano verso di me. Ne
ho afferrata una a caso ed ho preso a tirare; quello che è uscito fuori era incredibilmente leggero
anche per le mie scarse forze. Un giovane pallido come il marmo, vestito alla moda del secolo
passato: giacca nera e stiracchiata, colletto rigido di una camicia che molti anni addietro doveva
essere stata bianca, pantaloni attillati grigi e scarpe con le ghette. Aveva l’espressione spaesata di
chi si desta da un sogno, labbra sottili e grandi occhi foschi; l’unico difetto: orecchie troppo larghe
ed un sorriso forzato che gli deformava l’espressione del viso altrimenti intelligente. Cominciò a
parlare con un certo imbarazzo: disse che veniva addirittura da Praga ma, prima del suo prematuro
trapasso, era vissuto per due anni a Berlino. Ovviamente non si esprimeva nella mia lingua:
biascicava uno tedesco piuttosto arcaico infarcito di espressioni tipicamente ebraiche. Capivo
pochissimo di quello che raccontava, credo di avergli udito narrare che occulti passaggi sotterranei
collegano tutti i cimiteri d’Europa al pozzo da cui l’avevo appena aiutato ad uscire. Era estasiato
dalla luna piena, dall’aria umida di quella notte autunnale e dal corso placido del fiume che scorreva
accanto a noi. Gli chiesi il suo nome, anche se già l’avevo immaginato. Mi rispose:
“ Ich bin Franz. Franz Kafka!… Lei è stato molto cortese a farmi uscire dal pozzo.”
“ E adesso che sei uscito, che hai intenzione di fare?
“ Dopo tanto buio, io vorrei rivedere il mondo!…”
“ Non so se è una buona idea: è peggiorato parecchio dai tuoi tempi. Lo sai che c’è stata una guerra,
i campi di sterminio per tutti quelli come te; sei milioni di ebrei uccisi? “
“ Ho sentito raccontare qualcosa di simile dalle mie sorelle. Quello che più mi dispiace è che la mia
biblioteca sia stata saccheggiata. D’altronde ciò che scrivevo valeva assai poco. Ho incaricato il mio
amico Brod di bruciare tutto. “
“ Per fortuna non l’ha fatto. Pare che tu goda ancora d’una certa fama. “
“Questo davvero non è possibile! Tutto quello che ho scritto era così… grausig!… Come si dice?…
Lugubre! La mia vita non è stata facile, soprattutto a causa di mio padre. Avrebbe voluto che fossi
più pratico. Una moglie, una famiglia, una casa degna di lui!…”
“ Non sei il solo ad avere questi problemi. Per qualche infernale motivo, fra genitori e figli non è
mai stata possibile alcuna intesa. “
“ Neanche lei ha famiglia?…”
Dal suo tono si capiva l’imbarazzo di chi teme di fare una domanda indiscreta.
“ Io, ormai, mi intendo solo con i morti e col mio gatto. Per il resto del mondo non esisto. “
“ Lei è un artista?…”
“ Scrivo musica, ma non interessa a nessuno. Per il resto, sono messo peggio di te: tu almeno a
quarantadue anni hai finito di penare. Io sono più vecchio e senza futuro. I miei lavori sono come
strani fiori sbocciati in mezzo al deserto; probabilmente moriranno con me. “
“ Se lei è d’accordo, io sarei molto interessato ad ascoltare la sua musica!…”
Piuttosto sorpreso, lo fissai diritto in quel suo viso magro e cinereo.
“ E perché mai? “
“ Lei mi ha tratto dal pozzo.”
“ Comincio a chiedermi se ho fatto bene. “
“ Mi ha concesso una nuova opportunità. Consenta che le restituisca il favore.”
Per un po’ continuammo a camminare in silenzio, piuttosto a disagio entrambi. Alla fine gli dissi:
“Non credo che ti troveresti bene nel mondo moderno. Io ci sopravvivo da una vita e ti assicuro che
fa abbastanza schifo.”
Finalmente, ad oriente il cielo cominciava a schiarire: s’annunciava un altro mattino grigio e
piovoso. Camminando eravamo giunti all’imbocco del vecchio ponte romano. Che idea, diventare
amico d’un fantasma. Certo, si trattava d’un tipo famoso, ma ormai defunto da decenni. Chissà
come avrebbe reagito il mio gatto nel vederlo! Ma perché no? In fondo meglio con Kafka che solo
come un cane. Con un mezzo sospiro gli dissi:
“ Andiamo, casa mia non è lontana.”
Paolo Fiorino
Il predatore
Estate 2012
Cosa ci poteva essere di peggio che morire in quel modo?
Forse solo non morire affatto.
I pensieri di un trentenne non dovrebbero mai essere così disperati, ma in certe situazioni non si può
essere molto ottimisti, nemmeno da giovani.
Ormai aveva perso il conto delle sue vittime.
La ragazza di oggi, appesa a testa in giù e scuoiata viva come uno scoiattolo, era solo l’ultima di
una lunga lista.
La scena appariva ancora vivida davanti ai suoi occhi.
Vedeva ancora distintamente il sangue colare dal suo corpo straziato e si raccogliersi in una pozza
scura sotto di lei. Vedeva le braccia che pendevano come rami spezzati. Ma soprattutto sentiva
ancora distintamente le urla di dolore che erano risuonate nella cantina mentre compieva la sua
opera.
Aveva inciso la pelle quel tanto che bastava per sollevarne alcuni lembi poi aveva tirato con cura
fino a staccarla come un guanto.
I muscoli pulsanti erano venuti allo scoperto, ma la ragazza non era morta subito perché per
prolungare la sua agonia l’aveva appesa a testa in giù in modo che il sangue affluisse al cervello in
maggior quantità e la tenesse cosciente fino all’ultimo.
La sua pelle ora era poco più di un fagotto gettato sul pavimento come un vestito vecchio, uno
spettacolo al tempo stesso nauseante ed esaltante.
Lo disgustava tutto quel sangue ma al tempo stesso sentiva che l’odio che lo possedeva si nutriva di
quel dolore e con esso si rafforzava.
La bestia che albergava nel suo corpo si era acquietata solo dopo aver avuto ciò che desiderava, solo
quando il cuore della ragazza aveva ceduto e le sue urla disperate erano cessate. Adesso forse lo
avrebbe lasciato in pace per qualche giorno.
Forse.
Ormai non era più sicuro di nulla.
Il tempo tra una caccia e l’altra si riduceva sempre di più e la crudeltà con cui eseguiva le sue
condanne a morte cresceva in maniera incontrollata.
La bestialità di quanto era capace di fare lo sgomentava, non tanto per le azioni in sé quanto per il
fatto che sentiva di non potersi più fermare.
Ma poi, in fondo doveva ammetterlo, si divertiva con quei giochi.
Godeva del male che faceva e desiderava spingersi sempre un po’ oltre.
Guardò con freddezza il cadavere appeso.
Oggi è toccato a te, mi spiace.
Voltò le spalle e se ne andò.
Non avrebbe smesso.
Mai.
Estate 2012
Quello spettacolo era quasi insopportabile.
Quasi.
Perché dopo tanti anni passati a vedere cadaveri martoriati un po’ ci si fa l’abitudine e le cose
cominciano a sembrare un po’ meno gravi, un po’ meno importanti.
A poco a poco tutto comincia a sbiadire attorno a te e sembra che a un certo punto nulla abbia più
davvero importanza.
Ombre.
Niente di più.
Le persone vivono e svaniscono senza lasciare tracce, come ombre gettate sul muro dai fari di
un’auto di passaggio.
Però uno spettacolo del genere era un po’ troppo, perfino per uno come per lui.
Doveva fermarlo, impedire che succedesse di nuovo.
O almeno che succedesse ancora troppe volte.
Il poliziotto prese un pacchetto di sigarette dal taschino della camicia e se ne accese una.
Aspirò il fumo acre e si preparò alla caccia.
Estate 2010
Il vecchio giaceva riverso sull’asfalto. Si era accasciato tra i rifiuti proprio davanti ai suoi occhi.
Cazzo, ma non poteva aspettare ancora qualche minuto? Non poteva aspettare che fossi passato?
Sbuffando gli si avvicinò per tentare di aiutarlo.
Tese la mano e lo afferrò per una spalla, nel tentativo di rigirarlo a faccia in su.
Al contatto con la stoffa della sua giacca provò un brivido di disgusto così intenso che dovette
ritrarsi per un istante.
Ma che ti prende? E’ solo un vecchio che sta male.
Vincendo il ribrezzo, lo voltò e lo aiutò a mettersi seduto.
- Signore? Come sta? Ce la fa ad alzarsi? – gli disse.
Il vecchio non rispose. La sua tesata ciondolò come quella di una bambola dal collo spezzato.
Sbuffò per il caldo che gli faceva appiccicare la stoffa della divisa alla pelle.
Afferrò il mento del vecchio e gli sollevò la faccia.
Un disgustoso rivolo di bava gli colava da un angolo della bocca.
Di colpo il vecchio spalancò gli occhi e lo afferrò per un braccio con un vigore insospettabile.
La sua presa era così forte che non poteva essere vinta.
La stretta gli procurò una fitta di dolore lancinante, ma la cosa peggiore fu l’essere obbligato a
sostenere lo sguardo vitreo del vecchio.
Era uno spettacolo terribile, come se da quelle due palle spente e prive di vita sgorgasse un’energia
che non poteva essere compresa. Tutto il male e il marciume dell’universo parevano essersi
concentrate in quello sguardo.
Il terrore si impadronì di lui.
Sbarrò gli occhi e cominciò a tremare.
In un solo istante perse completamente il controllo del proprio corpo.
Non riusciva più a muovere un muscolo e benché desiderasse con tutte le sue forze alzarsi e fuggire,
non ci riusciva.
Non poteva nemmeno girare la testa o chiudere gli occhi, era costretto a sopportare quello sguardo
carico di odio che gli penetrava nella testa e bruciava i suoi pensieri come uno stiletto arroventato.
Tentò di urlare ma le parole gli morivano in gola.
Per un attimo temette di morire, poi cominciò temere di continuare a vivere.
Il terrore era troppo grande.
Insopportabile.
Il cuore gli martellava nel petto come impazzito e pareva voler esplodere da un istante all’altro.
Il vecchio lo fissò intensamente ancora per qualche istante poi chiuse gli occhi, allentò la presa e
ricadde all’indietro, privo di vita.
Di colpo la morsa che lo aveva trattenuto si indebolì e il cieco terrore che lo aveva sopraffatto
scomparve.
Si alzò di scatto e arretrò di un paio di passi.
Si guardò attorno, ancora squassato da un tremito incontrollabile, e si mise a correre a perdifiato,
nel vano tentativo di allontanarsi dall’orrore che aveva appena vissuto.
Estate 2012
Risolvi il caso in fretta, gli aveva detto il commissario.
Già, in fretta. Come se si trattasse di una cosa facile.
Ma in fondo era colpa sua. Lo aveva abituato bene e adesso doveva giustificare le sue pretese.
Questa volta però non aveva appigli né indizi.
Gli omicidi erano brutali e inspiegabili e le vittime parevano scelte in modo casuale, senza
premeditazione.
La solita sigaretta gli pendeva dalle labbra, ma questa volta il fumo che gli bruciava la gola e i
polmoni non lo aveva aiutato a concentrarsi.
C’era qualche traccia di cui non si era accorto?
Qualcosa di cui lui e la scientifica insieme non si erano accorti?
Poco probabile.
Anzi impossibile.
Eppure nessun delitto è mai perfetto, se un caso non viene risolto è sempre colpa dell’investigatore
che non sa cogliere le tracce.
La soluzione era davanti ai suoi occhi, solo che lui non poteva vederla.
Eppure la sentiva.
Era vicina ma inafferrabile.
E questo lo faceva impazzire.
Non aveva mai fallito e non intendeva cominciare questa volta, costasse quel che costasse.
Non gli importava di altro nella vita.
Estate 2012
Ancora in caccia.
Ancora una vittima da trovare.
Ancora e ancora.
Senza fine.
Senza scopo.
Senza rimedio.
All’improvviso vide l’uomo e seppe che era lui quello che stava cercando.
Era un individuo di circa quarant’anni, alto, ben vestito con i capelli corti e il viso affilato.
Perse il controllo.
Buio.
Una scarica di adrenalina lo invase, il suo corpo reagì con un brivido.
Riaprì gli occhi e lo vide.
Non dovresti girare da solo a quest’ora della sera, stronzetto.
La sensazione di onnipotenza che provava in quei momenti era l’unica cosa buona della sua vita.
Per il resto era uno schifo.
Un lavoro noioso, pochi soldi, solo qualche bicchiere a tenergli compagnia.
Nulla per cui valesse la pena di vivere, in ogni caso, ma quei momenti lo ripagavano di tutto.
Un solo istante vissuto così lo ripagava dello squallore di interi anni.
Qualcosa per cui valesse la pena di vivere c’era, dopotutto.
Diede un colpetto sulla spalla dell’uomo per attrarre la sua attenzione.
L’uomo si voltò e lo fissò.
- Che vuole?
Nulla, solo la tua pelle.
Senza dargli tempo di reagire lo colpì con un diretto al volto che lo fece stramazzare a terra.
Gli fu sopra in un attimo e lo colpì alla testa con un manganello telescopico che aveva estratto da
una tasca posteriore dei pantaloni.
Non ci fu bisogno di un secondo colpo.
L’uomo cadde riverso, privo di conoscenza.
Lo afferrò per le spalle e lo caricò in fretta sul furgone.
Era sera e la strada era deserta, nessuno poteva averli visti.
Lo gettò senza molto riguardo nel retro, poi si mise alla guida e partì.
Non si curò di legare la sua preda.
Era sicuro che il colpo che gli aveva assestato fosse abbastanza forte da tenerlo fuori gioco per
molte ore.
Estate 2010
Correva da un tempo che gli pareva infinito ma ancora non si sentiva tranquillo.
Non aveva messo abbastanza distanza tra lui e il cadavere di quel vecchio.
Anzi, per quanto corresse sentiva che il pericolo non si allontanava.
Vecchio bastardo! Ma cosa cazzo mi ha fatto?
Qualcosa era cambiato in lui. Se ne rendeva conto ma non riusciva a spiegarselo. Non aveva mai
avuto così tanta paura in vita sua come quando aveva incrociato lo sguardo di quel relitto umano.
Non era l’uomo che lo aveva spaventato, era evidente, ma qualcos’altro di infinitamente pericoloso.
E quel qualcosa lo seguiva, ne era certo.
Non sapeva cosa fosse né cosa volesse da lui, ma era certo che fosse alle sue spalle pronto a
ghermirlo.
Non poteva liberarsene.
Non lo avrebbe mollato.
Mai.
Poi lentamente, passo dopo passo, la paura cominciò a scemare.
Il suo cuore rallentò e la scarica di adrenalina che lo aveva fatto schizzare via come un proiettile
impazzito si esaurì.
Rallentò la corsa.
Ora si sentiva meglio.
Rallentò ancora e infine sì fermò, ansante.
Il sudore scorreva a rivoli sulla sua pelle ma si sentiva davvero meglio.
Si stupì di quanto si sentiva bene, molto più di quanto si fosse mai sentito prima.
Era una percezione inspiegabile, ma piacevole.
Tutto il terrore e il disgusto di poco fa parevano essersi dileguati e quella che provava non era solo
la sensazione di scampato pericolo, ma qualcosa di più profondo.
Si sentiva forte.
Molto forte.
Invincibile, questa era la parola giusta.
Estate 2012
L’uomo nudo era legato al tavolo in modo che non sarebbe mai riuscito a liberarsi.
Grosse corde gli serravano i polsi e le caviglie e si incrociavano sotto il piano del tavolo in un nodo
che si stringeva sempre di più quando l’uomo si contorceva nel tentativo di liberarsi.
Lo aveva imbavagliato perché la sua voce stridula lo infastidiva.
Ora emetteva solo dei mugolii incomprensibili.
Prese un grosso coltello da macellaio dalla lama affilata e cominciò a incidere le sue carni a partire
dalle piante dei piedi.
Questa volta non gli importava molto di tenere in vita la sua vittima per lungo tempo.
Gli importava solo di causargli il maggior dolore possibile. Cominciò, tracciando un solco
sanguinante sulla gamba destra, fino all’anca.
Attese un attimo, per far calmare le contorsioni che avrebbero rovinato la sua opera, poi passò
all’altra gamba.
Con la lama disegnò a lungo, incidendo e sollevando lembi di pelle ma senza causare ferite mortali.
Il sangue scorreva copioso.
Pochi minuti ancora e l’emorragia sarebbe stata fatale.
A quel punto era ormai pronto.
Afferrò i lembi di pelle che aveva sollevato dalle gambe e cominciò a tirare lentamente, scoprendo i
fasci muscolari.
- Sei un vero elegantone, ma uno come te dovrebbe badare un po’ meno alle apparenze e un po’ di
più a ciò che ha dentro.
L’uomo ebbe un tremito violento e si inarcò.
- Già, ma cos’avrai dentro? Vogliamo dare un’occhiata?
Con un forte strappo separò la pelle del torace dai muscoli sottostanti.
L’uomo si irrigidì e poi di colpo si distese.
Dolore.
Un lungo brivido di piacere gli discese lentamente lungo la schiena.
Poi più nulla.
Silenzio.
Era tutto finito, ma questa volta non sentiva la stessa soddisfazione.
Sentiva un impulso interiore, una pressione strana.
La sua mente voleva qualcos’altro, qualcosa di diverso.
Inspiegabilmente mancava ancora qualcosa a quella scena per raggiungere la perfezione.
Era una sensazione che aveva già provato, ma mai con tanta intensità.
Strinse le spalle, come a voler scacciare quel pensiero che pareva provenire da un altro luogo.
Si accese una sigaretta e aspirò il fumo azzurrognolo.
Il sapore acre della nicotina aveva sempre avuto il potere di calmarlo.
E in effetti anche questa volta pareva aver funzionato.
Ora si sentiva più tranquillo.
Ora c’era davvero tutto.
Tossì e gettò la sigaretta di lato.
Poi si allontanò.
Ancora in caccia.
Estate 2010
Si sentiva forte e invincibile.
Non era mai stato così bene.
I suoi muscoli parevano esplodere di rabbiosa potenza e i suoi sensi erano acuti come quelli di un
predatore.
Gli era accaduto qualcosa di inspiegabile quella sera e ne era felice.
Però c’era qualcosa che ancora gli mancava.
Una sensazione profonda lo tormentava.
Era una sensazione indescrivibile, come un desiderio a lungo represso che stava gradualmente
tornando a galla.
Di colpo tutto si fece chiaro.
Era un predatore.
Buio.
Adrenalina.
La caccia era cominciata.
Estate 2012
Gli ultimi due erano una donna appesa a testa in giù e un uomo legato a un tavolo.
Entrambi erano stati scuoiati vivi.
Non c’era altro.
Nessun movente e niente arma del delitto.
Nulla di nulla.
Ancora una volta.
Fino a che aveva notato la traccia.
C’era un mozzicone di sigaretta a pochi passi dal tavolo dell’esecuzione.
Lo aveva raccolto senza farsi vedere e nascosto in una tasca dei pantaloni.
Stava nascondendo una prova e non sapeva nemmeno perché.
L’unica cosa di cui era certo era che quella era l’unica cosa giusta da fare.
E quel mozzicone gli aveva aperto gli occhi.
Su tutto.
La saliva sul filtro era sua, glielo aveva confermato il laboratorio, a cui lo aveva consegnato per la
comparazione assieme a un suo campione.
Il tizio del laboratorio gli doveva più di un favore e quindi non fece domande.
Quel mestiere si faceva di giorno in giorno più difficile, e lui aveva un disperato bisogno di aiuto.
Per questo si era rivolto allo psicologo.
Ma non era servito.
Poi aveva trovato una strada alternativa.
O meglio, la strada alternativa aveva trovato lui.
Da tempo era perseguitata da visioni di feroci omicidi e ora volava liberarsi da quel fardello.
Questa cosa andava fermata.
Senza aspettare oltre.
Accarezzò la canna della pistola e se la infilò in bocca. Era il modo migliore di uccidersi, lo sapeva
molto bene.
pararsi alla tempia a volte non risolveva la situazione. Alcuni aspiranti suicidi sopravvivevano al
proiettile e passavano il resto della loro vita come larve in letto d’ospedale. Invece un proiettile
sparato direttamente nel palato faceva inevitabilmente volare via gran parte della calotta cranica e
metteva fine a tutto, senza problemi.
Era difficile accettare che fosse giunta la fine, ma tutto sommato era meglio così.
Essere un poliziotto era già abbastanza faticoso, ma questo era davvero troppo.
Da quando, due anni prima, aveva aiutato quel vecchio nulla era stato più lo stesso.
Uno stronzo demone del cazzo.
Ma proprio a lui doveva capitare?
Un fottuto spirito maligno che si era impadronito di lui e lo costringeva a uccidere per soddisfare la
sua voglia incontenibile di male.
E se non fosse stato così attaccato al suo lavoro di poliziotto non si sarebbe trovato in quella
situazione.
Ora non sarebbe stato al capolinea della sua vita con una pistola in bocca.
E invece quel suo maledetto senso del dovere aveva dovuto mettersi in mezzo.
Aveva dovuto spingerlo a lasciare in giro quel mozzicone di sigaretta.
Aveva dovuto lasciare una traccia per far catturare l’assassino.
Solo che l’assassino era lui.
Una specie di confessione involontaria.
Uccidere non era un bel passatempo per un poliziotto.
Non era un bel passatempo per nessuno, a dire il vero, però per un poliziotto era ancora peggio.
Doveva fermarsi, una volta per tutte e non c’era altro modo.
Doveva smettere di essere un predatore.
Strinse il grilletto fino al limite, un millimetro dopo l’altro, lottando per vincere la resistenza del suo
istinto di autoconservazione.
Le sue nocche sbiancarono per la tensione.
Ancora un millimetro e l’esplosione della cordite avrebbe messo fine a quel delirio.
Ancora un millimetro, quello più difficile, l’unico che contasse davvero e poi tutto sarebbe finito.
Ancora uno sforzo.
Ancora uno.
Buio.
Adrenalina.
Si tolse rapidamente la pistola dalla bocca e la rimise nella fondina, con un sorriso gelido.
In fondo per morire c’era sempre tempo.
Prima valeva la pena di divertirsi ancora un po’.
Maurizio Antinori
Inchiostro rosso
Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi.
Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei la penna e le parole non
rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano,
sporcherebbero il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano dietro.
E’ il potere della pagina bianca, credo.
Ti risucchia e ti libera: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
“Allora?” mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta. Io non lo guardo. Sento il peso del
suo sguardo mentre il fumo invade prepotentemente il vuoto dell’aria. Avrei voglia di fargliela
mangiare, quella sigaretta.
“Possibile che la tua vena creativa si sia esaurita qui?” sbotta lui rompendo di nuovo l’imbarazzante
silenzio del mutismo che mi ha colpito. Non parlo, ma se avessi penna e foglio scriverei quello che
penso; il mio lavoro è scrivere, non parlare. Sento che è il mio momento. So che sta per nascere
qualcosa. Sono pieno di idee; sono un vulcano di idee.
Intanto la stanza sta riempiendosi di parole e fumo. Non ascolto più. Parole e fumo.
Ma quanto parli? Scrivitelo da solo un romanzo, se hai tutte queste cose da dire. Mi scappa un
sorriso e le parole svaniscono. Alzo lo sguardo e nella stanza c’è solo fumo. Il mio sorriso deve aver
infastidito parecchio l’editore che è uscito dalla stanza sbattendo la porta. Questo fumo che
galleggia mi fa pensare alle anime dannate. Chissà perché?
Devo aver visto qualcosa di simile in qualche film; o magari è così che le ho immaginate leggendo
un libro. Questo rosso alle pareti; questa luce giallognola.
Mi piace.
Ecco, potrei iniziare a scrivere, ora. Ma non ho un foglio. Diavolo! Possibile che non ci sono fogli
nello studio di un editore? Che assurda contraddizione.
Il fumo sta svanendo, e così anche la mia idea. Perché la devi scrivere subito; va colta al volo,
l’idea; altrimenti sbiadisce e si confonde con nuovi pensieri che contaminano la scintilla che
avrebbe acceso il fuoco. Fuoco e fumo.
Mi scappa un’altra risata. La mia testa è in continua fibrillazione. Ogni cosa che vedo, ascolto,
respiro. Ogni cosa mi accende un’idea. E’ il mio momento e devo sbrigarmi.
Mi serve il foglio. Mi serve la pagina bianca. Forse dentro un cassetto della scrivania.
Tendo l’orecchio: niente.
Non voglio che l’editore mi trovi a frugare nella sua scrivania, ma ho bisogno di un foglio.
Sposto piano la sedia dove sono seduto e sento che il tappeto è dalla mia parte assorbendo eventuali
rumori delle gambe.
Mi alzo piano.
Tendo l’orecchio: niente.
Respiro lentamente mentre la gola si restringe e il battito cardiaco aumenta di potenza rimbalzando
nelle mie tempie.
Ma cosa mi prende?
Io voglio solo un foglio.
Controllo il respiro e ritrovo subito il controllo.
Faccio il giro della scrivania. Due cassetti si trovano sulla destra. Apro il primo, ma non si tira.
Deve essere chiuso a chiave.
Provo con l’altro. E’ aperto. Bingo!
Prendo un po’ di fogli, chiudo il cassetto e torno a sedermi sulla sedia.
Ora ti faccio vedere io di che pasta sono fatto, quando rientri, caro il mio editore ti farò trovare
l’incipit di una grande storia. Rimarrai senza fiato. Ti sbalordirò.
Fisso la pagina bianca. Lei fissa me. Stiamo stabilendo un contatto. Mi lascio trasportare. Ci siamo.
Il bianco mi circonda.
Non ho bisogno della penna, qui; mi basta pensare. Muovere le mani, dare un calcio e tutto prenderà
forma così come voglio.
Sono in una sorta di trance.
Il mio corpo è li fuori che scrive, ma io sono qui: nella pagina.
Sapevo che ci sarei riuscito. Lo sentivo.
Era da tanto che non provavo questa sensazione. La sensazione di fondermi con il foglio.
Ma ora basta, devo cominciare.
Ma?
Cosa è stato?
Sento dei passi. Deve essere lui che ritorna, ma non può proprio ora; non ho ancora finito.
Non bado a lui e comincio a dare forma ai miei pensieri.
La porta, che è alle mie spalle, si apre.
“Allora?” mi chiede di nuovo accendendosi un’altra sigaretta. Io continuo il mio lavoro; non voglio
essere disturbato. Questa fase è la più importante non posso uscire dal foglio proprio ora.
“Ma che diavolo stai facendo?” mi apostrofa indicando il foglio.
Ancora non ho scritto niente. La sua presenza mi disturba, ma non voglio uscire da questo cazzo di
foglio.
Sento che sto iniziando a sudare. Sono troppo nervoso. Non devo pensare a lui, non devo pensare a
lui.
Gocce di sudore mi imperlano la fronte.
Non devo pensare a lui, non devo pensare a lui.
L’editore fa qualche passo verso di me.
“Vaffanculo!” urlo con tutta la rabbia che ho dentro e lo ripeto per tre volte urlando a squarciagola
l’ultima vocale. Ma nella stanza non risuonano le mie parole. Le mie parole prendono forma sul
foglio bianco.
La faccia dell’editore, che ha letto il foglio da sopra le mie spalle, è un misto di stupore e rabbia.
Mi rendo conto che non è l’incipit col quale avrei voluto meravigliarlo. Dopo un lungo attimo
l’editore mi strappa il foglio da sotto mano.
“Ma dico, sei proprio impazzito?” mi dice fissando il foglio e senza rendersi conto che in realtà sta
fissandomi negli occhi.
Il mio corpo non si muove ma io sostengo il suo sguardo.
“Tu devi farti vedere. Non stai bene. E invece di scrivere cazzate, vedi di buttare giù il romanzo
prima della scadenza del contratto, o sono guai per te.”
Così dicendo prende il foglio con due mani e lo strappa una, due tre e più volte.
Il dolore è indescrivibile. Sento una lama che mi entra in testa per ogni strappo dell’editore alla
pagina. Ho l’impressione che qualcuno abbia scoperchiato la mia calotta cranica e stia inzuppando
biscotti nel mio cervello.
L’editore mi da una botta sulla spalla e il mio corpo, ormai privo di vita, cade inerme sulla
scrivania.
“Ma che diavolo…?” non finisce la frase.
Sto morendo.
Tutto si sta spegnendo. Ma non posso fare a meno di ridere. Rido e mi chiedo se saprà mai
spiegarsi, l’editore, quel rivolo blu che esce dalla mia bocca, e quel liquido rosso e appiccicoso che
non smette di fuoriuscire dal foglio che ha strappato.
Andrea Mazzolini
La grande nevicata
Dove sono le nevi d’un tempo che l’aprile ha disciolto?
François Villon
Le previsioni del tempo erano inclementi e non lasciavano spazio a nessuna incertezza. La neve
sarebbe caduta copiosa per una settimana, coprendo l’intera regione. I giornali, le radio, le tv non
parlavano d’altro. Era una continua, noiosa, incessante raccomandazione a fare scorta di cibo e
acqua, coperte e legna. Le autorità locali avevano predisposto tutti i mezzi a disposizione e la
guardia nazionale aveva procurato dei vecchi motori diesel da utilizzare come generatori di
corrente.
Ci mise un po’ a raggiungere la cornetta del telefono, le gambe di Jack non erano più quelle di una
volta.
— Pronto, chi parla?
— Papà, sono io, sono Danny e…
— Senti, senti chi sa fa vivo, saranno due anni che non mi chiami! Che cosa vuoi da me?
— Senti papà, lo so che non mi faccio vivo da un secolo ma ora verrà questa tremenda nevicata e
preferirei che tu stessi in città con noi. Lo so che non vai d’accordo con mia moglie ma non puoi
sopravvivere tutto solo… se vuoi oggi pomeriggio passo a prenderti e…
— Ho tutto quello che mi serve. Non sarà una stupida nevicata a togliermi dal mondo. E poi non
sono solo, sono qui con tua madre Wendy.
— Papà, la mamma è morta da quasi cinque anni…
Non ci fu nessuna risposta, Danny sentì soltanto un click, suo padre aveva riattaccato.
Jack non credeva molto alle previsioni del tempo e a tutte le altre stupidaggini che fanno vedere in
tv. E poi la neve da quelle parti non veniva mai, se non una lieve spruzzatina che si scioglieva di
solito in un pomeriggio di sole. Quella sera andò a letto presto, come sempre, dopo aver augurato la
buonanotte a sua moglie. “Wendy, amore mio. Nostro figlio ci ha chiamato questa mattina, voleva
che me andassi in città da lui, in casa con quella sgualdrina di sua moglie. Figuriamoci! Anche lui
crede a questa stupidaggine della grande nevicata. E se proprio deve nevicare, che cosa avrei dovuto
fare, secondo lui? Lasciarti qui da sola? Io Danny non l’ho mai capito davvero… Buonanotte,
amore mio”.
Si svegliò nel cuore della notte silenziosa e andò alla finestra. Nella luce di un lampione capì che
forse le previsioni non avevano sbagliato più di tanto. La neve cadeva copiosa sulla stanca terra; la
sua vecchia automobile, il capanno con gli attrezzi, le siepi in giardino, tutto era già sepolto sotto
una candida coltre. Non aveva mai visto così tanti fiocchi in vita sua, sembrava che mille secoli di
neve stessero scendendo all’improvviso. “Wendy, amore mio, nevica davvero ma il vecchio Jack
non ha di certo paura della neve. Ho fatto la guerra io, ho visto la terra rossa di sangue e di dolore,
non sarà qualche fiocco a spaventarmi”. Tornò a letto e nel silenzio di quella notte bianca si
riaddormentò. Si alzò di buon ora e, come faceva da una vita, preparò la colazione per sé e per sua
moglie. La neve continuava a scendere ininterrottamente. Fu mentre lavava le tazze della colazione
che andò via la corrente elettrica. “Wendy, ora telefono alla centrale elettrica, anche se nevica
devono venire subito da noi, non potranno lasciarci qui da soli al buio”. Anche il telefono però non
funzionava. Fu allora che il vecchio Jack capì che non sarebbe stato così facile andare avanti. Lui,
però, non era un uomo moderno, uno di quelli che si abbatte alle prime difficoltà. Aveva cibo a
sufficienza e un po’ di legna in casa, si sarebbe scaldato, al limite avrebbe bruciato i mobili. In
fondo, nevicava da poco più di dodici ore.
Le previsioni non avevano sbagliato. La neve cadde per giorni e notti e notti e giorni. I mezzi di
soccorso non potevano agire e molte zone rimasero completamente isolate. “Wendy, amore mio,
sono quattro giorni che nevica, non ho più niente da mangiare, forse avrei dovuto andare in città da
Danny; ma non ti volevo lasciare qui da sola. Dobbiamo risparmiare anche sulla legna, hai freddo,
amore mio? Io me ne andrò a letto, proverò a scaldarmi sotto le coperte”. Sognò sua moglie, come
sempre. Erano stati insieme una vita, si erano sempre voluti bene. Quando si svegliò aveva fame e
molto freddo, tremava. Vide sua moglie lì davanti a lui che gli sorrideva. “Vieni, Jack, amore mio, ti
aspettavo”.
La neve smise di cadere.
Anna Cibotti
Sepolta viva
Era una specie di dormiveglia, lo stato in cui Ronda si trovava, mentre sentiva il suono attutito dei
colpi ritmati prodotti dalla terra che pian piano la stava coprendo.
Ne percepiva appena l’odore.
Era una coltre umida che le si appiccicava addosso facendola rabbrividire di freddo e di terrore. La
sua mente rifiutava il risveglio da quello stato di torpore, per non conoscere l’orrenda realtà. La
terra cominciò ad avvolgerla come una coperta e se la sentì nella bocca, nel naso e bruciare negli
occhi.
Cercò disperatamente di muovere le braccia e le mani cercando di togliersela di dosso. Le braccia
erano di piombo sotto quello spesso lenzuolo umido e nero che pesava, pesava su di lei come un
macigno.
Sepolta viva.
Questo le disse la mente i cui pensieri corsero in fretta. Non c’era tempo per dilungarsi in essi.
Rivide lui sorridente che le offriva il bicchiere pieno di frizzanti bollicine e l’ultima perfida carezza
prima che perdesse i sensi.
Ancora viva per qualche attimo per farsi e fargli una promessa.
Il suo corpo nascosto sotto un cumulo di terra bagnata odorosa d’erba non ancora marcita, sarebbe
stato cibo per i vermi, ma la sua energia avrebbe vissuto ancora e ancora. In ogni istante della vita
di quel essere immondo che aveva creduto l’amasse, lei gli sarebbe rimasta accanto.
Per odiarlo.
Lui, avrebbe trovato ogni notte tracce di terra e saliva sulle sue lenzuola. Avrebbe sentito nelle
orecchie il suo sospiro di morte.
In ogni momento del giorno lei era con lui. Un’ombra nera e fredda.
L’urlo che sentirono in strada i passanti, quella sera d’autunno inoltrato, mentre calpestavano le
foglie gialle e accartocciate, immobili nell’aria senza vento, fu il suo grido di paura.
Un grido infinito che si portava dietro da mesi. Ora era uscito come una liberazione.
Per morire con lui.
Angelo Francesco Anfuso
Una voce arcana
Vagavo nella notte, girando per la periferia, senza avere un minimo di orientamento, senza nessun
punto di riferimento, come se cercassi chissà che cosa. Ero stanco, ansimante, il freddo gelido mi
gravava sui sensi, il respiro si faceva sempre più lento, si faceva sempre più fitto e denso, come se
fosse una nube bianca.
Qualcosa mi impediva di vedere oltre…
Non c’era nessuno, tutto era buio, a stento si intravedeva un misero raggio di luna piena che filtrava
miseramente la nebbia.
Sentivo una voce, delicata, di un bambino che mi diceva di non fermarmi, di andare dove lui
voleva. Ma non riuscivo a comprendere dove mi volesse portare.
Ad un certo punto, mi sfiorò il viso, mi prese per la mano dicendomi di andare con lui.
Ero bloccato, non avevo la forza di dire chi sei, cosa vuoi, dove mi porti…. Insomma avevo il senno
bloccato.
Mi lasciai portare, fissando lo sguardo tra il fitto buoi della periferia, senza sapere dov’ero. Strada
buia, ignota. Ero solo, non vedevo nulla, anche la luna si eclissò, l’unica cosa che sentivo a parte la
sua voce era il calore della sua mano, ma non lo vedevo.
Ero stanco, non avevo più forza mi lasciò la mano ed io e caddi per terra.
Dopo qualche istante, la sua mano mi accarezzo i capelli, e mi sussulto all’orecchio parole che non
comprendevo, sentivo il suo alito, ma non capivo cosa dicesse.
Alzo gli occhi ero un bambino di quasi dieci anni. Il suo volto era pieno di luce, pelle chiara e gli
occhi pieni di lacrime.
Sulla fronte aveva un marchio, uno strano simbolo, una stella che mutava, prima a cinque punte di
colore rosso carminio e poi a sei punte di colore blu oltremare.
Mi abbracciò e iniziò a cantarmi una ninna nanna, triste, con una cadenza a dir poco spenta.
Ripeteva sempre una strofa “Vieni con me, ti porterò dove la notte prevale, dove ti aspettano
lacrime amare”.
Ma perché mi dici questo, dicevo a me stessa, un bambino dal nobile aspetto, con un sorriso
angelico, perché mi vuoi condurre nel modo della sofferenza. Perché quel bimbo è crudele, che cosa
ho fatto mai.
Ad un certo punto, si senti un boato, la sua voce cessò e mi fissò negli occhi.
Mi parlò con la forza del pensiero, dicendomi che era inutile che mi ponessi tutti quei perché.
Restai fermo, rigido non riuscivo nemmeno a batter ciglio, ero pietrificato in tutto e per tutto.
Ancora continuava a parlarmi, con quel sorriso a dir poco diabolico.
Mi sfiorò il volto, e mi disse sotto voce: “ sei stato tu a chiamarmi, io ti ho detto che cosa vuoi e ti
sei abbandonato a me”.
Stavo male, io ho chiesto un po’ di serenità, un po’ di forza per alleviare il mio dolore, invece sei
arrivato tu.
Lui mi disse: “ tu, mi hai invocato, ed io ho ascoltato la tua voce disperata. Non chiederti il come, il
quando e il perché, il tuo grido è stato tanto forte, che mi ha destato dal sonno di mia madre: la
morte”.
Non credevo, stentavo a crederci, facevo fatica, quel bimbo che mi ha preso per mano, che mi
teneva fra le sue braccia era il mio fato, era il figlio della morte, lui era la morte, con lui stavo
tracciando il mio ultimo percorso di questa misera vita terrena.
Cominciò a inneggiare versi lugubri, dei carmi tristi e angoscianti, in cui il soggetto ero io, vittima
infelice, anima pietosa, la quale non aveva nessun riparo nessun conforto, ero imprigionata da me
stessa, la morte si era presentata al mio cospetto senza pensarci due volte, sotto le sembianze di un
fanciullino, candido alla vista ma tremendo nell’intimo del cuore.
Chiedevo pace, imploravo misericordia, ma nessuno mi ascoltava. Un coro di angeli, fecero da
cornice a quel paesaggio lugubre semibuio. Tutti lentamente e con voce bassa iniziarono a recitare
le stesse parole di quella dannata ninna nanna avevo canticchiato qualche attimo prima.
Non è un canto ma un lamento, non era una ninna nanna ma un inno alla disperazione alla
dannazione eterna.
Ero presa dalla paura, dal timore, il mio corpo era gelato, iniziai a sudare sangue freddo, ero
cosciente che mi mancavano pochissimi istanti, la richiesta della mia serenità non era altro che
l’invocazione della morte…
Lui mi lasciò, mi fissò per l’ultima volta e svanì nel nulla…
Rimasi solo, avvolto da una luce soffusa, solo in lontananza si sentivano dei lamenti, strazianti e
bagliori di folgore che andavano da oriente ad occidente…
Mi addormentai…
Mi sentii come un angelo con le ali spezzate…
Dopo essere stato abbracciato da quel disperato sonno, tra sospiri di angoscia, mi ritrovai nei pressi
di una collina, piena di alberi, colma ad alberi simili a cedro del Libano.
Mi sollevai da terra, ero pieno di melma, e sui rami stavano fermi decine di gufi, che mi fissavano,
come se fossero pronti a precipitarsi sulla mia carne, mezza putrefatta.
Iniziai a percorrere il viale, a solo pochi metri di cammino, vidi una sorgente luminosa, cercai di
riprendermi la forza perduta e sentii una voce.
Che mi disse: “mio amato, mi tutto”.
Appena spalancato gli occhi, mi ritrovai il suo volto dinnanzi al mio, era sospeso nell’aria, come se
fosse una nube vagante.
Allungò le sue mani, mi sfioro le guance, erano calde, e mi sussurrò sotto voce: “ormai sei pronto”.
Non capivo a cosa alludesse, ma un brivido freddo tornò a paralizzarmi.
Mi sentii agitato, scosso, il cuore iniziò a battere velocemente, la paura si era impossessata dei miei
sensi.
Mi offrì una coppa colma di sangue umano, mi invitò a berlo, solo in questo modo mi avrebbe
liberato da questo tormento.
Inizia a sorseggiarlo, man mano che bevevo, il suo volto si trasfigurava, iniziava a prendere una
forma quasi umana.
Non era più puro spirita, ma assumeva la forma simile a un uomo, di nobile aspetto, canuto, dai
modi gentili.
Si avvicino e mi strinse, ad un certo punto mi strappò il cuore senza tanti scrupoli recitando la sua
ninna nanna, che finalmente era giunta al termine. In quel momento fu come se uscii dal mio corpo
come un fantasma e potevo di nuovo vedere e sentire. e sentii queste parole:
“Tu sei la vittima innocente di un destino senza uguali.
Non puoi fuggir la morte, in questa vita.
Mi hai invocato, visto, udito, toccato.
Sei tu che suggelli il patto con me.
Si celò quel poco di luce che era rimasta, e tutto precipitò nell’abisso.
Anima dannata, spirito impuro, fin dalla nascita….
Metamorfosi
La metamorfosi non è solo intesa come una mutazione fisica, ricordando tematiche horror, ma può
anche essere interpretata come una trasmutazione emotiva o spirituale. Vi sono passaggi nel corso di
una vita, che portano immancabilmente a compiere quel passo che porta verso uno stadio
successivo, verso quella soglia che conduce in un'altra dimensione del nostro essere, facendoci
immancabilmente crescere. Metamorfosi kafkiana dunque, nella quale l'essere trova una nuova
identità del proprio vivere, adattandosi a quelle che sono circostanze del momento, dettate da
cambiamenti sociali, personali oppure emotivi. Tuttavia, è proprio un tipico aspetto dell'essere
umano, quella capacità che ci porta a mutare per sopravvivere, quel desiderio di cambiamento
necessario per arrivare a una fase evolutiva. Quindi scaldate le Penne ed immergetevi in questo
nuovo argomento.
Andrea Leonelli
Evoluzione
Difficili equilibri
Nella ricomposizione interiore
Trovare il peso per la gamba
La mano da tenere ferma
Nuovi punti di vista
Nuove prospettive negli occhi e nella mente
Lasciare indietro passati pesanti
E zavorre inutili
Sfondare muri
mentali
Aprire nuove strade dentro se
Nuove vie per pensare
Guardando le sfaccettature
Includendo fattori
Assorbendo incognite
Facendole proprie
Rompere gli specchi
dall’immagine falsata
da vita e persone
Aprirsi a sconfinate possibilità
di me
Anna Cibotti
Nostalgia
Se oggi mi svegliassi da un sonno lungo trent’anni, mi troverei in un mondo diverso da come lo
ricordavo.
Un mondo nuovo e sconosciuto.
Mi appellerei al ricordo delle cose che vedevo in quei giorni lontani e che adesso, non sono più le
stesse.
Mi tornerebbe in mente una spiaggia lunga profonda e solitaria, nell’alba di allora.
Un’immensa campagna odorosa di terra, di verde e di vento.
Una fitta pineta profumata di resina che nascondeva le case e guardava il mare affondando le radici
dei suoi pini nella sabbia dorata.
Un piccolo paese fatto di poche case con le chiavi lasciate attaccate alle porte.
La metamorfosi lenta e inesorabile di questo lungo sonno, la sento e la vedo oggi.
Oggi che sono sveglia e guardo il mare che ha divorato la spiaggia rendendola una striscia di sabbia
che ad ogni mareggiata s’inonda d’acqua per lasciarla poi, piena di tronchi e meduse morte, sento
quasi il suo sapore salato che mi brucia la gola.
Gli altissimi pini piegati dal vento, hanno lasciato posto alle case.
Ora non guardano più il mare.
Sono pochi e malati di solitudine.
Sono secchi e pronti a cedere al primo temporale, e le lunghe radici spaccano il cemento per
riprendersi lo spazio rubato.
I campi coltivati e i prati posso vederli solo da lontano.
Sono piccoli ora che ville, villette e strade li hanno resi un semplice e ridotto contorno.
Mangio frutta e verdura di serra che mi lasciano in bocca quel loro sapore di niente.
Sono sveglia e guardo un orizzonte dove un tramonto ancora rosso, illumina i profili delle fabbriche
in lontananza colorando appena il loro grigio spento.
Sono cambiata anch’io come il mondo intorno.
Tengo in mano una rosa
Le spine le ha ancora……ma nessun profumo.
Rossana Lozzio
Una farfalla sul cuore (estratto)
Lo avevo chiesto agli angeli, più volte… e mi hanno accontentato”. Camilla gli si rivolse, con tono
di voce pacato e guardandolo dritto negli occhi, dopo averlo raggiunto ed essersi messa a sedere con
lui sulla panchina, subito dopo il suo arrivo nel loro posto magico.
“Che cosa… cosa vuoi dire, tesoro?”. Le chiese, felice per averla incontrata ma piuttosto confuso
circa il suo esordio e il modo in cui lo stava fissando.
“Che avevo chiesto agli angeli di farmeli incontrare, proprio qui e sono stata per giorni ad aspettare
ma non succedeva niente… fino a quando sei arrivato tu ed ho capito subito”. Gli disse,
sconvolgendolo. “Quella farfalla azzurra si è posata su di te, ricordi? E ho capito subito che tu eri
uno di loro”.
“Di loro, chi? Cosa stai dicendo?”. Samuel non riusciva a capire ma si sforzò di non sottovalutare
l’importanza di quel discorso che stava tentando di affrontare e che sembrava starle molto a cuore.
“Uno dei suoi parenti…”. Specificò, procurandogli una fitta dolorosa. “I parenti della persona che
mi ha donato gli occhi”. Concluse, con la naturalezza che soltanto una bambina della sua età e così
forte, poteva mantenere, affrontando un argomento tanto delicato.
“Perché sei convinta di questo e… perché me lo stai dicendo, adesso?”. Domandò, accorgendosi di
non essere sorpreso più di tanto, dopo quanto aveva vissuto insieme a lei e quanto gli aveva riferito
Gregory, dopo aver sentito sua madre parlare con suo padre del giorno dell’incidente.
“Perché tu non devi lasciarci”. Gli disse. “Tu vuoi andartene ma non puoi… tuo figlio vuole che
restiamo insieme ed io so che lo vuole anche mamma”.
Il cuore sembrò smettere di pulsare per alcuni secondi. Il tempo di assemblare ricordi, avvenimenti
presenti e la speranza di un futuro migliore. “Come sai che avevo un figlio?”. Le chiese, piano.
“Perché so che sei il padre del ragazzo che morì quel giorno, quando venni operata… te l’ho detto,
ho chiesto agli angeli che mi portassero qui qualcuno dei suoi parenti, per ringraziarli e tu puoi
essere solo suo padre. E’ così, vero?”.
“Vorrei avere la tua certezza ma… è vero che avevo un figlio e che è morto in un incidente di moto
a Milano, probabilmente, lo stesso giorno in cui sei stata operata tu”. Confessò.
“E tu hai donato i suoi organi?”. Gli chiese, prendendogli una mano e stringendola forte fra le sue.
“Reni, cuore e cornee”. Mormorò, abbassando lo sguardo.
“Le cornee sono le mie”. Annuì, conducendosi la sua mano agli occhi ed invitandolo ad
accarezzarglieli, dopo avere abbassato le palpebre. “Grazie a te e a tuo figlio, ho potuto vedere il
mondo…”. Aggiunse, piano, dandogli sempre di più la sensazione di essere troppo adulta per avere
solo nove anni. “Sono sempre stata convinta che, se potevo vedere i colori di questo posto, allora,
era qui che avrei dovuto incontrare le persone che me lo avevano permesso”.
“E credo che abbia già incontrato Stewart”. Dichiarò, trattenendo il desiderio di piangere, mentre
posava la mano sulle palpebre della bambina e sentiva il cuore battere all’impazzata per
un’emozione mai vissuta prima.
Camilla riaprì gli occhi, inducendolo ad accarezzarle la guancia. “Stewart?”. Ripeté, abbozzando un
sorriso. “Si chiamava così?”.
“Già”. Convenne. “Ma non ripetevo il suo nome da moltissimo tempo… troppo”. Aggiunse, mentre
la scorgeva sorridere con maggiore entusiasmo.
“Che bel nome…”. Commentò, perdendosi a fissare verso il lago. “Aveva mai visto Stresa?”. Gli
chiese, commuovendolo sempre di più.
“Credo che l’abbia vista con i tuoi occhi, la prima volta”. Rispose, circondandole le spalle con un
braccio ed attirandola a sè, con dolcezza.
“Mi dispiace… ma sono sicura che lui sia qui, da sempre e che non voglia che tu ci lasci”. Ribadì,
convinta al punto da riuscire a condizionarlo.
Ma poi, dopo tutto, se anche fosse stata solo una loro convinzione e quelle che sembravano
coincidenze troppo precise per non corrispondere ad una realtà tanto emozionante, fossero state solo
tali… avrebbe cambiato il bene che voleva a Camilla? L’avrebbe resa meno speciale di quanto non
fosse? Lo avrebbe indotto ad amare di meno sua madre? E soprattutto, avrebbe cambiato il fatto più
significativo e cioè che aveva recuperato la voglia di vivere pienamente e si era scoperto un uomo
migliore?
La strinse teneramente a sé e sorrise. “Non so se sia la stessa cosa che vuole tua madre, tesoro…”.
Asserì, sospirando. “Ma posso prometterti che farò quanto in mio potere per appurarlo”.
Camilla sorrise, indicandogli un punto nel cielo ed invitandolo a sollevare il viso come aveva
appena fatto lei. La grande farfalla azzurra li stava sovrastando e fece alcuni giri sopra le loro teste,
prima di sparire nuovamente nel cielo.
Elisabetta Bagli
La vita cambia
E’ il suo segreto, questa forma di terapia.
Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in
poltrona.
Di solito ha un giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace coccolarlo.
Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezzo spunta il gatto sul terrazzo di fronte.
E’ un persiano bianco, di quelli di razza.
Si guarda intorno, poi con un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.
Stefano pensa che sono già tre mesi che abita nella nuova casa con Paola e ancora non è riuscito a
vedere il padrone di quel gatto. Lui e il bianco animale sembrano avere un appuntamento
quotidiano. Alla stessa ora, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, la porta-finestra del terrazzo al quarto
piano dell’edificio di fronte al suo si schiude ed esce il gatto che inizia a giocare cercando il suo
equilibrio sul cornicione. Stefano è sempre lì con la sua immancabile sigaretta, pronto ad osservarlo
mentre si stiracchia e mette le zampette una dietro l’altra, sicure, senza alcun cedimento, proprio
così, come fanno i felini, sprezzanti ed incoscienti del pericolo. Dall’alto del suo sesto piano vede
perfettamente ogni mossa del suo piccolo amico. Vorrebbe sapere se anche durante il fine settimana
ha la stessa abitudine di andarsene in giro per cornicioni o se preferisce rimanere avvolto dal calore
delle gambe del suo padrone. Lui e Paola, nei week-ends, non sono quasi mai a casa. Amano fare
passeggiate nei boschi, in campagna, al mare, da soli o in compagnia di amici. Amano esplorare
posti nuovi, approfittare del tempo insieme, prima che la vita, inesorabilmente, li cambi. Il sabato e
la domenica il gatto persiano spariva dalla vista di Stefano. Ma la curiosità per il mistero di quella
casa rimaneva nella sua mente. E il lunedì successivo sperava sempre di veder soddisfatta quella sua
curiosità. Ma ancora niente da fare.
Sembrava come se il gatto abitasse da solo in quella casa. Mai una luce, un movimento, un segnale
di vita. Stefano vedeva sempre e solo il gatto. Ma qualcuno doveva accudirlo, qualcuno doveva
aprire e chiudere quella porta-finestra del balcone per farlo entrare ed uscire. Anche oggi la sua
curiosità doveva rimanere tale?
Stefano decide di aspettare ancora, fumando un’altra sigaretta, riposando la mente nell’osservare la
sinuosità dei movimenti di quell’ammasso di pelo bianco-latte.
All’improvviso la porta-finestra si schiude di più e si vede la mano di una donna richiamare il gatto.
Ma non esce nessuno.
“Perché non esci e non ti fai vedere? Sono mesi che mi tieni incollato qui per scoprire chi sei e
l’unica cosa che sono riuscito a vedere sono delle dita affusolate, bianche che escono fuori
dall’oscurità della tua casa. Me lo dice sempre Paola che sono un tipo troppo curioso io, peggio
delle donne. Sicuramente la mia è deformazione professionale. Noi fotoreporter non possiamo farci
sfuggire nessun dettaglio. Dobbiamo sempre investigare.
Quelle dita affusolate. A chi appartengono? Ad una donna, sicuro… Il gatto, però ancora non torna
su. È ancora sul cornicione incurante del richiamo della sua padrona. Chissà, forse oggi la potrò
vedere.
Mi accendo un’altra sigaretta, così aspetto ancora un po’. Sento che l’attesa porterà i suoi frutti.
Paola oggi arriverà più tardi del solito. Dopo il lavoro deve passare da sua madre per portarle la
spesa. Anche questa ci mancava. Com’è possibile che certe donne, a qualsiasi età, pensano di
potersi arrampicare ovunque, salendo su sedie e scale per poter fare le pulizie di casa come se
fossero sempre giovani, proprio come se fossero delle gatte? E poi succede che magari cadono
rompendosi gambe e braccia, senza capire che il tempo passa per tutti, uomini e donne. Orgoglio
femminile. Certe donne non vogliono chiedere aiuto per non farsi vedere deboli, per mantenere il
punto, rimanendo perennemente bambine. Non so perché mai, alcune hanno anche la necessità di
sentirsi vittime del mondo intero e per questo sono sempre in lotta con tutto ciò che le circonda.
Emilia è così. Meno male che sua figlia Paola non lo è. Lei è tutto ciò che ho più desiderato dalla
vita. Lei mi ama, è mia complice, è straordinariamente donna. Sa tutto di me. Mi scruta con quel
suo sguardo intenso e riesce a capirmi anche solo da una ruga in più sul mio viso. Vittoria era
diversa, era come Emilia. Una donna forte che voleva fare tutto da sola, non aveva bisogno del mio
aiuto. Non mi amava veramente. Era egoista, amava solo se stessa e sentire se stessa. Per questo ho
deciso di togliere il disturbo. L’ho lasciata sola a farsi consolare da qualcun altro. A farsi consolare
da… un gatto!
Vittoria! Sei tu la sua padrona. Sei uscita in balcone e stai chiamando la tua gatta -Bella! Bella! Dai
vieni qui!-. Ma la gatta è ancora rannicchiata sul cornicione in basso e non ne vuole sapere di
ritornare su.
Vittoria sei ancora più bella dell’ultima volta che ti ho visto. Sembri rifiorita. Non hai più quello
sguardo duro che avevi prima. Sembri dolce, indifesa. Chissà che ti ha fatto cambiare? La tua
vestaglia bianca si apre con il vento e lascia intravedere le tue gambe tornite e lisce. Immagino cosa
c’è andando ancora più su. E ancora più su. Ricordo perfettamente il tuo corpo caldo e profumato
quando facevamo l’amore. Sembravi docile, ma eri una belva. Mi lasciavi entrare solo dopo
un’estenuante gioco che inventavi tu, ogni notte diverso. Giocavi con me sul filo di lana. Sapevi
come tenermi a bada. Non volevi che fossi io a condurre il gioco. Volevi farlo tu. Ti piaceva così ed
io non mi opponevo, ti amavo. Avevamo pochi interessi in comune, ma mi piacevi. E alla fine
neanche il sesso era per tutti e due, era solo per te. Mi hai logorato dentro. Con il tempo mi sono
reso conto che non era quello che volevo. Anche se ti desideravo, io ricercavo equilibrio nella mia
vita. Tu volevi solo passione sfrenata e divertimento. Con te sentivo intense scariche di adrenalina.
Al principio mi piaceva. Ma non si possono vivere le emozioni e le sensazioni sempre al massimo,
nella vita. Perdi te stesso. Avevo bisogno di equilibrio, quello che tu non volevi. Eri una bambina
capricciosa che punta i piedi per sentirsi donna, quello che non eri. Con te mi sentivo un po’ come
la tua gatta quando cammina sul cornicione in basso, sempre in bilico. Non andava bene, non per
me. Io volevo creare qualcosa di duraturo con te e tu non volevi. Non ti sentivi a tuo agio con certi
discorsi.
Ho conosciuto Paola. Una donna a tutto tondo, una donna forte e fragile nel contempo. Una donna
che è sempre con me qualunque cosa io faccia. Ed io con lei. Una donna che non ha paura di
chiedermi aiuto e di darmelo, che non ha paura di mostrare le sue debolezze e di curare le mie
ferite. La mia donna. Ora ha nel suo ventre il nostro futuro.
Entri in casa. Dove vai, Vittoria? Esci di nuovo in balcone. Hai in braccio un frugoletto avvolto in
una candida coperta dalla quale pende un piccolo fiocco rosa. Tua figlia. È lei il motivo del tuo viso
sereno. La coccoli. Le sussurri parole che non riesco a sentire e che avrei tanto desiderato fossero
state dirette a quel figlio che non abbiamo avuto. La vita cambia e tu, finalmente, hai incontrato il
tuo equilibrio.
Vittoria alza il volto al cielo e lo vede. Stefano le sorride e lei sorpresa lo saluta indicandogli la sua
nuova vita. Lui ricambia il saluto sorridendo ed entra in casa. Si dirige verso la sua poltrona. Prende
il giornale ma non lo legge. Il suo sguardo è rivolto verso il vuoto. I suoi pensieri sono altrove.
“Il mio equilibrio è qui”, pensa.
Le mie ortensie
Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè
e per sbaglio ha versato un po’ di zucchero nel lavandino. Non le è importato. Il giornale era ancora
sul tavolo e quando si è girata per prenderlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è
avvicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a fiocchi spessi. Non è riuscita a
smettere di guardare.
Qualcosa ha cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le gambe. Un po’
alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei. E non è che non abbia sentito il frastuono che viene
dall’altra stanza. Solo, non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.
Apre la finestra, mette le sue mani fuori. Vuole avere un immediato contatto con la neve. La vuole
sentire sciogliersi sulla sua pelle calda, stabilire con lei quel rapporto cinestesico come fa con tutte
le cose, per sentirle, per sapere, con la percezione tattile che tanto ama, che esistono, sono reali.
Vuole sentire l’odore del bianco, quell’odore tipico dell’aria pulita, rarefatta. Vuole farlo penetrare
nelle sue narici, sentirlo scivolare nella sua anima per purificarla, per essere finalmente nuova. Ha
voglia di scendere, di giocare, di rotolarsi sulla neve, di ritornare bambina. Ha bisogno di osservare
quel miracolo con gli occhi innocenti dei bimbi. Sa che non sarà possibile rivivere quei momenti se
non nei ricordi. Sa che nulla potrà mai essere uguale a prima. Ora lei è diversa. Le circostanze e i
luoghi sono diversi. Ma il ricordo dello stupore provato quando da bambina aveva visto la neve per
la prima volta a Roma, la sua città, la sta aiutando a capire che la decisione presa è quella giusta.
Dal quattordicesimo piano del suo appartamento a Madrid, Sandra osserva uno spettacolo unico. La
città sembra ancora dormire. Tutto è calmo mentre la neve continua a scendere, silenziosa. I tetti
delle case, delle macchine, le panchine, le moto assumono una nuova luce. Gli alberi, le siepi, gli
arbusti, che ha sempre visto eretti, piano piano, iniziano a piegarsi sotto il peso di quel manto
bianco. Ora sembrano piangere.
Un’immagine che la porta di nuovo al passato. Ricorda le ortensie del giardino condominiale sotto
casa sua, a Roma. Era un vero spettacolo osservarle dall’alto del suo balcone al quarto piano. In
primavera, si coloravano di viola e fucsia. La loro visione rallegrava inconsapevolmente le sue
giornate. In quel gennaio di tanti anni fa’, quando vennero sorprese dalle neve, si stavano
timidamente preparando alla fioritura. Avevano piccoli boccioli verdi, in attesa di aprirsi e di
cambiare colore. Anche quegli arbusti vivi si erano dovuti inchinare alla neve. Ora, dopo tanto
tempo, riflette sulle sue ortensie, su quanto abbiano accompagnato la sua vita, su come siano state
testimoni silenziose delle sue trasformazioni nel ciclo vitale. Fino al grande salto. Fin quando,
sempre avvolte nel loro mutismo, l’hanno vista varcare il portone di casa per andare incontro alla
sua nuova vita di donna.
Ora Sandra vuole scendere, andare al parco vicino casa sua, il Retiro, toccare la neve, le piante, gli
alberi. Partecipare. Ha voglia di ridere, di essere felice, di avere un’altra opportunità. Un forte
desiderio di cambiare, di essere nuova.
“Mamma, mamma! C’è la neve! Usciamo, vero? Andiamo al Retiro!” dice con tono insistente sua
figlia, mentre Luis cerca di ricomporsi dopo essere stato tirato giù dal letto da quell’uragano di
Cristina. Ecco spiegato il trambusto. Sandra non ne aveva dubbi. Per questo non si era allarmata.
Per questo continua tranquillamente ad essere incollata alla finestra della cucina, osservando
l’incessante pioggia di neve diventata tempesta, ormai. Riflette. Pensa alle bufere, sempre
meravigliose, che fanno apprezzare quel senso di sicurezza quando si guardano da un posto caldo e
riparato. Si finisce per amare di più ciò che si ha. Aiutano a misurarsi con se stessi. Se si è al centro
di una bufera la si odia e nel contempo la si ama, perché si ha la speranza che porterà qualcosa di
positivo, una volta terminata.
Sandra voleva cambiare.
Luis, eccitato all’idea di giocare con le palle di neve insieme a Mateo, ripete la stessa cantilena della
sorella, come un disco di vinile rigato che s’inceppa con la puntina. Sandra continua ad osservare
Madrid. È bellissima. Non è Roma. Non potrà mai essere la sua mamma, anche se l’ha accolta come
una figlia. Ma è qui il suo presente e il suo futuro. Lo vede osservando gli occhi felici dei suoi figli.
Un abbraccio ai suoi due gioielli. Uno slancio d’amore eterno e una lacrima che scende giù
rigandole il volto. “Sì, ho preso la decisione giusta”, pensa fra sé e sé. E con un grande sorriso inizia
a tirar fuori, insieme a Cristina e a Luis, i doposci, i piumoni, i cappellini, le sciarpe e i guanti. E
via, all’avventura sulla neve di Madrid!
“Mamma, la macchinetta!”, grida Cristina mentre Sandra sta per chiudere la porta. “Dai su, non è
importante! Andiamo!” replica la mamma. Ma vedendo il volto triste dei suoi piccoli entra dentro
casa alla ricerca della macchinetta fotografica, chiude la porta e chiama l’ascensore.
“Come posso spiegare a Cristina che per certe cose le fotografie non servono? Alcune non si
possono fotografare. Si sentono. Rimangono chiuse in un cassetto, là, in fondo al cuore. Magari non
ci pensi più. Magari non ci hai mai pensato, le hai solo sentite e non sai quanto sono parte di te, fino
a quando una sensazione nuova, improvvisa le fa riaffiorare e ti accorgi che già la conoscevi.
Magari ti rendi conto che era proprio quello di cui avevi bisogno per capire te stessa. E, poi, non si
può di certo immortalare la pura felicità che sanno trovare i bambini nelle piccole cose. Osservando
un fiore, un animale che gioca, prendendo una pala e un secchiello al mare per fare i castelli di
sabbia che un secondo dopo vengono distrutti da un’onda, loro sono contenti. Noi adulti, troppo
spesso, consideriamo tutto ciò una perdita di tempo e ci dimentichiamo di quanto, invece, possa
essere meraviglioso godere di ciò che abbiamo senza contaminazioni esterne. Cristina e Luis vivono
ancora nell’innocenza. Sanno ridere, amare ed amarsi spensieratamente”.
Sandra osserva con tenerezza i suoi figli mentre si dirigono tutti verso il parco. Prendono la neve
per terra, l’appallottolano ed iniziano la loro battaglia. Tirano palle di neve a lei e a qualche
passante. Sandra risponde divertita. “Mi ci voleva la neve”, pensa. “Non sapevo di desiderarla così
tanto…”
Una leggera contrazione del suo stomaco. Inizia il suo amaro viaggio nel passato.
“La mia adolescenza. Quella necessità di piacere ad ogni costo, di volere un ragazzo, di essere
desiderata, di essere bella, perfetta, eternamente giovane. Quella voglia di seguire i modelli imposti
dalla società. Quel corpo che non mi dava piacere, goffo, grasso, che non amavo, che gli altri non
amavano. I primi sintomi appena identificabili della malattia. Era divertente gettare la merenda nei
rifiuti, quell’altalena tra il non toccare cibo e l’ingurgitare a dismisura qualsiasi cosa mi venisse a
mano per poi vomitare. Provocarmi il vomito mi faceva star bene. Mi sentivo pulita, rinata. Avevo
paura di perdere il controllo di me stessa, il terrore di aumentare di peso. Ero irritabile, iperattiva.
Sentivo la pressione della mia famiglia, dei miei amici che mi volevano far capire ciò che non
volevo capire. Stavo dimagrendo a vista d’occhio. La depressione e la paura di mia madre. I tourde-force ai quali mi costringeva mio padre da medici e psicologi. Non c’era verso. Io continuavo a
sentirmi sempre più grassa. Soffrivo della tipica distorsione dell’immagine corporale della malattia
che dicevo di non avere. Sono sicura che anche le mie ortensie vedevano che stavo male, che
soffrissero insieme a tutti coloro che mi volevano bene. Ma non potevano aiutarmi. Nessuno poteva.
Solo io potevo. All’improvviso Sonia, la cugina di una mia amica, morì per la mia stessa malattia.
Mi si aprirono gli occhi. Da lì il cammino in salita. Le analisi, gli ospedali, le medicine, il mio lento
recupero, l’amore di Manuel, la mia nuova vita a Madrid. La gioia di avere due bambini
meravigliosi a cui dedicare tutta me stessa. Il contrappasso della solitudine per la costante assenza
di mio marito per lavoro.
Manuel è partito da due giorni. Deve stare fuori due settimane, questa volta. Troppo. Ho accettato
questa situazione per amore. Pensavo di essere forte, di potercela fare. Ieri, un’altra interminabile
notte, sola. Volevo iniziare di nuovo quel percorso. Davanti allo specchio, ho visto i solchi delle mie
rughe, la mia pelle, una volta rigogliosa e senza macchie, appassita, priva di vita, con un cloasma
che dopo le gravidanze non accenna ad andarsene. Perché comprare creme, andare a Pilates,
condurre una vita sana alimentandomi in modo corretto, se poi il risultato è questo? Ancora dieci
chili in più dal matrimonio. Ancora non sono la Sandra che voglio.
Ieri notte, per un momento, mi sono sentita morire, ho sentito che l’unica soluzione ai miei
problemi era chiudermi in bagno, aprire il water, chinare la testa, mettere l’indice e il medio della
mia mano destra in gola fino a toccare l'ugola. La tentazione di provocarmi il vomito era forte. Non
mi sono dimenticata di quella sensazione liberatoria, purificante. Ma non l’ho fatto. Oggi più che
mai ho capito il perché.
Ho un marito che mi ama, che ha curato pazientemente la mia anima malata, che mi è stato vicino
con forza e dedizione. Ci sono le mie persone lontane e vicine che mi amano e che continuano a
curarmi insieme al ricordo delle mie ortensie e della neve di Roma. C’è il presente che mi vede
rotolare spensierata come una bambina sulla neve di Madrid, insieme ai miei figli. Vedo la neve
attraverso i loro candidi occhi. Sono viva, completamente immersa in quel ghiaccio caldo che mi ha
fatto rinascere”.
Massimiliano Cara
Don Gaetano (estratto da “9″)
Don Gaetano prese coscienza della miseria apocalittica della sua anima. Immerso nella vasca per
delle ore che per lui erano minuti. L’acqua era rossa, e lui disteso che cercava di ricordare tutto
quanto nei minimi particolari. Aveva chiamato la diocesi, per farsi sostituire e detto alla sua
domestica di non venire. Doveva riprendersi da uno stato influenzale. Uno stato influenzale che
andava ormai avanti da una settimana. Si faceva vedere acciaccato da giorni. In caso qualcosa
andasse storto, poteva usare la carta dell’alibi. E così ora faceva.
Cosa era quel qualcosa che aveva trasformato un uomo, e peggio ancora un prete, in un essere
necrofilo? Già la libido animalesca per un prete non è cosa buona.
Ma lui provava un desiderio oltraggioso per chi è senza vita. Per le fanciulle giovani, strappate alla
giovinezza come una spiga di grano dal campo.
E così gli venivano in mente i ricordi in ordine sparso.
La sua famiglia che finalmente mangiava la carne, da quando lui aveva cominciato a studiare per
farsi prete. La sua mamma che lo strappava dagli amici perché gli gridava contro che erano figli di
gente sporca. La sua mamma che confidava alla sorella che non aveva allattato il piccolo Gaetano
perché detestava quel mordicchiare il capezzolo. Il padre che mai una volta lo prese per mano. Al
massimo lo prendeva per un braccio per puntargli il dito. Sua madre che però non si vergognava di
lavarsi nel suo stesso bagno, quando lui aveva i primi impulsi ben visibili. Sua madre che mai gli
alzò le mani contro. Ma che poi lo rinchiudeva dalle galline. Suo padre che gli diede tante legnate
perché morse una gallina. Lui che desiderava di andare in giro a vendere le bibite con il negoziante
del paese. Sempre sua madre che diceva che non era cosa buona. Sua madre che ogni domenica lo
portava in cimitero e poi spariva, lasciandolo da solo e solo in compagnia di quelle infinite foto.
Cristiana Verazzo
Attesa
Solo nel silenzio più assoluto, quando tutto il rumore tace, riesco a lasciar perdere la vita. Sono
fregata, lo so, soprattutto quando capisco che il tutto ormai è appeso a meno di un filo, ben peggio
di una corda in tensione pronta soltanto allo schiocco finale. Ma è in questi momenti che ritrovo me
stessa, quella di un tempo, capace di razionalizzare un azione e farne pensiero, il più delle volte
positivo, che mi sprona, malgrado le brutture quotidiane ad andare avanti. E il filo…..che ormai
comprendo quasi spezzato, mi tiene ancorata al presente….e io attendo che finalmente si recida per
lasciarmi scivolare verso l’oblio…..o verso la vera vita?
Il dolore
Il dolore è qualcosa che ti cambia….sempre….e anche quella volta sentii arrivare il cambiamento.
China sul tavolo della cucina con la fronte poggiata alle mani mi chiedevo il perché delle mie
miserie infinite. Dopotutto non ero né la prima tanto meno l’ultima persona a potersi lamentare
dell’attuale stato delle cose; non potevo esimermi da scelte differenti non causate dalla mia volontà
e dovevo subire i fatti né più né meno di tutti gli altri. Ma la mia natura ribelle m’invogliava a
scattare in piedi e uscire nella notte correndo a perdifiato pur di scrollarmi dalle spalle quella
scimmia malefica che s’invischiava nel cervello corrodendo pensieri e volontà.
Già……come se potesse bastare una fuga……….
Un sospiro lento e un primo crack alla base della schiena mi fece sollevare la fronte. Magari mi ero
impressionata, soltanto un cigolio…certo, cos’altro poteva essere!
Secondo crack, stavolta con uno strisciare un po’ sinistro. Il cuore prese a pompare come un
forsennato e il rivolo di sudore mi tagliò in due la schiena terminando……dove? Non alla base, non
c’era mai arrivata quella goccia! Non osavo guardare, il tremore alle mani si ripercosse fino ai
polmoni facendomi respirare a singhiozzo e con fatica m’imposi la calma. Dovevo capire cosa mi
stesse succedendo per cui osai un’occhiata verso la spalla, poi il viso cominciò a voltarsi e sentii la
stessa goccia di prima tornarmi su per ritornare alla base della nuca.
Lo strisciare dipendeva dalla goccia, non da altre cose……terrorizzata provai a balzare in piedi, ma
ero inchiodata alla sedia o meglio, guardando in basso notai un qualcosa sulle mie gambe…..un
drappo forse, no……un velo………
Terzo crack e finalmente urlai, la goccia aveva raggiunto il collo e come un coltello affilato aveva
realmente aperto la mia schiena a metà.
Chiusi gli occhi sconfitta dalla mia impotenza, le lacrime scesero copiose sulle mani impossibilitate
dal terrore…………un ultimo schiocco e fui inghiottita da me stessa.
Nadia Milone
La mia rinascita
Ricordo ancora come vivevo fino a poco tempo fa. Alla continua ricerca di qualcosa o di qualcuno
che mi donasse delle certezze, quelle sicurezze che sono sempre mancate dentro di me. Ebbene sì,
lo ammetto, sono sempre stata un’insicura per natura, una piccola e debole foglia alla quale bastava
un soffio di vento per staccarsi dal ramo e cadere a terra, pronta ad essere calpestata dal primo
passante di turno. Tante, troppe volte sono stata schiacciata in questo modo. Troppe volte ho chinato
la testa e chiesto scusa per cose di cui non avevo colpa e troppo spesso sono stata usata soltanto per
alimentare l’ego di qualche bugiardo esibizionista. E ogni volta cadevo e mi rialzavo. Ma arriva un
giorno in cui è difficile rialzarsi se si continua a permettere a gente priva di scrupoli di usarti e
colpirti. E allora dici basta. Così è stato e così sarà.
Un giorno mi sono guardata allo specchio e quello che vi ho visto riflesso non mi è piaciuto affatto.
Quella donna ormai apatica e provata dalla vita doveva reagire! Non si può vivere costantemente ai
margini, bisogna prendere in mano le redini della propria vita e non soccombere mai, per niente e
per nessuno. Almeno questo, ora, l’ho capito. Quel giorno ho deciso che quella donna doveva
cambiare.
Sono stati passettini piccoli e difficili da compiere, perché quando l’autostima è praticamente
inesistente è difficile ritrovarla da un giorno all’altro. Un percorso di crescita interiore molto lungo
e non posso di certo dire di non aver mai avuto cedimenti. Tantissime volte ho creduto di non
farcela, di non essere all’altezza nemmeno delle mie stesse aspettative.
Ma ora posso orgogliosamente dire di non essere più quella persona e se il dolore che la vita mi ha
donato è servito a farmi cambiare e maturare, allora ringrazio di averlo provato.
Ora sono una persona nuova, mi sento rinata, risorta dalla mie stesse ceneri, proprio come l’Araba
Fenice. Ecco, è stata proprio questa la mia metamorfosi. Ora so con certezza che non permetterò
mai più a nessuno di calpestarmi o di prendersi gioco di me. Quella debole foglia non esiste più, ora
voglio essere un solido tronco. Non sarò più lo zerbino per le scarpe sporche di qualcuno. Ora chi
vuole la mia stima e la mia amicizia, mi deve innanzitutto rispettare come persona e questa è una
cosa sulla quale non nutro più alcun dubbio. Non elemosinerò mai più le attenzioni altrui, non mi
umilierò più davanti a chi gode nel vedermi strisciare e soffrire. Chi mi vuole, d’ora in avanti, dovrà
imparare prima di tutto che anche a me piace essere cercata e coccolata. Se così non sarà,
semplicemente non ne varrà la pena.
Questo lo devo soprattutto a me stessa, alla donna che sono diventata, più forte ma, soprattutto, più
consapevole del fatto di non essere inferiore a nessuno.
Mal’âq ‘Ȃnf Fràn’
O Vere Maledicta nox
Tutto trascorre nella misera normalità.
David, un giovane trentaquattrenne, aveva trascorso fino a quell’ora la sua vita sforzandosi di
cercare l’affetto che gli era sempre mancato.
Provenendo da una famiglia di umili contadini, sin dalla più tenera età gli furono negati gli studi,
perché doveva aiutare il padre nei campi, gli furono negati gli amici perché non poteva competere
con loro, gli furono negati gli affetti da tutte le persone che aveva conosciuto fin dalla nascita.
David, trascorreva l’intera giornata nei campi, godeva della luce del sole, trovava compagnia tra gli
animali, immaginava che le piante come amici che puntualmente ogni mattino a levar del sole lo
attendevano, il vento che scuoteva i loro rami, il fruscio tra le foglie era come una sorte di
benvenuto.
Davide si sentiva sicuro sotto il sole, ma quando le tenebre iniziavano a prendere il sopravvento, il
viso di David diventava cupo, triste, cambiava aspetto, umido di lacrime. Insomma, il suo viso era
l’immagine della sofferenza…
Odiava la notte, perché doveva rientrare a casa, era solo, era privato anche da un piccolo misero
moccolo, per poter leggere il suo libro preferito “Cuore” di Edmondo de Amici, in cui David si
immedesimava (con la speranza che diventasse realtà) nel piccolo Scrivano Fiorentino….
Non chiuse occhi tutta la notte, aveva paura del buio, del silenzio cupo che rimbalzava in ogni
angolo della parete. Pregava, chiedeva pace, requie, un po’ di ristoro per la sua anima, tanto triste e
dannata come la notte.
Si addormentò tra le braccia del suo nemico, la notte, oscura, chiedendo e richiedendo ancora una
volta di risparmiarlo di così tanto atroce destino…
Ormai la notte a preso il sopravvento, ma quella notte era diversa da tutte le altre notti.
Quella fu la notte in cui tutto l’universo ne risenti.
David, si desta dal sonno come tutte le mattine, esce di casa va nei campi e si accorge che manca
qualcosa: il sole è a levante, tarda ad uscire dalla sua culla.
David procede nei suoi passi, celeri, scattanti, ma il sole non fa un minimo passo rimane fisso, come
se fossero due fenomeni naturali: alba a oriente e tramonto ad occidente, sole e luna segnano i due
estremi contemporaneamente.
David cerca di raggiungere la luce, ma non ci riesce perché entrambi vanno nello stesso verso, un
moto a dir poco armonico, che richiama il moto del sole e della luna attorno alla terra.
Ad un certo punto, un bagliore di stelle in lontananza, cercarono di chiamarlo, ma erano troppo
lontane, erano piccolo e lui si sentiva impotente.
Solo dopo infiniti giri, per raggiungere la luce, prende coscienza di essere morto, e di essere
diventato un tutt’uno con la Notte: due anime in pena.
La notte che aveva odiato, disprezzato, la notte che le aveva tolto il sorriso, la passione, la luce di
cui aveva bisogno in realtà: era sua madre!
Non si comprende se questa è una maledizione o una benedetta liberazione.
David inizia a piangere, e dai suoi occhi iniziarono ad uscire lacrime, piccole gocce di luce simili a
stelle.
Inondò la terra, ma nessuno si rese conto che quella notte era diversa da tutte le altre.
Le sue lacrime la maledissero e maledetto fu lui: maledetto da se stesso.
O Vere Maledicta Nox…..
Requiem in aeternam….
Ronni Corbo
Schianto, storia di un cambiamento
Diceva di chiamarsi Raissa, professione ballerina di lap-dance, nella realtà una gran fica. Era
rumena come il novanta per cento delle ballerine di quel tipo di locali, non chiedetemi il perché,
sono fatti. Quel locale aveva appena aperto alle porte del paese e fu subito un successo, forse per le
ragazze a dir poco splendide o per il semplice fatto che una novità è pur sempre una novità. Avevo
cominciato a frequentarlo con gli amici nei fine settimana, non sempre, diciamo un paio di volte al
mese, in quei posti il divertimento costa caro, molto caro. Ma ogni volta che entravo lei era lì, sul
lungo palco a ferro di cavallo, al solito palo proprio dietro al bancone del bar dove mi potevo
godere il suo corpo ballare bevendo cocktails in quantità industriale. Ingoiavo di tutto e più forte era
il cocktail più la desideravo. Agli inizi non fu subito una gran cosa, faceva la timida, ma col passare
del tempo, un privé dopo l’altro, si scioglieva sempre di più e il divertimento aumentava e i nostri
incontri nei salottini privati diventavano sempre più caldi, molto caldi. Avevo cominciato ad andare
al locale due o tre volte alla settimana e lei era sempre lì che mi aspettava, appena entravo mi
saltava addosso con quel suo corpo morbido e perfetto e le danze avevano inizio. Via di corsa nei
privé, tutto il resto non esisteva più. Bevevo sempre molto, le notti diventavano sempre più lunghe e
a volte capitava dormissi solo un paio d’ore prima di andare al lavoro. Ma stringevo i denti e lottavo
contro la stanchezza. Avevo un gran fisico, ero abituato a certi sforzi. Non guardavo in faccia
nessuno quando entravo nel locale, non una gran perdita, c’erano solo uomini falliti con matrimoni
altrettanto falliti, le loro facce di cartone mi mettevano tristezza, quindi sguardo dritto davanti a me,
solo Raissa meritava di essere adorata. I mesi passarono e gli incontri divennero sempre più
frequenti, lei e niente più nella mia testa. O quasi. Già! C’era l’Inter di Mancini che spadroneggiava
in campionato. L’unica cosa che riusciva a distrarmi da quel culo bello da impazzire era l’Inter, solo
i gol dei neroazzurri catturavano la mia attenzione strappandomi dalle cosce carnose e lisce di
Raissa. Da un sogno all’altro, da un godere all’altro. Sì perché è solo una leggenda che nei privé
non si possa “fare niente”, solo per la legge è così, ma la legge, si sa, è fatta dagli uomini ed è
supervisionata da degli uomini. Se poi questi tutori della legge frequentano i night club è ovvio che
non possano rimanere indifferenti a tutte quelle ragazze, a quelle gambe, a quelle tette che
saltellando allegramente gli passano di fianco sfiorandoli e lasciando un’intrigante scia di dolce
profumo. Così il gioco è fatto: i poliziotti e i finanzieri godono di “trattamenti speciali” e le ragazze
possono fare ciò che vogliono senza paura di essere cacciate dal loro capo in caso venissero
sorprese in atteggiamenti troppo “calorosi” con un cliente. Un tacito accordo per il bene comune.
Beh, fatto sta che le serate con Raissa erano ormai diventate routine, i soldi che spendevo non li
contavo nemmeno più, era una cosa passata in secondo piano. Lasciavo il locale alla chiusura, alle
quattro passate e poi al lavoro completamente rimbambito o ancora ubriaco. Gli altri non venivano
più al night, li avevo persi di vista. “Cazzi loro”, mi dicevo “non sanno godersi la vita quegli
sfigati!” E invece ero io ad essere caduto in un circolo mortale dal quale avrei dovuto stare alla
larga. Ero fuori controllo. Alcool e Raissa mi stavano risucchiando nelle profondità della notte, nel
buio più nero, verso qualcosa che tutto era tranne che vita. E venne quel maledetto giorno, l’ultima
domenica di campionato, e l’Inter vinse quel fottuto campionato. Già nel pomeriggio cominciai a
festeggiare, birra e vino come se piovesse senza alcun ritegno, a più non posso. Ore e ore con
bottiglie in mano e urlando a squarciagola dapprima canti da stadio e via via cose sempre più
insensate. Venne sera e arrivò l’ora di andare da Raissa. Mi presentai al locale con indosso ancora la
maglia dell’Inter, ero sudato e ubriaco fradicio. Lei mi sorrise, io estrassi il bancomat e così venne
l’alba. Il mio turno al lavoro cominciava alle sei di mattina. Lasciai Raissa alle quattro e mezza
passate. Ridotto a uno straccio, nemmeno più felice, non connettevo più, in tilt come un flipper
preso a calci. In qualche modo arrivai a casa, parcheggiai un po’ in mezzo alla strada e non so come
mi coricai nel letto credendo di potermi riprendere in una mezzoretta. Impossibile. Vennero le
cinque, poi le cinque e venti e dovetti alzarmi e andare al lavoro. Dodici chilometri, quindici minuti
scarsi per arrivare. Accesi il motore, misi la prima e partii. Quella mattina al lavoro non mi videro.
A metà strada c’era una rotonda ma mi addormentai qualche decina di metri prima e ci finii sopra
con la macchina. Un gran casino, venni sballottato nell’abitacolo come un pupazzo, una ruota si
staccò e se ne andò per la propria strada poi più niente, solo dolore, un gran dolore. Rimasi in
ospedale per due settimane e quando uscii venni a sapere che Raissa aveva abbandonato il lavoro.
Io comunque avrei abbandonato lei. E l’alcool.
Adriana P.
Tendenzialmente
Ero così. Ero così marcia.
Era quello il periodo in cui girovagavo senza meta con una bottiglia in una mano e una diecimila
lire nell’altra: le pupille gustative inesistenti; la gola in fiamme; le narici bruciate.
Ero così. Tendenzialmente persa.
Era quello il periodo in cui non ricordavo il mio nome e la mia provenienza ma, ancora peggio,
neanche mi importava ricordarlo. Nient’altro ero se non quella bottiglia e quella diecimila lire in
mano.
Euforica, estasiata, in bilico tra corde di violino troppo tese per poterci camminare sopra. Ho
sempre amato i precipizi, specialmente quando credevo di camminare sul loro bordo e invece
naufragavo persa nella lava di un vulcano.
Ero così. Marcia.
Era quello il periodo in cui mi sentivo potente, e non perché lo fossi realmente: potente è chi sa
scegliere la propria vita e camminarci affianco, a volte sbandando. Chi si lascia trascinare negli
inferi senza saperne uscire non è potente, neanche con una bottiglia in mano e tanto meno con
quelle diecimila lire arrotolate nell’altra.
Ero così e forse lo sono ancora.
Tendenzialmente marcia. Lo sono io, forse fa parte di me, e in quanto mia assoluta parte oscura me
la tengo cucita addosso senza riuscire a distaccarmene.
C’è una sola differenza, così piccola e grandiosamente immensa.
Ero così e un giorno, mentre girovagavo persa senza meta, degli occhi mi hanno perforata: ho
appoggiato la bottiglia sul marciapiede e ho srotolato quelle diecimila lire.
“Scusi, quanto costano quelle rose?”
Ecco, avevo trovato un buon uso per quei soldi.
Andrea Mazzolini
La metamorfosi
Con quella mano e quell’uncino puoi fare tutto quanto vuoi, e ci sono cose che un uncino fa meglio
di una mano intera, un uncino non sente dolore se deve fissare un filo e un ferro, non si taglia, né si
brucia, e io ti dico che Dio è monco, e ha fatto l’universo.
Memoriale del convento – José Saramago
Chiamatemi Gregor.
Da molti anni, troppi ormai, la gente crede che io sia un chirurgo estetico, uno dei migliori di tutta
Europa.
Non è così.
Non è semplicemente così.
Le mie mani non si limitano a tagliare, a spostare, a cucire, a disegnare. Non è semplicemente
questo. Io trasformo la materia. O meglio: io creo.
Ormai ho perso il conto di tutti gli interventi chirurgici che ho effettuato. E ho perso di vista anche
il mio conto in banca, da molti anni non mi interessa più, sono straricco. Il mio mestiere è ben
retribuito, la giusta ricompensa per chi vende illusioni: si trova sempre un padre che paga per la
rinoplastica della figlia oppure un marito che finanzia la mastoplastica additiva di una moglie
insoddisfatta.
Io non ridisegno corpi, io do forma alle illusioni. Vi siete mai chiesti cos’è la bellezza? Sembra una
domanda facile, scontata. Non lo è. Io disegno i corpi per renderli più belli. Ma la bellezza di Fidia
non è la bellezza di Canova e la bellezza di Rodin non è la bellezza che cercano i miei clienti.
Figuriamoci! La maggior parte di loro non sa neppure chi sono stati Fidia o Michelangelo. Tutt’al
più conoscono le immagini photoshoppate che si trovano sulle riviste di gossip. Quello che a loro
interessa è uscire dalla mia clinica diversi da come sono entrati, con la certezza di apparire migliori.
Per anni ho pensato che un naso migliore potesse farti sentire accettato, che un seno ben
proporzionato potesse migliorare la tua autostima; questo è quello che pensavo e questo è tutto
quello che raccontavo ai miei clienti nella visita preliminare. Ma io non operavo solo per migliorare
la vita a qualche signora o a qualche ragazzina, né per i soldi.
Io lo facevo perché solo nella sala operatoria, con il cliente anestetizzato e attaccato a una
macchina, solo nel momento in cui la mia mano precisa iniziava a tagliare, sono allora io mi sentivo
libero, lontano dal mondo e dalle angosce della vita.
Forse è la stessa sensazione che ha uno scrittore quando inizia un nuovo romanzo, o un musicista
quando scopre nelle chiavi sempre uguali di una tastiera una nuova melodia, o un innamorato
quando bacia per la prima volta la sua donna. Quella pagina di romanzo, quella melodia, quei baci
sono sempre esistiti, dalla notte dei tempi, ma nessuno fino a quel momento si era accorto della loro
presenza: stavano lì, appesi nel mondo delle idee come le stelle stanno appese nel cielo. Ma è solo
quando qualcuno scrive quella pagina, trova quelle note, bacia quella donna che si continua l’opera
della creazione.
Io quello ho fatto per tanti, troppi anni. Ho creato. Purtroppo la mia mano ora è malferma, avrei
dovuto smettere già da diversi mesi. Mi hanno trovato addosso un male incurabile ma non sarà lui
ad averla vinta, non sarà lui a trasformare Gregor, il famoso direttore della clinica Metamorfosi, in
un mucchio d’ossa. Ho appena inghiottito una scatola di forti medicinali. Qualcun altro da domani
porterà avanti tutta questa baracca.
Alessia Cutrufo
Rivestire i miei panni
L’ostinato disperdersi delle molecole del mio corpo, nella speranza che un lieve alito di vento possa
portarlo lontano da quella prigione di diamante nella quale la mia anima si infligge torture con
catene dorate.
Su quel piccolo frammento di specchio, ultimo superstite dei miei sogni di ragazza, si riflette un
corpo non mio…. un viso segnato che è solo il residuo di una natura che si svelava.
Quel viso mai sfiorato da mani amiche, quel corpo concesso a cercatori di tesori intenti a scavare la
carne per portare via brevi istanti di piacere.
Alla ricerca di quegli avventurieri che non cercano altro che passione, uomini ai quali puoi
nascondere il tuo viso, che non lo conosceranno mai, che non lo cercheranno mai.
Uomini che possono ferire la carne di quel corpo ormai distante da me, ma che mai scalfiranno
quelle pareti di ghiaccio che celano il segreto.
Il calore della notte scalda quei brandelli di pelle rimasti illesi da giornate di sfrenata passione, e nel
calore della notte, su un letto disfatto, trovo la forza di liberarmi di quella maschera di donna per
tornare bambina tra le braccia di Morfeo…..”
Fuoco
Il lunedì inizia con questo articolo dedicato al fuoco che finalmente si è estinto dalle nostre pagine.
L’ardore e gli incendi sono divampati nei vostri testi, portando alla luce la vena poetica di molti di
voi, oltretutto bellissima e decisamente sentita. Se avessi saputo che “bolliva” in pentola tutta questa
passione bruciante, ve lo avrei proposto anche prima. Ovviamente non sono mancate le sfumature
horror, quelle erotiche, piuttosto che la pura cronaca di fatti verosimilmente reali. Tuttavia ogni
pezzo ha segnato, con il proprio fascino, le pagine di questo blog. Davvero bravissimi tutti. Detto
fra noi, non potrei essere più orgogliosa di così per questa iniziativa, sto scoprendo dei talenti
veramente insospettati e persone che hanno veramente la capacità di comunicare delle emozioni
nelle più svariate forme, oltretutto con una bravura eccezionale. Signori autori, l’editoria italiana
dovrebbe sapere che cosa si perde nel non avervi scoperto, in tutto il vostro meraviglioso
potenziale. Tuttavia consolatevi, vi abbiamo scoperto noi e personalmente sono davvero felice di
poter godere di ogni vostro singolo scritto. Regalatemene ancora. Grazie infinite.
Adriana P.
Bruciami
Mi bruciavi sempre tu. Mi infuocavi. Così, in egual modo, mi spegnevi.
Mi bruciavi sempre tu. Mi bruciavano le tue dita quando mi stringevano troppo o troppo poco.
Mi bruciavi sempre tu. Mi bruciavano le tue labbra, mi bruciava la tua lingua.
Ancora di più il fuoco risaliva lungo la mia schiena con le tue parole.
Le hai sempre sapute usare bene. Mi bruciavano le viscere.
Dentro.
Mi bruciavi sempre tu.
Credevo che una fiamma così ardente, e che fosse amore o dolore non me lo sono mai chiesta, non
si sarebbe mai spenta.
Dentro.
Fuori.
Ovunque te mi stessi bruciando.
Mi bruciavi sempre tu e godevi di quel fuoco su di me.
Lo vedevi in me e godevi ancora di più.
Ogni fiamma si spegne, prima o poi, che sia d’amore o di dolore.
Come godrai d’ora in poi?
L’ho scoperto quel giorno, quello in cui mi hai supplicato.
Bruciami.
Infiammabile
Quanti gradi c’erano sotto quel sole? Temevo l’uscita dalla porta di casa, tanto era il calore che già
potevo percepire. Il corpo, caldo, troppo caldo che mi affaticava le membra e la mente. L’acqua
ghiacciata che tentava di ristorarmi ma scivolava sulla pelle senza lasciare traccia alcuna.
Infiammabile. Ecco come mi sentivo.
Ero così, dentro e fuori di me. Lo ero da giorni e non trovavo pace, con una fiamma ad incendiarmi
il cuore e non solo.
Nessun`altra parola mi avrebbe descritto meglio.
Infiammabile.
Lo ero dall’istante in cui lei mi aveva guardata e senza chiedermi il permesso mi aveva baciata.
Quel muro caldo di pietra lo potevo sentire ancora sulla mia schiena mentre lei mi sfiorava non solo
sulla pelle. In me. In me qualcosa era cambiato e mi aveva resa… infiammabile.
Anna Cibotti
Che ne sarà...
Quel pomeriggio inoltrato di un’estate ormai morente, mi trovai a passeggiare lungo un sentiero nel
bosco che conoscevo bene per averlo percorso quasi ogni mattina.
Insolitamente, mi ci trovai all’imbrunire.
Fu una decisione istintiva quella che mi portò a scegliere un orario invece di un altro.
Camminavo lentamente guardandomi intorno stupendomi della strana luce che filtrava tra gli alberi.
L’effetto cromatico cambia al tramonto rispetto al mattino ed io ne avvertii la differenza quasi con
disagio.
Mi sentivo fuori posto.
Avvertivo una presenza da qualche parte.
Si…… non ero sola.
Sentivo il rumore dell’acqua del ruscello che gorgogliava tra i sassi come se volesse dirmi qualcosa.
Mi fermai ad ascoltare.
Parlava col vento che volendo dire la sua, si infilava tra i riccioli d’acqua per poi alzarsi e finire
sibilando tra i rami.
Sentii un fruscio.
Tra gli alberi qualcosa si muoveva.
Qualcosa o qualcuno.
Mi allontanai dalla riva lasciando il ruscello al suo gorgogliare col vento, e mi avvicinai alla fonte
del rumore che ancora sentivo.
Poi lo vidi.
Un piccolo omino con un lunga barba bianca e vestito di rosso saltellava qua e là canticchiando.
Sembrava una lingua di fuoco che passando da un cespuglio all’altro, volesse incendiare il bosco.
Ad un tratto così come era venuto sparì.
La sensazione che avevo provato prima di non essere sola lasciò il posto ad una completa
solitudine.
Ora c’era un silenzio assoluto.
Anche l’acqua e il vento non parlavano più.
Mi sedetti a lato del sentiero sulla terra ancora tiepida dal sole che stava tramontando…..e pensai.
Pensai all’omino rosso e a ciò che mi aveva evocato.
Il fuoco.
Che ne sarà dell’amore quando l’abitudine spegnerà il fuoco della passione?
Che ne sarà delle bocche di fuoco quando i cannoni taceranno?
Che ne sarà del fuoco nelle vene quando gli anni ti renderanno stanco?
Che ne sarà del fuoco del camino quando non avrai più legna?
Che ne sarà dell’uomo senza il fuoco della vita?
Che ne sarà di questi modi di dire del fuoco quando non avrai più parole?
Oltre alla cenere?
Un baluginare di fiammelle tremule uscire dalla terra.
Un fuoco fatuo.
Alessia Cutrufo
Fiamma viva
E risorgo,
come fuoco dalle ceneri spente,
divampo,
mascherata del rosso
di un sole al tramonto.
Stringo a me le tue carni,
le fondo alle mie,
in un’unica fiamma viva.
Forgiata dal fuoco
di battaglie senza tempo
la tua lama ha spezzato
le mie potenti lingue di luce,
bruciato il legno a protezione
dello scrigno.
Nell’aria l’odore di fumo
ed incenso,
in una stanza buia,
solo il lontano riverbero
dell’imminente distruzione,
in un letto disfatto,
il ricordo di un fuoco risorto,
tra le ceneri spente…
Andrea Leonelli
Fuoco e Acqua
Fuoco
che ardi nelle vene al pensiero
la passione bruciante
le ustioni, di mani bollenti
di corpi in fiamme
di onde che si scontrano
mari in tempesta su scogli
e poi risacca sulla spiaggia
acqua e fuoco
l’uno sull’altra
sono emozioni sismiche
eventi imponenti
che toccano il cuore
di due mondi ad unirsi
non c’è vita senza entrambi
il fuoco scalda raffreddandosi
il mare mitiga riscaldandosi
un’unione
generatrice d’eventi
forze
diverse
che s’incontrano
e calore diffuso
percezioni liberate
mentre scorro su te
sensazioni nuove
ma sempre sentite dentro
conosciute come usuali
bocche infiammate
come vulcani sottomarini
bagnate da desiderio
e le mie onde
diffuse nel tuo calore
risuonano nel cuore
della nostra necessità
impossibili da separare
indissolubilmente legati
dalla nostra libertà
di essere fuoco e acqua
Irma Panova Maino
Le ceneri
Scavo sotto le ceneri di un passato che giace devastato ai miei piedi. Scosto, quasi con delicatezza,
quei frammenti anneriti e ingrigiti che hanno perso ogni consistenza, cercando di trovare ancora il
rossore di una passione che si è spenta, è svanita, si è annullata nell’indifferenza quotidiana.
Tuttavia nulla pare più brillare nel silenzio monocromatico della mia anima, nulla pare aver
conservato quel minimo ardore che avrebbe lasciato viva la speranza. Mi aggiro fra questi detriti,
considerando che non ha molta importanza quale sia la forza devastante che porta alla rovina, se un
uragano sia più distruttivo di un incendio o un terremoto, quando il destino si abbatte con forza sulle
nostre vita, non rimane più niente, se non tirare le somme e pagare i conti. Gli “avrei potuto”, “avrei
dovuto”, non hanno davvero più senso, non servono a nulla e rimestare ancora in queste ceneri, ha
lo stesso sapore acido del fallimento che invade la bocca, bruciando il gusto per la vita, per quel
futuro che è morto e sepolto sotto la stessa tonnellata di macerie che mi circondano.
È passato del tempo dall’ultima volta in cui ho rovistato fra i carboni, trovando ancora qualche
tizzone acceso, la stessa speranza che portava a credere che, se sussisteva ancora quell’alito di vita,
avrei potuto ancora accendere una fiamma per illuminare il cammino, ma quel tempo è finito. Non
vi è più nulla che possa produrre quell’energia in grado di ravvivare il fuoco. Non vi è più nulla se
non il silenzio. Ciò che raccolgo ormai si sbriciola fra le dita, diventando la polvere che viene
trascinata via dal vento. Lo stesso vento che spazzerà via tutto, disperdendo i frammenti di
un’esistenza passata nell’immenso spazio di un domani celato dal fumo. Cancellerà, al suo
passaggio, ogni traccia di ciò che è stato, di quello che ho provato, di ciò che ho vissuto, lasciando
nuovamente il terreno sgombro dalla distruzione che è avvenuta. L’ultimo sguardo che dedico a
tutto questo, serve solo a ricordarmi che non vi è nulla di certo, nulla di così solido e incrollabile
che possa resistere alla furia degli elementi, quando questi si scatenano, tutto ha la sua valenza
relativa, il suo effimero scopo in questa vita mortale e passeggera.
Basta un nulla, una favilla qualsiasi per alimentare un fuoco che, perdendo il controllo, diventa
l’incendio distruttore di noi stessi. Ed è stato davvero un attimo. L’attimo in cui il sussurro è
diventato tempesta, l’attimo in cui quel “basta”, mormorato quasi in modo incerto all’inizio, ha
preso forza, alimentandosi con lo stesso furore scaturito dalla negazione, da quei continui rifiuti dati
nella totale inconsapevolezza di quanto stava accadendo. Raccolgo me stessa, le briciole di me,
ricomponendo, affliggendomi, le ferite aperte, lenendole con quel poco di orgoglio che ancora mi
avanza. Non mi guarderò più indietro, non tornerò fra quelle rovine, cercando ancora fra quelle
ceneri una scintilla occhieggiante. Andrò avanti, un passo dopo l’altro, lasciando volute di fumo
sulla scia delle mie orme.
L’alba mi accoglie disperdendo le spirali grigie, gli sbuffi della notte, aprendosi verso un giorno le
cui tinte ricordano ancora l’incendio devastante, i colori sono forti, intensi, dolorosi, ma come
sempre accade, con il tempo arriveranno le sfumature, i pastelli, le pennellate leggere. La cenere
scende, mi abbandona, svolazza verso il terreno impregnandolo, mischiandosi al terriccio e
rendendolo fertile, creando quella base affinché un domani qualcosa vi possa crescere ancora.
Sole
Lei era lì, pigramente distesa sotto il sole, a crogiolarsi per quell’attimo di pace inatteso. La lettera,
che stringeva ancora in mano, non era altro che la risposta a una sua missiva spedita un paio di
settimane prima e quella stessa missiva recava con sé una speranza che in quel momento era
diventata realtà. Gli aveva alla fine scritto, aveva confessato ciò che provava, dandogli modo di
diventare consapevole dei sentimenti che agitavano il suo animo. E mentre cambiava posizione sul
lettino, a bordo della piscina, distendendosi a pancia in sotto, la mente ripercorse le righe scritte di
getto e con l’emozione che ancora le faceva tremare la mano.
“Mio caro,
questa mia la dedico a te e a quello che l’ultima volta è intercorso fra di noi. TI penso e ricordo,
sento il sapore della tua pelle e la pressione delle tue mani. La memoria ha ben impresso
quell’attimo in cui mi hai resa eterna, donandomi per sempre il calore del dei tuoi sentimenti.
Quindi è per questo che ora ti invio questi miei versi, per darti la misura di quanto io mi sia sentita
amata e desiderata; di quanto la prospettiva della mia esistenza sia cambiata alla sola idea di poterla
condividere con te.
Danzano le fiamme
Nella notte senza luna
È l’incendio
Che congiunge gli amanti
È il pericolo
Che li rende eterni
Il pericolo lo abbiamo affrontato e sconfitto, rendendoci complici in quello che era il nostro gioco di
sguardi e carezze furtive, rubate in momenti in cui nulla avrebbe dovuto turbare gli equilibri. E ora
io so, ho saputo, che nulla può ostacolare ulteriormente ciò che proviamo l’uno per l’altra. So,
perché ho visto in fondo al mio cuore, che non sfuggirò più al mio destino, ricoprendo quanto ci è
dovuto con timori e dubbi.
Attendo solo una tua risposta, un tuo cenno che verrai a reclamare ciò che è già tuo.
Con amore infinito.”
Questo era il tenore di quella missiva. La trepidazione che l’aveva colta, mentre attendeva con ansia
la risposta dell’uomo della sua vita, l’aveva portata a essere frenetica, quasi isterica, incontrollabile.
Nulla l’aveva soddisfatta nei giorni precedenti e nulla sembrava placare il suo animo in tumulto, il
timore che fosse ormai troppo tardi le aveva attanagliato le viscere, portandola a un’inappetenza
forzata.
Tuttavia, ora che finalmente la risposta era arrivata, la pace era scesa sul suo animo, portandola a
distendersi su quel lettino sotto il sole cocente, alla ricerca di quel calore che le era venuto a
mancare per giorni. Si tolse gli occhiali da sole graduati, che le avevano permesso di leggere la
lettera e si cosparse il viso con della crema, per prevenire le scottature, quindi, lasciandosi andare, si
rilassò dando modo alla mente di vagare libera, libera di poter sognare.
E mentre la tensione finalmente lasciava le sue membra, portandola verso un mondo onirico nel
quale ricongiungersi anticipatamente con l’amato, il sonno la trascinò via, cullandola nella
meravigliosa idea di un futuro ormai roseo.
Non avrebbe potuto accorgersi del raggio di sole che, filtrando attraverso la lente dell’occhiale,
andava a colpire ripetutamente l’angolo sfilacciato dell’asciugamano in fibre naturali di cocco e
cotone. Non avrebbe nemmeno potuto presagire ciò che quel raggio era in grado di fare e come, un
fattore così benevolo, potesse trasformarsi in qualcosa di così orrido.
L’incendio divampò all’improvviso, senza lasciare tregua e senza dare scampo, cancellando in un
mucchio di cenere ogni speranza.
Viky Hachiko Lancione
Il fuoco che vive in me
Come una fenice
dalle proprie ceneri
io risorgo
grazie a te.
Il fuoco che mi anima
che divampa in me.
Caldo e rassicurante,
passionale e sconvolgente.
Tu che mi inebri con la tua dolce fragranza
e infuochi la mia anima
con la forza del tuo amore.
Elisabetta Bagli
La danza
Danzerò nuda per te
alla luce del fuoco di luglio,
brucerò tutto intorno al tuo corpo
la magia del nostro primo momento,
incontrerò il tuo sguardo fugace
e sentirai scoppiarmi l’incendio.
Abbandonati al mio gioco d’amore
e avvicinati a me lentamente,
accarezza le mie fiamme roventi
sciogliendo il ghiaccio fondente
come un ruscello d’acqua pura
asciugato dalle tue lingue di fuoco.
Non parlare, non proferir parola.
Amor mio, sfiderò il mondo intero
intrecciando le mie gambe alle tue,
introducendo in ogni mio poro
il tuo odore e il tuo dolce sapore.
Tra il fuoco e il ghiaccio,
ti farò mio.
Tra il fuoco e il ghiaccio,
per sempre mio.
Andrea Mazzolini
Il fuoco
Era una gioia appiccare il fuoco.
Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del
tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue
gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore
d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e
le rovine carbonizzate della storia.
Fahrenheit 451 – Ray Bradbury
Ci sono persone che lasciano una traccia indelebile nella nostra vita. Nel mio caso la prima persona
a lasciare questa traccia, dopo i miei genitori, fu la mia insegnante di italiano e storia ai tempi delle
scuole medie. Era vedova, senza figli. Suo marito era stato un famoso medico veterinario, forse era
per questo che la sua casa zeppa di libri era animata da gatti bellissimi. Non celava mai le sue
simpatie politiche; la professoressa era, per sua stessa definizione, una vecchia mazziniana; i suoi
argomenti preferiti erano il risorgimento, la monarchia e la repubblica, e non la finiva mai di
parlarci di educazione civica. Aveva una straordinaria passione per il suo lavoro, sembrava una
vocazione più che un semplice mestiere. Ricordo come fosse oggi la lettura e la spiegazione di certi
brani omerici (adorava l’Odissea), lo spasso che provava di fronte all’ippogrifo ariostesco e
l’adorazione sacrale che tentata di trasmetterci per i Sepolcri del Foscolo.
Non disdegnava uscire dai programmi canonici della scuola media dell’epoca. Fu grazie a lei che
sentii parlare per la prima volta dell’Antologia di Spoon River o dei Fiori del male di Baudelaire.
Era una donna straordinaria, gli americani l’avrebbero definita “larger than life”.
Andai a salutarla dopo l’esame di terza media. Mi accolse calorosamente, amava aprire la sua casa
agli studenti. Per l’occasione mi regalò un libro che aveva letto nella sua gioventù. Fahrenheit 451.
Il titolo non mi diceva proprio niente. Lo aprii a caso e trovai una frase sottolineata.
C’era un buffissimo uccello, chiamato Fenice, e questo uccello ogni quattro o cinquecento anni si
costruiva una pira e ci si immolava sopra. Ma ogni volta che vi si bruciava, rinasceva subito poi
dalle sue stesse ceneri, per ricominciare. E a quanto sembra, noi esseri umani non sappiamo fare
altro che la stessa cosa, infinite volte, ma abbiamo una cosa che la Fenice non ebbe mai. Sappiamo
la colossale sciocchezza che abbiamo appena fatta, conosciamo bene tutte le innumerevoli
assurdità commesse in migliaia di anni e finché sapremo di averle commesse e ci sforzeremo di
saperlo, un giorno o l’altro la smetteremo di accendere i nostri fetenti roghi e di saltarci sopra.
“Questo, Alex, sembra un libro di fantascienza, ma non è semplicemente un libro di fantascienza.
Questo libro descrive un mondo terribile, una società che brucia col fuoco tutti i libri del mondo.”
Guardai la sua casa ricoperta di preziosi volumi, non senza un brivido alla schiena. “C’è una cosa
che vorrei dirti. C’è un fuoco che devi portare avanti nella vita meno terribile ma altrettanto forte.
Devi mantenere il fuoco nel cuore, la speranza, la passione per quello che farai ogni giorno, per i
tuoi studi, il tuo lavoro, le tue amicizie, i tuoi affetti, i tuoi amori. In questo libro c’è scritto che tutti
dobbiamo lasciarci qualche cosa dietro quando ce ne andiamo: un bimbo o un libro o un quadro o
una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino
piantato col nostro sudore. Ecco, io tra un anno andrò in pensione, tu sarai al liceo nel fiore dei tuoi
anni; ci tengo a lasciarti questo insegnamento prezioso. Non spegnere mai il fuoco dentro al tuo
cuore. Portalo sempre con te, anche quando intorno vedrai solo buio e disperazione.”
Ho ritrovato Fahrenheit 451 dopo molti anni, per caso, dopo un trasloco. E ho pensato alla mia
insegnante delle scuole medie. Se ogni giorno tento di non spegnere mai il fuoco dentro al mio
cuore, forse, è anche grazie ai suoi insegnamenti così preziosi.
Luigi Bonzanini
L’Evocazione
Una cappa soffocante di umida calura incombeva sulla città quando, verso mezzogiorno, un taxi si
fermò davanti all’ingresso del Teatro comunale e ne fu visto scendere l’impresario Cavalier Ilario
Delli Ponti. Costui, un amabile e distinto vegliardo dai capelli d’argento sempre perfettamente
curati, entrò a passi spediti nell’androne oscuro che dava accesso ai locali della direzione. Non si
sentiva affatto al meglio della sua forma abituale: stravolto dal caldo stagnate che gli toglieva il
respiro, il Cavaliere sospirò ripensando alla settimana di piacevole quiete trascorsa in montagna e
troppo presto interrotta da una telefonata del suo segretario, tale Maestro Ludovico Angustia, che lo
aveva informato d’un improvviso sciopero dell’orchestra indetto con motivazioni piuttosto oscure e
capziose. Mentre saliva le scale che portavano al suo ufficio, il Cavalier Delli Ponti provò
interiormente un convulso moto di stizza verso quei musicisti bizzosi e sempre scontenti che lo
avevano costretto a lasciare il suo eremo montano per tornare ad impegolarsi in interminabili
diatribe con i delegati sindacali.
” Ma in fondo, che cosa pretendono?! ” grugnì, mentre il suo fastidio aumentava man mano che
saliva le scale;
” Sono pagati profumatamente ed invece di pensare a studiare a fondo gli spartiti s’aggrappano ad
ogni cavillo per avanzare sempre nuove pretese! La frusta ci vorrebbe! Proprio la frusta!… Se
potessi fare a modo mio, in un paio di giorni saprei metterli in riga! Zitti e quieti li farei stare, e guai
a chi sbaglia una nota!… “
Proprio in quell’attimo, dal corridoio davanti a lui sbucò fuori, pallido e trafelato il suo segretario
Ludovico Angustia: era sulla quarantina, con un’aria mesta da sagrestano frustrato; dietro due
spesse lenti da miope sbarrava di continuo gli occhi ogni volta che rivolgeva la parola a qualcuno.
Quel giorno pareva addirittura più inquieto e spaurito del solito.
” Cavaliere!… ” esordì sollevato, vedendo arrivare il suo superiore; ” Cavaliere, meno male che lei
è tornato! Qui succedono cose strane!… “
” Si calmi, Angustia! Si calmi e si ricomponga! ” lo rimproverò Delli Ponti in tono rude e
sbrigativo; ” Che sarà mai successo di così grave per costringermi ad interrompere le ferie?! Spero
che avrà delle spiegazioni più che valide se non vuole ritrovarsi a spasso! “
” Cavaliere, le assicuro che la faccenda è seria!… ” La voce di Angustia tremava un po’ a causa
dell’ultima velata minaccia del Cavaliere;
” Sarebbe meglio che lei scendesse in teatro a constatare di persona… “
“E che ci sarà mai da constatare?…”
” I professori d’orchestra!…”
” Che hanno combinato?… “
” Niente!…Ma da iersera sono tutti là… “
” Là dove?!… “
” Nel golfo mistico!… “
” E che c’è di strano?!…Non è quello il loro posto?!… “
” Ma loro vi hanno passato tutta la notte!… “
Un guizzo di intuizione illuminò la mente non troppo brillante del Cavaliere; in tono scandalizzato
esclamò: ” Dunque, hanno occupato il teatro!…Ma che cosa rivendicano? “
” Niente. “
” Come niente! Per niente non si occupa un teatro!… ” La voce del Cavaliere s’era fatta gracchiante
per il fastidio come ogni volta che non riusciva a comprendere bene un problema, il che accadeva
piuttosto spesso.
” Dicono che stanno aspettando qualcuno…Non ho capito bene chi. “
” I delegati!…Voglio parlare coi delegati! Dovranno spiegarmi! Io quelli li denuncio tutti!… ” Il
Cavaliere ora sbraitava a tutto spiano proprio in faccia all’assistente che, in preda al marasma, s’era
fatto cinereo.
” Bando alle chiacchiere, ” concluse Delli Ponti; ” entro mezzora voglio i delegati nel mio ufficio!
…E non stia lì impalato, Angustia! Si muova, li cerchi!… ” Con un gesto brusco scostò lo
sventurato maestro Angustia ed entrò nel suo ufficio privato sbattendo la porta nel richiuderla, come
per dimostrare che lì il padrone era sempre lui.
Appena entrato nel vestibolo, si accorse subito che qualcosa non andava: apparentemente ogni cosa
era al suo solito posto, ma nell’aria stagnava un terribile fetore di marcio. Si sarebbe detto che
l’ufficio fosse stato invaso dai miasmi fetidi d’una palude. Disgustato, il Cavalier Delli Ponti tolse
dal taschino della giacca un fazzoletto di seta e lo portò al naso usandolo come filtro. Dedusse che
si trattava senza dubbio di un guasto all’impianto igienico e s’avviò verso la porta del suo studio;
qui ebbe una nuova sgradita sorpresa perché s’avvide che l’uscio era socchiuso e, se il suo olfatto
non lo tradiva, il tanfo micidiale proveniva proprio dall’interno.
Senza por tempo in mezzo, spalancò la porta ed entrò, dopodiché restò per un lungo minuto
immobile sulla soglia, con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati, a fissare inebetito l’incredibile
scena che si rivelò al suo sguardo e della quale non riusciva in alcun modo a capacitarsi.
Un uomo vecchio ed allampanato, una specie di vagabondo cencioso infagottato in un lercio
pastrano grigio, se ne stava placidamente sdraiato sulla sua poltrona e russava sonoramente
poggiando i piedi calzati con luride scarpacce spaiate sul piano della sua lussuosa scrivania di
mogano.
Come un sonnambulo, il Cavalier Delli Ponti avanzò nella stanza e subito si rese conto che il fetore
mefitico proveniva proprio da quel laido individuo che evidentemente da parecchi mesi aveva
smesso di frequentare la vasca da bagno. Cercando di vincere lo sbigottimento e la repulsione, Delli
Ponti si fece forza e, con una voce che gli suonò curiosamente stridula, gridò: ” Ehi, lei!… Senta un
po’!… Ma si svegli, accidenti!… “
Lo straccione continuò a russare beato; evidentemente aveva il sonno duro.
” Senta, buon uomo!… ” Il tono del Cavaliere si fece ancora più stentoreo; ” Dico a lei!…Voglio
sapere che cosa ci fa nel mio studio privato!… “
Lo sconosciuto si decise finalmente a socchiudere gli occhi; per un attimo levò su dal petto una
faccia segaligna e scura con la fronte nascosta da una frangia di capelli grigi, sudici e talmente
lunghi da arrivare oltre il bordo del colletto; fissò di sbieco il cavaliere e subito ripiombò nel suo
sopore mugugnando: ” No me romper los cojones!… “
” Ma insomma,” strillò l’impresario esasperato; ” Chi diavolo è lei?!… ” Il vecchio sbarrò gli occhi
di colpo e si mise a fissare l’impresario con uno sguardo di ghiaccio che dava i brividi tanto era
saturo di malignità.
” Ohohh, buenos dìas, Don Ilario!… ” Gracchiò in tono sfottente; ” Qué sorpresa tan agradable!… “
Delli Ponti, livido in volto e con le mani tremanti per l’agitazione, puntò un dito minaccioso verso
l’intruso e, sforzandosi di dominare il nervosismo, gli intimò: ” Lei se ne deve andare! Questo è un
ufficio privato. Se non se ne va da solo, sarò costretto a chiamare la questura!… “
” No digas tonterìas, Don Ilario!… “
” E la prego inoltre di rivolgersi a me in italiano!… “
” Perdón, Don Ilario!…Yo ablo poco poco tua lingua. Tu devi tener paciencia!… “
Sfiancato dalla tensione, Delli Ponti s’appoggiò al bracciolo d’una seggiola. ” Ma insomma, si può
sapere chi è lei?… “
L’altro schiuse la bocca in un sorriso ripugnante, mostrando una chiostra di denti rotti: ” Yo soy
Guedè, el nuevo secretario!.. .”
” Ma segretario di chi?!…”
” Ma de Don Andromalius, el nuevo empresario!… “
” Non dica idiozie! Qui c’è un solo impresario e sono io!…”
” Yo no soy mentiroso. Don Ilario, no te des tantos aires: ahora tú estás desocupado! “
Senza più preoccuparsi di reagire, Delli Ponti afferrò la cornetta del telefono che stava sul tavolo e
prese a comporre sulla tastiera il numero d’emergenza della polizia. Di botto la mano gli si arrestò a
metà del numero perché la cornetta non emetteva alcun suono; Delli Ponti ne trasse a sé il cavo e
s’avvide che era stato troncato a metà. Ancora una volta rimase immobile e smarrito, senza sapere
che fare. Poi, di colpo, batté con forza il pugno sul tavolo e strillò con la rabbia della disperazione: ”
Fuori!…Vattene fuori! Lurido, sozzo farabutto!…Te ne devi andare!… “
Senza troppo scomporsi, il losco individuo si stiracchiò pigramente sulla poltrona, emise un rutto
rumoroso ed infine, molto lentamente, si decise ad alzarsi mentre il vecchio impresario lo fissava
strabuzzando gli occhi per la rabbia e la paura.
” Don Ilario, tú estás todo loco, pero yo soy amable e te lo agradezco mucho y espero volver a verte
muy prónto! Me cago en tu madre!… ” Detto questo, lo straccione di nome Guedè raggiunse
l’ampia finestra alle spalle del Cavaliere, la spalancò e con un balzo felino superò il balcone
ritrovandosi ritto sul cornicione del palazzo, in mezzo ad una miriade di piccioni spaventati che
subito spiccarono il volo nel Sole ardente che imperversava sulla piazza sottostante. Come in un
incubo, Delli Ponti udì il disgraziato urlargli: ” Muchos saludos!!! “
Poi, con un’ultima smorfia, si gettò nel vuoto. Il Cavaliere si precipitò alla finestra in tempo per
scorgere una strana esplosione di luce azzurra proprio sotto il cornicione; era sicuro che,
sporgendosi un po’, avrebbe potuto vedere il cadavere spiaccicato sul lastricato trenta metri più
sotto ma, con suo sommo sbalordimento, non vide assolutamente nulla: Guedè pareva essersi
letteralmente volatilizzato nel cielo terso e senza nubi. Mezzo morto per lo spavento, Delli Ponti si
scaraventò nel vestibolo in cerca d’aiuto perché sentiva d’essere prossimo ad uno svenimento;
appena ne ebbe varcata la soglia, percepì qualcosa di grigio saettargli fra le gambe sfrecciando poi
subito via sul pavimento. Il suo sguardo ansioso si fissò sulla moquette: una miriade di piccole
sagome grigie zampettavano senza posa su di essa: erano topi; dozzine di grossi topi di fogna dai
piccoli occhietti famelici che lo fissavano con odio. Spalancò urlando la porta che dava sul
corridoio e cadde letteralmente fra le braccia del suo segretario Ludovico Angustia che proprio in
quel momento stava per bussare.
” Per l’amor del Cielo, Angustia, salvami!…Qui l’inferno si sta scatenando!… “
Piuttosto perplesso, il segretario non seppe far di meglio che balbettare: ” Cavaliere, sono spiacente,
ma i delegati sono irreperibili… Che debbo fare ora?… “
” Lascia perdere i delegati, imbecille, non vedi che siamo invasi dai topi!… E tu dov’eri poco fa,
quando quel matto s’è gettato dalla mia finestra?!… “
La voce querula di Angustia tentò di placare il marasma dell’impresario: “Ma, veramente, qui non
c’è nessun topo!… “
” Come no! Guarda là dentro, fesso che non sei altro!… Sono dozzine!… ” Varcarono assieme la
soglia del vestibolo, ma dei ratti non trovarono nemmeno l’ombra. L’impresario, in evidente stato
confusionale, si lasciò cadere di peso su una seggiola.
” È tutta colpa di questo maledetto caldo!.. ” farfugliò provando una vaga vergogna per essersi
lasciato andare al panico davanti al suo subalterno. ” Ho avuto una serie di allucinazioni
incredibilmente reali!… C’era uno straccione che puzzava come una fogna e parlava in spagnolo:
diceva delle scemenze senza capo ne coda; pensa un po’: secondo lui l’impresario non sarei più io
ma un certo Andromando… Androcefalo!… “
” Andromalius!… ” lo corresse Angustia, sbarrando gli occhi come gli succedeva sempre quando
era agitato. Delli Ponti lo fissò, colto da un’improvvisa apprensione: ” Ma tu come fai a sapere quel
nome?…Lo conosci, forse?… “
” Stanotte, in teatro, i musicisti lo invocavano a gran voce!… Io me ne sono andato perché m’è
parso che le cose prendessero una piega pericolosa ma mentre uscivo li ho sentiti gridare in coro
quel nome: ANDROMALIUS!… ANDROMALIUS… le assicuro, Cavaliere: erano grida da far
accapponare la pelle!… “
” Ma oltre a chiamare ‘sto Andromalius, che altro facevano? “
” Non so; li ho visti soltanto sedersi in cerchio sul palcoscenico vuoto ed iniziare a gridare e
dimenarsi, poi sono subito uscito. Però, quando già scendevo lungo la scalinata dell’ingresso
principale, m’è parso di sentire qualcosa di simile ad un rombo di tuono provenire dal palcoscenico
ed anche delle urla rauche, diverse dalle altre… Parevano i ruggiti di una belva. “
” Tutte scemenze!… ” lo interruppe Delli Ponti, che s’era un po’ calmato e già stava riacquistando
l’abituale alterigia; ” Pure tu sei stato vittima del caldo!… In quanto a quei quattro cialtroni
strimpellatori, ora vado giù io e gli faccio passare per sempre la voglia di fare le ammucchiate
notturne nel mio teatro! “
Quando, circa venti minuti dopo, l’impresario Delli Ponti giunse in teatro e, attraversato il foyer a
passi spediti, varcò la porta della platea la trovò immersa in una fitta oscurità. Soltanto le luci di due
piccoli fari illuminavano il palcoscenico dove qualcuno con della vernice nera aveva disegnato
sull’impiantito un’enorme stella a cinque punte al centro della quale era stato issato un grosso palo
di legno circondato da fascine di rami secchi. Inoltre, dalle profondità del golfo mistico saliva il
velato riverbero livido delle lampade elettriche che illuminavano i leggii degli strumentisti. In un
silenzio di tomba, l’impresario avanzò fino al parapetto della grande fossa orchestrale e quando
guardò giù, ancora una volta si convinse di essere in preda a un’allucinazione dei suoi nervi
stressati: vide infatti i musicisti dell’orchestra, ognuno disciplinatamente seduto al suo posto, ma
tutti assolutamente immobili e muti, con i volti pallidi e segnati dalla fatica della veglia, come colti
da un incantesimo improvviso che li avesse pietrificati. Tentò di farsi notare ostentando qualche
colpo di tosse, ma nessun volto si levò verso di lui ed il silenzio continuò a regnare glaciale. Non
potendo ormai più tirarsi indietro, decise allora di giocare tutte le sue carte. Con tutta l’autorità che
riuscì a trovare nel suo animo già scosso da troppe emozioni, esordì: ” Dunque, ci siete riusciti:
avete fatto la vostra bravata!… Ed io che mi illudevo di avere a che fare con dei professionisti seri!
Spero saprete fornirmi almeno delle spiegazioni convincenti prima di costringermi a licenziarvi tutti
in blocco. Col vostro gesto insensato avete infangato il prestigio del nostro amato teatro ed ora…”
Proprio in quell’attimo, fra le luci spettrali dei leggii, un ignoto musicista s’alzò in piedi e lo
apostrofò con una voce resa aspra dal rancore: ” Tu!…Tu solo hai infangato il prestigio del teatro!
…“
Colto di sorpresa, Delli Ponti non riuscì a trovare una replica efficace; si limitò a balbettare: ” Come
puoi dire questo! Senza di me non siete niente!… Io vi conosco tutti, così come conosco la vostra
mediocrità: non valete uno zero! Siete vecchi ed imbolsiti. Dovreste essermi grati se, nonostante
tutto, vi concedo ancora di guadagnarvi il pane che non meritate!… “
Su dall’orchestra si levò un mormorio di protesta; qualcuno, dal fondo, si levò a gridare:
“Affamatore!… Schiavista!…”
Il musicista riuscì a ripristinare il silenzio, quindi si rivolse nuovamente all’impresario in tono duro
e sferzante: ” Per cinque lustri siamo stati amministrati da molti impresari del tuo stampo: gente
senza scrupoli che ci ha sfruttato fino all’osso, mortificando ogni nostra attesa musicale,
condannandoci senza riguardi a macerarci nella noia infinita di insulse opere sconosciute,
lasciandoci umiliare da direttori arroganti ed incapaci, mandandoci allo sbaraglio in concerti
preparati troppo in fretta. Fra tutti costoro, tu sei stato comunque il peggiore! Con la tua becera
dittatura, con la tua incapacità congenita e la tua totale ignoranza di cose musicali, sei riuscito là
dove gli altri avevano fallito: per colpa tua, il teatro in cui per vent’anni abbiamo lavorato è ormai al
limite del fallimento. Stando così le cose, stanotte abbiamo provveduto a contattare un nuovo
impresario che ci ha garantito di riportare il teatro ai fasti d’un tempo e per quel che ci riguarda tu
non rappresenti più niente. Sei finito! Non potrai fare altri danni!… “
A questo punto, vedendosi scoperto, Delli Ponti decise di tentare il gioco duro: sbottò dapprima in
una risata plateale e poi, con velenoso sarcasmo, chiese: ” E dove lo troverete un altro impresario
che si prenda la briga di badare a questo schifo di teatro di provincia?!… Dove sta, che lo voglio
conoscere, questo paladino degli oppressi?!… “
Senza scomporsi, l’orchestrale gli rispose: ” Sta proprio dietro di te; voltati e vedrai Andromalius,
giunto qui dalla contrada chiamata Gheenna; Signore di 99 Legioni e responsabile musicale della
Regione Infera. Sarà lui il nostro nuovo impresario! “
Perplesso, il Cavaliere sentì dietro di sé dei passi felpati che s’avvicinavano mentre dal fondo della
buia platea una voce bassa e roca salmodiava dei versi enigmatici: ” È furiosa la figlia di Anu, è
furiosa! Su dalle forre della Notte si leva il suo clamore! In nome dell’Oscurità io sono venuto a
voi; io, l’Angelo Nero della cupa melodia! 666 è il mio numero. Nelle profondità dell’abisso sono
666. Obbedite alle Tenebre!… Io sono 666… “
Come soggiogato da una formidabile forza magnetica, il Cavalier Delli Ponti non poté fare a meno
di voltarsi e si trovò dinanzi un uomo alto e pallido ravvolto in un ampio mantello nero.
Andromalius gli pose entrambe le mani sulle spalle e l’ex impresario si ritrovò suo malgrado in
ginocchio davanti a quell’essere di cui non osava sostenere lo sguardo. La voce sussurrante del
demone gli chiese: ” Sei pronto per il sacrificio?… “
Prossimo ormai ad un collasso nervoso, con le guance rigate da lacrime di disperazione, Delli Ponti
riuscì appena a mormorare: ” Quale sacrificio?…Io non capisco!…Per piacere, non fatemi del male!
…“
” I musicisti mi hanno evocato, ma perché io possa compiere la mia opera a loro favore è necessario
un sacrificio umano; questa è la legge antica! Loro hanno designato te come vittima predestinata!…
“
Non vi fu risposta perché a questo punto il Cavalier Delli Ponti era già crollato con la faccia a terra
privo di sensi. Alcuni musicisti salirono in platea e provvidero a trasportarlo sul palcoscenico dove
fu legato saldamente al palo dentro il pentacolo e ricoperto con fascine di rami secchi. Subito dopo
arrivò qualcuno con una scatola di fiammiferi ed una tanica di benzina.
*
Recentemente ho assistito ad alcune rappresentazioni liriche veramente grandiose al vecchio Teatro
Comunale. Non c’è che dire; da quando la gestione è cambiata, la qualità degli spettacoli è
migliorata in modo sbalorditivo.
Se non ricordo male, la prima serata della stagione autunnale è stata inaugurata col Mefistofele di
Boito: una vera apoteosi.
La dichiarazione d’amore
Vi sono giorni in cui i demoni della desolazione imperversano sul mondo e corrono col vento per le
strade delle città, fomentando l’arroganza ed i soprusi dei protervi. In altri giorni, per ignoti
meccanismi astrali, appaiono fra gli umani i demoni della collera, assai più pericolosi e spesso
mortali. Il Maestro Domenico Sangallo, anima semplice, in tutto l’arco della sua lunga vita non
aveva mai neanche sospettato l’esistenza di queste letali presenze metafisiche e ne era quindi stato
spesso la vittima inconsapevole.
Le divinità infuriate prediligono i mesi estivi, quando l’afa soffocante rende gli umani predisposti a
cadere nelle loro trappole.
Appunto in una serena mattina di luglio, il vecchio Sangallo si destò da un sonno irrequieto senza
minimamente presagire le insidie che lo attendevano. Uomo scettico, pragmatico e vitalista fino
all’eccesso, si levò di scatto dal letto con un’esclamazione compiaciuta:
“All’opre feconde!…”
S’aspettava che a questo suo retorico grido, qualche uccello canterino rispondesse con un trillo
suadente ma, da oltre i vetri della finestra, nella pura luce del primo mattino, non percepì che un
silenzio quasi irreale.
I demoni o spiriti malevoli in questione, usano sistemi assai subdoli per condurre le vittime
predestinate ad un insostenibile livello di esasperazione. Abitualmente, gli strumenti meccanici e le
situazioni in generale cominciano a non funzionare o funzionano in modo distorto. Il primo
aggeggio che si inceppò fu il rasoio elettrico e proprio nel bel mezzo della rasatura mattutina,
cosicché Sangallo si ritrovò con una guancia rasata e l’altra ancora irta di peli, tentando inutilmente
di riavviare il rasoio riottoso.
Nei tempi lontani della sua gioventù, spesso veniva rimproverato per il suo carattere intollerante
che, comunque, egli riteneva d’aver ammansito con la saggezza dell’età.
La stizza per quel noioso incidente ravvivò di colpo l’aggressività sopita ed egli prese ad imprecare
a bassa voce:
“ Ma guarda che razza di trappola, Marianna porcona!… E porco qua e porco là!…”
Il suo disappunto era in fondo giustificato dato che proprio quella mattina contava di far visita ad
una dama assai avvenente che, di tanto in tanto, apriva il suo salotto ad una cerchia esclusiva di
persone raffinate. Da alcuni mesi il Sangallo era perdutamente invaghito della bella signora e
contava appunto quel giorno di recarsi da lei per dichiararle i propri sentimenti. Ovviamente,
presentandosi in quelle condizioni grottesche, con mezza faccia sbarbata e mezza irsuta, avrebbe
fatto una figura ben meschina.
Comunque, determinato a non lasciar spazio allo sgomento, subito si ricompose dichiarando a voce
alta:
“Andrò dal barbiere! ”
Finì di vestirsi in fretta e scese in strada a cercare la sua modesta ma dignitosa utilitaria. La trovò
tempestata di guano d’uccello. Uno stormo di colombi si era accanito a sfregiarla con una solerzia
quasi ossessiva. Sangallo riprese a mugugnare imprecazioni, stavolta a bassa voce, per non farsi
udire dai passanti che avrebbero potuto scambiarlo per uno zotico.
“ Porcaccia la Marianna beduina!… Ma guarda che razza di schifezza!… Proprio sulla mia
dovevano sfogarsi quelle bestiacce fetenti!…”
Infastidito e visibilmente alterato, aprì lo sportello e si mise al volante. Accese il motore e la
macchina si mise in moto con notevole difficoltà. Manovrò per uscire dal parcheggio e, proprio in
quel momento, un giovanotto svagato gli saettò davanti in sella alla sua moto. Sangallo frenò di
colpo evitandolo per un soffio. Il motore si spense bruscamente e la spia dell’impianto elettrico
prese a lampeggiare.
Sangallo, sempre più livido e teso, proruppe in una bestemmia irripetibile. Senza neanche
rendersene conto, prese a tempestare di pugni il volante digrignando i denti e grugnendo come un
cinghiale braccato. Cercò immantinente di riprendere il controllo:
“Calmo!… Io sono calmo come la iena che s’apposta per l’agguato!… Niente e nessuno può
scalfire la mia calma ferrea!…”
Perse una decina di minuti a suggestionarsi con altre affermazioni del tipo:
“Sono inossidabile come una baionetta inglese, inattaccabile ed infallibile come uno squalo del Mar
Rosso!…”
Poi riavviò il motore e la vettura rimase inerte e silenziosa. Sangallo girò e rigirò la chiavetta
dell’accensione, ma pareva proprio che la sua sfortunata vettura avesse ormai esalato l’ultimo
respiro. Uscì dall’abitacolo e s’incamminò a piedi, diretto verso la bottega del barbiere.
Camminando, non poteva evitare di roteare gli occhi lanciando occhiate belluine all’intorno. I
passanti che lo incrociavano, restavano a fissarlo perplessi. Il negozio del barbiere distava circa tre
isolati: il furibondo Domenico lo raggiunse in una ventina di minuti a passi veloci, spintonando
senza scrupoli chi gli si parava dinnanzi. Giunse finalmente davanti alla bottega e un moto di
sgomento gli si dipinse sul volto: sulla saracinesca abbassata spiccava un cartellino scritto a mano:
Chiuso al mattino per terapie al ginocchio
Vi era quasi un compiacimento diabolico in quella semplice frase vergata con apparente
noncuranza. Ma quali terapie?!… Lo sanno tutti che le terapie non servono ad un cavolo! Se
quell’imbecille aveva il ginocchio della lavandaia, avrebbe fatto meglio a tenerselo e a proseguire
col solito orario senza fare tante storie. E poi, proprio quella mattina aveva scelto per farsi le
terapie! Non poteva aspettare il giorno dopo? Non poteva farsi amputare la gamba che, tanto, per il
suo mestiere non era prettamente indispensabile? Non poteva farsele amputare entrambe così da
restare in permanenza nel negozio per essere disponibile in casi d’emergenza come il suo?! Niente!
Quell’impiastro doveva farsi le terapie e lo lasciava solo nel momento più drammatico della sua
vita. Cosa avrebbe detto la marchesa Fanny vedendolo apparire con la faccia sconciata in quel
modo? Si sarebbe fatta una risata; anzi, si sarebbe sbellicata dalle risate, e tutta la paziente opera di
seduzione portata avanti per svariati mesi sarebbe crollata come un castello di carte per colpa di
quel fesso e del suo ginocchio della lavandaia!
Sempre più stravolto, Sangallo trasse dal taschino l’orologio per controllare l’ora: le dieci e mezza.
Alle undici aveva fissato l’appuntamento in casa della marchesa. Ed ella abitava nel quartiere dei
benestanti, quasi all’altro capo della città. Urgeva una decisione. Rinunciare?… Impossibile! La
faccenda andava risolta al più presto: Sangallo non poteva ancora protrarre gli indugi portando
avanti quel penoso stato di prostrazione in cui era caduto a causa del suo innamoramento.
Bisognava dichiararsi ed in un modo inequivocabile per poter finalmente uscire dai tormenti e dalle
ansie in cui si dibatteva. Non c’era un minuto da perdere! La marchesa era una donna di mondo e
non si sarebbe formalizzata per il suo aspetto bizzarro; più tardi, nell’intimità, dopo essersi liberato
della gravosa incombenza della dichiarazione, avrebbe potuto spiegare con calma le cause banali
della sua trascuratezza. Benché non più giovanissimo, Sangallo aveva ancora le gambe salde.
Troncando di netto ogni indugio com’era tipico della sua indole pragmatica, s’avviò a passo svelto
verso la dimora di Fanny.
Fu una traversata epica a passi falcati, senza quasi il tempo di respirare. Forse Sangallo aveva un
po’ sopravvalutato le sue energie. Giunse al portone della marchesa quasi schiantato dalla folle
camminata. Boccheggiando e con la vista appannata, riuscì infine a suonare il campanello.
Dal citofono si levò una voce bassa e compassata che chiese:
“Chi è?…”
Asciugandosi la fronte sudata con un fazzoletto, Domenico riuscì a farfugliare:
“ Sono Sangallo!… Ho un appuntamento!…”
“Chi?!…”
“Sangallo!…Porca Marianna!… Sono Domenico Sangallo!… La marchesa m’aspetta!…”
“Va bene, entri pure. Guardi che l’ascensore è rotto.”
Udendo quell’ultima e fatidica frase, il disgraziato Domenico fu ad un passo dal tracollo psicofisico.
Con un moto disperato s’aggrappò alla maniglia del portone perché sentiva le ginocchia piegarsi per
lo sfinimento e la tensione. Il portone s’aprì con uno scatto e Sangallo trovò comunque la forza di
entrare nell’androne semibuio.
Vide la tromba delle scale che gli apparve inaccessibile e minacciosa come una vetta inviolata e fu
sul punto di piangere per la disperazione. La solita voce grave e neutra, da un’altezza indefinita lo
rampognò:
“Si sbrighi! La marchesa sta per uscire! ”
Sta per uscire?!… Ma come?! Io quasi mi faccio venire un infarto per essere puntuale e quella
vuole uscire!…
In ogni caso, il dado era ormai tratto e bisognava andare fino in fondo anche se a questo punto
Sangallo aveva una gran voglia di mandare a quel paese la marchesa assieme al barbiere, ai piccioni
bombardieri, ai rasoi difettosi e a tutti i dannatissimi accidenti di quella infausta mattinata.
Cinque piani a piedi: senza quasi respirare, ma ce la fece. Sulla porta dell’appartamento lo aspettava
Ubaldo, il sussiegoso domestico della Fanny. Si sa, i nobili sono attaccati alle tradizioni con
un’ostinazione quasi maniacale, e la marchesa Fanny ci teneva ad avere in casa quella specie di
beccamorto in marsina che, grazie alla sua faccia pallida ed inespressiva, dava all’ambiente un
tocco di ancien régime assai pittoresco. Sangallo non lo poteva soffrire avendo l’impressione che
quel baccalà dai modi affettati lo scrutasse di continuo con malcelato disprezzo.
Comunque, in quel preciso frangente Sangallo non era nelle condizioni di disquisire sui modi di
Ubaldo; in pratica si scaraventò letteralmente oltre la porta d’ingresso per poi crollare distrutto su
un divano.
“La vedo sconvolto!…”
“Ma no, sono solo un po’ provato per scale! ”
“ Lei sta sudando! ” continuò l’altro con un tono che a Sangallo parve sarcastico.
“ Sto benissimo! Mi annunci alla marchesa!… Ho un appuntamento.”
“Come vuole, ma dovrà attendere. A causa del suo ritardo la signora era già sul punto d’uscire. La
signora non ama aspettare.”
Andate ad impiccarvi, tu e la signora!
Uscito il sinistro cameriere, Sangallo, finalmente solo, prese a rimuginare pensieri sempre più tetri.
L’ora delle decisioni irrevocabili era dunque scoccata. Il suo futuro, le sue speranze erano tutte là,
oltre la soglia del salotto che fra poco avrebbe oltrepassato. Il cammino della sua vita era ormai ad
un bivio; non doveva, non poteva fallire.
Ma cosa le dirò?… Come troverò le parole?…
Il suo demone interiore riprese a pungolarlo:
Devo! Devo riuscire a convincerla! Ella è il faro che illuminerà i miei ultimi anni. Quella creatura
così dolce, affabile e sensibile. Ella mi ama, lo so per certo!…
Nel frattempo i minuti passavano lenti come secoli e la porta del salotto non s’apriva.
Sangallo prese ad agitarsi sul divano in preda ad una smania ansiosa; cominciò a torcersi le mani ed
a mangiarsi le unghie, ormai senza più controllo sul suo delirio interiore.
L’eternità passò sulla testa di Sangallo sconvolto da un’ansia indicibile. Ma anche l’eternità ha una
fine e quando l’uscio maledetto del salotto finalmente si aprì, sulla soglia apparve il malevolo
Ubaldo che agli occhi di Domenico sembrò quasi un messaggero dell’Aldilà. Il domestico disse
soltanto:
“S’accomodi!…”
Niente di più e niente di meno, ma quell’unica parola risuonò nelle orecchie di Sangallo come una
sentenza. S’avanzò con le gambe che tremavano, e la luce del salotto inondato dal sole di
mezzogiorno quasi lo accecò. Fanny, una bella donna di mezza età dal portamento aristocratico, si
volse verso di lui ed esclamò:
“ Finalmente si è deciso!…”
Il tono della marchesa era di distratta noncuranza, ma Sangallo non se ne rese conto.
“Dunque, di cosa doveva parlarmi con tanta urgenza?…”
Sangallo provava un curioso cerchio alla testa; tentò di rispondere e lui stesso si stupì del tono
insolitamente acuto della propria voce:
“ Io!…”
“Sì, voi?…”
Fanny sembrava quasi divertita nel vederlo in quello stato.
“Io ardo!…”
“Si vede! Siete tutto rosso in faccia e sudato! ”
“ Ma no!…Intendevo dire che io ardo!…”
“Ho capito.”
La Voce di Sangallo gli uscì dalla gola come una sorta di gemito querulo:
“Io ardo d’amore per voi!…”
Fanny rimase per un momento perplessa poi, con studiata lentezza, s’affacciò alla porta e chiamò:
“Ubaldo!…”
Riapparve il domestico ed a Sangallo sembrò che trattenesse a stento un ghigno satanico. Fanny
fissò il suo spasimante con uno sguardo freddo come una lama di rasoio e quindi, rivolta al servo
ghignante, sussurrò gelidamente:
“Ubaldo, porta al signore un bicchiere d’acqua gelata! Non vedi come arde?!…”
Nella calura opprimente di quell’afosa giornata di luglio, chi si trovò a passare nei pressi della
lussuosa dimora della marchesa Fanny certo non poté evitare di notare un curioso individuo che
vagava senza meta strabuzzando gli occhi e balbettando frasi sconnesse. Pare che, verso sera,
qualche anima pietosa abbia informato chi di dovere.
Giunse un’ambulanza e il disgraziato vi fu caricato a viva forza. Quattro robusti infermieri
dovettero provvedere al penoso incarico poiché l’individuo scalciava e si dimenava come un
ossesso, sbraitando ingiurie e maledizioni.
Paolo Fiorino
Libia, 1941
Era una maledetta giornata in un deserto infernale e lui era agonizzante, intrappolato in un groviglio
d’acciaio rovente che bruciava, nel bel mezzo di uno scontro tra corazzati. Del modesto carro Fiat
M13 che aveva lanciato all’attacco sulle dune che circondavano Bengasi ormai era rimasta solo
qualche tonnellata d’acciaio contorto, fuoco, sangue, fumo e rabbia, tanta rabbia per l’entusiasmo
con cui si era lanciato in quella guerra, per le bugie del Duce che li mandava a morire senza
equipaggiamenti adeguati, per le centinaia di cose che avrebbe potuto fare se la sua vita non avesse
preso quella piega inaspettata. Con uno sforzo sovrumano si sollevò di quel tanto che bastava a
gettare lo sguardo oltre lo squarcio nella corazza aperto dalla granata del Matilda che aveva centrato
il suo carro e ucciso i suoi compagni. Lo vide, tra il fumo denso del carburante che bruciava. Il tank
inglese era ancora lì, a pochi metri da lui, e ruotava la volata, indeciso se dare il colpo di grazia
all’avversario agonizzante o risparmiare un proiettile per un uso migliore. Dopo qualche secondo il
carro nemico arretrò.
- Maledetto! Mi lascia qui a morire – pensò, con delusione.
Un brontolio profondo richiamò la sua attenzione. Non poteva vederli, immobilizzato com’era, ma
sentiva distintamente i motori di molti altri carri armati che si avvicinavano.
- Amici o nemici? – si domandò.
L’incendio divampava attorno a lui, il calore era diventato quasi insopportabile. La gola e gli occhi
gli bruciavano per il fumo. Il fuoco avanzava rapidamente, come un predatore in cerca della sua
vittima, e tra pochi istanti lo avrebbe avviluppato. Era la fine.
- Amici o nemici? – Si chiese di nuovo, tentando di ignorare il dolore atroce delle fiamme che
cominciavano a consumare le sue carni. Ormai non aveva più importanza. Allungò la mano verso il
detonatore della granata, staccò la linguetta e sganciò la sicura. Pochi istanti ancora e il dolore
sarebbe cessato. Ormai c’era rimasta solo la rabbia.
Angelo Francesco Anfuso
Misera Fiamma
Sfiorami con la Tua fiamma,
Riscaldami il cuore,
inebriami di passione.
Sii il mio dovuto sostegno.
Tienimi stretto,
prendimi per mano.
O Fiamma,
non lasciarmi, non spegnarti…
Il mio è un grido disperato,
cosa mai potrò fare?
Solo il tuo calore, io desidero.
Perché è così difficile pretenderti, sfiorarti, o toccarti.
Ma Tu non mi ascolti.
O forse fai finta….
O forse hai paura…
Io ti vedo, ti sento,
ma tu, nemmeno mi degni di uno sguardo,
Sono misero, sono povero,
non ho nulla se non un cuore malato,
che terge lacrime,
alla vista di una fiamma,
che Tu per meritato sbaglio mi donasti.
L’hai accesa in me,
ma alla fine,
hai avuto paura di alimentarla.
Non sono degno di nulla,
ma sono solo sicuro
che nel mio cuore non c’è una fiamma,
ma un nobile Focolare d’Amore.
Rossana Roxie Lozzio
Tu e il fuoco
Guardo le fiamme ardere e bruciare, all’interno del caminetto acceso e mi perdo nel loro colore
caldo e intenso, concentrandomi sul delizioso rumore che produce il loro crepitio. Non posso fare a
meno di pensare al giorno in cui ti ho colto intento a fare altrettanto e non sono più riuscita a
spostare lo sguardo da te… non avevo notato nulla di quanto mi sta affascinando in questo
momento, probabilmente perché niente è per me più attraente ed intrigante di te.
Torno a fissare il fuoco e mi rendo conto che paragonarlo a te può essere più semplice di quanto non
sembrerebbe. Il fuoco è caldo, colorato, magico e vitale ed è in grado di trasmettere passione,
esattamente come te ed è così che, come per incanto, riesco a sentirmi se soltanto ho la possibilità di
restare ad osservarti.
Quel giorno, entrando in questo stesso ristorante, potevo aspettarmi qualunque cosa ma non di
incontrarti e ricordo perfettamente che, varcando la soglia di questa sala che è caratterizzata proprio
dal caminetto al quale sono ancora di fronte, per poco non temetti di essere vittima di
un’allucinazione. Tu eri lì, immobile e solo, ad osservare il fuoco acceso che crepitava e che
giocava sul nero lucido dei tuoi capelli, proiettando luci ed ombre che nemmeno il più talentuoso
pittore avrebbe potuto rappresentare in un quadro. D’altra parte, sei un capolavoro! Rasenti la
perfezione, la tua è una bellezza che sembra dipinta e che soltanto un Dio capace e onnipotente
avrebbe potuto rendere reale.
Pensai che non potevo essere così fortunata e che quello stesso Dio che ti ha creato non poteva
essere stato anche tanto magnanimo da averti posto sulla mia strada, regalandomi un’occasione per
godere della tua bellezza da vicino! L’ho colta al volto, approfittandone per rimanere a guardarti,
alle tue spalle, mentre non sembravi avere occhi per nient’altro che quel fuoco che sembrava averti
attratto e ipnotizzato, con la stessa forza con la quale saresti riuscito a fare se soltanto li avessi
posati sul mio viso!
Torno a guardarlo, quel fuoco ignaro di avere avuto la fortuna che vorrei toccasse in sorte a me… è
stato così abile da indurti in tentazione e ti ha avviluppato, risultando attraente al punto da catturare
la tua completa attenzione. Impagabile, la tua espressione, mentre eri perso di fronte alle sfumature
di quel rosso vivace e cosa avrei dato per poter intuire il corso dei pensieri nascosti dietro a quello
sguardo malinconico che portavi disegnato sul volto!
Sospiro, mentre ricomincio a mettervi a confronto e comprendo che siete simili e che simile, è
l’effetto che producete su di me ma rabbrividisco, perché avverto il freddo penetrarmi la pelle e
raggiungermi l’anima, adesso che vedo abbassarsi le fiamme che rischiano di spegnersi ed è la
stessa sensazione che mi accompagna da quell’attimo fuggente che non sono stata in grado di
cogliere. Ti ho lasciato andare via, mi sei passato accanto e mi sono incapricciata anche del tuo
passo sicuro ed intrigante, concedendomi soltanto il lusso di rimetterti al centro dei miei pensieri o
del cuore, lì dove sei da sempre e dove resterai, per sempre.
Tutti i colori delle emozioni
Nel frattempo è iniziata la settimana dedicata ai colori delle emozioni. Voglio subito precisare che
lo schema, sottoposto di seguito, serve solo a titolo indicativo, giusto per darvi qualche idea e per
aiutare chi di voi si trova a corto di ispirazione. Tuttavia non vi ancorate allo schema stesso, NON è
VINCOLANTE in nessun modo. Ognuno deve potersi sentire libero di esprimere a modo proprio il
significato di un colore abbinato a un’emozione, anche se dovesse essere l’unica voce fuori dal
coro.
Rossana Roxie Lozzio
Arcobaleno
Se soltanto potessi odiarti per essere riuscita là dove nemmeno lontanamente sarei mai stata capace
di arrivare… se soltanto potessi provare rabbia, invidia o sentimenti negativi, per te, che sei entrata
nella sua vita e ne hai carpito il cuore, fino a indurlo a chiedersi se mai avrebbe più potuto fare a
meno di te!
Invece, ti sono grata per essere al suo fianco, per averlo reso padre, per avergli regalato gioia,
sentimenti, stabilità… perché evidentemente sei la donna giusta per un uomo tanto speciale ed
essere sua moglie, contribuisce a fare sì che possa continuare ad apparire tale e che questa
meraviglia possa riflettersi su chi gli gravita attorno.
Guardo nei tuoi occhi e indago dietro al tuo sorriso, intravvedendo tutti i colori dell’arcobaleno che
sono in lui, donna fortunata…
Rosso, come l’amore e la passione che vi avrà legati durante i primi anni della vostra relazione, di
tutta l’energia che emana…
Arancione, come il desiderio che continuo ad avere di passare le mani fra i suoi capelli, di
accarezzarne la pelle, di carpirne sensazioni ed emozioni…
Giallo, come il suo colore preferito e che, come lui e come il sole, ci fa pensare alla luce, ad
un’energia positiva, al calore…
Verde, come la speranza che ho nutrito per anni di poter condividere almeno un’ora della mia vita
insieme a lui e come l’equilibrio, quello che invece avrete costruito nella vostra relazione…
Azzurro, come il cielo e come l’acqua del mare che ho sempre scorto nei suoi occhi scuri e
profondi, immaginando di potermici specchiare…
Indaco, come la spiritualità che avrei potuto portare nella sua vita, contrapponendola alla sua
vivacità e a quella sana follia che me lo ha fatto amare da subito…
Infine, viola, come la nobiltà di quella sua anima inquieta ma sincera che lo induce a dire sempre
quello che pensa, anche quando questo lo può rendere scomodo…
E così, donna fortunata, tu hai lui e godi del suo arcobaleno, della sua magia, delle sue mani!
Tu ti svegli al suo fianco e sai come appare al mattino e sempre tu, sai cosa lo fa soffrire e puoi
asciugare le sue lacrime, quando eventualmente dovessero scivolare da quegli occhi scuri e profondi
che me ne hanno fatto innamorare, insieme alla sua voce.
La stessa voce che ti ha detto quanto non gli sentirò mai dire, nemmeno per gioco… ti amo.
Giallo girasole
Non mi aspettavo di trovarlo, non qui, non in questa piazza grigia ed adibita a parcheggio ed ora che
ci penso bene, adatta al mio umore malinconico di oggi.
Invece è lì, si erge nella sua ineguagliabile bellezza, cresciuto in quella poca terra all’interno di uno
spazio minimo che attornia la palazzina sede degli uffici pubblici nei quali mi sto per recare e pare
osservarmi, fiero, bellissimo, aperto e direzionato verso il sole che sembra sempre cercare, al punto
da avere indotto qualcuno a fargli avere in sorte quel nome che ti induce ad amarlo
immediatamente: girasole.
E’ un unico fiore ma è alto, impettito e splendido, così perfetto e magico da darti la netta
impressione che, anche nella landa più desolata al mondo, possa nascere e resistere qualcosa di
tanto naturale ed energico.
Mi fermo a guardarlo, ne sono attratta al punto da non poterne fare a meno e chissà perché – forse
perché mi accade quotidianamente, abitudine adottata da quando ti conosco – mi sorge spontaneo
paragonarlo a te.
A te che ne ami il colore, il giallo e che, come lui, sei attratto da tutto ciò che è solare e
probabilmente, ignori di rappresentarne l’essenza… sei luce, calore, rappresenti ciò che il sole
rappresenta per la terra.
Sei vita.
Sei tutta la mia vita.
Il primo bacio che sconvolge, estratto da “Fino alla fine”
Varcò la soglia del salone, accompagnata dalle note di una delle canzoni più famose del repertorio
di Daniel Weston e si compiacque di poterla ascoltare, grazie alle vetrate aperte sulla terrazza.
Raggiunse velocemente la poltrona sulla quale ricordava di aver lasciato lo scialle e sorrise,
accorgendosi che era ancora lì, quindi lo raccolse e se lo posò intorno alle spalle, attirata all’esterno
dalla musica che conosceva bene e che amava particolarmente.
“Ciao…”. La sua voce le giunse da dietro, qualche istante più tardi, emozionandola come la
canzone che l’aveva indotta ad uscire in terrazza.
Amber Rose raccolse del fiato, sforzandosi di assumere un atteggiamento che potesse essere
adeguato alla situazione ed augurandosi di apparire tranquilla, si girò, dipingendosi un sorriso sulle
labbra. “Ciao!”. Lo salutò, scoprendolo più attraente che mai ed incapace di capire se fosse per
l’abito che indossava e che gli donava moltissimo o piuttosto, semplicemente, per la bellezza del
suo volto. “Non ti avevo visto, credevo di essere sola…”.
“In effetti, lo eri… ero nei pressi della villa, quando ti ho vista arrivare e così, ti ho seguita”. Le
rivelò, riuscendo a sconvolgerla.
“Avevo freddo, c’è un’aria pungente e sono venuta a recuperare questo…”. Si giustificò, indicando
lo scialle, imbarazzata per il modo in cui la stava fissando. “Poi, ho sentito questa canzone e dato
che l’amo molto, sono uscita per non perderla…”.
“Daniel è straordinario”. Convenne, Matteo, pacatamente. “Il tuo abito è davvero bello…”.
Aggiunse, accarezzandola con quello sguardo inedito che la mise in allarme.
“E’ della Collezione MAGGIE…”. Affermò, sempre più a disagio, dandosi della stupida per non
essere in grado di gestire la situazione. “Come mai, Elisa non è con te?”. Domandò, tentando di
mantenere una certa freddezza.
Lui le si affiancò, posando le mani intorno alla ringhiera della balconata e guardando verso il palco
illuminato, al centro del parco, sul quale si stavano esibendo Daniel e Kevin. “Elisa si trova in
Olanda”. Rispose, interrogando se stesso circa l’istinto che lo aveva indotto a seguirla nella villa e
che lo stava facendo agire piuttosto sconsideratamente. “Ma ti sorprenderà, sapere che è stato
Simon ad insistere affinché partecipassi ugualmente a questa splendida festa…”.
“Simon?”. Ripeté, perplessa.
“Già…”. Annuì, abbozzando un sorriso. “E nonostante tutto, non si è ricordato di dirmi che la sua
compagna saresti stata tu…”.
“Forse, non lo ha ritenuto importante… non credi?”. Replicò, stringendosi nello scialle, scossa da
brividi che non erano più causati unicamente dall’aria fresca della notte.
“Non abbastanza, vuoi dire?”. Le chiese. “State molto bene, insieme…”. La provocò, accorgendosi
che stava tremando. “Almeno, in apparenza… ti ho già detto come la penso, in proposito”.
“Me lo ricordo…”. Assentì, emettendo un leggero sospiro.
Matteo si tolse la giacca, girandosi per posargliela sulle spalle, sorprendendola favorevolmente.
“Hai ancora freddo…”. Osservò, sfiorandole le braccia con le mani per lasciarle scivolare
lentamente, costringendola a sussultare.
“Tu e Simon avete parlato di me?”. Gli chiese, temendo che l’attore avesse rotto il loro patto e che
gli avesse raccontato l’episodio al quale aveva assistito, quel pomeriggio nel parco e per cui
avevano stretto l’accordo che aveva incluso la sua partecipazione al suo fianco alla festa.
“Avremmo dovuto?”. Matteo la guardò, perplesso.
“E’ che hai uno strano modo di comportarti…”. Rispose, senza trovare il coraggio di guardarlo.
“Credevo di conoscerti abbastanza da poter escludere che Simon fosse il tuo tipo…”. Dichiarò,
sollevando le spalle.
“Non esiste l’uomo ideale!”. Ribatté, improvvisando un sorriso che, involontariamente, finì per
provocarlo.
“Allora, auguri, miss Hamill…”. Ironizzò, accingendosi a lasciarla.
Amber Rose trattenne il respiro e chiuse gli occhi per un istante, prima di voltarsi per restituirgli la
giacca. I loro occhi s’incontrarono, perché lo scorse a pochi passi di distanza, immobile.
“Dimentichi questa…”. Mormorò, facendosela scivolare lungo le braccia, avvertendo il profumo
dell’uomo e sforzandosi di continuare a fingersi interessata a Simon Weston, nonostante desiderasse
negarlo.
“C’è qualcosa che non mi convince…”. Matteo indagò nei suoi occhi, mentre gli porgeva
l’indumento, senza muoversi di un solo centimetro.
“E’ un problema tuo…”. Replicò, attendendo che si decidesse a prendere la giacca e mantenendola
sollevata in sua direzione con la mano.
“D’accordo…”. Annuì, serissimo, avvertendo un’energia che lo spinse a smettere di tollerare
quell’atteggiamento arrogante che non apparteneva alla ragazza che aveva frequentato fino a
qualche mese prima. Percorse il breve tratto che li separava e finse di riprendere ciò che gli stava
porgendo, quindi le afferrò la mano ed Amber Rose trasalì, lasciando cadere la giacca sul
pavimento. “Sei a caccia di emozioni forti?”. Le chiese, attirandola bruscamente a sé e cingendole
la vita con la mano libera.
Completamente ostaggio dei suoi occhi, non si mosse per tentare di sciogliersi da quella presa,
diversa dagli abbracci che l’avevano preceduta e decisamente sconvolgente, quindi gli permise di
accarezzarla e lasciò che le passasse entrambe le mani fra i capelli.
“Scusa…”. Matteo sembrò recuperare il controllo altrettanto in fretta, mentre lei lo aveva quasi
perso del tutto, confondendola maggiormente. “Ti prego, scusami…”. Mormorò, accorgendosi di
avere esagerato e prendendole il viso fra le mani, l’attirò a sé per abbracciarla. “E’ che sei così
provocante, stasera…”. Aggiunse, inebriato dalla sensazione dei loro corpi abbandonati e
decisamente pronti a regalarsi emozioni che desiderava vivere. “O forse, sono io che…”.
“Puoi farlo”. Amber Rose lo sconvolse, pronunciando quelle parole che non si pentì di avere appena
usato.
Matteo le allontanò il viso dal petto, con le stesse mani che ve lo avevano condotto un attimo prima,
scorgendovi una luce che lo appagò. “Che cosa?”. Le chiese, scrutando attentamente nei suoi occhi.
“Puoi baciarmi…”. Dichiarò, trovando un coraggio che le avrebbe permesso di andare oltre,
improvviso come era stato il modo in cui l’aveva attirata a sé prima di chiederle scusa. Ma lei non
voleva che le porgesse delle scuse… lo guardò e si rese conto che aveva solo voglia di confessargli
che lo amava. Che lo aveva amato dalla prima volta che lo aveva visto e che lo avrebbe amato fino
alla fine dei suoi giorni.
“Stai scherzando…”. Mormorò, sicuro del contrario.
“Se lo vuoi, puoi baciarmi”. Ripeté, regalandogli un piacevole senso di appagamento che non lo
avrebbe più abbandonato. “Altrimenti, lasciami andare… e fallo adesso, Matteo. Così dimenticherai
quello che è successo…”.
“Certo che lo voglio, Amber Rose…”. Le disse, scoprendosene infinitamente attratto e colpito dal
modo in cui gli stava offrendo quel bacio.
“Allora, fallo…”. Ribadì, mentre si chinava per avvicinare i loro visi, senza smettere di guardarla
negli occhi.
Matteo posò le labbra sulle sue, lentamente, trovandole dischiuse, quindi cominciò ad assaporarle e
ci giocò per alcuni istanti, prima di dare inizio ad un’esplorazione che fu dolce e che si trasformò in
un incontro appassionato di lingue, mentre le loro mani si persero sui reciproci corpi, spingendosi
fin dove ignoravano che sarebbe stato possibile, almeno fino a pochi minuti prima.
Un leggero sapore salato indusse Matteo a riaprire gli occhi, per scoprire che da quelli della ragazza
stavano scendendo alcune lacrime e allora, s’impose di riacquistare il controllo, per concedere loro
il tempo che sarebbe servito a capire. “Amber…”. Sussurrò, passandole un dito sulle labbra ancora
umide ed altre sulle guance, bagnate da un pianto silenzioso. “Che succede?”.
La ragazza scosse il capo, imbarazzata. “Sono una stupida…”. Rispose, piano. “Vuoi tenermi
stretta, per favore? Ti prometto che smetterò di piangere…”.
“Non eri affatto pronta…”. Commentò, credendo di interpretare le sue lacrime. “E’ così, Amber?”.
“Tu, abbracciami… ed io, smetterò di piangere”. Ripeté, attirandolo a sé ed immaginando il vuoto
che avrebbe vissuto dal momento in cui si sarebbero nuovamente separati.
Matteo la strinse forte a sé, accarezzandole i capelli. “Non piangere…”. La pregò, colpito dal modo
in cui stava reagendo ad un bacio che non lo aveva certo lasciato indifferente.
“Nel caso non lo avessi capito, tu mi piaci, Matteo…”. Confessò solo in parte, a quel punto,
evitando accuratamente di guardarlo. “E se piango, oltre al fatto di essere stupida, è perché so che
non potrò averti”.
“Sei incredibile…”. Matteo invece la costrinse a guardarlo, terminando di asciugarle il viso con le
mani. “Anche tu mi piaci… mi piaci al punto da condividere quello che hai appena detto”.
“Adesso, torno nel parco”. Affermò, recuperando il controllo e cercando la forza per staccarsi da lui
definitivamente. “So che non si ripeterà ma… è stato bello”. Concluse, regalandogli un sorriso.
“Vorrei trattenerti ma so che sei più saggia di me e dovrò darti ascolto”. Convenne, passando un
dito sul contorno delle sue labbra. “Dovrai rifarti il trucco o Simon ti chiederà…”.
“Simon dovrà distrarmi dal ricordo di quello che è appena successo”. Lo interruppe,
sconcertandolo. “E non sarà un compito facile… devi credermi”.
“Mi dà fastidio ma immagino di non potertelo impedire”. Confessò, fissando le sue labbra e
sentendo i sensi riaccendersi pericolosamente.
“Buona fortuna, Matteo…”. Amber Rose sorrise, scostandosi dal corpo che aveva esplorato per
attimi che non avrebbe più potuto dimenticare. “Davvero, per tutto”.
Guardandola allontanarsi, sospirò e chinandosi per raccogliere la sua giacca, comprese che aveva
sbagliato tutto. Aveva sbagliato quando aveva creduto che lo detestasse, aveva sbagliato quando
aveva finto che non gli interessasse e probabilmente, lo aveva fatto anche adesso, permettendole di
uscire dalla sua vita.
Se solo non fosse stato sposato, pensò, passandosi le mani fra i capelli, dopo aver indossato la
giacca, nel tentativo di darsi un contegno. Se solo avesse potuto vivere due vite…
AlessiaCutrufo
Attendevi
La luna in disparte
scolorisce piano.
Le candide tende
giocano con Eolo fanciullo.
Mano fatata dipinge
con tocchi di rosa,
di giallo, di viola
l’amato cielo.
Attendevi l’alba.
La brezza leggera soffia
tra i capelli canuti ormai
mentre una dolce foglia
si abbandona,
inerte, al vortice.
L’alba amica
che impaziente attendevi
rivolse al cuor tuo
la sua lucente lama.
Rosso rubino
Di fronte allo specchio, afferro la lama sottile che tingerà le mie labbra di rosso rubino, il colore
prenderà forma trasformando per sempre il mio volto…Per cosa? O per Chi? Le domande si
affollano nella mente, mentre la mia unica arma sfiora piano la bocca delineandone i confini.
Netti, decisi, come la donna che ho deciso di essere stasera. A tratti si fermano, nelle piccole
increspature che l’arsura di notti senza acqua hanno scavato sul mio viso.
Rosso, sangue, rubini, cuore, passione, rose….si….rose….odore di rose nell’aria ferma.
Riesco a cogliere il vento che me ne porta il profumo da una finestra aperta sul nulla. Raccolgo i
capelli, sorrido ad una me che non conosco, ma che voglio rendere viva. Un bacio allo specchio,
ricordo indelebile di quella notte di follia, in cui sola….in abito da sera rosso, accompagno i miei
passi stanchi per le vie di un paese che non riconosce la mia pelle… in un paese che senza stupore,
osserva due labbra rosso rubino, rapire invano istanti di solitudine.
Andrea Leonelli
Yesterday’s Colors
Bagliori
Barbagli
Di luce
Davanti agli occhi
Colorati in rosso dal risveglio
Forzato
Vomitato fuori dal nero della notte
Nel bianco accecante
Di questa luce
Rossi i miei occhi
Iniettati
Di sangue e fame
I desideri
Sopiti appena ieri
Oggi tornano a colpirmi
Sogno il colore della tua pelle
Il contrasto con la mia
Il caldo porpora
del sangue che ci ha bagnato
mio e tuo
mescolato sulla pelle
che mi scende sulla schiena
il viola
dei segni lasciati
quando ti ho presa
che lento sfumerà
all’oro al verde
ricordandoti me
ricordando i giochi
serrati
d’amore e passione
l’azzurro del cielo che abbiamo visto assieme
posati sull’erba verde
il giallo e nero delle api attorno a foglie giallo verdi
e su fiori bianchi
come le nuvole che ci sovrastavano
candide e amichevoli
e poi il buio nel quale ci siamo rifugiati
per baciarci ancora
sulle labbra rosse
quasi consunte
e poi la notte nera di solitudine,
nera come il buco
rimasto della tua assenza
Grigio
Grigio…
Grigio…
atmosfera grigia e rumore bianco
confuso dalla statica
diffuso nella nebbia
indefinito
una sfumatura di nulla
un bagno nel non colore
come se fosse aspirato via
evaporasse
sospeso
un in limbo vago
E nel Grigio…
Grigio
nullificante
resto
come indicazione
che nessuno legge
ne leggerà
senza nemmeno
l’onore della scritta
solo una freccia
puntata indistintamente
verso il grigiore
uniforme e piatto
anonimo e senz’anima
né nome né forma
né colore
solo
Grigio…
Irma Panova Maino
Schiuma
Sento le bollicine schiudersi sulla superficie del derma, dandomi la sensazione carezzevole di essere
sfiorata da mille mani. Mille dita compiacenti che mi toccano appena, rotolando lievi.
Microscopiche mani che si insinuano ovunque, rilasciando la fragranza dell’essenza racchiusa nella
schiuma, profumando l’aria fino a coinvolgere i miei sensi in notti esotiche, ricche di piaceri
infiniti.
Nuvole eteree che galleggiano sull’acqua coprendo ogni cosa, ogni imperfezione, ogni segno, ogni
possibile anomalia, vera o presunta che sia.
Un mare infinito di bianco candore iridescente che scoppietta felice, cercando il contatto con la
pelle, incollandosi a essa, sollecitandola, stuzzicandola, rendendola più sensibile.
E il desiderio per quella consistenza effimera diventa un bisogno acuto, quasi un’ossessiva ricerca
di quella solidità che non c’è e che porta al sospiro, alla rassegnazione.
La schiuma scivola avanti e indietro seguendo l’ondeggiare del corpo, riempiendo gli spazi con il
bianco occhieggiare delle bollicine minuscole, continuando a scoppiettare allegra, senza portare
quella soddisfazione che l’animo anela.
Il soffio delicato le spinge via, facendole librare nell’aria per quell’attimo necessario affinché si
vedano in tutta la loro magnifica mancanza di essenza, come fiocchi di neve che scendono lievi
dalle coltri spesse e dense di nuvole cariche di suggestione.
Esco, decido di andarmene dalla massa che ancora mi attira a sé, lasciando che scie di denso
candore scorrano lungo il corpo, continuando a sfiorarmi la pelle.
Per un momento rimango incantata, inseguendo la coda di queste piccole comete palpitanti
godendomi ancora la sensazione che sanno procurami, senza altro pensiero che non sia vederle
sciogliersi verso la propria distruzione.
E segretamente gioisco, crudele e malvagia, considerando che non hanno fatto altro che servirmi,
procurandomi esattamente le sensazioni che ricercavo, persino la frustrazione.
Mi avete servito bene, piccole perle, avete compiuto il vostro dovere e ora liberatemi della vostra
presenza, così che io non debba passare la prossima mezz’ora a liberare la vasca dalla vostra
consistenza.
E mentre afferro con indifferenza l’asciugamano, ormai dimentica dell’oasi di piacere di cui ho
appena goduto, uno sbuffo dispettoso, rimasto inaspettatamente aggrappato ai capelli, scivola sul
viso, finendo direttamente nell’occhio.
La vendetta si compie con quell’unico inconsistente fiocco di schiuma. La rivalsa del niente contro
colei che, ingrata, ha goduto senza dare.
Cioccolata
Il marrone non è un colore normalmente amato e non è nemmeno nella top ten di quelli nominati e
preferiti da chiunque. La maggior parte delle persone sceglie i rossi, i neri, i bianchi; i più fantasiosi
i blu e i gialli… questi ultimi forse perché facilmente abbinabili al mare e al sole; mentre quelli più
folli spaziano dal rosa al viola, passando attraverso il verde… ma il marrone?
Suvvia, chi avrebbe il coraggio di pensare al marrone, come alla tinta preferita? Persino il grigio,
che racchiude in sé tutto il tedioso piattume immaginabile, riuscirebbe a suscitare prose romantiche
ispirate alla nebbia, forse persino allo smog. Ma il marrone?
La domanda si ripete, una nenia che raccoglie i pensieri intorno alle varie sfumature, veleggiando
fra il beige, il kaki… per arrivare alle tinte forti, cariche di pigmento. Un beige coloniale, un
abbinamento che fa correre i pensieri verso distese aride e desolate del bush, frammezzate da
baobab maestosi, i quali svettano indomiti in mezzo a una natura che non da tregua e non permette
errori. Oppure quel color mattone che racchiude punteggiature di sfumature rossastre, le quali
ricordano abitazioni rustiche con tanto di gerani colorati e pendenti fuori dai balconi e mucche
stupidamente violacee che pascolano su prati immacolati e intonsi.
E nonostante questo, nonostante le innumerevoli possibilità, marrone verrebbe associato a qualcosa
di sgradevole, qualcosa che, nella nostra mente, appartiene alla zona degli scarti, dei rifiuti,
dell’immondizia umana.
Provateci, dite marrone e poi provate a negare che non stavate pensando a quello… a un bel
mucchietto arrotolato e fumante… denso quanto basta per non dover ricorrere al medico, con tanto
di moschini ronzanti e fastidiosi intorno. Se dite di no, state mentendo spudoratamente. L’immagine
è lì… ai confini della memoria, pronta a prendere il sopravvento su qualsiasi altro pensiero.
Marrone… marrone… marrone… iniziate a sentirne anche l’odore? Magari se insisto ancora un
po’…
Tuttavia, per passare dalle stalle (e lì di marrone ce n’è in abbondanza), alle stelle, ecco che vi sono
altri soggetti, altre sfumature che portano in altre direzioni. Ad esempio verso la cioccolata. Calda…
fumante… densa… ALT!
La stessa descrizione diventa quasi inquietante, non trovate? Due soggetti così diametralmente
opposti, ma che hanno consistenze descrittive similari. Non può essere solo un caso.
Dunque? Che insegnamento trarne alla fine? Che anche se è cioccolata quella che stiamo
introiettando, assaporandola con gusto sul palato, sempre in cacca è destinata a finire?
La metafora della vita credo che si possa leggere nel sottile messaggio che si deduce da un’attenta
valutazione: dal momento che tutto finisce in merda, tanto vale goderselo fin dall’inizio.
Andrea Mazzolini
Due sbavature di colore rosso
Cara Mary, sono appena tornato dalla tipografia. Ho in mano la bozza del catalogo con tutte le mie
opere più importanti. Ho insistito per mettere come titolo “Il grano, l’erba, le rose e i narcisi”. Come
sai la pittura per me non è stata soltanto un lavoro ma una passione, una pazzia forse. E comunque,
dimmi dove lo trovi un artista che non sia anche pazzo. Pazzi per l’arte come si è pazzi quando si è
innamorati, vorrei aggiungere. Alla soglia dei quarant’anni lo posso affermare: dipingere, o
imbrattare le tele come mi ripeteva sempre mio padre, è stata tutta la mia vita.
Il mio credo sta tutto in questo catalogo che ho tra le mani. Fa un certo effetto scorrere le pagine e
scoprire la propria anima là sopra, le emozioni, gli sbagli, i successi. Forse è la stessa emozione che
prova uno scrittore quando si trova tra le mani suo primo romanzo. Un pittore non dipinge mai la
realtà, o meglio, non dipinge mai la realtà apparente delle cose. I colori, le righe, i tratti, le
proporzioni, tutto questo è inutile se non si trasmette un’emozione, un domanda, un mistero, un
sogno. Ed io questo ho sempre provato a fare con i miei pennelli, dipingere le emozioni, fotografare
i sogni, raccontare l’anima delle cose.
Quando sono rientrato in casa mi è venuta in mente un vecchio aneddoto, imparato sui banchi
dell’accademia.
Una volta Toulouse-Lautrec si trovò tra le mani un foglio appena sporco di vernice, soltanto una
sbavatura, due minuscole macchioline rosse. Beh, gli piacquero talmente tanto che incorniciò due
metri quadri di foglio bianco solo per quelle minuscole sbavature di colore.
Non sono un pittore bravo come lui ma come o più di lui sono pazzo, lo so. Sono pazzo di te, Mary.
Tu non sei la donna più bella di questo mondo e nemmeno la più intelligente o la più affascinante.
Ma per me e solo per me tu sei la più bella, la più intelligente e la più affascinante. Non sono mai
stato bene con un’altra persona come lo sono stato con te. Non c’è un’altra ragione alla mia pazzia.
Non sono mai stato capace di fare grandi discorsi ma, credimi, Mary, tu sei quelle due sbavature di
colore rosso sulla mia esistenza e Dio solo sa quanto vorrei spargere di colore la tela della tua vita e
sparpagliare il grano, l’erba, le rose e i narcisi; questo soltanto vorrei.
Massimiliano Cara
Energia martire
Amori dilatati, labbra surriscaldate, organi rossi di sangue, parti di corpo usate per dare e avere
emozioni, lente, o veloci, potenti o suggestive. Impulsi mentali chiusi in gabbie da accartocciare,
esplosioni di gioia calda, energia martire per dare un senso alla lussuria. Movimenti quasi costanti.
Ritmici e potenti. Piccoli canali di rosso che irrorano le cavità più intime, che ora sono esposte alla
vista. E noi complici e affamati siamo qui che giochiamo come bimbi vogliosi e senza pudore.
Nadia Milone
I colori della mia vita
E’ strano come la vita cambi, come anche i giorni più bui riescano ad illuminarsi, proprio quando
non ci crediamo più e stiamo andando incontro alla rassegnazione.
E’ un po’ quello che è successo a me… Le esperienze negative, i fallimenti e le delusioni, mi
stavano convincendo che intorno non avevo che cumuli di macerie, giornate tinte di nero passavano
davanti ai miei occhi senza che io avessi la forza per ribellarmi. Ma per fortuna, man mano che i
giorni passavano, quel nero tendeva sempre più al grigio, grazie all’aiuto di persone uniche e
stupende che mi sono rimaste accanto. Un grigio con mille sfumature, una nebbia che mi avvolgeva
come un manto, io non riuscivo ancora a vedere oltre ad essa, ma sapevo che, prima o poi, avrei
ritrovato il sole. E quando finalmente la sua luce gialla e calda mi ha illuminato la strada, ho capito
che esisteva ancora una speranza. Da quel momento, il grigio che ancora avevo nel cuore ha lasciato
il posto ad un arcobaleno di mille colori, ad un’allegria inaspettata, ad una voglia di ridere che non
mi apparteneva più da troppo tempo.
Come vedo la mia vita adesso? Colorata, verde come la speranza che non mi ha mai abbandonata. E
vedo rosa, tanto rosa delicato intorno a me, tanta voglia di ricominciare a credere che la felicità
esista e che i miei sogni si possano ancora realizzare. E ho voglia di amore e di passione, ho voglia
di indossare un vestito rosso e sapere che ci sarà qualcuno che saprà apprezzarlo e che quel
qualcuno avrà voglia di sognare con me.
Non mi importa se se ora la gente mi dice:” Attenta, cadrai un’altra volta e ti farai ancora più male”.
Io ho voglia di volare dentro questo arcobaleno, ho voglia di sentirmi leggera e libera e se domani
sbatterò contro ad un muro e tutto tornerà nero, pazienza. Potrò sempre dire di aver tentato di
colorare la mia vita.
Alessandra Elisabeth Gravestone Paoloni
L’abitatore dell’anima
L’essere diversi non significa necessariamente essere pazzi. Ma vivere come se nel proprio corpo
coesistessero due entità distinte forse lo è.
Potrei sembrare una ragazza come tante: buona famiglia, ottimi voti a scuola, educata e abbastanza
carina.
Ma la realtà è ben diversa e lontana dall’essere compresa anche dallo strizzacervelli dal quale
andavo fino a qualche tempo fa. Quell’ometto basso dagli abiti sempre impregnati dell’odore
pungente del sigaro, mi diagnosticò quello che viene comunemente denominato “disturbo bipolare
della personalità”; ma io credo che il mio malessere fisico e mentale andasse ben oltre quella
definizione.
Credo di avere dentro di me qualcosa, o forse chissà “qualcuno”. Non nel ventre, per carità.
Ma nell’anima.
Questa entità, concepita forse dalla mia stessa mente, mi divide in due, sgretola le mie certezze e il
mondo per me diviene frammentato in due fazioni distinte: il bianco e il nero. La luce e l’oscurità.
Ciò che è corretto (o corrotto) e ciò che non lo è.
Molte volte mi sono soffermata a riflettere sui miei continui cambi d’umore, sul perché io dapprima
sia felice e successivamente dopo, senza alcun motivo logico, malinconica e triste. Quasi votata alle
tenebre e alla loro oscurità.
Le due estremità del mio animo si contendono la mia ragione, e in questa eterna lotta io finisco col
soccombere.
Questa è la mia malattia, stare al centro di due fuochi e non saperne uscire viva. E se da una parte il
pensiero di mondi e cose legate alla sfera della coscienza e della giustizia invocano il mio nome,
dall’altra la pece di un universo oscuro mi brama. Pensate che la lotta tra il Bene e il Male non
esista? Provate allora a sentirvi come me, dilaniata in due, sospesa tra il peccato e le virtù.
Un sorriso. Una volta regalai a un passante un sorriso. Lui ricambiò.
L’istante dopo, mutato atteggiamento, gli rivolsi un’occhiata gelida; quasi malevola. La mia
mutazione, dalla luce alle tenebre, dal bianco al nero, lo fece sussultare. E la mia anima s’infiammò
di quella continua lotta intestina.
Misera me e l’incapacità di porre rimedio a questo strappo dell’animo! Sarò per sempre preda di
questa divisione, lacerata in due, alla ricerca di un precario equilibrio.
Per risolvere questo malessere mia madre dice di avermi trovato un nuovo strizzacervelli. Dio solo
sa quanta sofferenza mi procura farmi analizzare di nuovo, come se fossi la cavia di un laboratorio,
alla ricerca di una cura per quel cancro dell’anima che finirà, lo so, per diffondersi dappertutto.
Mi guasterò, avvizzirò e cadrò vinta dalla mia malattia. Perché non c’è scampo per me, né scelta. Si
contendono la mia vita, lo yin e lo yang, il nero e il bianco. Le tenebre e la luce.
La follia e un barlume latente di sanità.
Adriana P.
Leila
Leila era la peggiore puttana del paese. Non che non mostrasse dignità nel suo lavoro ma era come i
coperti della pizzeria giù all’angolo: cinquanta a giorno. Leila non nascondeva le sue prospettive, se
vogliamo chiamare prospettive i centimetri di seno che quotidianamente lasciava in pasto agli occhi
indiscreti di tutti, e neanche si nascondeva dai commenti delle vecchie del paese, proprio quelle che
ogni giorno dalla loro panchina che affacciava sulla piazza del mondo evidentemente invidiavano
chi poteva dare e avere più di loro. Insomma, Leila quello era e quello faceva e mi ricordo come
fosse oggi i pomeriggi d’estate passati ad osservare la sua abitazione: che frequentazioni assidue,
dal macellaio al notaio, dal giornalaio al fioraio. La casa di Leila non era proprio un porto di mare,
perché di barche non ne ho mai viste entrare, ma un centro di raccoglimento di monnezza
indifferenziata sì. Che bella casa poi si era scelta: affacciata sul mare e su quegli alti scogli da cui
potevo sbirciare. Da cui lei mi faceva sbirciare. Già, perché io tenera fanciulla al varco della pubertà
ancora non sapevo se chiamarla puttana uniformandomi alle vecchie del paese o se definirla
amatrice e lasciarmi amare da quei centimetri di seno scoperto sprofondandoci dentro. Fatto sta che
per quanto tutti guardassero a Leila in malo modo io vedevo in lei un’anima pura, ricoperta da
un’aurea bianca, come fosse stata l’ultima delle vergini. Lei era nera, la donna nera per chiunque:
per le donne che la additavano come amante dei mariti e per i mariti che prima se la scopavano e
poi si fingevano pentiti e adducevano scuse poco plausibili. In fondo si sa, da sempre è colpa della
donna. Io Leila la vedevo così candida e la immaginavo sola, passati quei cinquanta coperti; la
immaginavo pura anche nel suo lavoro e nel darsi agli altri. Potevano chiamarla puttana ma per me
non lo era. Quando anche sono cresciuta, Leila che aveva poco più di dieci anni in più di me,
continuavo a vederla nella sua abitazione sempre affollata, e non aveva smesso di essere una bella
donna. Forse la sua anima era sempre bianca ma la mia non più: ora avrei saputo cosa fare con quei
centimetri di seno scoperto.
Leila era la puttana peggiore del paese, o la migliore vista la quantità di affari. La mia anima si
colorava di rosso quando la vedevo passare, come anche le gote, ma io non la volevo come tutti gli
altri. La sua anima era bianca e io la volevo solo per me.
Elisabetta Bagli
Rosso sangue
Rosso amore
è il mio cuore.
Vola libero e leggero.
Ama, ascolta,
accarezza il mondo.
Sereno vive
donando sorrisi.
Caldo e sorpreso
è il mio cuore.
Promette di non lasciarti solo.
Ti accoglie,
ti annusa,
ti vive.
Ti ama in silenzio,
ti sente sincero.
Rosso sangue
è il mio cuore.
Nudo e trasparente
ai tuoi occhi.
Ingabbi la sua luce
nella tua notte.
Senza un perché
violenti la sua ingenuità.
Senza pietà
lo prendi, lo spremi
e lo getti tra i rovi.
Piove sangue nel
mio cuore.
Spazzato dal tuo vento,
calpestato dal tuo egoismo,
indifeso ora muore
come un’incredula
macchia rossa
asciugata dal sole.
Elisa Vangelisti
Tratto dal cap.4 de “Il Ragno e l’Iguana”
Premessa: la protagonista femminile vede le emozioni delle persone sotto forma di luci colorate.
Appena fummo in casa, abbandonammo le giacche e risalimmo nella mia stanza. Mi fermai davanti
alla finestra, rivolta a ovest, e mi accorsi che ormai il sole era solo un bagliore aranciato avvolto dal
verde dell’aria fredda. Gabriel mi raggiunse, sempre senza far rumore, e si fermò dietro di me,
spostandomi i capelli color fieno dalla spalla per scoprire il collo. La maglietta strategicamente
sbottonata metteva in mostra un frammento di pizzo del reggiseno, ma di certo era tutto quello che
poteva vedere. Sempre che non avesse la vista di Superman.
“Non è del tutto vero quello che ti ho detto prima” sussurrò appoggiando il naso freddo al mio
collo. Ahi, ci siamo. Qui giace Rynn McRyan, prosciugata da un vampiro alla tenera età di sedici
anni… “Un leggero cambiamento c’è; però, se vuoi vedere tu stessa, devi girarti”.
Il sole era completamente scomparso. Mi voltai verso di lui, incerta su quel che avrei dovuto
aspettarmi e rimasi immediatamente colpita dalle sue emozioni. La luce che lo avvolgeva fino a
quel momento era stata calda, dorata e brillante. Adesso Gabriel era avvolto da una luce luminosa
pazzesca, di un azzurro simile ai suoi occhi. Glielo dissi.
“Le tue emozioni ora sono blu” sorrise. Facendolo scoprì i denti e mi resi conto che i canini erano
spaventosamente lunghi. Finché teneva socchiusa la bocca non si notava, ma appena faceva un
sorriso eccoli lì, sfacciati e brillanti. E spaventosi. Lo guardai ipnotizzata. “Adesso puoi…?”
“Adesso sì” distolse lo sguardo, la luce restò fortissima. Avrebbe dovuto offuscarsi, perché col
linguaggio del corpo mostrava timore, invece brillava come non mai. Probabilmente la sua natura
ora modificava anche le sue emozioni. Ero incerta sul da farsi. Glielo chiesi.
“Vuoi andartene?” Lui mi guardò, titubante.
“Solo se tu vuoi che me ne vada”.
“No, non voglio” mi appoggiai contro di lui. Mi sentivo stranamente tranquilla. “E’ più difficile,
adesso?”
“Un po’”.
“Ma… devi farlo tutti i giorni?” Avevo appoggiato una mano sul suo petto: era difficile resistergli.
Lo stavo accarezzando distrattamente, fingendo di non preoccuparmi dei suoi sfacciatissimi denti a
dieci centimetri dalla mia giugulare. Sembrava che stesse tremando. Non capivo se per la sete o per
la carezza.
“No, non è necessario. Basta anche meno” sussurrava. E continuava a brillare di blu. Luce fredda.
Anna Cibotti
Il sogno di Kemal
Quel pomeriggio era pieno di luce.
Il vecchio uscì dalla capanna di fango e paglia che, come poche altre, formavano il piccolo villaggio
africano.
La sua casa.
Il suo mondo.
Alcuni ragazzi scalzi e vocianti si rincorrevano attorno all’albero frondoso posto al centro dello
spiazzo arido e polveroso.
Lui li osservava sorridente.
Di lì a poco il sole avrebbe tinto d’arancione l’orizzonte e il suo improvviso tramonto avrebbe
lasciato posto alle lunghe ombre della notte.
Come ogni giorno, sarebbero tornate le donne uscite per la provvista d’acqua.
Le avrebbe viste arrivare una dopo l’altra, silenziose e rassegnate, con le facce lucide di sudore e le
vesti colorate.
Si stagliavano nella luce polverosa come fiori variopinti in mezzo al giallo spento della natura.
Come ogni giorno.
Come sempre.
Il vecchio canuto appoggiò il bastone sulla soglia e si sedette ad aspettare il tempo.
Era nero come l’ebano e le rughe profonde gli scolpivano il viso come una scultura lignea.
Il suo nome era Kamal e se ne stava lì, con la testa inclinata sul petto scarno, assorto in chissà quali
pensieri, quando sentì il tocco di una mano leggera sulla spalla.
Era Kim, il più piccolo dei ragazzini del villaggio.
- Nonno – gli chiese.
- A cosa stai pensando?” Mi hanno raccontato che in certi luoghi lontani, le montagne, gli alberi, e le case sono coperte da
una coltre bianca.
E’ la neve, che cade dal cielo come la pioggia ma è più grossa e bianca come farina.
Dicono che quando c’è il vento i suoi candidi fiocchi volteggiano nell’aria come farfalle.
Ci pensi Kim……come sarebbe bello poterla vedere almeno una volta!”
- Quando sarò grande, nonno, ti ci porterò io a vedere la neve!Gli prese la mano ossuta e rugosa tra le sue e rimasero lì a sognare insieme.
Prima del nero della notte……il loro sogno immacolato.
Io nello specchio
Siete davvero meravigliosi e vi ringrazio per l’opportunità che date, a chiunque abbia voglia di
leggere qualche estratto, di avvalersi di un pezzetto di cultura, la quale evidentemente non è ancora
morta e sepolta sotto le macerie di un’ignoranza invadente. Dunque non posso che attendere con
trepidazione ciò che le vostre menti saranno in grado di produrre con il nuovo argomento IO
NELLO SPECCHIO. Mi rendo conto che l’introspezione porterà sicuramente a chiedersi quanto
possiamo effettivamente esporre del nostro IO interiore e quanto sia opportuno condividerlo con gli
altri.
Rossana Roxie Lozzio
Anima allo specchio
Non è facile, non lo è mai stato, guardarmi nello specchio. Non è facile… non mi piace quello che
vedo, non sono io. Perché dentro avrei tanto da dire e avrei tanto da dare e invece resto ferma,
immobile, paralizzata… spesso reagisco con indifferenza a quanto di buono mi viene riservato e
accade di raro. Non sono abituata alla gioia, non so quasi più cosa significhi sorridere e ho
dimenticato il significato del termine spensieratezza! La leggerezza, poi, quella dell’anima… non
mi è mai appartenuta, nemmeno quando sono stata piccola.
Mi guardo nello specchio e vedo quello che sarei, che vorrei essere e che non sono capace di
manifestare. Vedo tutto quello che penso, che sento, che desidero… indago nei miei occhi e mi
accorgo di possedere un’anima graffiata dalla vita ma ancora colma dello spirito propositivo che
avrei potuto sperimentare se non fossi stata ferita.
Vedo la donna che vive dentro di me, quella sentimentale, che sogna ancora di amare e di essere
amata, quella che si proietta in quel futuro divenuto oscuro e che vorrebbe aprirsi come un fiore a
quel calore e alla luce di un sole che si è spento da tempo!
E’ così che faccio a meno di specchiarmi, il più delle volte… per non dover fare i conti con me
stessa e con la parte di me che talvolta vedo ancora e solo attraverso gli occhi degli altri, quella
migliore. Ma ci sono, dentro a questa immagine riflessa… vorrei gridare che riesco persino a farsi
amare, nonostante i muri che ergo quotidianamente, che una volta, cantavo e che speravo di
crescere e di vivere la vita che non sto vivendo!
Invece, resto muta e silenziosa… sono immobile e mi osservo, domandandomi se sarò mai capace
di emergere.
Io, davanti ad uno specchio
Io, davanti ad uno specchio
immobile, spenta,
indago nei miei occhi
e non trovo la donna
che vorrebbe riflettersi nei tuoi…
che sei lì, sempre, ovunque
ma dietro allo specchio
Maria Capone
Flashback
- Non stare troppo davanti allo specchio altrimenti passa l’angelo e rimani pietrificata così, per
sempre.
Zia Giovanna ripeteva questa frase più volte al giorno. A quel tempo avevo appena otto anni e la
vanità, secondo i vecchi canoni educativi, andava repressa. Per questo stesso motivo avevo imparato
a guardarmi nello specchio sottecchi, di traverso. Mia madre era morta e vivevo con mia sorella
Eleonora a casa di zia Giovanna. Mio padre faceva i turni da macchinista, lo vedevamo raramente, e
mio fratello Carmelo, il ribelle, era stato mandato in collegio perché non lo voleva nessuno. Con la
morte di mia madre, quindi, erano iniziate le paure. Quella dello specchio era soltanto una tra le
altre, ma più che dello specchio in sé temevo di vedere materializzarsi quel riflesso indotto, un paio
d’occhi d’angelo che si incrociavano con i miei. E pensare che sino a quel momento avevo
considerato gli angeli come figure protettive e buone. A quel tempo ero una brava e bella bambina,
dolce e paziente. Distribuivo ricette di cucina che conoscevo a memoria e avevo persino imparato a
cucire e ricamare. Per “premio” mia zia mi aveva portato dal parrucchiere e anche lì, davanti ad uno
specchio, un paio di grandi forbici avevano reciso la mia lunga treccia di capelli.
- Occorre troppo tempo per districarli e rimetterli in ordine. – si era scusata così con il parrucchiere.
Non con me, ovviamente.
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.- Eleonoraaaaaa, guarda qui! Dio, come faccio adesso? Proprio oggi che devo uscire per la prima
volta con Marco! – strillai e gridai davanti allo specchio guardando schifata l’orribile bubbone posto
sulla punta del naso.
- Calmati, vediamo che cosa si può fare – aveva risposto con più calma mia sorella dopo essersi
attrezzata con pennelli, fondotinta e cipria.
- Perché proprio sul naso e non sulla fronte? Avrei potuto camuffarlo con qualche ciocca di capelli –
gridai.
- Tu sei troppo curiosa, metti sempre il naso dappertutto e questi sono i risultati, goditeli adesso.
- Ma che dici? Che cosa c’entra adesso la mia curiosità con questo obbrobrio pullulante? – ribattei.
- No, non va proprio niente, si vede ancora! Basta, ho deciso, non esco più. Addio serata romantica,
resterò chiusa in casa sin quando non scomparirà del tutto.
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.Crashhhhhh
Saranno soltanto ridicole superstizioni? Il guaio peggiore era che ci credevo realmente e già
iniziavo a contare i sette anni di disgrazie che mi avrebbero perseguitato.
Raccolsi i pezzi piangendo.
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.Ho compito da poco cinquantenni e non credo più in molte. Considero gli angeli creature
meravigliose che non ti pietrificano davanti ad uno specchio , non credo nelle superstizioni,
considero i brufoli normali sfoghi di gioventù, non conto le rughe sul mio viso. Ho imparato a
guardare la mia immagine nello specchio, a sorridermi, a farmi l’occhiolino, a prendermi in giro con
simpatia. Non ho più paura.
Cristiana Verazzo
Frammenti di me
Cerco di vedere, ma mi pare che la luce sia spenta. A tentoni allungo le mani per ritrovare il niente;
all’improvviso tutto s’illumina, e vedo.
Quello che ho di fronte non mi piace: è scuro, grigio, senza sfumature di colore.
In una parola spento. Io che di colore ho sempre vissuto, mi ritrovo rinchiusa nella negazione stessa
della vita. Impossibile.
Dalla luce ho tratto calore, affetto, gioia e volontà; quei piccoli pezzi scuri che vedo sparpagliati
disordinatamente non sono me. Non possono essere ME!
Lo sconforto vibra sotto pelle, così come la paura, paura di perdere il controllo di una vita che pian
piano va in frantumi. Pezzi che mi ostino a tenere legati con un collante che forse non basta, ma nel
tempo che ci vorrà a trovare quello giusto continuerò a tenermeli stretti uno per uno.
Mi guardo: è vero, è buio, ma in fondo ad ogni frammento vedo brillare una scintilla, la piccola
fiammella di ciò che ero, di ciò che ancora sono e che sarò sempre. Anche quando vorranno
spegnere la mia luce lotterò con unghie e denti e non permetterò a nessuno di cancellare il mio
colore, perché io vivo….io sono.
Andrea Leonelli
Frantumi
Solo pezzi di vetro
Taglienti
Stringo ora fra le mani
A ferirmi
Lo specchio è sotto
Più nessuna immagine
Da riflettere
Barbagli di luce
Che feriscono gli occhi
E squarciano i sogni
Come lame i polmoni
Sangue dalle mani
Cade
A raffreddarsi
Aspetto la fine
Sperando in una parola
Che mi salvi
Dall’aspettar la morte
Solo
La vista offuscata
Un occhio in una
Scheggia di specchio
Sta piangendo
M’aspettano giorni
Appeso al muro
Uno specchio incrinato
Mi rimanda
Scenari
Di mondi vuoti
Di castelli crollati
Farfalle cadute
L’immagine
Del mio volto
Mi guarda sprezzante
Quasi a girarsi
Per non vedermi
Mentre inutile
Muoio di mancanza di sogni
Della tua assenza
Del tuo odore sempre più flebile
M’aspettano giorni
Di vane attese
E un vuoto dentro
A divorarmi
Non ero io
Non ero io
Nello specchio
Nemmeno la superficie
Della mia immagine
Era davvero mia
Maschere
Facce di cartone
E verdi dei rospi
Inghiottiti a forza
Infrango lo specchio
E la catturo
L’immagine vera
Quella che è stata
Vicina a scomparire
Tiro
Fino a riprendermela
Me ne rivesto
Di me
Lo specchio ora
Mi sorride
Mi riconosco
Nell’anima e
Mi guardo negli occhi
Vedo la mia vita
I miei sogni
Che ora ripartono
Irma Panova Maino
La maledizione
Frammenti di vetro che spuntano dalle carni come gioielli preziosi, come diamanti che riflettono la
tenue luce di un giorno che va spegnendosi, moltiplicando all’infinito le innumerevoli ferite di cui è
cosparso il corpo.
Sangue che cola a lenti rivoli dalla carne slabbrata, spezzandosi sui bordi frastagliati, mentre si
specchia in quelle superfici lisce che ne accentuano il rossore.
Il dolore diventa profondo per quest’anima fatta a pezzi, per l’essere che fu e che non è più e mai
più sarà ciò che era.
Ti dissi allora che avrei messo a nudo la tua essenza, che nessuna maschera ti avrebbe protetto
dall’immagine che sarei stata in grado di farti vedere. Ti dissi che era la mia maledizione e che
chiunque si fosse attardato a guardare più a fondo nei miei occhi, avrebbe alla fine trovato se stesso
e la natura celata dietro alle convenzioni, ai timori, alle incertezze…
Ti dissi che non vi era scampo dal fato, che nulla avrebbe potuto salvarti, nel momento stesso in cui
avrebbe prevalso l’incoscienza e tu avresti guardato, in cui non avresti potuto resistere e il tuo
sguardo si sarebbe incatenato al mio.
Mi hai deriso. Hai detto che volevi osservare che cosa si nascondesse dietro alle mie iridi, che cosa
vi fosse nel fondo della mia anima e che volevi comprendere quale fosse la mia reale natura. Non ti
mentii allora e non l’ho mai fatto in nessun altro momento. Sul fondo di quelle iridi avresti visto te
stesso, non avresti trovato me.
Questa è la mia maledizione, il mio dono oscuro, la capacità di far vedere alle persone ciò che
realmente sono, spogliate di tutti i paraventi, i segreti, le facciate precostituite.
Io sono lo specchio. Io sono colei di fronte alla quale ogni menzogna viene svelata, ogni sotterfugio
scoperto, ogni artificio distrutto. Io sono la vera immagine dell’IO che si riflette, la reale essenza di
chiunque abbia la sfortuna d’imbattersi nei miei occhi. Io sono tutto ciò che ognuno cerca di
nascondere nel profondo di se stesso, sperando di non dover mai fare i conti con esso. Questa è la
verità e lo sai. Questo è tutto ciò che posso fare. Tuttavia non ho chiesto io il sangue e non ho
preteso io che l’anima, spogliata di tutto, venisse a morire su questa cornice. Non posso raccontare
una storia diversa solo per salvare la pelle di entrambi e non posso fare finta che tutto questo non
uccida anche me. Per ognuno che non accetta la verità, io vado in frantumi, mi disintegro nei mille
pezzi che poi esplodono ferendo la carne. Finisco in schegge acuminate che incidono e tagliano e
creano ferite indelebili, rimanendo impresse nella memoria della pelle.
La verità mi lega a colui che guarda e mi costringe a condividerne il destino, poiché più a fondo
guardi e più profondamente sveli il mio arcano e questo destino condiviso crea quel legame che mi
porta a condividere il fato. Vorrei poter fare a meno di tutto questo, vorrei non portare un potere
simile, non è né divertente né appagante, è solo maledettamente doloroso. Porto sotto la pelle tutte
le ferite di coloro che non hanno saputo resistere, di tutti coloro che hanno voluto vedere, pensando
che non potesse essere così tragico specchiarsi, che non potesse essere reale una predisposizione del
genere e, come Cassandra, continuo a mettere sull’avviso gli ignari, sapendo bene che non verrò
creduta e che nessuno terrà da conto i miei avvertimenti. Nemmeno tu lo hai fatto e adesso se tu
cedi, porterai i mille pezzi di me nella tua carne, conficcati profondamente nella tua anima. Se tu
cedi, ucciderai anche me.
A te la scelta.
L’immagine
Se non avessi trovato quella superficie in cui specchiarmi, forse avrei seriamente dubitato di
esistere.
Mi aggiro per casa sentendomi quasi un fantasma, avendo quella folle sensazione di dislocamento
in cui il corpo rimane in un posto e lo spirito se ne va in un altro. Avete presente quei film in cui il
protagonista si vede disteso sopra una barella, mentre la gente si affolla intorno a quel corpo inerte,
pensando che sia ormai spacciato? Quel fluttuare dall’alto, riuscendo a vedere particolari del
proprio essere che diversamente sarebbe impossibile riuscire a scorgere?
Bene, mi sento esattamente nello stesso modo. Respiro, soffro, piango… quindi esisto, tuttavia è
come se non ci fossi, come se fossi trasparente e la mia essenza fosse talmente inconsistente da non
essere afferrabile. Le persone intorno a me si muovono, parlano, gesticolano, discutono
animatamente, ma io rimango in disparte, emarginata dal resto, come se in realtà non stessi
occupando una sedia o uno spazio qualunque.
Allora perché? Perché combatto da una vita per quel posto che pensavo mi spettasse e invece
continua a sfuggirmi? Perché continuo a sentirmi come un’estranea in posti in cui, teoricamente,
dovrei appartenere?
Mi muovo, cammino, sposto oggetti e faccio tutto quanto è necessario affinché qualcuno si accorga
che ci sono, che ho bisogno anch’io, che passo anch’io attraverso gli inferni per trovare un pezzetto
di paradiso, ma pare tutto inutile, tutto così vano che non ha davvero più senso continuare a
insistere.
E allora mi siedo nel mio angolo, osservando il mondo che mi passa intorno, senza avere nemmeno
più la voglia di allungare una mano per afferrarlo, per ghermirne almeno un pezzo, per farlo mio. E
il mio timore è quello di scoprire che anche se mi tornasse la voglia di provare, forse non sarei più
in grado di afferrare nulla, forse passerei attraverso gli oggetti senza più riuscire a toccarli.
Allora mi ritraggo, sempre più nel profondo delle ombre, rendendomi conto di come la mia
consistenza svanisca nel tempo.
Ogni giorno passo davanti allo specchio e ogni giorno vedo la mia immagine sparire, perdersi e
confondersi nel gioco di ombre.
Arriverà il giorno in cui, passando davanti, nulla si specchierà più.
Elisabetta Bagli
I tuoi occhi, il mio specchio
Vorrei scriverti una poesia ora e mandartela domani, ma non ho un temporizzatore per poterlo fare.
Oppure la vorrei scrivere oggi e mandartela in questo momento ma so che non sarebbe giusto. Hai
chiesto Time out. Non so cosa stai attraversando ora. Oppure lo so troppo bene. Magari ti do la
buonanotte. Sì, magari quella va bene. Mi chiedi scusa per essere egoista. Egoista, tu? No. Chi
sbaglia sono io. E probabilmente chi è egoista sono sempre io. E’ stato troppo aver cullato
l’illusione di volerti per me anche solo per un minuto in questa vita. Ho preteso la felicità, ho rubato
troppi baci alla vita insieme a te, per poter vivere un sogno che non si realizzerà mai. Va bene così,
come sempre lo STOP, il BASTA, lo decidi tu. O anche ORA E’ IL MOMENTO, ORA SI PUÒ, lo
decidi sempre tu. E io? Io non ho mai deciso niente nella mia vita. E tu lo sai. Sai che sono sempre
stata schiava delle mie insicurezze. Non sono degna di essere quel che sono perché appena mi si
conosce nello specchio, le persone mi sfuggono tra le dita, come impalpabili fili di seta che hanno
impreziosito la mia vita andandosene per sempre. Evidentemente non ho dato loro abbastanza. O
quel che ho dato loro non era ciò che volevano. Ma io? Continuo a essere qui, davanti a questo
specchio che da sempre raccoglie la mia vita. E’ grande, è immenso e mi ha visto crescere,
trasformarmi in un’adolescente piena di paure, sorridere con le amiche mentre ci truccavamo prima
di una festa, ballare da sola balli proibiti, inscenando un flamenco un po’ arrangiato, con la musica a
tutto volume e la pancia scoperta mentre sentivo che stavo diventando donna. Sei tu, mio caro
specchio, che accogli di nuovo le mie lacrime perché sono una donna che ha visto sfumare i suoi
progetti nella vita man mano che si presentavano. Piango davanti a te che non fai che rimandare la
mia immagine riflessa e mi accorgo che ormai le mie lacrime dalle mie guance sono scivolate
proprio sulle mie labbra penetrando nelle fessure della mia bocca. Lì si sono fermate. Sento il
desiderio irrefrenabile di tirar fuori la mia lingua per leccarle, quasi a lenire le ferite delle quali
ormai la mia anima è piena, nello stesso modo in cui faresti tu. Nessuna ferita si è mai rimarginata.
Credevo di aver fatto esperienza. Pensavo che nulla più mi avrebbe ferito in questo modo e, invece,
ho mentito a me stessa. Tu specchio, con il tuo attento occhio mi metti a nudo e mi fai vedere quel
che io non voglio e che invece c’è. Il sangue è ancora fresco. Ferite vecchie e nuove dalle quali è
uscito lo stesso sangue che si è mescolato confluendo in una grande pozza dentro al mio cuore, una
pozza dalla quale attingere per poter macchiare il mio volto, striarlo di rosso e dargli quella vita che
ormai ha perso da tempo e che pensava aver ritrovato con te.
Ogni volta che mi guardo allo specchio immagino i tuoi occhi fissi su di me. Immagino te che mi
guardi come se fossi un animale da palcoscenico. Ogni volta che ti passo davanti inizia lo show. La
mattina, appena mi alzo ci sei tu che mi osservi: ho i capelli arruffati mentre maltratti i miei occhi
costringendoli a vedere il viola delle mie occhiaie, la pelle assonnata e ormai irrimediabilmente
piena di rughe. Mio caro specchio, hai visto crescere il mio ventre per due volte e lo hai accarezzato
insieme a me, sono diventata mamma e da quel giorno lo sono diventata non solo dei miei figli, ma
anche tua. La donna è diventata solo mamma. Ma ora mi vuoi di nuovo donna e mi chiami e mi
piace che lo fai. Mi chiami e mi piace il tuo modo di farmi sentire di nuovo viva. Devo guardarmi
mentre mi tolgo la camicia da notte per prepararmi alla doccia. Il mio corpo nudo, pieno di desideri
adolescenziali con la consapevolezza che ormai il tempo è passato e non può tornare, è lì, proprio di
fronte a te. E tu, mio diavolo tentatore, mi spingi a provare ancora le gioie di un’estasi solitaria alla
quale nessuno ha mai partecipato e la cui conoscenza sai solo tu. Mi fido di te, solo di te e voglio
rendertene partecipe. Una mano inavvertitamente scivola sul seno, va verso il mio sesso, sento che
sei tu che mi guidi. Mio caro specchio, mi osservi anche mentre mi preparo per uscire, mi trucco, mi
sistemo i capelli. Vivi la mia vita, vivi con me, eppure sei così lontano. Riesci a dominare i miei
sentimenti di qualsiasi natura essi siano attraverso il tuo semplice sguardo. La mia luce è gialla e tu
sei nero. Non ti vedo, eppure osservi le mie movenze sinuose quando passo innanzi a te.
Ma in definitiva cosa sei tu, se non un vetro mischiato a sabbia di silicio e al mercurio liquido? Il
mercurio fa diventare pazzi e tu lo sai. Mio caro specchio, mi hai avvelenato cuore e anima
facendomelo bere a piccole dosi quotidiane, inebriando il mio essere al suono delle tue parole.
Conosco la tua voce, il suo tono, il suo cambio di modulazione in certi momenti. So che mi chiami e
mi chiamerai sempre, quando avrai bisogno di me. So che non saprò resisterti e accorrerò per farmi
vedere dai tuoi occhi, il mio specchio.
Angelo Francesco Anfuso
Uno specchio d’acqua
L’ora si attarda,
sono stanco e solo.
Mi rifletto in uno specchio d’acqua
ormai putrescente.
I miei occhi sono stanchi,
non hanno forza e
a stento le mie palpebre rimangono aperte.
Vedo un uomo dal volto misero,
in lui rifulge l’immeritata sofferenza.
I suoi occhi sono ben aperti e in loro si riflette
un uomo dall’animo mesto
che fissa l’alba di un nuovo giorno.
Piange, nell’intimo del suo silenzio.
È un uomo ricco di sconforto.
Chiudo gli occhi,
sono stanco ormai.
Sento un lamento,
un singhiozzio latente.
Riapro gli occhi,
vedo un uomo dal volto meschino
che fissa il tramonto di un vecchio giorno.
È un uomo sofferente,
disperato e avvilito,
privato da ogni conforto
e coronato di ogni beata angoscia.
Piange,
dai suoi occhi
grondano lacrime senza cessare.
Chiudo gli occhi.
Sono sempre più stanco.
Io ho paura,
sono solo, abbandonato.
Riapro gli occhi,
e vedo in quel misero specchio d’acqua
una soffusa luce che man mano si spegneva.
Era la mia vita.
Mi rifletto ancora una volta.
Vedo un uomo avvolto da un’ombra.
Lo sfiora,
lo accarezza e lo prende tra le sue braccia.
Mi rifletto ancora una volta.
In quel dannato riflesso,
vedo me stesso.
Ero io che andavo incontro alla morte.
Non più luce…
Eterna oscurità!
Il mio riflesso,
in quel misero specchio d’acqua
mi ha ridato la vita.
Ero morto prima e adesso io vivo…
Il Riflesso di Me Stesso
Mi rifletto in uno specchio,
buio, privo di vita,
amorfa è la sua struttura,
insensata la sua natura.
È privo di vita,
non respira,
tace,
ma nel suoi intimo urla.
Non giudica,
ma condanna.
Nel sui silenzio,
avvolto da una luce soffusa,
mi scruta.
Entra attraverso i miei occhi
L’immagine interiore riflette,
non il mio corpo.
Io rimango fermo, immobile.
L’amorfo specchio
inizia ad illuminarsi,
prende voce,
inizia a far scorrere
la mia immagine interiore.
Vedo come sono in realtà,
triste,
solo lacrime
di un grido disperato.
Mi tende una mano,
ma io mi rifiuto di afferrarla.
Non posso, è solo un riflesso
Mentre la mia miseria umana è vera.
Due nature,
distinte e separate da un tormentoso abisso.
Piango,
solo questo so fare.
È inutile,
questa è la mia sorte.
Il mio destino
è crudele…
Solo sospiri,
solo affanni di una immagine
rattristata ai mie occhi.
In me si incarna la sofferenza.
indegna, immeritata.
Nessuno è in grado di vedere la mia anima.
È nascosta,
velata,
celata da un falso sorriso.
Il mio riflesso piange,
il mio specchio si illumina,
mi vedo
vedo il riflesso non più di me stesso
ma della mia crudele sorte.
Spenta è la mia vita…
Insensato il mio respiro.
Il riflesso è vero
Perché mi riflette.
Io, sono martire di me stesso
Della mia stessa vita.
Perché questo tormento
Al cospetto di un riflesso?
Non lo comprendo,
il mio senno è limitato.
Sono solo un uomo.
Andrea Mazzolini
Io nello specchio
Non conoscevo quella stanza. Era l’unica cosa che riuscivo a capire. Mi ero svegliato ma quella non
era casa mia, non era la mia stanza. Dove mi trovato?
Provai ad alzare la testa ma ogni sforzo risultava vano, riuscivo solo a muovere gli occhi. Non
indossavo gli occhiali, tutto era sfuocato, vedevo solo un soffitto, una parete e una porta aperta,
apparentemente su un corridoio. Quella non era la mia camera. La mia stanza era… com’era la mia
stanza? Non me lo ricordavo ma ero sicuro di non trovarmi a casa. Dove diavolo ero? Da dietro la
porta sentivo delle voci indistinte. Riuscii a sollevarmi un attimo e fu allora che capii: ero in una
stanza d’ospedale. Come c’ero finito? Era stato un intervento, un incidente? Ma soprattutto: come
potevo uscirne? Non avevo forze, probabilmente non mangiavo da chissà quanto tempo e mi
tenevano in vita con l’ago cannula che stava infilata sul mio braccio. Avrei voluto rimanere sveglio
ma non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Mi riaddormentai. Nei sogni guidavo la moto per le
colline.
Mi svegliai di nuovo. Una voce continuava a ripetere “Alex, Alex”, come per chiamarlo. Chi
diamine era questo Alex? Aprii gli occhi. Una donna, vestita da infermiera, mi guardava e mi
diceva: “Alex, Alex”. Sorrise. “Non mi chiamo Alex” riuscii a dire. “È scritto così nella cartella
clinica. Quando ti hanno portato qua in ospedale, dopo l’incidente, abbiamo trovato i tuoi
documenti, c’è la tua foto sulla patente, sei tu Alex Speroni… capita, sai, dopo un incidente di avere
delle amnesie, ti riprenderai presto, vedrai, abbiamo fatto una TAC, il medico dice che è tutto a
posto, l’hai scampata davvero…”.
Alex. Dunque io mi chiamo Alex, pensai. No, dico, non è possibile, io, io, io mi chiamo… Non ce
la facevo nemmeno a pensare o a ricordare come mi chiamassi. “Ho fatto un incidente? Non ricordo
davvero niente… Da quanto tempo sono qua?” “Sei qua da ieri pomeriggio. Un incidente in moto,
hai perso il controllo e sei scivolato sull’asfalto. Incredibilmente non c’è niente di rotto, hai solo il
corpo ricoperto da escoriazioni. Ti abbiamo dato molti antidolorifici, altrimenti urleresti dal dolore.
Il casco comunque ti ha salvato la vita. O forse qualche santo su nel cielo. Io ora devo continuare il
mio giro nelle altre stanze. Tra un po’ passerà il primario per le visite. A dopo, Alex.”
Alex, dunque mi chiamavo Alex. E cosa facevo nella vita? Ma sì, questo avrei dovuto ricordarmelo.
Io ero un..come si dice, uhm, io ero un…
Niente. Non mi ricordavo il mio mestiere.
E la famiglia. Avevo una famiglia? Dei genitori, una moglie, dei fratelli, dei nipoti, dei figli?
Gli amici? Avevo degli amici?
Avrei voluto ricordarmi di tutto questo ma non ce la facevo, più tentavo di ricordare e più la mia
mente pescava nel nulla. Non avevo ricordi. Si è vivi quando non si hanno ricordi?
Sogni. Avevo dei sogni? Dei desideri? Che cosa mi piaceva?
Chi ero in quel momento? Un uomo senza ricordi, senza sogni, senza niente.
Mi assopii di nuovo in quel niente fatto di domande e nessuna risposta.
Devono avermi svegliato per la visita del primario. Non sentii un gran che di quanto confabulò con i
suoi assistenti. Lasciarono presto la mia stanza lasciandomi ai miei pensieri e ai miei non-ricordi.
Provai di nuovo a muovermi, volevo tirare la corda del campanello ma riuscii soltanto a sentire
molto dolore misto ad un senso di profonda impotenza. Gridai. Nessuno rispose. Gridai di nuovo.
Si affacciò un’infermiera. Non so se fosse la stessa con cui avevo parlato qualche ora prima. “Che
succede?” “Posso avere uno specchio?” “Uno specchio? E cosa te ne fai?” “Voglio vedere il mio
volto!” “Stai tranquillo, avevi il casco, il tuo viso è rimasto intatto. Secondo me saresti pure un
bell’uomo ma ti voglio rivedere bene quando uscirai da questo letto. Ora però sta’ calmo.” “Uno
specchio, ti prego, voglio uno specchio” continuai a gridare. “Se mi prometti di stare buono, vado a
cercare uno specchio”. Tornò dopo pochi minuti. Non potevo prenderlo in mano, fu lei a tenerlo.
Mi guardai.
Quello non ero io. Non ero io dentro allo specchio. Chi era quel volto sconosciuto? Si è vivi senza
ricordi e senza futuro? E si è vivi quando non si riconosce il volto nello specchio?
Chi ero?
Chi sono?
Nadia Milone
Io nello specchio
Lo specchio è sempre stato il mio incubo peggiore. Solitamente, ci passo davanti distogliendo lo
sguardo. Non mi sono mai piaciuta, questa è la verità. Ho sempre visto riflessi tutti i miei difetti e
mai un pregio.
Lo specchio riflette un’immagine, ma non solo. Se guardi attentamente, puoi vedere dentro ai tuoi
occhi e per me questo, ha sempre voluto dire fare i conti con me stessa. Credo che confrontarsi con
se stessi sia la prova da superare più difficile in assoluto, poiché noi siamo i giudici più severi e i
critici più spietati.
A volte, mi sembra quasi di trovarmi davanti ad un uomo che mi guarda, mi analizza e dal quale mi
aspetto un giudizio, ma ne ho paura. In fondo, sono un’insicura per natura… Ed io provo vergogna
a rimanere davanti allo specchio, a spogliarmi e a guardarmi come se non fossero i miei occhi ad
osservarmi, ma quelli di qualcun altro. Ma sono così stanca di aver paura di me stessa! Voglio
provare a guardare dentro quello specchio con un sorriso. Voglio piacermi e volermi bene,
finalmente. Voglio accettare quella persona riflessa, con i suoi pregi ed i suoi difetti, con le sue
mancanze e le sue fragilità e riuscire a riconoscermi. Guardarmi negli occhi e dire: “Sei un essere
umano con le tue debolezze ma, in fondo, anche tu puoi essere una persona speciale”. Ma
soprattutto, mi vorrei guardare dritto negli occhi e dirmi: “Ho diritto ad essere felice, nonostante
tutto…”
Forse domani guarderò dentro quello specchio con occhi diversi, forse mi sentirò più donna, sarò
consapevole delle mie scelte e convinta che ogni cosa che faccio e che farò, così come ogni cosa
che dico e che dirò, non sono nient’altro che le mie piccole occasioni per diventare una persona
migliore, soprattutto per me stessa.
Gennaro Fiorillo
Io…
Sono Io, è inutile specchiarmi, ormai mi conosco troppo bene. conosco la mia finta allegria, i miei
falsi sorrisi. conosco la verità. e fa male. Guardo i miei occhi riflessi e ti cerco, con forza con
speranza con passione. Stanotte guarderemo la stessa luna, le stesse stelle, sospireremo. ma le
catene che ci separano vinceranno ancora su di noi.
ancora una volta.
Sono io, ancora io … e continuo a specchiarmi…
Alessia Cutrufo
Specchio infranto
È impossibile fingere
Di fronte ad uno specchio infranto,
il moltiplicarsi delle forme,
il moltiplicarsi di finti sorrisi,
si svela nel suo gioco perverso
di maschera comica.
Si svela il mistero,
si ricompongono i sorrisi
in un’unica forma …
in un unico viso sconosciuto,
in un’unica bocca
che svela se stessa.
Lo specchio
Per anni ho vagato,
alla ricerca di uno specchio,
che riflettesse la parte bella di me …
Ma la mia ombra era scura,
grigia come il cielo in un giorno di neve.
E tornavo a vagare,
per ritrovare sempre lo stesso viso vuoto.
Svuotato di ciò che lo avrebbe reso bello
anche agli occhi della gente.
Privato della luce del sorriso,
derubato della gioia di uno sguardo …
Per anni ho vagato …
e forse vago ancora …
alla ricerca di un’ombra
che io sola vedo nello specchio.
Anna Cibotti
Lo specchio di Anna
Il mio specchio e tridimensionale.
Si, tridimensionale in verticale.
Infatti è composto da tre parti divise da una sottile striscia di legno concava che mi serve come
pomello per aprire gli scomparti del mobiletto che uso come scarpiera.
E’ accanto alla mia grande e fornita libreria, proprio di fronte al letto.
L’immagine che mi riflette è quindi divisa in tre parti.
L’effetto è positivo perché mi allunga leggermente la figura e quando voglio vedere un particolare,
mi abbasso o mi alzo facendo così anche un po’ di ginnastica.
Non amo gli specchi.
Ne faccio l’uso necessario alla mia decenza.
Quello che ho nella stanza da letto è l’unico che mi riflette intera e a me basta.
Mi è stato regalato quando ho cambiato casa e non trovando posto altrove, l’ho collocato dove è più
funzionale alle mie necessità.
Lui mi vede anche quando non lo guardo; sta lì e vede tutto.
Mi fa compagnia.
E’ uno specchio amico, non finge con me.
E’ esattamente quello che io sono.
Può esserci un amico più sincero e spietato nella sua trasparenza?
Mentre lo guardo stasera mi dice che sono bella.
Lo sono perché dal mio viso traspare la certezza di una ben più importante bellezza interiore.
Attimi di follia
Attimi di follia vuole essere un’apertura verso tutto ciò che potete ritenere al di fuori dell’ordinario,
non è necessario che vi esprimiate con una poesia o un pezzo di narrativa, anche solo descrivere
quello che per voi rappresenta, e il significato che volete dare alla frase, è già più che sufficiente.
Quindi non createvi problemi di alcun genere e preoccupatevi solo di avere lo spazio necessario per
poter esprimere il vostro pensiero.
Adrena (con il contributo di Nadia Milone e Rossana Roxie Lozzio)
Attimi di follia
Alle otto di ogni mattina Anna elargisce una miriade di ordini da far eseguire a sua figlia, poi esce
di corsa gridando e sbattendo la porta. Valentina non l’ascolta più, risponde a cadenze prestabilite
alternando i sì, ai va bene. Il rumore della porta definisce la fine di quelle urla e l’inizio del nuovo
giorno. Chiara e Annalisa arriveranno di lì a poco accompagnate dall’odore di tre cornetti alla crema
appena sfornati.
Il chiacchiericcio delle tre amiche si ferma alle prime note de “La follia” l’opera di Vivaldi.
Valentina ha srotolato la tela a tappeto e deposto i vari pennelli vicino alle ciotole di terracotta. Le
prime gocce cadono lentamente seguendo la sinfonia, strisciano leggere le pennellate, poi… i colori
si susseguono velocemente, il rosso, il suono del basso, il verde, il suono frenetico dei violini, il
giallo, l’arancione. Piccoli tocchi di colore a passi di danza. Strisce di colore e volute, e ancora
colore che schizza dappertutto. Brevi pause, il blu, la musica incalza ed è ancora rosso, ancora
giallo, arancione. Rallenta il ritmo, il verde, l’azzurro.
Valentina è rapita dal ritmo, ora appoggia le sue mani direttamente sulla tela, si rotola nel colore.
Attimi di follia li chiama sua madre. Per lei, invece, non è così. Tutto questo è vita, ognuna di quelle
singole macchie colorate, che sembrano buttate a caso sulla stoffa, non sono altro che
rappresentazioni dei suoi stati d’animo. Apparentemente differenti tra loro ma così dannatamente
intimi! Valentina ha bisogno di sentire il contatto diretto con il colore, di toccarlo, di annusarlo, di
viverlo appieno.
Chiara la conosce da quando erano bambine e ancora, nonostante tutto il bene che le vuole, non è
riuscita ad accettare quelli che definisce attimi di follia, proprio come sua madre! Annalisa, invece,
la guarda senza capire. Vederla così felice, in mezzo ai suoi colori, le regala un’euforia inaspettata.
“ Ti ho sempre amato per quel che sei” esclama Annalisa prima di correrle incontro, abbracciarla e
saltare riempiendosi spudoratamente i vestiti di quei colori.
“Non ti sporcare” … lontane eco, ossessioni da dimenticare.
“Scusate, non ci sto…” dice Chiara, esce sbattendo la porta, proprio come Anna.
“Sono proprio identiche quelle lì” commentano tra i denti ed in coro le due amiche.
Rimaste sole, la voglia di trasgressione detta le sue regole; si strappano i vestiti, si dipingono l’un
l’altra, iniziando dal viso scendono sempre più giù, ridono fino alle lacrime, piangono, si
abbracciano. Rivoli di colore primario si mischiano tra loro formando il verde, l’arancione, il viola.
Tutt’intorno è bianco. Troppo bianco!
“Valentinaaaaaaaa”
“Dio, è tornata mia madre. E adesso che cosa si fa? Sì, mamma, sono nella mia stanza con Annalisa,
dimmi…”
“Non hai portato il cane fuori?” urla.
“ Il cane? Non l’avevi con te?”
“Te l’avevo detto prima di andar via, mi hai sentito? Valeeee, vieni subito fuori dalla tua stanza,
adesso!”
“No, proprio non posso… oddio ma che fine ha fatto il cane?”
D’un tratto eccolo spuntare da sotto il letto, correre per la stanza, e finire dritto dritto sulle ciotole
dei colori rovesciandole.
Attimi di caos totale. Anna è dietro la porta della stanza, l’apre.
“Noooooooooooooooo, non è possibile, ora pulisci tutto! Ma tu sei pazza da legare!- poi,
rivolgendosi al cane – e tu dove credi di andare così conciato?
Anna insegue il cane, inciampa, si sporca. E le piace! Sì, le piace molto, si diverte.
Sono di nuovo in tre nella stanza… dipingono le pareti. Il tromp l'oeil che prende forma rappresenta
una finestra aperta e un prato dove correre felici.
Irma Panova Maino
Capitolo 8 – Reazioni – tratto da “Il peccato di Rennahel”
“Che ci fai qui?”
La voce alle spalle la fece girare di scatto e il predatore, che era in lei, la portò ad assumere
automaticamente un atteggiamento offensivo. Gli artigli si allungarono velocemente sostituendo le
unghie e le zanne che, fino a quel momento lunghe quel tanto che bastava per arrivare a
punzecchiarle il labbro inferiore, improvvisamente si allungarono di un altro centimetro,
inspessendosi come per poter affrontare un impatto più violento.
Soffiò istintivamente accucciandosi leggermente e, contraendo i muscoli, fu pronta ad aggredire o a
difendersi da un assalto. Una postura totalmente differente da quella che doveva aver avuto nel
vicolo, dal momento che in quell’occasione non si era proprio difesa. E il solo pensiero che era stata
pronta a saltare alla gola dell’uomo apparso sulla soglia, pronta a squarciargli la giugulare,
strappando tendini e lembi di carne, la fece raddrizzare raggelandosi.
Ogni velleità bellica sparì dalla postura lasciandola immobile e barcollante al centro della stanza.
Dio! Aveva fame!
Solo questo.
Vide l’uomo socchiudere gli occhi diffidente e squadrare la sua nudità, seguendo il percorso del
lenzuolo che si afflosciava svolazzando sul parquet. Tuttavia non si sentiva esposta, non avvertiva
più l’impellente esigenza di dover soddisfare una sorta di pudicizia. Aveva fame.
Questo era l’unico pensiero che s’ingigantiva, ad ogni scorrere di secondo, nella sua mente. Un
pensiero che assorbiva ogni altro concetto logico, qualsiasi altra considerazione opportuna. Il
bisogno primordiale prese il sopravvento su qualsiasi altro percorso mentale, diventando l’unico
aspetto primario e fondamentale.
Fame…
Non era in grado di pensare ad altro.
Le capacità cognitive della propria massa grigia si richiusero su se stesse, lasciando che fosse il
puro istinto predatorio a prendere le redini dell’aspetto motorio del corpo.
Si mosse verso di lui senza nemmeno rendersene conto e il fatto di vedergli fare un passo indietro,
la portò istintivamente a passarsi la lingua sulle labbra gonfie, inclinando leggermente il capo di lato
in un’espressione provocante, quasi beffarda.
“Ren…?”
Lo chiamò con una voce falsamente dolce e gentile, imprimendo nel suono quell’acuto e disperato
bisogno che aveva di lui. Una necessità che scaturiva dalle viscere e che le scaldava il ventre.
Siria non si rendeva davvero conto di quello che stava facendo, non capiva fino a che punto la malia
del vampiro scaturisse da lei e con quale potenza colpiva i sensi dell’uomo.
Lo vide vacillare, come se una spinta lo avesse portato a spostarsi, ma i piedi, incollati al
pavimento, gli avessero impedito di compiere quell’ennesimo passo all’indietro.
Lo vide in affanno.
Il torace che si muoveva rapido sotto la camicia di seta, gonfiandogli i polmoni alla ricerca di
un’aria che sembrava venire a mancare ad ogni passo che lei compiva verso di lui. Ogni muscolo si
tese, irrigidendosi sotto la stoffa lucida e i pugni si serrarono decisi, come se fossero stati pronti a
colpirla.
“Ren.”
Lo chiamò ancora, più decisa, più accattivante e lui barcollò facendo un passo sofferto in avanti
Poi un altro e un altro ancora. Strisciando i piedi sul pavimento, costretto a spostarsi contro la sua
volontà e contro tutto ciò che lo avrebbe portato invece ad allontanarsi.
Non voleva venirle vicino, la ferocia nel suo sguardo era lampante.
Le iridi, scuritesi dall’ira, l’ammonivano a non proseguire oltre, a non portare a termine la malia, a
non lasciare che l’istinto predatorio prendesse il sopravvento, per non provocare in lui una reazione
violenta.
Avrebbe reagito. Siria ne era più che consapevole. Sapeva istintivamente che non le avrebbe
lasciato fare ciò che il suo corpo agognava disperatamente.
Non si sarebbe lasciato mordere senza lottare. E quella presa che aveva ancora su di lui, andò
lentamente sfaldandosi sotto l’impatto della sua rabbia di uomo.
Gli vide allungare le mani e afferrarla saldamente per le spalle e, con un gesto secco, respingerla.
Andrea Leonelli
Espressioni di Follia
Follia.
Patologia o stato naturale?
Temporaneo o definitivo?
Un attimo di follia, in cui tutto si può concepire, liberandosi da preconcetti
E lasciando fluire libero il pensiero
Perché non è forse vero che succeda che si agisce, ingabbiando alcuni desideri?
Magari si vorrebbe fare qualcosa, una certa cosa e non la si fa perché “gli altri” penserebbero che
siamo matti?
E ci frustriamo, nei desideri e nelle azioni
Ma dentro le nostre teste?
Quante follie vorremmo fare, quante cose nuove e inconsuete vorremmo sperimentare?
Cose che per la società, per “i normali”, sarebbero criticabili se non direttamente censurabili?
Sapete una cosa? Ho iniziato, in buona misura ma non totalmente, dato che anche io vivo nella
società a fregarmene.
Voglio essere “folle” e vivere la mia follia se ciò significa anche, nel contempo, “essere libero”
Voglio sentirmi libero e se proprio devo, morire libero
Pregiudizi e preconcetti li lascio volentieri agli altri, tranne magari alcuni a salvaguardia di me
stesso
Voglio vivere “sotto il sole” per quanto mi è possibile e fare le cose che mi fanno stare bene, e
molte sono folli, almeno per “i normali”.
Sapete una cosa? Me ne frego, viva la mia follia e che duri un attimo o una vita, chi lo sa
La vivrò giorno per giorno
Se non è follia questa, in un periodo in cui pare bisogna pianificare anche l’andare in bagno…
Pensate anche al tempo e a come lo si percepisce, non il come girano le lancette, ma come non
passa nelle attese e come corre, non è forse follia? Il tempo è sempre uguale, ma dentro? Viverlo
folli significa anche tollerare lunghe attese comprimendole in pochi attimi e poi esplodere in infiniti
bervi istanti che rimangono eterni dentro. E’ o no follia questa del nostro percepire?
Pensate alla follia delle sensazioni. Come si fa a fidarsi sulla base del puro e semplice istinto?
Persone mai viste con le quali ti trovi con feeling perfetti e di cui riesci a fidarti “a pelle”, per pura
sensazione. Oppure cose che sai che accadranno. È il pensiero, il modo di pensare che ci hanno
insegnato che spesso ci ingabbia in vite prefabbricate, con porte e muri che stanno dove la società
decide, e le finestre per guardare fuori e sognare sempre più piccoli, pezzi di cielo stellato sempre
più ridotti, posti in cui sdraiarsi a sognare sogni sempre ridotti. E pure i sogni si son ridotti.
Ma la follia più bella è l’amore. Quello si che ti fa infrangere gli schemi della normalità. Ti fa
sentire libero e soprattutto felice. Ti fa sentire dentro sensazioni intense e spesso ti fa vedere oltre la
realtà “pitturata” delle cose. A volte strappi la carta da parati e vedi oltre, vedi dentro ciò che viene
solo mostrato. E l’apparenza non conta, ma conta la sostanza. Arrivi nel flusso vitale delle cose e
dopo averle avute sott’occhio capisci il loro vero valore. Cose bellissime e perfettamente inutili, che
soddisfano solo l’occhio, e peraltro non di tutti. E cose apparentemente senza valore estetico, che si
rivelano però indispensabili. C’è molto oltre la superficie, ma bisogna essere un po’ folli per andare
a vedere, e bisogna esserlo ancora di più forse per guardare bene nel fondo della propria anima
accettandosi per quel che si è e arrivando a confrontarsi ogni giorno con se stessi prima che con gli
altri.
La bellezza? Chi stabilisce cosa è bello brutto o meraviglioso se non il gusto solo di chi guarda?
Perché altrimenti tante forme d’arte? Ognuna può essere un polo d’attrazione con persone con gli
stessi gusti e di repulsione per chi li ha diversi, ma che però potrebbe comunque incontrarsi accanto
a punti d’interesse diversi… Quanti generi musicali? Quante forme di pittura e correnti e generi
letterari? L’arte è intrisa di follia, ne è spessissimo espressione diretta. Ed è meravigliosa in quanto
esposizione dell’anima folle di ognuno.
E capire che nulla accade per caso, ma come in una ragnatela ogni filo che tocchi ne fa muovere
altri in reazione, e quei fili di quella enorme ragnatela che ci unisce li tocchiamo tutti creando azioni
reazioni, vibrazioni armonie e cataclismi.
Il pezzo appena scritto vi pare slegato?
Pazienza sono folle e volevo scrivere follie. E se in queste follie ci trovate del vero, chissà, magari
un seme di follia dentro l’avete anche voi, io vi consiglio di curarlo e farlo germogliare e crescere.
Con la consapevolezza che vi potrà aiutare ad andare “oltre”…
Nadia Milone
Cos’è la follia?
Cos’è la follia? Chi ha una risposta me lo spieghi, per favore. Io non lo so fino a che punto l’animo
umano possa spingersi prima di definirsi folle.
Siamo abituati a vivere in formato standard, ad incasellarci in schemi prestabiliti in funzione di ciò
che gli altri pensano e considerano “normale”. Non stiamo bene, vorremmo ribellarci come animali
feroci rinchiusi in una gabbia troppo stretta ma, chissà perché, non lo facciamo e con finti sorrisi e
atteggiamenti di circostanza, andiamo avanti fingendo che tutto vada bene. Ma non va bene per
niente! E allora possiamo dire che la follia non sia nient’altro che una forma di ribellione per non
impazzire in questo stupido mondo. Ma i veri folli sono coloro che ci circondano, che giudicano le
nostre scelte e le nostre azioni, non sono io, che invece sto solo cercando un salvagente per non
affogare.
La follia non è in quelli come NOI, che vogliono soltanto evadere da una realtà devastante, la follia
sono loro, quelli che non capiscono o non vogliono capire che non siamo agnelli da sacrificare per il
pranzo pasquale. Ma io sono stanca di dovermi conformare a canoni prestabiliti e ipocrite
convenzioni, stanca di aspettare l’approvazione altrui… Sono stanca di pormi limiti che altri hanno
deciso per me e farmi domande, voglio godermi quello che la vita mi pone davanti. Quello che gli
altri pensano, è solo un loro problema. Cogli l’attimo, si dice, perché nulla torna indietro.
A qualcuno piacerà ciò che ho scritto, ad altri, forse, meno. Ma io non scrivo per piacere agli altri,
ma per cercare di piacere a me stessa. Forse anche questa è follia, allo stato puro. Ma so che
vivendo in questa follia, un giorno, riuscirò ad apprezzarmi.
Sarò folle ma felice
Mi sono sempre considerata una persona equilibrata. Per intenderci, di quelle che, solitamente,
fanno la cosa giusta per compiacere qualcuno. Ho sempre cercato di mettere al primo posto gli altri
e le loro esigenze, dimenticandomi che, forse, esistevo anch’io. Ed è così, credo, che le persone
hanno incominciato a darmi per scontata. Ero una presenza fisica sicura, un aiuto, un appoggio
ma… ero anche una donna. Chi si accorgeva, ormai, di me come donna? O magari gli altri lo
sapevano, ma ero io a non sentirmi più così.
Ho iniziato a pensare che una vita del genere non valesse la pena di essere vissuta, finché, un anno
fa, non ho incontrato Lui. Lui che mi capiva, lui che mi diceva che ero una persona speciale, unica e
stupenda, lui che mi ha illusa fino a farmi perdere la ragione. Ho fatto tanti errori nella mia vita, ma
fidarmi delle sue parole è stato il più grande. In pochi mesi, sono diventata una scheggia impazzita
in balia del mio destino. Nemmeno io capivo cosa mi stesse succedendo, ma era chiaro che non
ragionavo. Non dormivo, non mangiavo e passavo ore a guardare il telefono nella speranza che
arrivasse un suo messaggio, come un’adolescente. Avevo perso la testa, è vero. E la follia più
grande fu pensare che sarebbe potuto nascere qualcosa di speciale. Ero pronta a lasciare tutto, mi
sarebbe bastato un cenno da parte sua. Ma questo cenno non è mai arrivato e quando è scappato
come un coniglio davanti alla prima difficoltà, mi sono ritrovata a terra, perduta, senza più uno
scopo. Sono mesi che combatto nella mia testa con il suo ricordo e con la follia dei miei pensieri.
Ma oggi ho deciso di dire basta, di cambiare. Ho deciso che voglio vivere e star bene, voglio ridere
ed essere felice. Non ho affatto abolito le follie dalla mia vita, anzi… Non voglio assolutamente
tornare a quella vita piatta e noiosa che mi soffoca come se fossi rinchiusa in una gabbia. Voglio
essere folle, ma questa volta per me stessa. Mi voglio divertire e fare quello che mi passa per la
testa. Folle, pazza, trasgressiva…sì, ora lo sono, ma con una consapevolezza in più: tutto ciò che
farò, nel bene o nel male, dovrà farmi stare bene. Ho giurato a me stessa di non versare nemmeno
una lacrima, mai più. So che ce la farò, perché adesso io sto bene, sono serena come non lo ero da
un sacco di tempo e, finalmente, riesco di nuovo a ridere ed è bellissimo.
Massimiliano Cara
Escrementi
Sono folle. Sono un folle perché mi ci sono trovato. E quando è arrivata la stagione del rimanerci, ci
sono restato. Mi è sembrata la scelta più logica, ma nel caso bisogna di dire più folle. E così mi
sono chiesto se io stesso ho scelto il mio stato folle.
Questo mio stato folle è costruito da un dolore atroce. E’ modellato dal fango della psicosi. Dal
Liquame dell’angoscia. Da sprazzi di malinconia confusa. Da ondate di nostalgia irreale, forse
prenatale. Ma poi quello stato-ragnatela è diventato quasi piacevole. Una gabbia ovattata dove il
pianto ha fatto posto alla necessità del ragno.
Quel ragno che mi consuma, che mi divora ogni giorno. Un pezzetto per volta lui si ciba di me. E io
posso poi cibarmi dei suoi escrementi. Un giorno ho capito che non erano così male. Quel giorno
capii che il folle sarebbe rimasto tale.
Viky Hachiko Lancione
Follia
Cos’è la follia? Viene identificata come perdita della ragione.
Fosse così semplice. Nella follia c’è una serie infinita di minuscole sfumature.
Schegge del passato, schegge del presente. Schegge che si insinuano nella testa, ne ingarbugliano i
fili, distorcendo i pensieri.
Interpretare la mente di un folle è peggio che trovare l’ago nel pagliaio.
Sostanzialmente la definirei in follia buona e follia cattiva.
La follia cattiva… quel raptus che ti fa fare i gesti più ignobili.
Puntare un coltello contro tua moglie, uccidere, stuprare.
Quello che vorrei capire è cosa passa per la mente di questi folli.
Quello che mi domando ogni giorno che passo in questa casa, dove regna una mente malata.
Domando a voi, se leggerete queste poche righe di una persona altrettanto folle, da cosa nasce tutto
questo? Cosa innesca il processo che arriva alla follia?
C’è da dire che non tutto il male viene per nuocere e io stessa mi considero folle.
Perché in questo mondo, che ti priva di tutto, folle è chi crede ancora nei sogni, chi ama
incondizionatamente, chi da tutto se stesso alle persone.
La follia è anche quella nota di pazzia che ci fa compiere i gesti più memorabili.
Una scappatella al chiaro di luna, un bacio proibito, un gesto azzardato.
Non potrà mai esistere una definizione alla follia, che molto ha in comune con l’amore.
Come una favola diceva: non c’è logica spiegazione a una tal disturbazione, niente ti disgretola, ti
scombuzzola, ti scompiffera, ti rimestola, ti scompisciola, ti scombuzza di più!
Questa definizione non è forse adatta anche alla follia?
Elisabetta Bagli
Follia
Un pizzico di follia è entrato nella mia anima,
attraversa i miei sensi,
strazia il mio corpo,
lacera le mie certezze.
La mia storia è la tua.
La nostra è una follia.
È un gioco seducente che ora non fa male.
È una folle battaglia combattuta con la vita
che ci ha vinto.
Appassionatamente ci ribelliamo alle sue decisioni.
È pura follia lasciarci accarezzare il cuore
dal dolce suono delle nostre parole mai pronunciate.
È pura follia sentire il desiderio di voler confondere i nostri corpi,
le nostre anime leggendo i racconti del nostro passato,
assaporando il nostro presente,
investigando il nostro futuro.
Assetati di noi,
follemente beviamo dalla stessa fonte.
I nostri desideri li esploriamo, li afferriamo,
li mascheriamo nella folle ricerca di ogni minima possibilità
che ci faccia sentire più vicini, più uniti, più vivi,
che mitighi la nostra consapevole paura di perderci.
Ma ormai ci siamo persi,
l’uno nell’altro, senza un perché.
Sappiamo che ci siamo persi,
sappiamo di esserci felicemente,
follemente persi.
Opere prime infinite, lontane,
così vicine, così confuse,
così meravigliosamente folli.
La nostra follia
La mia è una follia nuova. Mai provata in vita mia, ma mi ci sono buttata anima e corpo. Perché
l’ho fatto? Perché vivere vuol dire provare e, soprattutto, provare a superare se stessi e i propri
limiti. Ho dei limiti. Ma chi di noi non ne ha? I miei sono dei limiti atavici, retaggio di secoli di
imposizioni, di catene alla quali sono stata legata fin da prima di nascere. La morale poi, inculcata
dal mondo in cui vivo, mi ha fatto camminare nelle incertezze per tutta la mia vita, come se dovessi
stare attenta a non calpestare l’oro che gli altri avevano ai loro piedi e io no. Insicura di me sono
arrivata fino a dove sono, senza mai vincere.
Adoro Pirandello e le sue Maschere Nude. La maschera è il simbolo di ciò che ognuno di noi
indossa in questa vita. Nessuno è mai se stesso fino in fondo. Difficile riuscire a non indossare la
maschera per vivere, o meglio per sopravvivere. Ma ora che sono “grande” ho deciso che non
voglio più indossarla, ho deciso che per una volta nella mia vita la mia Maschera sarà davvero
“nuda”, perché corrisponderà esattamente a ogni centimetro della mia pelle che godrà di sensazioni
nuove, diverse, uniche. Supererò i miei limiti, non solo perché voglio farlo, ma perché sento che è
giusto salire quei gradini che ho sempre visto da lontano come chimere che non avrei mai potuto
raggiungere. Li supererò e non lo farò da sola. Lo farò con te. Tu, il mio meraviglioso uomo che sei
entrato nella mia vita come un sole, riscaldando ciò che ormai era diventato freddo e privo di vita.
Mi hai insegnato a essere me stessa, mi hai preso per mano e mi hai portato negli angoli perduti
della mia esistenza facendomi ritrovare ciò che era così ben nascosto dentro di me che me ne ero
quasi dimenticata. Mi hai fatto scoprire che posso salire quei gradini e che posso farlo con te.
Generoso, mi hai parlato dritto al cuore, mi hai fatto vedere che esistono diversi modi di dimostrare
l’amore anche se noi non potremmo mai chiamarlo così. Inavvertitamente siamo caduti, come
angeli caduti e ci siamo sussurrati parole d’amore, anche se sappiamo che non sono per noi. Ma ci
sta bene così. Meglio stare vicini che non starci per nulla, meglio “amarsi” così ed essersi incontrati
così, fregando la vita, rubandole istanti a morsi, piuttosto che rimanere inermi aspettando il giorno
in cui gli occhi si chiuderanno.
E’ folle tutto ciò? E’ una vera e propria follia, una meravigliosa follia che mi tiene in vita colorando
la mia esistenza di tutti i colori dell’arcobaleno. So che per te è lo stesso, anche se non me lo dici.
Ma la follia la vuoi pure tu. Io lo so.
Adriana P.
Follie quotidiane di una mente assurda
àtinasni aim allen itnat onos oi e àtilamron aut allen onu ies ut éhcrep; olevs ol non e orehcsams it
éhcrep; igrocca en et non e odired it éhcreP.
avlas im em ni aillof al olos e ilrirpair accot im amron id am, ognoporp im onas id ehc òic eredev
non id etnemanasni odnareps, oduihc il ihcco ilg ossepS. ais ehc anasni o anaS. aillof al è oh ehc
aticsu id aiv acinu l’ihcco ilga intavad arrabs is im entemanaiditouq ehc òic ad atatneserppar è
amron al es èhcrep, em ni onasni id è’c asoc odeihc im arO. àtitnaS allad asiced àtinas artson alled
ittaip ien otaignam omaibba e; airetsi anasni alodnedner aillof anas orol al otazzamma omaibba E.
em id, et id inas ùip neb onare orol id itnauq e imocinam ien ericram a osuihcnir omaibba illof
itnauQ. amron allad irouf erats acifingis, otseuq acifingis ellof iamro éhcreP. elamrona id, ellof id
è’c asoC. et ouges non éhcrep olos, em ni onasni id è’c asoC.
Insensato
E’ insensato parlare di follia. E’ ancora più insensato parlare di follia, ora, in questa società ove
follia non è nient’altro che normalità. Non normalità inteso come qualcosa di normale, che sta nella
norma, perché la norma non esiste e il normale ancora meno. E’ insensato parlarne perché viviamo
nella rincorsa alla follia e sentirsi dire “Sei normale” corrisponde quasi a un insulto. E’ partita da
anni la caccia al trasgressivo, all’aggressivo, al diverso, al differente. E’ partita la rincorsa
all’apparire. E l’essere? E’ disperso altrove, da qualche parte, o in taluni ancora è presente. Che
follia è mai questa? Sei semplicemente te stesso, così semplice, così abituale! Diciamolo, sei anche
un po’ noioso. Che follia sarai mai questa: essere se stessi è la vera follia in un porto di mare in cui
essere normali è ormai eresia.
Alessia Cutrufo
Giochi della mente
Lucida follia intesse con mani abili, trame dal contorno distorto. Sorride, poi piange, in un volto che
è sé e io, che è maschera comica e tragica insieme. Lenta lavora ogni giorno, chiude gabbie di
diamante dalle maglie troppo strette per essere infrante. Muove fili di cristallo, fragili, ma che
lacerano la pelle scoprendo il sangue di un’anima imprigionata. Osserva, scruta lo sgomento, si
sorprende della forza, contrasta una lotta senza vinti…
Distorce i colori, cambia i volti alle cose, crea e disfa disegni nell’aria giocando con un dito a
toccare l’aria. Sposta i corpi pesanti di bambole senza vita, di legami ad un passato lontano che
ricrea se stesso in uno specchio infranto.
Folle!
Guarda il viso riflesso, gioca con i colori mutandolo in smorfia. Rivive, trasmuta, cambia la pelle
spogliandosi di sé…
Rinasce, da istanti di cosciente follia e libra alta un’anima di fuoco, libera dalle trame di un passato
a lei sconosciuto.
Andrea Mazzolini
In una notte di neve sbagliata
Mancavano due giorni a Natale e un vento sferzante dal Nord portava un freddo polare su tutta la
penisola. Tra parentesi, io a dire la verità non sono mai stato ai Poli ma immagino che ci sia molto
più freddo rispetto al centro Italia. Sono i telegiornali che parlano sempre di freddo polare d’inverno
e caldo tropicale d’estate. Evidentemente le iperboli vendono bene. Fine della parentesi.
Era veramente freddo ma le previsioni avevano escluso categoricamente che la neve che aveva
imbiancato gli appennini sarebbe scesa a bassa quota. Ciò nonostante nevicava, o meglio, il vento si
divertiva a far ruzzolare i fiocchi di neve. Stavo tornando a casa quando la spia del carburante iniziò
a lampeggiare, fu per questo che svoltai verso il distributore. Il benzinaio non c’era, non so se fosse
già passata l’ora di chiusura oppure se semplicemente avesse deciso di anticiparla. Utilizzai il selfservice e per una volta riuscii a non farmi mangiare la banconota dalla macchinetta. Risalii in
macchina e accesi i fari.
La vidi sulla strada, abbastanza svestita, nonostante il freddo. Non sapevo come si chiamava o di
che colore avesse gli occhi ma non avevo dubbi sul perché stava là. Era una delle tante sfortunate
che vendono un po’ di calore e un surrogato d’affetto. Fino a quel giorno non avevo mai utilizzato i
servizi offerti da lei o dalle sue colleghe. E non pensavo che me ne sarei mai servito. Ma un attimo
di follia può capitare, così, senza una ragione, se ci fosse una ragione per tutto non esisterebbero i
folli. La raggiunsi, rallentai e mi accostai a lei. Le aprii lo sportello senza dire niente e la feci salire.
Ripartimmo. Continuava a nevicare. Le chiesi come si chiamava. “Natalija”, rispose senza
aggiungere altro. Pensavo alla strana coincidenza di aver incontrato Natalija l’antivigilia di Natale e
non mi resi conto che stavo guidando direttamente verso casa mia, come se stessi accompagnando
una mia amica e non una donna di facili costumi. Ora direte che sono pazzo, e forse in quel
momento lo ero, ma quando entrammo in casa le feci fare un breve giro per mostrarle le stanze e le
preparai un tè. Provai a scambiare qualche frase con lei ma rispondeva solo a monosillabi. La
sensazione era che comunque capisse molto bene l’italiano ma che fosse stata istruita dai suoi
protettori a non raccontare niente. Finimmo in camera da letto ma non successe un gran che, ero
molto imbarazzato e il fatto di trovarmi con una professionista non aiutò molto. Le pagai comunque
quanto dovuto. Continuava a nevicare e nonostante mi dispiacesse riaccompagnarla sulla strada del
distributore con tutto quel freddo, non era rimasto molto altro da fare.
Fu allora che vide il mio pianoforte. “Io da ragazza suonavo e cantavo” disse con un sorriso misto a
malinconia. È passato così tanto tempo. Il mio sogno era interpretare la Carmen, non sai quante
volte mi sono immaginata un teatro gremito tutto per me. E guarda come sono finita…” Una
lacrima le solcò il viso. “Ah, vedo che parli italiano molto bene… se vuoi possiamo cantare
qualcosa insieme” proposi. “No, no, portami via…” Si diresse verso la porta e forse
riaccompagnarla era la cosa giusta da fare ma non sempre si segue la ragione e si fa ciò che è
giusto. Mi sedetti al pianoforte e cominciai a picchiare i tasti, cercando di suonare Habanera, l’aria
di Carmen. Erano anni che non la suonavo ma le note vennero da sé, sotto le mia dita, come per
magia, all’improvviso. Ma una magia, molto più grande, un miracolo, fatemi dire, stava per
sorprendermi. Come il canto di un usignolo, la voce di Natalija si librò in alto a ricordarci che
l’amore è un uccello ribelle che nessuno può domare.
Mancavano due giorni a Natale e due perfetti sconosciuti in un attimo di follia si sorpresero a
fermare il tempo e a lasciare fuori la vita e a cantare follemente una vecchia aria in una notte di
neve sbagliata.
Non l’ho più rivista.
Deborah Fasola
L’uomo nero: la follia che come un’ombra avanza
La stanza era buia ed io avevo paura, ma a trent’anni si può ancora aver paura del buio?
Stavo fissando quella porta che mi aveva così inquietato da bambina: era socchiusa e scura, come la
mente di molti esseri umani dai quali fuggivo costantemente. Non ero mai stata normale, le ombre
mi avevano reso una pazza, uno strumento del mio Io, un meccanismo di rimozione per un dolore
troppo grande.
Non mi era mai interessato ricordare, anzi, tutti i miei nervi erano sempre tesi ma la mia mente si
rifiutava di rievocare immagini.
Ci fu un tempo in cui lo avrei voluto morto, l’uomo nero. Non fu come per tutti gli altri bambini, fu
intenso e devastante, perché io avrei voluto distruggerlo con le mie mani, così com’era stato fatto a
me.
Ma quella notte ero tornata, quella notte avevo sfidato sorte e resistenze, per cercare di capire. Ero
di nuovo nella quiete della mia cameretta, l’avevano lasciata intatta, tra pizzi e merletti rosati, tra
bambole di porcellana che, come me, non parlavano e non sorridevano più. Poi uno scricchiolio mi
fece trasalire e sollevai le coperte sino agli occhi, come quando ero piccina.
Poi la mano scarna e tremolante di qualcuno, comparve nel varco dischiuso dell’origine del mio
orrore. Udii una risata sommessa e poi la sua voce, la voce del mostro che, ormai anziano, chiamava
il mio nome.
“Non nominarmi, fai che le tue sporche labbra macchiate di peccato, non pronuncino mai più il mio
nome… o ti distruggerò” pensai.
“Stai lontano da me, non sono più indifesa, sono pronta a lottare contro i fantasmi del passato e ora
che quell’oscurità io l’ho abbracciata, il nero che ti porti addosso, la devastata mente che agisce per
te… non mi fanno più paura. Hai capito? Io non ho più paura. Di te”
Ma lui avanzò, lui entrò nella mia stanza e nella mia nuova mente, lui scavò ancora dentro essa per
cercare di circuirmi, per plagiarmi, per toccarmi.
Era l’uomo nero, la follia che nell’ombra avanza, per inghiottire anche me.
Avevo scelto di non capire, di non voler più sapere… eppure era sempre stato vicino a me, l’uomo
nero dei miei sogni era sangue che mi scorreva nelle vene ed era colui che mi aveva donato la sua
follia, rendendomi parte di essa.
Poi un rumore sordo mi traumatizzò: era la sua testa che, picchiando forte contro il muro, lo
macchiava della sua pazza crudeltà, frantumando i pensieri che lo avevano accompagnato per una
vita, distruggendo il mostro che era stato.
Non era stata colpa mia, non ero stata io… era stata la pazzia: sua insana essenza, mia eredità.
Anna Cibotti
Genio e follia
Genio e sregolatezza.
Genio e follia.
Le due parole sono strettamente correlate ad un luogo comune che non mi trova d’accordo.
L’estro dell’artista non è proporzionale alla sua sua eccentricità.
Conosco persone che nel loro andare quotidiano sono capaci di fare cose che nella loro semplicità e
bellezza, di geniale hanno tutto.
Penso ad una amica che in cucina è più creativa di uno chef stellato.
E che dire del cesello dell’orafo, dell’intaglio del carpentiere, del cucito della sarta, del lavoro di un
artigiano?.
C’è fantasia e creatività in tutti loro.
C’è arte senza follia.
Ma esiste una follia ad arte.
Quella follia che agli occhi degli altri è normale se associata ad un artista.
Per creare, dipingere, scrivere, non serve la follia.
Il folle è folle.
Che sia genio o no.
Ma in chi uccide, stupra, ruba e fa la guerra il seme della follia c’è.
C’è anche il genio.
Il genio del male che in ognuno di noi, talvolta, si associa ad attimi di follia.
Angelo Francesco Anfuso
Ragionata Follia
Chiedo un attimo di silenzio,
un attimo di pace,
un attimo di comprensione,
un attimo di silenziosa follia.
Sono solo folle,
forse…
Chissà?
Permettetemi di cantare,
permettetemi di inneggiare
alla mia sorte:
crudele e tormentosa,
o forse dannata.
Chissà!
Sono un uomo,
un uomo folle.
Sono un uomo,
distinto,
originale è il mio vissuto.
Riconosco me stesso,
i miei limiti,
la mia natura.
Sono così. Basta!
Ma tu dove sei?
Non ho risposta, eppur mi sei d’innanzi.
Io ti osservo e tu non mi vedi.
Non hai coraggio di alzare i Tuoi occhi,
per osservarmi,
per scrutarmi.
Mi chiedo allora: “come potrò mai avere una Tua risposta?”
Un uomo saggio,
è reso saggio in virtù della follia,
perché essa orna e schiarisce
la sua natura.
Un vero uomo,
è Uomo solo quando
varca i gloriosi confini della conoscenza,
si trascende in essa.
Elevarsi alla conoscenza,
raggiungere le alte vette.
Questa è follia,
questa è silenziosa follia,
questa è filosofia…
Ma perché?
Sono saggio e folle,
sono un uomo perché penso: dunque sono.
Ragionamento sensato è il mio,
partorito nel silenzio del mio intimo.
Silenzio puro:
si!… ma folle.
Vito Nomade
La follia
Come scusa?
Dici che sono pazzo, solo perché normalmente (passami il gioco di parole) dico quello che penso?
Sì è vero, a volte esagero, ma non sempre.
Almeno secondo me.
Quella mattina, però, devo avere pestato i piedi a qualcuno, vero?
Ma io dico; se scrivi su un blog o su Fb o su altri cazzi di siti simili, perché non dire quello che
pensi? Va bene, scusa, niente parolacce…
Però sarai d’accordo con me che non c’è più la famosa o famigerata libertà di parola in questo (ex)
Bel Paese? E poi cosa mai avrei scritto di male, parlando dell’ex Presidente? Ho scritto solo che si
fot… ok ok, lo evito! Ripetermi fa male dici.
Se lo dici tu!
Ahh, la volgarità ti offende. E poi stai qui, davanti a me e insisti nello spiegare come ci si comporta
in pubblico, come ci si comporta nel caso si scriva ad altre persone… ma perché tu scrivi a te
stesso?
Ma allora il matto sei tu, non io.
Eccolo, ancora offeso… che palle di uomo che sei.
Ma lo sai che una volta io ero un giornalista? Bravo anche! E molto ricercato, aggiungo!
Poi un giorno, anche in quella occasione, ho scritto di un povero… ok, niente epiteti, di un politico
che rubava allegramente soldi pubblici e faceva a metà con un finto cattolico pederasta… ma cosa
t’incazzi? Era vero!
Eccolo lì… sempre a urlare che questo non si dice, che quello non si scrive: ma perché non vai
anche tu a dar via… ah, eccolo il vero macho che si maschera da giustiziere della verità e picchia il
povero imbecille di turno!
Voi siete tutti uguali: sia qui dentro, che fuori, nelle piazze! Non importa se in divisa o con una
penna, voi potete farlo.
Siete voi a fare i casini e a risolverli, dando a quelli come me la colpa di tutto.
Noi, per voi, siamo capri espiatori e capre da sodomizzare, ecco cosa siamo!
Eccolo finalmente il tuo vero “io”!
Come mi hai definito? Sporco comunista?
Ma tu lo sai cosa vuol dire essere sporco?
No vero?
Tu e tutti quelli come te, siete capaci di gridare slogan e parole al vento sentite e risentite milioni di
volte; senza senso, ma già dette e quindi, secondo voi, reali.
Beh mio caro dottore, sbagli!
Tu sei qui dentro, davanti a me, con un camice simile e con gli occhi sbarrati al sentire quello che io
e tutti gli altri ti diciamo, una volta alla settimana, in queste insulse riunioni di gruppo. E poi? Che
ne fai delle nostre parole?
Niente vero?
Finiscono in un file o in un cassetto a svanire, perché tu possa tornare a casa dalla tua bella famiglia
e fingere di essere sereno, mentre ti genufletti al potere. Magari sentendo nell’aria il profumo di
corna o di infelicità. Ecco cosa significa essere sporco: ipocrita.
Senza avere un tuo reale pensiero perché, tanto, non lo potresti esprimere.
Noi almeno torniamo nelle nostre celle imbottite. Ma con i nostri pensieri possiamo vivere.
Rossana Roxie Lozzio
La mia follia
Folle, è sempre stato considerato il sentimento che mi lega a te…
da chi mi ama e cerca di comprendermi,
da chi non mi capisce e persino da me stessa che, dopo tutto,
continuo a pagarne le conseguenze sulla mia pelle.
Folle, è da sempre l’amore che mi conduce da te ogni volta che posso
e altrettanto folle, è la sofferenza che mi accompagna quando torno alla mia vita.
Una vita vuota, nonostante tutto quanto accada che la possa colorare,
perché l’unico colore che l’accende nel profondo
è quello che emana la tua luce…
un colore immenso, unico, che racchiude tutte le tinte
di un arcobaleno dopo la pioggia più intensa!
Folle, è ogni attimo che precede i nostri incontri…
folli, sono le fantasie che faccio, mentre ti muovi…
folle, è la tua anima, così diversa eppure tanto vicina alla mia!
Folle, è ciò in cui mi trasformo,
io che non lo sono mai stata
e che non conoscevo il significato del termine
fino a quando non ho preso atto
di non poter amare nessun altro quanto te…
che sei e resti la parte irrazionale di me.
Ronni Corbari
Splendida follia
Sognare nel modo più viscerale possibile di raggiungere un obiettivo, avere costantemente quelle
che le giovani verginelle innamorate chiamano “le farfalline nello stomaco”, desiderare
ardentemente qualcosa che a te sembra quasi impossibile e che confidandoti anche solo alle persone
di cui nutri profonda stima, e quindi sai che ti potrebbero dare solo consigli sensati e ben ponderati,
ti senti dire “Stai attento, poi potresti rimanere deluso”, oppure “Non credo che sia la cosa migliore
da fare”, o “Solo tu puoi pensare una cosa del genere” , e capisci che nemmeno quelle persone
capiscono fino in fondo la tua anima. Nessuno riuscirà mai a comprendere i tuoi pensieri in tutta la
loro complessità e forse nemmeno tu. Ma quando arrivi alla fine della corsa, della lotta, quando il
sogno lo puoi toccare e ce l’hai lì a portata di mano, e perché no anche di pisello, lasci cadere tutto.
La ricerca è finita, come dopo un mucchio di partite sempre difficili, sempre diverse l’una dall’altra,
ti danno l’agognata Coppa dei Campioni e tu esulti totalmente fuori controllo. Poi basta, finito. In
quella coppa c’è il triste messaggio che sancisce la fine dell’avventura ma che in qualche modo ti
sprona a cercarne un’altra diversa e magari anche più difficile. Ma gli altri non capiscono quando
dopo un successo ti volti senza dire niente e cambi strada. “Sei un pazzo”, ti dicono e forse hanno
ragione. Ma quando decidi che la tua vita deve andare così, che gli obiettivi sono solo ingranaggi di
un motore più complesso ecco che un sorriso impercettibile si materializza sulla tua bocca. Nessuno
potrà mai toglierti e capire questa tua splendida follia.
Luigi Bonzanini
Un drastico gesto
In effetti, a causa d’una sequela imprevista di penose esperienze, il mite ed ingenuo Domenico
Sangallo, anziano musicista ormai in pensione, era progressivamente caduto in preda ad una curiosa
forma di ossessione.
Praticamente nel giro di pochi mesi il suo umore s’era fatto sempre più cupo e il suo
comportamento era divenuto imprevedibile fino al limite della bizzarria.
Si era segretamente convinto d’aver sprecato la propria vita inseguendo falsi valori e lasciandosi
abbindolare da persone di pochi scrupoli che avevano carpito la sua buona fede per portarlo infine
quasi al tracollo finanziario.
In realtà, il principale artefice dei suoi guai era stato lui stesso con la sua ingenua fiducia nelle
apparenze più vacue del mondo e del suo prossimo, assecondata da una razionalità piuttosto
grossolana e colma di luoghi comuni.
A Sangallo restava ormai soltanto un amico fidato: il portiere dello stabile in cui abitava; un
vecchietto bonario e senza pretese che rispondeva al nome di Gondrano Scopettone.
Costui conosceva i più intimi segreti del Sangallo come del resto era al corrente di tutti i fatti del
caseggiato e, da integerrimo portiere quale tutti lo ritenevano, sapeva ascoltare senza commenti e
soprattutto sapeva tenere per sé le magagne di cui era a conoscenza
La sera della vigilia di Natale Domenico Sangallo, rientrando nel suo malinconico appartamento da
scapolo, passò come sempre davanti alla guardiola dello Scopettone e, preso da un’improvvisa
smania di confidarsi, rivolse al suddetto una frase decisamente inquietante:
“ Ormai ho deciso: è per domani!… ”
Gondrano Scopettone strabuzzò gli occhi e, con un tono pieno d’apprensione, reagì:
“Ma come, per domani?!… Ha pensato bene alle conseguenze?… Rifletta prima di fare una tale
fesseria!…”
Sangallo, con il volto tirato e un’espressione dura nello sguardo ribadì:
“Devo compiere qualcosa di estremo per avere la mia rivalsa su questa umanità vigliacca! Ho
deciso per domani e la mia decisione è ineluttabile!… ”
“Ma chi ve lo fa fare?!… Nessuno capirà il perché e l’unico che ci rimetterà sarete solo voi, come al
solito!… ”
Indifferente ai saggi consigli del portiere, Sangallo, con lo sguardo spiritato fisso nel vuoto, gettò là
un’ ultima frase lapidaria:
“Occorre un esempio, un grande sacrificio per smuovere le coscienze inerti di questa gente arida e
bolsa!… ”
Gondrano, con aria desolata, non poté fare altro che scuotere la testa e chinare il capo mentre
l’anziano musico s’avviava verso le scale.
*
Giunto nel suo silenzioso appartamento Sangallo si tolse il cappotto e, senza neanche cenare, passò
la serata fissando tristemente dal balcone la strada illuminata a festa. Verso mezzanotte
s’addormento sulla poltrona del salotto.
Si svegliò circa alle sette del mattino con lo stomaco che brontolava per la fame e il collo dolorante
per aver dormito in una posizione innaturale.
Sbirciò fuori dalla finestra e restò stupefatto per quel che vide: durante la notte era caduta la neve e
una fitta coltre bianca ricopriva ora tutta la strada sottostante, i tetti delle case, le siepi dei giardini e
gli alberi spogli.
Storse la bocca in un ghigno amaro e sussurrò fra sé:
“Ma bene!… Qualcuno lassù vuole complicarmi le cose!… Ma io non demordo!… Ormai ho deciso
per oggi e oggi sarà!…”
Passando per il corridoio gettò uno sguardo distratto al grande specchio che ne ornava la parete e
rimase quasi spaventato dal furore che i suoi occhi spiritati tradivano. Anni di umiliazioni e
solitudine sarebbero stati riscattati da ciò che si accingeva a compiere; inesorabilmente tutto il
mondo si sarebbe finalmente accorto di lui e sarebbe rimasto attonito dinanzi al suo coraggio ed alla
sua incrollabile determinazione.
Entrò nella camera da letto e lentamente, con gesti calmi e studiati, cominciò a togliersi la cravatta,
poi la camicia, la canottiera e via di seguito.
*
Più o meno nello stesso momento, il portiere Gondrano era intento a spazzare di malavoglia la neve
dal marciapiede di fronte allo stabile. Maneggiava la scopa con gesti meccanici e fiacchi dato che la
sua mente era decisamente altrove: pensava al vecchio Sangallo e al drastico gesto che intendeva
compiere.
“Quello è talmente matto che può fare veramente una fesseria!… Bisognerebbe avvertire qualcuno.
Ma chi?… Non ha parenti, non ha nessuno, neanche uno straccio d’amico!… Forse sarebbe il caso
di chiamare il 113!.. Ma se poi non succede niente, la figura del fesso la faccio io! ”
Un vero dilemma senza scappatoie. Con la scopa in equilibrio sulla spalla, Gondrano s’avviò verso
la sua guardiola dove l’aspettava un bricco di caffè fumante.
Mentre lo sorbiva un sorso dopo l’altro, dalla tromba delle scale silenziose gli parve di percepire lo
scatto d’una serratura. Fu come se un segnale d’allarme fosse scattato dentro di lui: posò la tazza di
caffè e, veloce per quanto glielo permetteva l’età avanzata, si precipitò su per le scale fino al primo
piano dove abitava Sangallo. Quando giunse sul pianerottolo tutti i suoi peggiori presagi parvero
avverarsi: Sangallo era ritto sulla soglia spalancata del suo appartamento con gli occhi sbarrati che
fissavano il nulla davanti a sé e, perduto in un suo segreto delirio, biascicava frasi sconnesse del
tipo:
“La mia riscossa è giunta!… Tutti mi devono vedere!… Sono un simbolo!… Sono l’unico puro e
innocente in un mondo ipocrita!…”
Con le mani fra i radi capelli, Gondrano Scopettone lanciò un gemito di scoramento e poi strillò:
“Oddio, l’ ha fatto sul serio!… L’ ha fatto sul serio!… ”
Pallido come uno straccio, si portò le mani agli occhi per non vedere l’orrore che stava davanti a lui
e, in effetti, nessuno avrebbe potuto dargli torto dato che Domenico Sangallo, nudo come un
verme, avanzò a passi decisi sul pianerottolo e lentamente, con plateale compiacimento, gli passò
accanto per poi scendere lentamente le scale e, una volta giunto nell’androne, s’avvio speditamente
verso il portone dal quale schizzò fuori a braccia levate nell’aria gelida calpestando la neve fresca
coi piedi nudi e continuando a blaterare:
“Sono un essere puro!… Sono un fanciullo gentile!… Non abbiate paura: fate come me e sarete
mondi!…”
*
Purtroppo lo sventurato aveva scelto male il tempo ed il luogo per la sua esibizione in costume
adamitico, stante che la mattina del giorno di Natale verso le sette quasi tutta l’umanità indugiava
volentieri sotto le coperte dopo una serata di festeggiamenti. Oltre al Gondrano, l’unica testimone
del gesto provocatorio fu una vecchia ottuagenaria che per tempo si stava recando in chiesa per la
funzione mattutina.
Mentre camminava quieta e trasognata lungo il viale che portava alla chiesa, la signora Orietta
Beccacivetta, tale era il nome della poverina, vide d’un tratto sbucare da una strada laterale il
Sangallo che avanzava verso di lei a passi incerti con le braccia tese verso il cielo e con gli attributi
in bella mostra, ululando:
“ Sono un fanciullo gentile!… ”
Doveva aver percorso circa un centinaio di metri correndo senza meta nella neve dato che il volto
appariva già cianotico e le gambe magre ed ossute arrancavano tremanti facendolo barcollare.
Impietrita dallo stupore e dall’orrore, la Beccacivetta riuscì a stento ad emettere un gemito strozzato
per poi accasciarsi di schianto sulla neve che fortunatamente attutì la caduta. Sconvolta e tremante,
poté a malapena scorgere la sagoma ignuda del vecchio garrulo che le passava accanto per poi
allontanarsi barcollando verso il centro cittadino.
A questo punto le urla dello sciagurato lentamente si fecero sempre più fioche e il viale deserto
ripiombò nel silenzio ovattato ed irreale di quello strano mattino d’inverno. Dopo circa un minuto,
trafelato e spaventato, apparve il portiere Gondrano, chiamando a gran voce:
“ Sangallo, Sangallo, per carità, torni a casa!… Si piglierà un malanno e poi daranno la colpa a
me!”
Ma ormai Sangallo, perduto nel suo delirio, non lo poteva più sentire e anche se lo avesse udito…
Il ricordo
I ricordi sono la struttura interiore di ognuno di noi e ve ne sono alcuni che rimangono impressi e
indelebili nei nostri animi, pronti a ricondurci con la memoria al tempo in cui sono stati vissuti.
Basta davvero poco a volte, un profumo, un colore, un brano musicale e la nostra mente rivive quel
momento che ha segnato, in qualche modo, la nostra vita. Dunque il nuovo argomento richiede lo
sforzo della vostra memoria e il desiderio di condividere quell’istante essenziale con noi.
Rossana Roxie Lozzio
Hai cambiato la mia vita
Partita all’improvviso
per non tornare più
Non ho amato più nessuno
non apro il cuore più.
Sì, quel giorno sei partita
faceva caldo ma
dentro è sceso un freddo gelido
che è ancora in fondo a me.
E il mio pensiero vola
ti cerca e non ti trova…
Eri tutta la mia vita
non te l’ho detto mai
Hai portato via in un attimo
la luce che era mia
Come un vento gelido
che soffia e spazza tutto via
Una madre fantastica
toccata in dote a noi
Eri proprio una favola
e chi ci crede, ormai…
E il mio pensiero vola
risposte mai non trova
Hai cambiato la mia vita
andandotene via
Ti sei spenta e in un attimo
la luce è andata via…
I colori accesi e vivi
non torneranno più.
Ogni tanto non ci credo
è impossibile, sai!
Ricordare fa male,
non può essere, dai…
tu rispondimi, adesso!
La chiave dei ricordi
Ho imparato a relegare i ricordi in un angolo remoto della mente, là dove, complice la mia cattiva
memoria, non dovrei riuscire ad andare a ripescarli nemmeno se lo volessi!
Ho la pessima abitudine, però, di spalancare la porta chiusa a doppia mandata dietro la quale so che
si nascondono, soprattutto quando si tratta di te e pur sapendo che mi farò male, ne estraggo uno e
lo trascino fino al cuore ed una luce così chiara e fastidiosa mi appare davanti agli occhi, come si
accendessero decine di lampade al neon e m’impedissero di vedere altro che te, nella tua
magnificenza!
Sono pochi, i ricordi che ci vedono insieme, per lo più sono legati solo a te, alla tua bellezza, alla
tua voce… e quando ripenso a quei rari momenti vissuti al tuo cospetto, mi ritrovo a sorridere e
nello stesso tempo, mi commuovo. Se sapessi quello che smuovi da sempre, qui dentro… mi
domando se e quanto ti sentiresti colpevole, adorabile carnefice!
Invece, continuo a tacere, ad amarti in rigoroso silenzio e ad evitarmi di dover aggiungere un
ricordo a quelli racchiusi dietro a quella porta blindata… un ricordo che diventerebbe indelebile e
che vedrebbe me, delusa, amareggiata, prossima alle lacrime, mentre ti ascolterei affermare che non
c’è speranza che quel presente che ci vede da sempre in separate sedi, si trasformi in un futuro
comune.
Non aprire quella porta sarebbe quanto di meglio potrei fare per me stessa… dimenticare anche
dove lascio la chiave che ne apre la serratura, di tanto in tanto e che mi riconduce dritto da te.
Invece, la chiave dei ricordi, è sempre con me, in qualcuna delle tasche del cuore, del corpo,
dell’anima… esattamente dove so che abiti anche tu e dove corre la mia mano, ad afferrarla.
Irma Panova Maino
Il matrimonio
In che modo comprendi che è giunto il momento e che è lui l’uomo della tua vita?
Quando, guardandolo negli occhi, ti rendi realmente conto che desideri passare il resto della tua
esistenza con lui?
Forse quando te lo chiede.
Forse quando s’inginocchia platealmente davanti a te con un bel mazzo di fiori in mano, dietro il
quale il suo volto imbarazzato sparisce e ti chiede con voce tremante: “Vuoi sposarmi?”
Francamente, fino a quel momento, fino a quando non gli ho visto posare quel ginocchio per terra,
non mi era passato nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di sposarlo e tanto meno di passare
il resto della mia esistenza con lui. Tuttavia, proprio in quell’attimo in cui si schiariva la voce e dava
fiato alle trombe, mi sono resa conto che non era così assurdo prendere seriamente in
considerazione la proposta. In pochi secondi mi sono passati davanti agli occhi tutti i trentadue anni
della mia vita, tutti gli uomini che ne avevano fatto parte, tutte le sconfitte e le vittorie e mi sono
detta, perché no?
Credo che in effetti quel “perché no?” non fosse esattamente la motivazione migliore per convolare
a giuste nozze, ma tant’è che dissi di sì.
Peccato che me ne pentii praticamente nell’istante successivo, stretta nel suo abbraccio mortale,
mentre farfugliava quanto fosse felice della mia risposta.
A questo punto c’è da chiedersi perché non cercai subito di rimediare alla situazione e non cercai di
porre un freno al suo entusiasmo. Se lo avessi fatto subito, avrei potuto contenere i danni, avrei
potuto quanto meno evitare tutto il caos che si scatenò subito dopo e la sbronza colossale che mi
presi entro la fine della serata e che mi tormentò con i suoi postumi per ben due giorni, forse tre.
Peccato che mi nascosi proprio dietro a quei calici che vennero levati per festeggiare l’evento,
sorridendo come un ebete da dietro il bordo fine di cristallo, osservando il mondo impazzito
attraverso le bollicine scoppiettanti dello spumante. Nemmeno il mal di testa del giorno dopo riuscì
a farmi rinsavire, nemmeno quello ebbe il potere di riportare un po’ di buon senso nei miei pensieri
alcoolici. E tutto questo perché, per tutta la notte, ero stata ulteriormente convinta dal mio promesso
sposo, il quale si era lanciato in tutta una serie di performance degne del più navigato attore porno.
A seguito di una sollecitazione del genere, come potevo rifiutare? Come potevo tornare sui miei
passi e dirgli semplicemente: scusa, lasciamo perdere?
Non potevo.
Non quando mi guardava con quei suoi occhioni azzurri e languidi, con quelle sue labbra
imbronciate e mi sussurrava parole tenere e gentili alle orecchie, facendomi sentire l’orco e la strega
cattiva in un miscuglio degno di Barbablù. Come potevo stroncare quella felicità che gli vedevo
lampeggiare negli occhi, ogni volta che incrociavo il suo sguardo?
Ma cielo! Che diavolo stavo combinato?!
Forse non sarà stato il migliore degli uomini, ma era pur sempre una brava persona, un essere
delicato e comprensivo, un uomo che riusciva comunque a infondermi una serie di sentimenti
positivi. E nemmeno quelli erano una motivazione sufficiente per sposarsi.
Avevo sempre pensato che quando fosse giunto il fatidico momento della proposta, mi sarei sciolta
nel romanticismo, mi sarei sentita annientata da un’esplosione emotiva stratosferica, mi sarei
dissolta in lacrime e avrei finito per tremare come una foglia… non che sarei stata sommersa da
ondate di panico.
E ancora una volta c’è da chiedersi perché non fermai quel circo che si scatenò intorno a me,
trascinando nel vortice degli eventi sia gli amici che i parenti di entrambe le parti.
Perché calcolai, erroneamente, di poterlo sopportare. Di poter far fronte ai doveri e di potermi
godere i diritti. A trentadue anni era anche ora che mi sposassi, che uscissi dalla lista delle zitelle,
pardon, oggi come oggi si chiamano single per scelta, anche se per quella degli altri, e mi lanciassi
in quell’avventura coniugale a cui, bene o male, ogni donna aveva diritto di approdare, superata la
trentina.
A trentadue anni, con qualche rapporto naufragato alle spalle una serie di episodi più o meno tragici
nella mia vita, probabilmente avevo tutti i diritti di meritarmi una stabilità e una sicurezza derivanti
proprio da un matrimonio. In fin dei conti, se proprio fosse andata male, sarei stata una divorziata e
non più una zitella.
Certo che pensare ai preparativi per le nozze con in testa l’idea che, semmai dopo, avrei sempre
potuto fregiarmi del titolo di divorziata e non più di zitella, non era proprio il massimo. E questo
avrebbe dovuto dare un’ulteriore misura di quanto fosse profondamente sbagliato il passo che mi
accingevo a compiere. Perché non me ne resi conto?
Penso che a volte nella vita si opti per il male minore, per quello che pensiamo possa essere la
soluzione ideale a tutti i nostri mali, dando una svolta definitiva a un percorso già fallimentare.
Forse se ci legassero a una sedia e ci ponessero davanti a uno specchio, magari la nostra stessa
immagine potrebbe in qualche modo farci rinsavire, magari sputandoci in un occhio. Peccato che
difficilmente venga fatto uso di specchi in questi casi e non per l’utilizzo per cui andrebbero usati.
Quindi, mi ritrovavo con un uomo in ginocchio, sprizzante gioia da tutti i pori, il quale si stava già
lanciando nell’organizzazione dei preparativi mentre io restavo lì, attonita, a osservarlo in silenzio,
con la mente che rincorreva pensieri confusi che sfuggivano continuamente a qualsiasi logica.
Avevo appena acconsentito al matrimonio, avevo appena posto una seria ipoteca sul mio futuro e
avevo appena accettato di passare il resto della mia vita svegliandomi ogni maledetta mattina di
fianco a lui.
Il sonoro e rimbombante clangore del portone della mia coscienza si richiuse con un tonfo
assordante, dandomi la netta impressione di essere appena stata sbattuta fuori di casa. Di essere
stata abbandonata nel nulla delle mie scelte sbagliate, con un enorme indice puntato verso l’infinito,
sul quale vi erano scritte a lettere cubitali le parole: adesso arrangiati!
Quando non si dà retta al buon senso, non resta altro da fare che arrangiarsi.
D’altra parte, perché non avrei dovuto prendere in considerazione il mio futuro sposo? Era un
bell’uomo, alto un metro e ottanta, bel fisico longilineo, capelli biondi, occhi azzurri, un tipo
assomigliante alla John Voight, sorridente, spensierato, pronto a tutto per avermi… quindi dov’era il
problema?
Purtroppo lo scoprii dopo dov’era il problema e capii anche che cosa il mio stramaledetto
subconscio aveva tentato di comunicarmi prima del fatidico “sì”. Ma accidenti, perché il subconscio
parla in aramaico antico quando tenta di comunicarti qualcosa di importante? Perché non si limita
semplicemente a esporre i fatti in modo chiaro e preciso?
Perché forse ci sentiremmo ancora più degli idioti.
Dopo sei mesi restituii il mio sposo alla sua famiglia, depositandolo sul zerbino d’ingresso insieme
alle sue valigie e a tutte le sue cose, cercando di non sottolineare l’ovvietà del fatto, ovvero che mi
avevano rifilato un “prodotto” che non era adatto a me.
A lui piacevano gli uomini. Questo era il problema. E rendersene conto, trovandolo a letto con il
testimone di nozze, non era stata esattamente una bella sorpresa.
Non mi fece incazzare il fatto che fosse gay, mi fece diventare furibonda il fatto di avermelo taciuto.
Accidenti a lui… se me lo avesse detto chiaro e tondo fin dal primo momento, forse lo avrei sposato
ugualmente, ma la menzogna non riuscii proprio a tollerarla.
Tuttavia, ancora adesso mi chiedo come fu possibile per lui avere rapporti sessuali con me, viste le
sue preferenze… non lo saprò mai e forse nemmeno lui.
Mio padre
Ricordo mio padre. Un uomo che ho compreso solo nel momento in cui l’ho perduto. Un uomo che
mi ha dato il suo nome, la sua casa, il suo affetto e il suo rammarico per non essere riuscito ad
amarmi fino in fondo per ciò che ero. Ero troppo simile a mia madre, diceva. E lui era arrivato a
odiarla. In verità lei aveva fatto di tutto per farsi odiare, per distruggere quel poco di rapporto
umano che avevano costruito insieme, rendendolo un uomo acido, sofferente e perennemente
insoddisfatto del proprio vissuto. Ma l’ho capito dopo, ho compreso la distruzione alla quale è
andato incontro solo dopo che la terra aveva ricoperto le sue spoglie. Tuttavia, il momento in cui ho
rivissuto tutto il nostro dramma padre/figlia è stato il giorno in cui sono dovuta andare a riesumarlo.
Barbara abitudine di una società impietosa e crudele. Come si può pretendere che qualcuno dei
parenti presenzi a un rito così orribile? Come si può pretendere che sia presente per constatare
l’avvenuta “consumazione” del cadavere?
Per Dio! Era un uomo prima di essere solo ossa e polvere!
Ricordo il momento in cui hanno aperto la fossa, ricordo la mia solitudine per essere stata l’unica
che ha avuto il coraggio (o l’incoscienza) di esserci. E le immagini di quegli attimi sono ancora
impresse nelle anse del mio cervello, come tarli che ogni tanto vengono a tormentarmi,
sottolineando la nostra stramaledetta inutilità su questo suolo terrestre. Siamo niente. Siamo solo
ossa e polvere che un giorno finiranno per consumarsi del tutto, tornando a concimare quel terreno
che abbiamo calpestato senza nemmeno vederlo.
Siamo falene destinate a bruciare e stelle ormai spente, che ancora vagano nel ricordo della propria
impronta orbitale. Siamo solo una frazione di nulla fugace, nell’immenso spazio del tempo. E io lì,
ritta e ghiacciata, davanti a quella fossa aperta, ricordai solo l’uomo che fu. L’uomo che portava i
suoi centoventi chili su un metro e ottanta di individuo senziente, colmo di un amore che non è mai
stato compreso, né da me né tanto meno da mia madre. Un uomo che è morto nella solitudine di un
letto di ospedale in piena notte, venendo a darmi il suo saluto quando già il suo ultimo respiro
veleggiava nell’etere. Un’ombra appena percettibile, il tocco di dita invisibili che mi hanno appena
sfiorata, trasmettendomi ciò che la carne e il sangue non erano state in grado di comunicare. E in
quella mattina gelida, mentre riponevano i suoi resti in quella che sembrava una scatola per scarpe,
solo un poco più grande, mi sono chiesta più volte come potevano entrare le sue spoglie in un
contenitore così piccolo. È stato allora che gli ho rivolto il mio saluto di figlia. L’ultimo.
L’ultimo viaggio
Lo faremo insieme
Tenendoci per mano
E sorridendo alla vita
L’ultimo viaggio
Lo faremo insieme
Nel silenzio
Del mio cuore
Andrea Leonelli
Poi torni a ora
Ricordi
Come fiumi
Una goccia che diventa
Un fiume in piena
Basta niente
Per tornare
Viaggiando
Impotenti a opporsi
Involontari passeggeri del sé
A momenti
Seguendo il filo
L’incisione della mente
Sentirla con le dita
Come un bassorilievo
Leggendo il braille della mente
Riscoprendo se stessi
Nel dolore atroce
Nella gioia incredibile
Nell’estasi di attimi
E poi paura
Perdite
Ognuno ha scolpito in se
Il proprio passato
Creato ad arte
dalle mani del proprio sentire
A volte come strappato alla vita
e cacciato a forza
nella memoria
Rimanendo
Attimo
Indelebile
Magari impolverato
ma incancellabile
Sono frasi
Sono suoni
Sono a volte microscopiche
ma profondissime
stilettate
Altre volte lievi ed estese abrasioni
come a scivolare sull’asfalto
della propria vita
Ferite
piccole e sporche
o incisioni nette
e ricordi chi ti sutura l’anima
confortandoti senza grazia
Nella mente gioie e dolori
Quelle estasi
che devono provare i panni
stesi al sole
o i fiori schiudendosi per la farfalla
la gioia degli occhi
nel vedere l’amata
la dolcezza magica
di due labbra che accarezzano
uno stringersi di mani
Poi torni a ora
E continui a costruire i tuoi ricordi
Ricordi
Ricordi che rimangono
come segni sulla pelle
come immagini impresse
sulle lastre della memoria
stampe della vita
appese alle pareti del nostro essere
flash di sensazioni
che ti assalgono al sentire
musiche, profumi e colori
oppure guardarsi allo specchio
e vedersi finalmente
come ti ricordavi di essere
ma eri senza chiarezza
momentanee amnesie di se stessi
il sapore dei sogni quando apri gli occhi
il calore sulle mani
si ricorda sempre tutto
alcune sfumano
altre restano nitide
ma tutte
dentro
lasciano il segno
anche dopo solo un attimo
hanno già
il loro posto
nella memoria
Nadia Milone
Il regalo
Sarebbe bello chiudere gli occhi e far finta che non sia mai successo, che tutto quel dolore che mi ha
soffocato in questi ultimi mesi, non fosse altro che un brutto sogno. Ma non è così, non è possibile
far finta di niente. E proprio questi sono i giorni più tremendi… Esattamente un anno fa, come oggi,
era il mio compleanno. Auguri, festa, torta, il tutto organizzato in un bellissimo villaggio turistico
della Sardegna. Cosa avrei potuto desiderare di più? Un regalo… Oh sì, un regalo! E’ arrivato
eccome! Proprio lui me l’ha fatto… il regalo più spietato e crudele. Poche parole in un messaggio
mi hanno fatto capire quanto poco contassi e quanto poco valessi. ” Non voglio problemi, io non mi
rovinerò la reputazione”. Questo contava per lui, la reputazione. E io ho sputato sangue per
difendere quello che credevo potesse sbocciare tra noi. E invece? Un’illusione, un’utopia,
immaginazione… ecco cos’era.
Avrei dovuto scacciarlo dalla mia mente come un insetto fastidioso, ma non ce l’ho fatta. Ogni
giorno lui era lì, nella mia mente, con quelle parole che mi uccidevano giorno dopo giorno.
Durante questi mesi, ho cercato di andare avanti in qualche modo e non pensare. Forse ci sono
anche riuscita. Ma oggi… dannazione, oggi è il mio compleanno, di nuovo! E i ricordi mi assalgono
e mi travolgono, come un anno fa. Sarà sempre così? Il mio compleanno sarà sempre una ricorrenza
malinconica?
Spero di non ricevere altri regali, mai più…
Andrea Mazzolini
Io le tue labbra ricordo, improvvise
Io le tua labbra ricordo, improvvise.
Vino e miele ricordo, luna e sole.
Un aroma che inebria,
dolcezza che consola.
Un fuoco che divampa,
il buio che riposa.
Io le tue labbra ricordo, improvvise.
Avrai letto stupore nei miei occhi:
come la prima volta che si vola,
la prima volta al largo con la prua.
Tu sei talmente bella
che ancora non ci credo,
fu l’ultimo pensiero
prima di naufragar sulla tua bocca.
Le tua labbra ricordo, inaspettate
in quella sera tiepida di maggio.
I tuoi baci son vento tra le foglie,
echi di canti antichi,
spiagge di cielo, nuvole di mare.
I tuoi baci, improvvisa primavera
di fiori nuovi sui miei prati bianchi,
un ricordo che il tempo non cancella.
Tu sei talmente bella
che ancora non ci credo.
Elisabetta Bagli
Luis
“Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo che tu sia la più buona che conosco e
più brava di me a fare praticamente tutto. Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono
precipitato qui. Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo farlo. Sono sicuro che
dovresti infilarti questo anello e dire sì davanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché
so dove abita e non sarebbe un problema. Solo sì. Sono sicuro che dovresti fare quest’unica,
semplice cosa. Perché ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo.”
Guardo Luis senza parlare. Non so che dire. Me l’aspettavo. Era esattamente ciò che volevo dopo
tanti anni insieme, dopo aver fatto dell’aereo la nostra casa. Roma-Madrid-Roma, la tratta più
battuta degli ultimi nove anni.
L’amore. La mia prima volta. Il nostro desiderio di creare una famiglia. Tutto coincideva. Tutto
portava a questa meravigliosa dichiarazione d’amore.
Perché non parlo? Perché non gli dico: “Sì”? Che mi succede?
Lo guardo e mi sento combattuta. Vorrei saltargli al collo e gridare con tutto il fiato che ho in gola:
“Sì, ti sposo, perché sono felice con te, perché ti amo, perché mi hai fatto scoprire il mondo, mi hai
dato la gioia di sentirmi amata per quello che sono, perché sei il mio uomo, sarai il padre dei miei
figli…” E, invece, sono qui. Bloccata.
Siamo in piedi ad un angolo del “Tempio di tutti gli dei”, il Pantheon a Roma, la mia città.
Nemmeno i raggi intensissimi del sole che entrano dall’Oculus al centro della maestosa Cupola,
illuminando i nostri volti, riescono a dissolvere quella nube che si sta facendo sempre più fitta nella
mia testa.
Perché non parlo? Perché non gli dico:“sì”? È semplice, davvero un’unica semplice cosa dirlo.
Non ne sono ancora capace. Per un’interminabile frazione di secondo, davanti ai miei occhi si è
materializzata la tua figura. So che non sei qui. So che sei un prodotto della mia mente, ma ti vedo.
Bello, sorridente, felice che mi guardi e non mi vedi, come sempre. Ho sofferto in silenzio sapendo
che per te non sono mai esistita. Perché sperare ancora che a pronunciare quelle parole sia tu e non
Luis? Ormai ho perso il conto degli anni che ho vissuto nell’illusione tutta mia che un giorno forse,
grazie a un miracolo, l’avresti fatto. Ma tu non mi hai dato speranze, mai. Perché continuare ad
amarti così? Perché farmi del male e farlo soprattutto a Luis che mi ama immensamente?
Eccolo! Ora che vedo il suo volto che mi scruta, in attesa di una mia risposta, ora che sento il calore
del suo abbraccio, che mi asciuga con il suo fazzoletto le due lacrime che stanno scendendo sul mio
viso, senza conoscerne il motivo, so che ti devo lasciare per sempre. Già l’avevo fatto. Sono nove
anni che non mi ritornavi in mente così prepotentemente come sta accadendo ora. Ora che non
dovevi. È un passo importante per me, un passo che vale tutta la mia vita, il mio futuro, la mia
felicità.
Ma chi me lo dice che con te sarei felice e con Luis no? Ho trascorso nove anni meravigliosi con
lui. Sono stata e sono felice con lui. Lo sarò anche in futuro. Non voglio pensarti un minuto di più.
Non voglio rimanere ancorata al ricordo di chi non mi ha mai visto né come bambina, né come
adolescente, né come la donna che sono diventata. Tu conoscevi la mia esistenza. Avevi
semplicemente deciso d’ignorala. Perché io non dovevo fare lo stesso con te? Mi sono costruita le
basi per una vita alla quale andrò incontro con il sorriso sulle labbra, senza te.
Se rispondo di “sì” a Luis, so che la mia vita cambierà totalmente. Dovrò fare le valigie, mettere
tutto il mio mondo lì dentro, portarmelo dietro e crearmene un altro. Ma lo voglio? Sì che lo voglio!
Lo voglio! Voglio vivere il mio sogno, quello possibile, l’impossibile rimarrà per sempre
impossibile. Voglio vivere l’avventura della mia vita insieme a Luis. Voglio farlo ed amarlo con
tutta me stessa.
“Sì, Luis, amore mio, ti sposo!”. Con uno slancio l’abbraccio forte. Il mio cuore gli sorride. Luis mi
mette l’anello al dito e me lo bacia. Il raggio di sole che illumina le sue labbra felici, lo rende
meravigliosamente bello. Il sole ha rischiarato la mia mente. Ora so che la mia decisione è quella
giusta.
Gabriele Palumbo
Orme
Nei momenti di solitudine vorresti mandare a fanculo la tua testa…il silenzio faceva eco ai miei
pensieri, e io pensavo sempre al passato, se pensavo a bei momenti rimpiangevo che non potessero
più tornare, se pensavo a momenti negativi rimpiangevo il fatto che sarebbero potuti andare
diversamente…in ogni caso avrei preferito non pensare…ma era impossibile…tutto ciò che avevo
visto o fatto nel corso della mia vita mi tornava in mente come un insieme disordinato di immagini
e suoni: vecchi amici, vecchi amori, viaggi fisici o mentali che fossero…ricordavo tutto…fluttuavo
nel nulla insieme alla mia mente…ormai non contava se fossi tra le quattro mura della mia stanza o
fuori in mezzo a chissà quante altre teste pensanti…ormai non contava niente…ero chiuso in me
stesso…decisi di uscire e dopo un po’ mi ritrovai davanti ad un viale alberato, sulla destra si vedeva
una catena di montagne dalle vette ancora innevate, l’aria era fresca, ma il calore del Sole rendeva
la giornata piacevole…mi fermai a guardare il paesaggio e tornai a pensare:” quante cose avevo
fatto, cose piacevoli da ricordare, cose che non avrei mai voluto vivere, cose da andarne fiero e
molte altre no…e sapevo che ne avrei fatte ancora tante”…ripresi a camminare… i pensieri mi
seguivano ovunque andassi…
Ricordi futuri
Ogni volta con gli amici si parlava di ciò che avevamo fatto insieme…ogni santa volta ridevamo e
scherzavamo pensando alle solite cazzate fatte in passato…e ridevamo e scherzavamo…ogni
volta…ma a cosa serviva mi chiedevo…perché continuiamo a rifugiarci nei ricordi…e perché poi
erano sempre i bei ricordi ad uscire fuori in quei momenti, mentre quelli negativi ti assillavano
quando eri solo e disarmato, quando erano più difficili da tenere a bada…ogni volta era sempre la
solita storia, ti divertivi certo, ma era solo un modo per non guardare in faccia la realtà, la tua realtà,
la nostra realtà…ci rifugiamo nei ricordi ogni volta che non abbiamo il coraggio di pensare al
futuro…o forse perché siamo consapevoli che i ricordi che avremmo in futuro saranno unicamente
di quelli che ci tormenteranno nei momenti di debolezza…
Alessandra Elisabeth Gravestone Paoloni
Per non morire
Come tante lame taglienti, che la carne fanno sanguinare, i ricordi che in noi si ridestano non sono
altro che l’inganno per non guardare avanti e continuare a vagare nell’incertezza del futuro.
A volte mi aggrappo a uno di essi e non vorrei staccarmene.
A volte invece li rifuggo, e sono demoni avvinghiati alla mia mente, inerpicati su per la memoria.
E tra questa altalena di rimembranze costruisco il mio bagaglio di attese; perché nulla di ciò che è
accaduto potrà essere cancellato, e tutto ciò che costruiamo apparterrà al ricordo di noi e di quello
che ci lasceremo alle spalle quando il viaggio avrà fine.
Per non morire con esso.
Angelo Francesco Anfuso
Piegato dal tuo ricordo
Il tuo ricordo mi ha piegato…
Vorrei stare da solo, senza nessun accanto.
Vorrei restare in silenzio senza nessuna Voce.
Eppure mi tormenti, ti sento sempre,
sei assillante, mi hai fatto male,
mi hai ferito profondamente.
Pochi anni di gioia immensa
tramutati in un tormento eterno.
Cosa mai c’è di buono, affinché io possa ricordare?
Cosa mai potrò raccontare al mio futuro?
Dimmelo!
Dimmelo tu!
Io non ho parole, non ho la forza,
non ho il coraggio.
Mi rammarico l’animo per il tempo che ho vissuto con te,
delle tue false illusioni, delle tue tante maschere…
delle tue….
Non sei mai stato vero,
non sei mai stato nessuno,
hai recitato benissimo la tua parte.
Eppure, quando cammino per i vicoli del centro,
ricordo quei momenti trascorsi assieme,
le tue dolcezze, le tue attenzioni.
Io, ricordo tutto di te.
Ma alla fine, mi hai dato il ben servito,
tradendo la mia fiducia, la mia dignità.
Non ho forza alcuna,
il tuo ricordo continua a piegarmi…
Hai infangato la mia persona,
mi hai reso parte integrante
della melma di putride acque…
Il Tuo ricordo mi fa letteralmente male,
mi rimbomba in maniera assillante nella testa
come un eco senza via di uscita tra le vette dei monti…
Pace!
Questa sola desidero: un po’ di pace.
Adesso, lasciami!
Lasciami stare, affinché io possa inneggiare a
questa cruda e bastarda sorte.
Mi hai abbandonato, umiliato…
Ma tu, che cosa sai della mia vita,
di quello che ho vissuto,
di quello che ho passato,
del pane amaro che ho dovuto ingoiare
e della assurda arsura di un’acqua senza ristoro…
Oh, ricordo amaro è il mio vissuto con te.
Lasciami stare,
non tormentarmi ancora nei miei ricordi,
privi di luce e di speranza…
Voglio solo cantare alla vita,
affinché mi ascolti, affinché mi veda, affinché interceda
a colui che tanta meritevole grazia mi ha negato.
Tu, non mi hai mai amato,
non hai mai condiviso un attimo d’amore con me.
Sei un vero attore, hai fatto della mia vita una tragedia,
il grande Eschilo è stato superato.
Ahimè! Eterno ricordo tormentoso, il mio.
Dammi pace, dammi conforto,
per tutte quelle volte
che ho versato lacrime.
Ma tu, che ne potrai mai sapere?
Elevo i miei occhi nella notte,
fissando il cielo, le stelle,
chiedendo loro ausilio, conforto,
sperando che il tutto fosse un sogno.
Tutti tacevano, solo la voce del tuo ricordo mi assillava.
«Dove ho sbagliato? »- Io mi domandai!
«Che cosa ho fatto mai? »…..
Ad oggi, tutto tace,
nessuno mi risponde,
nessuno mi ascolta,
nessuno mi degna di uno sguardo,
nessuno mi presta una misera attenzione.
Oh, luna! Perché ti adombri al mio lamento.
Tutto il creato si oscura al mio canto,
solo la tua voce,
il tuo ricordo resta acceso in me.
Ma perché? Perché non ti spegni?
Forse perché io ti ho amato veramente,
ti ho dato tutto di me stesso,
tutto quello che avevo.
Che ricordo mai avrò di te?
Solo un ricordo di un tempo prezioso,
ormai passato,
ma tutt’ora presente…
Mi hai piegato,
mi hai reso un verme…
Il mio è un doloroso ricordo…
Mariella Bernio
Ricordi
E le stelle
che graffiavano il cielo
ai miei occhi
erano lucciole
salite troppo in alto
per respirare l’alito di Dio.
E ogni giorno la vita
ricominciava con me
e il mondo
era un balcone
a cui affacciarsi piano.
Sono stata felice
sotto quel grembo di cielo,
ora sono i battiti del cuore
a segnare quel tempo lontano
ché, tornando,
più non si trova
ciò che si ha lasciato
ma solo i ricordi
ti corrono incontro
nella carezza del vento
che abbraccia
una casa
un cortile
una bimba
seduta sull’uscio
a sognare
Adrena (Maria Capone)
Stralcio del libro “Una donna come tante”
Che gioia sentirti scalciare! Tutto a posto quindi? Bene.
Oggi ci aspetta un bel po’ di lavoro, dobbiamo uscire, comprare le tempere colorate e disegnare il
muro della tua stanzetta.
Avevo pensato a due enormi pesci posti uno di fronte all’altro immersi in una marea di bolle dal
celeste più chiaro al blu più intenso al verde cobalto. E le alghe, i cavallucci marini, le stelle di
mare, le conchiglie…
Che cosa ne pensi? Se sei d’accordo, tirami un calcetto ma non farmi troppo male eh…
È bellissimo sentirti nuotare e soffermarmi a parlare con te tra mille carezze.
Mi chiedo spesso se tutte queste carezze che faccio alla mia pancia ti arrivino sotto forma di
vibrazioni o di non so che cosa.
Ho paura che non avrò mai una risposta…
Non vedo l’ora di averti qui, di portarti incontro al sole, di farti conoscere il mare.
Ogni volta però ho una percezione strana… è come se tu già conoscessi il mare. Forse perché ti ho
sempre detto che altro non è che un sacco più grande di quello dove vivi con un sapore diverso.
No, non è solo questo.
La sensazione che ho quando vado al mare è che tu voglia assolutamente immergerti con me tra le
sue acque per vedere attraverso i miei occhi, per sentire il suo profumo attraverso il mio naso.
Sento che il momento è vicino… presto ti avrò tra le mie braccia.
Bambino mio, a volte durante la mia attesa, ho avuto paura di questo momento, presto ti staccherai
dal mio corpo per affacciarti alla vita e io, da quel momento in poi, dovrò dividerti con il mondo.
Come potrò abituarmi a vivere di nuovo, da sola, senza te dentro me?
A proposito abbiamo deciso che ti chiamerai Andrea a prescindere se tu sarai un bambino o una
bambina, sia io, sia tuo padre, non abbiamo mai voluto saperlo.
Chissà se ti piacerà…
E chissà se ti piacerò… Posso dirti soltanto che sono certa che non cambierò mai e che tu imparerai
ad amarmi e odiarmi contemporaneamente.
Deb Lee
Tentavo di non ricordare
Tentavo di non ricordare, stavo bene così, che male c’è?
Cercavo solo di non farmi male.
I ricordi sono quanto più si avvicina a una lenta agonia.
Avete notato che nei ricordi restano indelebili soltanto le cose brutte? Le cose belle sono le prime a
svanire del tutto, diventano flebili: ti ricordi un tuffo al cuore, rammenti un senso di gioia
passeggero, che si dissolve in un piccolo sorriso.
E invece il dolore resta: quando ci ripensi è ancora dolore, è dolore di nuovo e sarà così in eterno.
Allora io, semplicemente, cercavo di non ricordare. Avevo messo sotto chiave il tuo volto nel cuore
e avevo costretto la mente a non ricordarlo, a non mandarmene immagini; persino se ti vedevo in
giro, ingannavo la tua presenza con altri pensieri: eri l’innominabile, il non ricordabile, il
dimenticato.
Cercavo davvero di non farmi male.
Ma tu torni, come sempre tornano quelle cose che ci hanno fatto davvero male.
Torni, sorridi e sei più bello che mai.
Sei così muto e intoccabile, che persino il tempo si ferma a guardarti.
Allora se torni, io non riesco a non ricordare, non riesco a dimenticarmi di te e rischio di non
poterlo fare mai più.
E sei sempre così serio e distante, nelle tue forzate rimpatriate, diverso.
Sei un altro te, ben lontano da quello che avevo conosciuto e amato; e noi siamo distanti, ora. Tra di
noi c’è quel genere di lontananza che non avrei mai desiderato avere proprio con te. Quella
lontananza che ti divide per sempre.
Ed ecco che il cellulare suona, mi hai scritto; ti rispondo ma il cuore salta un battito, di cosa stiamo
parlando? Siamo due estranei, non siamo più noi… chilometri e chilometri di strada ci separano e
sebbene io vorrei davvero rimettermi a camminare per raggiungerti, so che tu non lo farai.
Perché tu fai così: torni soltanto per farmi male ancora un po’, torni per ricordarmi quanto me ne hai
già fatto e per mostrarmi quanto mi manchi.
Torni un po’ per dovere, un po’ per gioco, un po’ perché… forse non lo sai neppure tu. Ma poi vai
via ancora e ancora, per un altro milione di infinite volte.
Non posso più sopportarlo.
E’ come stare lì, ferma, a permetterti di spezzarmi il cuore e di rievocare dalla mia mente tutti quei
pomeriggi di noi… consapevole del male che mi stai facendo.
E sorridi, tu sorridi mentre ripercorri la strada dei ricordi…
E sorrido anch’io, a volte, ma solo per un attimo.
Giusto il tempo per realizzare che la gioia che sto provando nell’aver di nuovo tue notizie, sarà
rapida come un fulmine nel cielo, che mi colpisce però in pieno petto.
E’ solo per un attimo, la mia gioia che sa di te, e sarà così per sempre.
Perché non mi puoi offrire più di quell’attimo, non mi puoi dare nient’altro, non vuoi.
Però quando vai via, lasci qualcosa: qualche segno, qualche ricordo, qualche amara traccia
d’amore… qualcosa di tutto quello che è stato e che non sarà mai più.
Anna Cibotti
Un segno indelebile
Appena pochi anni dopo la fine della guerra, nel collegio dove stavo assieme ad altre bambine
orfane come me, c’era una situazione a dir poco precaria.
Le suore, nonostante gli aiuti, non riuscivano a provvedere in modo adeguato alle nostre esigenze
materiali e la scarsità del cibo unita alla mancanza degli affetti familiari, resero la nostra infanzia il
momento più difficile della nostra vita.
Il giorno di Natale una famiglia del paese ospitava una di noi per quella giornata di festa e quello è
rimasto per me il ricordo più importante e significativo.
Mi capitò una coppia giovane con un figlio della mia età; cinque anni.
La loro casa era bella, spaziosa e accogliente.
L’ abete addobbato e luccicante era così alto che per vederne la punta dovevo alzare completamente
la testa.
Era posto in un angolo della sala dove c’era la tavola apparecchiata con una bella tovaglia rossa.
Fu il mio primo pranzo completo di ogni ben di Dio.
Mi sentii a casa, felice.
Passai delle ore serene e desiderai ardentemente che la giornata non finisse mai.
Quando arrivò il momento di ritornare dalle suore scoppiai a piangere.
Avrei voluto restare li’ per sempre.
Mi ritrovai invece al portone del collegio con un sacchetto pieno di mandarini e castagne secche.
Fu tutto quello che mi rimase di quella giornata.
Sentii un senso di abbandono e di perdita, quando mi salutarono.
Nei giorni che seguirono sperai che da un momento all’altro mi chiamassero per dirmi che mi erano
venuti a prendere per portarmi a casa con loro.
Ma i sogni restano tali.
Li rividi ogni Natale per altri quattro anni ed ogni volta il distacco fu tristissimo.
Il loro figlio morì.
Saltò in aria pestando un residuo bellico, al fiume, mentre giocava con altri bambini.
Aveva nove anni.
Quel Natale prima della disgrazia fu l’ultimo che passai con loro.
Un ricordo incancellabile, una scuola di vita.
Imparai a desiderare solo le cose possibili e lottare per averle.
Ai sogni ho dato poco spazio e agli amori non ho permesso di farmi soffrire.
Gli ho voluti e lasciati sempre quando l’ho voluto io.
Ogni anno da allora il giorno di Natale è il più bello e il più triste dell’anno.
Quando si fa’ sera provo intensamente ancora quel senso di perdita e di solitudine che il tempo non
è riuscito a cancellare.
Predatore e preda
Questo nuovo argomento, Predatore e Preda, ha fatto discutere molti dei nostri autori. Alcuni si
stanno già mettendo le mani nei capelli, cercando di capire in che modo far scaturire dalla propria
fantasia qualcosa che possa restare attinente al tema prescelto. Il paradosso nasce dalla questione
che la tematica è stata scelta e votata proprio dagli autori e il fatto che ora non sappiamo come
affrontarla, rende questa sfida decisamente più gustosa! Carissimi i miei Portatori di Penna, sono
ancora più orgogliosa di voi proprio per questa vostra capacità di affrontare le avversità e superarle
brillantemente.
Gabriele Palumbo
A caccia dei tuoi occhi
Resto immobile aspettando il momento giusto, resto acquattato tra l’erba alta attendendo con
pazienza l’attimo perfetto per saltarti addosso…ma nessun momento mi sembra mai quello giusto…
ti vedo, mentre ti abbeveri al ruscello ti volti e due occhi da cerbiatta incrociano i miei, ma non
fuggi, perché non scappi via?…Vuoi essere presa? O sai che il lupo solitario non si deciderà mai a
fare la sua mossa?…Quello sguardo mi ha messo in difficoltà…non riesco a decidermi…faccio un
passo avanti lentamente e mi fermo ancora ad osservare…ho fame, non ho mai fallito un agguato,
perché allora non mi decido?!…Ti volti ancora una volta e fuggi via…rimango fermo poi decido di
insegurti con tutte le mie forze, ma troppo tardi…ti ho visto per l’ultima volta tra le fauci di un altro
predatore, rimasto nascosto fino alla fine…io non ti avrei azzannato, ma questo non lo saprai mai…
Angelo Francesco Anfuso
Afferrato dalla Tua bellezza
Il tramonto,
si inclina al suo giorno.
Ti osservo, sei disteso, stanco
sulla riva del mare,
un mare calmo e senza onde.
I miseri raggi ti sfiorano dolcemente,
il debole fruscio della marea
soccombe il tuo silenzioso lamento.
Uomo docile e di bell’aspetto,
unico nel suo genere.
Mi sono avvicinato, e
Tu piangevi…
Non dicevi nulla,
non chinavi il capo per ripiegarti dalla vergogna
Mi fissavi nel silenzio del vespro.
Il tuo silenzio,
il tuo corpo tra la riva,
baciato dalla schiuma delle onde,
e lambito dal sole, oramai dormiente,
tiepido, mite, di
poco affetto.
Le tue lacrime…
Che meraviglia la tua presenza.
Rimasi immobile,
fermo ad assaporare quell’istante.
Mi sentii rapito dalla tua bellezza,
trasportato dalle deboli onde in cui tutto
sembrava rinascere.
Il tuo riflesso sopra quell’acqua limpida,
azzurra, trasparente,
raddoppiava la tua bellezza, la tua sensualità,
sofferente e sofferta.
Chiudo gli occhi.
Mi avvicino, sento il tuo profumo,
il tuo odore.
Mi sfioravi con garbo,
mi coccolavi nonostante piangessi.
Entrai in un sogno,
toccai le vette dell’Estasi
lasciandomi alle spalle
il mio passato.
Mi lasciai trasportare senza esitare.
Che destino sarà mai, il mio!
Il sole è deceduto,
notte, buio e tenebra si calano dal cielo.
Dove sei, mia bellezza!
Non ti vedo, non ti sento,
non sento il tuo profumo
Mi hai afferrato, fatto tuo.
La tua bellezza mi ha divorato.
Mi hai reso cieco,
hai privato i miei sensi
di ogni loro capacità.
Il tuo pianto…
Era il mio grido disperato.
Non ti vedrò mai più,
non sentirò il calore delle tue mani sulle mia pelle,
il tuo profumo, soave fragranza per il mio olfatto,
il tuo lamento, il tuo…
Ormai ti sei saziato,
o forse hai saziato me.
Chi è il predatore tra noi?
Chi la preda?
Mi hai nutrito con il tuo fascino,
caldo e sensuale.
Mi hai divorato.
Solo ora comprendo,
solo ora non vedo ma
sento che siamo una sola cosa.
Un solo spirito, ecco
quello che siamo.
Una sola cosa…
Rossana Roxie Lozzio
Chiudo gli occhi
Provo a chiudere gli occhi e immagino… ci siamo noi, insieme, l’uno di fronte all’altra. Io ti amo,
tu no ma non farà differenza, tu sei molto abile… ci sono anni di esperienza, c’è il tuo essere
predatore, ci sono i giochi che sai fare.
Mi muovo, ti muovi e mi tormenti, camminando in quella maniera che ho imparato a distinguere e
che cattura la mia parte animale e sembri pronto a gettarmi una sfida, nonostante sia evidente che
non sono altrettanto pronta a raccoglierla.
Allora, mi guardi e ti decidi a mettere in atto il ruolo che ti calza a pennello. Ti avvicini, istrione
intrigante… mi provochi, con occhi scuri e maledettamente accesi, ti diverti, perché sai che sono già
nelle tue mani, preda consapevole del tuo fascino.
Non mi porrai domande, non ci saranno risposte, nemmeno parleremo… non ci sarà bisogno di dirci
che sarò il tuo prossimo giocattolo e che, come fossi creta, saprai e potrai creare quello che sento di
essere da sempre ma che non posso manifestare. La donna nata per essere la tua compagna.
Costasse quello che costasse… perché, lacrime, dolore, fatica e dispiacere, saranno sempre meglio
della devastazione che si riappropria di me, mentre riapro gli occhi e per un’ennesima volta, prendo
atto del vuoto che mi vive dentro e mi divora, nella tua stramaledetta assenza.
Andrea Leonelli
Dispenso dolore
Dispenso dolore
E sale sulle ferite
Cauterizzo organi
Sani
Il mio vivere
Disfunzionale
Mi punisco
Godendomi
Le pene inflitte
Specchiandomi
Nei chiodi
Che pianto
Soave
Nell’ossa altrui
Uccido la speranza
Vestendola da illusione
Slogherò le articolazioni
Con ogni menzogna
E sentirò nei miei
Tendini il tuo dolore
Ravvivato dal mio scrollarti
Mi auto torturo
Martoriandoti
Sento
Consapevole
Le pene che infliggo
Le gusto già prima
Come se volessi anche il diritto
Di provar orrore
Prima di te
Privandoti in parte
Dell’orgasmo totale
Del martirio
Apoteosi d’autolesionismo
La belva
Ti mangia mentre l’assapori
É un pasto che non sazia
Ma divora
É la fame che cresce
Ti possiede
Ti sacrifica a sé
Mentre ti immoli
In ansiti e rantoli
E godi la tua preda
Son morsi liquidi
Che gocciano
In comunioni
D’occhi fusi
Inchiodati nell’altro sguardo
In se riflessi
In eguale fame
In medesimo desiderio
Insostenibile
Insaziabile
E affondare le fauci
Di sguardi predatori orgasmi
Passioni incontenibili
In fluidi mescolati
Assaporati
Condividendo
Esplosioni di piacere
E volerne sempre
Sempre di più
E ancora
Senza limiti
Né fisicità
Né tempo
Solo e sempre
Fame
Di te
Irma Panova Maino
Ero io il cacciatore
Mio era l’onere. Mie le sensazioni. La scelta era ricaduta istintiva, complice, naturale…
Sentivo la preda. Era confusa, incerta, lacera… Ed era l’odore del sangue che mi aveva condotta a
lei. Quel timore manifesto, la frenesia, la ferita ancora aperta…
Perfetta. Era perfetta per la mia fame. Perfetta per il desiderio di carne e sangue, di possesso e
conquista. Per la mia caccia.
Come una belva, trattenuta troppo a lungo, mi sono avventata, incauta, bramosa, cogliendo
quell’attimo in cui la distrazione è divenuta fatale. Quel sentore pungente e accattivante del suo
strazio ha scatenato i miei sensi, riducendoli in cenere, annientando ogni precauzione, ogni istinto
venatorio, ogni regola così faticosamente segnata sulla propria pelle e sulle proprie ferite.
Fame. Nient’altro che cieca e sorda fame incontenibile, richiamata da quei fremiti guizzanti sotto
una pelle pronta per essere lacerata, squarciata, dilaniata…
Zanne gocciolanti saliva e artigli protesi fino allo spasimo, occhi ardenti e famelici, concentrati per
cogliere ogni sfumatura, ogni possibile tentativo di fuga… ero pronta.
Pronta per la mia preda.
E lei mi ha colto. Attanagliato e avvinghiato nel suo strazio, portandomi a fondo con lei,
annegandomi in quel dolore infinito che pareva non avere confini né limiti.
Quanto potevo ancora ferire un animo così devastato? E quanta sofferenza potevo ancora infliggere,
restando insensibile?
Porto la catena della mia scelta. Porto il collare che mi ha reso consapevole e volontariamente parte
di una follia che non rinnego.
E questo peso, dolce per la verità, placa la mia fame, sazia il mio bisogno, lasciandomi nell’attesa di
vedere comparire di nuovo la mia preda.
I passi – tratto da L’Erede
Il porticato era ricoperto di ombre e la poca luce che giungeva dai lampioni posti sulla strada
principale, non era sufficiente per dissipare le zone completamente immerse nel buio. Camminavo a
passo spedito, impedendo all’apprensione di creare immagini terrificanti nella mente, continuando a
ripetere che nulla si stava muovendo alle mie spalle e nulla si nascondeva dietro ad ogni colonna.
Tuttavia, quel breve tragitto che mi separava dal portone di casa, mi parve improvvisamente più
lungo di quelle decine di metri effettivi.
Quanto ancora?
Trenta, quaranta metri
Forse qualcosina in più. Troppi in ogni caso. Un fruscio improvviso bloccò il mio passo a metà,
costringendomi in una posa innaturale, dovuta più che altro per l’urgenza di voler cogliere quel
suono prima che si disperdesse nel nulla.
Mi voltai di scatto. C’era qualcosa in fondo al porticato?
Qualcosa così confuso nelle ombre da non essere visibile?
Oppure era la mia immaginazione a farmi vedere e sentire cose che in realtà non esistevano affatto?
Rimasi tesa e immobile per un tempo che parve infinito, solo gli occhi schizzavano da una parte
all’altra, timorosi di dare conferma a quanto solo l’immaginazione pareva alimentare. Era la forma
di una mano, quella che sembrava spuntare vicina alla serranda del negozio in fondo?
Oppure era la sagoma di un uomo, visto di profilo, quella che si delineava vicino alla rientranza del
negozio di tappeti?
Inspirai a fondo, sentendo brividi freddi solcarmi le vertebre, precipitando il coraggio in fondo alle
scarpe. Quante volte avevo già fatto quel percorso, quel tratto di strada che intercorreva fra la mia
abitazione e la zona centrale del paese, in cui erano situati la maggior parte dei locali e delle
attrazioni turistiche?
Quante volte ero rientrata poco prima dell’alba, se non addirittura dopo?
E quante volte avevo avuto l’impressione di essere seguita?
Mai. Mai fino a quel momento. Inspirai ancora, provando la sensazione che l’aria fosse diventata
come piombo, che bruciasse nei polmoni, soffocandomi il respiro.
Nulla. Non c’era assolutamente nulla. Niente che potesse impensierirmi o dare conferma alle
sensazioni. Tuttavia la sgradevole impressione di non essere da sola continuava a persistere. Mille
pensieri si affollarono nella mente agitata. Mille supposizioni, una più terrificante dell’altra. E
altrettante soluzioni si affacciarono nella confusione, accavallandosi disordinatamente, mescolando
argomenti difficilmente compatibili fra di loro.
Mai dare le spalle al pericolo…
Mai abbassare lo sguardo…
Mai guardare il nemico degli occhi…
Mai sfidare con lo sguardo uno psicopatico…
Mai dimostrare il panico…
Ma da cosa dovevo guardarmi realmente?
Alla fine cedetti. Per quanto assurdo potesse sembrare, mi voltai su me stessa e mi misi a correre. Il
portone mi arrivava addosso a velocità spaventosa, mentre cercavo di raggiungere la sicurezza. Il
tunnel del porticato mi si strinse attorno, aumentando il senso di panico e di soffocamento,
allungandosi ad ogni metro percorso, come se non dovesse avere mai fine. La mano tremava
quando raggiunsi finalmente le porte in vetro e i primi tentativi d’infilare la chiave nella serratura si
persero nel vuoto.
Calma!
Finalmente la stramaledetta chiave trovò l’alveo in metallo e scivolò con relativa facilità nel suo
alloggiamento. E allora lo sentii. Avvertii quel fiato sul collo che preannunciava la mia fine. Non
avevo dubbi in proposito. La vittima non ne ha mai quando arriva il momento. La preda sa sempre
quando il predatore pone la parola fine alla caccia.
Rimasi nuovamente immobile, totalmente conscia della presenza alle mie spalle e l’orrore per
quello che vi avrei trovato, se mi fossi girata, m’impedì di voltarmi per guardare in faccia la morte.
Qualcosa di umido e vibrante mi accarezzò la pelle del collo, scostandomi con uno sbuffo di fiato i
capelli.
Un naso…
Umido e caldo.
Inequivocabilmente ero annusata da qualcosa di così grosso che aveva dovuto ripiegarsi su se stesso
per arrivare alla pelle delicata della nuca. Qualcosa di grosso, peloso e odorante di resina e foglie
bagnate. Trattenni il respiro, appoggiai la fronte al vetro, evitando categoricamente d’individuare
l’ombra alle mie spalle, la stessa che vedevo riflessa sulla superficie fredda.
Un grugnito attirò la mia attenzione. Un suono basso, gutturale, vibrante in una gola che non aveva
nulla di umano e comprensibile. Un suono così alieno che mi costrinse, mio malgrado, a sollevare
lo sguardo, incontrando l’immagine nel vetro. Per quanto distorta potesse essere, era l’immagine di
un animale. E per quanto l’ingenuità fosse l’ultima delle mie doti naturali, ciò che vidi mi lasciò
pochi dubbi sulla natura del mio aggressore. Mi annusò ancora ed oltre al fiato, a quel punto
registrai anche il fruscio dei suoi peli sulla pelle. Il lieve solletico prodotto da un pelo folto ed
ispido. Oltre alla sensazione strabiliante delle sue zanne…
Quella era la morte.
Assurda.
Impossibile.
Inconcepibile.
Non vi era alcun termine per poter descrivere le mie sensazioni di quel momento.
Quante volte avevo fantasticato? Quante volte, scherzando, mi ero chiesta se poteva esistere una
creatura simile? La risposta era là, a pochi centimetri dal mio collo, con le zanne snudate, pronte a
colpire.
E fu allora che mi voltai.
Se era la morte, volevo vederla. Se quella era la mia fine, non me ne sarei andata con gli occhi
chiusi, pregando nel miracolo o sperando in un possibile salvataggio in extremis.
Volevo vedere. E volevo farlo con tutta la consapevolezza che l’attuale situazione mi poteva
permettere.
Mi voltai e fissai la creatura negli occhi, perdendomi nel mare profondo ed oscuro delle sue pupille
dilatate.
“Mio Dio… sei reale…” la frase mi scappò del tutto involontariamente, dimostrando tutta la
meraviglia che provavo nonostante l’orrore iniziale. Sorrisi.
Stupidamente, inconsciamente e, tenendo conto delle circostanze, in modo del tutto inopportuno.
Cosa c’era da sorridere davanti a quel muso appuntito?
Un muso in cui il biancore delle zanne offuscava qualsiasi altra cosa?
E non c’era possibilità di errore.
La pelle sulla sommità era arricciata in pieghe compatte, rughe profonde solcavano l’epidermide
pelosa lasciando scoperta la bocca della fiera, socchiusa in un ghigno famelico. Tuttavia il suono
della mia voce produsse un effetto rilassante su quel muso e lentamente la pelle tornò a distendersi,
coprendo le gengive e parte dei lunghi denti.
Forse, dopo tutto, non mi avrebbe sbranata subito.
L’animale si spostò nervosamente da una zampa all’altra e raddrizzò tutto l’imponente corpo di
qualche centimetro, come se non fosse più così sicuro delle proprie intenzioni.
Emise un sordo brontolio impaziente e tutto il pelo ondeggiò al ritmo dei suoi muscoli tesi.
“Vorrei toccarti…” Oddio!
Che razza di idiozia avevo appena detto?
La frase era sgorgata senza alcuna speranza di poterla fermare. Tuttavia era esattamente questa la
natura dei miei pensieri. Volevo toccarlo. Infilare le dita in quel pelo folto e saggiarne la consistenza
sotto i polpastrelli. Volevo sentire la sua carne guizzare sotto l’epidermide e bearmi della forza che
poteva essere sprigionata dal suo fisico notevole.
Amavo gli animali.
Li avevo sempre amati e se non fosse stato per il fatto che non avrei sopportato l’idea di vederli
soffrire, avrei studiato veterinaria. Tuttavia ero più che conscia del fatto che su cento esemplari che
avrei potuto guarire e salvare, almeno un buon dieci per cento mi sarebbe morto fra le mani. E
quelle morti non avrei potuto sopportarle, mi avrebbero straziato l’anima. Ciò che avevo davanti e
che ancora mi guardava con aria famelica, era il Re di tutta la fauna presente in natura.
Era il sovrano indiscusso di un mondo animale che presentava diversi aspetti poco conosciuti al
mondo umano. Aspetti che avevo appena scoperto quella notte, segreti che mi sarei portata nella
tomba.
Paura, orrore, meraviglia, c’era di tutto nel mio sguardo confuso ed un desiderio inespresso che
doveva essere in qualche modo soddisfatto.
Almeno una volta…
Dovevo poterlo toccare…
Allungai involontariamente una mano e nel momento stesso in cui feci il gesto, la bestia scattò
verso il mio arto proteso. I denti sfiorarono la pelle e la mascella si tese, pronta a far scattare la
micidiale presa sul mio polso, pronta a perforare pelle e carne, a spezzare le ossa, triturandole,
riducendo il braccio in qualcosa di sanguinolento e inservibile.
Rimasi a osservare affascinata, incapace di distogliere lo sguardo dallo sfacelo che sarebbe
avvenuto nel giro di pochi secondi. Tentando di preparami al dolore ed allo strazio. Tuttavia non
accadde nulla di quanto mi ero aspettata di provare.
Nulla.
Ancora una volta nulla. Non chiuse la bocca. Rimase anche lui sospeso, a metà fra quello che
doveva essere l’istinto e altro che non avrei saputo spiegare.
Allontanò di scatto il muso dal mio braccio e chinò repentinamente la grossa testa, arrivando ad
annusarmi il corpo. Rabbrividii sotto quell’invasione sensoriale improvvisa.
Il tartufo, grande quanto un mio pugno, mi percorse da capo a piedi, sbuffando contro il tessuto
dell’abito estivo, sollevandolo quasi quando raggiunse le gambe.
Rabbrividii nuovamente e non avrei potuto dire che fosse solo per paura. Vi era qualcosa di
primordiale ed eccitante in quel suo cogliere la mia traccia olfattiva. Qualcosa che richiamava altri
istinti. Sollevò il muso, arrivando a sfiorami la pelle del viso, lasciandomi lievi solchi umidi sulla
mandibola e sulla guancia.
E il desiderio di toccarlo si fece quasi feroce.
Tuttavia rimase solo un desiderio. Si allontanò da me con la stessa velocità con cui si era avvicinato
e in pochi secondi lo vidi scomparire fra le ombre. Rintanandosi in quello spazio in cui anche gli
incubi perdevano la loro consistenza terrificante.
Eppure…
Per pochi secondi, per un istante troppo breve perché io potessi capire alcunché, tornò a voltarsi,
lanciandomi un’occhiata che non avrei saputo spiegare. Qualcosa in quegli occhi scuri, come la
notte che ancora mi avvolgeva, nonostante l’alba imminente, mi diede la certezza che vi fosse una
mente più che consapevole dietro a quell’apparenza bestiale. Un altro brivido mi scosse le membra
e fu con estrema fatica che riuscii a far girare le chiavi nella serratura.
Solo quando mi sentii al sicuro in casa, mi concessi il lusso di andare sul balcone per scrutare fra le
ombre sottostanti, tentando d’individuare una grande massa pelosa che poteva aggirarsi ancora in
zona. Tuttavia, nonostante tentassi di sforzarmi, nonostante cercassi di dare un senso a ciò che
avevo appena passato, non riuscivo a capire in che modo potessi essere sopravvissuta ad un
licantropo.
Illusioni – tratto da Incontri Notturni
L’atmosfera fra di loro si riempì di un’attesa erotica, parve addensarsi rendendo difficile ogni
respiro e lei si accorse del proprio ansimare, quando fece eco con quello di lui.
Il viso dell’uomo apparve al di sopra della sua spalla e finalmente lei ebbe la certezza assoluta
dell’identità di colui che in quel momento le stava torturando i sensi.
“Perché continui a sfuggirmi?” gli chiese cercando di controllare la propria voce. Lo vide ritrarsi e
una delle sue mani, tornò a tormentarle l’orlo del perizoma.
“Non mi sento molto sfuggente in questo momento…” il tono divertito le procurò un altro brivido.
Fu allora che si rese conto del cambiamento, di un fattore aggiuntivo, di quell’elemento che era
mancato fra di loro fino a quel momento. Avvertì finalmente la sua eccitazione. Ed era caldo e duro
contro la pelle dei suoi glutei.
Chiuse gli occhi, l’improvviso timore per ciò che avvertiva alle sue spalle la fece fremere.
Un’idea maligna le sfiorò la mente, solitamente uomini con un pene di quelle proporzioni erano
totalmente incapaci di usarlo, limitavano la propria presunta bravura alle dimensioni, pensando
erroneamente che bastassero solo quelle per dare piacere ad una donna. Sicuramente la fortunata
non aveva bisogno di una sostanziale partecipazione del partner per raggiungere i propri scopi, con
un attrezzo del genere poteva divertirsi da sola, ma Amanda era sempre rimasta alla fine delusa da
cotanto ben di Dio, ritrovandosi a sperare in dimensioni più normali e gestite con più perizia.
Socchiuse le palpebre, predisponendo il proprio spirito all’attesa, il suo corpo assunse
inconsciamente un atteggiamento di sfida, di quella che dice: avanti bello, fammi vedere cosa sei in
grado di fare.
L’uomo parve leggerle nel pensiero, dandole una dimostrazione pratica della propria capacità di
saper gestire la situazione. Le sue mani scivolarono al di sotto della sua gonna, dita delicate
scostarono il sottile tessuto del perizoma e dita più esigenti cercarono la fonte di tanta umidità.
Trovarono lei, la sua natura selvaggia, accuratamente mimetizzata da una sorta di civile modo di
essere. Trovarono il calore del suo corpo, insinuandosi decise all’interno di esso, travolgendo ogni
suo tentativo di rimanere indifferente.
“Stai ferma, non ti agitare troppo… a meno che tu non voglia far capire a tutti quello che ti sto
facendo.” Amanda s’immobilizzò immediatamente, riportata alla realtà da quell’osservazione
pungente, lui la stava prendendo in giro, la stuzzicava, la eccitava e la rimproverava se rispondeva
al suo tocco. Si sentì quasi umiliata, ma la sensazione durò poco. Costernata dai propri pensieri, si
rese conto del gioco che stava facendo lui, quel suo portarla sull’orlo della follia, per poi ricondurla
improvvisamente al punto di partenza.
L’eccitazione crebbe, esplose dentro di lei, aumentando in modo considerevole la quantità di umido
che le bagnava l’interno delle cosce.
Si mosse appena, desiderando le dita del suo amante più in profondità. Ma lui le fece scivolare
fuori, lasciandole indugiare ancora qualche istante sulla superficie calda del suo sesso. Emise un
gemito, una sorta di suono disperato parve impadronirsi del suo animo, non poteva lasciarla in
quello stato, non poteva portarla sull’orlo del baratro per poi tirarsi indietro. Odiò se stessa, e odiò
lui per averle provocato tutta quella frenesia, senza portarla alla soddisfazione più completa. Con un
gesto di stizza fece per allontanarsi, ma le mani di lui l’afferrarono saldamente, riportandola indietro
e mandandola a scontrarsi con il suo corpo marmoreo.
“Non ho ancora finito con te.” La gonna tornò a sollevarsi ed il perizoma venne nuovamente
spostato. “Adesso sei pronta per me.” Il sussurro le arrivò all’orecchio, carico e denso come un
temporale estivo.
Rimase immobile, incapace di reagire, come un coniglio di fronte ai fari di un auto, raggelata
nell’istante in cui aveva avvertito la punta del suo pene scivolare lentamente dentro di lei. Non era
preparata alla sua delicatezza, non era pronta al suo ondeggiare ritmico ed inesorabile, non si
aspettava tanta dolcezza nelle mani che l’accarezzavano, mentre lui si spingeva sempre più in
profondità dentro di lei. E lo sentì toccare il fondo, lì in piedi, in un’angolazione quasi impossibile
per ogni altro essere umano, lui riuscì ad arrivare fino in fondo.
La bloccò contro il proprio inguine, imponendole un’immobilità soltanto apparente, perché dentro
di lei avvertì chiaramente la pressione del suo membro contro le pareti della vagina. Chiuse
nuovamente gli occhi, appoggiando la testa contro di lui.
“Lascia che sia io a muovermi per entrambi.” le sussurrò roco, smentendo in parte l’autocontrollo
dimostrato fino a quel momento. Lo lasciò fare, lasciò che fosse il suo ritmo a travolgerli, lasciò che
fossero i suoi fianchi a premere contro il suo corpo, lasciò che ancora una volta fossero le sue mani
a toccarla, massaggiarla, stuzzicarla. Rimase immobile, sorprendendosi per la propria capacità di
concentrazione, arrivando persino ad osservare le persone, vedendole finalmente oltre la coltre del
proprio piacere.
Persa e presente allo stesso tempo. Completamente in preda ai propri sensi e totalmente presente a
se stessa. Fu un amplesso lento, privo di un qualsiasi movimento brusco, dolce, sensuale,
controllato fino allo spasimo.
Nessuno, guardandoli, avrebbe potuto immaginare fino a che punto il gioco erotico si era spinto,
nessuno avrebbe potuto sostenere che il loro non fosse altro che uno stuzzicarsi al limite della
decenza. Nessuno poteva capire quanto in realtà fossero travolti da sensazioni così sconvolgenti,
quanto fossero prossimi all’orgasmo.
“Ti eccita sapere che potrebbero immaginare quello che sta succedendo sotto la tua gonna, vero ?”
Le bisbigliò lui, cercando di re-spirare fra una parola e l’altra. “Ti eccita che ti guardino senza
capire esattamente che stai godendo? … no… ferma. Non muoverti.”
Amanda stava impazzendo dietro a quel gioco, il suo corpo era teso come una corda di violino,
percepiva il proprio orgasmo premere ai lati della sua coscienza e tentava ancora di trattenerlo,
terrorizzata dall’idea di quello che avrebbe potuto fare, nel momento stesso in cui avrebbe finito per
perdere il controllo. Il movimento di lui ipnotizzava tutto il suo corpo, le ondate di dolore si
mischiavano alle sensazioni di piacere, quando arrivava a premere nella parte più profonda del suo
essere, ma non si sarebbe mai sognata di dirgli di smettere, al contrario, non voleva che finisse, non
voleva che quel momento di pura estasi avesse termine. Ma accadde, come tutte le cose, prima o poi
avevano una fine. Avvertì l’inizio dell’orgasmo di lui nello stesso istante in cui percepì il proprio.
Sentì il sussultare del suo membro, nello stesso istante in cui le contrazioni delle proprie pareti
interne si strinsero in modo spasmodico intorno al sesso di lui, avvolgendolo in continue ondate.
“Sei perfetta…” le aveva ancora sussurrato lui, senza smettere di stringerla contro di sé.
Ed era stato allora che aveva avvertito due punte acuminate sfiorarle la base del collo.
Si era irrigidita. L’estasi dei sensi le impediva di pensare lucidamente, di capire esattamente cosa
fossero quelle due cose che avvertiva dure ed appuntite contro la pelle. L’istinto di sopravvivenza le
impose di non muoversi, di ricacciare la paura primordiale della preda in balia del predatore, di
mettere a tacere l’improvviso impulso di staccarsi da lui e di fuggire il più lontano possibile. Inspirò
a pieni polmoni tornando improvvisamente lucida, in grado di mettere due pensieri insieme in modo
coerente.
E solo in quel momento si rese conto di non averlo mai visto sotto la luce diretta del sole, in pieno
giorno. Le volte in cui si erano incontrati, erano sempre state ore serali o comunque nel tardo
pomeriggio, in giornate nuvolose.
Cos’erano realmente le cose acuminate che sfioravano la sua pelle esposta?
Denti?
Canini?
Era la sensazione del pericolo ad averla attratta così inesorabilmente verso di lui?
Il contatto cessò così come era iniziato, improvviso, senza che nulla facesse capire le reali
intenzioni di lui, lo avvertì abbandonare il suo corpo, ritirarsi da lei con un sospiro.
Sentì nuovamente le sue mani ricomporle i vestiti, il corpo di lui, ormai lontano, la lasciava vuota e
con la spiacevole sensazione di essersi persa qualcosa.
Seppe, senza nemmeno il bisogno di voltarsi, che se n’era andato.
La notte – tratto da Quando viene la notte
I suoi passi riecheggiavano sul fine acciottolato, la sua mente era in subbuglio, doveva svoltare a
destra o a sinistra? Non ricordava più, voleva solo uscire da quel dedalo di viuzze, trovare un posto
sicuro, un posto dove nascondersi, cacciare dalla mente le ombre che già da venti minuti la stavano
inseguendo.
La nebbia le impediva di ragionare con chiarezza, la stessa nebbia che lei aveva sempre amato,
quella notte le si era ritorta contro come un rasoio ben affilato, come quella lama che aveva visto
spuntare nelle mani di quell’uomo che, sotto il portone di casa sua, l’aveva minacciata e lei
girandosi sui tacchi era fuggita.
Dov’era adesso ?
Si era persa, non trovava più punti di riferimento, non sapeva dove doveva andare.
La mano la colse alla sprovvista, sudicia e maleodorante, sbucando dal nulla. Le tappava la bocca
attirandola nel portone a fianco. E poi un dolore profondo, lancinante al fianco, mentre qualcosa
trapassava il tessuto del suo abito, il tessuto della sua pelle e la sua carne, andando a conficcarsi
sempre più profondamente dentro di lei.
Forse fu la paura, quell’ultimo guizzo che la fece torcere leggermente e non permise alla lama di
colpirle il cuore, ma non fu abbastanza, quando lui la estrasse, l’orribile risucchio le diede la
certezza che qualcosa si era rotto comunque.
Il sibilo che le uscì dalle labbra e l’improvviso sapore metallico che le riempì la bocca glielo
confermarono.
La seconda coltellata raggiunse la prima, più o meno nello stesso punto. Iniziarono a tremarle le
gambe, ciò nonostante tentò di ribellarsi, non voleva cedere totalmente al panico; cercò di voltarsi
per fronteggiare l’assassino. La terza le perforò lo stomaco, sentì lo strappo alle viscere, mentre la
lama affondava per la quarta volta trapassandole le ovaie. La quinta le lacerò la schiena, mentre le
bucava un polmone. La sesta le arrivò mentre ormai giaceva a terra.
L’uomo la lasciò andare.
“Non dovevi scappare….”sussurrò.
Poi i suoi passi risuonarono sempre più lontani, sempre più attutiti dalla nebbia.
Sentiva freddo, sentiva la vita scivolarle via in quell’immensa pozza umida e appiccicosa che
andava a formarsi al suo fianco, sentiva che niente avrebbe avuto più importanza in quel momento,
tutto era stato così vano, così inutile e lei non si sentiva ancora pronta, non voleva che finisse così,
ma la stanchezza e il sonno si stavano già impadronendo di lei.
Passò un’eternità.
Un qualcosa di umido le sfiorò il naso, come se un cane fosse venuto ad annusarla.
Un ringhio basso le alitò sul collo e l’ultima cosa che vide furono le zanne. Lunghe, lucide e
luccicanti… zanne.
Elisabetta Bagli
E’ scritto nei corpi celesti
Improvvisamente,
l’aria si trasforma in luce.
Con un colpo,
mi hai scaraventato sul cristallo,
il lampo che ora fende
le mie membra nude.
Intima pioggia
scivola sul mio corpo
martoriato dalle tue mani,
livide come il crepuscolo
del nostro amore.
Alzo gli occhi e vedo il cielo
coperto di fumo,
triste argento antico,
silenzioso testimone
della tua inaudita violenza.
Dense gocce di sangue,
vive perle di morte
scorrono sulla mia pelle
spremuta tra le tue dita
come un’inutile carta velina.
La luna piena è alta,
le stelle brillano
sul mio respiro affannato,
immense trame
della mia oscurità crescente.
Muoio perché devo:
è scritto nei corpi celesti.
Andrea Mazzolini
Il predatore del deserto
Inizi anni ottanta. Non avevo neppure trent’anni e già una taglia sulla testa. Ne avevo combinate di
tutti i colori e non mi credereste se vi dicessi il numero di coloro che mi volevano vedere morto.
Chiamatela pure vigliaccheria ma feci l’unica cosa possibile: fuggire, andarmene dall’Italia. C’era
un tizio alla Farnesina che mi doveva un favore e così riuscii a scappare a Tripoli. Mi aveva trovato
un posto imboscato come cameriere al circolo del tennis dell’ambasciata e fu così che nelle ore
libere iniziai a prendere in mano la racchetta. Scoprii inaspettatamente di avere del talento, fino ad
allora avevo tenuto in mano soltanto le pistole, e a un certo punto mi proposero perfino di dare delle
lezioni private. Nelle ambasciate occidentali il numero di funzionari non era elevato, Tripoli era
considerata molto rischiosa e infatti pochi anni dopo gli Stati Uniti di Ronald Reagan avrebbero
sferrato un terribile attacco aereo. Ma in quel momento la guerra era l’ultimo dei miei pensieri. Non
me la passavo affatto male. I figli degli occidentali studiavano tutti in una scuola internazionale e
mentre i funzionari erano al lavoro molte delle loro mogli, affidate le casi alle governanti,
passavano le giornate al circolo. Non sto neanche a raccontarvi che essere un maestro di tennis
rappresentava un bel lasciapassare e la maggior parte di loro non si limitava a chiedermi consigli sul
modo migliore per impugnare la racchetta. Diventai presto il loro sollazzo, consolavo le loro vite
noiose e a quanto pare ci riuscivo anche bene. Il passaparola aveva funzionato alla grande, non
avevo nemmeno bisogno di corteggiarle. Cascavano semplicemente tra le mie braccia, una dopo
l’altra. Non ce n’era una che credesse di essere la preferita, tutte erano ben coscienti di giocare la
stessa parte. Mi avevano affibbiato anche un soprannome, il predatore del deserto. In realtà io non
mi sentivo un predatore e loro non erano certo le mie prede.
Le mie giocatrici di tennis venivano da tutta Europa, erano le mogli o le compagne, solitamente più
giovani, dei funzionari delle varie ambasciate e a nessuna di loro avevo mai negato il diritto a essere
ben accudite. Solo una di loro, una francese, una certa Hélène, non si avvalse mai delle mie cure
private. Era bella, di una bellezza che definirei acerba, come se non sapesse di esserlo o non volesse
abusarne. Me la ricordo ancora mentre scendeva le scalette che portavano al campo. Il suo aspetto
mostrava una bellezza velata, offuscata quasi, ma non rovinata dal tempo o dalla vita: una bellezza
latente e maestosa allo stesso tempo. La sua andatura era leggera e la luce nasceva dai suoi occhi; le
sue parole, i suoi sguardi, le sue timide risate, tutto questo mostrava una rara e preziosa intelligenza.
Mi innamorai di lei, dell’unica donna che non riuscivo a conquistare. Le piaceva essere corteggiata,
era lusingata dalle mia attenzioni ma non cedeva. E quando sembrava di essere sul punto di crollare
si allontanava e per un certo periodo smetteva di frequentare le lezioni. Tutto questo durò diversi
anni, poi la guerra costrinse i paesi occidentali a chiudere le ambasciate ed io me ne andai in Sud
America, l’Italia era ancora un paese troppo pericoloso per uno dal mio passato turbolento. Solo
dopo essere emigrato in Argentina mi resi conto di quanto avessimo giocato al gatto e al topo, io e
Hélène e che il felino non ero stato certo io; e tuttavia mi mancava, Dio quanto mi mancava…
L’ho rivista una sola volta, a Parigi, quasi un quarto di secolo dopo. Ci siamo incontrati per caso, in
occasione di una mostra al Louvre. Hélène mi ha riconosciuto anche se non sono più un valente
giocatore di tennis, né tanto meno un predatore nel deserto, ma soltanto un vecchio barbagianni. Ci
siamo salutati e probabilmente non ci vedremo più. Ma una cosa la voglio dire.
Ho avuto molte donne nella mia vita ma posso affermare con certezza di avere amato soltanto lei.
Cristiana Verazzo
L’ambiguo dallo sguardo vuoto
Era tardi, come al solito, e non volevo rientrare nel vuoto più totale. Mi meritavo qualcuno per
strada, dopotutto lavoravo per loro: la gente.
Avrei voluto sentirmi un po’ più leggero, e invece, come ogni stramaledetto giorno dispari, mi
portavo sulle spalle un fardello degno di Atlante.
Purtroppo per me non ero il solito psicologo, non riuscivo a distaccarmi dai problemi dei miei
pazienti come avrei dovuto. Risultato? La mia empatia mi portava ad essere meglio di uno
sciamano…per loro, s’intende, perché toccava a me poi fare i conti con le brutture, i dolori, le fobie
di ogni singolo individuo che si sdraiava su quel cazzo di lettino. Pur sapendolo non riuscivo ad
evitare quel transfert e non capivo come mai, a scapito degli studi fatti con tanta attenzione, non
potessi agire diversamente. Attraversai il corso principale che le saracinesche erano ormai serrate,
sperare in qualcuno era ormai un’utopia, anche se…forse… E infatti eccolo lì, come sempre fermo
a rimirare Sant’Andrea nella nicchia accanto alla pizzeria del Signor Ignazio. Alto, dinoccolato, con
le spalle curve; doveva essere un fervido credente per trovarlo in adorazione tutte le sante volte che
passavo di lì, ma chi lo sapeva. M’incuriosiva il tipo, ma dopo tutto non erano fatti miei come
passava il suo tempo. Stavo per passargli accanto quando gli cadde dalle mani una candela accesa
rotolandomi tra i piedi, scansai l’oggetto e mi chinai a raccoglierlo. Ero ancora inginocchiato
quando mi sussurrò all’orecchio: ” Può salvarmi dottore? Può prendere il vuoto che c’è in me
oppure riempirlo con qualcosa?” Mi voltai di scatto e incrociai il suo sguardo perso, opaco. Ma era
sicuro di capire quel che diceva? “Non capisco” dissi fermo e lui sorrise di sbieco.”Ma sì che
capisce, le basta toccarmi. Così” e dicendolo prese una mia mano e se la poggiò sul braccio. Lo
scambio fu veloce e potente: in un istante tutto quello che conoscevo, che vivevo, che sentivo, passò
a lui lasciandomi svuotato di ogni cosa. Sollevandosi mi fissò e sorrise: “Grazie dottore, è stato
molto soddisfacente. Ah….dimenticavo: la prossima volta stia attento a ciò che desidera, potrebbe
avverarsi”. Quando se ne andò mi accasciai sull’asfalto: quel mostro mi aveva appena prosciugato
l’anima!
Paolo Fiorino
L’incontro
La individuò da lontano. Era davvero bella. Molto di più di quanto si aspettasse. Era alta poco meno
di lui, magra ma non troppo, aveva capelli neri tagliati a caschetto e due splendidi occhi verdi.
E poi dicono che in chat si conoscono solo uomini, pensò.
Si avvicinò e si presentò. Lei lo gratificò di un sorriso luminoso.
- Dove vuoi andare? le domandò, con un po’ di imbarazzo.
Lei alzò le spalle e disse con noncuranza: – Facciamo quattro chiacchiere davanti a una tazza di
caffè.
Aveva scelto di vederlo un luogo frequentato, non se ne stupiva. Era stata prudente fin dal principio
e fino a quel momento non gli aveva dato modo di capire chi fosse davvero o dove abitasse.
Sedettero in un bar del corso Vittorio Emanuele, all’aperto.
- Perché hai voluto vedermi? – esordì lei.
Questa domanda giunse un po’ inaspettata. – Credevo che lo sapessi.
- Lo immagino, però voglio sentirlo da te.
- Perché ho voglia di conoscere una persona che mi aiuti a ricominciare.
Pareva una cosa fin troppo ovvia, però in realtà non lo era.
Lei annuì e domandò: – E perché la cerchi proprio in una chat?
Questa domanda se l’era posta almeno un milione di volte. La risposta che si era sempre dato era
forse la più semplice, ma a volte lui stesso dubitava che fosse quella giusta.
- Perché così è più facile. Sono un po’ timido e spesso non riesco a dire quello che penso. Se non
vedo l’altra persona le parole mi vengono più facilmente.
Lei non sembrò affatto convinta. – Sinceramente non mi sembra che tu sia timido né che tu abbia
difficoltà a esprimerti.
- No. Effettivamente con te è diverso. Mi trovo a mio agio, mi pare di conoscerti da sempre – si
difese Giovanni.
- Mi fa piacere.
- E tu?
- E io cosa?
- Cosa cerchi nella chat?
- Qualcosa… non lo so nemmeno io.
Restarono per un attimo in silenzio, poi lei lo guardò con un’espressione sicura e gli disse: –
Senti…
- Dimmi.
- Vuoi venire a casa mia?
Giovanni era sempre più meravigliato. Tutta la prudenza e l’iniziale diffidenza di Angela parevano
svanite nel nulla. Doveva averle fatto davvero una buona impressione.
- Certo – rispose, con gioia.
- Allora andiamo.
Dottoressa Angela Matelli, recitava una targa di ottone attaccata al muro vicino alla porta di
ingresso.
- Dottoressa in cosa? domandò Giovanni, indicando la targa.
- Psicologia – rispose Angela mentre entrava in casa. Giovanni la seguì dentro l’appartamento poi la
donna richiuse la porta.
- Quindi sei una psicologa?
- Sì. Ti pare strano?
- Sinceramente… un po’ sì.
- È il mio lavoro. È una cosa molto importante per me.
- Quanto importante?
- Più di ogni altra cosa. Vuoi sederti?
- Grazie.
I due si accomodarono su un divano azzurro molto confortevole. L’appartamento era grande e
luminoso, con un bellissimo pavimento di marmo e piante rigogliose ad ogni angolo.
- Il lavoro non è tutto nella vita – disse lui.
- Per me sì, non c’è nulla di più importante – rispose la donna.
- E allora perché mi hai fatto venire a casa tua?
- Per il mio lavoro.
- Per il tuo lavoro? – domandò Giovanni, con una punta di risentimento. Cominciava a intuire la
verità e la cosa non gli piaceva.
- Mi interessano molto le persone come te. Vorrei capire cosa vi spinge fuori dalla realtà. Perché
cercate compagnia in un mondo virtuale – riprese lei.
Ora tutto era chiaro. Era questo il suo destino: incontrare solo donne che lo sfruttavano per i loro
scopi. Sentì una fitta di dolore trapassargli il cuore. La delusione aveva un sapore amaro a cui non
c’era modo di abituarsi.
- Quindi per te sono solo… un soggetto di studio? – domandò, scoraggiato.
Lei si rabbuiò in volto. Pareva sinceramente dispiaciuta di avergli fatto del male. – Per la verità, sì.
Mi dispiace.
La sua voce esprimeva rammarico, ma questo non poteva bastare.
- Allora mi hai preso in giro?
- Non la metterei proprio su questo piano. Io volevo davvero conoscerti. Possiamo ancora essere
amici – tentò inutilmente di difendersi la psicologa.
Giovanni le lasciò solo il tempo di terminare la frase e poi sbottò: – La solita storia! Voi donne usate
le persone e poi le gettate via quando non vi servono più. Sei come la mia ex. Siete tutte uguali!
- È questo che ti ha fatto? Ti ha usato e poi ti ha gettato?
- Sì, è quello che fate tutte!
La tensione nell’aria era diventata palpabile. Giovanni si sentiva sul punto di esplodere. La sua
rabbia era quella di un animale ferito pronto ad attaccare.
- Sei arrabbiato con me? domandò Angela, con un’espressione di sfida che sorprese Giovanni.
- Sì – rispose, quasi timidamente.
- Abbastanza da comportarti da uomo? – lo provocò la donna. La sua voce era diventata ferma e
autoritaria, come se stesse tentando di rovesciare su di lui la colpa di tutto ciò che era accaduto.
- Cosa? – disse Giovanni, disorientato.
- Ho detto: abbastanza da comportarti da uomo? Sai come si fa, vero?
L’attacco adesso era diventato ancora più violento. Giovanni sentiva la propria rabbia crescere di
secondo in secondo ma ancora non comprendeva contro cosa dovesse orientarla.
- Non.. non capisco… – balbettò.
- E allora perché non te ne vai? concluse la donna.
Giovanni era sbalordito. – Adesso mi butti fuori? Ma non volevi essere mia amica?
- Amica di una nullità come te? Mai! Mi fai troppa pena.
- Adesso stai esagerando.
- Tutti uguali voi uomini. Davanti alla tastiera siete eroi ma poi in realtà non avete spina dorsale. Sei
solo un fallito!
- Basta! – gridò Giovanni, alzandosi e colpendola con un violento schiaffo che la fece barcollare. –
Non ti permetto di parlarmi così!
Quel colpo gli aveva dato una tale soddisfazione che stentò a trattenersi dal ripeterlo.
- Sai solo picchiare chi è più debole di te, vero? Fallito! – gli gridò Angela.
- Basta! Smettila! – Giovanni alzò la mano per colpirla, ma si fermò.
- Avanti! Picchiami di nuovo! – lo incalzò lei, con una voce sibilante.
Giovanni perse definitivamente il controllo. Allungò entrambe le mani per afferrarle il collo,
fermamente deciso a spezzarle un paio di vertebre. Dopo un istante però si fermò. Sapeva di non
poterlo fare. Non poteva uccidere per un accesso di rabbia, non era fatto così. Si ritrasse, con un
pizzico di rammarico.
- Perché ti sei trattenuto? – disse lei, allontanandosi di un passo. Pareva delusa.
Giovanni respirò profondamente un paio di volte, per riprendere il controllo dei propri nervi e poi
disse: – Credevi che ti avrei ammazzata per qualche insulto? Io non sono fatto così.
- Peccato.
- Come peccato? Avresti preferito che ti avessi strangolata?
- Non te l’avrei mai permesso – disse la donna, mostrando una piccola calibro .22 che aveva estratto
dalla tasca posteriore dei pantaloni.
Lui sgranò gli occhi davanti all’arma. Era una pistola minuscola, pareva quasi un giocattolo, ma non
era meno letale di un’arma più grande.
- Tu sei pazza! Ma che diavolo vuoi da me?
- Speravo che avresti avuto almeno il coraggio di provarci, ma mi sbagliavo.
Angela era palesemente scontenta. Giovanni tentava ancora di far chiarezza nei propri pensieri.
- Per il mio lavoro – rispose lei, sempre tenendogli la pistola puntata contro.
- Ancora questa storia! Tu sei pazza, hai bisogno di cure!
- No, credimi.
- Ne ho abbastanza. Me ne vado – disse Giovanni. Si voltò e si incamminò in direzione della porta,
ma lei lo fermò.
- Non muoverti o ti ammazzo!
Lui si voltò, spaventato, e disse: – Ma perché vuoi farlo?
Angela adesso era straordinariamente calma. Dimostrava di possedere un controllo praticamente
perfetto dei propri nervi. Perché ho avuto un’idea e non ti lascio andare fino a che non dimostro che
è giusta.
- Quale idea?
- È cominciato tutto quando in chat mi hai parlato della tua fidanzata che è scomparsa. Speravo che
tu l’avessi uccisa e speravo di riuscire a provocarti a tal punto da convincerti a tentare di ammazzare
anche me. In questo modo avrei avuto la conferma che hai l’istinto dell’assassino. Vedi… prima ti
ho mentito. Il lavoro non è la cosa più importante per me. La cosa più importante è il mio hobby.
- Ma di che diavolo parli?
- Parlo del mio hobby. Colleziono assassini.
- Cosa?
- Non posso farne a meno. Colleziono profili psicologici di assassini. Con il lavoro che faccio non è
affatto difficile trovarli: a volte vengono spontaneamente nel mio studio altre volte devo cercarli e la
chat è un mezzo come un altro per farlo. Ho una specie di sesto senso, non mi sbaglio mai.
- Su di me invece ti sei sbagliata. Io non finirò nella tua collezione.
- Forse no, però non ne sono ancora convinta. Facciamo un altro tentativo.
- Cosa?
- Mettiamola così: adesso ti sparo. Però voglio darti una possibilità. In quel cassetto c’è una pistola.
Io ti terrò sotto tiro, quindi non tentare mosse stupide. Prendi la pistola e spara dalla finestra. Se
uccidi qualcuno ti salvi. O dimostri di avere la stoffa dell’assassino o muori. A te la scelta.
Giovanni scosse la testa. – Non mi serve la tua pistola.
- E perché mai?
- Perché ho la mia.
- Davvero? – la donna sorrideva. Chiaramente non credeva alle parole di Giovanni. Pensava che si
trattasse di un bluff.
Era giunto il momento di togliersi la maschera. Anche se era venuto per un altro scopo non poteva
più far finta di non essere ciò che era.
- Sì. Sono un poliziotto.
La donna sorrise. Bella trovata, complimenti. Però non ti salverà.
- Non sto scherzando – ribatté Giovanni, mettendosi con calma una mano sotto la giacca. Prese
dalla tasca destra il tesserino di servizio e lo mostrò alla donna.
- Sei davvero un poliziotto… non posso crederci – disse la psicologa sbalordita, dopo aver guardato
con attenzione il tesserino. – Comunque non hai nulla contro di me. Nel cassetto c’è solo una
pistola giocattolo. Non volevo che uccidessi davvero qualcuno, mi bastava che accettassi la mia
proposta per dimostrare che avevo ragione.
Giovanni prese dalla tasca destra della giacca la sua Beretta di ordinanza e la puntò contro Angela.
La psicologa lasciò cadere la sua arma.
- Non mi servono le prove. Non ho intenzione di arrestarti. rispose l’uomo, raccogliendo con calma
calibro .22 e mettendosela in tasca. Era un’arma interessante e probabilmente gli sarebbe tornata
utile, una volta o l’altra. Sono un poliziotto ma per me il lavoro non è poi così importante. Anche
per me viene prima il mio hobby.
- E quale sarebbe? chiese la donna, incuriosita.
- Colleziono cadaveri. Cadaveri di donne.
Anna Cibotti
Peccati di gola
Gustavo era un predatore nel vero senso della parola.
Al contrario della sua fidanzata, magra e lunga come uno stuzzicadenti, lui era un pacioccone
ridanciano simpatico a tutti.
Dopo cena era abituato a fare una passeggiata per digerire (così almeno faceva credere) ma lo scopo
era tutt’altro.
Rosina cominciò ad avere dei sospetti quando vide nelle sue camicie e nei pantaloni delle macchie
strane.
Le venne il dubbio che le mentisse e un lieve sospetto la sfiorò.
Si rendeva conto che non era un adone, ma a lei piaceva così com’era con il suo faccione rubizzo e
le “maniglie dell’amore” che adorava pizzicare nell’intimità.
-E quelle macchie allora?Decise di non chiedergli nulla e di aspettare gli eventi.
Gustavo non aveva le “phisique du role” e allora che predatore poteva mai essere!
Lo era eccome!
Non era un predatore di donne, le sue prede erano i panini assortiti in bella mostra nella vetrinetta
sotto il bancone del bar.
E non solo quelli!
Anche le pizzette, le brioches e i tramezzini.
Non gli resisteva e anche dopo avere cenato se ne abbuffava.
Prede gustose da mordere con voracità in una pulsione irrefrenabile.
Ma una notte Gustavo ebbe un incubo.
Nel sogno vide un enorme panino col salame, profumato e invitante.
Allungò la mano per prenderlo e improvvisamente il panino si aprì come una grossa bocca
spalancata pronta ad ingoiarselo.
La sua preda avrebbe ingoiato il predatore.
Si trovò seduto sul letto sudato e atterrito con la povera Rosina che era caduta dal letto spinta dalle
braccia che Gustavo dimenava alla cieca come a scacciare qualcosa.
Dopo quella notte Gustavo non fece più la passeggiata digestiva né macchiò le camicie e i
pantaloni.
Cambiò anche bar.
L’ingordo predatore rimase così……..in preda allo sconforto!
Nadia Lattanzi
Sogno
Entrò in bagno e i vapori dell’acqua bollente gli tolsero il fiato! Ci mise un po' a far abituare gli
occhi a quel poco vedere e il suo respiro a farsi regolare. Chiuse la porta e la figura di lei, sotto
l’acqua, “uscì” dal vetro.
La vedeva muoversi, ondeggiare sotto la pioggia d’acqua calda, vide il sensuale movimento dei suoi
fianchi, le braccia alzate, accarezzarsi i capelli. Odorò il profumo intenso del bagno schiuma e
ormai la sua eccitazione era palese. Continuò a guardarla cominciando a spogliarsi, solo allora
s’accorse delle candele accese.. Spense la luce e lasciò che le ombre del suo amore si dipingessero
sul muro di fronte. Si liberò degli ultimi indumenti e si fermò ancora un attimo davanti alla porta
della doccia.. Sentì il suo respiro. Era chiaro che lei stava “chiamando”…
Apri la porta e lei si voltò col volto di chi non stava aspettando che questo.
L’aiutò ad “imprigionarsi” in un metro quadro e l’attirò a se. Sentì immediatamente che quello che
voleva si era realizzato!
Si rese conto che i suoi sensi erano obnubilati alla vista di lei… Gocce d’acqua imperlavano la sua
fronte, scendevano sui suoi zigomi e s’andavano a suicidare sulle sue labbra. Ormai vittima del
desiderio, la baciò con passione accarezzando il suo viso, sentì il corpo di lei protrarsi in attesa di un
di più.
L’accarezzò con lo sguardo e con le labbra la fece fremere di piacere, solo,baciandole l’incavo tra
collo e spalla..scese sul suo seno leccando goccioline d’acqua che si fermavano sui suoi capezzoli.
Le mani di lei erano intrecciate nei suoi capelli ormai bagnati.
Guidava la sua bocca verso il centro del suo desiderio, ma no. Non era ancora il momento. Con le
spalle contro la parete si permise di assaporare i suoi baci, le sue mani che l’accarezzavano, che le
torturavano i seni, il suo respiro che si fermava sul suo ventre..prendeva tempo o ne perdeva?
Istintivamente aprì le gambe e ormai impazziva dalla voglia..il “suo carnefice” ritardava l’attimo e
tornò su, a baciarla sul seno. L’acqua bollente, ormai davanti alla passione dei due amanti, sembrava
fredda..scese di nuovo, questa volta ad estrarre la sua gioia, a sentirla gemere di piacere, a vederla
muoversi per guidare la sua lingua. Ormai lei era il cacciatore, la sua bocca prigioniera di lei, del
suo piacere e si muoveva al centro di lei in attesa che arrivasse all’apice.
Infine fu la fine e lei cadde…si spezzò e si arrese al vuoto che nessuna bocca avrebbe mai colmato!
Si rannicchiò tra le braccia del suo amore, ascoltando insieme il battito del cuore suonare insieme
all’acqua che lavava via la loro passione, lasciando l’amore.
Nadia Milone
Tu e io, predatore e preda
Un gioco, un sogno, forse un’assurdità. Io e te, due anime perse in un universo più grande di noi,
che ci travolge e ci stravolge. Ma quando siamo insieme, tutto il resto è fuori, non ci riguarda più,
almeno per qualche ora. E che il gioco abbia inizio! Tu sei il predatore ed io la preda… Mi insegui,
mi dai la caccia e mi catturi per farmi tua, ancora una volta. Mi diverto a sfuggirti e farmi
rincorrere, per poi cedere ed arrendermi alle tue voglie, so che ti piace. E poi i ruoli, all’improvviso
si invertono, tu diventi la mia preda, ti fai desiderare, ti fai inseguire e cacciare e, dopo averti
catturato, ci abbandoniamo entrambi a quell’esplosione di sensi che sentiamo dentro. Vittime e
carnefici al tempo stesso di noi stessi, dei nostri corpi e delle nostre menti.
Ma il vero predatore, in questa storia, sei tu. Mi hai catturato corpo e mente, ormai, creando una
sorta di magnifica dipendenza. Ormai non potrei più fare a meno di quei momenti, attimi di pura
follia e di felicità, poche ore che riescono a ribaltare il corso delle mie giornate e forse, spero, anche
delle tue.
Io vorrei che questo gioco non finisse mai, ma so che non sarà così. Un giorno, spero il più lontano
possibile, tu ti stancherai di darmi la caccia e troverai qualche preda molto più appetibile di me. Il
predatore che è in te fiuterà subito la fresca e tenera carne e qualcuno sotterrerà i miei resti.
Così è la vita, credo che dovrò e saprò accettarlo, anche se già so che mi mancheranno le nostre
“battute di caccia”. Chissà, forse mancheranno anche a te, o forse no.
Ma perché pensarci ora? A che scopo? Noi stiamo ancora giocando, quindi continua a cacciarmi, ti
prego, fallo ancora per un po’… Mi piace essere la tua preda, sentire di essere apprezzata e
desiderata da qualcuno, nonostante i miei mille difetti. Non smettere, non ancora, non adesso.
La consistenza dei sogni
Questa settimana siamo stranamente in anticipo sulla tabella di marcia, regalandovi, in questo
modo, la possibilità di poter usufruire di 7 giorni 7 per poter postare il vostro pezzo sul nuovo
argomento, ovvero La consistenza dei sogni.
Sogni che si sfilacciano nel buio racchiuso della nostra mente, diventando a volte incubi o
premonizioni. Quindi che si dia via libera alla fantasia racchiusa nel nostro intimo, lasciando
sprigionare le idee che i meandri contorti della mente riescono a partorire. Siamo maghi e inventori,
poeti e scrittori, siamo soprattutto creativi in grado di trasformare un semplice racconto onirico in
qualcosa di reale e condivisibile. Quindi esprimetevi artisti della Penna e dateci in pasto, a noi belve
affamate di sapere, il vostro contributo. E mentre restiamo in attesa delle vostre creazioni,
godiamoci ciò che le nostre teste hanno contribuito a creare per l’argomento della settimana.
Andrea Mazzolini
Amore non è niente
Il sogno è ricorrente, sempre lo stesso: io e te in riva del mare, un quarto di luna e un miliardo di
stelle appese al cielo.
Come sei bella, Dio, come sei bella, penso stupito. Non riesco a dirti niente, i pensieri annegano in
gola. Ho solo gli occhi per parlarti.
Ti ammiro.
Tu non sei semplicemente un sogno, tu sei linfa vitale. Mi nutre il tuo respiro, il tuo sorriso mi
disseta, mi inebria il tuo profumo.
I tuoi occhi.
Non c’è niente di più bello al mondo. Perché per me sei più di tutto, più di tutto ciò che amo.
Sono una persona decisamente fortunata, ne sono cosciente: tutti i giorni posso vedere le colline
toscane, le meraviglie di Firenze, il campanile di Giotto e la cupola del Brunelleschi. Ma tu ai miei
occhi sei più bella di tutte le opere dell’uomo e della natura. Sei più di Firenze, di Roma e di
Venezia, più delle Dolomiti e della Val d’Orcia. Sei più delle Piramidi, di Parigi, di New York e
della Città Proibita. Per me sei più di Ulisse e Nausicaa, più di Paolo e Francesca, più della Pioggia
nel pineto. Più di Mozart e dei Beatles, più di Picasso e di Van Gogh.
Sei primavera nei ciliegi in fiore.
(La tua bocca d’un tratto mi sconvolge.)
Mi sveglio. Non c’è il mare. E non ci sei.
Sei rimasta sperduta nei miei sogni.
(Se non è questo, amore non è niente.)
Nadia Milone
Come una nuvola
I sogni… posso quasi dire di aver passato la maggior parte dei miei giorni a sognare. Sono
un’inguaribile romantica, purtroppo. E dico purtroppo, sì, perché a volte i sogni possono essere
pericolosi, possono trasformarsi in incubi. Ma io non posso farci nulla, mi ritrovo non so come su
quella stramaledetta nuvoletta che ha la stessa consistenza di una bolla di sapone. Mi fa sentire
leggera, libera, ma prima o poi scoppierà, obbligandomi ad un inevitabile scontro con la realtà. E so
già che l’impatto sarà devastante. Ora ci sarebbe da chiedersi: ma non hai imparato nulla? Proprio la
vita non è riuscita ad insegnarti che il Paradiso non esiste? Ancora ci credi?
Eh, lo so, è così purtroppo. Mille volte sono stata ammaliata da un sogno ed altrettante volte ci ho
dovuto sbattere il naso, prima di capire che era soltanto un’illusione… Ma nonostante tutto, ho
bisogno di credere in qualcosa, è necessario che io mi aggrappi ancora una volta ad una speranza e
se anche questa volta dovesse rivelarsi una bolla di sapone, almeno per un po’ mi avrà fatta stare
bene. Perché anche se nei miei momenti peggiori ho detto di non credere nei sogni, era una bugia.
Una stupida ed inutile menzogna che raccontavo a voi ma, soprattutto, a me stessa nel tentativo di
proteggermi dall’ennesimo fallimento. Ma non è mai servito. Io sono e sempre rimarrò una
sognatrice, forse potrei anche dare la colpa allo zodiaco di questo, sono una cancerina persino un
po’ lunatica, a volte. Amo volare con la fantasia, proprio non mi so frenare. Chi mi vuole bene, tenta
inutilmente di farmi stare con i piedi per terra, lo fa per non vedermi soffrire, lo so, ma proprio non
ce la farò mai ad essere razionale. E se un sogno dev’essere, allora sogno sia! Quando la nuvoletta
scoppierà, ci sarà qualcuno lì sotto, a raccogliere i cocci. Così è stato prima e così sarà in futuro.
Ho provato a chiudere i miei sogni in un cassetto per evitare che mi facessero del male, ma ne sono
sempre usciti, aggiungendosi ad altri e altri ancora. Forse non si realizzeranno mai o forse sì,
almeno in parte, ma vi dico che poco mi importa. Io continuerò a sognare e sperare, perché una vita
senza sogni, a mio parere, è una vita vuota e priva di significato.
Soltanto un sogno
Finalmente sei qui. Era così tanto tempo che desideravo incontrarti! Posso guardarti, posso toccarti,
posso abbracciarti. Le mie mani tremano intrecciandosi alle tue e la mia voce non è altro che un
leggero sospiro che esce dalle mie labbra. Ti guardo e mi sento un po’ stupida perché ora che sei qui
non riesco a parlare. Ma tu sei così dolce, così paziente con me… Mi stringi le mani, mi guardi
negli occhi e poi mi abbracci. Non servono le parole, adesso. Sensazioni forti ci sfiorano l’anima.
Le tue mani mi accarezzano e la tua bocca cerca la mia, quelle labbra così sensuali che ho
desiderato per così tanto tempo. Il desiderio cresce dentro di noi e adesso io e te siamo una cosa
sola, non abbiamo più tempo, non possiamo più aspettare. La passione ci travolge, i vestiti cadono
sulla sabbia umida come petali d rosa e tu sei così dolce e passionale da lasciarmi senza fiato.
Le mie mani accarezzano ogni centimetro del tuo corpo, sento il tuo respiro sul collo e mi vengono i
brividi. Annuso la tua pelle che sa di salsedine e mi sento in paradiso. Io e te in riva al mare, nessun
altro intorno, solo noi su questa spiaggia deserta, ora abbracciati a guardare il mare. Mi prendi per
mano e ci tuffiamo in acqua. Tu continui a guardarmi, mi dici che ti piaccio e che mi vuoi ancora, e
ancora, e ancora… Io proprio non riesco a resisterti. I tuoi occhi mi hanno stregata, quello sguardo
un po’ malinconico da uomo d’altri tempi che mi fa una tenerezza infinita, quel tuo sorriso così
dolce, in contrapposizione al tuo spirito un po’ selvaggio, a volte… Quanto mi piaci! Da impazzire.
Te l’ho mai detto? Sì, certo che te l’ho detto e tu hai sorriso! Ti ho visto, sai, cosa credi?
Ma… ma ora che succede? Cos’è questa luce? Dove mi trovo? Dove sono il mare e la sabbia? Dove
sei tu? Niente, non c’è più niente. Non c’è più il sole, né il mare, né le tue mani a sfiorarmi la pelle.
C’è soltanto un letto vuoto e freddo. E’ mattina, apro gli occhi e ripiombo nella realtà. E’ stato solo
un sogno, un bellissimo ed indimenticabile sogno. Ora mi dovrò alzare, mi dovrò vestire e fare tutto
ciò che ho sempre fatto: andare avanti come meglio posso. Ma adesso so di non essere più sola,
perché stanotte tu tornerai da me, nei miei sogni. Lì ci incontreremo, soltanto lì… Ma è un
appuntamento al quale non voglio rinunciare.
Chissà se un giorno riusciremo a far diventare il mio sogno una realtà, oppure se saremo destinati a
desiderarci senza incontrarci mai. Chissà…
Rossana Roxie Lozzio
Danza con me e baciami!
Immagino come potrebbe essere dal primo momento in cui ho incontrato quel tuo sguardo
accattivante e mi ci sono persa dentro.
Avevo una ventina d’anni ed altrettanti e una manciata ne sono passati, da allora… e ancora,
continuo a immaginarlo. Forse, proprio perché non so come sarebbe, non so come sia, non so come
sarebbe stato… è quasi impossibile, persino immaginarlo eppure lo vedo. Vedo te e me, vedo uno
sfondo confuso, che potrebbe essere qualsiasi ambiente e ovunque, tanto poco importa… sarà
soltanto inutile contorno, per quell’attimo che renderemo eterno!
Immagino di ballare fra le tue braccia, con le tue mani che danzano sulla mia schiena al ritmo della
nostra canzone e la tua voce, che mi sussurra alcune delle parole all’orecchio, carezzevole come il
tuo sguardo che all’improvviso, fissa le mie labbra ed io, abbasso gli occhi… non sono in grado di
sostenerlo, nemmeno in un sogno.
Allora, smetti di ballare e mi sollevi il mento con alcune dita di una mano per costringermi a
guardarti, mentre assaporo gli attimi che seguiranno. Non ti sento pronunciare alcuna frase ad
effetto, non ne ho bisogno, non adesso che sto per realizzare il sogno di baciarti! Prendi tu
l’iniziativa o non sarebbe un sogno… ma non indossiamo maschere e finalmente, anch’io posso
essere me stessa, manifestandoti che ti amo da tutta la vita e che non m’interessano il tuo passato, il
tuo presente e neanche il fatto che non possa regalarmi un futuro da condividere. Non m’importa
chi sei o chi sei stato e con chi… cos’hai fatto, durante la mia assenza, se sei il diavolo che mi
raccontano o il bellissimo angelo dallo sguardo diabolico che preferisco immaginare, ora che stai
per baciarmi.
Tremo appena, mentre le labbra si avvicinano e continuo a tremare, altro che battito di ali di
farfalla… dentro, devo avere un oceano di onde che mi smuovono e un nutrito esercito di farfalle
che non sanno se ne usciranno indenni! Sento i battiti del cuore aumentare e rallentare, ho la voglia
di spalancare gli occhi per accertarmi di quanto sta accadendo e non so dove stia trovando tutto il
fiato che mi serve per stare dietro al ritmo incalzante di questo intimo gioco, finalmente condiviso
con te… stiamo scambiandoci quanto, per come interpreto il gioco dell’amore, di più confidenziale
e privato ci sia. Ci stiamo regalando qualcosa di noi e ci stiamo togliendo respiro, pur continuando a
vivere, nel battito animale di quanto potrebbe avvenire in seguito. Ti sto assaporando, sento il tuo
profumo, l’odore della tua pelle e il tocco delle tue mani sulla mia… niente è più immaginazione, il
risultato è che le emozioni si tramutano in sensazioni ed è sublime.
Mai mi sono sentita più viva di così, lo escludo e senza tema di smentita, poi, non so cosa succederà
da adesso in poi ma posso solo ringraziarti, perché al termine di un esaltante, magico, lunghissimo
eppure troppo breve bacio con il protagonista di tutti i miei sogni ad occhi aperti, mi stai
teneramente abbracciando e finalmente, appagata e sfinita dal preludio di quanto continuerò ad
immaginare, posso provare a rincorrere il sonno che, anche stanotte, sono certa arriverà in ritardo ad
abbracciarmi al posto tuo.
Estratto da “Fino alla fine”
Aspettare Simon Weston, durante una calda serata di fine agosto, colma di elettricità che sembrava
pronta ad esplodere nell’aria e per di più, nel suo appartamento… Amber Rose sapeva di non essere
pronta ma il bell’attore inglese l’aveva chiamata il giorno prima e le aveva raccontato che avevano
terminato di girare il film e che sarebbe tornato in Italia per trascorrere del tempo in Toscana, con
Daniel.
Non era stato facile tentare di evitare d’incontrarlo, perché doveva ammettere che non le sarebbe
dispiaciuto rivederlo e comunque, detestava mentire… aveva accampato qualche debole scusa e poi
si era piacevolmente arresa all’insistenza del giovane uomo che rappresentava l’unica alternativa
alla solitudine.
Sentendo suonare il citofono, Amber Rose spense il phon con il quale si stava asciugando i capelli e
guardò l’ora, perplessa. Si erano accordati per incontrarsi alle nove ed erano soltanto le sette passate
da qualche minuto… possibile che fosse venuto direttamente dall’aeroporto, senza fare tappa in
albergo?
Posò l’apparecchio e si diresse ad aprire, senza rispondere, cercando di sistemare al meglio i lunghi
capelli ancora umidi, quindi socchiuse la porta d’ingresso e corse nuovamente in bagno, per
riordinarlo e per specchiarsi un’ultima volta.
Indagò nei suoi occhi, cercando di scavare nell’anima, mentre si chiedeva che genere di serata
avrebbero trascorso, dopo l’ultimo periodo nel quale si erano semplicemente sentiti telefonicamente
e nemmeno così spesso. In effetti, quando Simon le aveva chiesto di vedersi a Milano, non aveva
potuto fare a meno di sorprendersi ma le parole spese da James, qualche sera prima, l’avevano
indotta a riflettere e avevano fortemente pesato sulla decisione finale, circa quell’inaspettato
appuntamento.
Sospirò, sentendo la porta chiudersi e prima di recarsi nell’ingresso per riceverlo, trasse alcuni
respiri profondi, dipingendosi un sorriso solare sulle labbra. “Simon, sei tu?”. Lo chiamò,
dirigendosi fuori dal bagno. “Sei in anticipo, non si era detto alle…”. Giunta a destinazione, le
parole morirono sulle sue labbra, così come il sorriso che aveva destinato all’attore e per un attimo,
temette di perdere l’equilibrio, sulle gambe che divennero deboli.
“Non sono Simon… spiacente di deluderti, Amber Rose”. Matteo allargò leggermente le braccia,
investendola con il fascino che l’aveva conquistata da subito, costringendola a lottare con se stessa
per tentare di mantenere la lucidità che le sarebbe servita per affrontarlo. L’emozione nel trovarselo
di fronte, inatteso e così maledettamente attraente, le procurò un dolore fisico che le tolse il fiato.
“Io…”. Si sforzò per trattenere il desiderio di gettargli le braccia al collo e si appoggiò
discretamente ad una parete, sperando di recuperare il controllo. “Ho aperto, convinta che fosse
Simon…”. Convenne, mentre la fissava con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto. “Certo,
non avrei mai potuto immaginare che…”.
“Lo so, non ti ho chiamata per avvertirti e forse, avrei fatto meglio ma…”. S’interruppe,
mostrandole una videocassetta. “Ho qui una copia del film e credevo che ti avrebbe fatto piacere
vederlo in anteprima… “. Concluse, rimanendo immobile, poco distante da lei.
Fuori era cominciato a piovere ed un lampo squarciò il cielo, illuminandolo, seguito da un tuono
che la spaventò. “Detesto i temporali…”. Si lasciò sfuggire, abbozzando un sorriso, imbarazzata.
L’elettricità che aveva preannunciato l’evento atmosferico durante il pomeriggio, sembrò
concentrarsi nei pochi metri quadrati dell’ingresso, mentre si trovavano di nuovo di fronte e non
sembravano capaci di affrontarsi.
“Hai il tempo per vederlo?”. Le chiese, sconvolgendola.
“Non credo…”. Rispose, avvertendo una tensione che avrebbe preferito poter attribuire al suo
timore per il temporale. “Voglio dire, mi farebbe piacere ma potrebbe mancare la corrente e poi…”.
Matteo mosse quel paio di passi che li separavano e le si fermò davanti, inebriandola con il profumo
che ricordava perfettamente. “Hai i capelli bagnati…”. Osservò, sollevando una mano e passandovi
alcune dita, sensualmente.
Un altro tuono l’indusse a trasalire. “Non ho fatto in tempo ad asciugarli, quando hai suonato il
citofono ho dovuto…”. S’interruppe, scoprendosi in enorme difficoltà, ora che i loro corpi potevano
sfiorarsi.
“Stai tremando…”. Lui continuò a giocare con le dita fra i suoi capelli, posando l’altra mano sulla
parete alla quale sembrava essersi incollata prima, imprigionandovela contro.
“So che è infantile ma il temporale mi fa questo effetto…”. Mormorò, abbassando lo sguardo.
Matteo si chinò leggermente, sfiorandole la fronte con le labbra. “Speravo di potermene attribuire
una parte di merito…”. Asserì, incendiandole i sensi.
Amber Rose deglutì, continuando ad evitare di guardarlo negli occhi, mentre la stoffa leggera della
t-shirt che indossava le lasciva intuire l’armonia del suo corpo modellato dallo sport. “Sei sleale…”.
Replicò, scivolando vero il basso e sfuggendogli con destrezza, per raggiungere il salotto.
Matteo la seguì, con una pacatezza che lasciava trasparire una determinazione a compiere quello per
cui doveva aver deciso di venire a casa sua e che la preoccupò.
“Vedremo il film un’altra volta…”. Dichiarò, indicando la videocassetta. “Adesso, dovrei finire di
prepararmi”.
“Per Simon?”. Domandò, raggiungendola e fermandolesi di fronte. “Hai deciso di dargli una
chance?”.
“Perché no, dopo tutto?”. Ribatté, infastidita dall’atteggiamento che stava adottando. Quasi potesse
vantare dei diritti su di lei. “Siamo liberi e se ci va di frequentarci…”.
“Dimmi una cosa, Amber Rose…”. Matteo posò la videocassetta sul tavolino, prima di cingerle la
vita con una mano per attirarla a sé. “Se adesso ti baciassi, mi chiederesti di andarmene o…”.
“Non farmi questo…”. Sussurrò, sul punto di perdere il controllo. “Non puoi venire qui, dopo
essere sparito nel nulla, come se niente fosse e…”.
“Posso farlo eccome…”. L’interruppe, catturandola con il tono sensuale della voce e con la forza
coinvolgente dello sguardo. “Ne ho una voglia spaventosa… non te ne sei accorta?”.
Avvicinò il viso e sorrise, posando le labbra sulle sue, che costrinse a schiudersi per dare inizio ad
una lenta esplorazione che convinse entrambi.
“Voglio farti questo…”. Aggiunse, sollevando la maglietta che indossava e sfiorandole il seno con
le mani. “E questo…”. Disse ancora, spogliandola con destrezza. “E poi, voglio vedere quella luce
nei tuoi occhi…”. Concluse, sollevandola fra le braccia. “Quella che avevi la notte in cui ci siamo
baciati per la prima volta, Amber Rose…”.
Lei posò la testa sulla sua spalla, mentre la portava in camera e quando la depose sul letto, sorrise,
guardandolo liberarsi della maglietta aderente e dei pantaloni, per poi sdraiarlesi accanto. “Non
credi che…”.
Matteo si riappropriò delle sue labbra con foga, facendola precipitare in quel vortice di sentimenti
che l’avevano accompagnata per anni e che sembrarono pronti ad esplodere con la stessa violenza
con cui i tuoni rompevano il silenzio all’esterno, sempre più spesso.
Non ci fu tempo per i dubbi e le incertezze, non le permise di pensare che era l’uomo di un’altra e
che non era venuto da lei perché l’amava e aveva capito di voler trascorrere il resto della vita con
lei… adesso era soltanto il tempo per godere delle sue attenzioni e del desiderio che lo stava
accendendo più di quanto i lampi sarebbero riusciti ad illuminare il cielo all’esterno.
Matteo la condusse sull’orlo del piacere, giocando con i corpi e usufruendo di ogni arte amorosa,
regalandole un’estasi che la condusse altrove… lontano da ogni dolore, dalla solitudine e da ogni
paura. Anche da quella più grande, la paura di vederlo nuovamente andare via.
Attese qualche istante in più, cavalcando l’oda del piacere con lei e sorrise, permettendole di
ottenere il suo stesso appagamento, con la generosità di cui sapeva essere capace, nonostante avesse
speso meno tempo di quanto avrebbe meritato Amber Rose in quello che avrebbe dovuto essere un
corteggiamento degno di essere ricordato.
Amber Rose si svegliò di soprassalto, al forte rumore provocato da un tuono ed istintivamente si
voltò nel letto, cercando Matteo.
Si passò le mani fra i capelli, poi si accorse di essere vestita e quando comprese che doveva essersi
addormentata un paio di ore prima sospirò, rendendosi conto che mancava poco più di un’ora
all’appuntamento fissato con Simon e che l’ansia che provava all’idea di rivederlo, doveva averla
condizionata al punto da averle fatto sognare qualcosa che non era e non sarebbe mai accaduto.
Viky Hachiko Lancione
I sogni
I sogni sono fatti di cotone,
morbidi e lievi come le nuvole.
Di miele e di fiele
il loro ardore.
Ti entrano in circolo
ti fan star sveglio di notte.
Ti danno il senso per la vita.
Ti illudono, ti graffiano.
Danno gioie e dolori,
lacrime e sorrisi,
sangue e acqua fresca.
La loro forza e ciò che nella vita c’è di più grande.
La nostra vita è dominata dai sogni
che vivono sospesi come farfalle.
Nascono come dei boccioli,
pronti a fiorire e a inondare tutto con il loro dolce profumo.
Anna Cibotti
I sogni sono… Sogni
I sogni non hanno colore
né sapore e profumo.
Sono nebbia di notte
e di giorno
proiezioni confuse.
Illudono
Tradiscono
Svaniscono
E sono sempre lì
Quando credi di amare
Quando vuoi essere amato
Se vuoi essere ricco
Se vuoi essere felice
Non c’è risposta
Mai
Rimane la speranza
Un altro sogno ancora
Maurizio Donte
L’incanto della sera
Quando poso gli occhi sul lontano mare
e attendo che le vele rientrino nel porto,
il vento cala e lente nubi bianche
navigano in ciel, mutando forma.
Mentre s’allungano le ombre della sera,
l’incanto si raduna lentamente:
sorge poi improvviso all’orizzonte,
come vampa rosseggiante
che rapida s’accende, declina e muore:
subitaneo tramonto infiammato,
lunghe nubi trascolorate di viola,
stancamente adagiate
sull’ultimo confin del mondo.
Son qui, seduto, sotto l’arco della loggia,
e lontano odo sulla riva
franger l’eco dell’onda di risacca:
limpido concerto che il cuor consola
nel suo voluto esilio,
placido suon che concilia il sonno.
Volutamente obliai i ricordi estivi,
mentre nella volta del ciel
ad una ad una, silenti, s’accendono le stelle.
Profuma l’aria della notte
del dolce effluvio dei gelsomini in fiore
ed io ricordo, senza voler,
e con la man nell’aere,
qual musico, disegno meraviglie,
evocando il suon di concerti lontani.
Incanto della sera
dove lampeggiano i ricordi,
come fuochi nell’aria scura esplosi.
Ti vedo! Furioso vento s’agita nel cuore.
O tu…quando seduti a riva
prendesti la mia mano:
brevemente s’incontrano l’anime nostre
per poi fuggir lontano.
Ma il mio cuor non muta:
ostinato amor di Prometeo incatenato,
vincolato alla roccia
e pur proteso al ciel nel grido: t’amo!
L’eco rimbombante poi dissolve
nel rintocco di campane,
segnanti l’ora del riposo che s’appressa…
e, risuonando d’echi, riempie il silenzio
in cui la sera affonda.
Scende dal ciel l’incanto in possenti cori.
Sorge la luna dall’oriente
ed illumina la notte,
scintillando sulle onde del mare.
Vaga la mente stuporosa
in cerca di te, mia cara sposa…
l’incanto, l’incanto mi prende
quando sulla spalla piano,
lieve come raggio d’astro in ciel
posa la tua mano.
Paolo Fiorino
La donna del sogno
Eccola, di nuovo, la donna del sogno, strana e irraggiungibile. Ai suoi occhi appariva come una
presenza diafana in un mondo irreale le cui trame, fragili come tele di ragno, erano intessute di buio
e luce. Era una figura sottile e luminosa ma, come sempre, la sua intuibile bellezza era parzialmente
nascosta da un’ombra che ne velava il volto. Non era un’ombra reale ma piuttosto pareva che nella
forma stessa del suo volto mancasse qualcosa, una parte minima e quasi non individuabile ma pur
sempre fondamentale, una cosa senza la quale non potevano esistere né vitalità né bellezza. Eppure
proprio questa incompletezza rendeva per lui quella figura ancora più desiderabile. Voleva con tutto
se stesso completarla e godere della sua interezza, ma non sapeva come fare. Poi un giorno aveva
capito, quasi per caso. Altre persone possedevano ciò che mancava alla sua donna del sogno, a volte
era un dono che nemmeno conoscevano e lui poteva facilmente appropriarsi di un piccolo pezzo
della loro complessità. Un piccolo pezzo di una vita inutile che improvvisamente avrebbe acquisito
una nuova grandezza facendo crescere la donna del sogno. Era facile, anche troppo. Da allora la sua
ricerca era stata ininterrotta: ogni piccola parte, ogni scheggia di luce che riusciva a carpire a coloro
che popolavano il mondo reale contribuiva al disegno che cresceva continuamente dentro di lui,
prendendo forma e avvicinandosi ogni giorno di più alla perfezione. C’era stata la concertista che
aveva incontrato per caso all’uscita di un teatro e che gli aveva donato la sensibilità, c’era stata la
ragazza di quel negozio del centro che gli aveva ispirato la razionalità, c’era stata la vecchia che
aveva ceduto la sua saggezza e molte altre delle quali nemmeno si ricordava che avevano dato parte
di sé, ciascuna contribuendo, con quel poco che aveva, alla nascita di un essere perfetto e
indescrivibile. Ormai era come una droga per lui, aveva bisogno di vederla crescere sempre più per
andare avanti, per sentire la sua vita che si prolungava giorno per giorno. Quando trovava qualcosa
da donare alla sua amata sentiva dentro di sé una forza nuova e potente, una passione che lo
consumava e lo rendeva forte, capace di superare ogni ostacolo. Sentiva un fuoco che lo bruciava
dentro alimentando la sua volontà e amplificando la potenza del suo stesso essere, proprio come
stava accadendo in quel momento mentre fissava la ragazza legata sul tavolo della sua cantina. La
vedeva davanti a sé, impotente e terrorizzata, incapace di comprendere ciò che stava accadendo, di
percepire la grandezza dell’attimo. Quella donna insignificante non riusciva a capire il suo piano,
non vedeva la meta di perfezione alla quale lui tendeva e, come tutte le altre, nella sua limitata
visione non arrivava a comprendere l’inevitabilità di quel momento. Lei non sapeva che ciò che
avrebbe contribuito a creare con il suo sacrificio sarebbe sopravvissuto al tempo e agli uomini.
Sarebbe stato un perfetto monumento, immutabile ed eterno, posto per sempre all’ingresso di un
mondo nuovo. Lui vedeva quella ragazza disperata che si dibatteva per liberarsi dai lacci che la
ancoravano al tavolo ma in realtà non percepiva altro che il suo bisogno di lei, il suo desiderio
irrefrenabile di strapparle ciò che si teneva dentro e che spettava di diritto ad una creatura ben più
importante di quanto lei sarebbe mai stata. E all’improvviso un pensiero lo sfiorò: questa sarebbe
stata l’ultima volta. Prese il coltello e si avvicinò alla ragazza. Soppesò l’arma e assaporò per un
istante il contatto con la fredda materialità dell’acciaio, gustando il piacere unico di quell’attimo e
rafforzando dentro di sé la consapevolezza di ciò che stava accadendo. Sollevò la lama pronto a
vibrare il colpo definitivo, quello che gli avrebbe dato la felicità e lo avrebbe per sempre affrancato
dal suo gravoso compito. Quella lama avrebbe per sempre separato l’inutile corpo della sua ultima
vittima da ciò che conteneva di buono e avrebbe donato quella minuscola scintilla alla creatura
ideale. Ciò che le serviva era solo un pizzico di ciò che la ragazza poteva donarle, solo un pizzico
di…
Uno schianto alle sue spalle lo svegliò di colpo strappandolo dal quel suo mondo irreale e perfetto e
riportandolo con la forza di un pugno nella realtà terrena. Aprì gli occhi e si alzò di scatto. Uscì
dalla stanza e si precipitò verso la porta d’ingresso. Una ventata d’aria gelida, proveniente
dall’esterno lo schiaffeggiò. La porta era stata sradicata dai cardini e un uomo, ammantato della luce
che proveniva da un proiettore acceso alle sue spalle, che lo rendeva splendente come un angelo e
indistinguibile nei suoi tratti, era entrato. L’uomo angelo gli puntava contro una pistola.
- Non muovere un muscolo! – gli gridò l’uomo angelo, con una voce terrificante che
paradossalmente sembrava provenire dall’inferno.
- Ma io devo finire il mio compito, non posso rinunciare – sussurrò in risposta, troppo piano perché
l’uomo angelo potesse sentirlo.
Si voltò di scatto e in pochi istanti percorse i pochi metri che lo separavano dalla porta della cantina.
Afferrò la maniglia e tirò con forza. La porta si aprì, ma all’improvviso una sensazione di calore lo
colse alle spalle, un attimo dopo aver sentito un forte schiocco seguito da un sibilo. Il calore crebbe
a dismisura fino a diventare un fuoco che gli devastava il corpo. Il dolore divenne insopportabile,
lasciò la maniglia e cadde in ginocchio. Mentre le forze lo abbandonavano chiuse gli occhi e
sprofondò in un turbine di luce.
L’uomo angelo superò il corpo riverso e scese lentamente le scale, che conducevano in cantina
controllando con attenzione che non ci fossero altri pericoli. Due uomini in divisa lo seguirono un
istante più tardi.
L’uomo angelo, ormai ridiventato umano, si avvicinò al tavolo, guardò la ragazza e disse: – Stia
tranquilla è tutto finito.
Erano passati alcuni confusi minuti, l’uomo angelo adesso era chino su di lui. La sua voce era
troppo lontana perché potesse percepirla chiaramente, ma ormai non gli importava più. Ormai aveva
raggiunto la sua meta e ciò era stato possibile solo grazie all’intervento di quell’essere
soprannaturale. Ora sapeva, con certezza, che ciò che cercava era più vicino di quanto avrebbe mai
creduto possibile. Non doveva cercare negli altri ciò che mancava alla perfezione della sua visione,
non ce n’era bisogno. Ciò che serviva era la sua stessa vita, la sua più profonda energia vitale. La
donna del sogno ora era completa, e non sarebbe potuto accadere altrimenti. Lei aveva bisogno
della sua morte per acquisire la vita e ora lo guardava con occhi fiammeggianti che gli
trasmettevano gioia e speranza. Nel momento stesso in cui questo pensiero attraversava la sua
mente, si sentì finalmente libero di superare il proprio livello di esistenza per raggiungere uno stato
più elevato. Sentiva la vita che lo abbandonava, ma ne era felice perché questo gli apriva un nuovo
mondo, fatto di perfezione eterna. Poi all’improvviso lei scomparve, portando con sé la luce
stessa…
Riaprì gli occhi in una fredda cella vuota, maledicendo una volta di più il destino che gli aveva
impedito di portare a compimento la sua ricerca della felicità e che ogni notte lo torturava con quel
sogno multiplo. Gli uomini gli avevano negato il privilegio della libertà, rinchiudendolo per sempre
tra sbarre d’acciaio e mura di cemento. Quel maledetto ispettore non era nemmeno stato capace di
ucciderlo. Aveva sfiorato la realizzazione del suo più profondo desiderio e alla fine lo aveva perso
per sempre. Ormai non poteva fare altro che torturarsi nel rimpianto, perché ciò che davvero lo
consumava era l’amara consapevolezza che aveva acquisito nei lunghi anni della sua reclusione:
non sarebbe potuto morire se non dopo aver contemplato la perfezione e non avrebbe potuto
raggiungere la perfezione se non morendo. Il dilemma che lo consumava era troppo grande per la
sua povera anima mortale, ma doveva sopportarlo. Era questa la sua vera condanna, non le sbarre o
i muri. Lacrime di dolore solcarono le sue guance, come ogni notte, mentre il secondino passava
accanto alla sua cella per il consueto controllo.
Andrea Leonelli
Perduto nel sogno (tratta da “La Selezione Colpevole”)
Una ripida discesa
quasi una caduta
Nel profondo del nocciolo
infinitamente piccolo
di un vuoto
infinitamente grande
che è rimasto lì
quando mi hai detto
“Illusioni, miraggi,
la tua sostanza non esiste.”
Allora mi svegliai
e non esistevo più
perduto nel sogno di esistere
come nella nebbia del mattino
Piangono le mie mani (tratta da “La Selezione Colpevole”)
Positivismo illogico
ottimismo inatteso
presenza di luce
sorriso a sorpresa
qualcosa fiorisce in me…
Apro gli occhi
fine del sogno
buio mi circonda
buio mi riempie
piangono le mie mani
vuote.
Solitudine urgente.
Desolazione
nel letto vuoto
errori ripetuti.
Chiudo gli occhi
torno a sognare
Sogno
Sogno che ci sei
Con me
Allungare la mano
Trovarti
Sentire il tuo corpo
Sul mio
Aprire gli occhi e trovarti
Vedere che apri i tuoi
Restare allacciati dallo sguardo
Senza parlare
Ascoltando le anime parlare
Senza suono
Sentire i tuoi passi in casa
L’acqua della doccia
La macchina del caffè
Sogno
Una quotidianità
Fatta di piccole cose
Bicchieri
Sigarette accese e passate
Piatti riempiti vuotati e da lavare
Panni da stendere
Letti da disfare e rifare in continuazione
Sogno
Squilli di telefono
Sms e parole
Di quando sei lontana
E di quanto
Siamo lo stesso vicini
Sogno futuri
Comuni
Di piccole cose
Piccoli gesti normali
Resi speciali
Da NOI
Sogno
Poi apro gli occhi
Sento il tuo respiro
Le tue labbra
La tua voce nell’orecchio
Sei qua
E non sogno più
Ora con te
Io Vivo
Irma Panova Maino
Una volta sognavo
C’è stato un tempo in cui ho sognato strascichi bianchi e gardenie in tinta. Un tempo in cui le favole
avevano ancora la consistenza delle speranze. Un tempo in cui i principi erano ancora azzurri e quei
loro maledetti ronzini brillavano candidi come la neve alla luce del sole.
C’è stato un tempo in cui ho sognato di poter gettare il passato alle spalle, rinchiuderlo in un
cassetto, o seppellirlo sul fondo di un armadio. Un tempo in cui, guardando avanti, gli ostacoli
erano visibili e ben delineati e non vi erano strani e inquietanti ninja, acquattati dietro a fitte fronde
di alberi sui bordi, a nascondere i fossi.
C’è stato un tempo in cui le lancette dell’orologio servivano solo per indicare l’ora e non il futuro
traditore che fugge insieme alle speranze, rese puttane da circostanze poco fortuite.
C’è stato un tempo in cui avrei detto di me altre cose, in cui mi sarei descritta con altri toni, con
altre pennellate e colori più tenui, quasi pastello, molto più chiari, dipingendo un quadro quasi
idilliaco e perfetto, immerso nella bucolica farsa di uno spot del Mulino Bianco.
Quel tempo è finito e “c’era una volta” la principessa buona, racchiusa nella sua torre con a guardia
il drago malvagio e salvata dal principe azzurro, è diventata la menzogna del secolo.
Lei si è rivelata essere la prostituta che chiunque potrebbe avere con pochi denari; il drago, in realtà,
è in via di estinzione, viene tutelato dal WWF e gli ultimi esemplari languono dietro alle sbarre di
qualche zoo; e il principe è stato condannato in contumacia ed è latitante, per essere scappato con la
cassa del Mezzogiorno e l’ultima volta che se n’è avuta notizia, lo hanno visto su una spiaggia
domenicana, mentre beveva batida de coco con rum invecchiato, in compagnia di mulatte da quattro
soldi, pronte a soddisfare ogni sua voglia.
Riaprire gli occhi sulla realtà, uscendo a fatica dal sogno, in verità diventa la salvezza dell’anima,
soprattutto dopo che il sogno si è trasformato in un incubo e promette di divenire anche peggio.
E se chiudo gli occhi, pensando al mio sogno… ciò che mi passa per la mente è fortemente
censurabile e soprattutto considerato blasfemo.
Non sogno più.
Vivo la mia realtà guardando avanti, tralasciando qualsiasi tentazione onirica. La sostanza è in ciò
che posso toccare, vedere e sentire, tutto il resto è solo illusione… e per quanto si possano prendere
tutte le precauzioni del caso, l’illusione può anche uccidere. E lo fa partendo proprio dai sogni,
mandandoli a sbattere contro il muro a velocità supersonica, polverizzandoli con un urto tale da
rendere i crash test del tutto inutili.
Indosso la mia corazza, lucidata per l’occasione e mi preparo, il tempo dei sogni è finito, ora si va in
battaglia.
Gabriele Palumbo
Sogni d’oro
Sogni d’oro…perché non si dice sogni di plastica o sogni di catrame o sogni di merda…non sono
pur sempre sogni? Non è pur sempre un distacco, seppur momentaneo, dalla realtà? A me bastava
questo, distaccarmi dalla realtà…da piccolo non lo capivo, facevo sempre incubi e mi svegliavo
impaurito e col timore di sognare di nuovo…avevo vissuto ancora troppo poco per capire che erano
meglio quegli incubi, fatti di pensieri sparsi e incomprensibili, rispetto agli incubi fatti di realtà
concrete…Ora invece ogni volta che vado a dormire spero sempre di sognare, succede raramente
ormai, non so perché, ma quando succede sono felice, felice di vivere nella mia incomprensibile
mente…felice di avventurarmi nei sentieri districati forgiati da 21 anni di gioie e dolori, sotto forme
oscure che solo a occhi chiusi posso vivere con serenità…spero sempre di sognare, ma spero che un
giorno mi succeda anche a occhi aperti…
Andrea Borrelli
Sogno
Rinchiuso nelle tue parole
mi metto a giocare con il tuo tempo
e specchio nelle tue palpebre.
L’aver avuto vergogna
riporta a quel mito passato.
Decidi adesso cosa puoi fare.
Te stesso ti indica la strada
e puoi non scegliere di ricordare,
cullare ogni infinito attimo
vegliare il presente e
accontentare il futuro.
Aspetta e aspettami di nuovo.
Di fronte al mio viso,
socchiudi gli occhi e
raccontami i miei.
Gli ulivi
In mezzo alla campagna c’è un pastore seduto su di una grossa pietra a osservare le sue pecore.
Questa mattina quando si è svegliato non aveva nessuna voglia di portarle a pascolare; sapeva , già,
che sarebbe stata un’altra giornata noiosa. Ma si è preparato un piccolo sacchetto di semi di albero
d’ulivo. A lui non interessa altro che un modo per poter passare in fretta la giornata e non morire di
solitudine. Gettò tutti i semi in una piccola zona d’ombra vicino la pietra dove era seduto. E pensò
se mai qualcuno fiorirà vicino a questa pietra avrò un po’ di ombra e un po’ di compagnia potrà
avere. La solitudine è una cosa tremenda, diventa una prigione. Poi il pastore cominciò ad avere un
motivo in più per alzarsi, ogni mattina, portare con gioia le pecore a pascolare e controllare se
qualche germoglio fosse uscito. Passarono i giorni e affianco alla pietra spuntarono due piccoli
fusti, uno vicino all’altro. Perfettamente identici e paralleli come fossero nati nello stesso momento
e come se crescessero nello stesso istante. Anche lo stesso pastore rimase stupito, con quanta
velocità fossero cresciuti quegli alberelli e quanto crescevano. Come se il suo desiderio fosse stato
esaudito e quanto più lo desiderava e più quelli crescevano. “ Ma vedi ”, pensò il pastore, “che bella
coppia!” ridendo fragorosamente sotto la sua barba nera e il cappellino bucato. Allora li crescerò
bene e nello stesso modo, continuò, sono entrambi figli di questo lurido mondo e riceveranno lo
stesso amore. L’uomo non aveva famiglia, solo le sue pecore e adesso i suoi piccoli alberelli di
ulivo. Le giornate divennero sempre più calde, e poi più fresche fino a diventare fredde, ghiacciate.
E poi di nuovo. Il pastore diventava sempre più stanco e vecchio, ma con gli anni aveva trovato
serenità e tranquillità all’ombra dei due alberi d’estate ne aveva apprezzato il fresco, e in inverno un
muro dietro cui ripararsi. E poi ancora. Ogni giorno gli ulivi diventavano più grandi ed alti e lui
sempre più fiero di loro. Intere giornate, incominciò a chiacchierare con loro o forse con se stesso,
compiacendosi. Poi cominciò lo sfogo e i segreti di una vita che non avrebbe mai voluto fare, ma
l’amarezza di non saper dire di no alla sua famiglia, poi scomparsa. E proprio per il peso di quel
ricordo continuare a vivere così, o forse per la troppa pigrizia. L’ unica scusa a cui sapersi attaccare
per continuare. Amore di quelle bestie che lo aveva portato a vivere solo e lo aveva fatto
invecchiare prima del tempo. Come i due alberi, cresciuti prima del tempo. Nei due alberi aveva
trovato pace nella solitudine e a loro stava vendendo la sua ultima parte di vita. Una notte si svegliò
prima che fosse ora e come un sospetto volle andare a controllare i due alberi. E successe che
finalmente diventò tutto più strano. Su di un albero era cresciuto a dismisura un ramo che crescendo
di fronte a quell’altro lo andava a toccare, come volesse accarezzarlo. Hanno bisogno di toccarsi il
pastore “impazzito” ripeteva. E nei giorni successivi il ramo cresceva sempre di più, e andava a
toccare quell’altro. E poi i due si toccavano finalmente ma il ramo non si fermò e cominciò a
spaccare la corteccia. Dovrei tagliare quel ramo si ripeté il pastore, ma non posso fargli del male,
con tono vaneggiante e si tormentava. Non sapendo come riuscire a risolvere il problema il senso di
colpa lo costrinse a letto. Si ammalò e per più di una settimana non poté alzarsi e non volle curarsi.
Quando si sentì meglio per alzarsi, tornò vicino la pietra. Ormai i due alberi sembravano
completamente attaccati, l’uomo si spaventò e corse in casa a cercare qualcosa per tagliare il ramo.
Ma i postumi della malattia gli impedirono di avere la forza di tagliare, era ormai troppo forte e
sembrava ribellarsi con decisione e forza ai colpi dell’ascia. Provò ad aspettare e a riposarsi. Le
condizioni dell’uomo cominciavano a peggiorare di giorno in giorno mentre il ramo divenne parte
di entrambi. Ormai era passato qualche tempo da quando aveva piantato. Era vecchio e non riusciva
neanche ad alzarsi dal letto. Un giorno chiamò in città e fece portare via tutte le sue pecore, non
poteva più prendersi cura di loro. Quindi si rese conto che presto se ne sarebbe andato e uno dei
suoi ultimi desideri era quello di passare una giornata sotto i suoi alberi. Si tirò su e camminò fuori
a passo lento, reggendosi su di un vecchio ramo. Si posò lentamente sul masso ad osservare a lungo.
Anche gli alberi erano invecchiati, almeno quanto il pastore; cominciavano a perdere tutte le foglie
e pareva che seccassero rapidamente. L’uomo all’inizio fu turbato nel vedere le sue piante in quello
stato, l’una dentro l’altra come una unica cosa e come se si facessero male a vicenda adesso. Ad un
tratto la sua espressione cambiò e si rese conto di non essere più solo in quel momento, i suoi cari lo
stavano accompagnando. Sorrise, sfiorò la corteccia con le mani e le poggiò una sopra l’altra sul
bastone. La mente fu sgombra da qualsiasi pensiero, non sentiva caldo o freddo; un vento leggero
accompagnava silenziosamente il sole al tramonto. E il pastore vide per la prima volta calare il sole
davanti ai suoi occhi. Su quella pietra e non dietro alle sue spalle come quando tornava a casa, per
far rientrare le pecore prima di sera. Vide l’ombra degli alberi scomparire insieme alla luce ed
attaccarsi alla sera. Sorrise ancora una volta, quell’ombra non sarebbe più tornata e gli alberi
stavano morendo. Sorrise e si rese conto che era finito, cercò di ricordare il più possibile così come
dicono, tutta la vita davanti agli occhi. Quella sera venuta a regalargli l’ultimo ricordo. L’immagine
di sé e di quello che era stato. I due alberi non morirono, continuarono a crescere uno dentro l’altro:
uno con l’altro erano riusciti a sopravvivere. In quel posto non arrivò più nessun altro a sedersi sulla
pietra, nessuno poté rinfrescarsi più di quell’ombra e compiacersi della loro compagnia. Nessuno ha
mai visto due alberi crescere uno dentro l’altro, nessuno conosce quel luogo eppure i due alberi di
ulivo sono esistiti e continuano a crescere insieme. A volte seccano a volte crescono più rigogliosi
di prima ma non muoiono mai. Ognuno è parte dell’altro e cresce più forte se l’altra parte si
indebolisce perché si compensino. Ma poi il sogno finisce come questa storia.
Nadia Lattanzi
Sogno di un’adulta…
L’ultima volta che ho acceso un sogno ero una bambina..innamorata di non mi ricordo neanche più
chi..il complesso di Edipo uno straniero per me, ma Elettra io me la ricordo bene. Scombinata da
sempre, forse il sogno di adesso sarebbe poter ritrovare i pezzi di un puzzle mai finito. Forse il
sogno sarebbe quello di una bambina che ancora cerca la mamma. Desaparecidos, scomparsa, non
pervenuta, assente ingiustificata o in altre faccende affaccendata. Il sogno è questo…sapere che una
figlia va bene lo stesso chiunque ella sia, per qualsiasi ragione ella sia.
Alessia Cutrufo
Sogno di una notte senza luna
Mi ritrovai senza sapere come, in una radura nel bosco, vicino a quei castagni che avevano celato i
miei desideri, i miei sogni e le mie paure. Danzavo, accompagnata dalle note del vento tra le foglie
degli alberi, il mio abito intessuto con raggi di una luna ormai spenta brillava illuminando le fronde,
che si muovevano seguendo il mio corpo. La mia pelle appariva e scompariva nella notte, sfiorata
dagli occhi di un osservatore nascosto. Li vidi, si incrociarono con i miei e una scintilla lucente
sembrò vibrare nell’aria. Il buio celò quel momento, quel contatto energetico che sembrava unire i
nostri corpi senza farli toccare. Evanescente la sua figura si muoveva intorno a me, cambiava volto,
si scomponeva e ricomponeva per confondere la mia mente. Tutto intorno girava, mutando di colpo
da oscurità a luce e da luce a tenebra… Le ombre intorno al fuoco erano prese dal vortice di
scintille e sembravano fare da cornice a quel noi che si stava componendo lontano. Ci sfioravamo la
pelle nella danza intorno alle fiamme che divampavano alte, rischiarando una notte senza luna.
La radura si tinse dei colori del tramonto, il rosso e l’oro si fusero per dare vita al miracolo della
vita, che nella magia ogni notte si ricompone, donando a me la gioia dell’incontro e a te, che
lontano sogni di me, la sensazione di non esserci mai divisi…
Angelo Francesco Anfuso
Ti ho sognato in un sogno
Avevo camminato tutto il giorno,
irrequieto, senza pace, senza meta,
solo con una cognizione di causa:
quella di rivederti.
Ero stanco, non avevo forza,
le mie gambe tremavano dal dolore
zoppicavo, mi trascinavo a stento
come un mendicante.
Il cielo era cupo, privo di luce,
mancava qualcosa in quel luogo: anche l’odore della zagara
era svanito, la sua profumata essenza
fu celata da un aroma triste e senza sapore.
Mi addormentai nei pressi del grande ulivo,
in quel meraviglioso luogo in
cui anni or sono,
il tuo sorriso mi sfiorò il cuore.
Mi afferrò un docile abbraccio,
ed un tenero pianto mi sussultò all’orecchio come
il miagolio di un cucciolo felino.
Iniziai a sognare!
Ti ho sognato, ti ho sognato mentre sognavo.
Ti ho visto: eri seduto d’innanzi a me
con il capo poco chino e dal volto infermo.
Silenzioso, nessun verbo,
solo un tremulo respiro ad occhi serrati,
forzati da preziose lacrime,
rare perle alla mia misera vista.
Dinnanzi alla tua sofferenza il
mio cuore si rattristava,
e mi chiedevo il perché di tanta tristezza,
del tuo sofferente gemito.
Riflettevo sulla nostra vita,
su tutto quello che abbiamo condiviso e
cercavo di comprendere
come un dannato,
dove mai sono venuto mancare al
tuo ausilio.
Come potrei mai riavere quel sorriso che Tu mi donasti,
quella tua tenerezza immensa, quel Tuo Amore,
unico in ogni suo genere, in ogni sua forma.
Ho condiviso tutto con te,
ho gustato le tue amare lacrime. Adesso
mi sento un fallito, un misero
privo di forza e di coraggio.
Io, mi abbandono nei tuoi occhi
tristi, umidi, e…
Adesso non più, non più lacrime: adesso basta!
Ti stringo tra le mie braccia.
Confida sempre, affinché il mio cuore sarà
la culla della tua anima,
e il mio calore sarà balsamo per le tue ferite.
Nel tremante pianto del sonno
mi svegliai di colpo.
Mi sentii soffocato da una presenza:
ho aperto gli occhi, ed eri tu che
mi abbracciavi.
Il tuo volto era ancora umido di lacrime,
ma dalle tue labbra scorgeva quel sorriso unico,
quel sorriso che cambiò la nostra vita,
e che ora la cambiò di nuovo.
Si aprirono i tuoi occhi e
fissando gli occhi al cielo
ti sollevasti dalla mia miseria umana;
e come un angelo varcasti la soglia dell’eterna luce.
In un sogno sono nato, ed
in un sogno sono morto.
Il mio sorriso si rifletterà nel tuo,
ed il tuo nel mio.
Adesso, per sempre o forse
continuerò a sognare!
La parte oscura di noi
Tornando a noi, nei prossimi 7 giorni vi vedremo assorbiti da La parte oscura di noi, il nuovo
argomento scelto dagli autori del gruppo Il Mondo dello Scrittore. Il tema proposto non è
sicuramente fra i più semplici e tenderà a mettere in evidenza la parte del nostro animo che, forse,
vorremmo restasse più nascosta. Tuttavia, penso che anche nell’oscurità vi possa crescere una
bellezza non scontata, se non altro lo sarà di certo per ciò che riuscirete a tirare fuori dalla vostra
fantasia, dimostrandoci, ancora una volta, che la classe non è acqua. Ovviamente, è lecito supporre
che, essendo ormai vicino il periodo vacanziero, non saranno in molti coloro che avranno tempo e
voglia di cimentarsi in questa nuova avventura, ma confido nel fatto che esiste la possibilità di
collegarsi anche stando beatamente sdraiati su una spiaggia, magari in buonissima compagnia.
Quindi buon divertimento a tutti!
Monica Pasero
Anima Gemella
Vivere di sensazioni,
nutrirmi di te, dei tuoi pensieri,
dei tuoi battiti di cuore che danzano con i miei,
percepire i tuoi respiri lontani,
respirare il tuo vivere, immaginandolo mio.
Vivere d’essenze separate,
di sogni irraggiungibili,
di flebili speranze,
ma continuare a crederci .
Viaggiare con il cuore, oltre la ragione.
oltre tutto ciò che un senso non ha,
oltre l’umano, oltre i confini, dove solo lì
mi ricongiungerò a te, mia anima gemella…
La parte oscura di noi
Si cela nell’animo umano tra ragione e cuore, dove s’insinua la nostra parte oscura, quella parte di
noi non sempre accettata, spesso declassata, rinchiusa dietro le sbarre della nostra esistenza, dove a
volte è meglio soffrire che provare realmente a vivere.
Soffocata, trattenuta, imprigionata dentro la nostra coscienza la quale doma ogni nostra sensazione,
riportandoci al perbenismo dei nostri giorni, alle regole scritte, alla coerenza, alla legge del giusto,
ma nel nostro più profondo sotto la brace dei dubbi e delle incertezze, si cela lei che urla la sua
disperazione e libra verso l’alto il suo desiderio di evadere, uscir fuori, vivere anche lei la sua realtà,
urlando al mondo la sua natura.
La parte oscura di noi spaventa, terrorizza, perché il desiderio, la trasgressione che emana ci ricorda
che il cambiamento è in noi repentino e forte. Non bastano le nostre certezze, la nostra razionalità a
frenare ciò che in noi tumultuoso tenta la sua fuga, così come un vulcano in eruzione, la lava dei
nostri pensieri mai detti, ricopre tutto riversandosi sulla nostra vita, sulle nostre certezze, sul
vissuto, mettendo in discussione tutto ciò che fino a un istante prima dell’eruzione è stato il nostro
mondo.
La parte oscura di noi, anche se detta così può far paura, è la parte migliore, quella che ci vede
come individui unici, che ci dà la possibilità d’essere davvero ciò che siamo, senza inibizioni,
paure, inquietudini, solamente noi i stessi, unici nel nostro genere, liberi di farci emergere da sotto
le ceneri di una vita spesso non nostra. Se solo riuscissimo ad accettarla e amarla come la vera
essenza di noi forse non ci farebbe più così paura e sarebbe una via sicura in cui camminare verso il
nostro destino, perché in lei si cela il nostro vero io, la nostra indole, la nostra unicità. E’ lì che la
vera felicità sfocerà libera da ogni costrizione che la follia umana, nei suo schemi definiti, ci
impone.
Lettera ad un amico
Caro amico,
ricevo ora la tua lettera, che strano effetto mi fà a tenerla tra le mani, è tanto, forse troppo, che non
ne apro una. Su questo foglio bianco la mia mano trema, emozionata e confusa nel rispondere ai
tuoi pensieri cosi intimi e cosi condivisibili.
Tutto tace qui intorno a me, i mie figli dormono ancora e, immersa nel silenzio della mia cucina,
leggo con piacere le tue parole intrinseche di dolcezza e piene di verità, anche qui gli alberi stamani
oscillano e osservandoli fantastico che mi stiano salutando, sono anni che ci scrutiamo a vicenda
ogni giorno, mi conoscono bene ed io loro: innevati, fioriti, con le fronde al vento, verdeggianti
hanno trascorso gran parte del la loro esistenza, accanto a me. Le mie stagioni sono passate insieme
alle loro.
Senza alcun dubbio loro saprebbero rispondere alle mie mille domande che ogni giorno attanagliano
la mia mente, ai mille perché sulla mia e nostra esistenza, al perché io mi senta cosi diversa dalla
maggior parte delle persone, e anche se la mia vita è uguale a milioni di altre vite, nel ruolo in cui
ho scelto di moglie e madre, io sento qualcosa dentro di me, si qualcosa nel intimo mio più
profondo, che sta cercando di nascere. Ci sta provando con tutte le sue forze. La mia vita non vuole
fermarsi a questo, vuole avere uno scopo ben preciso, ognuno ha il suo in questa vita, ed il mio sta
spingendo impetuoso, dividendomi a metà tra realtà e fantasia, ma il sogno prevale sulle due, e
come ogni buona sognatrice spero che la gestazione sia a termine e che presto nasca quel bisogno di
esprimermi che tanto sto cercando, come un viaggiatore cerca la sua oasi nel deserto.
Ecco se loro parlassero amico mio, loro potrebbero dirmi che devo fare, per non sentire questo
senso d’inadeguatezza che mi tormenta, questa voglia di emergere, non essere solo un numero tra
tanti, ma avere anch’io accanto a te un posto nel mondo.
Il vento stamattina non soffia più la quiete regna, anche i grandi abeti riposano sereni godendosi un
caldo sole estivo, la calma che provano, calma anche i miei pensieri, vederli cosi imponenti nel
paesaggio eppure nello stesso tempo fragili e senza difese, arrendevoli al loro destino, mi da un
senso di pace. Il loro spirito vive col mio, hanno sentito le mie lacrime, le mie risate, le mie canzoni
stonate e anche le mie urla d’aiuto. Conoscono un parte di me che forse nessun’ altro sà, quella
parte che vorrebbe volare libera e posarsi magari proprio su quelle nuvole bianche, che amico mio
vedi anche tu dalla tua finestra, si quelle nuvole che attraversano il paese senza metà certa,
viaggiando per il puro piacere di farlo, un po’ come noi viaggiano con una penna in mano e gli
occhi chiusi, vagabondando lontano in cerca di un mondo tutto nostro. Si, amico mio in quel mondo
irreale, fantastico, quel mondo dove vivono i sognatori quello che come noi credono. Si, ci credono
sempre, e si rifugiano lì, nei meandri della loro mente per nascondersi da una realtà troppo brutta
per i loro animi sensibili tentando di riscriverla a modo loro.
Vedi amico mio
Si perché in questo mondo fatto solo di opportunismo e false verità, non c’è più il tempo per
sognare, il tempo per allungare una mano per sentirsi ancora fratelli come Il buon Dio milioni
migliaia di anni fa aveva scritto, in questo mondo quelli come noi vengono definiti folli, poveri
illusi, persone senza concretezza, perché sognare spaventa, si amico mio spaventa quelli, in cui
dalla vita cercano solo il lato materiale, la concretezza e il possedere, ma noi come ogni poeta o
scriba di questo secolo andiamo oltre, noialtri possediamo qualcosa d’immenso qualcosa di eterno e
che rimarrà con noi sempre, possediamo l’amore, la passione della comunicazione, quella vera
all’antica, quella scritta; si, le nostre sillabe unite pian piano costruiscono emozioni, castelli di
sensazioni provate solo da chi sa arrivare a noi, con sensibilità e comprensione.
Lasciati Trasportare dai tuoi sensi, da ciò che il tuo cuore dice, navigando con lui presto troverai la
strada e ti liberai di questo tormento, non ci capiranno mai, forse pochi lo faranno, ma quei pochi
conosceranno una realtà diversa dove la vita cambia forma, dove la vera essenza è trasmettere
amore.
Godi il tuo dono, urla la tua gioia a discapito di critiche e incomprensioni: Dio ti ha dato qualcosa
che solo gli eletti hanno, ti ha dato il dono della comunicazione e tramite le tue parole puoi donare
un infinita di sensazioni a chi saprà coglierle .
Oggi sono stranamente felice, forse sarà il sole che fa capolino dopo giorni di pioggia che in questa
mattinata di fine luglio ha riscaldato pure me.
Oppure sarà la tua inaspettata lettera e il piacere immenso che ho provato nel risponderti, sperando
che il mio pensiero arrivi fin dentro di te ti abbraccio.
Monica
Voglia di rinascita
Sentirsi inadeguata sia come donna sia come persona… ebbene io lo ero. La mia vita scorreva tra
casa, figli e problemi quotidiani, non avevo un mio posto. Le mie uniche occupazioni erano badare
ai miei due ragazzi o prenotare nuove viste specialistiche. Combattere con il centralino sperando
che quel maledetto numero diventasse libero, passare le giornate nelle sale d’aspetto della
neuropsichiatria in attesa che anche quella giornata finisse. In quegli anni, non so chi mi diede la
forza per fare ciò che ho fatto, ma credo che ogni madre l’avrebbe trovata nelle mie circostanze.
Tutto mi sembrava perduto e io, come madre fallita, non avendo avuto due figli sani, mi sentivo un
vero fallimento, mi sentivo inetta, non in grado di procreare un bambino sano, figuriamoci se
potevo avere stima di me stessa. Poi, un giorno, il mio lato oscuro, la parte che tanto ho represso, ha
bussato alla porta della ragione, anzi l’ha sfondata a calci ed è entrata prepotentemente nella mia
vita la mia “parte egoistica” che c’era in me, dopo 15 anni ha fatto la sua entrata in scena,
follemente, prepotentemente mi ha catturato e mi ha reso una donna libera. Il mio lato oscuro ha
detto: adesso basta. Ha urlato voglio vivere, voglio fare di me qualcosa d’importante, voglio
riprendere indietro un po’ di tempo per me stessa, voglio iniziare a curarmi e a sentirmi di nuovo
donna, voglio credere che a quasi 40 anni posso ancora sorridermi allo specchio; così, con forza, ho
ridato un senso ai miei giorni.
Andrea Borrelli
Animal watching
Che bello e bella la natura
Tanto diversa
Da farmi soffermare sempre
A guardare
Quanti animali
E così strani.
Mi fermo stupito a vedere
Allora quegli esserini
Che poi tanto piccoli non sono
Anzi di più
Anche di me sembrano ostentare grandezza.
Sul cavallo rombante
Sfrecciare e far scie nere sulla strada
A richiamar l’ attenzione
In versi fuggiaschi
A difesa delle loro paure.
Poi infine
Vederli con le lenti oscure sugli occhi
Quello di dietro
Saper addirittura bere a una bottiglia
Come noi in un sol colpo
Forse per la troppa arsura finirla.
Con la semplicità
Di un escremento fumante appena
Uscito da quel buco
Lanciarla in aria e cader sull’ asfalto.
Poi tornare di nuovo
Ai loro incomprensibili versi
Urla di gioia a far intendere
Molto dolore da nascondere.
Dentro vivo (da doppia personalità)
Chi conto?
Me, così siamo in tre
Io, l’altro e tu
Che non ti conosco Tu
Almeno il meglio
E al meno il peggio
Viceversa
Senza versi potrei
Esser vero di tre
Due, uno, zero.
Luce di lampioni (quella fioca, che lascia quasi oscura la strada)
Era steso sul letto ancora a pensare. Fu spaventato da un tristissimo rumore di aspirapolvere,
assordante e si alzò a malincuore. Si sentiva strano, quella cosa non che fosse tanto buona, e non
ricordava più ciò a cui stava pensando prima sul letto. E non gli tornava proprio in mente e pensava
di essere pazzo a torturarsi così. La sua paura era di non ricordarsi più niente. E più si sforzava di
ricordare e più dimenticava. Pensò di continuare a dormire ma la paura di non riuscirci e lo sforzo
perverso dei suoi pensieri, gli permisero un salto d’orgoglio e di avvicinarsi al frigorifero. Ebbe
come un sussulto, quasi per svenire, accorgendosi che il latte era finito e sarebbe dovuto uscire per
andare a comprarlo. Sembrava che le sue ossa fossero state ridotte in piccolissimi pezzi. In effetti
ieri sera, pensava, ho esagerato con quella roba: “Ne ho presa troppa, basta devo smettere, mai più,
mai più Zio”.
E continuava con le sue paranoie.
Si sarebbe dovuto vestire, ormai non ce la faceva più, la testa sembrava scoppiarli. Sarebbe
diventato un pezzettino infinitesimale di mondo, non erano il caos e il traffico a spaventarlo, ma
doversi confrontare e reagire alla gente. Combinarsi con le ombre sulla strada, e la sua, interagire e
proprio non ce la faceva. Era davvero troppo per la psicosi di quel freddo e inutile giorno. Non
pensava di poter risolvere il problema ma fu spaventato dall’idea di non trovare la forza per
scendere e di rimanere in casa a pensare. I suoi occhi continuavano a fissare il letto vuoto. Si rese
presto conto di quanta luce potessero fare le pupille dilatate nel buio e vinta la paura di non essere
pigro, quello fu l’ultimo pensiero prima di uscire di casa. Decise bene di farsi un bicchiere di
qualunque cosa avesse trovato in casa, così per darsi meglio coraggio. Cominciò allora a pensare di
essere fatto di nuovo e fu subito tranquillo. Arrivato in strada sembrava che levitasse da terra
direttamente verso il supermercato, continuava a ruotare la testa e sorridere. La compagnia in strada
lo divertiva, e l’aria sembrava andargli contro in cenno di sfida, arrossandogli le guance. Per un
attimo perse anche il senso dell’orientamento, e irrigidendo lo sguardo verso uno squarcio nel cielo
provocato da un lampo di luce dietro una nuvola viola, si fermò. L’immagine che aveva nella sua
testa era un tripudio di colori, affiancati ad emozioni ancora più dense e la mente associò tutto ad un
bellissimo quadro. Sorpreso vedeva la gente passare e non accorgersi di tanta bellezza e ne
rimaneva scioccato. Nel ventre della sua ragione allora cominciò a discutere con l’artista. Cominciò
a credere a quello che i suoi pensieri tentavano di alludere ma andò avanti. La felicità
dell’osservatore dietro quell’atmosfera fredda del raggio di sole aveva dato corposità a qualcosa di
impalpabile così come il pittore cerca sulla sua tela. Adesso non c’era più nessuna differenza. Nella
sua testa rimbombava la voce di una follia presto imminente se non avesse smesso, ora. Correva
lungo il marciapiede e dimenticò di essere uscito per ben altri motivi. Per recuperare il tempo
perduto decise di accelerare il passo spento ormai dalle troppe sigarette accese. La voce continuava
a perseguitarlo per le vie marmorizzate dai vari spot pubblicitari sparsi ovunque. Sentiva le urla
delle persone e i canti dei commercianti d’amore, così vedeva i proprietari dei negozi sulla strada,
poveri di clienti. E si sentiva come dentro a una grande commedia, dove il buffone impaurito cerca
di correre via dal palco, agitando frettolosamente le gambe sulla strada … ma prima un inchino
verso il pubblico e un cenno di resa con la consapevolezza di non essere stato capito. Considerava la
realtà attorno a sé tutta finta, e lui poco attore finitoci dentro per caso. Via d’uscita, l’entrata del
negozio, fuori il mondo come un teatro. I sorrisi melanconici lasciati alle spalle. E pensava a tutti
quelli che riversano i propri mali negli altrui per allontanarsi dalla propria tristezza. Nel finale
sembrava solo annuire al pubblico e dare il consenso alle sue risa. Le abitudini, era di quello che si
trattava. Non facevano per lui e lui era esattamente quello che stava facendo in questo momento.
Scendere di casa e andare a fare la spesa, riempire le buste di plastica e pagare la cassiera, per poi
tornare a casa e conservare lo scontrino nella lista spese. Allora stette al gioco di ciò che la sua
mente gli suggeriva. Divenne partecipe di un’ opera qualunque, ma solo come osservatore non
protagonista. Come se fosse semplice soffrire come facevano i protagonisti delle storie che
andavano in scena fra un bancone di frutta e dietro una cassa di pesce fresco. Non conosceva
nessuna di quelle persone, come faceva a sapere quali potessero essere i loro mali. Uscì dal negozio
e decise ancora di smettere di pensare e tornare di corsa a casa. Ma ricominciò a passo lento, così da
essere superato da tanta di quella gente che ormai aveva perso il conto. Allora decise di guardarli
tutti negli occhi, per capire e conoscere le loro sofferenze, dove c’erano. I loro comportamenti, lo
stile di vita o cosa provassero in quel momento alla fine interessava poco. Li guardava per guarire
se stesso e non se accorgeva. Il dolore come gran varietà la sera in televisione che blocca davanti
allo schermo milioni di persone. Era così che la gente normale guariva. Allora continuò a
camminare , percorrendo il bordo del marciapiede a curare la realtà come finzione. E proprio in quel
momento successe ancora. Stava rientrando ma la luce fioca dei lampioni lo colpì nuovamente
come poco prima. Ancora un attimo di piacere e ancora risa. In ogni modo era contento.
Gabriele Palumbo
Conversazione sepolta
“Ti arrabbi troppo facilmente” mi disse all’improvviso Ruby con tono d’accusa…io ero appoggiato
alla mia vecchia poltrona in pelle, erano le 8 del mattino e non avevo chiuso occhio, non mi andava
proprio di cominciare una conversazione, così mugugnai e socchiusi gli occhi…”perché non
rispondi Mark?! Forse perché sai che è vero quello che ti ho detto? Rispondimi ogni tanto!”…
Cominciai ad innervosirmi e decisi di risponderle per finire al più presto questa rottura: “hai
perfettamente ragione, mi arrabbio facilmente, e vuoi sapere perché? Perché in passato ho sempre
evitato di arrabbiarmi, ho sempre evitato di alzare la voce e di alzare le mani, ho sempre voluto
farmi i cazzi miei…e ora invece non riesco a sopportare neanche una ragazza fastidiosa come te…
vedi a che punto sono arrivato?!”…Ruby si tranquillizzò, sembrava compiaciuta da quella
situazione: “ti vado a prendere una birra” mi disse…”non mi va una birra!…Sono quasi tre
settimane che stiamo insieme e ancora non mi conosci!…Portamene due…”
Ombre rinchiuse
Ogni tanto mi capita, anche troppo spesso ormai…vedo, sento, qualcosa di oscuro uscirmi da
dentro…è sempre più grande, è sempre più forte, ogni volta che sta per uscire e lo ributto dentro nei
meandri bui del mio corpo, ogni volta che ritenta di balzare fuori, è sempre più difficile tenerlo a
bada…diventa sempre più forte ed io sempre più debole, mi fa paura, il pensiero che un giorno non
sarò più capace di richiudere la serratura, fragile e arrugginita, del mio lato oscuro…un lato pieno di
cattiveria, di frustrazione, di odio e di perversione…un lato magnifico…ma troppo pericoloso…
perché incompreso e imprevedibile…resta ancora lì immerso nell’oscurità da cui è nato, mentre il
lato buono ha la meglio, il lato gentile e comprensivo, paziente e onesto, sincero e educato…ma le
sbarre della prigione sono sempre più deboli…quindi non cercate di vedere cosa rinchiudono, non
sfidate la sorte provando a smuoverle, perché anche dove la luce è più forte c’è sempre una zona
d’ombra, e quest’ombra avvolgerà tutto…spero che ciò non accada mai, spero che la mia parte
oscura rimanga lì dov’è, costretta solo ad osservare, costretta solo a salire in superficie per prendere
un po’ d’aria…la mia parte oscura, la mia parte migliore…
Andrea Leonelli
Il mostro che ti vive dentro (tratto da “La Selezione Colpevole”)
Mi hai guardato con la stessa espressione
con cui avresti fissato un sacchetto della spazzatura altrui in un cassonetto.
Mi hai degnato dello stesso sguardo
schifato di chi vede un profilattico usato abbandonato per strada.
Mi hai buttato come un calzino sporco e bucato.
Ti disgusto?
Forse perché in me vedi i riflessi del tuo sporco interiore.
L’orrore che sai che hai dentro
ma che hai paura di guardare
anche solo per un attimo.
E’ il mostro che si annida dentro di te
ma è anche la tua parte antica
quella che ti permette di sopravvivere
alle battaglie
che devi combattere ogni giorno
Che ti permette di subire e restituire
i soprusi della vita quotidiana
Non aver schifo di me,
Comincia ad apprezzare il marcio
che hai dentro.
Perché ti hanno detto che è marcio
ma è anche la forza vitale, animale
la rabbia che ti fa distruggere l’ostacolo.
Non aver paura di me.
Sono il mostro che ti vive dentro.
Inutilmente crudele
Inutilmente crudele
Mostrare facce diverse
Istinto di conservazione
Vivo e non muoio
Adattandomi
Camaleontico
Sono l’ombra nell’ombra
Il dietro dello specchio
Esattamente alle tue spalle
Temimi perché colpirò
Non so nemmeno io quando
Prenderò per divertirmi
I tuoi sorrisi
E l’infangherò
Della mia meschina codardia
Farò di te una larva
E stritolandoti gioirò
Ridendo della tua annichilazione
La bestia nell’abisso (tratto da “La Selezione Colpevole”)
Sono sul fondo dell’abisso
vivo qua
dalle profondità
della mia casa
vedo voi
che v’affacciate
vedete in me
il vostro bruto interiore
lo cercate da me
per essere sicuri
che non sia dentro di voi
ma non sentite i morsi
che vi da
nell’anima?
Vedo da qua
i vostri pensieri neri
l’ipocrisia della convivenza civile
vi mangereste l’un l’altro.
Poi chiamate me Mostro
Ma io son la vittima
delle convenzioni che Voi
avete deciso e stabilito.
Io ho subito il vostro giudizio
sommario
la vostra giustizia
approssimativa
e son sopravvissuto
cosicché abbiate a vergognarvi
e a continuare a mentirvi
senza capire
Urlami lo schifo
Urlami lo schifo
Sputa i tuoi insulti
Vomita la rabbia
Non starò fermo
A guardarti
Colpire quel che di me
Hai già spezzato
Ogni giorno
Coprendomi d’altre cose
Sbiadendomi con doveri
Che ti sei imposta
Non voglio più
Vedere tutto che passa avanti
E io che resto li
Quanto ho dovuto chiedere
Che non mi offrivi
Che mi pesava chiedere
Che non volevo dirti
Che non confessavo
Per una passata illusione
Di un noi sbiadito
Non sei sta tu
Fare il cane
Che vuole la carezza
Per anni
Ma io
E mi son preso i pesi
Di inadeguatezze
E incapacità
E continuavo a cercarti
E a sorridere
Finché il sorriso
Non s’é fatto
Di plastica
Usa e getta
Come ciò che sentivo
Io
E stavo solo
Anche con voi
Ancora una volta
L’ultima
Ti offro le mie
Insincere scuse
E un altro sorriso
Amaro come fiele
Vuoi di me
Vuoi di me
The darkest side
Il mio buio
Il vuoto
Colmo di rabbia
Rancori e colpe
Mi hai accettato
In my darkest hour
In the worst moment
E mi hai abbracciato
Hai accolto con amore
Il mio ringhiare
Rabbioso
E le incongruenti
contraddizioni
Il mio essere tormento
Metti un mano
In this empty space
Feel my iced soul
Rabbrividisci
E pensa che può esser luce
Per te
Vita
Amore
Tanto sottrae
E tanto può dare
A te che lo vuoi.
Irma Panova Maino
La Tenebra
Quanto può un animo buono scendere nell’oscurità, senza rimanerne avvinto? Quanto può
immergersi nella melma, senza subire il peso del fango? E quanto a lungo resiste, restando fuori dal
proprio elemento naturale?
Vi sono momenti nella vita in cui l’Essere si ribella, in cui l’oppressione diviene tale, da costringere
un’anima pura a cedere alle tenebre, lasciando che prendano il sopravvento su tutto ciò che ci
circonda. Attimi in cui l’universo si capovolge e ciò che pareva lecito diviene aberrante e ciò che
rasentava l’assurdità, appare improvvisamente logico. Situazioni che vengono stravolte e
centrifugate in enormi frullatori, i quali spremono fuori anche gli ultimi residui di un’umanità
perduta. Ed è allora che si odono le grida dello scontro e il clangore delle armi; il sopravvivere non
è più un effimero ideale, ma una concreta realtà, peraltro traballante e incerta.
Come superare la notte, se non vi è altra alternativa che viverla fino in fondo? Come arrivare fino
all’alba, se le sinapsi non rimandano altro che impulsi rabbiosi?
Non vi è ripensamento né tempo per il rimorso. La perfidia e l’intolleranza ci spingono avanti e
avanti ancora, incuranti di quanto stiamo calpestando e di ciò che giace ai nostri piedi. I caduti e i
feriti non si contano, non hanno importanza alcuna e non servono nemmeno per riempire i vuoti, ciò
che conta è il momento, quell’istante che porta a volgere la palma del vincitore all’uno o all’altro,
l’istante in cui si decreta chi salirà sul più alto gradino del podio.
Dunque cosa resta? Se non il biancheggiare delle ossa che cospargono i campi di battaglia,
riportando solo l’odore della morte e i lamenti dei feriti? Il putridume delle viscere sparse e gli arti
spezzati, insieme ai sogni spazzati via, nel letargico disinteresse comune? Cosa, se non la certezza
che in guerra nessuno esce vincitore e nessuno può realmente cantare vittoria?
La libertà ha un prezzo e il fio si paga, anche con il sangue. Non esiste compromesso e non vi sono
patteggiamenti che possano durare nel tempo. Esiste solo la tenebra più cupa. L’oscurità che assorbe
ogni minima luce, beffandosi di qualsiasi tentativo di resa.
Or dunque cantiamo l’inno alla gloria dell’inferno mentre, con le armi in pugno, portiamo noi stessi
alla distruzione. Che senta il nemico il coro e l’assolo della voce del drago, mentre questi sputa
fiamme infernali e l’odore del zolfo appesta l’aria, togliendo il respiro. Che le orde si riversino nella
piana, lasciando dietro di sé solo tizzoni ardenti e la desolazione di un tempo annientato.
Nel passato resta racchiusa la chiave del futuro. E le cicatrici resteranno, come mute testimoni di
una tenebra annunciata.
Lame
È tramontato il sole
dietro le mie iridi chiuse
Nebbia e gelo
imperversano nel mio animo
lasciando che siano I pensieri
le lame che affondano
Lame…
Gli ultimi bagliori si riflettono
sull’acciaio
del carattere forgiato nel fuoco
Lascia che cali la notte
Lascia che sia il buio
ad ammantare le mie mani
Lascia che il sangue
diventi nero alla luna.
Nadia Milone
Io sono così
La maggior parte delle persone pensa che io sia una persona buona, tranquilla, generosa… Forse un
po’ lo sono, ma loro non sanno cos’ho dentro. Quasi nessuno sa cosa si prova quando ti assale
quell’inquietante senso di angoscia che ti blocca, il sentirsi inadatta a qualsiasi cosa, sempre fuori
posto, come un soprammobile ingombrante che non serve a nient’altro che catturare polvere. Cosa
significhi aprire il frigorifero a metà della notte solo perché non si riesce a dormire e ingoiare
qualsiasi cosa ci sia a portata di mano, illudendosi, poi, di stare meglio. Essere come una bambina
viziata davanti ad un barattolo di nutella, ingozzarmi e finirlo in dieci minuti, poi guardarmi allo
specchio e piangere, piangere finché non mi fanno male gli occhi, perché quella che vedo riflessa
non sono io, è solo un corpo senz’anima, ormai.
Non riesco ad accontentarmi di ciò che ho. Odio la mia vita, non mi piace, non mi soddisfa, allora
esploro il mondo fuori e scopro cose che mai mi sarei aspettata di trovare. Un clic ed entro nel web,
una connessione che mi salva la vita, un appiglio che non mi fa cadere nell’abisso. E lì ci sono i
miei amici, le mie soddisfazioni e tutto ciò che, per qualche ora, mi rende felice. divento un’altra
persona perché riesco ad esprimere me stessa, in qualche modo. E poi c’é quella persona, in
particolare, che mi sa comprendere più di quanto lo abbiano fatto tutti gli altri nel corso della mia
vita. Quell’angelo speciale che mi sa regalare attimi di spensieratezza, follia e felicità, che sa farmi
sentire bella, anche se non lo sono, che riesce a farmi sentire appagata anche senza montagne di
cioccolato davanti agli occhi e che da un semplice messaggio riesce a capire se io sia triste o felice,
davvero non so come faccia… E allora mi lascio andare, parlo, piango e sorrido da dietro al
monitor, sapendo che lui farà lo stesso, dall’altra parte.
Forse sarà sbagliato, non lo so… Forse mi dovrei sentire sporca e in colpa per questo, ma proprio
non ci riesco. No, non voglio, perché se per qualche ora riesco ad essere la donna che vorrei vedere
riflessa in quello specchio, allora vale la pena rischiare. ma poi il pc si spegne ed io ritorno
quell’essere insignificante e privo di importanza che fa da sfondo alla vita di tutti gli altri, ma
almeno il mio pensiero non è lì, soffocato dalla polvere delle mie giornate, ma è insieme a chi è
riuscito a farmi riemergere dal fondo.
Alessia Cutrufo
L’altra me
Quella strana sensazione di non percepire più il proprio corpo, di riuscire a venderlo semplicemente
perché non lo si riconosce più come proprio.
Inizia a capitare quando guardandoti allo specchio, mentre ti vesti, è come se guardassi una tua
amica farlo…. e ciò che pensi è solo…..io non sono così….
Si, forse è quello il momento in cui capisci che è arrivato il momento di arrendersi alla realtà.
Una prigione…ecco cosa diventa il corpo e l’unica cosa che ti interessa è creare degli sfregi su
quell’involucro…per dimostrare a te stessa che l’esterno non può più ferirti….
Dopotutto per quanto si impegnino possono ferire solo quella specie di scatola che mostri
all’esterno.
Vedi gli occhi degli altri posarsi su quel corpo, desideri solo che se lo prendano, che vogliano solo
lui e non ciò che c’è dentro.
E cerchi la loro mano, la loro voglia, perché in quel modo non devi mostrarti….
Mostri quella parte di te che loro desiderano…. li rendi felici, non ti chiedono altro e tu non potresti
nemmeno darglielo….o forse non vuoi darglielo…chissà. E mentre per un secondo ti giudichi per
ciò che hai fatto, comprendi che è stato solo un modo per dimostrare a te stessa che potevi farlo, che
quell’involucro poteva proteggerti, che donando (o vendendo) lui, tu eri salva.
Salva da quella te che esce quando qualcuno vuole entrare, quando qualcuno ti chiede come stai.
Perché non tacete? È un corpo che volete no? Tenete, prendetelo…. non è più mio e forse non lo è
mai stato….
Godete di quel corpo alla vostra mercé, mostrate le vostre debolezze, io non ne ho….o
almeno….quello che vedete e volete non ne ha.
Potete toccare la pelle, anche ferirla, ma le lacrime non usciranno perché ciò che vi do non sono io.
Questo è ciò che pensi quando ti fermi e davanti allo specchio vedi te stessa….
L’alternarsi di te e di lei…quel tuo non riconoscerti più, quel tuo cercarti in quei pochi occhi che
non si fermano, che cercano di scavare anche se spesso sei tu a bloccarli…
Realtà svelate
L’ostinato disperdersi delle molecole del mio corpo, nella speranza che un lieve alito di vento possa
portarlo lontano da quella prigione di diamante nella quale la mia anima si infligge torture con
catene dorate.
Su quel piccolo frammento di specchio, ultimo superstite dei miei sogni di ragazza, si riflette un
corpo non mio…. un viso segnato che è solo il residuo di una natura che si svelava.
Quel viso mai sfiorato da mani amiche, quel corpo concesso a cercatori di tesori intenti a scavare la
carne per portare via brevi istanti di piacere.
Alla ricerca di quegli avventurieri che non cercano altro che passione, uomini ai quali puoi
nascondere il tuo viso, che non lo conosceranno mai, che non lo cercheranno mai.
Uomini che possono ferire la carne di quel corpo ormai distante da me, ma che mai scalfiranno
quelle pareti di ghiaccio che celano il segreto.
Il calore della notte scalda quei brandelli di pelle rimasti illesi da giornate di sfrenata passione, e nel
calore della notte, su un letto disfatto, trovo la forza di liberarmi di quella maschera di donna per
tornare bambina tra le braccia di Morfeo...
Anna Cibotti
L’Io… Nascosto
C’è in me qualcosa di oscuro
che non trovo.
Lo cerco
nei ricordi sbiaditi
dei miei anni già consumati
Tra le pieghe
dei miei sentimenti feriti
Nel mio odio
per gli uomini ignoranti
Nella mia impazienza
Nella mia superbia
Ma trovo solo peccati
Resi leggeri
dalla mia trasparenza.
Lascio l’oscuro dov’è
Se c’è
Quieto
nel suo sonno di morte
Nel suo profondo buio
Io Amo la luce.
Angelo Francesco Anfuso
La parte più celata
(…) Avevo circa ventuno anni, quando quella grigia mattina, mi recavo come al solito
all’Università. Giorno grigio, avvolto dalla densa nebbia novembrina che avvolgeva come un
candido manto gli aranceti della vasta pianura, sfiorando a malapena le pendici dei Monti Iblei.
Ricordo il viaggio in pullman, l’odore della tappezzeria dei sedili, un po’ scomodi ma sempre
meglio di quei treni maleodoranti, dall’odore agre, e dai sedili in pelle che trasudavano aromi
sconcertanti.
Tra una musicassetta e un libro, finalmente arrivo in Facoltà e subito mi precipitai nell’aula dove mi
aspettava una meritevole lezione di Filosofia Medievale.
Beh! Che dire, non bastava il giorno grigio, anche la lezione sui trascendentali dell’Essere in
Tommaso d’Aquino.
“Oh, no! Iniziamo bene!” Pensai. “Ma proprio oggi, noooo!”
Non feci nemmeno in tempo di sistemarmi che mi sentii leggermente osservato da due matricole,
che con molto garbo mi puntarono gli occhi come se fossi un Trascendentale fatto carne.
In effetti, non avevano torto, visto che io nel mio modo di vestire ho sempre cercato di essere unico
nel mio genere, GLAMOUR per eccellenza e andare a passo con la moda e sinceramente parlando
non tutti all’epoca erano in grado di andare a passo con le tendenze: anzi, molto molto …
Dopo la lezione, come da rito, mi precipitai al bar della Facoltà, c’era freddo, e come al solito latte
caldo macchiato e biscotti.
Mi sedetti al solito tavolo, vicino la finestra che dava sul chiostro, si proprio chiostro perché la
Facoltà sorge all’interno di un ex Monastero: che bellezza!
Ero un po’ assopito dai miei appunti, in effetti mi ero destato dal sonno alle cinque del mattino, e mi
ritrovai davanti un ragazzo che mi fissava con meritevole devozione.
In quel momento non feci caso più di tanto a chi entrava o usciva dal bar, poi le mie palpebre si
cullavano tra una pagina e l’altra, tanta era la stanchezza che figuriamoci non avevo visto il ragazzo
che mi piantonava.
Mi sorrise e mi disse: “ciao, come stai?” ed io dissi a me stesso “ ma che vuole sto’ tipo”
E lui: “ci siamo conosciuti quando abbiamo fatto l’esame di Antropologia Filosofica, ricordi?”
In quel momento restai attonito, sorpreso dalla sua affermazione.
Cercai di ricordarmelo, ma sinceramente non mi ricordava nulla. “Boh!” esclamai.
Da buon galante lo invitai a sedersi e a consumare qualcosa, e lui accettò, senza farselo dire due
volte.
Iniziammo a parlare del più e del meno, in un certo senso mi piaceva il suo modo di parlare, molto
fine, raffinato, lui tra l’altro era di bell’aspetto, una statua di Fidia vagante
Mi lasciai trasportare dalla sua voce e dai suoi occhi, ovviamente con dovuto rispetto,
ma non so’ cosa mi sia successo, ad un certo punto iniziai a vagare con la mia mente verso luoghi e
parti del suo corpo a dir poco proibiti.
Ahimè, che fatidico desiderio è il mio!
Avrei fatto di tutto, per concedermi alle sue braccia, per avvolgermi a lui come il serpente
genesiaco.
Lo desideravo più di ogni altra cosa, in me si era innescata una voglia, una brama di lussuria così
ardente, che la fiamma ossidrica dell’accendino a confronto era un misero raggio di luce.
Mi sarei venduto l’anima al diavolo, tanto era quel nobile piacere che mi aveva fatto scaturire, dalla
parte più intima, tanto oscura ma preziosa della mia persona.
Ad un certo punto, la mia trascendenza svanì nel nulla, interrotta da uno sconosciuto che troncò
quell’elevazione paradisiaca per una misera sigaretta.
“Ma vaffanculo, vedi questo stronzo” dissi in cuor mio, “non poteva andare da un altro?”
Finita l’estasi, il mio desiderato sconosciuto si alzò dalla sedia, dicendomi che doveva andare in
bagno e poi nel chiesto per fumarsi una sigaretta.
Gli diedi solo il tempo materiale di varcare la porta del bar che subito mi precipitai come un segugio
sulle sue orme.
Arrivai nel chiostro, era lì, non c’era nessuno.
Stava fumando, disteso sul prato, come se fosse casa sua, ed io con molta indifferenza mi avvicinai.
Ero troppo preso dal desiderio, avevo troppa voglia, mi sdraiai e mi abbandonai a lui.
“Afferrami” gli gridavo all’orecchio, con voce prepotente e tremante, magari per la paura di essere
scoperti.
Mi sentivo Ganimede tra gli artigli di Zeus, pronto a gustare il prezioso nettare divino.
Furono attimi infiniti, ma effimeri nello stesso tempo.
Restammo ancora un po’ distesi sull’erba come se non fosse successo nulla.
Dopo aver toccato l’apice del piacere, uscii e mi recai in bagno.
Mi specchiavo, ma non mi riconoscevo in quel riflesso, “che meschino che sono” dissi ad altra
voce.
Solo dopo che uscii dalla Facoltà, ritornai veramente in me stesso, cercando di celare quella parte
oscura (anche se mi sentivo felicemente soddisfatto).
Però! (…)
Nadia Lattanzi
Marta
Le mollò un ceffone che la fece cadere dalla sedia. E con un rumore secco si alzò dalla sua..la prese
per i capelli,la schiaffeggiò ripetutamente e cominciò ad inveire con parolacce e minacce <<Devi
stare zitta! Sono io che comando qui! Io sono più forte e tu farai solo quello che dico io..>> le urlò
così forte nelle orecchie che lei deve essersi sentita i timpani andare in frantumi.
Di peso la sollevò e trascinandola in camera da letto,continuò ad urlare la sua rabbia.
Sapeva già come sarebbe andata a finire e decise che tapparsi le orecchie stavolta non sarebbe
bastato.. le urla l’avrebbero perseguitata ancora la notte e lei non riusciva più a distinguere gli
incubi dalla realtà.
Si alzò dal letto e si mise dietro la porta, sperando che il cattivo si accontentasse di aver interrotto la
cena.
Origliò, qualche minuto di silenzio e sobbalzò all’urlo di lui << Puttana!… non sei capace di fare la
cena vediamo se riesci a farmi godere!>> ormai s’era spinta oltre,stava spiando attraverso la porta
socchiusa.
Lui la prese per i capelli e sbottonandosi i pantaloni la costrinse ad aprire la bocca.. Incurante delle
lacrime di lei continuò a martellarle la gola. Quando ne ebbe abbastanza le strappò i pochi vestiti di
dosso ed entrò in lei come una furia continuando a dirle << sono io che comando.. tu sei mia.. sei
mia>>.
Fino che non diventò un flebile sussurro.
Poi finì.
Cadde nel sonno. Lei se lo scrollò di dosso,aveva finito le lacrime. Si diresse in bagno e si lavò di
dosso quello schifo..
Tania portò la sua Barby e la sua bambina fuori dalla casa delle bambole e disse loro << state
tranquilli tesori miei ,vi porto via da Ken..è cattivo proprio come il mio papà quando beve!>>
Marta guardò sua figlia dalla fessura della sua cameretta..la guardò mettere in scena la sua vita e si
disse che no,non dormiva Tania quando succedeva questo.
Andrea Mazzolini
Moon River
Non avevo neppure quattordici anni ma già avevo le idee molto chiare sul mio futuro, forse anche
troppo. Da grande sarei diventato un ingegnere. Il problema è che non sapevo bene cosa facesse un
ingegnere. Non conoscevo nessuno con quella qualifica. Nessuno in famiglia aveva mai fatto studi
universitari e tutta la parentela considerava uno dei miei cugini praticamente un genio perché si era
diplomato in ragioneria. Ma avevo sentito dire che fare l’ingegnere era un mestiere prestigioso e che
si guadagnava bene. Ecco il modo giusto per ricompensare i sacrifici dei miei genitori. Tanto la
matematica non mi creava nessuna difficoltà, anzi. Gli esercizi e i problemi che mi davano a scuola
mi sembravano terribilmente semplici, come fossero dei giochetti banali e insignificanti. Certo,
suonare mi piaceva molto di più della matematica ma non c’erano soldi per frequentare una scuola
di musica. Pazienza. Sarei diventato un ingegnere, un grande ingegnere e allora finalmente mi sarei
comprato un pianoforte. Passarono gli anni, anche troppo in fretta. Il liceo prima e la facoltà di
ingegneria poi, sempre più tempo sulle dispense da studiare e sempre meno tempo per la musica,
per leggere i miei amati libri e per gli amici. Una brillante laurea con lode e via a lavorare. E cosa
vorrai fare dopo che ti sei laureato e hai appena iniziato a lavorare? Mica vorrai riprendere in mano
le vecchie passioni, sarà pure arrivato il momento di diventare grandi, di sposarsi e avere dei figli?
E mica vorrai fare il semplice impiegato ora che sei laureato? Dovrai pure darti da fare, girare per il
mondo, farti una carriera. Ed io lì, sempre a fare quello che piaceva agli altri o quello che gli altri
pensavano mi dovesse piacere per forza. Mica potevo dire: fermi tutti, fermate il mondo, lo so,
bisogna guadagnarsi da vivere ma io non sono realizzato in questo modo. Volevo altro ma quello
che volevo era stato nascosto dietro felici apparenze. Conoscevo il mio lato oscuro ma facevo finta
che non esistesse.
Facevo finta di essere felice.
Ora l’ho capito, ho buttato via molti anni a fare quello che gli altri si aspettavano da me e non
quello che veramente desiderato.
Ed eccomi qui, molti anni dopo, un matrimonio alle spalle e un lavoro che non ha dato le
soddisfazioni sperate. Dovrei essere triste per tutto questo, tremendamente triste, e a volte lo sono.
Invece sono sostanzialmente sereno. Godo di buona salute, ho i miei figli e non è poco. Non ho
ancora un pianoforte per me, mi devo ancora comprare casa e alla mia età non riuscirò più a suonare
il volo del calabrone. Ma piano piano ho scoperto nuove passioni. Ballare, scrivere sciocche storie
d’amore, qualche sonetto, fare nuove amicizie, sognare. Che cosa sogno? Avete presente Colazione
da Tiffany, quando Holly suona la chitarra e canta Moon River sotto gli occhi stupiti dell’amico
Paul? Ecco, il dreammaker sono io. Se conoscete Holly ed è abbastanza folle, vi prego, dategli il
mio indirizzo.
Rossana Roxie Lozzio
Nemica carissima
Sei quanto di peggio potesse capitare e sei piombata nel momento più esaltante della mia vita, quasi
a ricordarmi che la perfezione non è di questa Terra. Ti sei presentata e oggi so che lo fai sempre,
sotto mentite spoglie, come amica… millantando di angeli, di sofferenza, di persone volate in cielo
e del vuoto incolmabile che avremmo potuto condividere. Così, come la passione per uno stesso
artista e per la sua umanità, tanto cara a te, per come ti mostravi.
E’ bastato un cambiamento, in quello che non era certo il tuo piano… sono bastate parole di stima
nei miei confronti e un’attenzione palesata verso di me per farti cambiare direzione. Hai gettato la
maschera, anche se hai fatto del tuo meglio per continuare ad indossarla e mi hai mostrato la tua
vera natura, la miseria del tuo immenso vuoto interiore.
Nascondi la natura che proviene dagli inferi, con parole di cui ti sai vestire, con sorrisi angelici che
dispensi a chi li vuole e soprattutto, con meravigliosi abiti e accessori di cui ti vesti per il piacere di
sbatterli in faccia a coloro che consideri NIENTE. Mentre il niente sei tu, cara nemica che colpisce
alle spalle… e non vale nemmeno la pena odiarti, perché TU non vali la pena!
C’è una parte di me che vorrebbe rovesciarti addosso il tuo stesso veleno e ricoprirtene, facendo in
modo di levarti quel sorriso dalle labbra giusto per il tempo di svelare chi sei a chi ancora ti crede…
c’è una parte di me che vorrebbe vederti soffrire e che amerebbe saperti relegata nell’angolo in cui
stai tentando da tempo di infilarmi ma riesco ancora a contenerla e mi limito ad attendere.
Aspetto che sia tu a rovinarti, con la cattiveria che ti alberga dentro e che, un giorno o l’altro, ti
tornerà indietro. E a ridere, per una volta, sarò io, cara nemica codarda… a ridere sarò la sola e la
parte oscura di me, che non conosci, godrà silente, mantenendo ogni epiteto in fondo alla gola e
permettendo alle corde della mia anima di fare una ola!
Elisabetta Bagli
Tortura
Nuda, umiliata,
martoriata,
supina sull’asfalto
del mio tunnel,
aspetto.
La sua oscurità mi avvolge,
voglio liberare
la mia esistenza
con pneumatici pietosi
oscillanti sul mio corpo,
macellare la mia carne,
polverizzare le mie ossa.
Speranza incompiuta.
Sei arrivato tu.
Suadente voce
non mi hai permesso
di andare.
Mi hai preso per mano,
portandomi dentro te
nel tunnel buio
della tua anima
costellata di stelle velate
che vuoi scoprire con me.
Pizzichi la mia fantasia
come le corde di quel violino
che non vibrano senza te.
I tuoi ritmi sono dolci e irruenti
come le tue parole,
leggeri aliti di vento sul mio collo,
come il tuo vegliare su di me
mentre annusi la mia essenza.
Mia lenta,
inesorabile tortura.
Il viaggio
L’avvicinarsi di agosto rende tutti un po’ più languidi e rilassati, chi è già partito per le vacanze, chi
ancora deve preparare i bagagli, ma in ogni caso l’aria festiva aleggia nell’aria, preparando gli
animi a lasciare i nidi e a spiccare il volo verso nuove avventure ed ecco il perché del tema di questi
7 giorni di follie. Contrariamente al solito, questo articolo inizia dal tema odierno e non da quello
precedente, proprio per sottolineare lo spirito con cui, spero, verrà affrontato questo argomento. Il
viaggio, inteso come percorso interiore, piuttosto che come destinazione vera e propria. Viaggiare
con la mente e con i pensieri, oppure materialmente, affrontando un’esperienza che poi sarà
piacevole condividere con il resto di noi. Viaggio come sogno e speranza, verso tutto ciò che
vorremmo realizzare e vedere concretizzarsi nel nostro quotidiano. Ma anche viaggio in un passato
che potremmo esserci lasciati finalmente alle spalle, salutandolo per un’ultima volta. Decideranno
le nostre meravigliose Penne, in quale modo esprimere la propria creatività che, come sempre,
regalerà, a chiunque approderà su questo blog, stralci di un’arte ancora perfettamente vitale e
prolifica.
Monica Pasero
Cercatori di Felicità
E poi ti accorgi che la vita ogni giorno ti mette davanti a delle scelte, dalle più banali alle più
importanti. Ogni mattino quando apri gli occhi, non sei più la donna che si è addormentata la sera
prima, ma con il sole rinasci, con nuovi pensieri, nuovi desideri e ogni giorno senti che qualcosa in
te sta cambiando. Tutto ciò ti spaventa e nel contempo ti piace, perché il cambiamento fa parte della
vita di ognuno di noi, ma credi sempre che a cambiare siano gli altri, perché loro hanno coraggio,
loro c’è la faranno ad emergere dal nulla.
Tu non sei cosi, tu non sei forte, a te non può accadere, ma poi ti accorgi che questa volta la vita ha
deciso per te, la tua crescita è imminente .”Questa volta tocca a te!” urla il destino . Questa volta sei
tu che ti stai trasformando.
Tu racchiusa nel tuo nel bozzolo, dove sei cresciuta protetta stando in disparte, non mettendoti mai
in gioco, difendendoti così dal mondo, chiudendo gli occhi all’amore, alle delusioni a tutto ciò che
in quei anni ti ha fatto soffrire così tanto da non voler più provare emozioni, non voler più aprire il
cuore, forse troppo disilluso per crederci ancora.
Ora però, quel bozzolo che ti piaccia o no si sta aprendo delicatamente come i tuoi pensieri, che
ogni giorno sono più nitidi, ogni giorno meno confusi e indicano il tuo sentiero, la strada che dovrai
seguire per ricercare la tua felicità.
Siamo tutti cercatori, alla ricerca di quella vita che tanto sogniamo, non tutti riusciremo a trovarla,
molti di noi si fermeranno per paura di cadere, altri perché non saranno in grado di affrontare la
sofferenza che le scelte impongono, altri ancora rinunceranno per il bene di qualcun altro.
Alcuni invece la troveranno, lottando contro il mondo intero, usciranno da loro bozzolo e
conquisteranno una parte dell’universo che Dio gli ha donato alla nascita.
Per farlo però, occorrerà saper volare, si volare con il cuore libero e limpido, aprire le ali, quelle ali
magiche che solo chi davvero ci crede, avrà il potere di usare.
Il bozzolo si schiuderà e l’anima farfalla che c’è in noi prenderà il volo. Il viaggio sarà lungo e
pieno d’ostacoli, ma in quel percorso comprenderai il perché tutto ciò sia accaduto e tra lacrime e
nuove emozioni planerai oltre i confini delle tue paure e solo lì, tra quegli spazi lontani, solo lì
troverai le risposte che ora disperatamente cerchi.
Siamo tutti cercatori, alla disperata ricerca della felicità del sogno, del desiderio, di una vita cullata
dalle emozioni più vere.
Buon Viaggio Cercatori.
Il viaggio
Con lo zaino carico di pensieri parto per il mio cammino, la strada è in salita, c’è nebbia sul pendio
dei miei sogni, fatico a risalire, sono stanca, sono caduta troppe volte, le mie ginocchia sono
doloranti e sbucciate da troppe delusioni, ma oggi sul pendio, la nebbia si dirada, una luce apre
nuovi orizzonti, il mio cammino riparte .
Vedo nuove frontiere oltre la valle della mia esistenza, energie sconfinate mi attendono, sogni
bramano il mio arrivo, le mie ginocchia non fanno più male, hanno riacquistato vigore, il cuore
palpita più forte, la vita rianima il mio istinto.
Ci sono! Il mio viaggio è in ascesa, il pendio sempre più vicino a breve sarò in cima, sento la vita
che mi cerca. Il desiderio di rinascita troppo forte spinge calpestando tutte le mie paure. Giungo in
vetta, da lì la valle della mia esistenza è più vicina. Il viaggio è ancora lungo, ma il sentiero più
arduo è superato, con nuovo vigore percorrerò passo dopo passo il mio viaggio, consapevole di aver
tracciato un percorso fino ad ora mai battuto, quello delle mie insicurezze.
Andrea Mazzolini
Euronight 234
Vita e sogni sono fogli di uno stesso libro: leggerli in ordine è vivere,
sfogliarli a caso è sognare.
Arthur Schopenhauer
Per un certo periodo di tempo mi è capitato di viaggiare molto tra Firenze e Roma per lavoro.
Andavo a Roma al mattino presto e tornavo a casa la sera. Salvo un paio di eccezioni ho sempre
utilizzato il treno. Sì, è vero, l’automobile ti svincola da rispettare orari precisi, ma per tutto il resto
ho sempre preferito fare quella tratta in treno, è molto più riposante. Ti metti a sedere e ti rilassi, al
mattino magari sfogli un quotidiano, alla sera leggi un libro, ascolti un po’ di musica con le cuffie,
guardi il paesaggio, fai due chiacchiere oppure semplicemente chiudi gli occhi e stai tranquillo.
Senza contare che arrivi diretto nel cuore di Roma (prima dell’invenzione dei navigatori satellitari
mi era successo di smarrirmi nel traffico chiassoso della città eterna). Esistono differenti tipologie di
treni che percorrono la linea Firenze-Roma. I più veloci sono i treni ad alta velocità, in genere sono
puntuali, le toilette funzionano, ma sono anche decisamente più cari e li devi prenotare. In ogni
modo io tornavo a Firenze sempre con un treno economico, un cosiddetto euronight, partenza Roma
Termini, destinazione Monaco di Baviera, un convoglio che parte dalla capitale in serata, viaggia
tutta la notte e arriva a destinazione all’alba del giorno dopo. Per questo motivo la maggior parte
delle carrozze è costituita da vagoni letto. Al centro del treno si trova un vagone ristorante e ci sono
infine un paio di carrozze normali, divise in scompartimenti da sei posti, situate una in testa e una in
coda al convoglio. Era mia abitudine prendere posto sempre nella carrozza di testa.
Dev’essere stato un giorno di giugno, quando il sole tramonta molto tardi e il crepuscolo sembra
interminabile. Il vagone era quasi vuoto, evidentemente non c’erano tanti tedeschi che tornavano a
Monaco in quella stagione. Molti italiani non sanno neppure che possono utilizzare questo
euronight per andare a Firenze o in altre stazioni. Mi ero sistemato in uno scompartimento vuoto,
nel posto centrale, con la schiena rivolta alla direzione di marcia del treno, ho sempre preferito
viaggiare all’indietro. Poco prima che la locomotiva si mettesse in movimento si affacciò una
giovane donna dall’aspetto bellissimo dicendo qualcosa in tedesco. Si sa, non capisco un’acca di
quella lingua e in quella circostanza, di fronte ad una donna tanto bella, mi pentii di non aver
frequentato almeno un paio di lezioni. Più delle sue parole comunque furono eloquenti i suoi gesti,
voleva sapere se quei posti erano occupati o se si poteva sedere. Risposi con un sorriso, indicando
che si poteva sistemare dove preferiva. La aiutai a collocare il pesante bagaglio negli appositi spazi
in alto sopra le teste, mi ringraziò gentilmente con un danke e con un sorriso e si mise a sedere
davanti a me, a sinistra, accanto al finestrino; a differenza mia lei era rivolta nella direzione di
marcia del treno: la cosa non mi dispiacque, così avrei di tanto in tanto potuto ammirarla. Si
chiamava Irene, l’avevo letto sul suo bagaglio. Il cognome era impronunciabile, abitava in una
qualche strasse a München. Mi chiesi come mai non avesse preso un posto nel vagone letto, una
così bella ragazza, viaggiare di notte tutta sola… Il nome Irene era un nome tedesco? Non ne avevo
idea, pensavo fosse comune solo in Italia o nei paesi ispanici. Come si chiamano le tedesche? Heidi,
Angela, Isolde, Karin: su due piedi non mi venivano in mente altri nomi. Ma sì, forse il nome Irene
era comune anche in Germania. E comunque il suo aspetto non aveva niente di teutonico. Sembrava
italiana, mediterranea. Iniziò ad armeggiare con il suo telefono cellulare, immagino a scrivere e
ricevere dei messaggi, ancor prima che il treno si decidesse a muoversi. Io invece non avevo
nessuno a cui scrivere un sms; ero molto stanco, la giornata lavorativa era stata pesante e mi assopii
con i primi movimenti della locomotiva.
Devo essermi svegliato dopo la stazione di Chiusi-Chianciano Terme, il paesaggio mi era così
familiare, le mie amate colline toscane, disegnate da Dio e plasmate dall’uomo, gli olivi, le viti, i
cipressi. Ho sempre pensato che non è certo un caso che il Rinascimento sia nato in questi luoghi.
Brunelleschi, Masaccio, Donatello, Leonardo da Vinci, Botticelli, Michelangelo, tutti loro non
avevano fatto altro con il loro genio e con le loro opere che rendere eterna la bellezza ispirata da
queste terre. Ma un’altra forma d’arte, ben più stupefacente di tutto il Rinascimento messo assieme
era davanti a me.
Irene, sei talmente bella che nemmeno Botticelli o Raffaello avrebbero potuto disegnarti così.
Osservo i tuoi lineamenti gentili mentre muovi leggermente le labbra canticchiando la musica che
ascolti nelle cuffie. I tuoi occhi che riflettono questi paesaggi, i tuoi capelli mossi dal vento del
finestrino, le forme perfette del tuo seno sotto la camicetta. Irene, fammelo dire, tu non sei
semplicemente una donna, tu sei un prodigio, un miracolo che canta, ti ascolto e rimango senza
fiato. Tu sei un sentiero segreto alla fine del quale si trova inaspettato il mare. Irene, tu sei queste
colline, sei l’aurora, sei l’universo svelato. Tu sei le nuvole che disegnano il cielo, le stelle che
guidano il mondo; tu sei l’oceano che culla la terra, la notte che addormenta il giorno. Irene, tu sei
la brezza fresca dell’alba, il sole rosso del tramonto; tu sei il profumo degli aranci, i colori riflessi di
un lago alpino. Irene, tu sei il volo elegante degli aironi, la danza giocosa dei delfini, la corsa libera
delle gazzelle; tu sei una distesa di girasoli, un prato di gerbere, un giardino di rose. Irene tu sei
gioia sublime, tu sei tutto per me.
Ti osservo Irene, ma perché hai smesso di cantare? Cosa ti rattrista? Irene, perché un rigo di pianto
solca il tuo viso? Irene, posso asciugare queste lacrime? Irene, cosa c’è che non va nella tua vita?
Irene, io non ho molto da offrirti ma ti darei tutto quello che sono. Irene perché non andiamo a
vivere insieme su queste colline di sole e di vento? Irene, Irene…
Il treno si fermò di colpo, per fortuna mi svegliai altrimenti sarei finito a Bologna, Verona o chi sa
dove. Eravamo in Santa Maria Novella. Era stato tutto un sogno. Irene dormiva. Mi stropicciai gli
occhi, presi la mia borsa per scendere. Mi voltai. Auf Wiedersehen Irene, addio mio sogno, le
sussurrai mandandole un ultimo bacio.
Elisabetta Bagli
Il tuo treno
Sono salita sul tuo treno.
Breve attimo percorso lungo il tuo stesso binario.
Ho viaggiato attraverso il denso bosco della mia anima
per cadere nella luce che ci ha inventati
cancellando i nostri confini.
Breve attimo della mia vita percorso insieme a te
esplorando la mia dimensione di donna,
immersa nella luce che, infallibilmente,
ci ha fuso, rivelandoci
in un mondo senza spazio, senza tempo,
alla continua ricerca delle sue vibrazioni.
Sono scesa dal tuo treno.
Fermata obbligatoria
del passaggio ricevuto.
La nostra luce, ora,
rende più netti quei confini.
La nostra luce, ora,
Illumina quel treno
che ci ha allontanati.
Gabriele Palumbo
In cerca di una meta
Zaino in spalla, pantaloni corti e scarpe da ginnastica, bastava questo, questo e un posto da vedere,
da vivere…avevo sempre sognato di trovarmi in un posto del genere…un sentiero di terra battuta
immerso nel verde, cielo in tempesta e l’oceano in lontananza…era l’estasi, il sublime, non esisteva
nessuna altro posto al mondo in cui sarei voluto essere, volevo rimanere lì per sempre…
camminavo, niente stanchezza, niente noia, camminavo e vivevo quel dono della natura al pieno…
poi un rumore…ero seduto, il treno era entrato in una galleria, nel vagone non c’era luce, poi
ricominciò a vedersi qualcosa, vagone pieno, io ero vicino al finestrino, di fronte a me una coppia di
anziani e alla mia sinistra due stranieri, forse tedeschi…per fortuna il viaggio era quasi finito,
cominciava a mancarmi l’aria e cominciavo a sentirmi sporco, la puzza insopportabile delle
fabbriche si faceva sentire, ero a casa…scesi dal treno e quel primo attimo di sollievo per aver
finalmente finito quel viaggio soffocante di 7 ore si fece subito da parte, lasciando il posto alla
tristezza per l’essere di nuovo a casa…che rottura di coglioni il viaggio, soprattutto se sai che ciò
che vedrai arrivato a destinazione saranno le solite cose di sempre…facce da culo e poi boh…altre
facce da culo…avevo visto molti posti, ma il luogo del sogno non ancora…speravo di poterlo
vedere un giorno, di affrontare un viaggio con la consapevolezza che stessi andando in paradiso,
forse un giorno, ma non ancora…
Nadia Milone
In viaggio con la fantasia
Vorrei tanto buttare due cose in valigia, solo il minimo indispensabile e partire… Solo io, prendere
un traghetto e attraversare questo immenso mare che ci divide. Oppure prendere un aereo… sì, un
aereo. E’ più veloce e impiegherei meno tempo.
Arrivare nella tua terra, dove il sole scalda e colora le giornate e il mare è talmente azzurro da
sembrare dipinto. Vorrei visitare quei luoghi così affascinanti e rilassarmi su una spiaggia da favola,
sdraiata sulla sabbia accanto a te. E non mi interesserebbe nulla, credimi, non cercherei nemmeno
un albergo, no… Una piccola, minuscola stanza mi basterebbe se tu fossi con me. Forse mi
piacerebbe addirittura dormire sotto le stelle. Ma tu sei così lontano, troppi chilometri ci separano…
Con la fantasia sto volando da te anzi, sono già lì e nella mia mente prende forma il più bel viaggio
della mia vita.
Quante cose potremmo fare insieme, quante notti passeremmo stretti l’uno all’altra per dar sfogo a
tutta quella passione che stiamo soffocando dentro.
Com’è strana la vita… Io nella tua terra ci sono stata, sai? E quella volta ho pianto tanto. E’ stata la
vacanza peggiore della mia vita e giurai a me stessa che mai più sarei tornata in quei luoghi che
credevo mi avrebbero ricordato per sempre cose spiacevoli e dolorose. Ma ora… ora è diverso.
Adesso non vorrei essere da nessun’altra parte e il non poterci venire mi fa impazzire!
Io continuo a sognare questo viaggio da favola, continuo a sperare di potermi immergere insieme a
te in quelle acque cristalline e poi chissà… magari, un giorno o l’altro, il mio sogno si avvererà.
A volte le persone sognano di viaggiare in paesi lontani e sconosciuti, terre esotiche con spettacolari
paesaggi e la cosa buffa è che molti di loro riescono pure ad andarci. Io, invece, nonostante stia
sognando un viaggio che la maggior parte della gente fa abitualmente, nemmeno in un luogo troppo
distante per la verità, probabilmente dovrò accontentarmi di sognare ad occhi aperti. Ma la speranza
è l’ultima a morire, si dice, e quindi io non voglio smettere di sperare.
Rossana Roxie Lozzio
L’ultimo viaggio, fermata intermedia… (Estratto da “Le ali di un angelo”)
Nessuno ti spiega cosa succederà, una volta superata la dimensione terrena… nessuno ti prepara,
sebbene ci provino le religioni, ad affrontare quel salto nella dimensione che separa la tua anima dal
corpo!
Giulia continuava a pensare che avrebbe dovuto vedere la luce e che, per quanto stesse provando a
raggiungerla, non le accadeva. Stava male… male perché ricordava di essersene andata dalla
dimensione terrena con un sorriso dipinto sulle labbra, dopo avergli parlato al telefono e adesso, lo
osservava da dove si trovava, seguendolo ovunque e sentendosi prigioniera di qualcosa che le
impediva di provare a confortarlo. Lo vedeva, assorbendo tutta la sua disperazione e la sua
solitudine e cercava inutilmente di trasmettergli quello che sentiva e quello che voleva per lui…
“devi smettere di pensare a me, devi lasciarmi andare!”, provava spesso a comunicargli dal luogo
sospeso nel quale gravitava dal giorno della sua morte.
Ma poteva considerare “morte” lo stato in cui versava da allora? Giulia sarebbe stata così felice di
attraversare quella luce che cercava con forza da quando aveva smesso di respirare e di vivere
all’interno del suo corpo… mentre invece doveva restare, impotente, ad assistere al dolore che
colmava il cuore dell’uomo che aveva amato con tutta se stessa e che avrebbe amato per l’eternità.
Se solo avesse potuto fargli sentire che il loro amore non sarebbe mai finito e che, continuare a
vivere intensamente, non sarebbe stato irrispettoso verso la sua memoria ma che, anzi, sarebbe stato
l’unico modo per permetterle di passare oltre!
Lo guardò, prepararsi per andare a provare per il concerto che aveva tanto atteso… quello che lo
avrebbe visto conquistare nuovamente la città in cui era nato e vissuto per oltre vent’anni e che gli
avrebbe restituito parte della sua identità. Alessio aveva un’espressione incerta dipinta sul volto
smagrito, niente di tutto ciò che l’aveva fatta innamorare dal primo momento si sarebbe potuto
riconoscere in lui, in quel momento… Giulia riprovò a concentrarsi per tentare di fargli sentire la
sua presenza e tutto il suo amore.
Se avesse potuto piangere ancora, lo avrebbe fatto, scorgendolo sfiorare quelle ali che gli aveva
regalato poco dopo il loro incontro sulla Terra e mettersele in spalla, per dirigersi fuori dalla stanza
che occupava in albergo.
Improvvisamente, si sentì trascinare verso un altro punto della piccola città lacustre e si accorse di
stare di fronte ad una villetta, nella quale scorse una giovane donna, intenta a conversare al telefono.
La osservò, rimanendo ad ascoltarla e si rese subito conto di quanto somigliasse a ciò che era stata
nel suo passaggio terreno… aveva lunghi capelli rossi, simili a quelli che aveva avuto, occhi
profondi e soprattutto, un atteggiamento che avrebbe indotto Alessio a sorridere dolcemente,
proprio come aveva fatto spesso con lei, durante la loro relazione sentimentale.
Forse, era arrivato il suggerimento che aveva lungamente atteso, concluse. Forse, essersi ritrovata lì,
in quel preciso istante, non era affatto una coincidenza… e per Giulia, stava arrivando il mezzo
fisico da utilizzare per consentire ad Alessio di staccarsi da lei quel tanto che le sarebbe bastato per
riuscire a vedere la luce e per oltrepassarla, come desiderava e doveva assolutamente fare.
Solo allora, avrebbe dato un senso a tutta la sua vita e avrebbe compreso che morire non era stato
ingiusto e inutile.
Viaggi con la mente
Viaggio per raggiungere un amico,
viaggio accompagnata da un’amica,
viaggio e incontro nuove persone,
chissà, potenzialmente, nuovi amici…
viaggio, poi arrivo a destinazione
e rifletto sul significato del termine, amicizia.
Eccomi, a viaggiare di nuovo
ma questa volta, con la mente…
raggiungo alte vette,
m’illumino di tutta la luce che vorrei,
ti sto pensando e ti vedo!
Ti vedo nel verde delle splendide montagne che ho di fronte,
ti vedo riflesso nelle lenti scure degli occhiali da sole che incontro,
ti vedo al mio fianco e mi rallegro… e per un attimo, persino, dimentico.
Dimentico la cattiveria gratuita,
dimentico che non mi sento a mio agio…
dimentico che sono attorniata da una folla ma mi sento sola
e ti ringrazio, per essere sempre nei miei pensieri,
perché so che finché sarò capace di evocarti
nei miei viaggi con la mente
anche durante il viaggio peggiore,
anche se intorno a me sarà più odio che amore,
troverò la forza per reagire e l’energia per sopravvivere.
Viaggio
Un viaggio che mi attrae da sempre
ma che so che non potrò mai fare…
per timidezza, per timore,
per rispetto e per pudore,
anche se avrei vette da raggiungere
e discese audaci da percorrere,
anche se sarebbe meraviglioso perdermi e
per ritrovarmi, avrei necessità di svegliarti.
E’ il viaggio in fondo ai tuoi occhi.
Angelo Francesco Anfuso
Viaggio con i miei sensi
Su questi possenti scogli
sono seduto a contemplarti,
tra le docili onde del mare
su cui si adagia la candida brezza.
Ti vedo, ti osservo, ti scruto.
Riflette sul tuo corpo il misero raggio crepuscolare,
sfiorandoti come morbida seta.
Trascorre il tempo, veloce come il vento.
Siamo soli, poco distanti,
la mia vista ti segue,
cerca di afferrarti.
Chiudo gli occhi abbandonandomi a te.
Inizio a viaggiare con la mia mente.
Voglio raggiungerti, farti mio.
Nessun uomo, nessuna creatura
potrà mai comprendere il mio faticoso viaggio.
Meta tanto desiderata o forse tanto ambita.
La bellezza del tuo corpo sarà il mio porto,
i tuoi occhi il mio faro e
il tuo corpo la mia àncora d’approdo.
Viaggio con la mente, ma non sono solo.
I sensi mi accompagnano, mi sorreggono,
sono il mio ausilio nascosto.
Mi avvicino sempre di più,
ti afferro: sarai mio!
Ancora un solo passo e sento la tua voce.
Il mio udito si intenerisce alla voce del tuo silenzio.
Docile note il tuo respiro,
sensuali sospiri di passione accesa.
Divampa il mio udito, sono solo sordo.
Sento solo il tuo respiro.
Mi stringo dolcemente
al tuo corpo statuario.
Forte e possente come statua ellenica,
perfetta in ogni sua parte.
In te rifulge l’umana bellezza.
In te risplende ogni forma.
Il mio corpo e le mie mani sfiorano il tuo calore,
lo plasmano secondo il mio desiderio.
Sarai mio, sarai la mia creatura.
Viaggio con le mi mani, con il mio corpo,
il mio toccarti è una fedele guida.
Ti modellerò come quando un vasaio
modella la suo opera,
o come il poeta modella i suoi versi
Mi avvicino sempre di più,
il viaggio è ancora lungo.
Ti afferro: sarai mio!
Scende la sera.
Non sarà l’oscura notte a sviare il mio viaggio.
Sento il tuo profumo
il mio odorato non smentisce.
L’odore del tuo corpo si confonde con quello del mare.
Mi sale dalle narici, si fonde nella mia mente.
Prezioso aroma è il tuo profumo,
inebriante per il mio senso e
appagante per il mio desiderio.
Ancora, ancora una volta
voglio sentirti.
Il profumo del tuo corpo mi ha reso folle
Mi avvicino sempre di più,
il viaggio è ancora lungo.
Ti afferro: sarai mio!
O dannata distanza.
I miei occhi sono stanchi,
le mie mani sono deboli,
il mio odorato inebriato.
Ti afferro con le mie labbra.
Gusto la tua presenza,
le mie labbra sfiorano la tua pelle,
si assaporiscono del tuo corpo.
Il tuo sapore soddisfa la mia fame,
disseta la mia arsura.
Ti faccio mio, sei parte di me.
Ti ho afferrato finalmente.
Sei mio!
Il viaggio è fatto.
Si è concluso, sono arrivato.
È notte.
Apro gli occhi e guardo verso gli scogli.
Solo un raggio di luna
riflette su di essi ed io
mi allontano con la mia barca.
Inizio a navigare.
Il viaggio deve ancora iniziare.
È tardi ormai!
La luna mi guiderà: sono certo!
Sono solo, in questo viaggio.
Nadia Lattanzi
Viaggio con me
Ho fatto il primo passo, sono entrata in me in punta di piedi. Mi sono cercata e ho guardato, con
occhi da turista, gli scalcinati monumenti eretti in onore di avi ormai scomparsi. Ho respirato
quell’aria di salotto buono con cui sono cresciuta sperando mi restasse nel naso come il profumo di
zucchero filato alle feste di paese. Ho attraversato lunghi corridoi ad ammirare quadri colorati e
coloriti di ricordi di bambina, fino a giungere davanti alla porta del caveau dove posso finalmente
trovare me!
Anna Cibotti
Viaggio virtuale
Vorresti partire o mente
verso mete lontane e sconosciute.
Esplorare e conoscere
il mondo ignoto
sulla cui barriera
rimbalzano
i tuoi gretti pensieri.
Ma resti lì
immobile nel tempo
e nello spazio angusto
dei soliti luoghi
Non avrai la gioia del ritorno
se non cominci il viaggio.
Come vorrei essere
Ci sono momenti nella vita in cui, benché soddisfatti di noi stessi, vorremmo poter, almeno per
qualche breve istante, essere qualcosa d’altro.
E questo nel migliore dei casi. Nel peggiore, ovviamente, vorremmo poter dare un’immagine di noi
totalmente diversa e non solo per quel che riguarda un fisico, che magari non ci soddisfa, ma anche
per poter presentare al mondo una personalità diversa, così agli antipodi dalla nostra, da non poter
essere credibile. Tuttavia, Come vorrei essere non è solo un modo per esternare un desiderio, più o
meno inconscio, di come vorremmo apparire, ma è anche un modo per poter esprimere una
speranza, dare sostanza e concretezza a un percorso interiore, il quale può realmente portare a un
cambiamento radicale. Dunque, per chi non lo avesse compreso, l’argomento che le nostre Penne
stanno affrontando è proprio Come vorrei essere.
Nadia Milone
Come vorrei essere
Fin da bambina, non mi sono mai piaciuta. Guardavo le altre bambine, le mie compagne di classe e
le paragonavo a me, sempre. E loro erano regolarmente più belle, più magre, più intelligenti, più…
più tutto, ecco! Queste idee mi hanno perseguitata nel corso della mia infanzia prima e della mia
adolescenza, poi. Fondamentalmente, credo di aver sempre avuto una forma di insicurezza piuttosto
accentuata, che mi ha portata a cercare di isolarmi dagli altri, a star sola. Io credo che, in realtà, mi
vergognassi a rapportarmi con gli altri perché mi vergognavo di me stessa. Non sono mai stata una
di quelle persone che si butta nella mischia, anzi, piuttosto direi una di quelle che si sotterrerebbe
pur di non essere notata. Non ho mai pensato di poter ottenere dalla vita ciò che sognavo, anzi, ho
sempre creduto che per essere felice mi sarebbe bastato accontentarmi di ciò che avevo. Purtroppo,
con il tempo, ho capito che non era così, ma ormai è troppo tardi per cambiare la mia vita. Però ogni
tanto mi fermo a pensare come sarebbe stata diversa la mia vita se io avessi provato anche soltanto
una volta a credere in me stessa, se avessi preteso per me ciò che volevo e non mi fossi
accontentata.
Io vorrei aver avuto più rispetto per me stessa, per il mio corpo e per la mia anima. Avrei voluto
essere una di quelle persone che si cura, che si pettina e che si trucca. Una di quelle donne che non
esce mai con un capello fuori posto e che si guarda allo specchio e sorride, ma soprattutto, avrei
tanto voluto essere una donna diversa interiormente. Avrei voluto innamorarmi di qualcuno, fare
pazzie per amore, ridere e piangere ma, soprattutto, essere in grado di donare tutta me stessa ad un
uomo prima di decidere di passarci insieme tutto il resto della mia vita. Invece, nemmeno questo
sono riuscita a fare. Credo di essermi sposata per paura di rimanere sola, oltre al fatto di voler venir
via da una casa in cui mi mancava l’aria. Non lo so, forse io non sono capace di amare e non merito
di essere amata.
Un anno fa ho creduto di essermi innamorata, nonostante mille difficoltà, ma è finita male.
D’altronde, essendo io sposata non avrebbe potuto andare diversamente e la colpa non è nemmeno
tutta sua. No, è mia, perché volevo e continuo a volere l’impossibile, l’irrealizzabile…
Se potessi esprimere un desiderio, se stanotte vedessi cadere una stella, io chiederei di poter tornare
indietro nel tempo, chiederei di incontrare un uomo del quale possa riuscire ad innamorarmi, forse
eviterei di sposarmi… non lo so, forse chiederei di essere una persona completamente diversa,
esteticamente e moralmente. In altre parole, se io dovessi riassumere ciò che ho scritto finora, vorrei
avere la possibilità di essere felice.
Da oggi sarò così
Stamattina mi sono alzata dal letto a fatica, reduce da una notte insonne, trascorsa a pensare a cosa
c’è che non va in me. Ho sempre cercato di essere una persona gentile, buona, per quanto questa
vita possa concederlo, disponibile… Ho sempre creduto che la gente apprezzasse queste mie
caratteristiche, invece mi accorgo, per l’ennesima volta, che non servono ad altro che a farmi
calpestare ulteriormente. La vita ti prende a calci e pugni in faccia, non ti risparmia umiliazioni e
più credi di fare il buono, più vieni travolto e schiacciato. Ma io credo sia ora di dire basta. basta
calci e schiaffi morali adesso, ne ho avuti abbastanza. ho cercato di uscire dal mio guscio, ma ho
fatto male, perché là fuori c’era un bastone pronto a colpirmi. Voglio tornare nella mia corazza, mi
ci chiuderò dentro e questa volta butterò via la chiave. Voglio diventare un po’ più fredda, cinica e
calcolatrice come lo sono gli altri. Non cattiva, non credo che ne sarei capace, ma devo riuscire a
tirare fuori quel pizzico di durezza che serve per non lasciarmi più ferire. E’ brutto a dirsi, ma le
persone se ne approfittano della bontà altrui e si divertono a vedermi strisciare. ma io non voglio più
essere il verme di turno, basta. Sono già stata trattata come uno zerbino e ho giurato a me stessa che
non avrei più permesso a nessuno di farmi sentire così.
Da oggi si cambia registro, lo devo a me stessa come persona e come donna. da oggi io non sarò più
quella che dice sempre sì, imparerò anche a dire no. In fondo, se gli altri lo dicono a me, per quale
motivo non posso farlo anch’io? Imparerò ad anteporre le mie esigenze a quelle degli altri,
credetemi, non è cattiveria, solo istinto di sopravvivenza in un mondo che mi vorrebbe vedere
sottoterra e, forse, ancora non basterebbe.
Stanotte è morto l’angelo che tutti vedevate in me, è lui che è stato sotterrato, è lui che si è arreso,
non io. Io oggi sono più forte e, forse, più stronza che mai. Mi scuso con chi non ha colpe, ma devo
prendere in mano la mia vita, è ora.
L’angelo è morto, non c’è più e non resusciterà. Per chi merita avrò rispetto, per chi non merita, la
porta del mio cuore rimarrà blindata. Io sono ancora qui, in bilico ma non a terra, chi mi vuole bene
davvero troverà sempre un’amica sincera in me, ma chi ha intenzione di approfittarsene, da oggi in
poi, farà bene a guardarsi le spalle.
Regina Re
Esserci
“Come vorrei essere” è ciò che non sei e ciò che non sei forse non lo sarai mai, perché tu sei proprio
ciò che non vuoi essere. Accetta ciò che sei e sarai proprio come vorresti essere.
Questa è la voce che risuona, le parole giuste, quelle che fanno bene perché il bene serve sempre.
Ma il bene non è mai per se stessi, è sempre per qualcun altro pertanto…perché amare se stessi se si
ama sempre di più qualcun altro?
“Come vorrei essere” è ciò che mi hanno detto che dovrei o ciò che vorrei veramente? Che cosa
voglio? Odio questo tipo di domande soprattutto quando sai che risponderai la cosa che ti farà
acquistare quei mille punti e un bonus con i tuoi che ci tengono tanto…
Ma dai… che ci guadagni?
Molto direi visto che me la sono sempre cavata così e so cosa sono, lo so bene e va bene, va bene
perché mi sta bene.
E poi c’è quel condizionale che non mi fa respirare, preferisco il presente che mi libera la mente.
Come vorrei essere è quella domanda così scontata e oggi si sconta tutto nella vita, anche se la tua
vita tu l’hai già pagata e qualcuno te l’ha già contata.
Dunque io voglio e, se voglio, voglio ora e non domani e neanche tra un anno.
Io voglio perché ci sono e, se ci sono, io sono.
Monica Pasero
Il mio specchio, lo sa
Mi guardo allo specchio, nel vecchio specchio appeso da vent’anni alla stessa parete, quanto tempo,
quante immagini ha riflesso. Rivedo ancora l’abito da sposa che si sfilava lentamente la prima notte
dei mie 19 anni. Rivedo il pancione che cresceva in me inconsapevolmente ora madre. Rivedo una
ragazza, ora non più tale, osservo quell’immagine ogni giorno, simile, ma mai la stessa.
Osservo i miei lineamenti, il mio corpo non perfetto, mi guardo, mi studio, mi giudico, mi arrabbio.
Fisso quel immagine che mi accompagna in questa vita, la guardo, non mi piace, la odio, la vorrei
cambiare, le urlo contro la mia rabbia.
Io imprigionata in un corpo mai voluto eccomi qui, arresa all’evidenza di non essere perfetta, ma in
fondo nell’imperfezione vivo e cresco.
Mi scruto, sbircio i mie occhi persi come sempre del resto, persi nel loro mondo, tra sogno e poca
realtà, indiscutibilmente strani per una quarantenne, ma sono i mie occhi di un blu profondo forse
un po’ troppo blu per un esistenza grigia…
Lo specchio mi conosce ha visto le mie lacrime, la mia rabbia, la voglia di romperlo di frantumare
quell’immagine, la mia immagine, ma non solo per la poca fisicità, ma per la poca fiducia che ho di
me stessa, la poca stima. Il bisogno disperato d’essere compresa quel bisogno di voler essere
diversa, di saper vivere di saper ancora volare, di provare si provare a vivere veramente non solo
sognare di farlo. Ecco, se il mio specchio potesse parlare, lui ve lo direbbe chi sono, lui lo sa.
Irma Panova Maino
Io sono
Nella penombra della luce azzurrina dello schermo, che proietta le sue immagini sul mio volto,
accendo l’ennesima sigaretta, ascoltando il solitario ticchettare delle unghie sulla tastiera. Le parole
volano, scorrono fluide sulle pagine virtuali, riempiendo righe su righe, senza dire alla fine nulla.
Mi soffermo. La brace occhieggia fra le ombre e mentre aspiro il fumo, che scende caldo nei
polmoni, penso alle storie che ho già scritto, ai personaggi a cui ho dato vita, ai drammi, le
commedie, le trame intricate e complesse… tutto continua a scorrere, consumandosi nella cenere di
questa sigaretta. E allora mi chiedo perché. Perché scrivo ancora? Perché cerco altre storie, altri
personaggi, altre location… ?
Perché sono colei che scrive. Sono colei che riempie
le pagine con parole e locuzioni e aggettivi e verbi, cercando le imperfezioni, i sinonimi, le
correzioni. Sono colei che ha scritto e scriverà ancora, continuando a bruciare la foglia sottile della
carta che avvolge il tabacco, ticchettando con le unghie sulla tastiera, senza smettere mai. Le mie
emozioni sono lì, nero su bianco, evidenti, pubbliche, condivise con chiunque legga. I miei pensieri
affiorano insieme a sentimenti, stati d’animo, rabbia, confusione, gioia, amore… non sono solo
parole. Esiste un significato dietro ogni singolo scritto, dietro ogni concetto espresso. Persino il
modo con cui vengono accostati i soggetti con gli aggettivi e la scelta delle preposizioni o degli
avverbi. Tutto ha uno scopo, tutto si trasforma in quel vettore che descrive me, che porta la mia
anima nei circuiti stampati del mio pc, intrappolandola fra resistenze e condensatori. Dunque non
semplici predicati verbali e coniugazioni. Ogni lettera, ogni virgola, ogni simbolo impresso
rappresenta qualcosa di me, un pezzo del mio essere, del mio modo di vivere, di esistere.
Ogni parola sono Io e ogni parola mi rende libera.
Io, la tempesta
Vorrei essere come te. Vorrei essere quell’ancora che, in mezzo a una tempesta, resta ferma e
immobile al suo posto, dando quelle certezze che la mia follia non può garantire.
Vorrei essere come te. Vorrei essere la montagna salda e immota nel tempo, colei che, con la propria
sagoma, rende riconoscibile il paesaggio, riportandomi verso quella casa che ancora mi manca.
Vorrei essere come te. Come quella cometa che indica la via, illuminando quel sentiero che avrei
altrimenti smarrito, ritrovandomi, nella selva oscura, a contendermi le ossa con le altre belve.
Ma non sono come te, sono la tempesta che spazza via i punti fermi e sono il vento che soffia
implacabile fra le valli montane. E ancora, sono la pioggia di meteoriti che punteggiano il suolo con
i loro crateri. Sono l’onda che cancella i “ti amo” dalla sabbia e demolisce i castelli innalzati in riva
al mare. Sono il tempo che scorre nello strozzo della clessidra, segnando lo scandire dei minuti,
delle ore, dei giorni…
Eppure, tuttavia, tu domi il vento e la tempesta. Tu argini l’onda e ripari la diga. Tu sei la stella che
brilla nel mio cielo notturno, ricoprendolo di lucciole e piccole lanterne magiche.
Sei la penna del destino, che scrive di nuovo ti amo sull’arenile.
Andrea Leonelli
Io, la fortezza
Vorrei essere come te. Vorrei essere quel cappello che vola via nel vento, libero di seguire le
correnti e andare chissà dove, senza preoccuparsi della destinazione, dando quella libertà che la
concretezza non può dare.
Vorrei essere come te. Vorrei essere il volo infinito del tempo che scorre inesorabile cambiando il
paesaggio attorno, portandomi sempre in posti nuovi e diversi, rendendo casa tutto il mondo.
Vorrei essere come te. Vorrei essere la luce che illumina tutto, rendendo visibili le gabbie delle
convinzioni in cui sarei rimasto imprigionato ad elemosinare attenzioni, ringraziando anche delle
botte.
Ma non sono come te. Sono il faro che indica il porto sicuro. Sono il rifugio in cui ripararsi e
riposarsi. Sono la monotona stabilità dell’ordinario e del quotidiano. Sono la pietra sui cui i ti amo
incisi restano. Sono l’abisso che mai si riempirà. Sono la pietra d’angolo su cui costruire fortezze
inespugnabili.
Eppure, tuttavia, tu colori il grigio e scompigli i miei pensieri ordinati, usandoli per farne
composizioni nuove e fantasiose. Insaporisci i miei piatti insipidi. Sei la lente che mostra cosa c’è
oltre le parole, e giochi con le lettere dando nuovi significati e profondità ai ti amo che scrivo
quotidianamente. Lasciando i segni tracciati e cambiando inchiostro e carta. Lasciando le anime e
cambiando i contesti.
Siamo l’equilibrio fra stabilità e follia
Gabriele Palumbo
Mostrami il mio essere
Forse vorrei essere come sono, forse vorrei essere come sono sempre stato, forse vorrei essere come
sarò…forse… è il “forse” che mi frega sempre… se non fosse per la mia insicurezza sarebbe tutto
più facile, se non pensassi al cosa potrebbe succedere dopo vivrei meglio, ma la mia insicurezza è
stata forgiata dal mio essere poco disposto a mostrarmi agli altri… dico spesso di essere bello, ma
perché allora cammino a testa bassa… dico spesso di essere forte, ma perché non riesco a guardare
le persone negli occhi… dico spesso di essere intelligente, ma perché faccio di tutto per
complicarmi le cose… vorrei solo avere la capacità di mostrare più facilmente come sono, vorrei
solo fidarmi più degli altri e di me stesso… gli altri amano il mio essere come sono, chi mi conosce
bene, i pochi fortunati, lodano il mio “io“… per gli altri sono perfetto così, ma forse non lo sono per
me… forse…
Andrea Mazzolini
Stealing Beauty
Vorrei essere un ladro, un ladro di parole, di sogni, di bellezza.
Rubare uno scorcio di cielo stellato, il fragore tremendo delle onde sugli scogli, il vento che pettina
le morbide cime degli alberi. Saccheggiare la quiete profonda di un giorno sahariano e carpire la
luce di un tramonto boreale. Spogliare l’aria odorosa di vite e d’olivo delle nostre colline, carpire la
segreta saggezza celata negli antichi libri. Scoprire i disegni e le danze delle rondini alla sera. Vorrei
sostare ai piedi dei tigli, ricamando poesia e disegnando canzoni. Frullare le parole e dar loro
un’anima e un corpo. Vorrei sfiorare i colori delle rose, i profumi degli orti e ascoltare le foglie che
cadono lievi.
Vorrei riscoprire la bellezza delle piccole cose, delle cose di ogni giorno. Un caffè, una risata, uno
scherzo, un abbraccio, un bacio. Tutta la bellezza che ci passa accanto e non sappiamo cogliere.
Vorrei capire quanto è fragile e forte la vita e quanto può essere bella e terribile una vita.
E quando avrò rubato tutto questo vorrei venire da te e accorgermi di nuovo che nei tuoi occhi c’è
molto, molto di più.
Andrea Borrelli
Un sasso nello stagno
Vorrei scrivere come essere
Ma non ci riesco
Meglio di me stesso?
Non proprio quello
Che ho pensato spesso
Forse più facile pensare
A chi assomigliare
Se non avessi fatto questo
Se mi fossi tirato indietro
Oppure buttato avanti
Ricordando l’ altra volta
L’ una e ancora molta
Voglia di cominciare
Come quella prima
Quando ho buttato un sasso
Nell’acqua e l’ ho vista
Volteggiare, io a contare
I cerchi che si formavano
Per poi sparire
Io quel sasso
E l’ acqua mio divenire.
Rossana Roxie Lozzio
Vorrei essere (come) lei
Vorrei essere la donna che ami…
vorrei essere come lei,
capace di rapire il tuo cuore
e di accendere i tuoi sensi.
Vorrei saperti calmare quando ti alteri,
vorrei essere in grado di farti sorridere
in quel modo maledettamente speciale!
Vorrei essere la donna che ti vive accanto
e quella che ti aspetta quando voli via…
vorrei essere lei ma non so come sia
ignoro cosa abbia potuto fare o dire
per catturare il tuo cuore
ma se solo avessi avuto la sua fortuna
so che non vorrei cambiare
e non starei a sprecare un solo minuto
domandandomi chi sono e chi vorrei essere
perché finirei per sottrarlo al nostro tempo insieme
e nulla sarebbe più importante, per me,
che continuare ad essere degna di te.
Angelo Francesco Anfuso
Vorrei essere come il Tuo Angelo
Vorrei essere come il tuo angelo.
Un angelo per poter vegliare su ogni tuo passo,
prenderti per mano e
stringerti al mio petto e
farti comprendere che non sei solo.
Vorrei essere come il tuo angelo,
per farti sentire la mia voce, ascoltare il tuo silenzio e
trasformare il tuo pianto in docili note.
Vorrei donarti quell’abbraccio che
ti hanno sempre negato,
o quel sorriso che ti è stato strappato,
o forse che non hai mai ricevuto.
Poter lenire le tue lacrime,
condividerle, asciugarle e
gustarle nel buio del tuo silenzio,
abbracciarti e sussurrarti dolcemente che
il tuo giogo non è pesante.
Caricarmi della tua agonia,
soffocante sorellastra
di questa amara vita,
rallegrarti con la mia presenza
e non dar spazio all’immeritata solitudine.
Vorrei essere come il tuo angelo, sollevarti
da questa misera vita e portarti
sulle mie ali e condividere l’amaro tormento
di una pena che assai ti affligge.
Vorrei essere come il tuo angelo
per dar luce ai tuoi ricordi oscuri,
infliggerti coraggio per affrontare la
tua lucente vita.
Vorrei rialzarti dalla caduta,
accarezzarti mentre dormi
sussurrarti con insistenza
che sei solo un uomo…
e dirti che ti Amo.
Vorrei essere il tuo angelo per
avere il coraggio di donarmi pienamente a te e
di non aver paura di dirti ciò che penso o di
ciò che provo.
Vorrei essere il tuo angelo per
cantarti le mie emozioni e
per sempre volare su quel’ limpido cielo in cui
tutto l’amor ormai risplende.
Nessun giudizio umano,
nessuna condanna o
disprezzo d’ignoranza fatta carne.
Ora!
Non più paura, non più miseria,
voglio essere come il tuo angelo per sentire
il tuo calore umano, il tuo profumo,
così come sono.
Forse…
Sono un uomo
non sono un angelo.
Sono un niente…
Un uomo
non è uomo se non ama.
Voglio essere come il tuo angelo…
Anna Cibotti
Vorrei essere…
Vorrei essere un albero
per vedere il mondo dall’alto.
Per tenere tra i rami nidi
e la vita che che contengono.
Per sentire gli uccelli
raccontare come tutto è cambiato.
Negli anni a venire
Nell’incerto futuro dell’uomo
e della natura che ha ignorato.
Vorrei fare ombra
a coloro che la cercano invano.
Vorrei che la mia linfa vitale
non mi facesse invecchiare mai
Per vedere e sapere.
Ancora
Prima che che il gesto di un folle
bruci le mie radici.
Prima che la pioggia non cessi di cadere.
Per quanto riguarda ora…..
Un granello di sabbia
non sarà mai
tutta la spiaggia.
Io sono quel granello
e resto tale.
La solitudine
Ed ora passiamo a quello che è il tema dei prossimi 7 giorni di follie: La solitudine. Premetto che,
nel momento stesso in cui è stata posta fra gli argomenti da votare, La solitudine ha ricevuto, fin da
subito, una certa preferenza, arrivando a ottenere un distacco di ben dieci voti rispetto al secondo
tema posto in lista. Nella maggior parte dei casi, che abbiamo avuto nelle settimane precedenti, si
era quasi sempre verificato un testa a testa fra due preferenze e arrivavamo a venerdì sera senza
avere ancora alcuna certezza sull’argomento che avrebbe prevalso. In questo caso, è risultato
abbastanza chiaro che le nostre Penne avevano molto da dire sulla solitudine. A parte la nostra
meravigliosa Roxie, la quale aveva minacciato, fin dalle prime battute, che se avesse vinto questo
tema, avrebbe inondato i nostri gruppi con la omonima canzone di Laura Pausini… ed è esattamente
quello che ha fatto! Ma a parte la giocosità del momento, il gruppo di Riflessi già abbonda di testi,
uno più bello dell’altro, ma tutti con una caratteristica comune: le persone si sentono sole. In un
modo o nell’altro, vi è un vuoto interiore che comunque spinge l’essere umano a trovare la
compagnia dei propri simili e a volte, pur di restare in tale situazione, i compromessi che si
raggiungono, sono davvero massacranti. Signore Penne, tanto di cappello al vostro coraggio e alla
vostra voglia di comunicare. La maestria con cui ci gratificate ogni settimana, rende il nostro lavoro
meraviglioso. Grazie!
Gabriele Palumbo
(As)solo
Ero immerso in un atmosfera surreale…la mia mano era fredda e stanca, faticava a reggere la
penna…l’unica luce era data da una lampada da tavolo alla mia destra che rifletteva la mia ombra
sul foglio: “perché cazzo mettono sempre le lampade a destra” mi domandai…alla radio davano una
vecchia canzone di David Bowie…ero solo nella stanza immerso in questa penombra, ero
particolarmente sereno: “forse mi stava salendo la febbre” pensai…ero solo nella stanza…io e
David Bowie…
Falsa compagnia
In discoteca solo corpi, coi telefoni solo parole, su internet non c’era niente…ormai la bellezza
dello stare insieme era secondaria, l’impegno per socializzare non esisteva più…era diventato tutto
superficiale, tutto una finzione, e alla gente andava bene, non comunicava più con tutti i sensi, gli
bastava la sicurezza del non essere soli, la sicurezza del sentirsi riconosciuti…tutto veniva fatto a
distanza…distanza fisica, distanza mentale…aveva perso la vera essenza della compagnia…non si
sentiva più sola senza sapere che poteva esserlo anche in mezzo a tanta gente…
Saper stare soli
Non uscii per qualche giorno…decisi di restare per un po’ lontano dagli amici, veri o presunti che
fossero…mi chiesero spesso il motivo della mia assenza, non sapevo cosa rispondere, non potevo di
certo dirgli il motivo che io a malapena sapevo…un po’ mi dispiaceva, sapevo che tenevano a me,
ma sapevo anche che non gli sarei mancato come sarebbero mancati loro a me se i ruoli fossero
invertiti…sarà stato per riposare gli occhi, per riposare lo spirito…ma l’unica cosa che riposavo
davvero era la mia schiena stesa sul letto…nient’altro…ma forse mi serviva stare un po’ tra me e
me…era sempre meglio essere soli piuttosto che sentirsi soli…
Solo con me
In piedi davanti alla finestra…il cielo era grigio, solo un raggio di luce riusciva a passare attraverso
le nuvole, un lago calmo e isolato in mezzo al verde, e dietro, montagne…tutto ciò ti faceva sentire
inutile, insignificante…in piedi davanti alla finestra…il mio umore era grigio, il suono del silenzio
sussurrava cose incomprensibili, cose che preferivo non capire…una rondine volò ad un passo da
me e scomparve, così elegante e libera, mi passò davanti in un attimo, così come passava il tempo
senza che me ne accorgessi…i giorni passavano lenti, gli anni passavano veloci…un brivido mi
attraversò il corpo e mi lasciò lì…ancora per una attimo…a sperare in qualcosa, a sperare di
rivedere quella rondine…sapevo che non sarebbe più tornata
Una giornata per pensare
Era una bella giornata, ne volevo approfittare…il cielo era così azzurro da sembrare dipinto, l’aria
fresca sulla pelle ti dava una sensazione di serenità…ma sarebbe durato ancora poco…era inverno e
il Sole stava già scomparendo dietro le montagne…decisi di salire più in alto come a voler ritardare
il più possibile il momento in cui sarebbe sparito del tutto…mentre camminavo mi guardavo
intorno…ciò che vedevo era così bello da non farmi sentire la fatica…la mia mente era altrove e
sapeva che ne sarebbe valsa la pena…arrivai al punto più alto, da lì la vista era stupenda…il mio
unico rammarico era che non potessi condividere ciò che guardavo con qualcun altro, qualcuno che
godesse di quel paesaggio rimanendo in silenzio a osservare e immaginare…arrivò il momento in
cui anche da lì il Sole cominciò a non vedersi più…la strada del ritorno era meno faticosa ma era
più difficile da percorrere perché pensavo a ciò che mi stavo lasciando dietro…volevo trarre il
meglio da quella giornata e sapevo di avere fatto il possibile…
Andrea Mazzolini
Anima sola
Sola vaga l’anima mia a brandelli,
posto lasciò l’Amor solo a macerie.
Vaga sola l’anima mia in rovina
e tutto è freddo e grigio e tutto è niente.
Stanca vaga l’anima mia inerte,
non crede più ai sogni, alle parole:
si spengano le stelle su nel cielo,
tanto i suoi versi resteranno muti.
Andrea Leonelli
Chimere col tuo volto
Dall’illusione trarrò la forza
per scavalcare i miei vaneggiamenti.
Tornerò ad appiattire
la mia esistenza
riportandola su di un piano
inclinato e instabile
e scommetterò
con me stesso
da quale parte cadrò.
Con soltanto
la mia follia come compagna
in steppe desolate e sconosciute
inseguirò nuove chimere
e chissà quante
avranno il tuo volto.
Quante si volteranno
beffarde a guardarmi
mentre cado sotto i colpi
delle mie stesse creazioni.
Abbandonato nel mio stesso deserto
soccomberò allo sconvolgimento
della mia personalità
cristallizzata e incrinata.
Crepe sul vetro
Pensieri s’inseguono
come crepe sul vetro
il cuore in briciole
come uno specchio caduto
riflette frammenti di noi
dalla mia memoria.
Involucro vuoto
Quante maschere devo indossare?
Una per ogni persona
una per ogni luogo.
E dietro tutte queste maschere
alla fine chi c'è?
O non esisto senza maschera?
Tolta l’ultima
di me cosa rimane?
Un involucro vuoto
con dentro un niente
sempre più grande
che cresce
maschera dopo maschera.
Nebbia accoglimi
Nebbia accoglimi
incarno la tua essenza
un sentimento sfumato
un rapporto non definito
un’esistenza pallida
un essere intangibile.
Nebbia accoglimi
e dimenticati di me
diveniamo tutt’uno
e scompariremo
come non ci fossimo
mai stati.
Rifratta in toni di verde
Si riflette in me
come sui vetri,
cocci di una bottiglia rotta,
questa luce
rifratta in toni di verde.
Qualsiasi sia la luce
tutto si trasforma
come la tua immagine
filtrata
nello spettro della solitudine.
Vestito di rovi
Vestito di rovi
sanguino in giro
lascio gocce di me
tracce
così saprete dove ritrovarmi
ma non cercatemi
non ci sono
non vi voglio intorno
a guardarmi dissanguare
sarò un sacco vuoto
vestito della mia pelle
mi maschererò da me stesso
ma solo per voi
non ho bisogno di me
sono altrove
a spellarmi l’anima.
Irma Panova Maino
La benedizione dell’essere soli
In verità, a parte tutte le considerazioni che si possono fare sulla solitudine, non è sempre un fattore
negativo restare da soli con sé stessi. Il più delle volte, passati i primi momenti di panico, si scopre
un nuovo modo di concepire gli spazi e soprattutto il tempo. Il solo fatto di potersi mettere le dita
nel naso o grattarsi una natica, senza il timore di essere beccati da qualcuno nel momento clou,
dovrebbe poter far riflettere. E che dire del fatto che il preparare una cena o un pranzo non
rappresenta più un’ossessione, ma un piacevole intermezzo fra una bella padellata di fatti propri e
una casseruola di affaracci miei?
Nessuno che attenta al tuo legittimo diritto al possesso del telecomando; nessuno che sbuffa per
l’ennesimo documentario sull’accoppiamento dei lemuri; nessuno che pretende di vedere tutti i
cataclismi naturali, che si sono abbattuti vicino a casa nell’ultimo millennio; nessuno che corre a
impossessarsi della tua comoda conca, formata così diligentemente nel cuscino del divano; nessuno
che pretende le “coccole” quando sei nel bel mezzo del tuo ciclo mestruale e l’unica cosa che
vorresti fare, è addentare con ferocia gli imbecilli che si sono inventati, nelle varie pubblicità, che le
donne “in quei giorni” debbano andarsene in giro vestite di bianco e debba venire loro la malsana
idea, proprio in quelle condizioni, di buttarsi giù da un aereo.
Per non parlare poi delle tracce di dentifricio nel lavandino o dell’asse perennemente sollevata o
ancora dell’asciugamano umidiccio… Tutto ciò che lascerete in un determinato stato, così lo
troverete, senza dover aprire ogni volta una caccia al tesoro, seguendo le indicazioni “enigmistiche”
del Bartezzaghi di turno.
Ah… finalmente soli! E come nelle più celebrate commedie americane, eccovi scorrazzare in modo
indecoroso per casa, con la musica a tutto volume, mentre tentate di produrre un accordo
smanettando furiosamente la Tonkita. Ebbene, se avete la fortuna di potervi godere una situazione
simile, nel momento stesso in cui varcate la soglia di casa e sentite solo un piacevole silenzio, non
fatevi prendere da qualche paranoia o da qualche pensiero straziante del tipo: “Oh me misera e me
tapina! Come sarebbe bello avere qualcuno ad accoglierti!”
Se questo “qualcuno” consistesse in una famiglia di dodici elementi, molti dei quali al di sotto dei
quindici anni, vi sentireste ancora così derelitte? Se invece del caldo abbraccio di un amante, pronto
a soddisfare qualunque vostro sogno erotico, vi accogliesse la pallonata in faccia del figlio discolo,
vi sentireste così sfortunate? E se invece delle confortevoli pantofoline, tanto agognate dopo aver
passato tutto il giorno in un paio di scarpe scomode, vi venisse incontro il “cucciolo” quadrupede di
casa, mentre ancora sta facendo a pezzi l’ultimo paio di De Fonseca, vi sentireste ancora così
disgraziate?
Ovviamente questa vuole essere una provocazione, tuttavia è bene considerare il lato positivo di
ogni situazione, quelli negativi sono sempre fin troppo evidenti e non sempre ciò che pare penoso,
lo è realmente.
La stanza
Eppure avrei dovuto essere sola.
Non avrei dovuto avere compagnie di alcun genere e la scommessa avrebbe dovuto pormi in questa
stanza, al buio, con me stessa come unica persona presente, resistendo nell’oscurità per 48 ore
filate.
Allora perché sento il respiro? Quel lieve ansimare che fa drizzare i peli sul collo e m’increspa la
pelle?
Ho chiamato, allungato le mani nel tentativo di afferrare quel qualcosa che ho sentito sempre alle
mie spalle. Ho cercato e supplicato, ma l’unica cosa che continuo ancora a percepire, è quel respiro
che non mi da tregua. E pare sollecitarmi a rispondere, a comprendere la sua esistenza. Tuttavia non
so come fare, non so come avere quel minimo di luce che mi permetterebbe di vedere, di dare una
forma a questa sorta di inquietudine. Non saprei nemmeno dire se mi spaventa o se semplicemente
mi preoccupa, ma vero è che non dovrebbe esserci. In un primo momento avevo pensato a uno
spiffero, un refolo d’aria che penetrava attraverso qualche spiraglio che non era stato sigillato a
dovere, ma non ho trovato nulla che potesse avvalorare la mia tesi. Sicuramente, non è una corrente.
Il mio istinto lo sa. Intuisce che qualcosa continua a muoversi alle mie spalle, respirando su di esse,
lasciando che le mie orecchie colgano quel rumore, così lieve, da essere a malapena percepito.
Il mio istinto mi ammonisce, m’intima di non voltarmi, di non cercare la fonte e l’origine del
respiro. In alcune culture, avvertire una presenza alle spalle, rappresenta la consistenza della Morte
che annuncia la tua ora ed essa diviene concreta nel momento in cui ti volgi per soddisfare la
curiosità.
Così come la moglie di Lot, che venne trasformata in una statua di sale, nel momento in cui volle
vedere che cosa stava capitando alla sua amata Sodoma, così avverto la necessità di non indagare
troppo a fondo.
Eppure questa cosa respira e respira ancora.
***
“Accidenti, ma come diavolo è morta? I produttori mi avevano assicurato che non c’era pericolo!”
L’uomo, responsabile di quell’insolito reality, si volse verso l’assistente, picchiettando con
decisione un dito sul monitor, il quale trasmetteva l’immagine di una stanza completamente
illuminata, che aveva ospitato la protagonista dello show fino alla sua improvvisa dipartita.
“Com’è morta? Che cazzo ne so! Ma ha smesso di respirare!”
Ritorno a casa (tratto da “Il peccato di Rennahel”)
Ren scrollò con decisione il trench di pelle, levandosi di dosso i fiocchi di neve che lo avevano
ricoperto. Gettò l’indumento sullo schienale del divano, con la stessa imperturbabile noncuranza
con cui si sbarazzava di qualsiasi cosa che ultimamente gli creava qualche fastidio. Da quando
anche Tellera era uscita dal suo universo triste e depresso, lui si era totalmente rinchiuso nel proprio
regno tetro ed aveva evitato qualsiasi contatto con i propri simili. D’altra parte non aveva nulla da
condividere con nessuno di loro. Non con quelli appartenenti alla sua stessa casta.
Cosa doveva esprimere? Il tumulto che gli scuoteva l’anima? Le emozioni che tracimavano
costantemente da ogni gesto, ogni parola?
Non era più in grado di controllarsi e nemmeno lo voleva.
E proprio a causa di questo, anche la rabbia era diventata evidente, l’ira con cui reagiva a qualsiasi
sollecitazione, a qualsiasi frase equivoca o gesto male interpretato. Persino quel paio di richiami che
aveva ricevuto da Sidel, alla fine lo avevano fatto sbottare, arrivando a minacciare apertamente il
Ministro, rivolgendogli delle frasi che un altro, al posto suo, non si sarebbe mai sognato di
pronunciare. Ed era un vero miracolo se nessuno aveva ancora pensato di prendere dei
provvedimenti nei suoi confronti.
Gettò il trench sopra la spalliera del divano e sorrise amaramente a se stesso.
Il nome degli Unviel ancora una volta lo proteggeva dal proprio carattere irascibile.
L’infinito potere della sua casata aveva ancora un peso notevole sulle menti contorte dei suoi simili.
Si diresse a passi decisi verso lo studio e proprio prima di varcare la soglia si bloccò
improvvisamente. Colse un odore anomalo nell’aria. Un sentore che troppo spesso aveva sognato di
avvertire entrando in casa.
Scosse la testa con decisione. Le sue illusioni gli giocavano scherzi crudeli. Giocavano con i suoi
sensi, creandogli delle speranze inutili.
Fece un altro passo in avanti e si bloccò di nuovo.
Eppure questo era reale. Troppo reale.
Si guardò intorno, cercando di capire se ci fosse qualcosa fuori posto, qualcosa che potesse
segnalare un’intrusione. Ed il fatto che non vide nulla lo fece imprecare fra i denti. Doveva
smetterla.
Non poteva continuare in quel modo, si stava facendo del male e torturare in questo modo l’anima
rendeva ancora più cupo l’umore. Il Monitor…
Si volse di scatto verso il monitor. Era acceso. Impossibile.
Benché il computer fosse rimasto attivo, doveva già essere entrato in modalità stand-by da un pezzo
ed il fatto che adesso il monitor proiettasse delle immagini, poteva solo voler dire che il mouse era
stato mosso di recente.
Scrollò il capo ed inspirò scacciando la propria stupida speranza. Tuttavia i suoi piedi lo portarono
in un’altra direzione. Istintivamente si mosse verso il corridoio dove aveva posto le proprie stanze.
Da quando Tellera era uscita dalla sua vita, aveva trasferito tutti i propri effetti nella zona che aveva
ospitato Siria, cercando in questo modo di mantenere l’illusione di lei. Almeno di notte, quando
spegneva la luce e si ritirava sotto le coperte, le quali erano state usate in precedenza da lei, poteva
cercare d’immaginarla vicino a sé, da qualche parte in quel grande letto. La sua vampira…
Sorrise a quell’idea assurda. La sua vampira. Già, la sua vampira!
Il possesso con cui ripensò alla frase gli diede la giusta idea di quello che provava.
Arrivò davanti alla porta del salottino e sbirciò oltre, cercando di vedere uno scorcio della camera
da letto. L’odore di lei aleggiava nell’aria, fresco come la neve che aveva lasciato fuori dalla porta
di casa. Intenso come lo ricordava. Lei era lì.
Non era possibile altrimenti. Non poteva cogliere un effluvio così carico se non fosse stato lasciato
di recente. Forse era già andata via.
Ren rimase fermo sulla soglia del salotto per un tempo che parve interminabile. La sua speranza era
quella di trovarla nuovamente su quel letto, come la prima notte che l’aveva vista distesa sotto le
lenzuola candide. E l’idea di disilludere quella speranza lo rendeva indeciso, gli straziava l’anima.
Entrare e scoprire che aveva nuovamente sognato, era quasi peggio che rimanere là fermo,
proiettando la mente verso un’ipotesi dolorosa, ma meravigliosa allo stesso tempo.
Alla fine si decise.
Varcò la soglia e si diresse verso la camera.
Sola
Sola
nel silenzio della mia anima sconfitta
nel candore della distesa artica
in cui il mio cuore alberga
Sola
nel caotico rumoreggiare
di un mondo che non ascolta
e arranca stanco verso mete lontane
Sola
rapita da fantasmi costruiti su misura
pronti a rodere gli armadi
come i tarli della mente
Sola
negli anni che passano
portandosi via speranze e sogni
racchiusi nei bite di un ultimo invio.
Rossana Roxie Lozzio
Dopo ogni incontro
Non c’è momento in cui mi senta più sola di quello che segue al termine di un nostro incontro.
Accade raramente che tu esca dai miei numerosissimi sogni ad occhi aperti e ti materializzi,
manifestando di esistere e quando succede, non c’è persona o situazione che mi possano distogliere
dalla meraviglia di esserti di fronte, di respirare la tua stessa aria e di godere da vicino di quel
sorriso che incanta.
Niente di peggio e ormai lo so, potrebbe accadermi, del vuoto che s’impadronisce di me quando
devo lasciarti e tu ritorni ad essere il protagonista prediletto dei miei sogni. Mi allontano, ascolto il
rumore che ho intorno, le voci degli amici o degli sconosciuti che ridono e gioiscono di quanto è
appena accaduto ma dentro, è la solitudine assoluta, quella che devasta e che mi accompagnerà per
giorni e giorni ancora e tutto diviene silenzio, assordante, impregnato di te e della tua prepotente
avvenenza.
So che ti ho dato appuntamento ad una prossima volta, solo che ignoro quando e dove sarà, perché
non dipende da me ma dal destino e quel destino è spesso poco magnanimo nei miei confronti.
Rimango avvolta dal gelo dell’attesa e dai ricordi che da buoni si trasformano in crudeli e mi
faranno stare male… è un rito che conosco e al quale non sono in grado di rinunciare, nonostante
tutto.
Non c’è solitudine più grande e più affettuosa di quella che m’investe, occupando il tuo posto,
nell’attimo preciso in cui le luci si spengono, ti guardo allontanarti e prendo atto, mentre torni ad
essere quell’ombra che cammina al mio fianco, di dover ricominciare ad aspettarti.
L’abbraccio della solitudine
Mi sono sempre sentita sola… da bambina, capitava a scuola, in cortile, nel mezzo di un gioco di
gruppo, come fossi circondata da una campana di vetro che m’isolava dal resto del mondo.
E’ così, credo di essere sempre stata sola, la migliore amica e la peggior nemica di me stessa… una
bambina riservata, prima e poi, una donna complicata, preda delle sue stesse paure e colma del
desiderio di sentirsi amata.
Ho capito da poco che ognuno ha il suo destino e che il mio, che ti aspetto da sempre anche se so
che non arriverai mai, è di rimanere sola… perché è così, durante questa lunga attesa, cominciata
con il mio arrivo su questa Terra, ho preso atto che si nasce soli e che si muore soli. Prima ci
arrendiamo a questo dato di fatto e meglio sarà per noi, che c’illudiamo di trovare amici per sempre
e li perdiamo durante il cammino e che sprechiamo energia – e giorni e mesi e anni di questo dono
prezioso che è la vita – innamorandoci di qualcuno che, prima o poi, è solo questione di tempo, ci
costringerà a domandarci se non sarebbe stato meglio rimanere da soli!
Mi sento sola, anche in mezzo ad una folla, in cerca di sguardi e di parole, di abbracci sinceri e di
spazi da riempire, là dove resta il vuoto incolmabile rappresentato dalla tua assenza.
Impotente, non contro questa solitudine che mi abbraccia, che non voglio combattere e mi fa più
sorridere che soffrire… ma contro coloro che non intendono comprendere che è la mia più dolce
compagna di vita, lei che si è accaparrata il tuo posto e che resta al mio fianco, silenziosa e
assordante, per ricordarmi che non devo e che non voglio accontentarmi di nient’altro.
Solitudine
Solitudine
è l’assoluta certezza… non ci sei.
E’ la desolazione
di mille pomeriggi spesi a pensare.
Il desiderio
di sentire attorno il suono
di una voce familiare.
La cieca, disperata ricerca
di una madre che non potrà più tornare
e ancora, è odiarsi
nell’istante in cui cedo il passo al pianto,
l’assurdo ripetersi
“non ne vale la pena, tanto…”.
Già, solitudine
è qualcosa che non dovrai mai provare…
è tutto ciò che non ti potrei augurare.
Solitudine
è guardarsi attorno e poi
capire che non ci sarai MAI.
Vestita della tua assenza
Vestita della tua assenza, sono sola
ma senza questo abito che indosso
da quando ho posato gli occhi su di te
sarei definitivamente persa
Marina Isceri
La solitudine
Mai temuta
ma cercata e voluta disperatamente
come fosse la mia unica ispirazione,
candida e leggera come una piuma
compagna di pensieri visibili
attraverso specchi senza riflessi.
Mi accarezza, coi suoi confortevoli silenzi
dai quali attendo di essere travolta
per poi perdermi intensamente
attraverso la voce della mia anima.
Follemente amo divenire sua prigioniera
distaccarmi dal mondo
spegnere per pochi attimi
l’universo che mi circonda
e accendere i riflettori
su ciò che amo svelare in silenzio,
tra le sue braccia.
Nadia Lattanzi
Me… E poi Io
Sono sola da sei mesi, la mia storia d’amore è finita. Una situazione come tante, una storia come
milioni al mondo. Mi sono sentita sola, ho tremato davanti a me senza niente intorno. Ho pianto
dentro e fuori me. Mi sono sentita infinitamente sola anche perché non “guidata” ne “aiutata” dalla
famiglia. Ora sono io..non più me. Ora sono io ancora sola, ma più forte. Determinata a non
perdermi più..e se dovesse accadere di nuovo, posso dire che la solitudine non mi farà più paura.
Cristiana Verazzo
Niente
Ed è proprio quando mi volto attorno,
dopo che ho combattuto le mie odierne battaglie,
dopo aver messo a posto chi di dovere,
dopo aver lottato coi denti per ottenere quello che mi spetta,
che mi accorgo di aver lasciato tutto indietro.
Con me non c’è nessuno. Ed è così che mi ritrovo sola
Viky Hachiko Lancione
Riflessione sulla solitudine
Spiegare in poche parole l’immenso mondo che ho dentro, il vortice che dimora nel mio petto e
tutto in me.
La solitudine è forse uno dei mali peggiori del nostro tempo.
Un male attanagliante che si attacca addosso come un cancro.
Essere circondati da un’immensità di gente e sentirsi più soli che mai.
La solitudine non è solo stare soli fisicamente ma anche e soprattutto sentirsi soli nell’anima.
Quante volte stando insieme a persone che amiamo ci sentiamo invasi da quel senso di vuoto, di
occlusione?
La solitudine è anche non essere capiti, vivere in una realtà in cui nessuno riesce o prova a capire
come ti senti, quali sono le tue emozioni, i tuoi sentimenti, i tuoi perché.
E tu sprofondi…
Sprofondi…
Angelo Francesco Anfuso
Sento la voce della mia solitudine
Un tenero profumo di pioggia
inonda la mia abitazione.
Soave fragranza per le mie narici.
La pioggia è cessata, e il tempo
del risveglio è iniziato.
Mi affaccio dalla bifora della stanza accanto,
un debole cinguettio di rondinelle si ode nella piccola vallata,
ed io, volgo il mio sguardo al cielo e sento la tua voce.
Il vecchio ulivo ormai bagnato dimora sempre al suo posto,
con le sue meravigliose fronde
che sovrastano sovrane su quanti in
lui hanno trovato riparo.
Vedo, su nel cielo
un arco colorato, che da oriente
si eleva come una Turris Eburnea al cielo.
Lo stesso profumo, la stessa torre,
lo stesso riparo, lo stesso ulivo,
di quel meraviglioso giorno, ma
tu non ci sei nemmeno oggi.
Lacrime sono mio pane giorno e notte,
mi chiedo : “dove sei? O mio amore e mio tutto”
Trascorre il tempo,
l’arco svanisce e la natura inizia ad intonare
il suo canto notturno: scende la sera e
tace il creato.
Mi assale la nostalgia,
mi chino il capo tra le mie braccia
e spero che tu possa ritornare.
Quante volte ho pianto e Tu
ero lì, pronto a tergermi le amare lacrime,
o quante volte ho gridato al cielo
perché mi ascoltasse,
e tu ero lì a sentire la mia inconfondibile voce.
Mi nutrivo della tua parola,
assaporavo il tuo verbo, il tuo
respiro per me era nutrimento e
il tuo calore mi dava vita,
Tu eri la mia forza, la mia
unica forza, la mia unica ragione,
il mio unico baluardo.
Adesso, imploro il cielo
affinché ascolti la mia orazione
o forse il mio lamento,
e spero che questo sia solo
un brutto sogno.
Voglio cantare
al calar di questo giorno,
la mia crudele sorte.
Sono solo! Sento ancora la tua voce
infelice,
ormai la mia vita ha
cessato il suo percorso.
Abbracciami ancora una volta,
non lasciarmi ancora nella pazza
solitudine di questo mondo assai crudele,
e non permettere al destino
di farmi preda di questa atroce vita.
Tendimi la mano dall’alto,
dove oramai Tu risiedi.
Ascoltami ancora una volta,
da te voglio volare.
Doppiamente crudele
è stata per me la vita.
Mi ha ucciso strappandoti
alle mie braccia e ora continua
il suo demoniaco gioco, trovando gusto
a farmi sentire solo.
Che vita è la mia senza di te,
ora in questo giorno in cui tempi
or sono, sotto le fronde di quel benedetto ulivo
io ti amai, e in te mi abbandonai.
Mio Dio, prendimi!
Ricongiungimi al mio amato.
Io sento il suo pianto,
mi è vicino sempre.
Andrea Borelli
Sfiorati
Come ti sei vestita sera?
Col bianco hai cercato di
ingannare il giorno e l’ hai
seguito tutta la notte.
L’ hai perso.
Ma di buon grado sei
riuscita a regalargli il sole.
Sei tornata di nuovo
mi hai detto quanto ti
è mancato ancora.
Quel secondo ancora.
Dove siete riusciti a toccarvi.
Baciarvi.
Lasciarvi.
Ancora.
Sera torni e vai via,
al giorno non devi nulla di più.
Sola
La montagna dei nevai si sente scivolare lentamente,
d’estate si sono sciolti al sole e l’hanno abbandonata.
Creda ancora di essere bianca la sua cima più alta.
I prati negli inverni più freddi dei fiori
sono stati sradicati e lavati, perché il ghiaccio
potesse loro gelare meglio il cuore e dividerli.
Gli alberi dei rami in autunno sono stati spogliati
e lasciati da soli a sperare che qualche altra foglia,
non cada e possa ancora fargli compagnia.
La primavera siede stanca, non sente male alcuno
nessuna delle bellezze che l’accompagna
e di questo più degli altri sente la mancanza.
Elisabetta Bagli
Soli
Soli.
Ti guardo,
ti chiedo,
ti osservo.
I miei occhi sorpresi
assistono allo scuotersi deciso
del tuo capo.
Ho capito.
Avrei voluto stringerti a me,
alleviare il tuo dolore,
diventato mio.
Ridi nervoso, rassegnato.
Le tue labbra,
la tua voce,
il tuo corpo
rifiutano ciò che hai.
Il tuo cuore?
Lo sai, ma hai paura,
lasci che sia il tempo
a decidere per te.
Un colpo sordo rompe
la mia anima.
Il tuo sorriso contrasta
con il velo dei tuoi occhi.
Ferito, hai virato la tua barca.
Smarrito, vuoi arginare il tuo mare.
Impotente spettatrice,
silenziosa amica
siedo al tuo fianco.
Respiro la tua solitudine.
Solitudine (estratto da “Voce”)
Lenzuola vuote, spente.
Sono sola.
Mi abbraccio,
mi desidero.
Giaci accanto a me.
Siamo soli.
Ricordi di vite,
di caldi abbracci irrimediabilmente sfumati.
Soli viviamo un presente
che ormai ci appartiene.
Anna Cibotti
Solitudine
Dolce compagna discreta
il tuo silenzio
è pieno di note struggenti
che sono parole e musica
insieme.
Amo la tua compagnia
perché ci sei
quando ti voglio
e te ne vai
al primo rumore.
Sei come l’amore.
Sei solo nella mente.
Ma c’è chi ti sente addosso
come una cappa grigia.
E’ l’uomo che lotta per la vita
contro l’ ingiusta malattia.
Non andare mai da lui
Resta con me.
Barbara Villa Mastropierro
Solitudine
Quando due occhi diventano vuoti.
Il viso spento. Il cuore freddo.
Le braccia non stringono. E le mani non accarezzano più.
Si sono persi i colori. Ed è sempre buio.
Ti guardo. Non ti vedo.
Ci sei. Sei sempre più distante.
Sono rimasta qui, per anni, in attesa di un tuo ritorno.
Non c’è stato. Quanta solitudine in quel silenzio. In quell’attesa.
Lacrime. Tante. Versate inutilmente.
Un addio che era già scritto. Si respirava nell’aria. Da sempre.
Maurizio Donte
Solitudine
Nel silenzio che cala la notte
quando solo resto tra i rami
nascosto, silente nell’intrico bosco
di tristi pensieri latenti…
Mia Luce che sola, risplendi là in alto
…e rischiari la sera mia buia,
di te che amavo ‘si tanto
vorrei parlare alla tiepida luna
che calma serena e senziente,
m’accoglie come tenera madre
…tra le sue braccia suadente,
mi bacia, m’accoglie e mi dice:
dimentica, dimentica sempre…
Monica Pasero
Solitudine
Solitudine che copri i miei giorni, accompagnandomi da sempre, da quando piccina cercavo un
abbraccio nel cuscino bagnato.
Solitudine che avvolgi ogni mio desiderio e lo racchiudi nelle tue prigioni, dove la felicità fugge
lontana e resta il sogno, la chimera, di un’esistenza non vissuta.
Solitudine amante di una vita, ombra del mio esistere, mi abbandono a te che dolcemente mi
avvolgi nel tuo malinconico navigare, tra i mie sogni e le mie emozioni, i mie bisogni reconditi
ormai disillusi dalla realtà.
Sola tra le risate di un casa in festa, tra le braccia di un uomo, sola in un mondo non mio, sola con
te, mio tormento e unica sicurezza.
Ombra sul mio sentiero, nuvola che oscura il sole, mura senza uscita.
Ecco io Monica, nata con un nome che significa appunto “solitudine”, destinata a sentirmene parte
integrante, fuggo da lei sempre, ma lei mi riporta nel suo mondo, così soffocata ricado giù, negli
abissi del mio silenzio e mi addormento sotto un nuova luna, agognando il giorno a venire.
Sperando che la luce della speranza torni sul mio sentiero, colorandolo di vita, spazzando per
sempre l’ombra, che da troppo tempo, vive in me.
Solitudine di un amore
Solitudine dei miei giorni
senza la sua ombra accanto alla mia
Solitudine
del mio corpo senza il suo
Solitudine
dei suoi battiti lontani dai miei
Solitudine
Dei suoi occhi troppo distanti, per veder ciò che si cela nel mio azzurro infinito
Solitudine
dei mie pensieri che urlano il suo nome
Solitudine
Della mia anima che disperata, eternamente lo cerca
Solitudine del mio sogno
che invano attende
Solitudine
Solitudine non significa essere soli, bensì sentirsi soli, che a mio parere è molto diverso. Ci si può
avere accanto un mare di gente, ma sentire ugualmente dentro di noi un vuoto incolmabile perché
manca quell’unica persona in grado di farci star bene. A volte si parla, si ride, si scherza con tutti, si
finge di star bene, ma sono inutili e sterili parole che porta via il vento. C’è sempre quel vuoto nello
stomaco, che si può colmare anche solo con un semplice ciao detto dalla persona giusta. Sembra
impossibile ma è così.
E la felicità di quei momenti, brevi istanti rubati alla vita, nascosti come ladri nell’ombra cercando
di annullare le nostre fragilità, svanisce in un attimo e ogni volta diventa più difficile accettare di
essere lontani, ogni volta mi rendo conto di quanto sia pesante la solitudine che sento. In quei
momenti penso a quanto sarebbe bello poter fermare il tempo e stare insieme per ridere, giocare e
sognare. La mia voragine interiore aumenta, perché in quel preciso istante mi rendo conto di essere
di nuovo sola. Sola con me stessa, a combattere i miei demoni e le mie battaglie perse in partenza, a
combattere contro una vita assurda e inutile, sapendo di non avere soluzione alcuna. Ma vado avanti
come sempre, questo è il mio destino…
Tuttavia credo che non sia sempre negativa la solitudine, perché permette di pensare, riflettere e
capire cosa abbiamo dentro. Purtroppo, a volte, è fin troppo facile lasciarsi convincere dalle
opinioni altrui, confondendo così persino il nostro stesso istinto. E invece, proprio in quei momenti
di solitudine, dopo aver assaporato felicità e serenità, incomincio a pensare e a farmi delle domande,
riesco a conoscere meglio me stessa. Ho capito di non essere quella fragile bambola di porcellana
che tutti vedevano in me, ho trovato il mio lato nascosto e l’ho portato alla luce.
Forse oggi sarò sola, probabilmente anche domani e dopodomani, ma ho capito che non importa,
perché se chiudo gli occhi trovo parole, sguardi e sorrisi a tenermi compagnia.
Ronni Corbari
Solitudine
Otto maledette ore passate a ribollire in fabbrica come un broccolo in pentola. L’automobile in tutto
e per tutto simile a un microonde e via sulla statale, direzione casa. Badate alle facce che incrociate
sulle strade, se non andate a duecento all’ora ovviamente. Gli occhi spenti e i nervi tirati. Facce da
buttare. Zombi o mummie, fate voi. Fronti sudate e lucide, rughe fonde come tagli. Il mondo sta
andando nella direzione opposta rispetto a quella giusta.
Arrivato a casa il solito rituale obbligato. Cibo e doccia. E poi più nulla. Computer in camera, ogni
tanto lo stereo con vecchi cd a ricordarmi gli anni passati. Non sono vecchio, lo so, ma qualche
anno è passato comunque da quando appena tornato dal lavoro, all’epoca non facevo i turni, volavo
letteralmente dagli amici, quando c’era ancora la “vecchia compagnia”. Pelle d’oca a ricordare certe
scene. Ora basta. Finito. Siamo diventati grandi, sposati, fidanzati, rincoglioniti. Ora basta ridere e
scherzare, ora solo casa e lavoro, poi più niente. I pomeriggi d’estate poi, da creparci dalla noia, da
lasciarsi cuocere dal sole e in fine evaporare via. E dicono che la morte in vita appartenga solo ai
vampiri, alla faccia!
Ogni tanto mi metto a scrivere, meno male che ho scoperto questa cosa, anzi, meno male che è
cresciuto questo bisogno in me. Unica cosa che insieme alla lettura mi salva il culo da certe giornate
apatiche e inutili. Tempo perso a cercare gente in giro, le voce quasi rimbomba per strada, meglio
starsene zitti. A volte nemmeno gli uccellini volano divertiti come fanno di solito, quelle sono le
giornate peggiori. Basta ridere, basta con la vecchia compagnia. E girovagare per i paesi vicini in
cerca di ragazze? Follia pura! Siamo diventati grandi, grandi coglioni. A volte mi sento come chiuso
in una scatola piena di ovatta, vorrei gridare ma non ci riesco, vorrei respirare, almeno, ma è fatica
anche quello. Le serate le passo quasi sempre in solitaria. All’inizio non è una gran cosa, ovvio, ma
poi mi sono abituato a certe cose. Per prima cosa credo di conoscere tutti i gestori di pub e baristi
della provincia, perché quando giri solo è fondamentale conoscere quelli a cui devi i soldi e chi ti da
da bere. Seconda cosa ho imparato a osservare le persone. Mi metto tranquillamente su un qualche
sgabello al bancone di un qualche pub e ordino qualcosa, due chiacchiere col “capo”, una
sbirciatina al culo della cameriera, quasi sempre molto carine quelle ragazze, poi con la coda
dell’occhio comincio a scrutare la clientela. Quando individuo qualcuno lo osservo, sento cosa dice,
a volte mi metto a ridere mentre altre volte vorrei alzarmi e andarmene. La gente è davvero
spaventosa a volte, in altre occasioni si sentono cose interessanti invece. Poi come si muove quella
ragazza, che voce ha, le gambe sotto il tavolo. Tutte cose che nel tempo mi hanno tenuto
compagnia, e lo fanno ancora. La solitudine non la devi combattere, devi fartela amica, conviverci.
E pensare che dopo essermi abituato a questa situazione certe volte quando sono con qualcuno mi
pento di non essermela svignata da solo. La solitudine non mi fa paura, no. Con la solitudine ci
ballo un valzer, la bacio sul collo e lascio andare a dormire quando ne ha bisogno. La solitudine fa
paura solo a chi non ha il coraggio di vivere. Ci vuole consapevolezza di sé per farsela amica. Non è
come una donna che la devi corteggiare, lei è lì, aspetta solo che tu la guardi e la inviti vicino a te.
E’ bella, elegante, educata. Ci sei tu nella solitudine e lei è in te.
Regina Re
Il potere
Solitudine e nulla di negativo è in essa, se la si apprezza…cogli il genio con cui questa sposa ti
veste quando il tocco della sua mano ti lacera la pelle…non puoi nasconderti quando nessuno ti può
vedere e puoi toglierti da quella posa scomoda, che ti si addice molto ma ti rende così monotona…
toni di luce sul tuo viso quando apprezzi la mancanza di qualcosa che da te si snoda e ti
abbandona…
Sei sola e sei vuota e del nulla sei padrona.
Le amicizie virtuali
Quante amicizie virtuali nascono attraverso il web? Quante di queste sono destinate a essere
approfondite e a durare nel tempo? La nuova frontiera del vivere umano comprende anche questa
dimensione, questo modo di comunicare, criticato da molti e utilizzato da tutti. Che siano i Social
Network, piuttosto che lo scambio epistolare via e-mail, non vi è dubbio che internet ha
decisamente cambiato il modo di porsi e di approcciarsi al mondo esterno. Vero è che non
bisognerebbe mai scordare quanto in realtà sia importante il contatto umano, la possibilità di avere a
che fare con le persone, in carne e ossa, in un’interazione effettiva. Tuttavia l’universo virtuale
esiste e sempre più spesso risulta essere uno dei pochi mezzi con cui è possibile esprimersi
liberamente, con cui è possibile comunicare con gli altri e con il quale, restare in contatto
giornaliero, con persone lontane centinaia di chilometri, non è più una chimera.
Nadia Lattanzi
A tratti…amore (storia breve di un “amore” virtuale)
Una chat. Parole. Conosciamoci, giochiamo. Tu e io poeti. Amici e amanti. Distanti. Ho bisogno di
te. Telefonate notturne. Mi manchi. Abbiamo sbagliato tempo, luogo. Amore? Il cuore che batte con
la tua voce al di la di me. Vediamoci. Speranza, attesa. Delusione. Ti conosco ora. Non sei mai stato
mio.
Rossana Roxie Lozzio
Amicizia
Una volta, si chiamavano “amici di penna” ed erano le persone con le quali ti rapportavi via
lettera… ricordate? Quei fogli bianchi, sporcati di inchiostro blu, nero, a volte, rosso… e sui quali
scrivevamo di noi, della nostra famiglia, di cosa ci appassionava e di ciò che avevamo fatto durante
la settimana, per poi piegarli, inserirli in buste dello stesso colore e spedirli a qualcuno che si
sarebbe entusiasmato all’arrivo del portalettere, quando gli sarebbero stati consegnati e che poi, a
distanza di chissà quanti giorni – dipendeva dalla distanza fra le due città di residenza…- ci
rispondeva e questo, poteva durare per anni o più fortunatamente, anche tutta la vita!
L’emozione grandissima era quella di riuscire ad incontrarsi, magari, con la scusa di un con
certo al quale partecipare insieme o per una gita da effettuare in qualche posto a metà strada oppure
ancora, per una visita direttamente fino a casa!
Oggi che è tutto cambiato e in parte migliorato, grazie alla tecnologia, si chiamano “amici virtuali”
ma secondo me, sono la stessa cosa: potenziali amici, non aggiungerei altro. Ci si “incontra” per
motivi diversi ma quasi sempre, accomunati da una passione per qualcosa… per un artista, per un
animale, per un programma televisivo, per uno sport!
Così, ci si comincia a frequentare, anche se virtualmente e a volte, succede anche tutti i giorni! Ci
scambiamo parole, pareri, immagini, persino dei video… e tutto diventa condivisione, ci unisce
oppure ci separa, con la possibilità di comprendere piuttosto in fretta se siamo davvero compatibili.
Io credo nell’amicizia virtuale e sapete perché? Perché credo che sia soltanto amicizia… non è
necessario frequentarsi spesso, quando ci si vuole bene e se ci si vuole veramente bene, lo si
avverte. Con il tempo, con lo scambio quotidiano di commenti, di parole anche non
necessariamente affettuose ma sincere… proprio come nella vita “reale”, solo così possiamo
accorgerci se andiamo d’accordo e sentire il bisogno di sapere come stiamo o di soffrire se non
stiamo bene.
Non ho mai compreso chi sostiene che “la rete” e le “comunità virtuali” siano pericolose o fredde…
ho sempre sostenuto e lo credo fermamente, che “la rete” rispecchi la vita per quello che è. Ci sono
persone buone o meno buone, ci sono persone con le quali possiamo sentirci a nostro agio e persone
che non ci regalano alcun che e questo, al di là dell’ambiente in cui il destino ce le fa incontrare.
Siamo noi a dover mantenere orecchie, occhi e anima aperti… siamo noi, sempre e comunque, a
dover fare attenzione e poi, ad avere fortuna ma gli amici, da qualunque posto arrivino e in
qualunque modo possano restare in contatto con noi, siano sempre i benvenuti. Come un dono dal
cielo. Per sempre.
Angelo Francesco Anfuso
Amicizia: dal mondo virtuale al mondo reale
Premessa
Sin dai tempi più remoti, il concetto di Amicizia si è mantenuto sempre puro nel suo intimo
significato, nella sua Essenza. Molti saggi luminari, filosofi, scrittori, letterati, hanno sempre avuto
almeno un argomento inerente al valore della virtù dell’amicizia.
La natura, la sue essenza è immutata nel tempo, ma sono mutate le diverse modalità con la quale
essa fiorisce. Dall’Ethica Nichomachea di Aristotele, alle Lettere a Lucillo di Seneca, ecc., in cui
l’amicizia viene equiparata ad una nobile virtù. Una virtù fondamentale per l’uomo, poiché nessun
uomo amerebbe essere da solo, anche se avesse qualsiasi forma di ogni bene.
L’amicizia è un bene per l’uomo, e buono deve essere l’amico, capace di condividere ogni pensiero.
Vi sono diversi tipi di amicizie, ma ci sono diversi modi per far si che questa virtù venga, come ha
sostenuto il dotto filosofo, indispensabile per il bene e la felicità dell’uomo. Oggi, nel XX secolo,
una modalità di avere amici è la ricerca tramite il web, che da per una causalità si arriva a qualcosa
che va ben oltre la semplice virtualità.
Questo è il mio punto di partenza, per esporre il mio piccolo racconto sull’Amicizia in rete.
Anche se sono trascorsi centinaia di anni, il pensiero dei nostri luminari saggi è sempre presente,
poiché sin dall’antichità, hanno fatto si che le generazioni future fossero preparate.
Adesso vi racconto:
correva l’anno 2000, anno in cui per la mia prima volta ho ricevuto un personal computer come
regalo.
Non avevo molta esperienza sull’utilizzo di tale strumento, tanto meno la conoscenza del web
Una sera, trovandomi a casa di un amico, ho visto che utilizzava internet, il quale gli permetteva di
conoscere gente e dialogare.
Fui molto incuriosito, e, non pensandoci più due volte, la sera successiva iniziai a navigare per il
web e cercare dei siti che mi permettevano di dialogare nella massima libertà.
All’interno di un portale internet trovai una chat suddivisa in diverse stanze. Ad ogni stanza
corrispondeva una regione.
Sinceramente non mi aspettavo nulla, visto che era un mondo tutto virtuale, ma a distanza di
pochissimi giorni venni contattato da un nickname che non era della mia regione (Sicilia) ma bensì
dalla Toscana
Nemmeno dieci minuti, e mi contatta in privato.
Iniziamo a parlare, a conoscerci, quello che facevamo nella vita, i nostri studi, le nostre passioni,
insomma, parlavamo come se fossimo amici di lunga data, ma in effetti ci eravamo conosciuti solo
pochi minuti prima.
Si è venuto a creare un certo feeling, era piacevole conversare con lui, infatti restavamo a parlare
ore e ore, senza mai guardare l’orologio.
Ogni giorno era un appuntamento fisso, talmente forte era la voglia di parlare che per un bel periodo
ci siamo completamente alienati un po’ dai nostri amici reali.
Il nostro incontro virtuale inizia a diventare sempre più forte, come se prendesse forma, immagine,
come se si incarnasse un qualcosa di veramente sublime, ossia il concetto di Empatia, molto amato
e discusso dalla cara Edith Stein (la mia filosofa preferita). “L’essenza dell’atto che sta alla base di
tutte le forme attraverso le quali ci accostiamo a un altro”. In un certo senso, è identificabile con la
partecipazione emotiva, la condivisione di un affetto vero e proprio.
Siamo entrati in perfetta sintonia fin dal primo momento, incarnando su noi stessi i sentimenti l’uno
dell’altro, di amore, odio, compassione, nostalgia ecc.
Insomma, ognuno era il riflesso dell’altro in tutta la sua Natura ed Essenza.
Il tutto era interessante, ma la cosa più bella e che a distanza di sei mesi circa, abbiamo deciso di
incontrarci.
Finalmente è arrivato il grande giorno, mi trovavo in Toscana da parenti, e, in quella circostanza ci
siamo conosciuti dal vivo.
È stata un’esperienza unica nel suo genere, ricca di molteplici emozioni ma soprattutto piena di
gioia.
È la genesi di una grande amicizia in cui man mano si solidifica nel tempo, sempre più forte, in cui
maturano soddisfazioni uniche nel suo genere.
Ovviamente ci vedevamo sempre in chat, continuavamo a conversare, raccontarci sempre ciò che
facevamo, ci rendevamo sempre partecipe di tutto, entrando anche nelle nostre intimità più
nascoste, che magari a molti amici d’infanzia non avevo detto, magari per timore di chi o di che
cosa…
Non c’era nessuna censura nei nostri discorsi, anzi, ci aiutavamo e ci consigliavamo a vicenda.
Sono trascorsi quindici anni da quell’incontro virtuale, ma oggi, siamo più uniti che mai.
Non ci facciamo sfuggire nessuna occasione per vederci, anzi appena uno dei due è libero si
precipita subito dall’altro come un fulmine.
Non si può comprendere quello che abbiamo vissuto e che continuiamo a vivere, perché la nostra
amicizia è nata nella purezza di una notte, nella bontà di due cuori, all’interno di una piazza
virtuale: il web.
Ci siamo ritrovati in tutto, nonostante i nostri difetti, ma quello che ci ha unito è stato il desiderio di
conoscenza. Forse un po’ di curiosità,
Molti pensano che il mondo virtuale è un mondo fatto di molta gente falsa, in cui le maschere
pirandelliane vanno di moda. Ma noi, siam del parere, che non tutti lo sono. Ci sono tante persone,
che come noi, hanno conosciuto gente garbata, con i quali hanno iniziato a vivere un pezzo della
loro vita, della loro storia.
La nostra amicizia inizia virtualmente, e man mano si è incarnata nella realtà.
Oggi siamo inseparabili, dire che ci amiamo è ben poco.
Concludo con una celebre frase dello Stagirita:
“Cos’è un amico? Una singola anima che vive in due corpi”.
Gabriele Palumbo
Amico di un momento
Era più facile raccontare se stessi a chi non si conosceva…era più facile raccontare le proprie
emozioni a un passante incontrato per strada piuttosto che a chi conoscevi bene…parlavi di te,
dicevi come la pensavi e lui ti ascoltava, diceva la sua e quasi sempre anche lui ti sputtanava la sua
storia …succede spesso…e dopo ti senti anche meglio…”perché?” mi chiedevo…quando parli con
uno sconosciuto non hai vincoli mentali, non hai paura di esprimerti, non hai paura di essere
giudicato e soprattutto non hai paura che ciò che esterni ti ritornerà nella testa, magari con più casini
di prima, ti liberi semplicemente…si creava un’empatia momentanea, una condivisione del proprio
io…ti sentivi meglio e anche lui…ma come era uno sconosciuto prima lo rimane anche dopo, così
come vi siete incontrati vi dividete, ognuno a continuare la propria storia, non rimaneva niente…
con chi conoscevi non era così facile, con un amico, un parente…sarebbe bello sfogarsi o
esprimersi con tutto se stesso ma non ci riuscivi…ma forse non serviva, forse con chi hai un legame
forte anche in silenzio ti esprimi, con chi hai vissuto tante esperienze non sempre servono parole…
quasi sempre bastano gli occhi a dire più di quanto tu possa fare…
Barbara Villa Mastropierro
C’è chi va, c’è chi resta
Tasti che prendono fuoco. Giorni, ore, minuti a digitare parole per accorciare le distanze. Nick,
nomi, pseudonimi, conoscenti che diventeranno amici.
Qualcuno resterà, qualche altro andrà via, così come è arrivato: con un click, un “mi piace”, un
condividi.
Un vortice di sensazioni che ti prendono e non ti lasciano più.
Pensieri, emozioni, risate e confidenze.
Amicizie e fratellanze nate e morte in un attimo, per un mi piace di meno, una telefonata non
arrivata e si diventa il mostro da buttare in prima pagina.
Amicizie virtuali a cui fare attenzione, a volte dolcissime, intense e profonde altre superficiali e
pericolose. A rischio c’è il cuore.
Ti cancello. Bloccato. Pazienza.
E poi avanti un altro. E tutto ricomincia.
Amici che diventano anonimi e dietro a falsi nick ti controllano, ti osservano e poi sferrano
l’attacco, per loro mortale, ma tu constati, sorridi e sei già avanti.
E’ un altro giorno. Un’altra storia.
Irma Panova Maino
Cosa c’è dietro al monitor?
Il tema di questa settimana lascia aperte le porte per molte considerazioni diverse. Le amicizie
virtuali nascono davvero sul web? E quanto sono reali? Personalmente credo che vi sia stata
un’inversione di tendenza rispetto a cinque/sei anni fa e le persone tendono a essere sempre più vere
e meno inventate. D’altra parte, pensate a questo: quante sono le costrizioni a cui siamo
giornalmente sottoposti nel mondo reale, rispetto alla libertà di espressione che internet permette?
In poche parole, ho avuto modo di conoscere persone estremamente reali sul web, vere nel loro
intimo modo di essere, proprio attraverso la virtualità del sistema stesso. Il monitor e la tastiera
permettono, a colui che si cela dietro di essi, di poter davvero essere se stesso e non più il
personaggio fantasioso inventato appositamente per accalappiare “polli” creduloni e “galline”
ingenue. Sicuramente esiste ancora una larga fascia di coloro che utilizzano internet per creare false
identità e falsi profili, tendenti più che altro a suscitare l’interesse di coloro che vogliono
accalappiare; tuttavia, nella stra grande maggioranza dei casi, le persone sono esattamente ciò che
dicono di essere. Questo a prescindere dal fatto che siano delle casalinghe che si spacciano per
mangiatrici d’uomini o affermati e seri professionisti che tornano a essere dei gioviali giocherelloni.
Internet da modo di poter esprimere l’IO, quella parte che nel quotidiano non può essere esposta
liberamente e che, spesso, viene tenuta a freno per false convenzioni e altrettanto falsi moralismi.
Da modo, a chi si sente incompreso e solo, di poter trovare altre persone che possono capirlo e
renderlo partecipe di una comunità. Da modo, a chi nella vita ha difficoltà a instaurare rapporti,
magari per timidezza, di incontrare altri “naviganti”, lasciandosi alle spalle ogni possibile
frustrazione o preconcetto. Dunque, perché condannare questo mondo? Perché bollarlo come finto,
solo perché passa attraverso i circuiti stampati? Senza un mondo come facebook, molte persone non
le avrei conosciute, anime con un cuore e un volto, per me diventate estremamente importanti.
Senza internet, non potrei rimanere in comunicazione con amici vecchi e nuovi, non potrei
raffrontarmi con loro e non potrei mantenere viva quella fiamma che mi riscalda, a prescindere da
qualsiasi altra considerazione. Quindi grazie ADSL che mi permetti di collegarmi ogni giorno e che
mi permetti di poter avere notizie dalle persone che per me contano. Grazie soprattutto a voi, “amici
virtuali” che esistete e non solo come profilo generico di un social network. A tutti voi, un sentito e
affettuoso GRAZIE.
Marina Isceri
I miei amici virtuali
Osano arrivare
dove in realtà quelle vicine
si rifugiano altrove,lontane dai tuoi passi.
Animi, inaspettati
che mai avrei immaginato di incontrare
animi, sensibili, gentili, profondi,
amici viaggiatori, e sognatori
di questo nostro fantastico mondo virtuale.
Amici che ti sfiorano
restando attaccati ad uno schermo,
sanno allontanare giorni grigi
donandoti l’arcobaleno
che ti segue anche quando
ti allontani dal monitor.
Ora si, posso confermare
di non affidare al vento
i miei pensieri, le mie parole,
ora si, posso dire grazie
a questo magico mondo virtuale
dove non serve urlare
no, non serve richiamare attenzioni,
perché loro sanno
come e quando apparire,
e li ritrovi sempre lì
ad aspettare,
ad aspettarti.
Andrea Borrelli
La ballata dei clic
Pulsa il battito del tasto
dal cuore intatto
pensa sempre in interrotta
mente che veloce
possiede l’ attimo
sente il desiderio
cosciente non lo vede
immagina davvero
di vero lumi bianchi
solo credo.
Elena Grifoni
La distanza che c’è fra quello che vorrei e quello che non accadrà mai
Eccolo che ritorna, quello struggimento interiore, quella sensazione che ti prende allo stomaco
all’idea di poter essere, per lui, qualcosa di più. Quel desiderio che sai non si avvererà mai, per
quante stelle cadenti tu possa contare, ma che non si decide a dar tregua al tuo cuore, lasciando
brillare quel barlume di speranza che pian piano, però, si affievolisce. Poi eccolo di nuovo: lui ti
parla, ti sorride e in te la fantasia torna a vivere, offuscata però da qualche accenno alla sua vita di
tutti i giorni in cui capisci che, talvolta, lui ti racconta solo delle mezze verità, e altre cose con te
proprio non le condivide. Magari non per malizia, ma solo per riservatezza… e poi, chi sei tu per
entrare nell’intimo della sua vita? Sì, siete amici, ma solo di contingenza. La vostra complicità e il
dialogo iniziano e finiscono nel breve tempo di una serata di lavoro in cui indugi, a volte, con lo
sguardo, nella sua direzione per poi distoglierlo se si incrocia con il suo. Ti scopri invidiosa della
collega che si dilunga a parlare con lui, essendo la sua postazione più vicina della tua o essendo lei
solo più intraprendente. Ed eccole di nuovo a svolazzare, quelle farfalle nello stomaco, quel
desiderio inespresso che vorrebbe uscire allo scoperto, quella voglia di approfondire un’amicizia
che vorresti solo per te. Ti corrode piano la gelosia quando lo vedi parlare a lungo al telefono, con il
sorriso e gli occhi allegri; con chi sta parlando? E pesa come un macigno la consapevolezza della
presenza nella sua vita di qualcuno che gli è più vicino di te e che e può godere della sua
compagnia. Ti ritrovi a immaginare e fantasticare su quello che potrebbe essere il vostro rapporto,
se solo tu avessi più tempo da passere con lui. Crei dialoghi infiniti nella tua mente che però mai
rispecchieranno la realtà, perché sono solo la proiezione di quello che tu vorresti che lui ti dicesse.
Poi tutto tace. Lui è sparito di nuovo, come spesso accade. Il tuo cuore si placa per un po’. Tutto
torna nella normalità. Ma ti basta uno scambio divertente di messaggi e ti ritrovi ad aspettare con
ansia l’incontro successivo. Una telefonata inaspettata, la richiesta di un consiglio, poi di nuovo a
parlare. Ti richiama per sfogarsi, per avere il tuo sostegno, tu che lo capisci bene perché siete sulla
stessa barca. È forse la sola cosa che avete in comune… o magari no, ma non lo sai, non lo conosci
così bene come vorresti. Il cuore riprende la sua corsa mentre la testa lo frena. Ti sciogli i capelli,
ma leghi le emozioni; la tua è una regola ferrea: mai possono trasparire. Non siete mai soli, ma è
meglio così. Ti confonde un po’ stare a tu per tu con lui… non sai mai che cosa dire o fare e spesso
ti imbarazza guardarlo negli occhi… hai paura che lui sappia leggerci dentro. E allora orienti le
discussioni sulle solite banalità e sui luoghi comuni per non rischiare far trapelare quello che senti.
Ti vuoi convincere che non funzionerebbe per non rimanere delusa; ti vuoi convincere che sei tu a
non volerlo perché sei sicura che sia lui a non volerti. Tante allusioni sono state fatte in passato e le
battute si sono sprecate. A lungo tu sei stata un libro aperto su cui si poteva benissimo leggere, se
non l’interesse, quantomeno la tua non indifferenza. Eppure niente è successo, niente è stato detto o
fatto perché qualcosa nascesse. Ed eccolo qui, di nuovo, questo sentimento di attesa e speranza, che
ti attanaglia lo stomaco e ti toglie a tratti il respiro, per qualcosa che intensamente vorresti ma che
sai non accadrà mai. Il tuo sguardo ancora indugia verso di lui; lo guardi parlare, lo guardi
muoversi, e si abbassa quando anche i suoi occhi incrociano i tuoi.
Regina Re
Le ali della virtù
Inseguire un sogno e volarci intorno, caderci dentro come fosse un pozzo
La bellezza di una foto ritoccata insieme ai versi di una bella frase stilizzata
Hai sete di gente perbene e credi che il bene si misuri in preghiere
Appelli, cuori rossi e cuori neri, saluti e codici incorniciano sorrisi e bronci
In una notte di cielo stellato che ti addormenta con un saluto abbreviato
“Amare è”
mille risposte, scegli quella giusta che ti consola e dagli abissi la tua stima riaffiora…
è il posto giusto per erigere il tuo busto, di pietra o plastica non fa differenza perché dalla parola ne
deriva l’altezza
Invii e ricevi e attendi, cambi volto più del vestito e ti ammiri in questo specchio infinito:
“Mi piace”
“Sì ti piace… ma quanto? Ti piace tutto uguale o c’è qualcosa che ti piace in particolare?”
“Mi piaci”
“No, questa opzione non c’è, non è un’agenzia matrimoniale, mi dispiace, hai sbagliato portale…se
vuoi puoi chiedermi l’amicizia.”
“Perché te non chiedi mai? Accetti, chiedi ma che dai?”
“Ma io sono un poeta!”
“Ah… non me ne ero accorta, allora cambiamo zona che di solo gossip sono colta…e non leggo e
non scrivo ma ho un blog super figo e se vuoi… puoi farci un giro!“
“Ennò, io il mio talento lo regalo soltanto al popolo eletto, al mattino di soli versi mi rivesto e me li
ripeto sino a quando nudo mi addormento.”
“Essì, io il mio talento lo regalo come se mio proprio non fosse, al mattino provo a rivestirmi ma
quei piccoli versi non mi calzano affatto e allora, in giro, mezza nuda me ne vado!”
“Di quale talento parli? Con il talento si nasce, si cresce e ci si muore!”
“Ecco, la terza che hai detto, per questo non scrivo e non leggo…”
“Mi dispiace, la mia gente è di un altro pianeta, della terra è assai stufa e di solo intelletto va fiera!”
“Ma io penso con frasi celebri, film o canzoni…eddai, condividi le mie emozioni!”
“Le emozioni hanno le ali e le tue purtroppo sono di carta!”
“Guarda che ce le ho tatuate proprio qui, sulla mia spalla!”
“Mi dispiace ma ti blocco.”
“Mavaffanculo stronzo!”
Chi dei due sia più vero ora proprio non saprei dire, che tra i due mondi decisamente labile è il
confine
Un tempo ci si odiava, spesso, prima di amarsi e ci si amava, a volte, prima di odiarsi…
Oggi ci si ama o ci si odia senza dare altre possibilità, ti svegli, ti alzi e il buongiorno è per tutti
anche se per te non è poi così buono ma rispecchia il tuo profilo, la tua foto, il tuo ruolo…
Ne hai tanti qui da scegliere alla giornata e pochi che invece non hanno un profilo, una foto, un
libro, un film preferito
Quelli sanno davvero che faccia hai di prima mattina quando lo specchio ti addita per come cavolo
ti sei vestita
L’acqua lava via i ricordi della notte e scivola sul tuo volto, cancellando dalla mente i frammenti di
quel sogno
Sei sveglia ora e guardi in fondo al pozzo
Sorridi, puoi essere fiera della tua bacheca…
è soltanto la realtà, a volte, che ti frega.
Anna Cibotti
Mi piace
Un “mi piace” fa piacere a tutti.
Quando guardi le notifiche e lo vedi non ti chiedi quanto sia sincero.
Ti fa piacere e basta.
Questi rapporti d’amicizia virtuali non si discostano di tanto dalla vita reale.
Ci facciamo più belli agli occhi degli altri e vogliamo sembrare chi non siamo, ma migliori?: chi
mai nella vita di tutti i giorni, non cerca nelle relazioni sociale di apparire al meglio?
Attraverso ciò che scrivono gli amici si può capire tanto di loro.
Infatti fra tanti, si tende sempre a preferirne alcuni.
Il motivo è che si crea un’affinità che ce li fa scegliere.
Gli amici reali ti parlano e quelli virtuali ti scrivono.
Nei tempi che furono si tenevano relazioni d’amore e d’amicizia quasi esclusivamente scrivendo
lunghe lettere, anche ogni giorno.
Relazioni virtuali anche allora che avevano una grande importanza per chi le viveva.
Le amicizie possono nascere anche se non conosci le persone materialmente.
Io gli amici li ho trovati….
Il motivo?
Mi piace quello che scrivono e mi fanno compagnia quando li leggo.
Cosa c’è di più bello della lettura?
Se poi sono belli, grassi, bassi o brutti, non me ne importa nulla.
Sono sinceri?
Non me lo chiedo mai.
Io sono sincera con loro e credo che la cosa sia reciproca.
Puoi scegliere su una vasta gamma di personaggi ……..nella vita reale è così?
No: ti accontenti di quello che passa il convento!
Grazie amici!
Ronni Corbari
Non cambia niente (per via delle amicizie virtuali)
Anno di grazia duemiladodici.
I link parlano al posto degli umani, ma essendo fatti da umani fanno trasparire una certa schifezza,
la solita ipocrisia e il solito vomitevole tentativo di sembrare quello che non si è.
Badate a quelli che vivono di link, loro vogliono essere i migliori, loro vi odieranno quando avrete
il coraggio di scrivere qualcosa usando la vostra testa, vi accuseranno di essere inadeguati al mondo
virtuale e alle sue regole.
Io non sono così, e a molti sto sulle palle. Meglio.
Ma ci sono ancora umani pensanti che dicono e scrivono per quello che sono.
Stupidi, simpatici, intelligenti, più o meno colti o ritardati, ma sono loro stessi e va bene.
Tanto non cambia niente, siamo sempre sulla stessa barca, destinati alla pazzia e poi alla morte.
Si stringono amicizie, quello sì, ma non difenderò mai e poi mai i rapporti virtuali rispetto a quelli
veri.
Diversamente apprezzo il “mezzo” virtuale per portare a conoscenze “vere”, fisiche.
Per poco non mi rimediavo una donna con questa cosa, già, per poco, se non fossi così
irrimediabilmente debole, testa di cazzo, egoista, me stesso.
Ma le cose vanno e vengono, sempre, passano come i rifiuti nel fiume verso altri posti forse
migliori o forse peggiori.
La vita è questa e non cambierà mai.
Con certe persone comunichi di più, impari a “leggerle” tentando di capire come siano nella vita
vera, che tipo di voce abbiano e a volte mentre gli scrivi provi a immaginare la loro risposta.
Sono come libricini piccoli come le loro foto dei profili che sfogli piano piano.
Sai che per lo più ti risponderanno, se non lo facessero dentro di te si insinuerebbe il dubbio di non
essere ascoltato, di non contare nulla.
Solita triste paura dell’uomo: essere nessuno.
Chi pensa di trovare felicità nel virtuale sbaglia, si possono trovare porno di discreta qualità, quelli
sì, la felicità non si trova grazie agli altri ma solo dentro se stessi.
Ognuno di noi ha una buona dose di felicità in dotazione dalla nascita.
Però abbiamo anche l’inferno nascosto nelle viscere, tutti l’abbiamo, anche se diciamo di no.
Dipende da noi annaffiare questa o quella pianta, dipende sempre e solo da noi.
Accendere il computer non è molto diverso da entrare in un locale al sabato sera, vedi tanta gente
tutta indaffarata a fingersi qualcosa di diverso da quello che è.
La speranza è sempre quella di trovare la voce fuori dal coro, e con un po’ di culo la puoi trovare.
E’ così nel virtuale come nella vita vera, sei amato, odiato, ti sputtanano facendoti un sorriso, c’è ti
vorrebbe abbracciare ma non ne ha il coraggio, chi ti vorrebbe vedere bruciato vivo, chi ti si
inculerebbe solo per divertimento, siamo sempre umani, questo non cambierà mai.
Monica Pasero
Parole…
Profuma di carta il nostro sentiero
Tra quelle siepi germogliano
le mie e tue emozioni
lettere e sillabe fanno capolino
tra i lillà dei nostri sogni comuni
il sentiero ghiaioso
è ancor ricoperto da parole confuse
I grandi abeti mossi dal vento
spazzano via il disordine del non comprendersi.
Riportando fluidità nelle espressioni,
nei nostri volevo dirti
Luce diafana veste il sentiero
illuminando il nostro scriverci
Ombre vicine ora si tengono per mano
non servono più
parole adesso
Un clic e tutto vive…
Dita tremanti attendono un suo gesto
Attimi quasi eterni, bramano una sua parola
una sola sillaba, che le permetta di respirare nuovamente
l’attesa vibra in lei.
Forte e smaniosa, attende.
Una dolce missiva attraversa i cavi di quell’ universo parallelo,
insinuandosi nel suo cuore
sentimenti che s’incontrano da posti lontani
lacrime calde s’uniscono, sfiorandosi il cuore
per un attimo eterno
in quel istante dove reale e virtuale si fondono
ritrovandosi in un solo clic dove, tutto vive…
Elisabetta Bagli
Un istante rubato
Tic tac, tic tac…
i tasti sotto le mie dita.
Parole non dette, non scritte
riempiono la stanza mentre mi osservi,
apparentemente distante.
Il respiro dei tuoi occhi è su di me.
Un bisbiglio, un invito.
Ti abbandoni a me,
alla mia mente, alle mie dita.
Sì, decido io.
Sì, scrivo io.
Non resisti, ti avvicini.
Le tue mani si ammorbidiscono,
lentamente scivolano sugli stessi miei tasti,
sfiorano la mia pelle.
Sorrido e tu sorridi.
Sorrido e indovino i tuoi pensieri.
Sorridi e vedi la mia vita.
Ti sento entrare.
Ora conosci i miei movimenti,
mentre rifletto.
Ora sai come sono mentre scrivo,
lontano da te, per te.
Un istante rubato
e oggi la mia immagine evocata
è realtà davanti a te.
Un istante rubato e
scolpisci il mio volto fisso sullo schermo,
nella tua anima.
Mi leggerai.
Ricorderai me,
seduta accanto a te.
Ricorderai me
nell’istante che, insieme,
abbiamo rubato alla vita.
Cristiana Verazzo
Virtualmente
Facile. Troppo facile star qui a sparare a zero su se stessi, a commiserarsi nella meschinità
quotidiana della vita. E arrivati al primo giro di boa, tenti di fare una strambata come non ne
capitano mai, di quelle che ti consentono di vincere un mondiale a pochi metri dal traguardo con
orgoglio e soddisfazione.
Allora t’inventi di tutto: palestra estrema, anche se non hai mai sollevato nulla di più pesante di un
sacchetto della spesa in vita tua; nuovo look, nella speranza di rinverdire quello che una volta era un
giardino sempre in fiore; infine impari ad usare un computer. E pian piano passi da un triste indice a
battere con almeno entrambi, aggiungendo di tanto in tanto un medio… Al passo successivo
t’iscrivi a un social network: chatti, chiacchieri in gruppi, aderisci a fan club del tuo cantante
preferito e fai conoscenza. Lo ammetto, molti son stronzi, ma con la STR maiuscola. Per tanti idioti
però ce ne sono altrettanti davvero in gamba e cui quali condividi pensieri, desideri, sogni… e se
solo una persona così è riuscita ad incrociare il mio cammino, mi ritengo ben più che fortunata,
perché dietro uno schermo nessuno sa chi sei e se instauri un rapporto dove ci si dice tanto, ma tanto
di più, allora è quasi certamente sincero. Io almeno adoro credere che sia così: una grande famiglia
di amici…e il tutto virtualmente.
Dedicato alla mia Musa….tu sai che ce l’ho con te ♥
Catene
Spesso siamo costretti a dover rispettare le convenzioni e le nostre catene derivano dall’educazione
ricevuta, dalla società, da chi ci circonda. Dunque Catene, questo è il nuovo argomento per 7
giorni. Catene mentali, fisiche, immaginarie… qualsiasi tipo di costrizione rientra in questo
argomento e diventa inevitabilmente lo specchio delle nostre frustrazioni: vorremmo essere liberi,
sempre, di poter esprimere adeguatamente l’IO, senza dover sempre fare i conti con realtà spesso
scomode. Se non altro, almeno per una volta, i nostri autori avranno modo di liberarsi da bavagli e
legami, lasciando completamente andare desideri e fantasie, provando, almeno per pochi istanti, la
soddisfazione di aver potuto dare sfogo alla propria personalità.
Irma Panova Maino
Breve
La catena non ha solo un capo, solitamente ne ha due.
Ode alla catenella
Tu che scoli l’umana miseria
portando nei flutti le scorie
del vivere
Tu che vieni sfiorata
solo quando di necessità
si fa virtù
Tu che resti isolata
e denigrata
come un accessorio inutile
Tu che pendi
inerte e afflitta
lungo i muri dei nostri giorni
Tu
piccola catenella del mio wc
mi auguro di non doverti
riparare mai.
Pesi e misure
Spesso le catene sono mentali, ma questo non le rende meno vere, meno reali e meno difficili da
sopportare. Senso del dovere, stanchezza fisica e cerebrale, ossessioni impossibili da risolvere,
incapacità momentanea di riuscire a vedere le possibilità offerte, molte sono le componenti che ci
rendono schiavi di una particolare situazione o di un rapporto, ma tutte hanno in comune una cosa:
la nostra mancata reattività. Tuttavia non è una colpa. Sapere di essere la causa dei propri mali, non
facilita di certo la soluzione degli stessi e spesso sono altri i fattori collaterali che contribuiscono a
rendere la liberazione una meta effimera e irraggiungibile. Eppure, ciò che ci salva
dall’annientamento totale e dalla rassegnazione più cupa è la speranza. L’idea che, al di là del
tunnel, esista la luce e il sole, l’aria pura e l’ossigeno necessario ai nostri polmoni. E per
raggiungere questo stato di grazia ci vuole un pizzico di follia, tanta buona volontà e la
consapevolezza che la libertà ha il suo prezzo e questo non è mai un misero “gettone di presenza”,
ma purtroppo spesso richiede molto del nostro sangue. Per noi donne, spesso sono i figli a “pesare”
sulle nostre decisioni e non tanto perché essi siano d’impiccio o effettivamente di peso, ma il solo
fatto di averli messi al mondo, ci rende automaticamente responsabili della loro sorte e del loro
benessere psico-fisico, diventando, purtroppo, un altro anello della catena che ci lega alla
piattaforma di cemento, che abbiamo comunque contribuito a creare. La causa non risiede mai in un
solo colpevole, ognuno di noi ha dato del suo per far sì che le situazioni non funzionassero e benché
sia totalmente inutile cercare di pareggiare i conti, scagliandosi addosso accuse assurde, è anche
vero che ognuno dovrebbe fare la sua parte, nel riconoscere i torti e le mancanze. La
consapevolezza aiuta il più forte ed è solitamente il più forte che decide di arrendersi e di non
combattere più per qualcosa che si è perduto nel tempo. E non uso impropriamente il termine
“combattere”, poiché è proprio la lotta e la conquista che portano alle catene e a quelle costrizioni
mentali che ci impongono un certo tipo di comportamento e coerenza. Tuttavia, quando arriva il
momento, è bene coglierlo al volo, saper sfruttare l’occasione giusta e lasciare che le maglie ci
scivolino addosso, diventando immuni al dolore, al rimorso e al rancore. Mentre gli anelli scivolano
via dalla pelle, lasciando segni di abrasioni e tracce di ruggine, nulla potrà impedire ai polmoni di
espandersi, alla ricerca di quell’aria che spesso è venuta a mancare. E con i piedi ben saldi sul
terreno, imparare di nuovo a camminare con i propri arti, calpestando il suolo con decisione, diventa
l’unico mezzo possibile per raggiungere la meta.
Anna Cibotti
Catene
Amai l’idea dell’amore
e i suoi lacci.
Li volli stretti come nodi
da non sciogliere mai.
Ogni giorno più stretti
nella mente,
nei gesti,
nel cuore.
Ma il tempo va.
Non puoi correre con lui
incatenata a un’illusione.
Ora che gli occhi sono stanchi
di vedere il niente,
strappo le mie catene di carta
ormai consumate.
Elisabetta Bagli
Catene
Voglio vivere l’amore,
voglio essere felice.
Cammino per la vita,
l’ascolto, l’osservo.
Nulla è per me.
All’improvviso un sorriso,
come un’onda entra in me.
Penso sia amore,
voglio viverlo.
Me lo impongo.
Me lo impongono.
Me lo impone il mio bisogno
di sentirmi amato,
di sentirmi importante,
io, un punto nell’immensità.
Me lo impone il mio desiderio
di veder continuare il mio sangue,
la mia linfa vitale in questo mondo.
Catene indesiderate
mi fanno prigioniero.
Catene stringate impediscono
il mio grido di libertà,
premono la mia sofferenza.
Catene senza amore,
effimere mi consolano.
Immaginare l’amore che libera
Si è risvegliata in me la primavera ma non sono impazzita. Sono conscia che le mie catene
dovranno spezzarsi prima o poi.
I miei palpiti assopiti e desiderosi di scoprire una nuova me stanno scoppiando dentro la mia carne,
vibrano e tremano alla ricerca della felicità.
Voglio vedere le stelle che non ho mai visto, voglio che brillino per me, solo per me.
Voglio assaporare il mirto da nuovi rami, quelli nascosti tra le parole che mi dici senza capire che
mi ami e che puoi dirmelo. So che non sono per te, so che tu non sei per me, ma dimmelo, amore
mio. Mi stai liberando, mi stai aiutando a spezzare queste catene che mi hanno tenuta prigioniera
per tanto tempo. Libera io in te e tu in me.
Se le primule sono nate di nuovo nel mio animo è perché ci sei tu. Tu il cammino che ho deciso di
intraprendere, tu presenza costante ma invisibile che ha illuminato la mia vita, tu che con i tuoi baci
hai reso di nuovo azzurro il mio cielo. Ma non sono altro che tenebre, nascosta dietro le ombre delle
catene che sono costretta a indossare finché dovrò.
Ritorno silenziosa così come son venuta, mi inabisso nell’oscurità e nell’anonimato di ciò che non
potrà mai essere. Eppure so che un giorno sarà.
Scrivo e immagino. Sono la parola scritta in un momento di rabbia, il sogno vissuto quando non c’è
più vita, un bisbiglio serrato tra le sbarre della gabbia dorata dove ancora ti osservo, lontana e
silenziosa in attesa di quel giorno in cui mi dirai “ti amo”.
Le catene d’amore son pur sempre catene
Quanti tipi di catene esistono in questa vita? Molteplici e di molteplici metalli. Quelle che ci
vengono imposte e che accettiamo senza batter ciglio o che, dopo estenuanti battaglie, siamo
costretti ad accettare. Quelle che non possiamo evitare per via del senso comune e del quieto vivere,
dettate dalla spietata legge della società in cui viviamo. E quelle che, viceversa, ci imponiamo noi.
Alcune catene sono talmente invisibili che quasi non ci rendiamo conto di avere polsi e piedi legati
a ganci spuntati dal nulla con l’unico scopo di trattenerci ancorati ai doveri. Le catene affettive, che
poi incatenano tutto il nostro essere, dall’anima, alla mente e al cuore sono le peggiori.
Gli insegnamenti di una famiglia, teoricamente “libera” nella quale non esistono confini tra ciò che
è tuo e ciò che è mio, fra ciò che tu pensi e quel che penso io, non servono ad altro che a farti
crescere senza aver rispetto per la persona che sei, incatenata a un’idea in cui non esiste l’IO ma
esiste solo il NOI e nessun tipo di realizzazione personale è ammessa se non vagliata da altri, se non
decisa e analizzata in dettaglio per il bene della Comunità, un bene travestito da AMORE per te.
Una vita così non è tua. Sei incatenata a un’esistenza che non ti appartiene e, purtroppo, quando te
ne accorgi è troppo tardi. Per poter cambiare tutto, fuggire da una vita misera, piena di rimorsi e di
rimpianti, dettati dalla morale, scappi e accetti altre catene, quelle che pensavi ti permettessero la
“vera” libertà, vai verso il cosiddetto specchietto per le allodole. Spinta dalla disperazione, dal tuo
desiderio di rivalsa, di dire qualcosa in questo mondo, di far vedere che ci sei e che, se ci sei, devi
poter vivere, le abbracci e vuoi che ti leghino e siano per te per tutta la vita. E non è così. La
quotidianità ti fa comprendere che essere fuggita ti ha aiutato solo a renderti infelice. In realtà, le
nuove esperienze ti hanno formato e ti hanno liberato da quelle catene che nell’infanzia e
nell’adolescenza ti hanno fatto vivere nella bambagia, attraverso le finestre di quelle quattro mura
della tua stanza. Ma lontana hai adottato un transfert psicologico e sei diventata di nuovo una
“dipendente affettiva”, incastrata nel meccanismo che situazioni malate hanno inculcato nella tua
testa, nel tuo modo di pensare e di ragionare. In ogni caso, sei maturata ed è stato positivo essere
diventata adulta lontano dalle catene che ti stringevano, ma sono aumentate le responsabilità e le
redini della tua vita che per un attimo pensavi di aver imbrigliato nelle tue mani, ti sfuggono
nuovamente, perché, in realtà la vita non è mai stata tua, neanche fuggire è servito. La tua vita è
sempre stata pensata in funzione degli altri. Mai che nessuno ti abbia chiesto: “che vuoi dalla vita?”.
Neanche tu, presa dal turbine degli eventi, hai avuto mai tempo per soffermarti a porti questa
domanda: “cosa voglio?”
All’improvviso ti rendi conto che devi cambiare, ti sei stufata di amare, amare e ancora amare. Senti
che vuoi essere ricambiata, senti che devi essere amata anche tu. Ma sai che la prima catena mentale
che devi spezzare per poterti porre in modo diverso agli occhi del mondo e per poter essere amata
per quello che sei, è amarti tu.
Comprendi che forse puoi riuscirci. Comprendi che forse è arrivato il momento, che puoi realizzare
i tuoi sogni, i tuoi desideri di vita e di donna. Ma non puoi farlo da sola. Interviene un input esterno
che ti aiuta a fare introspezione e senti che così, finalmente, puoi gridare la tua vita, la puoi far
esplodere, la puoi mordere come desideri e assaporarla in ogni suo gusto e piacere. Vuoi liberarti
dalle catene, quelle che pensavi fossero d’oro zecchino e che, invece, si erano solo bagnate nell’oro.
Ci provi, e ti trasformi in ladra. Gli attimi rubati alla vita e al mondo, tra un allentarsi e uno
stringersi delle catene placcate d’oro, sono attimi di felicità estrema, mai provata, così intensa e
benefica che vorresti continuassero all’infinito. Gli attimi che hai rubato sono privi di convenzioni,
privi di catene e ti liberi, finalmente sei libera in anima e corpo e vivi e mordi il presente, vivi e
uccidi il passato che ti ha fatto soffrire. Ma tutto dura un attimo, tutto è così breve da non sembrare
vero.
Torni a indossare le catene placcate d’oro e rifletti sulla tua vita che per alcuni attimi rubati è stata
TUA.
Rifletti e senti che, mentre tenti di rubare ancora, ti si creano altre catene, altri vincoli, l’addizione
al bello, al positivo, al piacere, al sentirti amata, al godere nel sentirti dire “sei bellissima”. Piangi e
ridi, confusa vuoi che queste nuove catene ti stringano ancora, vuoi che ti amino di nuovo, che ti
stritolino fino a farti male, solo per poterle sentire ancora su di te.
E ti rendi conto che sono effimere anche quelle frasi, quegli occhi, quelle carezze anelate e
desiderate e all’improvviso materializzate, effimere perché non sono per te. Ti danno la libertà di
essere te stessa, ma non sono per te. Sono solo il gioco perverso di una mente che non vuole
lasciarti andar via, sono catene senza amore e senza odio, aggrovigliate al tuo corpo e alla tua anima
dalle quali non vuoi fuggire. E allora perché continuare? Perché ormai sei incatenata a doppio filo a
questo qualcosa che non esiste ma che sai che con le sue catene ti rende libera. Hai il sapore della
libertà nella tua bocca e vuoi continuare ad assaporarlo per lungo tempo ancora.
Ora sono due le catene che hai al collo e che stringono con la stessa intensità sebbene gli scopi nel
farlo siano diversi. Una, scelta da te, è quella che non ti fa volare, che non ti fa vivere. Mentre
l’altra, scelta sempre da te, è quella che ti dà piacere e libertà giusto il tempo di pochi attimi rubati.
Le spezzerai entrambe.
Monica Pasero
Catene
Catene trattengono i miei giorni
Irrobustite dal tempo passato
dalla mia indolente ribellione
arrestano la mia essenza
la mia identità sfiorisce , incatenata ad una vita non sua ….
Catene di realtà bloccano i miei sogni
Frenano i miei istinti
Soffocano i miei giorni
Avvolgono il mio esistere
imprigionandomi nell’ipocrisia del Giusto
Agonizza il mio intimo in cerca d’evasione
Si ribella il cuore al già vissuto
Urla la mia anima al fato non atteso
Catene trattengono i miei giorni
Ma l’amore vero le spezzerà
Un frastuono di vita
Libererà il mio cuore
riportandolo sognante nel suo vivere…
Barbara Villa Mastropierro
Catene… Spezzate
Mi avevano incatenata. Gli avevo lasciati fare.
Mi dicevano: “la strada è ormai tracciata e non puoi più cambiare rotta.”
Ho creduto alle loro parole. Ho dato loro modo di tenermi ancora più stretta.
Partivo e loro pensavano: “tanto sempre qui deve tornare”.
Orgoglio e dignità hanno detto basta al posto mio. E non sono tornata.
La vita è una sola ed è mia, decido io cosa farne.
Ho lasciato il buio per la luce.
Ho abbandonato il bianco e il nero per ritrovare i miei amati colori.
Ho rimesso le ali al cuore e sono tornata a volare.
Nadia Lattanzi
Chiusa fuori
Sono chiusa fuori, non riesco ad entrare…legata stretta al palo delle menzogne, illusioni familiari
Ancorata nel fondo di parole buone..mai a galla, mai a respirare.
Per poi accorgersi..che non c’è nessuna catena se non nella mia mente.
Per poi capire che basta muovere il primo passo e tutti gli altri dietro..
Per poi sperimentare quel piccolo, innocuo senso di libertà..e rientrare, finalmente rientrare dentro
di me. Poche storie. La porta era socchiusa e solo la paura me la dipingeva sbarrata.
Nadia Milone
Le catene di un sogno
Succede, a volte (forse troppo spesso), che quando ci sentiamo a disagio o la nostra vita ci appare
troppo stretta, ci rifugiamo in un sogno. I sogni sono belli, ci fanno volare, ci fanno credere di
vivere in una realtà diversa, quasi in una favola. E anche se, razionalmente, sappiamo che presto o
tardi questo sogno finirà, anche se sappiamo di dover stare con i piedi per terra, alla fine non ci
riusciamo e ci lasciamo trasportare dall’onda delle emozioni del momento. Ci illudiamo di essere
liberi, di poter volare, ma in realtà ci stiamo soltanto incatenando ad un’illusione. Sono catene
diverse da quelle di cui siamo soliti parlare, perché quello che ci tiene legati ad un marito, ai figli,
alla famiglia è abitudine, a volte anche necessità vera e propria, sono catene costruite nel tempo,
invece quelle che ci legano ad un sogno sono più difficili da riconoscere, forse perché all’inizio non
ci sentiamo legati ma liberi, ma piano piano ci rendiamo conto che non riusciamo più a fare a meno
di quel sogno, di quella speranza e più la vediamo allontanarsi da noi, più ci rendiamo conto di
quanto sia forte la catena che ci costringe a rimanere attaccati alla realtà. E fa male, molto male…
Io credo che sia peggio di tutto il resto. Ma quando realizzi che il tuo sogno sta finendo, quando ti
rendi conto che sta andando in frantumi e tu rimani lì, ancora attaccata a lui, ad osservarlo svanire
senza poter far nulla per impedirlo, chiedendoti perché fino al giorno prima eri felice e il giorno
dopo, invece, ti assale un senso di panico che quasi ti strozza, allora proprio in quel momento ti
ricordi che non stai vivendo la realtà e senti il nodo stringersi ancora più forte, fa male, quasi un
male fisico. Capisci che devi scioglierlo, sai che è necessario ma è difficilissimo.
Svegliarsi da un sogno è bruttissimo, ma viverlo e poi doverci rinunciare è ancora peggio. Sentirsi
legati ad esso a doppio nodo e sapere di doversi staccare è lacerante, ma nessuno può farlo per noi,
nessuno slegherà quel nodo al posto nostro. L’unica soluzione è prendere in mano le redini della
nostra vita e rendersi conto, benché costi tantissimo, che è ora di lasciarlo libero perché il nostro
sogno vuole così. Sarà il sogno di qualcun altro, forse, in futuro. Magari qualcuno riuscirà ad
afferrarlo e realizzarlo.
L’unico modo per liberarsi dalle catene di un sogno, è quello di lasciarlo andare, di liberarlo da noi
e dopo, forse, anche noi ci sentiremo di nuovo pronti a volare.
Rinchiusa
Mi guardo intorno. Vecchi soprammobili polverosi e fotografie mi ricordano la mia vita. Eppure una
volta ero felice! In quelle foto ridevo. Ma forse era solo un’illusione. Ho scelto come vivere la mia
vita, nessuno me l’ha imposto, allora perché ora mi sembra di essere in una gabbia? Legata e
rinchiusa in un mondo troppo piccolo per me. Vorrei trovare la chiave. Dov’è la chiave? Chi me l’ha
rubata?
Niente, non ho scampo, non ci sono vie di fuga. Devo rimanere qui, incatenata a ricordi e rimpianti
di una vita mai vissuta, sperando in un futuro che non esiste, se non nella mia mente e nei miei
sogni. E proprio in quei sogni trovo la pace. Quando finalmente chiudo gli occhi riesco a liberarmi
da queste pesanti catene, divento leggera, forse posso anche volare. Volare laggiù, dove troverei la
mia pace, dove le mie domande avrebbero risposta, forse. E in quel mondo sarei felice? Chi lo sa,
forse sì… Ma al risveglio, sento addosso il dolore, quasi fisico ormai, atroce e lancinante, ma per
quanto io tenti di divincolarmi, non riesco a muovere un passo, non riesco a scappare e correre
laggiù…
Regina Re
Legame
“…e proprio non mi riesce di essere seria, neanche quando lo sono
e quanto più sono vera, tanto meno ce l’ho scritto sul mio volto
contraddizioni di fondo travestite da perfetta coerenza
ed ogni gabbia dipingo di rosa in fondo alla mia testa
e non sento leggi e non ho padri né padroni
ma se mi guardi schiava sono dei tuoi occhi
un tempo veneravo tutto ciò che c’era di più grande
ed ora ogni cosa così piccola al tuo cospetto appare
un punto senza forma che fluttua in un buco nero
un punto bianco che solo risplende nel mio cielo
plasmato nella forma pian piano hai preso vita
e subito con uno sguardo ti sei preso quella mia
un’anima dentro un’altra non è mai stretta
se tra le due aleggia una sintonia perfetta
non penso sia possibile pensare senza pensarti
che l’unica cosa che mi viene è solo di amarti
quello che mancava e ora non manca più
era dentro me e con me c’eri soltanto tu
ti ho detto i nomi delle cose per poterci parlare
ma ora quando mi parli vorrei sentirti strillare
zitto, ascoltami e fai finta di non capirmi
tutto è lecito se dietro me ti incammini
conto i tuoi passi e tu ora il tempo rincorri
dove un tempo vivevano solo i miei mostri
ti ho detto di crescere ma non sembrare grande
il pensiero mi fa sorridere e piangere all’istante
la paura non ti sfiora e ne vado fiera
sei tu l’unica catena che ora mi frena
e non fai mai male, non sei stretta
e in questo vortice mi tieni ferma
l’unica catena che mai vorrei spezzare
che mi lega le mani per lasciarti volare…”
a mio figlio
Angelo Francesco Anfuso
Libero dalle catene delle mia vita
Rigide catene si legano al destino della mia Vita,
un soffocante tormento come anello mi stringe alla gola.
Con docile grazia si avvolge sul mio corpo,
un’ingannante seta pura
di una larva di baco ormai spento
su quel gelso privo di linfa.
Mi stringe,
mi corrode le membra
rendendomi schiavo della mia stessa vita,
della mia stessa condizione.
Sospiri!
Solo sospiri disperati son le mie consolazioni
che al par di quel giovane Prometeo
sono urla strazianti senza eco.
Condannato e incatenato
su questo monte: questa è la mia sorte.
Ormai, il mio tempo è segnato,
impresso come un sigillo sul mio capo.
Di queste dure catene
vorrei esser libero.
Libertà!
Ecco, ciò che desidero.
Non ci sono parole,
non ci sono emozioni,
non ci sono passioni,
solo la solitudine mi sussurra conforto.
il deserto mi è fedele compagni:
Silenzio è il suo nome.
Nessuna creatura si accorge della mia presenza,
la mia miseria li rende ciechi,
il mio peccato è un giogo assai pesante
per essere sopportato.
Anche le foglie secche al vento,
raggrinzite e imbrunite
mi schifano al loro passaggio.
Sono incatenato come un ladro,
ma non ho rubato, la vita era mia
mi è stata donata, mi appartiene.
Aiutatemi a spezzare queste catene, io
non chiedo nulla se non un solo misero ausilio.
Non siate ciechi e sordi,
non lasciatemi ancora appeso,
Voglio essere libero e dissetarmi!
non più con le mie amare lacrime,
ma attingere con speranza alla fonte di quell’eterna gioia.
Alzo gli occhi verso l’alto,
sono stanco e rassegnato.
Una luce filtra da quel nefasto cielo, mi raggiunge e
non mi tocca, mi sfiora dolcemente.
Innalzo le mani verso i cieli e mi elevo verso l’infinito.
Volgo il mio sguardo verso il basso, sono libero!
Vedo le mia catene ormai disciolte in se stesse.
La mia schiavitù è solo un passato, è sepolta sulla nuda terra.
Fiorisce il deserto ed esaltano le voci.
C’è tanta gente che mi accoglie, mi vengono incontro.
Le mia catene,
una vita che ormai non è più mia.
Sono libero, non più schiavo.
Ero morto, adesso io vivo!
Gabriele Palumbo
Libertà tra le catene
Pensavo di essere come un prigioniero che dopo anni di reclusione si accorge di avere sempre avuto
in tasca la chiave per uscire, ma decide di non usarla perché ormai abituato a quella vita rinchiusa…
ma mi accorsi ben presto che la situazione era un’altra…era la troppa libertà ad avermi ridotto alle
catene…non ero io ad essere in prigione, era la prigione ad essere in me…avevo la voglia, la
possibilità di fare ogni cosa, ma ogni volta la speranza si spegneva sul nascere, al primo passo non
ne seguiva mai un altro…la catena era sempre più corta…più la mia libertà aumentava più le mie
possibilità di movimento diminuivano…i muri si facevano più alti e intanto nella mia prigione
interna l’aria cominciava a mancare…questa volta in tasca non c’era nessuna chiave…sarà stata di
sicuro in mezzo a qualche cumulo di merda e io non ci avrei mai messo le mani per recuperarla…
molto probabilmente non c’era neanche una serratura…
Rossana Roxie Lozzio
Schiava senza catene
Amo la libertà, non posso più farne a meno, posso essere me stessa in ogni momento e non
rimpiango di non essermi lasciata incastrare in una convivenza, sono certa che sarei stata infelice.
Non voglio sentirmi imprigionata da nient’altro che da questo sentimento… qualcosa che mi
punisce per la forza con cui voglio sentirmi libera, giorno dopo giorno, da anni e che mi mette in
catene, senza che possa scegliere diversamente, accompagnandomi da quando ho incontrato il tuo
sguardo.
Non saprei sganciarmi da questo incantesimo ma d’altra parte, rappresenti tutto quanto di meglio
possa desiderare e resti desiderio, passione, trasformandoti da Paradiso ad Inferno, a seconda delle
occasioni!
Catene nell’anima, quelle che mi hanno catturato e delle quali non ho modo né voglia di liberarmi,
per le quali e nessuno può comprendere, ti ringrazio. Resto libera di andare e di decidere la meta…
rendo conto a me stessa e decido cosa fare di me, se bere o meno troppo caffè, se alzare un po’ il
volume della musica – che scelgo io… – se continuare ad aspettarti, anche se so che non arriverai.
Schiava senza catene… libera di girare per il mondo, mentre il mondo gira intorno al tuo universo.
Ronni Corbari
Senza via d’uscita
Da settimane era ridotto così.
I posa ceneri sparsi per casa stracolmi di mozziconi
puzza di sudore e sporcizia.
Lei non era più sua
lui invece sì.
Lo aveva cambiato, migliorato, forse
e abbandonato, poi.
Lei non era più sua.
Vino scadente, acido come il suo alito
aspro come il suo sangue.
La morte doveva essere migliore.
Lui era ancora suo.
Da settimane non mangiava
non si lavava
beveva e basta senza riuscire a ubriacarsi.
La condanna delle condanne!
Lei non era più sua,
lui invece sì.
La debolezza: tema libero
Il titolo vi parrà strano e ancora più strana la spiegazione, ma vi è una logica a tutto, anche a questa
anomalia. Questa settimana i nostri autori hanno sì votato per il tema Debolezza, ma alla fine,
quando questo ha vinto, si sono chiesti che cosa potevano scrivere per non sbordare dal tema stesso
e così, vuoi per mancanza di idee, vuoi per dare un più ampio respiro a tutti, mi sono lasciata
cogliere dalla mia Debolezza e ho cercato di accontentare tutti, fornendo loro un jolly: il tema
libero. Dunque, per questa settimana, e solo per questa settimana, ognuno potrà scrivere quello che
vuole, mettendoci tutta la fantasia che è in grado di far scaturire dalle meningi.
Anna Cibotti
A chi non la conosce
Elegante e sobria
fine e ammiccante,
lei riempie le parole
di contenuta allegria.
Quel pungere sottile
che è appena un tocco,
apre labbra stirate
e visi scuri.
Aiuta a vivere le pene
se la possiedi.
Non è appariscente.
Né scurrile e ignorante.
E’ una distinta signora
spesso incompresa.
Il suo nome è ironia.
Monica Pasero
Brano tratto da “E come diceva sempre mia nonna”
Caro diario, finalmente posso scriverti. Anche oggi davanti alla lavagna mi sono bloccata, quasi
pietrificata di fronte allo sguardo della maestra, e non sono riuscita a spiccicare parola. Anche le
cose più semplici si sono confuse in un turbine di nozioni e il mio cervello è andato in tilt. Ti è mai
successo? Beh, a me capita spesso. E poi quelle fastidiose risatine simili a piccole punture di
zanzare, hai presente? Nel mio caso vengono fuori dalla bocca di chi ha tutto dalla vita e pensa che,
essendo nata in una condizione economica agiata, nel pacco dono ha l’intelligenza compresa e
inculcato nel cervello il “so-tutto-io”: un morbo che colpisce soprattutto i ceti alti della nostra
società che, potendosi comprare quasi tutto, pensano che anche il sapere sia inserito nella carta di
credito.
Etcì! Il morbo del “so-tutto-io”! Da quanto tempo è che non lo sentivo nominare! Lo avevo
inventato per appiopparlo a persone con la puzza sotto il naso e incapaci di amare. Chi è che nella
propria vita non ha conosciuto qualcuno colpito da questo morbo e meritevole di diventare un
ottimo bersaglio da prendere a torte in faccia? Beh, io la conoscevo una così: era una mia compagna
di scuola e si chiamava Amanda.
Caro diario, Amanda è insopportabile. Il suo nome è già sulla lista delle cocche della maestra. Poi,
come se non bastasse, lei ha tutto, ma proprio tutto: i boccoli più biondi, il nasino più all’insù, i due
più grandi e bei occhi verdi che io abbia mai visto. Anche Luigi, quando la vede, resta incantato e
diventa tutto rosso: mi sa che anche lui è innamorato, ma non di me. La verità a volte fa male, ma
lei è proprio bellissima a vedersi. Veste sempre secondo la moda e ogni giorno ha con sé una Barbie
diversa da abbinare ai vestiti, alle calze, alle scarpe, alle felpe e ai jeans, tutti rigorosamente firmati
Barbie.
Vidi dal baule spuntare la mia vecchia Barbie. Sorridendo mi ricordai che a quel tempo ero quasi
certa che Amanda avesse stipulato un contratto con la Mattel a scopo pubblicitario.
Caro diario, a me piacerebbe avere una Barbie, ma costa troppo; però ho una sua sosia, quasi bella
come quella vera. Nonna mi cuce i vestitini e io e Giorgia la facciamo sfilare e immaginiamo come
saremo da grandi.
Strinsi quel tesoro ritrovato al petto e una risata mi riportò indietro nel tempo: mi rividi giocare con
Giorgia. Certo la natura non era stata tanto buona con noi!
Eh sì, è proprio così: noi eravamo già sfigate in partenza e ora sono sicura che le modelle non
avremo potuto proprio farle. Non eravamo certo due fuscelli: al massimo due fustini formato
famiglia! Valentino e Armani non ci avrebbero mai preso in considerazione! Forse una Elena
Mirò… ma comunque avremmo avuto molte più possibilità di vincere alla lotteria!
Mi sa, caro diario, che non faremo mai le modelle: ad ogni modo non bisogna mai abbattersi ma, al
contrario, si deve guardare avanti! Come Amanda che, a furia di guardare avanti con il suo bel
nasino all’insù, un bel giorno inciampò e quel suo delizioso naso si ruppe. Non bisogna mai, e dico
mai, gioire sulle disgrazie altrui, chiaro? Almeno è quello che ripeto sempre ai miei figli, ma a quel
tempo ricordo che mi feci delle grasse risate per la sventura della mia compagna. Comunque, amico
diario, la sua linguaccia continuò a funzionare perfettamente e a sputare veleno su di me, sul mio
aspetto, come dire, poco in e molto out.
Amanda non sapeva che la vera bellezza fosse nell’anima, almeno così diceva don Mario. Poi
nonna a questo proposito aggiungeva sempre: ‘Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che
piace!’ Quante volte me lo ha detto e ripetuto! Anche perché non è sempre facile accettarsi e non lo
è nemmeno adesso.
Eh, l’aspetto fisico non è tutto nella vita, ma se ti manca sei fregata, e questo è un dato di fatto!
Allora bisogna correre ai ripari con la dieta! Niente cioccolato, niente pizza, niente patatine, niente
di niente. Ah! La mia prima dieta l’ho sperimentata in V elementare, quando la mia dolce maestra è
andata in pensione e al suo posto è arrivato una specie di “colonnello dell’esercito”, senz’altro
cresciuto in caserma. Capii che era una maestra dalla sua gonna a scacchi rossi e blu, perché il resto
della sua persona rendeva ambigua la sua identità. Mi ricordo che tutte le mattine, se nelle altre
classi era buona regola fare l’appello e recitare la preghiera, nella mia vigeva l’ispezione mattutina.
Tutta la classe era sugli attenti e un «Buongiorno, signora maestra!» usciva in coro tutto di un fiato.
Allora si procedeva con l’ispezione. Lei passava tra i banchi e nella mia testa si accavallavano mille
pensieri: ‘Mi sarò lavata bene i denti? Le unghie saranno ben pulite? Oh mamma! I capelli saranno
abbastanza in ordine?’
Ma le mie preoccupazioni erano immotivate perché l’unica cosa che lei notava erano i miei chili di
troppo e da allora i miei sacchetti di patatine al formaggio venivano regolarmente sequestrati dal
“colonnello” con la frase di circostanza che sentenziava: «È per il tuo bene.» Io credo che lei lo
facesse sul serio per il mio bene, ma solo ora che sequestro le patatine a mio figlio lo capisco. Come
mai le cose fatte per il proprio bene si comprendono solo quando le dobbiamo fare per qualcun
altro? In ogni modo mi ricordo che le patatine sparivano magicamente nella sua borsa nell’ora
dell’intervallo. Chissà se la maestra sapeva che l’abuso di potere e l’abuso di patatine possono
provocarti sia problemi legali che alle arterie? Questa fu la mia
prima dieta fallita, anche perché a casa non c’era nessuno che mi dicesse: «È per il tuo bene.»
Caro diario, da quando quell’antipatica della maestra mi ruba le patatine ho iniziato a sognarla.
Anche nei miei sogni si è andata a impicciare. I miei principi, le regine, i capitani e i folletti hanno
sempre lo stesso volto: quello della mia maestra che mi ruba qualunque cosa mi avvicino alla bocca.
Per mia fortuna la fine della V elementare è vicina.
La vecchia sedia scricchiolò e sgranchirmi le gambe mi sembrò un’ottima idea;…
e…
Caro Dio…
Caro Dio, stanotte non ho chiuso occhio e oggi per la prima volta da quando esisto, ho deciso di
scriverti una lettera un po’ stupida la cosa vero ? anche perché già tu conosci il contenuto e poi non
saprei dove spedirtela, diciamo che sul tuo indirizzo sei stato sempre un po’ troppo vago.
Comunque sai già, perché sono arrabbiata,mi conosci mi hai creata tu ,e se sono anche così cocciuta
e anche merito tuo. Io e te parliamo spesso insieme,anzi a dir la verità sono io che ti parlo e mi
lamento e a volte ti rompo tanto le scatole che se fossi umano mi avresti già mandato a quel paese,
ma tu non lo faresti mai e questo mi dà la certezza per continuare a rompertele ancora e ancora
finché tu mi darai vita per farlo e non è detto che non te le rompa anche personalmente un giorno.
Anche stanotte ne abbiamo parlato e ti ho chiesto il perché mi hai donato un cervello pensante e un
cuore ricco d’amore se poi avere queste due doti dà così tanto fastidio a chi ti adora molto di più di
me.
Ecco, Dio me la devi davvero spiegare questa cosa ,lo sai io e te abbiamo un rapporto speciale io mi
arrabbio, ti parlo , seguo in parte ciò che tu mi hai insegnato mi sei sempre stata vicino. Ricordi
Abele ?La sua prima risonanza io e te in quella sala d’aspetto un ora a sperare che non ci fosse
nulla, non mi hai mai mollata e io non mollerò te ,anche io sono stata al catechismo e alla messa alla
domenica per anni e anni, sono cresciuta in una famiglia atea, ma con una nonna cattolica che mi ha
insegnato quanto tu sia meraviglioso e anche io ho fatto un percorso cattolico, poi però maturando
ci sono cose che non mi sono piaciute e la mia libertà di pensiero si è ribellata a quegli schemi
innaturali per me.
E così ho voluto seguirti a modo mio nel modo migliore che io conosca “amandoti”
Io amo te e non il contorno e vedo davvero tanta ipocrisia e falsità nelle persone che per apparenza
seguono il tuo culto e quando escono dalla tua casa hanno un amnesia per una settima su ciò che
compete amare il prossimo e vivere nel tuo nome
Ecco io preferisco essere me stessa, folle forse, ma tu mi hai fatta così,un po’ fuori dagli schemi e
questa mia diversità a me piace un sacco, sai bene perché sono arrabbiata, perché la diversità di
pensiero spaventa.
I diversi spaventano, la massa unita si sente forte, ma se uno decide che forse per la sua indole non
ne vuol far parte ? Ecco il rispetto deve esserci per ogni Dio collega chiamiamoli cosi .
Io Dio credo che tu voglia il bene di ogni essere umano che sia esso Buddista, Mussulmano,
Induista, Evangelico o Cattolico oppure etero, omosessuale, lesbo… Io credo che tu sia il Dio
dell’amore universale che oltre a voler essere adorato vuoi veder amato il tuo popolo, per questo
Dio prima o poi dovrai dirmi perché non viene rispettata la mia diversità e quella di molti altri ?
Ora stamperò questa lettera la metterò in una busta chiusa e la donerò al vento, dato che tu non ti
decidi a mettere la posta elettronica che dopo 2000 anni e passa un aggiornamento lo dovresti pur
fare .Comunque so, che mi hai compresa ,sei l’ unico che può farlo
Ti abbraccio Dio, stammi vicino, tu che ami la mia folle diversità.
Tua Monica
Semplicemente Ciao
Ciao, io e te non ci incontreremo mai o forse un giorno ci vedremo per strada e tu eviterai il mio
sguardo abbassando la testa, oppure giocherellando con il cellulare o l ‘orologio farai finta di fare
qualcos’altro di molto importante, ma non mi guarderai negli occhi, forse mi darai una breve
occhiata per curiosità,soffermandoti a pensare quanto sei fortunato a non essere come me, può darsi
pure che dopo scuoterai la testa impietosendoti e farai un sorriso di circostanza a mia madre accanto
a me come per dire “Le sono vicino!”.
Proseguirai per la tua strada preso nei tuoi mille impegni , il mio ricordo svanirà prima che giri
l’angolo,di me non ti resterà più nulla, solo quella spiacevole sensazione che si sente quando per
sfortuna o per caso ci s’imbatte nella realtà dei diversi.
Per me sarà diverso, fermerò il mio cammino e tirando la camicia di mia madre chiederò chi sei?.
Lei mi dirà che non lo sa, che sei un signore che passava da quella strada ,ma io non mi
accontenterò e nella mia ossessione lo chiederò almeno altre 50 volte chi sei, fino a che, mia madre
esasperatati darà un nome,ma poi vorrò sapere dove andavi e perché mi hai guardato se poi non mi
hai nemmeno salutato? Così insisterò per la prossima ora con mia madre, chiedendo il perché tu
avessi agito così.
Alla fine mia madre mi dirà che eri di fretta e che la prossima volta mi saluterai. Tornerò a casa con
te in testa, pensando, ma dove doveva andare così di fretta per non potermi fare un saluto? Io in
fondo ho mosso per ben due volte la testa nella sua direzione ,io lo salutato!
Certo non ho detto “Ciao” perché quello lo dico solo a chi conosco bene come a mia sorella che
saluto ogni volta che mi passa davanti o mia mamma o mio papà li saluto sempre, a volte
s’arrabbiano perché dicono che basta una volta. Macché significa solo una volta? Appena li vedo
davanti li saluto, li conosco e li saluto,ma saluto anche gli estranei a mio modo, non sono
maleducato, mamma me l’ha insegnato da piccolo che si deve sempre salutare per educazione.
Finalmente arrivo a casa prendo il mio quaderno a quadretti e la mia penna nera,oggi farò un elenco
di nomi dei mie compagni di scuola, mi piace fare gli elenchi mi rilassa, mi mette in ordine le cose
che si accumulano nella mia testa, ho bisogno di ordine per stare bene.
Scrivo tutti i nomi dei miei compagni poi i miei professori poi mamma, papà, mia sorella ed io ed
infine nella lista metto Davide così si chiamava quel signore incontrato in quella strada stamani.
Mi rilasso, sorrido, ora posso proseguire la mia giornata. Penso che mi trasformerò,mi piace tanto
mascherami, nel mio armadio ho una scatola piena di costumi fin da quando ero piccolo, mamma li
vuole buttare, ma io non voglio e li tengo tutti nella scatola. Ogni giorno recito una parte, oggi mi
vestirò da Davide si dico sorridendo poi indosso la camicia quella della festa, poi prendo in prestito
la giacca di papà tanto lui non la usa mai. i jeans già c’è l’ho. Davide li aveva più scuri, ma
andranno bene pure questi credo.
Disegno un paio di baffi con il pennarello, mi guardo allo specchio sono soddisfatto, Beh ! ho gli
occhi nocciola io i suoi erano verdi, ma non posso colare gli occhi dico a me stesso.
Prendo il cellulare di mamma in mano, sono davvero uguale a Davide penso.
Ora recito nella mia stanza con i miei pupazzi che si trasformano in me e in mamma che
passeggiamo in centro come stamani.
Io sono Davide mi fermo e sorrido al pupazzo che impersona me, il pupazzo scuote la testa, mi sta
salutando io dico “Ciao Abele!”
il pupazzo mi risponde: “Ciao Davide!”
L’abbandono (estratto dal libro)
CAPITOLO PRIMO
Le scelte cambiano la tua vita e condizionano quella altrui.
A fatica il vecchio montò l’ultimo scalino in pietra.
“Sophie, sono io!” disse spalancando la porta del piccolo alloggio che si apriva su un modesto
cucinino. Come di consuetudine, ogni mattina l’uomo scendeva in paese dalla piccola frazione sita a
pochi chilometri di distanza, per fare alcuni acquisti, e non mancava giorno che non andasse a
portare alla piccola nipotina il latte fresco appena munto dalla sua vacca migliore.
Ormai era quasi passato un anno da quando suo figlio se n’era andato…
Giovanni era felicissimo di quella creatura, che aveva dato al vecchio una nuova energia, spenta
ormai da tempo dopo la prematura morte della moglie.
La bambina aveva riportato all’uomo la gioia di vivere, ma poi un giorno le cose erano cambiate e
un’amara sorpresa aveva colto impreparato il vecchio: Mario, il suo unico figlio, era fuggito,
abbandonando moglie e figlia al proprio destino. Aveva cercato di rintracciarlo, ma Mario, dal
giorno della sparizione, non aveva più dato notizie: né una lettera, né una telefonata. Così,
disperato, spendeva le ultime energie per stare accanto alla nuora e alla sua piccola.
La prima volta che il figlio gli portò in casa la giovane, d’origini francesi, lui si era subito
intenerito.
Era ancora una bambina. “È troppo giovane per te!” gli aveva detto in confidenza, ma il figlio,
innamorato perso di quella ragazza dai lineamenti delicati e dai grandi occhi scuri che spiccavano
sul viso quasi etereo, non aveva voluto sentire ragioni e poco tempo dopo la passione fra i due
giovani era sbocciata forte ed impetuosa portando a germogliare nel grembo di lei una nuova vita:
una figlia.
Si preparò il matrimonio il più velocemente possibile per evitare le malelingue, che a quell’epoca
erano molto più presenti che oggi. Allora una donna all’altare doveva essere pura come il suo abito,
ma Sophie quel giorno tra le pieghe dell’abito bianco celava un cuoricino che pulsava in attesa della
vita fuori dal suo grembo.
Sophie e Mario presero in affitto un piccolo alloggio. Era molto modesto, ma era il loro nido
d’amore e lui immaginava già di poterlo negli anni migliorare e forse un giorno avrebbero avuto
una casa tutta loro.
All’inizio le emozioni furono tante.
La letizia dell’unione e la nascita della piccola furono motivo di grande gioia, che purtroppo durò
poco, andando a calare quando i primi problemi iniziarono imponenti a sovrastare l’amore fra i due
sposi.
Mario perse il lavoro al cantiere, i soldi erano sempre meno e le responsabilità sempre di più.
Il giovane cadde in una forma di depressione, sconfitto dalle porte in faccia che ogni giorno
riceveva, dalle bollette non pagate che si accatastavano sul comò.
La disperazione del futuro e la pesantezza della responsabilità ebbero il sopravvento sull’uomo, che,
debole, trovò la strada più facile: si diede alla fuga.
Un mattino, senza una parola, se ne andò, lasciando sul tavolo della cucina gli ultimi soldi, procurati
attraverso la vendita dell’unico cimelio di famiglia che possedeva.
Giovanni aveva tentato di aiutarlo e in più di un’occasione gli aveva proposto di lavorare la terra
insieme con lui; ma lui, ragazzo orgoglioso, non aveva voluto arrendersi all’evidenza di non essere
in grado di mantenere la propria famiglia e per non dover vivere ogni giorno con quel senso
d’inadeguatezza li aveva abbandonati, con una scelta amara.
Nei paesi piccoli le voci correvano e in breve tempo la giovane sposa fu tempestata da sguardi
maliziosi. La gente l’osservava come se fosse stata lei a far fuggire il marito, la guardava male,
come una donna incapace di tenere il proprio uomo.
Solo Giovanni comprendeva il dolore di Sophie e la difendeva contro tutti a spada tratta ogni
qualvolta che qualche stolto sputava sentenze su di lei.
Sophie era grata al vecchio. L’amore per Mario era andato oltre e tutto ciò che credeva di costruire
con lui era sciolto come neve al sole. I suoi sogni di una vita normale, con un marito e una famiglia,
erano scomparsi e gli incubi avevano preso il loro posto.
Osservava la piccola Laura addormentata nel suo lettino e rifletteva, rifletteva e più pensava, più i
suoi pensieri diventavano demoni.
La sua mente non era lucida, l’abbandono dell’uomo che amava l’aveva portata all’esasperazione e,
dopo mesi in cui aveva indossato una maschera per cercare di ritrovare un briciolo di serenità,
dentro di lei radici di rancore e di rabbia germogliavano, come gramigna in un campo coltivato.
Più la piccola cresceva, più nei suoi occhi rivedeva quelli dell’uomo che l’aveva illusa
promettendole amore eterno e alla prima difficoltà l’aveva abbandonata.
Tutti quei pensieri e quei risentimenti s’impadronirono di lei e una sorta di follia prevaricò sulla
ragione. Più il tempo passava, più lei si convinceva della sua incapacità di essere una brava madre.
Quei pensieri presero sempre più piede nelle sue convinzioni e pian piano si insidiarono in lei come
radici; fino a che, dopo un’altra nottata d’incubi, la donna, spinta dalla follia, decise di abbandonare
la bambina.
Laura si agitava nel lettino in legno, scalciava e tentava di uscire. La donna guardò ancora una volta
la sua piccola e le pose accanto una cartolina con scritto il perché del suo abbandono.
Nadia Lattanzi
Debolezza
La debolezza più grande è quella di non saper ammettere i propri errori..senza i quali una storia non
sarebbe andata a puttane.
Luigi Bonzanini
L’attesa
Ogni mattina mi sveglio e guardo questo cielo ardente e immutabile.
Ce ne stiamo qui, perduti su questa spiaggia remota del tempo, in perenne attesa d’un qualche
mutamento che non arriva mai. Gli anni fuggono veloci come sabbia fra le dita , ma la redenzione
non viene. Un battito di ciglia fra nascita e morte, e poi il grande nulla ci divora. Nel frattempo, il
silenzio ci sfianca.
Angelo Francesco Anfuso
La debolezza dei sensi
Sfiorano le mie mani
il Tuo corpo ormai unto
di quel piacere
che man mano scivola
come docile bava
di un orgasmo assai precoce.
Le mie mani
sfiorano il tuo calore,
due misere foglie al vento
che vorrebbero afferrarti.
Non possono, sono atrofizzate,
gelide e contorte.
Il desiderio è forte,
si rende vano, impazzisce.
Svanisce nel tempo,
come nube al vento.
Sento il tuo profumo
mi stordisce solo l’idea.
Annuso, annuso, annuso,
ancora, sempre di più.
Ubriaco d’aroma,
la tua pelle è soave fragranza,
inebriante essenza per le mie narici.
Mi turba l’animo, e
Si indebolisce il mio odorato.
Sento la Tua brama,
piccolo eco che si dilegua all’orizzonte.
Armonia di sensi,
flebili vibrazioni
di sospiri e affanni
di un godimento
che non ha uguali.
La tua bocca, le tue labbra,
un ristoro per il mio canto.
Vorrei farla ancora mia
e vedere nei tuoi occhi
l’eterno tormento
di quel desiderio che si cela
e che fa fatica ad appagarsi.
La debolezza ci assale,
non si può sfuggire da essa:
ci appartiene, vive in noi.
Affannati e stanchi,
fissiamo l’orizzonte
in cui si disperde la nostra debolezza.
Irma Panova Maino
La forza delle donne deboli
Debolezza non è automaticamente sinonimo di inettitudine, di goffaggine o incapacità di affrontare
la vita, al contrario, l’essere deboli è spesso sintomo di forza e di carattere, per quanto questo possa
sembrare contraddittorio. In cosa consiste questa debolezza? Nell’essere sensibili e vulnerabili? Nel
sentire tutto il peso del mondo e non riuscire a sfoderare degli artigli degni di Wolverine? Ebbene,
care le mie signore, il sesso forte siamo noi e non, come normalmente viene definito, quello
maschile. Noi non dobbiamo dimostrare niente, non dobbiamo essere i “galli del pollaio”, non
dobbiamo essere virili e soprattutto non dobbiamo dare alcuna prova della nostra “mascolinità”.
Siamo donne. A noi è permesso piangere davanti a una scena commovente della commedia
romantica di turno, noi possiamo lasciarci andare in esternazioni isteriche, anche al momento più
inopportuno, noi possiamo passare ore a cercare di scegliere una maglietta rossa piuttosto che
bianca. E il tutto, quando proprio dobbiamo ricorrere a scusanti logiche, condendolo con la scusa
del ciclo… Possiamo dire “no” pensando invece a un sì e possiamo dire forse, quando in realtà
abbiamo ben chiaro quello che vogliamo. Esistono sicuramente situazioni in cui la vera debolezza
sta solo nel fisico, sicuramente non nella mente, un uomo è più forte di noi per una questione
evolutiva, ma l’avere un cervello e saperlo fare funzionare, può sopperire alla scarsità muscolare,
sempre che non decidiate di partecipare a Miss Universo, in versione femminile. Tuttavia, devo
mettervi sull’avviso per quel che riguarda tutta quella muscolatura “gonfiata”, per ottenere un simile
ammasso è spesso necessario “pomparlo” chimicamente, con il risultato che, dopo una certa età, il
fisico crolla, sbordando in ogni dove. Dunque lasciatevi andare alle lacrime, ai piagnistei e
all’autocommiserazione, non vi è alcuna vergogna in codesto sfogo, e dopo aver pianto le cascate
del Niagara, pensate a tutto quello che fate giornalmente, a tutte le incombenze che pendono sulle
vostre spalle e a tutte le responsabilità che, normalmente, siete costrette ad accollarvi, perché
femmine, e dopo che ne avrete fatto un lungo elenco, rendetevi davvero conto di chi è l’elemento
forte in una coppia. Ultimo esempio, che vale per tutto, noi mettiamo al mondo i figli e per quanto
si possa essere fortunate e aver partorito in quattro e quattr’otto, noi ci prendiamo l’onere di portarli
per nove mesi, con tutti i disagi che ne conseguono e di farli uscire da quel misero pertugio che,
incredibilmente, è in grado di produrre il miracolo. Allora siate donne, siate femmine deboli e fragili
fino in fondo e fate di questo la vostra forza!
Gabriele Palumbo
La resa
Mi sento stanco, dentro e fuori, la debolezza mi pervade…le gambe cedono, il fiato è corto, il cuore
batte lento e la testa è offuscata da mille dubbi e tristi pensieri…la testa, la mente, credo sia questa
l’origine della mia situazione, è tutta una questione psicologica…la mia reale debolezza è solo lì…
la mia forza esteriore è solo apparenza, la mia forza interiore è solo un’impressione…ma in realtà
non ho neanche più la forza di reggermi in piedi, la forza o la voglia…la voglia di andare avanti, di
guardare avanti…sono debole nel mio essere forte, debole nell’aspettarmi dagli altri ciò che io farei
per loro, debole nello sperare ancora in qualcosa o in qualcuno…tutto parte dalla testa e da lì si
dirige verso il basso passando per ogni parte del mio essere, se si pensa che non valga la pena di
fare niente allora anche la persona più forte può cedere con un leggero soffio di vento…e il mio
spirito stanco quando scende dal letto la mattina è già privo di energie…non ha più fiducia nel
futuro e attende quel soffio di vento…come ogni giorno, sperando che non lo faccia cedere…come
ogni giorno…
Rossana Roxie Lozzio
La tua bellezza
“Bello come il sole”, si usa dire quando
non si è in grado di definire nel dettaglio l’incanto della perfezione…
“Brilla di luce propria”, usiamo dire quando non ci riesce di definire la meraviglia suscitata da un
sorriso ammaliatore o dal suono di una voce suadente…
Tu, per me, sei questo e altro, tu sei oltre le parole più comuni e le banalità di questo mondo… per
esempio, potrei dire che sei il sole al tramonto, con i colori accesi e lo stupore dei colori trasparenti
di un arcobaleno dopo un temporale. Potrei dire che sei la pioggia timida di una giornata uggiosa e
lo schianto di un tuono, la forza prepotente di una grandinata che ti sorprende durante una gita
all’aperto, l’allegria di una maestosa festa di compleanno e la malinconia che ti aggredisce quando
finisce!
Ma tu sei veramente quanto di più simile alla perfezione conosca… sei il termine di paragone con
coloro che incontro e sei colui che vince tutti i confronti, ignaro di averli sostenuti, sei colui con cui
nessuno vorrebbe mai competere!
Insomma, non c’è termine che possa utilizzare per renderti abbastanza onore, non c’è testo di
canzone, poesia, aforisma… per quante ne potrei trovare, per quanto mi possa sbizzarrire, resti un
mondo e un universo da esplorare, vicino al mio cuore eppure tanto lontano.
Possa quel Dio che ti ha creato, dipingendoti con rara maestria e immensa generosità,
accompagnarti lungo il tuo cammino scapestrato e regalarmi la fortuna di poter continuare a godere
di te e la capacità di tenerti dentro l’anima per tutto il mio percorso terreno.
Sei un Luna Park
Amarti, è proprio come vivere all’interno di un Luna Park, giorno dopo giorno… ostinatamente,
perché potrei farne a meno e scegliere di farlo in qualsiasi momento, considerando che non fai parte
della mia vita e mai ne farai parte, se non perché ti sei insinuato nell’anima e lì, pari destinato a
rimanere per sempre. Invece, scelgo di frequentare questo bellissimo e amaro parco di divertimenti
e di usufruire di ogni tipo di attrazione, siano gratuite o a pagamento e sono libera di continuare a
strappare quel biglietto che mi consentirà di accedervi, perché dipende solo da me.
E’ come stare sulle MONTAGNE RUSSE… sfreccio a grande velocità, scendendo e risalendo di
continuo, preda delle vertigini di cui sono preda sin da bambina e non sorrido, perché ne ho paura
ma devo superarla, se voglio continuare a tenerti radicato dentro, come sembra sia destino.
Eccomi sulla grande RUOTA PANORAMICA… il magnifico panorama sei tu, quando posso
godere della tua bellezza e respirare la stessa aria che consumi mentre sorridi, parli, canti e racconti
di te ed io, non vorrei mai scendere ma piuttosto bloccarla e fare in modo di restare sospesa, così
come mi sento in quei preziosi momenti, godendo dell’incanto che rappresenti, accarezzata solo dal
leggero movimento del sedile, al quale resterei ancorata e dell’inconfondibile suono della tua voce.
Dimenticavo, l’AUTOSCONTRO… quel circuito ristretto nel quale tante piccole autovetture si
rincorrono e tentano di togliersi di mezzo, scontrandosi e tamponandosi! Ecco, mi vedo in una
situazione simile, ogni singola volta nella quale t’immagino con una donna… m’immedesimo in
una di quelle piccole macchine e provo a pensare a quanto sarebbe bello se riuscissi a mettermi in
competizione e a farle fuori, una dopo l’altra, fino a restare l’unica nel circuito della tua esistenza,
anche se significherebbe dovermi palesare.
Oddio, se intendessi esagerare, ci sarebbe un’altra attrazione, di questo incredibile Luna Park che
rappresenti, il TIRO A SEGNO… ma lì, ci sarebbero fucili ad aria compressa e addirittura bersagli
da colpire e da abbattere, per riuscire ad ottenere il premio in palio, che potresti essere tu, anche se
sono certa non ti piacerebbe essere considerato tale!
Posso fare a meno di citare la CASA DEGLI SPECCHI? Quel labirinto composto da specchi
deformanti, nei quali sei costretto a passeggiare, fra un corridoio e l’altro e a vederti come non
t’immagineresti nemmeno nei deliri dovuti agli stati febbrili più devastanti… ma è un paragone
molto azzeccato per il mondo nel quale mi fai vivere, da quando mi hai strappato il cuore. Non c’è
giorno uguale ad un altro, in cui mi veda nello stesso modo o più probabilmente, come sono, se ti
penso. La mia immagine è costantemente diversa, da esile si ingrandisce per poi ribaltarsi e
mostrare tutte le parti di me, dell’anima che mi appartiene ma che non sono quasi capace di
riconoscere… dopo tutto, ci sei tu, lì dentro ed io, non sarò mai capace di vedermi per quella che
sono, fino a quando mi sentirò incompleta, nella tua costante assenza!
Insomma, mio paradisiaco e meravigliosamente infernale, PARCO DI DIVERTIMENTI… amare
te, è come salire e scendere da ogni tipo di giostra e vivere tutte le emozioni che hanno il
sopravvento quando decidi di utilizzarle. Sei divertimento puro, ansia, paura, certezza che non ci
sarà futuro, mentre sei decisamente parte del mio passato e tutto il mio presente. Sei luce e rumore,
sei voglia di sorridere e di piangere, sei smania di arrivarci e dispiacere di andarsene.
Qualcosa difficile da spiegare, improbabile da credere, impossibile persino da immaginare… per gli
altri, che non comprendono cosa significhi per me.
Unico segreto che non so tenere dentro, svelato in ogni singola occasione, perché non vale la pena
fingere di essere diversa da come hai contribuito a rendermi… una donna equilibrata in tutto ciò che
vive, con tanti alti e bassi ma il più possibile coerente, tranne che per questo smisurato sentimento
che la lega all’incredibile uomo… del Luna Park!
Nadia Milone
Occhi
Lei osserva i suoi occhi in quella fotografia. Quello sguardo la cattura e la ipnotizza. Starebbe ore
ad osservare quell’aria malinconica dipinta sul suo volto, quell’espressione da cucciolo un po’ triste
che vorrebbe solo riuscire a coccolare e consolare. Non può fare a meno di pensare a quello sguardo
su di lei, che la cerca e che la vuole. Non ce la fa, proprio non riesce a resistergli. Forse non
dovrebbe, eppure non può fare a meno di lui. Lei dovrebbe essere forte e resistere a questa sua
debolezza, ma cede ogni volta e le piace.
Quegli occhi parlano, santo cielo! Ogni volta che li guarda, ne rimane incantata. Non esistono più
né i minuti né le ore, stregata da quello sguardo ammaliatore che la rapisce e la porta in un’altra
dimensione.
Lui è la sua debolezza e il suo peccato, quel confine che mai si dovrebbe superare, perché una volta
oltrepassato non si può più tornare indietro. Non riesce a controllarsi o ad essere indifferente, se lui
cade, lei cade con lui, quando percepisce la sua paura, anche lei ha paura. Riemergono ansie e
sicurezze dal passato che si placano soltanto con le sue parole.
Lei è debole, come una bambina, farebbe di tutto per averlo! Non c’è logica in questo, non esiste
più equilibrio nella sua mente.
Forse qualcuno potrebbe definirla follia, invece no, è soltanto una stupenda occasione della vita, un
fiore da cogliere prima che appassisca.
Ma lui è il più forte. Lei cede, lei lo cerca, lei lo vuole… Non ascolta niente e nessuno, dovrebbe
farsi desiderare, forse, corteggiare, ma non ce la fa ad aspettare, non gli resiste… L’istinto prevale
sulla ragione.
Ma questa sua debolezza la rende più forte nei confronti della vita, lei cede davanti a lui ma si sente
più sicura nell’affrontare il mondo che la circonda, vedendolo con occhi diversi, guardandolo
attraverso i suoi occhi.
Una favola
Di solito le favole cominciano con “c’era una volta…” e finiscono con “e vissero tutti felici e
contenti”, i ranocchi si trasformano in principi e i brutti anatroccoli si trasformano in cigni. Ma la
favola che vorrei raccontare ora è un po’ diversa. Non “c’era una volta” ma “c’è” una persona
stupenda che vive in un mondo sbagliato, un mondo fatto di tristezza e di paura, dove l’unico
castello di cristallo è situato in un luogo lontano e inaccessibile. In quel castello vive una
principessa che nient’altro vorrebbe se non vederlo sorridere. Ma non può, la sua magia scompare
davanti alla sua debolezza. Con ogni mezzo prova ad avvicinarlo, con ogni scusa a consolarlo, ma
più lei prova ad avvicinarsi, più lui si allontana. Lei vorrebbe essere in grado di colmare quel vuoto,
quella sua voragine interiore, ma il pensiero che proprio cercando di aiutarlo, forse, lo sta spingendo
ancor più nell’abisso la sconvolge. Non riesce a tirarlo fuori, non può… forse non è lei la
principessa che lui vuole, non è da lei che vuole essere aiutato. L’incantesimo funziona solo se
anche il ranocchio vuole essere baciato. Solo con la volontà potrà trasformarsi in principe. Se lui
non vuole, a niente servirà rincorrerlo, mai funzioneranno i baci della principessa su di lui.
La verità è che la vita non è una favola e quella principessa è solo una persona egoista. Rincorre un
sogno, vorrebbe baciare il suo principe e, pur rendendosi conto che forse gli sta facendo più male
che bene, non riesce a lasciarlo andare. Forse lui lo vorrebbe, forse sarebbe più felice, forse no…
Forse, più semplicemente, lui vuole continuare ad essere un ranocchio e il pensiero di trasformarsi
lo spaventa e lo blocca. Chi non ha paura davanti ad un cambiamento? La principessa lo deve
accettare, perché la realtà, purtroppo, è molto diversa dalla fantasia e la favola della vita non può
sempre finire con un “e vissero felici e contenti”, anzi, nel migliore dei casi finisce con “e
riuscirono a sopravvivere…”.
Ma questa principessa è cocciuta e testarda e non rinuncerà tanto facilmente. Cercherà con ogni
mezzo di far uscire il suo ranocchio dallo stagno, anche se lui cercherà di nascondersi e lo lascerà
andare solo quando lui le dirà chiaramente che preferisce l’acqua stagnante alla sua invadente
presenza. A pensarci bene, questa è una favola al contrario, perché non è il ranocchio ad aver
bisogno della principessa per trasformarsi, ma è la principessa ad approfittare di ciò che il ranocchio
le può dare.
Come finisce questa favola? Nel modo in cui finiscono le storie nella vita reale, la principessa
continuerà ad aspettare il suo principe che, forse, non arriverà mai e il ranocchio… beh, il ranocchio
prima o poi troverà la principessa giusta da cui farsi baciare, no? In fondo è un gran bel ranocchio e
riuscirà, prima o poi, a trasformarsi in un bellissimo principe.
Regina Re
Questione di punti
Il punto è quel piccolo essere che puntualizza, da solo può significare soltanto se stesso, vuole dire
che c’è qualcosa che esiste, magari puoi vederlo meglio con una lente di ingrandimento e scoprire
che ci sono miliardi di esseri in quel minuscolo contesto.
Il punto è anche la fine e il nulla dopo la fine o la fine del nulla e l’inizio di tutto, il punto è un neo
che ti caratterizza anche se non fa parte del tuo carattere. Il punto e i suoi simili insieme sono fiato
sospeso, sono spazio all’immaginazione, ti lasciano la piena libertà di continuare a respirare e la
possibilità di sognare per un istante…sino a quando le parole si impongono a riportarti alla vita
reale.
I punti non mi amano ed io li snobbo ma sono proprio le cose che non amo ad affascinarmi più delle
altre.
Troppo facile capire chi ti capisce…non hai proprio tanto da capire.
I punti di vista sono quelli più gettonati, ognuno reclama il suo perché con un microfono in mano si
ricorda che sa pensare e le luci puntate danno coraggio e, per un istante, c’è un momento da star per
tutti noi: “Vai, è il tuo momento, colpisci con il tuo talento!”.
Se hai cinque minuti di tempo per descrivere te stesso è come se avessi una pistola puntata alla
tempia, è una questione di vita o di morte, no…non puoi sbagliare altrimenti quei mille punti che ti
sei guadagnato con la tua voce studiata allo specchio e il tuo sguardo ammiccato…ahimè cadranno
miseramente come il tuo bel pantalone sopra quel calzino bianco.
Ma quando le luci si spengono il nero che circonda appare come una macchia infinita di
incalcolabili punti. E’ li che mi piace strisciare, nel silenzio dei presenti troppo presi ad ascoltare,
tra i loro calzini nascosti sotto i pantaloni, tra i completi intimi assolutamente fuori moda, tra fiori e
righe che ti farebbero inorridire…
Ma oggi chi si cura del tono? Ci si dà un tono ma i colori si lasciano al caso.
E’ un caso la moda perché anche se ne sei fuori ci rientri prima o poi, non buttare e non gettarti
perché anche il vecchio è sul mercato e qualcuno prima o poi può ripescarti. Eccola lì, me la ricordo
quella tipa in un’aula, quel giorno di prova davanti la telecamera. Vendersi in cinque minuti,
impresa assai ardua, c’è chi si prepara una vita e chi invece la vita se la prepara in cinque miseri
minuti.
Ciò che disse passò inosservato ma è ciò che fece che lasciò di sasso.
Il sasso è un punto forte che ti lascia un segno, sei stato colpito ma quando il tuo segno è sparito
arriva il momento di dare il benservito.
Ciò che fece quella tipa fu tutto ciò che non si doveva fare ma lo fece talmente bene che passò
quell’esame…
Un’opportunità all’orizzonte appare un sogno di fronte alle tante minacce , tra te e il sogno un
insieme di punti, alcuni li vedi perché sono forti, gli altri restano nell’ombra, silenziosi….nascosti…
La tua forza si misura in punti che nessuno ti dà alla cassa quando paghi…striscia dentro te stesso e,
alla fine, ti venderai.
Andrea Borrelli
Venticello
So‘ andato nel vento
sondato il piacere che provo
se detto che bello
son debole al piacere
che tira forte quello.
Di contro al fianco
poi fiacco lo incontro
so più potente io
che taglio lo spazio intorno
e giusto al gusto
rimango solo.
Cattiva è la brezza
che vien di tanto
in poco a farmi compagnia
la scia dagli alti cieli
ai bassi di mente mia.
Buio e Luce
Dopo aver divagato la settimana scorsa con la Debolezza e aver espresso dei temi, più o meno
liberi, questa settimana siamo tornati alla normalità e l’argomento più votato è stato Buio e Luce.
Suppongo che questo tema ispiri i nostri autori perché li porta verso un grado di introspezione, che
implica anche un pizzico di misticismo e soprattutto una buona dose di “illuminazione” mentale.
Molti stanno affrontando la questione nel suo dualismo, ponendo i due aspetti a confronto e dando a
ogni parte il suo giusto peso. Tuttavia, vi saranno delle sorprese e delle interpretazioni del tutto
diverse dal solito.
Nadia Milone
Avrei voluto essere luce
Io non so se a qualcuno sia mai capitato di trovarsi al buio. Completamente soli in una stanza vuota
e buia. Io ci ho provato, volevo capire cosa si provasse. Mi chiederete perché, forse. La risposta è
semplice, una stanza buia e vuota non è molto diversa da un’anima tormentata. Dopo un po’ ci si
abitua, si dice, perché ci si abitua sempre a tutto, ma non è così. Al buio ti prende il panico e
l’angoscia. Il fatto di essere solo ti destabilizza, perdi ogni punto di riferimento. Pagheresti per una
misera candela consumata. Perché il buio, a lungo andare, fa male, stanca gli occhi, che cercano di
vedere oltre, ma anche il cuore, che fatica a rassegnarsi a quella misera condizione. Ed è così che ho
capito cosa si prova. Non che di buio io non ne abbia visto, nella mia vita, non che non abbia
sofferto, ma so che c’è qualcuno che soffre come o, forse, più di me. E per quel qualcuno avrei
voluto essere una piccola luce, anche solo una debole fiammella che illuminasse un po’ le sue
giornate e tornasse a fargli risplendere sul volto un meraviglioso sorriso. Mi sono illusa di poter
essere la sua luce, anche solo per un momento, ho davvero creduto di potergli far capire che, alla
fine di ogni tempesta, arriva sempre un raggio di sole, pensavo di esserci riuscita. Invece no, a nulla
sono serviti i miei sforzi, a niente sono serviti amore e dolcezza. Amore, sì, lo dico. In fondo, che
male c’è? Non è forse l’amicizia, la più alta forma d’amore? E io volevo esserci, volevo fargli
sentire la mia presenza e il mio affetto. Volevo che vedesse la stessa luce che incominciavo ad
intravedere anch’io, quella minuscola speranza di poter essere felice nonostante tutto. Ma ahimè,
temo di non avercela fatta… mi sono illusa, ma la realtà ci sbatte in faccia le verità più crude senza
curarsi di far del male. Ed eccomi qui, a fare i conti con il presente e con quello che rimane dei miei
vani tentativi. Ho davvero sbagliato tutto? Forse gli ho fatto del male, invece che aiutarlo, ora non
lo so. Sono confusa e triste. Non c’è più tempo per le parole, non c’è più tempo per i rimpianti,
ormai… Il buio è tornato ad avvolgere il suo mondo, spegnendo definitivamente quella piccola
fiammella che avevo tentato di accendere. Le tenebre lo stanno portando via e io non posso far
niente per impedirlo. Non vuole più la mia luce, vuole rimanere chiuso nel suo mondo fatto di
dolore e rabbia. E così si spegnerà nuovamente anche la mia, di luce. Sarò anch’io di nuovo al buio.
Chiuderò le finestre, non entrerà più nemmeno un raggio di sole, qui. La mia luce se ne andrà
insieme alla sua, imprigionati in un mondo oscuro e tenebroso.
Ci sono volte, nella vita, nelle quali non si può far altro che arrendersi all’evidenza. Combatti,
piangi, stringi i denti, ma poi ti fermi e capisci che non serve a niente, capisci che è finita la
battaglia. Temo di aver perso… avrei voluto essere luce ma mi dovrò arrendere, e ritornare, da sola,
in un angolo nella mia stanza buia.
La mia stella
Il buio e la luce combattono costantemente tra di loro. Sono opposti ma l’uno non può fare a meno
dell’altra. Si rincorrono e si completano continuamente. Alla fine di ogni giorno, il sole viene
sostituito dall’oscurità della notte, ma anche quest’oscurità è rischiarata dalla luce delle stelle. Non
esiste buio senza luce ed io, anche se prigioniera della più oscura paura, cercando come posso di
scappare da ciò che mi tormenta, riesco ancora a scorgere una stella. La mia piccola stella che brilla
laggiù, lontana eppur vicina. Tutto intorno a me è buio e sono tentata di inseguire quella luce. Forse
sarà un sogno, un’illusione, forse domani non avrò più quella stella a rischiararmi la via, forse la sua
luce illuminerà la vita di qualcun altro, oppure arriverà il momento in cui anche il cielo, ormai
rassegnato, spegnerà tutte le stelle. Ma io continuerò ostinatamente a cercare la mia, anche quando
se ne sarà andata, anche quando sarà spenta. Io ho paura del buio, mi ha intrappolata per troppo
tempo.
Però so che quella non è la mia stella e, probabilmente, sta illuminando altre strade oltre alla mia. Il
cielo è di tutti e le stelle sono un dono per coloro che hanno bisogno di luce, forse… E così, un
giorno, anche la mia stella mi lascerà sola, ma per il momento non ce la faccio a rinunciarci, anche
se un po’ mi fa male pensare che illumina altre vite, mentre illumina la mia, mi dispiace pensare che
non sia soltanto la mia stella. Ma così è la vita, per ora mi voglio godere la sua luce, voglio che
riempia le mie giornate, i miei pensieri e i miei sogni, non sono ancora pronta a tornare al buio…
Nadia Lattanzi
Buio e luce
Il buio un abbraccio mancato, uno perso, qualcuno dimenticato..per poi sperare di ritrovare la luce,
almeno di se stessi e per sempre. Senza alti e bassi…senza sbalzi di tensione..senza continuamente
credere che quel buio non finirà mai. Accendere dentro se stessi la luce della speranza. Di un
domani diverso, di un giorno con due nuove braccia intorno..di un passato che è passato e che non
passa per sempre.
Andrea Leonelli
Cercando
vago nella luce
alla ricerca di un buio
meno abbagliante
ma rivelatore
vago nel buio
alla ricerca di una luce
che mi dia direzione
qualsiasi ma precisa
comunque vago
vagamente disperso
sapendo ciò che cerco
trovando ciò che penso
sentendo quel che amo
vagando nel tempo
che passa
che scorre
solo avanti
da luce a buio
da buio a luce
spaziando in penombre
in cui trovarsi
Irma Panova Maino
Scintillii di luce e ombre sulle lame
Molte sono le lame che baluginano nel buio. Alcune sono acuminate e fredde come rasoi,
squarciano le tenebre e raggiungono l’obbiettivo senza alcun preavviso, producendo ferite che
diventano subito infette. Altre ancora sono bisturi che spazzavano via il superfluo, lasciando la pelle
liscia e morbida, portando via tutto ciò che è inutile e futile, tutto ciò di cui potremmo fare
volentieri a meno. Tuttavia, quelle che lasciano i solchi più profondi, sono quelle che vengono
impugnate da chi ci è più vicino e poco importa se vengono usate a fin di bene e se chi le usa pensa
di offrire un servizio. In realtà fanno male, tanto e più dei coltelli estranei e dei pugnali
professionali, esibiti da chi, giornalmente, ne fa uso. Quella luce, che fa scintillare le lame, diventa
ancora più inquietante se prodotta da una mano amica, ancora più sinistra se fatta lampeggiare da
una persona che normalmente ci sta alle spalle, perché degna della fiducia di occupare tale posto.
Ebbene, a chi non è mai successo di impugnare tale lama? Di infliggere involontariamente quel
dolore che, nella carne spezzata, diventa subito putrescente e maleodorante? Chi non si è mai
trovato dalla parte dell’aguzzino, suo malgrado, diventando il carnefice delle speranze e dei sogni
altrui? E nonostante questo, quella stessa lama che s’insinua nella carne amata, non fa dolere anche
noi? Non rende sanguinanti anche i nostri cuori? Siamo vittime del nostro altruismo, dell’ingenuità
o della stupidità di un momento. Ma essere altrettanto vittime, ci rende meno colpevoli?
Regina Re
Click
Paura e sicurezza, paura della sicurezza, la sicurezza di aver paura
Alternanza di luci e ombre, click, sbattere ciglia, click, fotografia
Immagini impresse , luce e contorni scavati nel buio
Camera oscura, nuda, lasciati andare
Scatola chiusa, lasciami entrare
perché io rovesci il mondo, fuoco sei occhio
la distanza non conta e fisso su di te le mie mani
e ti imprimo perché tu possa ammirarti
e il tuo ricordo ritrovarsi nei miei sguardi
Gabriele Palumbo
Come Luce
Quando ho visto i tuoi occhi, sempre così luminosi, diventare tristi e spenti mi è sembrato come
quando uno spiffero d’aria spegne la fiamma di una candela, lasciando il posto ad una grigia scia di
fumo…mi è sembrato come quando finisce la legna nel camino e il fuoco smette di ardere lasciando
la stanza fredda e buia…quando ho visto il tuo sorriso, sempre così brillante, diventare spento e
triste mi è sembrato come quando un bambino rimane nei suoi immaginari incubi creati dalle
tenebre quando la madre spegne la luce della sua cameretta…mi è sembrato come quando alla luce
abbagliante di un fulmine segue il buio più totale, rendendo desolata anche la strada più viva…io
amo vivere di giorno, ma amo anche la quiete dell’oscurità…così come amo viverti nei tuoi
momenti di luce, ma anche in quelli in cui la tua luce è più offuscata…
Maurizio Donte
Della fiamma, dell’amore
Conosci la fiamma?
Puoi dire di cosa è fatta?
Qual è la sua natura?
…Arde, scalda, risplende…
si consuma…si spegne,
muore in un sottile filo
di fumo serpentino,
dal noto profumo di chiesa.
Mi abbaglia quella fiamma,
mi ipnotizza il suo sinuoso
muoversi nell’aria.
S’agita,
come la flebile speranza;
trema, dinanzi all’ignota
risposta che verrà…
-risposta che già conosco.Ti vedo amore, mentre la sera
si consuma lenta, come la candela spenta
profumata di viola, che hai davanti.
Ti vedo in trasparenza:
notturna farfalla che voli
e posi di lume in lume.
T’avvolge la fiamma
e risplendi, nel tuo perpetuo dire.
Solo il mio pensare ha sfiorato
la tua pelle.
Ti ascolto, inebriato dall’odore fresco
della notte, illuminata da fiaccole ardenti,
dai miei desideri frementi…
inespressi, come sempre,
è con te il mio non dire.
Si alza il vento e più veloce
arde il tempo e la candela:
misuro ogni tuo passo,
assecondo i tuoi gesti,
centellino gli attimi, i secondi
che nella mente mi regali…
Sgocciola la cera dal vetro diafano
ed io raduno parole sulla mano
da offrirti, parole lontane,
che vengono da luoghi remoti
della mia coscienza.
Sogno, quando si tratta di te,
lo so, non sono in me…
ma cavalco in luoghi splendenti
nelle luci ardenti che generi,
nel mio sentire.
Ma non so cos’è l’intima essenza
dell’inafferrabile fiamma
che arde dentro di me
quella luce che temo di toccare,
allungando le dita.
Vedo, attraverso il loro tremare caldo,
te con un uomo, e poi con molti altri…
E in questo sogno che è realtà
mi dibatto…
m’intrappolano le ragnatele
delle mie ragioni,
che nelle soffitte dell’anima
occupano gli angoli bui,
nascosti alla luce,
alla verità che mi renderebbe vero.
Ti vedo, in un tremare di fiamme,
al di là del vento e del male che sento:
capelli rossi, che incorniciano il tuo viso,
e rossi coralli dischiusi,
sono le tue labbra, donna!
Sorridi e s’increspano i pensieri,
in onde marine, dal profumo d’estate.
Note infrante sugli scogli
della riva.
Ma tu non vedi, oltre il calore,
rimani fredda, determinata,
nei tuoi chiusi pensieri,
dominati dai no di ieri,
pensando ad un avvenire
ripiegato sul passato.
Fermo e a me negato.
Mi sfugge di questa fiamma,
il significato
e il senso dell’amore.
Quando l’autunno
Quando l’autunno bussa alle porte
ritira le foglie dagli alberi freddi.
Morti passi fruscianti sul rosso
tappeto, sfioriscono in mari di nebbia.
Dissolvi il pensiero doloroso e muto,
scende l’amore nella sua terra buia.
Svanisce il pensiero di te, poi torna
e bussa alla porta.
Non ho cuore di lasciarlo solo
d’inverno.
Rossana Roxie Lozzio
Estratto da “L’angolo delle fragole”
“Abbiamo dovuto indurre un coma farmacologico, signora Monti…”. Doveva essere uno di quei
medici che gli gravitavano intorno a stare parlando, mentre cercava di capire come fosse possibile
sentirsi in quello stato. Era come se stesse fluttuando nell’aria e avere l’intera visuale della stanza
dove si trovavano sembrava così semplice… e poi, si sentiva così straordinariamente in pace con se
stesso e con il resto del mondo! Così sereno, da non provare la benché minima paura, sentendo quei
medici annunciare alle sue sorelle che il trauma cranico li aveva costretti a causargli
farmacologicamente quello che definivano coma e che a lui sembrava uno stato meraviglioso
composto di sole sensazioni benefiche e meravigliose. Desiderò non ascoltare più nulla ma fu
attratto dalle espressioni affrante dipinte sui volti delle due sorelle, che invece stavano ascoltando il
medico con trepidazione e si dispiacque per loro.
Avrebbe voluto poter comunicare a tutti che stava bene e che preoccuparsi per lui, in quel momento,
sarebbe stato inutile e sciocco… ma non riusciva a convogliare niente di quanto stava pensando alle
labbra che rimasero ostinatamente chiuse.
Si osservò dalla posizione in cui stava, senza capire dove fosse esattamente e cosa fosse a guardare
il suo corpo e tutto quanto fosse in quella stanza. in sostituzione ai suoi occhi… altrettanto chiusi.
Comprese che costava troppa fatica costringersi ad usare il corpo e fluttuando nuovamente nell’aria,
fu attratto da una luce abbagliante… una luce della quale doveva aver sentito parlare spesso,
durante il suo percorso terreno ma che lo attrasse più del desiderio di rientrare nel corpo.
L’attraversò, completamente a suo agio, fino a quando non gli parve di scorgere la figura di una
persona venirgli incontro e fargli cenno di non continuare.
Non aveva voglia di fermarsi e non lo fece, fino a quando quella figura si delineò e si tramutò
nell’immagine di quello che era stato il corpo terreno di Giulia. La sua Giulia… non ebbe alcun
dubbio.
Gli fece nuovamente cenno di non proseguire e questa volta, le diede ascolto, ritrovandosela di
fronte. Impalpabile ma bella… esattamente come la ricordava.
“Non sei qui per questo, hai ancora molto da fare laggiù…”. Gli comunicò, in quella sorta di
ambiente ovattato e privo di qualsiasi rumore fastidioso, di dolore, di sensazioni sgradevoli. “Stai
commettendo un errore dietro l’altro, Alessio… non ti si può lasciare solo!”. Aggiunse, in un
amorevole rimprovero.
“Ma è così che mi sento, da quando ti ho perso… solo”. Sentenziò, abbandonandosi alla gioia che
stava provando nel trovarsi in quel luogo, colmo solo della sua presenza.
“Devi tornare in quel letto e quando ti sveglieranno, dovrai tornare a combattere…”. Gli suggerì,
con un’espressione soave. “Hai molto per cui continuare a vivere, una donna che ti ama quanto me,
forse, di più… che ti accompagnerà fino al giorno in cui potrai varcare questa soglia e la figlia che ti
ha dato, una bambina fantastica, che vi darà enormi soddisfazioni”.
“Non credo di volerlo”. Alessio sentiva che sarebbe stato tutto ciò che in quel momento non
desiderava… che sarebbe stato doloroso, soprattutto, dopo averla ritrovata.
“Ma non dipende da te”. Gli rivelò, rincuorandolo con un sorriso che gli rammentò quanto gli fosse
mancato insieme a tutte le cose vissute insieme. “Sappi che sono orgogliosa di quello che stai
facendo con la tua musica ma che vorrei esserlo altrettanto, di te come persona… vorrei che fossi
felice come meriti e che aprissi il tuo cuore a quella donna meravigliosa che hai fatto soffrire
abbastanza. Non rendere vana la mia scomparsa… non mi deludere”.
“Non voglio deluderti, voglio restare qui con te”. Alessio si accorse che qualcosa stava mutando, in
quella stranissima situazione e comprese immediatamente che si avviava verso la strada del ritorno,
nonostante non lo desiderasse. “Giulia, non so più vivere…”.
“Devi vivere e prova a farlo, anche per me”. Sorrise, mentre l’immagine del suo volto ricominciava
a sfumare e si allontanava, per rientrare a fare parte del mondo magnifico dal quale si era affacciata
per tentare di aiutarlo ad affrontare quello che lo aspettava. “Dille che si sbaglia, se crede di non
essere arrivata al tuo cuore… dille che soffrivi e che non sei riuscito a proteggerla dalle paure che ti
toglievano il fiato! Amala senza riserve… e non avere paura”.
Non avere paura…, quelle ultime parole lo accompagnarono, mentre rientrava in quel corpo disteso
nel letto da cui aveva creduto di staccarsi per sempre e quando comprese di non essersi mai
veramente andato dalla stanza, fu attratto da qualcuno che non era stato presente qualche istante
prima.
Accanto alle sue sorelle, al posto dei medici che aveva sentito discutere del suo coma, al di là dello
stesso vetro che li separava dal letto nel quale giaceva, riconobbe Javier Miguel. Aveva
un’espressione contrita dipinta sul viso e le mani ancora sporche del sangue che aveva perso quando
aveva sbattuto la testa sulla ringhiera in fondo a quelle scale, in albergo, dato che lo aveva soccorso
per primo.
Appariva sconvolto e gli fece compassione, mentre avvertiva le angosce dalle quali aveva creduto
di potersi allontanare tornare a riappropriarsi di lui e desiderò di nuovo raggiungere la luce dalla
quale Giulia, con il suo meraviglioso sorriso, lo aveva fatto uscire troppo in fretta.
“Andate a rifocillarvi, resto io…”. Javier Miguel si rivolse alle sorelle di Alessio, impietrite, dietro
al vetro che li separava dalla camera sterile nella quale era stato portato il fratello, dopo le prime
cure alla lesione riportata nel punto della testa che aveva picchiato durante la caduta. “Vi avviso
subito, in caso di novità”. Loro si guardarono, prima di guardare lui, smarrite. “Non partirò, per
ora”. Aggiunse, indicando loro il poliziotto che li aveva raggiunti in ospedale, al quale aveva
raccontato come si erano svolti i fatti. “Avete sentito com’è andata, voglio sperare che mi crediate, è
stato un incidente…”.
“Gli avrò detto mille volte di indossare scarpe più sicure…”. Mormorò, una di loro, emettendo un
sospiro sonoro. “Saranno anche moderne ma sono pericolose…”.
M’illumino di te
E’ buio, tutto intorno e spesso accade all’improvviso, come si spegnesse l’universo intero. Mi
sembra che tutto scorra e probabilmente, è così ma scende comunque il buio ed è come se i miei
occhi si chiudessero, per rifiutare una realtà che conosco e che non so se sto riuscendo a combattere
né se abbia mai avuto voglia di farlo.
E’ buio, perché ho sogni e desideri convogliati in una direzione e sono in viaggio da tempo, molto,
forse, troppo… e mai raggiungo quell’agognata meta che mi fa paura. Non è l’ignoto ad indurmi a
tremare, piuttosto la certezza di quanto troverei, una volta giunta a destinazione. Un gesto, una
parola, un atteggiamento che potrebbero tramutarsi in delusione. Un rifiuto fermo e gentile, magari,
disegnato sulle labbra perfette di quel volto che rifletto su quelli degli uomini che incontro ma che
dovrebbe cortesemente porre la parola fine ad un film che mi accompagna da quando è iniziato il
viaggio.
E’ buio fino a quando ti raggiungo e sono indotta a riaprire gli occhi per fermarmi ad una tappa,
lungo la strada infinita, che mi regalerà la magica visione di te, della tua essenza, di quel corpo
magnifico che contiene un’anima contorta… ed ogni volta, è come ricaricare le batterie, come
sentire la musica che compongono le dita delle tue mani ipoteticamente posate sui tasti di tutti i
miei sensi, come recuperare l’energia per ritrovarmi pronta a partire. Stessa destinazione, stesso
timore, stessa maledetta speranza che possa imbattermi in un finale diverso… ma intanto, mentre mi
ritrovo di fronte a te, mi accorgo che il buio è scomparso e che tutto intorno, è luce abbagliante. La
sconfinata notte che mi inghiotte spesso, nonostante sia giorno, termina in quel preciso istante…
quasi come fossi il faro che mi orienta, che anche da lontano e nelle acque più cupe ed agitate, mi
indica di aver raggiunto la meta e che m’impone di fermarmi.
Ti sto di fronte, mio immenso passato, mio straordinario presente, mio incredibile futuro… ed è
gioia pura, è sentire di essere completa, è il desiderio di godere della vita, è entrare in una vasta
dimensione che mi regala magia senza cancellare il disincanto e mentre mi domando per quanto
durerà, comprendo che non importa e m’illumino di te.
Riemergo dal tunnel
Disorientata da tanta luce, mi domando se non sarebbe più prudente continuare a camminare nel
buio che mi appartiene e che mi avvolge nella quotidianità… ma conosco la risposta alla domanda
che mi sono posta tutte le volte che ho dovuto chiudere la breve parentesi in cui mi ci sono ritrovata
immersa, per ritornare ad essere inghiottita dal lungo tunnel denominato “vita orfana di te”.
Ciò nonostante, preferisco sbandare per pochi istanti, quasi accecata da quel magnifico bagliore che
rappresenti, piuttosto che ignorare la miriade di sensazioni che mi regali. Tutto avrebbe un sapore
differente, infatti, se non potessi attendere di catapultarmi in quelle rare e luccicanti parentesi, per
smettere di fingere di essere la donna che non sono e che riemerge solo quando ti riesco a
respirare… la donna che si sente completa e presente totalmente a se stessa, sebbene confusa da una
luce intensa a cui non giunge mai abbastanza preparata, che fuori esce dal rumore assordante della
tua assenza fosca e tormentosa e finalmente, ride di cuore, dimentica il dolore, si lascia andare!
E’ un tunnel apparentemente interminabile e buio, quello che attraverso da anni, che mi culla e mi
avvolge, al quale ho fatto l’abitudine e vale la pena vagarci, perché so che esisti, sei da qualche
parte, là dove intravvedo uno scorcio luminoso che mi indicherà l’uscita per l’inedita parentesi che
rivivrò al tuo cospetto, confusa e sorridente… come quando ero bambina.
Federico Cervigni
Il pianista che non suonava i tasti neri
Era un pianista d’eccezione
ma non aveva un cuor di leone.
Nell'auditorium erano tutti stanchi:
“perché suoni solo i tasti bianchi?”
“La notte porta brutti pensieri,
non voglio toccarli i tasti neri!
La notte è brutta, fa paura,
suono senza parte scura!”
Un Maestro, lì tra la gente,
lo trovò molto divertente:
“che paura vuoi che abbia un artista?
o suoni tutti i tasti o non sei un pianista.”
Ed un altro spazientito
gli puntò contro il suo dito:
“se ne vada per piacere
questo qui non è suonare!”
E fu allora che sul palco
un altro pianista si fiondò come un falco.
“caro collega, di qui si sposti,
io si che suono tutti i tasti”.
Fu un tripudio, un’ovazione,
bella musica e tanta emozione.
Mentre il pianista che del buio aveva paura
messo da parte, imparò una lezione dura:
“non ho nemmeno finito il saggio
per la mia mancanza di coraggio”.
E solo allora capì in modo atroce,
che senza il buio no, non c’è la luce.
Andrea Borrelli
In altro modo
Seduta stante nella mente
di colpo assente.
Sete sente e siete
stessi i sessi
siate certi
sempre persi.
Nelle teste si veste
Dio senza feste.
Alle luci spente
di stelle che vagano
da il sole lontano dalla sera:
“Non ha senso il bagliore
se non esiste la notte”.
Mezzanotte
Il buio ora lo vedo
mentre di nuovo
la luce mi acceca
e nel vecchio
non sento più niente.
Ascolto l’ oscurità
mi è ancora amica
un’ altra ora passerò
non stanco mai
insieme a lei.
Che mi guidi finalmente
dentro un tempo
mi assicuri sempre
il colore scuro di notte
perché non ho sonno.
Barbara Villa Mastropierro
Io ho paura del buio
Il buio mi ha sempre fatto paura. Da bambina, per esempio: mi portavano a letto e dopo la favola e i
baci della buonanotte, cadevano copiose come carezze, le raccomandazioni di dormire serena e fare
tanti bei sogni. Nel momento in cui calava il buio, restavo immobile per un tempo indefinito, a
fissare il soffitto. Sotto di me, qualcosa però si muoveva: rumori sordi e ombre inquietanti.
Venivano fuori animali spaventosi. Non solo. Dalla finestra ai piedi del letto, s’affacciava il volto
crespo di rughe e sdentato della vecchina del piano di sotto, che mi terrorizzava ogni volta che
attraversavo le scale per rientrare a casa.
Il buio nascondeva, nasconde. Nel buio avevo sempre la sensazione che potesse succedermi
qualcosa di brutto. Dal buio uscivano due mani che mi afferravano e mi portavano all’interno di
quel buco nero che odiavo tanto.
Il buio non mi piace. Non mi racconta di lunghi viaggi o di amori segreti. Non mi fa vedere i colori
dell’arcobaleno e dei fiori. Ho la sensazione che spenga il mondo. Mi lascia nel dubbio di non
sapere cosa sta per accadere e solitamente i miei pensieri arrivano a pensare alle cose più brutte.
Il buio, in quel vicolo, ha creato e coperto mostri che hanno spento i sorrisi di ragazze bellissime,
distrutto l’innocenza dei bambini e organizzato rapine,omicidi [….]
E’ proprio cosi: Il buio spegne il mondo.
Elena Grifoni
La Musicista
La sala era gremita. Il teatro era di quelli vecchio stile, con un’ampia platea e dove i palchi,
finemente decorati in rosso e oro, giravano su due piani tutto intorno al palcoscenico. I biglietti per
quel concerto erano esauriti già da tempo, ma una piccola folla, ordinata in fila indiana, aspettava
pazientemente davanti alla biglietteria nel caso qualcuno non si fosse presentato o nella speranza
che, facendo uno strappo alla regola, la direzione ammettesse anche posti in piedi. In città non si era
mai visto niente di simile: persone di tutte le età, dai bambini agli anziani, venuti da ogni dove per
ascoltare lei, e solo lei, vera stella di quell’evento. Dietro le quinte il presentatore nervoso
percorreva avanti e indietro a grandi passi il palco in tutta la sua lunghezza aprendo, di tanto in
tanto, piccoli spiragli nel sipario da dove spiava gruppi sempre più numerosi di persone prendere
posto in platea e sistemarsi nei palchi già tutti occupati, eccezion fatta per quello d’onore, riservato
alle autorità, che a loro volta si riservavano il diritto di arrivare all’ultimo minuto. Il povero
presentatore aveva anche un altro motivo per essere nervoso: la star della serata non era ancora
arrivata. Dietro le quinte fervevano gli ultimi preparativi. Ogni solista accordava o provava il
proprio strumento e la piccola orchestra, sistemata sopra un palco rialzato sul lato sinistro del
palcoscenico, rivedeva per l’ennesima volta la scaletta dei brani in programma. Poi, finalmente, lei
arrivò. Sembrava ancora più minuta, infagottata nel cappotto che le arrivava fino ai piedi mentre un
berretto di lana copriva i capelli biondo rame. Era accompagnata come sempre dalla sorella, che
oltre ad essere sua manager era anche la sua migliore amica e confidente. Quando entrò nei
camerini il suo ingresso fu seguito da un attimo di silenzio, poi l’intero gruppo di artisti la accolse
con un collettivo respiro di sollievo e qualche risatina nervosa. Il tempo stringeva e l’ora di inizio
dello spettacolo era ormai passata da un pezzo, ma visto che gli spettatori erano ancora intenti a
sistemarsi all’interno del teatro nessuno fece caso a quel ritardo. Il presentatore sbirciò ancora una
volta la sala dal sipario chiuso; tutti erano seduti ai loro posti e il teatro risuonava di quel brusio
tipico dei posti affollati fatto di cappotti che si piegano, scarpe che strusciano sul pavimento, voci
che si rincorrono e mani che rovistano nelle borsette. Le luci si affievolirono, poi si spensero per tre
volte annunciando l’inizio imminente dello spettacolo. Il brusio si attenuò. Poi il buio. E insieme al
buio calò anche il silenzio. In quell’interminabile minuto che impiegò il sipario ad alzarsi, la sala
rimase immersa nell’oscurità rischiarata solamente dalle lucine poste in terra lungo il corridoio e
dalle luci verde sbiadito delle uscite di sicurezza. Poi, un occhio di bue la illuminò: ed eccola lì,
quella bambina prodigio di soli dieci anni, in piedi compita al centro del palco, con in mano il suo
strumento, un fiocco blu a scostare dal volto i lunghi capelli e un vestito bianco che sembrava una
nuvola vaporosa.
Il presentatore non fece alcun annuncio, lei non aveva bisogno di presentazioni; la sua musica, il
suo talento e la sua giovane età l’avevano resa famosa in tutto il mondo.
Fece un piccolo inchino al suo pubblico, si girò verso l’orchestra e con un cenno lieve del capo
diede il segnale d’inizio. Gli orchestrali intonarono le note della sinfonia da lei stessa composta; alla
quarta battuta la piccola sollevò il suo flauto traverso e iniziò anche lei a suonare. La melodia
pervase la sala come una lieve brezza di primavera e come per magia sembrò risvegliare, in ognuno
dei presenti, ricordi di giorni spensierati, echi di sogni mai abbandonati e speranze sopite. Era
quello il vero segreto della sua musica. Per qualche strana ragione era come se quei dolci suoni,
quel rincorrersi di note e pause e quegli accordi parlassero ai cuori di chi li ascoltava risvegliando
emozioni, riaccendendo speranze e ridonando la voglia di vivere. Quella bambina, immersa nel
cono di luce dell’occhio di bue, irradiava e illuminava con la luce della sua musica l’anima dei suoi
ascoltatori. Poi, dolcemente come era iniziata la melodia terminò e quella lieve brezza cessò si
soffiare sulla sala. Lei abbassò il suo flauto e volse lo sguardo all’orchestra mentre questa finiva di
suonare gli accordi conclusivi della sinfonia. Poi, di nuovo, il silenzio. La piccola musicista, seria e
compita, fece un inchino al suo pubblico; la luce si spense, la sala rimase al buio e in silenzio per
qualche secondo; silenzio che fu infranto da un fragoroso e interminabile applauso.
Elisabetta Bagli
Le tue labbra
Ruberò le tue labbra ogni notte.
Scenderà il buio e mi avvicinerò a te
per strapparti il brivido sulla schiena,
per vivere e morire su di te.
Mi arrenderò al tuo fuoco ogni notte.
Come oro mi fonderò su di te,
sulle tue labbra, luce e destino delle mie,
stazione finale della mia voglia di te.
Monica Pasero
Luce
Luce l’ incanto dei sensi
Luce che sai aprire le menti
Luce che illumini il falso dal vero
Luce che guidi solo il sincero
Luce che accogli amori lontani
Luce che stringi sentieri di mani
Luce che uccidi la paura e la morte
Luce che guidi l’amor e la sorte.
Ti dipinsi nel quadro della mia vita
Ti dipinsi nel quadro della mia vita
Utilizzai colori
tenui come la tua anima
accennai il verde dei tuoi occhi
per non scordar mai ,come tu mi guardi
di rosso tinsi il tuo cuore,come la passione che si cela
nel mio nome
azzurra la tua luce che si specchia nei miei occhi
dipinsi gocce di colore, che fluide
scivolarono sula tela
creando l’uomo che sei
nella sua incredibile imperfezione
unico immenso e vitale
affiori in questo tingersi d’emozioni
rendendo questo quadro
vita per i mie occhi
Massimiliano Cara
Luce nel calore
Sono la luce e sono la tenebra. Posso portare la gioia ma anche seminare il sentore della
putrefazione. Sono in grado di far scorrere sangue caldo nelle tue vene inaridite.
Ma devi anche sapere che posso tagliarti la gola e sorriderti mentre quello stesso sangue si gela e si
perde per sempre. Passo possente al tuo cospetto che sei testa di scopa. La mia essenza è luce nel
calore. La mia essenza è una turbe fredda dove la mancanza di luce nutre l’arcano oscuro desiderio
dell’immortalità.
Anna Cibotti
Senza penombra
E’ buio intorno alle facce indifferenti
della massa informe
di uomini
randagi come cani
senza fame
in cerca di prede
da sbranare
per puro istinto.
La notte senza luna accoglie
nel suo nero infinito,
le loro anime erranti
e i ciechi cervelli.
Nessun spiraglio aperto
per chi vederlo,
non vuole e non crede
ci sia.
Amano l’oscurità che nasconde
i loro peccati.
Il loro essere niente
e soli.
Uomini senza ombra.
perché senza sole.
Ma dopo ogni notte
l’alba.
Luce che fende la nebbia.
Faro delle umane speranze.
Tommaso Occhiogrosso
Tra buio e luce, preferisco gli infrarossi!
Tutto a un tratto, mi ritrovo a fare i conti col futuro: è di quelle occasioni nelle quali sollevi sempre
un po’ la testa, cercando più in alto delle tue possibilità, una risposta per una domanda nemmeno
tanto ben definita.
Chissà per quale strana associazione di idee, ripenso ai miei anni in seminario.
Erano giorni quelli, nei quali “farò”, “sarò”, “diventerò”, erano tempi talmente presenti nelle
volontà, che ci scordavamo persino che giorno fosse quello che stavamo vivendo. Nelle
chiacchierate con gli amici, sognavamo uno spazio ipotetico nel quale realizzare forme future a
nostra immagine e desiderio, come accendere una lampadina.
Ciascuno coccolava il suo tempo futuro migliore, a suon di carezze.
Stringendo forte un cuscino.
Era di notte che i nostri sogni crescevano, nelle notti d’inverno , quando il calore di radiatori datati,
emanava un intenso odore di caldo: lo annusavi per davvero e quasi quasi, ne eri assuefatto.
Solo di notte potevamo confidarci: al sorgere del sole, c’era da allestire le faccende quotidiane con
gli abiti che meglio riuscivamo ad indossare.
Impegni. Doveri. Responsabilità.
Vivere in gruppo, in quegli anni, mi ha fatto comprendere per esempio quante paia di scarpe
possano calpestare una superficie di tre metri quadrati, contemporaneamente. E come evitare di
calpestar piedi.
Il rispetto.
Sgomitare per farsi posto, non è stata mai una disciplina per la quale ho prestato le forze: volentieri
giravo i tacchi e mi isolavo.
A furia di girar tacchi, ho consumato le suole e son rimasto a piedi nudi.
Trovato sollievo sotto le lenzuola. Calore per piante di sagome calpestate. I miei passi erano la
somma di battute di arresto e sospensioni in punta di piedi. Bisognava che trovassi rimedio,
altrimenti restavo indietro. Dovevo trovare il modo per curarmi, perché spesso ero battuto.
Precisamente, schiaffeggiato.
Al buio, mi riscaldavo, curavo le ferite e a volte, segnavo le guance di lacrime.
Sono stato educato dai miei, a temere la luce, perché ciò che riuscivo a vedere chiaramente, era solo
ciò che volevano mostrarmi.
«Non è dei morti che devi aver paura. Dei vivi, piuttosto. Quelli sì, sono cattivi!».
Ricordo il primo tentennamento nella cappella buia di un cimitero. Mio padre mi teneva per mano
ed io, opponevo resistenza.
Piantavo i piedi.
“Avanti. Stanno solo dormendo … anzi, non far troppo rumore!”.
L’idea di defunti che dormivano, acquietò i timori.
Anche perché compresi che il buio era un fatto oggettivo. Il male, la cattiveria invece, soggettivo. E
di argomenti del genere, solo gli umani ‘viventi’, ne potevano esser capaci. Il buio, dunque, era
fatto per il riposo. Il giorno per l’azione. E per la difesa.
Soluzioni temporanee dell’agire, hanno garantito giorni di sole di legittima difesa. E notti di sogni e
coccole. Un buio grazie al quale, ho imparato ad aprir la mente, a vivere di sogni e respingere ogni
offesa con le unghie e i salti pindarici della fantasia. Ha agevolato anche le mie espressioni. E
impressioni. A reagire, persino a dolorosi schiaffoni.
Nel buio rallento il tempo e analizzo l’uomo: lo vedo immerso nelle tenebre e palpeggiare pareti, in
preda a smarrimento. Perché al buio, si è sempre se stessi, non si indossano abiti e maschere e non
si finge nemmeno alla propria coscienza: come guardare attraverso gli infrarossi.
Come cercare nel cuor della notte di non svegliare la casa, col passo delicato. È l’immagine che
preferisco, il compromesso perfetto: rispetto per il prossimo, ricerca decisa della propria sete.
Angelo Francesco Anfuso
Una luce nel buio
Mi ritrovo in questo luogo
come quel viandante errante senza tetto né dimora,
avvolto dal silenzio di una natura ormai piegata.
Un mondo di duplice identità, in cui luce e buio
si prostrano d’innanzi a me come due ali di rapace reale.
La mia mente prende il volo,
si innalza verso il cielo e volge lo sguardo
sulla terra.
Vedo due vie
separate e parallele,
una illuminata e l’altra buia, e
su di esse dimorano
la verità e la menzogna,
la ragione e la follia,
la musica e il rumore,
il principio e la fine di
ogni nostra sorte.
E tu dimmi: dove sei?
Perché non ti vedo?
Come per assurdo mi precipito tra le due vie
cercando in lungo e largo la tua vera essenza,
per gustare la tua dolcezza,
di quel tempo ormai svanito.
Il giorno è stanco, la luce si indebolisce,
calano le tenebre e il buio prende il sopravvento ed
io ti cerco come l’aurora.
Sento nell’aria il tuo profumo,
la tua tenerezza immensa
che un giorno mi donasti con un semplice sorriso,
incidendo sul mio cuore la voglia di averti
fra le mie misere braccia e farti partecipe di
quel desiderio tanto bramato.
La luce si indebolisce
come una misera fiamma all’orizzonte:
soffusa, debole, incoraggiante per la mia anima.
Il buio rallenta i miei passi,
ma la speranza di riaverti è talmente forte
che non c’è spazio per la fatica.
È impossibile prenderti,
sei diventato inafferrabile.
Una sola cosa ti chiedo:
permettimi di sfiorarti ancora una volta.
Tendimi la tua mano,
i tuoi pensieri, la tua forza,
le tue fatiche, il tuo respiro,
la tua anima.
Tendimi tutto te stesso.
Riportami in quel tempo
in cui gettammo quel misero seme d’amore tra i solchi
dell’ubertosa terra, ormai arida e priva di nutrimento.
Sento il calore delle tue labbra, le tue mani che mi sfiorano,
la luce si fa sempre più forte.
Ferma il tempo, riprendiamo a volare,
solcando le alte vette dei monti
verso quella meta tanto attesa.
Più ti stringo e più la luce si affievolisce nel buio,
si allontana sempre di più come un astro irraggiungibile,
soffocandomi nella solitudine di questa vita.
Non mi hai dato l’unica ragione che io non potrei ascoltare:
che non mi hai mai amato, o
forse che non ti sono mai piaciuto,
o forse, chissà!
Svaniscono le due vie e
si cala il sipario sulla mia vita:
si cela il mio respiro.
Solo il buio dimora in me, non c’è spazio per quella luce.
Tanti perché, ma nessuna risposta: è svanita tra le onde.
Il chiodo fisso
Manie, follie, ossessioni, frenesie e fissazioni producono tutto quello che diviene alla fine un chiodo
fisso, un’idea acuta e penetrante che s’imprime nella mente portandoci all’euforia o alla
depressione, ma qualunque sia il caso, nulla riuscirà a distogliere il pensiero da ciò che ci
perseguita. Quindi qual è Il chiodo fisso dei nostri autori? Quale l’idea ossessiva che li spinge a
tornare e ritornare su un determinato argomento? Amore, odio, possesso… cosa in realtà li spinge
costantemente verso una meta che potrebbe anche essere irraggiungibile? Questo è il dilemma che
cercheranno di dipanare le nostre Penne in questi 7 giorni di follie, raccontando e inventando se
stessi in questo nuovo argomento.
Regina Re
Chi odo?
Sento soltanto rumori ovattati e vociare di sottofondo, a volte un interminabile silenzio che viene
squarciato dallo sbattere di una porta che si chiude, o si apre…non so
Mi hanno detto che ero nato per fare qualcosa di grande, che ero stato forgiato per durare in eterno,
la mia forza e la mia resistenza sarebbero state le mie carte vincenti, la bellezza non avrebbe contato
nulla
Ho atteso con ansia il giorno in cui mi avrebbero testato e mi ero lucidato per quell’appuntamento e
proprio per la sicurezza che avevo comunicato fui scelto
Ero orgoglioso di quel ruolo, quando si è fatti in serie di solito vieni comperato in un pacchetto e
chiunque può essere scelto
Nonostante la mia inesperienza e la mia paura di non essere all’altezza giusta in quella parete
immacolata, avevo detto a me stesso che ce l’avrei fatta
Ho fatto tutto, tutto ciò che un chiodo può fare
La situazione dentro è statica, un chiodo è fermo nel suo muro
Il problema è la sua testa che ascolta
un chiodo pensa e pensa che la giornata non è mai finita
La sua giornata è resistere al quadro, alla cornice, ad altro
L’altro è lo sguardo ti chi ti tiene sott’occhio
Se il quadro cade non è colpa del muro
E’ colpa del chiodo che non è nessuno
Io sono un chiodo anomalo e vivo nel muro del silenzio
Chi odo mi osserva perché non sono ancora caduto
Attento tu con il martello, pronto a sferrare l’ennesimo colpo
Prima o poi sbaglierai il tuo tiro
E oltre a crepare il muro
Ti creperai pure il dito
Andrea Borrelli
Chiodi
Ho visto appendere il nostro quadro
fra tutta quella gente che vedevo
c’era una piccola foglia di fico
non ci avrei mai fatto caso
Sono sceso per andare a prendere dei chiodi
ed ho cercato di fissarlo bene al muro
non avrei mai forzato troppo
sono stato bravo
Ho appeso un quadro al muro
prima un chiodo poi
ho messo
l’ altro.
Elisabetta Bagli
Ci siamo persi
Ci siamo persi.
Nel nostro andar
i palpiti son morti.
A mani nude hai strappato
le nostre stelle
dal firmamento,
scaraventandole come chiodi
nel fiume della discordia,
spegnendo il nostro amore
all’improvviso.
Una sola notte abbiam brillato,
una sola notte e la vittoria
ha illuso i nostri cuori.
Non brilleremo più,
non ci ameremo più.
Moriremo nel nostro segreto
che ogni notte cingeva la luna
di muschio e miele.
L’anima mia, ferita, vaga
ancor tra le tue reti.
L’anima mia ancora spera
nel tuo canto nuovo
La Dama Nera
Sei tu, Signora,
il mio chiodo fisso
e brindo a te con
fiumi di champagne.
Ti rendo omaggio
con orchidee e rose,
con la mia pelle nuda
che brama te.
A braccia aperte
attendo il tuo bacio,
a labbra schiuse
voglio il tuo gelo.
Giungi felina
da orizzonti di pietra;
incedi verso me
dall’eterno silenzio
La tua nuova amante
è qui, non ti temo.
Vieni e spegni il mio sorriso
Vieni e segui le mie lacrime,
stalattiti dai miei occhi
spezzati dalla vita.
Schiava tua sarò
alla fine del cammino
ammantato dal più nero oblio;
rassegnata seguo il mio destino.
La nebbia avvolge le ombre
che come corde
stringono la mia gola.
Vengo a te,
oh, mia Signora.
Vengo a te,
mia Dama Nera
Oggi
Proibite mi saran le labbra tue
Proibito il cuore tuo all’amor mio.
Rami spogli mi sommergono,
giaciglio eterno ove
taccion le mie membra
scolpite dal fuoco delle tue.
L’estate è andata via
e tu con lei.
Morto il tuo desío
per la mia carne.
Morta son oggi io
con tutti i sogni miei.
Fiero li hai rubati
e gettati ai rovi.
Fiero mi hai lacerato il seno
col chiodo tuo,
intriso di veleno,
tingendoti del sangue mio
le vene.
Andrea Mazzolini
Cupido
Voi lo sapete che c’ho un chiodo fisso,
che d’una donna sono innamorato,
occhi da Dea (ma il nome non vi scrivo).
Mi ha spinto in cielo e dopo in un abisso
perché da lei non son contraccambiato
(e m’ha spezzato in tre come un grissino).
Se becco quello stronzo di Cupido
gli rubo la faretra con i dardi,
scendo in piazza, vedrete che combino!
Ora la pianto ché s’è fatto tardi.
Anna Cibotti
Fachiro disturbato
Ho chiesto ad un fachiro
di farmi fare un giro
sull’irto suo giaciglio
Lo vuoi da me un consiglio?
mi ha detto, ridacchiando,
anch’io sto rinunciando
ho un chiodo, che sventura,
in testa e mi tortura.
Sugli altri sto seduto
ma quello sconosciuto
mi logora il cervello
e non sarebbe bello
stare in tua compagnia
mentre tento invano
di cacciarlo via!
Malefico chiodo
C’è un chiodo arrugginito
che mi ha ferito un dito
invano l’ho schiodato
e allor ci ho rinunciato
Dov’era lui è rimasto
scuro, fisso e nefasto.
Nefasto sai perché?
lui ferirà anche te.
Immaginario o reale
è un chiodo che fa male!
Monica Pasero
Gocce
Gocce di vita
cadono lente sul mio cuore
Sensazioni
che scivolano dentro di me.
Nei tuoi momenti
vive il mio profondo
I tuoi respiri
stillano gocce di speranza
che nutrono la mia anima
il mio corpo ricerca
la tua essenza
il mio cuore reclama
la tua appartenenza
Il mio chiodo fisso è non sentirmi all’altezza
Questo è il mio chiodo fisso, lo è sempre stato, in ogni situazione io mi trova mi sento inferiore, non
mi sento mai adeguata ,se qualcuno mi osserva nella mia testa si seguono le ansie e dentro di me mi
pongo mille domande, partendo dal mio aspetto con cui sono in lotta da una vita, quei maledetti
chili di troppo che mi rendono cosi fragile al mondo ed impotente nell’esprimermi al meglio. Nella
mia testa si accavallano le ipotesi più disparate su come e perché questa persona mi stia osservando
o sorrida e dopo aver esaminato il tutto, giungo sempre alla stessa conclusione “sta ridendo di me!”
Queste sono paure che mi porto da sempre, partono dalla mia infanzia dove nessuno oltre mia
nonna mi ha mai spronato più di tanto valorizzando le mie doti.
La mia famosa terza media il fatto di non aver potuto proseguire gli studi l’ho sempre vissuta come
fonte d’inferiorità in questa società. Diventata cosi adulta senza avere una mia identità prima figlia
di… Poi moglie di… Oggi mi ritrovo a riscoprire il mio valore e questo chiodo fisso si sta
leggermente (se si può dire svitando), ma la strada è davvero lunga, ogni qual volta che devo
interagire con un’altra persona le mie mille paure mi assalgono, partendo dal mio aspetto per poi
proseguire alla mia intelligenza, non sò se mai mi libererò di questo chiodo fisso. Il mio sogno è
trovare la mia identità, non voglio più essere né figlia, né moglie di qualcuno, ma solamente io
Monica, me stessa.
Solo tu
Nella mente solo tu
ogni pensiero, respiro, battito è tuo
ogni sensazione mi riconduce
dove la mia mente invano cerca di fuggire
in quell’oasi di vita ancor da scoprire.
Una parola, un gesto un sol respiro, mi riporta da te
dove ormai io vivo.
Non c’è giorno, non c’è ora, né minuto
che il mio cuor non implori il tuo aiuto
per questo mio bisogno così forte
di averti con me, ora e sempre fino alla morte.
Voli…
Voli lontani che faticano a planare
Ali spezzate dal troppo pensare
l’ ignoto spaventa
ribelle rallenta
il mio volo si ferma e tremante conduce
nel mio eterno cercar la mia vera luce
il bisogno s’arrende dal timore del poi…
Il mio cuore si spegne nel nome di Noi
ma la vita è attesa e volo continuo
e le mie ali attendon il loro destino
Nadia Milone
Il mio chiodo fisso
Ci sono volte in cui vorrei essere arrabbiata e mi sforzo di mantenere un atteggiamento duro, ma
come diavolo faccio, io, ad essere arrabbiata? Non ho ancora imparato e mai imparerò, mi sa… Lo
guardo e intanto quegli occhi mi fregano ogni volta. E’ nei miei pensieri sempre, alla mattina
quando mi sveglio, quando mi preparo il caffè, quando esco a far la spesa (e, ovviamente dimentico
mezza la roba)… E’ il mio chiodo fisso fin quando, alla sera, me ne torno a dormire. E poi dormi,
finalmente, direte voi… Ehhhhh, dormo, dormo, ma il chiodo è sempre lì, anche la notte. Ma come
si è piantato bene questo chiodo! Qualcuno ora mi dirà che il chiodo, dopo un po’, si arrugginisce,
vero? Eh già, lo so. Pazienza, vorrà dire che correrò il rischio… ma i chiodi durano tanto, io ne ho
alcuni, in casa, che sono piantati nello stesso punto da un sacco di tempo. E’ preoccupante, la cosa,
a pensarci bene, però… Ma i chiodi sono così, una volta piantati, non si schiodano più e io lo so
bene, con tutti i chiodi fissi che ho avuto nella vita, ci potrei aprire una ferramenta… bé, forse una
ferramenta è un tantino esagerato, ma una piccola bottega forse sì.
Comunque tenterò di non preoccuparmi troppo per questo chiodo che non si schioda, tanto è inutile,
più provo ad arrabbiarmi e far la dura, più mi vien da ridere. Non sarei credibile nemmeno al circo,
che frana che sono! E allora che fare? Una soluzione? Lasciamo il chiodo al suo posto, lasciamo che
continui a reggermi e sopportarmi, e poi si vedrà…
La morte
E’ da un po’ che ci penso. Da quando quel giorno, con la macchina, ho rischiato di finire contro un
camion. Tranquillamente stavo percorrendo la solita strada di sempre, quella che facevo ogni
mercoledì per portare mia figlia in piscina. Forse ero sovrappensiero, forse ero stanca oppure
semplicemente distratta dalle continue chiacchiere di mia figlia, non lo so, ma ho sorpassato un
trattore senza prestare troppa attenzione, evidentemente. Eppure avevo guardato, guardo sempre…
ma non l’ho visto, non ho assolutamente notato quel camion che stava venendo verso di me nella
corsia opposta. E’ stata una frazione di secondo, se ci penso mi viene ancora il batticuore. Me lo
sono trovato davanti e ho avuto un attimo di panico. Il camionista ha inchiodato, io ho accelerato e
mi sono infilata nuovamente nella mia corsia. Ce l’ho fatta, ma io e mia figlia siamo scampate per
miracolo. Da quel giorno, non faccio che pensare a cosa sarebbe successo se fossi finita sotto quel
camion. Saremmo morte entrambe, forse… io non riesco più a togliermelo dalla testa. Ci penso
continuamente e questo mi ha portata a fare alcune riflessioni. Io ho sempre avuto timore della
morte, ma più di tutto non mi perdonerei mai se succedesse qualcosa a uno dei miei figli per colpa
mia. Se mi soffermo a pensare, la mia non è vera e propria paura di morire, perché forse la morte
non è il peggiore dei mali. Ma da quel giorno, ho iniziato a pensare alla morte come ad una vera e
propria realtà, una cosa a cui non si pensa quasi mai ma che può capitare in qualunque momento,
senza preavviso e senza possibilità di scampo. E se da una parte questo mi fa paura, dall’altra penso
che potrebbe essere considerata come una liberazione da tutte le cose negative. Ma non si può
pensare alla morte come liberazione, sarebbe una sconfitta, un arrendersi davanti alle difficoltà, un
far soffrire qualcuno, forse, pur di non soffrire più io. Egoismo allo stato puro. Ma non posso negare
di averci pensato, a volte, nei momenti più bui. Ma da quel giorno, è diventato un vero e proprio
chiodo fisso. Come sarà? Come succederà? Mancherei a qualcuno? Ma penso anche:” Avrei
davvero il fegato di farlo?”. Io credo di no, sono una fifona e sono convinta che non ce la farei mai.
Comunque preferisco tentare di non pensarci troppo, ma è davvero difficile, è un tarlo che mi
accompagna ogni giorno, anche se, per fortuna, ultimamente vivo la vita un po’ più serenamente e
questo, forse, mi aiuta a non fossilizzarmi sulle mie paure . Ma è un pensiero che mi accompagna,
che è dentro di me ed io tento di respingerlo come posso, ma torna sempre a galla e, con lui,
riemergono tutte le mie ansie. Ecco perché, da oggi in poi, vivrò la vita come viene, giorno per
giorno, godendomi ogni singolo istante di felicità, perché oggi so che posso farlo, domani chissà…
Barbara Villa Mastropierro e Tommaso Occhiogrosso
Il quadro perfetto
Di due parti che si incontrano, c’è sempre un limite esterno che deve combaciare.
O al massimo, occorre la mano maldestra di un buon artigiano. E questo sono io che provo a
raccontarvi la storia di Tito e Morgana.
Morgana aveva perso la sua fermata, troppo incantata a guardare la copertina di quel libro: Poesie
d’amore e di vita – Pablo Neruda. E non solo. Dalla copertina era salita con lo sguardo. Le mani, le
spalle e poi quel viso, perso tra quelle pagine.
Era rimasta folgorata. Letteralmente folgorata.
Ormai aveva perso il tempo di sgattaiolare oltre la calca di impiegati e tuffarsi nella sua giornata di
lavoro, ormai il ritardo era conclamato. Aveva deciso , in quell’istante, che quel giorno in ufficio
non si sarebbe presentata. Aveva altro da fare, pensò tra sé e sorrise. L’autobus dopo poco piantò le
ruote e scosse come una ola involontaria tutti quegli impiegati appesi in cravatta e sospesi alle
maniglie rosse. Il giovane lettore scese e Morgana lo seguì. Aveva deciso di incollarsi a quegli abiti
e immobilizzarli: voleva sapere chi era quel tipo che li vestiva. Morgana non era donna che perdeva
tempo: quando voleva qualcosa se la prendeva. Quel giorno voleva sapere chi fosse quel tipo. Per
ora era l’uomo affascinante e misterioso, ma ben presto avrebbe saputo molto di più, anzi tutto.
«Tito!».
Una voce dall’altra parte della strada, richiamò l’attenzione del giovane.
«Non girarti!» pregò Morgana «non puoi avere un nome così orrendo!».
«Ehi, Momo!».
“Meglio Tito, santa miseria!” pensò Morgana.
«Tito, ma che razza di nome è Momo?!».
«Dici a me?!».
Tito si voltò e vide, nella confusione dei passanti, una brunetta niente male, che gli stava addosso.
«Eh, certo: vedi qualcun altro su questa strada che si chiama come te e urla il nome del tuo
amico?!».
Tito entrò in confusione.
«Ah, già … certo … chi altrimenti! Dunque, lui è Momo, ma non si chiama Momo, lo chiamo io
così perché è un idiota e Momo mi da’ tanto di idiota … a te, non da’ di idiota?!».
«Dovrebbe!?» rispose Morgana quasi seccata.
«Beh, sì! È una mia invenzione …».
«… da idiota!».
«Certo, non nego che potrebbe sembrare alquanto strano, perché è un nome così infantile che a
sentirlo pronunciare uno penserebbe a un cartone animato, una scatola di giochi, quelle plastiline
con cui ci si impiastricciava da piccoli e … Ma scusa un attimo … tu chi sei?!».
Morgana tirò un sospiro.
«Pfui! Woo! E che diamine! Ce l’hai fatta a dire una cosa sensata … non mi sembrava possibile che
parlassi sul serio!».
Tito si distrasse un attimo. Aveva perso il segno dell’orecchio nel libro di Neruda e cercava di
recuperarlo in qualche modo.
«Ma mi ascolti?!».
«Sì certo … scusa … è che se non trovo il segno dell’orecchio, mi tocca ricominciare a leggere tutto
da capo! Dicevi ?!».
«Oh mio dio! Non è possibile?! Ma sei davvero così per tutto il resto della giornata?!».
Tito abbassò la testa e lanciò uno sguardo nel vuoto.
«No. Solo quando mi piace una ragazza …».
Morgana
restò
di
stucco.
Poi
un
po’
sorrise.
«Cioè, se dico che mi piace, intendo mipiacemipiacemipiace …».
Morgana gli tappò la bocca e schioccò un bacio sul dorso della sua mano incollata alle sue labbra.
«Piacere, Morgana!».
Questo l’inizio. Tre mesi fa. Ora, le due parti combaciano, sono vicine. Ma anche labili. Adesso per
esempio, sono talmente vicine, da sovrapporsi. Una sull’altra, e la convivenza evidenzia i limiti:
quei contorni di ciascuno che non combaceranno mai. Come insenature frastagliate.
Si è dimenticato. Lo sento, lo sento. Doveva essere qui per le 21, dovevamo cenare insieme,
avremmo dovuto discutere di quella faccenda importante. Ma che parlo a fare! Avrà avuto di meglio
da fare. C’è sempre qualcosa di più importante … più importante di me.
«Oh finalmente ti sei degnato di tornare a casa. Dove sei stato? Con chi eri?».
«A scuola. C’era una riunione straordinaria».
«Sì certo, e io sulla fronte ci ho scritto Sali e Tabacchi».
«Io non lo so cosa hai sulla fronte. E tra l’altro non ci starebbe nemmeno una scritta così lunga sulla
tua fronte! Però, so solo che sei fissata. Sono settimane che ormai non fai altro che dubitare di me,
di pensare che ho un’altra e follie simili. Dimmi che ti succede?».
Prima o poi sarebbero arrivati a questo. Un punto fisso.
«Succede che non ci sei mai. Succede che la mattina faccio colazione sola, che il bacio del
buongiorno me lo do da sola. E succede anche che io domani parto per Parigi. Ecco cosa succede».
A bocca aperta.
«Cosa? Perché? Con chi?».
«Ma che domande stupide. Da sola ovvio. Mi hanno organizzato una mostra a Parigi e non posso
non andare. E’ il mio sogno da sempre. Ci saranno esposti i miei quadri».
Silenzio.
«Tu mi nascondi qualcosa. Chi ti aspetta a Parigi?».
«Tu sei pazzo. Tu hai occhi solo per le tue poesie, i tuoi poeti maledetti, le tue allieve! E poi sono io
a nascondere qualcosa?».
Morgana si allontanò a passo svelto, sparì nel buio del corridoio e rientrò con una tela coperta.
L’appoggiò sul cavalletto e fece scivolare il lenzuolo. Una bella immagine comparve agli occhi
Tito. Lui, l’allieva carina e i loro corpi nudi.
In un attimo scese il gelo. Un silenzio irreale.
«E adesso non parli più? Ho le fisse e sono paranoica vero?».
«No, tu sei pazza. Ci hai dipinti senza chiederci il permesso. Non sai che c’è la privacy?».
«La …. cosa?!! Ma che dici? Tu mi hai tradito e io dovrei preoccuparmi della privacy?».
«E tu sei stata tutto il tempo a guardarci? E ti sembra normale?».
«Avrei dovuto uccidervi? Subito? No.. troppo facile, troppo stupido».
Tito nascose il silenzio sotto il lenzuolo della vergogna. Chi aveva perdonato cosa, non era
importante.
L’essenziale era impastato tra quei colori.
Una leggerezza dei primi giorni, quando una storia è solo alle prime pagine. Quando soprattutto una
vecchia, non trova mai il capitolo finale.
«Voi mi regalerete il successo. E sarete visti da tutti, da tutto il mondo. Voi sarete il mio quadro
perfetto».
«Il chiodo fisso del tradimento non te lo sai mai tolto, vero?! Te lo sei piantato nella testa e in quelle
mani: Tito tradisce sempre e comunque; Tito è uno sbadato; Tito ha sempre la testa fra le nuvole e
tra le gambe delle allieve. Questa è la migliore immagine che porterai dipinta di me?!».
Strappò la tela dalle mani di Morgana e l’appese nel “l’angolo delle meraviglie”, una nicchia
ricavata in una zona morta della casa, un’edicola alta due metri e coronata da pietra viva e
illuminata da un faro piantato nel soffitto. Campeggiava al centro un affilato chiodo grezzo.
Morgana l’ammirò stupita, quasi non fosse opera sua.
«Non trovi che sia perfetto? Il punto di vista, la luce, gli sguardi appena abbozzati. Il desiderio
infame. Un titolo che ci sta tutto!».
«È la tua opera migliore, vero!?».
Morgana lo trafisse per la prima volta con gli occhi.
«Che vuoi dire?!».
«Cosa ti riempie di follia?! Il dipinto o il soggetto. L’arte o il peccato?».
«Entrambi. È la convivenza che si mescola. È il confondersi di pennelli e carni».
Tito sparì in cucina. Aveva fame.
Morgana lo biasimò non poco. Tutta quella discussione, tutte quelle provocazioni e un nulla di fatto.
Avrebbe voluto una reazione, uno scontro, una lite furibonda per stanare le paure. Le sue. E per
ritornare ad accettare e amare quell’essere che abitava non solo la sua casa, ma una parte intima di
sé.
Si accasciò sul divano, sfatta. Era stanca: tanta fatica per nulla.
Nel silenzio, un fendente recise la follia.
L’arte e il peccato. Il desiderio infame.
«Maledetto quadro!!!».
La mano violenta di Tito, colpì a più riprese la tela. La squarciò nei punti nevralgici, negli incroci
peccaminosi, nelle sfumature definite dalla libidine. Si riempì di stracci, quell’impasto di colori e
desiderio.
«Idiota! Che fai??!».
Morgana si scaraventò contro Tito. Nella foga della disperazione, la tela cadde al suolo, come
vittima sacrificale, come un cadavere ormai privo di vita. Tito la calpestò, tenendo ben salde le mani
di Morgana che si dimenavano. Avrebbe voluto dipingergli sul volto una maschera di sangue,
assalirlo con la rabbia e sputargli in faccia il suo disprezzo.
«Tu sei pazza!».
L’estremo tentativo di Morgana, andò a segno. E lo trafisse per la seconda volta.
E trafisse anche sé.
Quanto primeggiava quel chiodo! Al centro della nicchia, come un aculeo spesso, lungo cinque
centimetri, nero. Un chiodo d’altri tempi, una breve bellezza in ferro grezzo. Il centro della gravità,
l’ancora perfetta per i dipinti di Morgana.
E vide le loro mani affondare. Sentì le loro carni lacerarsi.
Nell’impatto violento, due urla tacquero l’odio.
Ora sono vicini, sento il loro respiro. I loro corpi sudano veleno e odio. Scivola sangue.
Sapevo che sarebbero arrivati a questo punto, in questa zona, in quest’angolo delle meraviglie dove
tutto è così bello perché nasconde un segreto. Ed io lo mostro, lo sostengo, ne reggo i limiti.
Tante pareti, immensi spazi colorati, strutture ben illuminate. Ma senza un appoggio, sarebbero
zone morte. Mura e angoli prendono vita così. Basta un chiodo: una base incastrata nel cuore del
cemento che mantenga il gioco. Equilibri nascosti, parti che non devono coincidere, ma affondare.
Tito e Morgana combattono per un pezzo di vita frastagliata. Se non entreranno nei loro limiti,
cadranno a terra, come quella tela. E spero che accada un miracolo.
Un chiodo fisso: il tradimento. Morgana
Un altro chiodo fisso: il perdono mancato, per se stessi. Tito.
E poi ci sono io: il vero chiodo che ha visto ogni cosa, ha sorretto arte e peccato, Tito e Morgana.
Restare sospesi garantisce inevitabilmente un panorama pericoloso: cadere o aggrapparsi.
Ho trafitto le mani di entrambi, quasi per gioco. Quasi per destino.
Di due parti che si incontrano, c’è sempre un limite esterno che deve combaciare.
O al massimo, occorrono le mani.
Toccarsi per riconoscersi. Mani trapassate allo stesso istante, dallo stesso dolore, vedono la vita
nello stesso modo. E cercano la stessa via d’uscita.
Magari è l’occasione giusta. Magari questo, è il quadro perfetto.
Maurizio Donte
Lento soffio
Lento soffiar del vento,
sinuoso danza con il tuo pareo
s’alza, s’abbassa il velo…
innanzi agli occhi si staglia il cielo
splende il sol e disegna l’ombra
netta sull’andar dell’onda…
ritorni, sempre ritorni,
odiato amor, che m’hai inchiodato
il cuore. Spezza quel nodo!
Anima mia ribelle…
da questa croce dove il destino
m’ha trafitto…danza e ritorna
l’ombra e il sol sul tuo bel viso
nulla vale, chiodo fisso
è il tuo falso sorriso.
Rossana Roxie Lozzio
Piantato nell’anima
Ma quanto sarebbe bello, sto pensando, che i ruoli si ribaltassero ed io potessi diventare il TUO
chiodo fisso… e mi ritrovo a sorridere, pensando che non solo è impossibile ma non saprei
nemmeno quale atteggiamento adottare, considerando che non sarei capace di lasciarmi desiderare
dall’unico uomo che mi trafigge anima, pensieri, mente e cuore da quando ho compreso cosa
significava amare incondizionatamente un uomo che non fosse mio padre.
Continuo a immaginare e a sorridere, mentre mi vedo attraversarti la mente e accompagnarti in
forma immateriale da quando ti svegli, insieme al primo caffè che bevi, fino all’ultimo dei riti che
compi prima di andare a dormire, mentre giri per casa e controlli che tutto sia in ordine,
domandandoti che cosa potrei mai stare facendo, dove e insieme a chi.
Ah, quanto sarebbe bello che fossi il chiodo fisso piantato nella tua anima… sospiro, immaginando
di ispirarti testi di canzoni, pensieri sconvolgenti e di essere la musa che ti esorta a cantare nei
momenti più disparati, magari, in macchina o mentre fai la doccia e di costringerti a prendere atto
che niente e nessuno al mondo potrebbe interessarti più di ciò che rappresento!
Ma ahimé, il chiodo fisso sei tu e sei piantato così radicalmente e nel profondo della mia anima, da
che ho memoria di aver scoperto che esistono i sentimenti… il cuore sanguina ma la ferita resta
aperta e non saprei come estirparti, senza causargli un’emorragia che mi condurrebbe a morte certa.
Sono viva, so di esserlo, mi rendo conto di esistere perché ci sei… e non potrei immaginarmi in
alcun luogo, su questa Terra e altrove, se così non fosse.
Adrena
Sclerando per lei
Avrei voluto essere al posto suo per sentirmi desiderata così, avrei voluto riscontrare la stessa
smania di possesso e quel desiderio irrefrenabile di prenderla tra le mani che con veemenza mi
esprimevi.
Preferivi “la bionda.”
Io, invece, ero bruna e me ne vantavo.
Adoravo la mia pelle più scura, quella carnagione che le mie origini cubane mi avevano donato, e
non avrei rinunciato a quel che ero per soddisfare i tuoi capricci di uomo.
Sanguigna e caliente io, sciapita lei.
Non mi sapevano di niente quelle pelli diafane quasi porcellanate; bambole di pezza, oche che
starnazzavano senza utilizzare il cervello.
Mi limitai, invece, ad immaginarti mentre accarezzavi il suo corpo snello racchiuso dall’abito
bianco quando con bramosia la portavi a te, tra le tue labbra.
E immaginai lei bruciare lentamente e, consumandosi, entrare dentro te.
“Non ce la faccio più- dicesti- sto sclerando!”
Avresti voluto che io corressi da te per acquietare la frenesia del momento, ma preferii rigirarmi nel
letto e tornare a dormire.
Ferita nel mio orgoglio di donna mi resi conto che non avevi bisogno del mio aiuto, non era me che
desideravi ma, una stupida, inutile, e insignificante, sigaretta.
Angelo Francesco Anfuso
Una dolce sofferenza
Solamente un’ora, un giorno, e la vita
ti prende tutto quello che hai.
Sono certo, c’è tanta intesa da entrambi le parti.
Allora mi chiedo: “perché non viverla?
Perché privarsene?”
Forse lui è troppo impegnato, assopito dai suoi pensieri,
distratto dalla lontananza, o forse
non ha tempo.
Il suo essere impegnato mi soffoca:
non c’è spazio, non c’è tempo,
non c’è nemmeno uno sguardo:
solo un misero dialogo.
Cosa posso fare mai?
Non è facile, la mia fatica diventa sempre più forte
mi indebolisce, ma sono contento che esiste,
che solo una volta, anche se per poco mi ha degnato del suo sorriso.
Alla fine c’è, esiste, ma è inafferrabile,
un po’ come l’aurora.
Sempre la stessa storia, quando trovi una persona per cui il
cuore inizia a palpitare, ci sono sempre
i capricci della vita che si divertono
a giocare con i sentimenti: che immaturi.
Le sue parole esprimono magia e
la sua voce incanta chi gli sta d’innanzi.
Eravamo tutti e due incantati
di noi stessi,
ognuno era il chiodo fisso dell’altro.
Sarà un docile tormento
un tormento che rende il sorriso sulle
labbra solo al pensiero.
Per questa nobile causa, l’abbiamo battezzato con
il nome di: Dolce Sofferenza.
Un tesoro in un forziere, ma senza chiave per aprirlo.
Tutta l’esperienza è stata bella
ed è ben custodita nel mio cuore,
lì dove si custodiscono i ricordi e sentimenti più nobili
Il nostro cuore è un forziere unico nel suo genere,
ma per aprirlo occorrono le due chiavi della vita:
la mia e la tua.
Solo a noi due è stata fata la facoltà di poterlo aprire,
altrimenti perde il suo valore.
L’Amore si cerca, si insegue tutta la vita,
lo si sogna e lo si brama, e quando lo si trova
può essere così sconvolgente da far paura.
Forse! Una paura di perdere se stessi per poter
vivere nell’unico Amore.
Solo allora ti renderai conto, del perché della tua esistenza,
del perché delle cose, del perché di ogni tuo attimo,
di ogni tuo respiro.
Se questo è Amore, non sarebbe meglio l’Odio?
Ma l’Amore è bello solo perché in esso si cela
il mistero del vero Amore, che è sofferenza allo stato puro.
Solo se è condiviso, il giogo si fa leggero e
la sofferenza diventa un misero sospiro elevato al vento.
Ecco il mio chiodo fisso!
Dov’è la dolcezza se non nel vissuto custodito nel cuore,
dove il pensiero riesce a farti vibrare e sentire ciò che non è più, dove il volto si illumina di luce
mostrando un sorriso e occhi brillanti di gioia, velati dalla nostalgia del non possedere.
La sofferenza dell’amore che può solo essere una dolce sofferenza.
Il mio alimento è il ricordo, e il sentire l’odore è il mio rifugiarmi nell’intimo, è lì che trovo
alimento.
O vita che non vuoi vivere, o pensiero che non vuoi pensare, o vista che non vuoi vedere, o cuore
che non vuoi lasciarti andare…
Sento ancora sulla mia pelle, quella brezza in cui,
ormai il sole al suo divenir sfiorava la mia carne.
Docile passione, docile sentimento, o forse, docile tormento.
Cosa mai farò ancora per rivivere?
Estrai da me questo chiodo fisso
ed io leverò il tuo.
Insieme saremo liberi da questo e la passione
regnerà su di noi, e saremo liberi di amarci.
Nell'assenza
Cosa accade, nell’animo umano, quando si avverte l’assenza di qualcosa che pare fondamentale per
la nostra esistenza? Quando avviene l’allontanamento di una persona, la mancanza di un oggetto, il
protrarsi di una situazione frustrante, che ci pone nelle condizioni di avvertire la solitudine?
Dunque l’argomento proposto per questi 7 giorni di follie è proprio questo: Nell’assenza… I nostri
autori avranno modo di esprimere i vari aspetti del tema, ponendo in luce tutto quello che potrebbe
essere a esso correlato.
Fede Giovanni Rega
Assenza
Assenza è non-presenza,
assenza è carenza,
è privazione, è separazione.
Assenza è dolore
Per ore e ore..
Paura che quell’assenza pesi
più di qualunque altra presente presenza.
Siamo mille, milioni,
siamo miliardi.
Ma l’assenza di uno
uno solo su un milione
pesa più di quel milione
vivo, vicino a te.
E così ti senti solo,
solo tra la gente,
solo in un oceano di folla apparente,
perché a te ne manca una
una sola.
Vale tutto,
per te.
La sua assenza
ti tormenta, t’uccide.
Assenza è il nulla,
quel vuoto d’aria
in cui tutti un giorno
sprofonderemo.
Nadia Lattanzi
Assenza..essenza di te
C’è un assenza di una terra in mezzo al mare, di un dialetto diverso, un cielo reso più azzurro
dall’ago di una bussola. E allora orecchie tese ad un telefono..mani protese su una tastiera. E
l’urgenza di saperti, di conoscere colei che mi accarezza il cuore. Ma tu non sei assenza. Tu sei la
“distanza” che riempie le mie ore, la voce che vibra nel mio corpo quando mi accorgo che vorrei le
tue mani su di me. E non resta che far volare i miei pensieri, i miei desideri…ancora verso te, mai
ancore che m’ impediscono di salpare.
Monica Pasero
Attese e ritorni…
Destino beffardo che
dipingi i miei giorni
tingendoli tutti
di attese e ritorni
celi con te passioni mai nate
narri di me…in antiche ballate
urla mio cuore la sua mancanza
cerca di te sol la speranza.
Destino beffardo
che imprigioni i mie giorni
tingendoli tutti
di attese e ritorni …
In assenza di te
Destinata è la tua assenza in questa mia vita.
Tu, unico mio bisogno lontano, vivi nel mio cuore scandendo il tempo che inesorabilmente passa.
Le stagioni si susseguono, mutano, il caldo spazza i brividi invernali ,la terra arida accoglie le prime
foglie autunnali.
Il tempo se ne va ,scorre nel suo non ritorno e porta via con sé i miei anni ,i mie occhi ormai segnati
da lacrime che li hanno solcati troppe volte, da bisogni ancor da scoprire, da sogni che attendono e
attendono ancora , ma l’orologio della mia vita scandisce le ore che mi separano da te ,tutto muta il
mio corpo, il mio viso, la mia vita solo la tua assenza perdura
Le nostre anime unite dalla notte dei tempi attendono…
Ogni giorno che passa è un giorno in meno senza di te quando la luce accoglierà le nostre
esistenze ,l’assenza terminerà donandoci il dono atteso da tutta una vita Finalmente uniti, ci
riuniremo alle nostre anime che si amano da sempre e senza mai più assenza vivremo nell‘infinito
dei nostri giorni.
Mi manca…
Mi manca il profumo della vita che sa d’essenze preziose, di dolci fragranze che sol la natura
possiede.
Mi manca quella sensazione che si ha, quando l‘anima s’avvolge d’emozioni, quando la sua luce
risplende così forte da illuminarti il viso. E tu ti senti così bella.
Mi manca poter ascoltare il mio cuore nel suo ritmo intento a comporre melodie mai musicate.
Mi manca il sentirmi ancor donna, ancor bella il bisogno di qualcuno che si ricordi di dirmelo.
Mi manca, quella sensazione di pura follia, quando un’aura d’amore invade la tua vita rendendola
cosi meravigliosa.
Mi manca il desiderio, il bisogno di esser anch’io amata cosi come sono per l’essenza che porto
dentro, per ciò che ero e ciò che sono e sarò.
Mi manca quella sensazione che avvolge anime e corpi, quel bisogno immenso d’essere la metà di
qualcosa o qualcuno, essere io quella parte mancante che inneggia il tuo nome.
Pensiero
Vivi in me pensiero
con ali di farfalla
sbatti sul mio cuore
tutta la tua passione
mista al tuo gran dolore
mi travolgi,mi assali, mi rendi inerme
senza più forze per lottare
stanca, sconfitta dal mio stesso destino
vorrei solo interrompere il mio cammino, ma poi
il tuo ricordo ritorna vivo in me
e la mia vita
ancor una volta urla
il disperato mio bisogno di te
Rami al cielo…
Come radici profonde s’ intrecciano
le nostre anime che vivono
di quel frangente,
dove sogno e realtà si confondono
Lì, i nostri corpi si ritrovano
plasmati in una sola anima
desiderosi d’ amarsi
innalzano i loro rami terreni al cielo
implorando la mano di Dio
che plachi la loro preghiera
intrecciandoli per l’eternità
nelle viscere della loro esistenza
Nadia Milone
Di notte
Odio la notte. Troppo silenzio, troppo tempo per pensare, troppo fredde queste lenzuola. Di giorno
c’è la musica, c’è il computer, mille cose da fare e tanti impegni a cui pensare, ma di notte è tutto un
altro discorso. Questa notte ero sola con me stessa, a fare i conti con ciò che non ho, ma vorrei
vicino a me. L’ho detestata, questa stupida notte, non sopportavo il suo buio, ma non potevo
accendere la luce, mi avrebbe riportata troppo bruscamente alla realtà che tanto mi deprime. Allora
mi sono alzata, ho preso un pupazzo di peluche e me lo sono portata nel letto. Infantile? Sì, un
pochino… ma io sono così. Mi sono accoccolata sotto le coperte stringendolo forte. Poi ho chiuso
gli occhi e ho pensato. Piano piano, i pensieri si sono trasformati in sogni e la sua assenza è
lentamente svanita, sulle ali di un sogno che è scomparso soltanto quando, questa mattina, mi sono
svegliata.
Sopravvivere all’assenza
Ci sono assenze pesanti come macigni. La lontananza è come una spada piantata nel cuore e
pugnala nei momenti peggiori. L’assenza di chi vorrei avere vicino mi tormenta quando, guardando
una fotografia, gli sfioro il viso e le dita sentono solo la fredda superficie liscia del monitor. Quanto
sarebbe bello potersi parlare, toccare e abbracciare, penso la notte prima di addormentarmi,
stringendomi al cuscino. E quando mi sento sola, quando piango e avrei bisogno di un abbraccio,
oppure quando sono nervosa e vorrei qualcuno vicino che mi calmasse, magari con un bacio, allora
sì, in quei momenti la malinconia mi assale. Ma poi basta poco, un messaggio, due parole e mi torna
il sorriso. Certo, non è come stringerlo fra le braccia, ma da quella parole riesco ad estrarre la mia
linfa vitale, un nettare prezioso che riesce a risollevarmi anche quando sto sprofondando nel fango.
In alcuni momenti, avverto la sua presenza vicino a me e riesco ad essere un po’ più forte, non mi
sento più sola come prima, sebbene fisicamente sia lontano chilometri. Ma se chiudo gli occhi,
immagino che, magicamente, le distanze vengano eliminate e lo vedo lì, a pochi passi da me. E’
solo un sogno, ma è una speranza che mi aiuta a vivere.
Ormai ci sono molti modi per tenersi in contatto, ma assolutamente nulla può sostituire un bacio, il
calore di un abbraccio o magari, una folle notte di passione. Toccare la sua pelle, sentire il suo
respiro e le sue mani…
A volte mi rattristo un po’, ma poi guardo il cielo immaginando che, magari, anche lui lo stia
guardando e mi pensi un po’ e allora, in quel momento, lo sento più vicino. Forse è questo il modo
per sopravvivere all’assenza.
Regina Re
Il tutto
E la prima lezione fu: “Senza l’amore non ho più nulla”. La seconda cancellò con una croce la
prima: “Senza il denaro non ho più nulla”. Ma quando mi trovai a scrivere su quel foglio: “Senza il
tutto non ho più nulla…”, allora realizzai che quello era il grande appuntamento, quello che il
destino per me aveva scelto.
C’era un motivo dietro quel risveglio nell’assenza del tutto e lo stesso motivo si nascondeva dietro
il dominio incontrastato di quel nulla. Dovevo soltanto cercare e trovarlo. Ma come si può cercare
nel nulla?
Ero convinta che in fondo alle banalità che imperavano nel mio cervello avevo di certo sepolto da
qualche parte qualcosa di utile da tirare fuori al momento opportuno. Mi resi subito conto di aver
nascosto quel qualcosa così bene da non riuscire più a trovarlo. Pensai a quante volte avevo
compiuto quel rito e poi avevo dimenticato il luogo segreto. Se non altro quel luogo era rimasto
davvero un posto segreto e ciò che avevo nascosto nel tempo era diventato un vero tesoro. Poi però
l’avevo dimenticato e quel tesoro era diventato un potenziale tesoro per altri ma non più per me.
Poi quel gioco, quello di nascondermi e aspettare che gli altri mi trovassero e ridere mentre la
mamma gridava disperata il mio nome da ore cercandomi invano. Allora meglio non uscire, avevo
pensato. Mi ero infine addormentata quando in lacrime lei mi aveva trovata. Non dovevo più fare
quel gioco e allora smisi di nascondermi, almeno avrei evitato di dimenticarmi da qualche parte!
Ma che cosa c’entra con tutto questo? Sto perdendo tempo, tempo, tempo…Tempo?
Nella mia nuova condizione non vi era tempo, luogo e causa ma soltanto un effetto che assumeva la
forma della mia totale percezione dell’ignoto, del quale purtroppo non riuscivo a delineare neanche
l’ombra. Le uniche cose a disposizione erano quel foglio e quella penna, ma dopo i tre puntini vi era
soltanto una cosa: “Il nulla”:
Avevo ricevuto diverse medaglie e il tempo era stato l’unità di misura dei miei successi e anche dei
miei fallimenti. Volevo raggiungere il primo posto, a tutti i costi. Intorno tutti ambivano a salire sul
podio e, nella loro corsa, non badavano a giocare sporco. Ma quando la competizione divenne una
corsa infinita, una corsa priva di traguardi, fu allora che decisi di tracciare da me quella striscia e
per terra la segnai.
Volevo riprendermi tutto il mio tempo e spenderlo a mio piacimento. Fu proprio allora che
cominciai a perderlo.
Avevo forse segnato la fine della mia corsa? Qual’è l’unità di misura del tempo, dov’è il suo valore
quando l’assoluta libertà ne annulla lo spessore? Avevo imparato a mettere il punto, la fine di tutto e
l’inizio di tutto. Avevo compiuto la mia prima scelta, ma subito dopo mi ero sentita persa.
Mi trovavo ad aprire un’agenda vuota, nessun appuntamento, nessun orario, nessun inizio e nessuna
fine, ero padrona di tutto ma il tutto assumeva un’unica connotazione, avevo scoperto cosa c’era
dietro la ribellione. Bisognava prendere una posizione al più presto, ma decidere cosa vuoi essere e
dove vuoi stare divenne per me la cosa più difficile da realizzare. Tutti mi dicevano cosa era bene
fare e ciò che non si doveva fare ma nessuno mi diceva come fare e come non fare.
Fu allora che incontrai Lui.
Lui era Ainigriv e Anigriv da sempre era il contrario, la negazione del tutto e l’affermazione del
nulla. Di solito Ainigriv rispondeva No quando si trovava di fronte ad un Sì e rispondeva Sì quando
si imbatteva in un No. Lui era sicuro di sé e di ciò che voleva, lui sapeva sempre tutto. Quando ero
in difficoltà mi consultavo con lui ma lui non aveva mai pietà di me. Un amico ti consola, lui mi
feriva quando ero già ferita. Più volte avevo pensato di abbandonarlo ma più volte ero tornata a
cercarlo.
C’era qualcosa che mi legava a lui, qualcosa che non riuscivo a capire ma sapevo che c’era. Non
sapevo nulla di lui ma lui sembrava conoscere tutto di me. Mi infastidiva il non essere padrona dei
miei pensieri e scoprire ogni volta che a lui non potevo mentire, non ero più neanche padrona delle
mie bugie.
Rideva quando ero furibonda e mi guardava con aria di sfida ma ad ogni mia domanda si voltava e
con la mano indicava il cielo e diceva: “Mia cara, perché cercare ciò che si ha? Perché vuoi sapere
quante stelle ci sono nel cielo se le puoi semplicemente contemplare?”. Ainigriv mi lasciò il giorno
in cui decisi che lui era troppo complicato per me, come al solito non ci fu neanche bisogno di
informarlo. Non lo cercai più, non mi curai di chiedere di lui in giro, di sapere se stesse bene e
soprattutto di sapere se lui sentisse la mia mancanza.
Non volevo sapere che lui probabilmente stava benissimo senza di me.
Ma nel luogo senza cielo e senza stelle improvvisamente mi resi conto che avevo l’assoluta
necessità di rivederlo, di parlare con lui, di arrabbiarmi con lui, di farmi prendere in giro da lui.
Fu allora che cominciai a piangere perché nel luogo senza cielo e senza stelle mi trovavo sola a
contemplare i miei ricordi.
Ma non appena accennai al suo nome, d’improvviso la sua figura mi apparve. Lo sguardo era lo
stesso di allora, uno sguardo pieno di sufficienza e di mille altre cose che non saprei raccontare. Ero
sorpresa e lo guardai prima con uno sguardo pieno di stupore e, subito dopo, con uno sguardo
intriso di profonda vergogna. La parola “scusa” era lì, strozzata nella mia gola, perché scusarmi
significava ammettere tutto ciò che mai avrei voluto dirgli.
Ainigriv mi guardava in silenzio e mi fissava dritto negli occhi aspettando, come sempre, i miei
soliti slanci di presunzione.
Decisi allora di rivolgermi a Lui. Soltanto lui avrebbe potuto darmi una risposta. Ma Ainigriv non
aspettò le mie scuse, né aspettò le mie domande. Anigriv aveva già pronta la sua risposta, come
sempre, ma stavolta non rispose a parole, prese le uniche cose che si trovavano nel nulla e scrisse
sotto la mia frase: “…e quanto tutto c’è nel mio nulla.”
Adrena
L’assenza di te, tratto dal libro “Una donna come tante”
Avrei dovuto comprarti una tutina più grande.
E non l’ho fatto.
Avrei voluto avvolgerti nella copertina che abbiamo cucito insieme.
E non l’ho fatto.
Avrei dovuto gridare la mia rabbia e dire a quel medico che un figlio non è un sugo come un altro
attaccato al fondo di una pentola.
… E non l’ho fatto.
Così come non ho trovato il coraggio di toccare la tua mano o darti un bacio, l’unico, per paura di
turbare la tua pace e la mia.
Chissà se quella donna che passeggia ignara nel corridoio, circondata da parenti premurosi, si rende
conto effettivamente del grande dono che stringe tra le sue braccia. E se immagina quanto sia atroce
essere privati della gioia di sentire il pianto del proprio bambino, il suo lieve respiro, il profumo
della sua pelle.
Perché? Perché ci rendiamo conto di quello che abbiamo soltanto quando l’abbiamo perso per
sempre?
Nonostante la puntura, per evitare la montata lattea, sono costretta a tirarlo via con il tiralatte e
fasciare il seno con una benda strettissima. Tuo padre lo butta nel lavandino piangendo.
E io con lui.
Non so se è stato questo il motivo che ha scatenato una febbre insistente per tre giorni, toccando i
quaranta gradi, o il catetere che mi hanno messo, o qualcos’altro che, i medici, non hanno voluto
dirmi.
Adesso niente ha più grande importanza.
Domani tornerò a casa.
Nella tua stanza il vuoto rimbomba tra le mura, non ho avuto il coraggio di oltrepassare il riverbero
bianco del sole che si riflette sul marmo del pavimento all’entrata, tuo padre ha cancellato i nostri
pesci sul muro e ha portato indietro il lettino e il fasciatolo al negoziante che ce l’aveva venduto.
Qui, nella nostra casa, troppe emozioni mi parlano di te, i nostri sogni, no, quelli non potranno, mai,
essere cancellati.
Ti ho immaginato sgattaiolare a carponi per la casa, ho sentito la tua vocina nitida chiamarmi
mamma, ti ho visto arrampicare sugli alberi del giardino, ho sentito il profumo di scuola sul candido
grembiulino e ho asciugato con i miei baci le prime lacrime d’amore.
Sogni ad occhi aperti, i miei, soltanto sogni!
Nell’amara realtà tu, bambino mio, sei l’angelo più bello che sinora sia salito in cielo.
Dimmi… Lì, dove sei, c’è il tuo adorato mare?
–…
Vorrei dirti che mi piacerebbe essere lì, vicino a te, se non lo faccio è perché ti sento qui, vicino a
me.
Tu sei con me sempre; non è bastato tagliare il cordone ombelicale per sradicarti dal mio cuore, tu
sei, e sarai sempre, il mio sogno più bello.
Quel sogno che mi aiuterà ad andare avanti nel difficile cammino della vita attraverso il quale ti
accarezzerò ancora e vivrò di te, con te e per te.
Angelo mio, abbiamo molta strada da fare, non lasciarmi qui da sola, aiutami a trovare la forza e il
coraggio di andare avanti per affrontare le piccole gioie e i grandi dolori.
Aiutami ad aprire gli occhi ogni mattina, a ringraziare Dio di questo nuovo giorno che mi ha
regalato, a sorridere ancora nonostante la tempesta che impervia nel mio cuore.
Dammi un sogno affinché io possa continuare a lottare per esso, credere, e sentirlo crescere in me
sino ad allietare le mie giornate buie. Stammi al fianco in modo da poter godere insieme la gioia
della sua realizzazione e affinché sul viso di ogni bambino giunga la mia carezza e la tua.
Tieni in me accesa la speranza che quel poco che potrò fare non sarà mai cosa vana, se fatta con
amore, e che la fatica e il lavoro che mi occorreranno, prima o poi, saranno resi vani da un sorriso.
Porgimi la tua mano, bambino mio, ed io saprò seguirti.
Rossana Roxie Lozzio
La tua infinita assenza
Vivo nella tua assenza da tanto, troppo, inenarrabile tempo e ancora non ho calibrato il rumore del
vuoto che ho dentro, perché non sei al mio fianco… ma ogni tanto, mi trovo a domandarmi cosa
diventerebbe, questa vita orfana del tuo spazio fisico, se all’improvviso ci entrassi con la prepotenza
della luce che emani.
Mi abituerei all’incanto del tuo essere?
Saprei fare a meno del chiasso che fa, la tua infinita assenza?
Nell’assenza
La prima vera assenza alla quale ho dovuto fare l’abitudine è stata quella di mio padre… se ne andò
una sera, incamminandosi lungo la strada di fronte alla nostra casa, dopo un’ennesima discussione
con mamma e portò via con sé una sola valigia, oltre a tutta la mia disperazione di bambina tradita
dal primo punto di riferimento maschile.
Poi, una decina d’anni dopo, feci i conti con quella che è la vera assenza… se ne andò anche
mamma ma questa volta, senza valige, senza discussioni, senza tradimenti. Se ne andò, in quella
dimensione sconosciuta contro la quale non avrei mai nemmeno lontanamente pensato di dover
andare a sbattere ed è iniziata la lotta quotidiana con il vuoto che ti lascia nel cuore l’assenza di
qualcuno che non sai neppure quantificare quanto sei riuscita ad amare.
La convivenza, invece, con l’assenza di te… mio amore slegato da tutte le convenzioni esistenti
sulla faccia della terra che mai potrei sostituire con alcun sentimento per un uomo diverso, è
cominciata nel mezzo tra le due partenze di cui sopra e ancora continua. E’ una specie di abitudine,
di battaglia fra la mente ed il cuore, è qualcosa che comincia appena sveglia e che rimane con me
fino a quando non arriva il sonno. Solo lui riesce a portarti via da me, per qualche ora… è soltanto
mentre dormo, dato che difficilmente ti sogno, che la tua assenza non si fa sentire con la prepotenza
di un rumore che si trasforma da sottofondo musicale a chiasso infernale.
Vivere nell’assenza… difficile ma non impossibile. A volte, ci capita e dobbiamo solo riuscire a
farcene una ragione… a volte, ci rovina addosso, con irruenza e non ci capacitiamo di doverci
imparare a convivere ma fa parte della vita, perché è quasi impossibile potere avere tutto ciò che si
desidera e se questo non avviene, vivere nell’assenza, diverrà un destino tanto detestabile quanto
amabile.
Fidatevi di una donna che trascorre il tempo al suo fianco da quando era bambina…
Gabriele Palumbo
Mancanze
Erano passati già tre mesi…tre mesi in cui le mie già pessimistiche aspettative furono di gran lunga
superate, ma non volevo andarmene…sarei dovuto partire l’indomani mattina, con l’aria fresca
tipica delle prime luci del mattino e con le valigie sempre piene di cose che non avrei mai usato…
non volevo andarmene, ogni volta mi abituavo all’assenza degli altri, della compagnia di sempre,
dei mie genitori, all’assenza di quelle piccole cose che ti riempiono la giornata, ogni volta mi
abituavo…e sicuramente, con più facilità, loro si abituavano alla mia di assenza…non era tanto la
mancanza, la nostalgia, come ho già detto purtroppo o per fortuna a queste cose riuscivo ad
abituarmi…la vera fregatura era la consapevolezza che con la tua assenza gli altri cambiavano sena
di te e tu cambiavi senza di loro, la consapevolezza che ogni volta che te ne andavi perdevi dei
pezzi per strada, magari piccoli tasselli, ma fondamentali per incrinare un rapporto, un legame o
quant’altro, fondamentali per rendere il tuo ritorno sempre più difficile, a lungo andare sapevo
sarebbe diventato anche più difficile della partenza…
Elisabetta Bagli
Non ci sono rose
Non ci sono rose,
non ci sono versi,
non c’è voce dentro me.
Muta come neve d’inverno
mentre il mio sangue
cerca sentieri
per ritornare in te.
Muta come la terra
mentre il mio corpo
brama le tue ali
ansimando il tuo dono.
Qual solitudine è la mia!
Per chi ho coltivato
l’anima che ora gode
il gusto acre della tua assenza?
Il mio dolore è rosso
e continua ad ardere
sotto le pietre
dove hai abbandonato
il nostro amore.
Marina Isceri
Ricorrente orma
Una ricorrente armonia
intensità al confine
in ogni dove
lascia impronte.
Non si scioglie al sole
sopravvive a tempeste,
vigorosa e tenace
sfama i miei giorni,
senza intervallo
la tua assenza
declama me stessa.
Angelo Francesco Anfuso
Solo un ricordo
In questa notte buia e lacrimosa,
elevo il mio grido disperato
affinché tu possa sentirmi e comprendere
quanto sei stato importante per la mia vita.
In realtà, in realtà, non puoi nemmeno immaginarlo.
Non sai nulla di me, della mi vita, del mio vissuto
del mio tormento,
delle mie parole, delle mie gesta,
del mio passato e di tutte quelle volte in cui…
Solo adesso mi rendo conto
di quanto valevi e
di quanto eri importante e
quanto ho sbagliato.
Se solo sapessi di come vivo,
di quello che provo in questo istante.
Solo bei ricordi riemergono come un
fiore nascente che feriscono il mio
cuore come lame taglienti.
La tua assenza soffoca di giorno
respiro e il mattino per me è sempre fausto.
Non immagini nemmeno
quante lacrime ho versato
in ricordo di tutte quelle emozioni che mi hai donato.
Il tuo sorriso,
le tue carezze,
le tue mani che mi afferravano,
e insieme peregrinavamo in lungo e
largo senza pensieri
senza censure.
La tua assenza si inabissa nel mio cuore, ormai
una ferita aperta: quella ferita
che mi avevi sanato con
il tuo semplice sorriso,
con il tuo tenero calore, unico in tutta la tua natura.
Ma adesso, che senso ha tutto questo?
Il mio pianto, le mie urla in questa tacita notte,
sono solo misere foglie al vento…
Mi addormento, sperando che all’alba del
nuovo giorno
ti ritrovo accanto a me,
che mi afferri la mano e
mi sollevi da quest’incubo,
ripercorrendo quella strada
che volge all’orizzonte.
Non più solo, non più nell’assenza
di te, ma solo alla tua presenza.
Andrea Borrelli
Un re ligio
Per quanto mi riguarda
Credo che potrebbe starci dentro
Tutto il tempo
Per tutto il tempio che sia
Non scherza mai
Per quanto
Esista il figlio del figlio
L’ Io d’io
Per tutto quello che riguarda
Nel tempo
Mi auguro
Che sia vuoto il tempio.
L'attesa
Per la settimana in corso il tema è L’attesa, intesa come attesa di qualcosa, qualcuno, di un evento o
di un giorno particolare, se vogliamo in stretta relazione col tema precedente, in cui il “soggetto”
mancava, qua sappiamo che è in arrivo. Qua aspettiamo che si compia il “qualcosa”. E noi stiamo
già aspettando le creazioni della fantasia e delle tastiere degli amici autori, che si stanno prodigando
nell’elargire attese a piene mani, speriamo di doverli solo attendere e non segnare fra gli assenti.
Monica Pasero
Attesa di un esordiente
Attendo da sempre qualcuno che credi in me, in ciò che scrivo, qualcuno che mi voglia davvero
dare una mano a realizzare il mio sogno, quello di diventare una scrittrice.
Attendo una casa editrice degna di portare questo nome. In questi anni con l’ esperienze vissute,ho
capito che per molte di loro io come tanti altri di voi ,siamo solo euro tintinnanti per le loro tasche.
Di ciò che scriviamo gliene importa davvero poco. Il talento non premia, la passione neppure è
triste ma è cosi . Vengono premiati i volti noti della televisione e i portafogli imbottiti. Questo non è
giusto, non lo è davvero. Quando mi imbarcai in questo mondo e mi arrivarono le prime proposte
mi sentì miracolata, ma allora conoscevo davvero poco l’editoria italiana e pensai di essere davvero
brava, se volevano pubblicare il mio libro. Compresi presto che se avessi mandato la lista della
spesa insieme ad un assegno avrebbero pubblicato pure quella. Con amarezza continuo ad attendere
la casa editrice che farà la differenza, forse solo più una chimera, ma esisterà ancora una casa
editrice che pubblica il talento e non il tuo conto in banca? .Tanti gli specchietti per l’ allodole per
noi poveri insicuri esordienti, che ci facciamo abbindolare da belle parole sui nostri testi e dal
terrore di non trovar di meglio accettiamo per poca sicurezza nelle nostre capacità.
Un messaggio è il mio per tutti gli emergenti, parola d’ordine ATTESA! Non facciamoci fregare
deve vincere il TALENTO in questo mondo di speculazione un editore serio ci sarà, lo troveremo
per cui aspettiamo!
In attesa…
In attesa da sempre
ricerca la sua anima latente
La sente così forte
da percepire
la sua presenza
Respirare il suo profumo
che sa d’amore e di pazienza
Cercarla in ogni sguardo
, che incontra nel suo viaggio
Illudersi per un attimo
che non sia solo miraggio
Bramare il suo ritorno
Che le restituirà la vita
Pregare ogni giorno
che l’attesa sia finita
L’attesa ritorna…
Odi anche tu,
questa musica lontana?
Ascolta il suo canto
che invade la tua anima
dolce e melodiosa
ricorda, che è il tuo momento.
Profezia di note,
inneggia il tuo tormento.
Speranze risorte dopo anni di torpore
risuonano oggi
tra Anima e cuore.
L’ Attesa ritorna
è tempo di ascoltare
questa dolce melodia
di una vita ancor d’amare.
Andrea Borrelli
Ciao
L’ attesa sa di te
tesa all’ attimo
che sfugge il tempo
ferma come l’ asta
di una bandiera al vento
lacrima l’ aria calda intorno
il vapore alla sorpresa
che dissolve in essa
ma è ghiaccio rosso
l’ interminabile aspettar
ancora di una parola detta
che muore dietro al suono
della tua bocca
che maledettamente resta.
Nadia Milone
Cos’è l’attesa?
Cos’è l’attesa? Oggi non mi tolgo dalla testa questa domanda. Una speranza, forse, che tutto ciò che
desideriamo si avveri. E allora aspettiamo. Si aspetta e si spera in un miracolo. Ma nel frattempo?
Stiamo lì, a sognare ad occhi aperti. E se poi il nostro desiderio non si avvera? E se attendiamo
invano qualcosa che non arriva e non arriverà mai? Come gestire, a quel punto, la paura e il vuoto
che ci rimane? A volte, si attende qualcosa anche se si sa perfettamente che non lo si potrà avere
mai, eppure non si riesce a lasciar andare il sogno. E’ anche questa una forma di masochismo, mi
sa… Eppure si sta lì e si aspetta. Ci si rigira nel letto senza prendere sonno, poi ci si alza, si va alla
finestra e si insultano persino la luna e le stelle, nemmeno fosse colpa loro se stiamo aspettando
qualcosa di irrealizzabile. Ma sono le uniche che ascoltano il nostro sfogo senza replicare, quindi va
bene così. Poi si ritorna nel letto e ci si sfoga con il cuscino… Eh sì, proprio una gran bella cosa,
l’attesa. Ma come ci si può rassegnare e smettere di aspettare qualcosa che desideriamo da morire?
No, non è possibile. A volte, si da volutamente un calcio alla razionalità e si ascolta solo la voce del
cuore, non si può fare altrimenti. E nell’attesa si pensa, si sogna, si fantastica e, a volte, si piange
ma sempre si spera ed è proprio a questo che bisogna attaccarsi, se non si vuole sprofondare. Non
bisogna lasciar andare un sogno soltanto perché difficile da realizzare o, magari, perché c’è troppo
da aspettare. Se davanti a noi si presentano degli ostacoli, forse è giusto dimostrare di essere in
grado di affrontarli e superarli per raggiungere ciò che vogliamo. E allora non arrendiamoci a
sopravvivere, ma lottiamo per vivere e se questo vuol dire aspettare… aspetteremo!
In perenne attesa
C’è sempre qualcosa di incredibilmente magico, nell’attesa. Sogni, speranze e desideri si fanno
spazio nella mente e nel cuore, un turbinio di emozioni che invade tutto il mio essere. E così,
mentre attendo un messaggio o una chiamata, la mia mente è già altrove. Sta già pensando a cosa
succederà, alle parole, alle emozioni, quasi le stessi vivendo in anticipo. Ammetto di essere una
persona un tantino ansiosa, forse la pazienza non è una mia virtù, visto che quando sto aspettando
un messaggio importante, friggo letteralmente davanti al telefono o al pc… Avete presente quel
momento in cui invii un messaggio e poi, mezzo secondo dopo, inizi a pensare di essere una
stupida, mentre controlli tremila volte se ci sia già una risposta, o peggio, quando non lo invii
affatto e controlli ugualmente, nella speranza di trovare quella piccola bustina illuminata? Ecco, a
me succede quasi tutti i giorni… E aspetto, aspetto che arrivi quell’attimo di felicità che illuminerà
la mia giornata. Piccole attese che mi fanno di nuovo sentire viva, ho ricominciato a provare
emozioni che si erano spente da tempo, consumate dall’abitudine e dalla monotonia di una vita
ormai piatta e scontata.
Ma ci sono anche attese che, oltre a far sognare, lasciano un pizzico di amaro in bocca. E sono le
attese per le cose che si teme di non riuscire a realizzare, ma che si vorrebbero di più al mondo.
Quell’attesa in cui ripongo tutte le mie speranze più nascoste, tutti i miei sogni forse irrealizzabili.
L’attesa di quel momento in cui, finalmente, il mio sogno potrebbe diventare realtà. Speranza
inutile, forse, ma non voglio smettere di sperare e di aspettare. Perché se si lascia morire anche la
speranza, niente vale più la pena di essere vissuto. Ho smesso da tempo di credere alle favole, da
quando in passato qualcuno mi ha fatto capire, nel più crudo dei modi, che la vita non è fatta di
sogni ad occhi aperti, che le speranze vengono schiacciate dal peso della realtà e che aspettarsi il
lieto fine è assurdo e infantile. Forse oggi dovrei persino ringraziare questa persona, perché io tendo
sempre a volare con la fantasia e sognare che nella vita ci possa essere anche qualcosa di bello,
mentre forse non è poi così sbagliato rimanere un po’ con i piedi per terra. Se cadi, ti fai meno
male… Ma nonostante tutto, malgrado le delusioni del passato, io sono sempre io e continuo ad
aspettare la mia rivincita. Non voglio smettere di sperare in qualcosa che potrebbe rendermi felice e
rinunciare in partenza. No, io preferisco aspettare e sperare e, se la mia dovesse essere solo l’attesa
di un sogno, vorrà dire che, quando mi sveglierò, saprò di aver sognato il più bel miracolo della mia
vita.
Rossana Roxie Lozzio
Fra uno show e l’altro
Attendo di rivederti… sotto ad un palco che dovrebbe essere anonimo ma che invece, per me,
rappresenta un paesaggio primaverile.
L’attesa è cominciata molto tempo prima, in realtà… dal momento in cui ho saputo che saresti
arrivato. Da lì, è partita la fibrillazione infantile, quella che non ho nemmeno mai vissuto
nell’adolescenza, quella che mi fa sentire viva e felice di esserlo, durante la quale mi occupo di
procurarmi il biglietto, la compagnia migliore con la quale prendere parte allo show ed incomincio a
pianificare il viaggio.
Poi, dopo giorni trascorsi ad aspettare, giungono quegli ultimi, interminabili, sessanta minuti…
durante cui mi ritrovo seduta in una platea, più o meno elegante, dipende dalla cornice del posto e
mi ritrovo a guardarmi intorno, a studiare le facce che mi circondano, a tentare di pensare ad altro
che non sia quello che mi accingo a vivere, a sforzarmi di concentrarmi su quanto mi sta dicendo
chi mi ha accompagnato e invece, il cuore batte così forte che ho persino timore che lo sentano i
vicini di posto!
Le luci si spengono, comincia la musica e una voce ti introduce… da quel momento, m’invade uno
stato di pura estasi, precisamente quella mai vissuta nell’età in cui, per chi non è abituato a sognare,
dovrebbe essere consentita e che mi fa sentire viva e felice di esserlo.
Durante il tempo in cui rimani su quel palco, di fronte a me che faccio sempre in modo di ritrovarmi
nella posizione centrale, mi estraneo da tutto e da tutti… nella mente non c’è più posto per i
problemi quotidiani, per i dolori che mi hanno colpito nel corso della mia esistenza, per tutto quello
che è accaduto nella parentesi di tempo fra lo show che lo ha preceduto e quello a cui sto di nuovo
assistendo. Non esisto più per quello che sono stata prima, per quello che sono ora e per quello che
mi scoprirò ad essere, quando l’incanto sarà terminato.
Poi, inevitabile, arriva la fine… sorridi, saluti, ti congedi ma fortunatamente ritorni, per concederti
di nuovo al pubblico che ti ama e che ti riconosce per quel magico istrione che sei. Ancora una
volta, però, giunge la fine e per davvero. Le luci – sul palco e tutto intorno a me – si spengono e per
me, ricomincia l’attesa.
Una vita in attesa di te
Quanti colori ha l’attesa, quanti sapori, quante emozioni cela in sé… e quanto può durare,
un’attesa?
Da una manciata di attimi ad ore, da qualche giorno a chissà, persino qualche anno… e in cosa può
consistere e cosa ci può regalare, l’attesa?
Può essere un abito differente, anche se non ci rendiamo conto di essere solo noi ad attribuirle più o
meno importanza e valore e potremmo attraversarla con leggerezza, se soltanto non ci vestissimo di
lei portandocela addosso.
Si vive di attese, ci si colma di ansia, di domande, di dubbi e intanto si va avanti e la vita
c’invecchia, mentre siamo distratti fra l’attesa di qualcosa o di qualcuno.
E’ da tutta la vita che ti attendo, da quando mi sono imbattuta nel profondo scuro dei tuoi occhi e da
quando la mia anima ha compreso che non si sarebbe potuta accontentare di specchiarsi che nella
tua, così celata e a tratti, molto buia ma colma del sole che è fuori e dentro di te!
Ricordo attese drammatiche, come quella che mi avrebbe separato dalla partenza terrena dei miei
genitori… ricordo di aver atteso invano, molto spesso, risposte non pervenute, contratti mai giunti a
destinazione, promesse che non sono state mantenute e ricordo di essere stata ad aspettare notizie
esaltanti che mi hanno fatto saltellare per la gioia, ritorni di amici da viaggi che ci avevano tenuto
lontani, che iniziassero concerti per i quali sarei entrata in fibrillazione!
Ma è da quando è cominciata l’attesa di te, dopo che ho accettato l’idea che sarebbe stato per
sempre e che mai saresti arrivato a colmare la mia esistenza, per condividerla al mio fianco… che
non è più esistito niente, nessuno, nessun’altra attesa, anche la più emozionante, che mi abbiano
elettrizzato quanto quella di rivederti. Tutte le altre attese sono solo parentesi, più o meno lunghe,
che ingannano il mio tempo mentre aspetto che ritorni.
Marina Isceri
L’attesa
L’attesa
assorbe il tempo
un soffio che si perde
tra forti venti,
l’attesa di un attimo
eterna illusione,
un pensiero
che possa arrivare
dove una mano
è ormai distante.
L’attesa,
di uno sguardo sincero
possa sciogliere
lacrime di neve
in fondo all’anima.
Arrendersi dinanzi
a questo inganno
di attendere che niente,
è ormai perduto.
Regina Re
La componente
Sfogli le pagine, lentamente, attenta a non saltarne neanche una.
Lettura distratta, limitata alle immagini. I particolari saltano fuori e si aggrappano ai tuoi occhi
stanchi di sforzarsi a comprendere le parole.
Specchi intorno a riflettere un mondo chiuso in una stanza, cerchi qualcosa tra le tante, non sai
esattamente come e dove, sai solo che qualcosa può sempre cambiare le altre.
Il rumore diventa più forte, a tratti, nessun fastidio se qualcuno entra e si siede accanto a te. Hai un
numero che ti dà la precedenza, non corri alcun rischio, hai un posto, un codice, un colore per ora
fisso.
I colori sono importanti, dai colori dipendono i codici e dipendono tante altre cose.
Ma c’è una componente che abita la zona gamma di una parte di te che non ti è molto chiara. Non ci
sono raggi ma catene leggere, in questa regione dove un solo clone è abilitato a produrre
plasmacellule fatte in serie.
E’ l’unica parte di te che non vuoi conoscere troppo bene.
La componente è fondamentale, ti dà un tocco di stile, ti differenzia in qualche modo da quelli fuori
questo mondo chiuso. Il tipo di componente ti distingue da quelli dentro, seduti accanto a te. Molti
hanno maschere, non c’è smog ma la loro aria deve essere comunque filtrata dalle minacce
microscopiche nascoste.
Il tuo colore non è importante e non è quello della tinta per i capelli.
Per una volta ti senti fortunata a non avere un colore importante, a non avere la precedenza. Non sei
tu a darla per galanteria, semplicemente spetta ad altri.
Quello più simile al colore che hai in testa si sarebbe abbinato di più alla tua mise ma preferisci non
essere coordinata, meno intonata, meno controllata.
Dal colore dipende l’attesa.
Lo stesso colore che al semaforo ti fa scattare in avanti, qui ti tiene fermo per ore. Fermo a pensare
quando sarà la tua prossima attesa.
Non dipende mai da te, dipende dal caso, dalla lettura di altre pagine, da numeri, da dati che si
preferisce restino invariati. La stabilità non riguarda soltanto la mente, il tuo lavoro, il tuo conto in
banca, il tuo rapporto.
La stabilità sta anche in quell’angolo del tuo salotto dove un mobile è stato posto ed è lì, fermo, ad
aspettare che ogni tanto ti ricordi che esiste. Non è un elemento fondamentale, non ti cambia la vita
la sua presenza ma occupa uno spazio, un piccolo spazio dove non puoi metterci niente altro. E’ un
regalo, è un cimelio di famiglia, di certo non puoi darlo via. Ma se potessi, preferiresti avere quello
spazio vuoto, da riempire con niente che non sia strettamente necessario.
Necessaria è l’attesa.
La stabilità di una componente è inversamente proporzionale alla quantità ma non è mai certezza
assoluta, anche se la certezza non la si ha mai di nulla.
I tuoi libri sono custoditi, sei scomposta in dati che speri si ripetano a vita invariati, capitoli
monotoni che si aggiungono ormai di rado alla tua storia.
La creatività non è la benvenuta in questo salotto.
Ci si siede e si aspetta, nell’attesa di qualcosa che mai potrebbe arrivare ma che preannuncia
continuamente una sua visita a data indefinita.
Elisabetta Bagli
La stazione
Tremi, scrivi,
ti muovi, pensi.
Guardi l’orologio,
sudi.
Arriva il treno.
La vedi. Scende,
Rossa e nera
capelli al vento
tacchi a spillo,
gonna impertinente,
labbra da esplorare
È lei. Sì, sono io.
Un lampo, un bacio,
passione negli occhi,
nei corpi vividi.
L’attesa è svanita.
Ancora un bacio,
un altro ancora.
Mani ansanti,
intrecciate come fili
di perle di fuoco
ardono nel desiderio
che ci consumerà
una sola volta,
nel nostro eterno segreto.
Vago sola
Vago sola nella notte oscura,
le mie gambe senza meta
camminano per il tuo sentiero
nell’attesa del tuo sguardo,
delle tue braccia intrecciate alle mie,
delle tue labbra rosse
isole sulle quali perdermi
e sentire che il mare che mi viene da te
è la vita che ho sempre sognato.
Voglio vederti ancora,
voglio rimanere tra le tue pieghe
e godere del tuo amore eterno.
Ti aspetterò anche se non arriverai,
anche se già so che non sei mio.
Nadia Lattanzi
Non c’è più attesa
Ho smesso di aspettare. Non ne ho più la forza..continuo ad essere in balia di te. Non va più bene e
non riconosco più la persona che si è messa in viaggio. L’attesa è l’unica cosa che noi abbiamo in
comune. Tu aspetti che io mi disamori di te. Io aspetto che tu torni quella che eri. Vana, inutile e
dolorosa. Ho smesso di aspettare.
Gabriele Palumbo
Senza tempo
Nell’attesa riempio la mia testa di musica, nell’attesa alzo lo sguardo al cielo, nell’attesa cammino,
incessantemente cammino, nell’attesa penso, penso a ciò che sarà o a ciò che è stato, nell’attesa
penso quanto ancora dovrò attendere, nell’attesa spero…
Maurizio Donte
Speranza
Cosa sarà della speranza,
quando l’illusione muore…
attraverso gli occhi di chi t’ama
risplendi e di ciò ti glorii…
avvolta in una nube
di malcelata superbia,
imponi all’altro la tua presenza.
Misero è colui che da te dipende,
…o tu, creduta Diva!
Passeranno i giorni
e avvizzirà la tua pelle:
fugge bellezza verso il tramontar
del sole, nel vespero si perde
giovinezza, creduta eterna.
Non più soneran suadenti
alle tue orecchie lodi,
di tua beltade resterà
il ricordo solo ed in tua man
raccolto, null’altro sarà
che solitudine
Angelo Francesco Anfuso
Un’attesa da sogno
In questo lasso di tempo
nell’attesa del tuo ritorno
chino il mio capo
per abbracciare e farmi cullare
dalla docile notte
affinché il sonno appagasse i miei sensi.
Si eleva il mio intelletto
come ali d’aquila verso l’orizzonte
scrutando le alte vette del tempo
in cui come per incanto
ripercorre a ritroso
le valli del nostro passato,
in cui, cielo e terra
si sfiorarono in quell’abbraccio stretto
duraturo e saldo.
Nell’attesa del tuo ritorno
rivivo l’emozione di quei
teneri ricordi
in cui varcammo i limiti della natura.
Sfidammo le sue leggi
in cui, per grazia o per condanna
ci gettammo tra le braccia di quel dio,
il quale, oramai,
non teme nulla dinnanzi all’onnipotenza
di quel sentimento
che nel segreto di quella beata notte
mi rivelasti.
Forse casto, o forse impuro,
agli occhi della misera cecità umana,
come stella nascente
portò alla luce il candore della sua essenza.
L’attesa si fa sempre più forte
diventa una forte brama per i miei sensi,
forse, un desiderio da realizzare
fame da saziare
ansia da sedare
o forse, come un pezzo di pane da sudare
o forse…
Mi appanna un po’ i sensi, l’attesa,
forse non comprendo.
Sento il tuo profumo
il tuo calore
il tuo respiro
la mia mano che afferra la tua
il tuo corpo tanto lontano ma così vicino.
Il tuo brivido aleggia sulla mia carne.
le nostre affinità sono sempre più elevate:
sensazioni uniche nel suo genere
inappagabili nella loro grazia
maledetti per la loro natura.
L’attesa si quieta
svanisce come soffio al vento
o come un’ onda vibrante che si espande all’orizzonte.
Diventa mansueta in tutto
il suo splendore.
Come per volere
prendo coscienza
dell’amore che mi doni
in questi momenti di attesa
del tuo momento,
o mio tutto!
Ecco, è giorno ormai!
Apro gli occhi e vedo
il tuo corpo disteso
il tuo capo chino sul mio
le tue braccia sul …
Tu, luce su ogni cosa
tu, calore che mi rischiara
tu, ristoro del mio animo
tu, attesa che svanisce.
Nei miei sogni ti ho atteso
e in essi hai preso
forma e sostanza
assenza e presenza
angoscia e sicurezza
ansia e calma
buio e luce
morte e… (adesso respiro) vita!
In te si è colmata ogni attesa
in cui si limita l’eternità
in cui si calcola la distanza del tempo.
in cui…
tutto è concesso.
Solo in questo luogo
in cui il mio cuore attende,
tra le tue braccia,
giungo a verità.
L’attesa è svanita o forse, non c’è mai stata…
La lussuria
Il tema invece per la settimana a venire sarà un po’ più acceso e meno statico, difatti il gruppo ha
scelto il preferito fra i sette peccati capitali proposti, ne è uscito La lussuria. Per cui immagino ci
troveremo sotto gli occhi pezzi piccanti, bollenti sensuali e peccaminosi. Lasciamo quindi ai nostri
autori la libertà di esprimere i propri punti di vista sul mondo della sensualità in ogni sua
declinazione, sia lussuria da vivere, vissuta o passata, quello della settimana sarà un argomento su ci
confrontarsi con spregiudicatezza e fantasia.
Amici del girone dei lussuriosi, state in contatto perché se ne leggeranno delle belle!
Glory
Accoglimi
Nuda innanzi a te priva di ogni vergogna, manchevole di quel pudore che da sempre celava le mie
insicurezze
Oggi, qui innanzi a te amore mio, non ho maschere, né veli e mi mostro nelle mie fragilità più
intime. Accoglimi così, con i miei difetti, con il mio corpo imperfetto, marchiato dal tempo che
muta e trasforma il mio involucro, ma la donna che in me vive ancora come un tempo. Le sue
passioni segrete ancor attendono d’essere appagate e sotto anni d’annullazione, giace trepidante,
bramando di rivivere ancora quel tripudio di sensi che accomuna da sempre un uomo e una donna
rendendoli schiavi dei loro istinti. Due corpi nell’estasi del momento in quell’istante eterno, dove
sensi e passioni si mescolano dando vita all’unicità dell’essere umano di donar se stesso in quel
meraviglioso gioco di carne e anima chiamato Amore. E io qui innanzi a te, in questa notte dove la
vita incontra la morte, dove tutto è stato e tutto deve ancora giungere, Io qui bramo il mio bisogno
ancor una volta, ricerco la vita nel estasi dell‘amore.
Oliviero Angelo Fuina
Cunnilingus da: “Vocali in apnea”
Pieghe segrete solcherò lieve
scivolando nel tuo abbandono
sarà piuma d’un angelo perso
a squarciarti clitoride veglia
sulla lama di un netto confine
annegandomi senza ritorno
Fra suoni ancestrali di risacca
immergerò il mio viso nel mare
bevendo del piacere le onde
increspando lo sguardo nel sale
sui dischiusi petali vermigli
- umidi a specchiarsi nel riflesso labbra che fagocitano labbra
lingua a demolire resistenza
ovattati sussurri d’un nome
cosce di cera a serrarmi udito
- roco tuo scalfire di parole
cercando nell’aria le vocali - e graffierai goffa la notte
nel feroce inarcarsi dei fianchi
annaspando pelvici sussulti
fra smorfie disegnate d’apnea -
Nel turgido svettare contro il fiato da: “Vocali in apnea”
La tonda vocale del tuo cercarmi
già catalizza l’umido mio sguardo
è offerta di labbra a solcare vene
nel turgido svettare contro il fiato;
scorrerò sulle pieghe di papille
ancorandoti ai capelli le dita
spiegherà la tua mano alla ferita
di un banchetto, gocciolando gli ardori.
Sei guaina ad ogni spasmo deglutire
affermando dislessica col capo
corsa finendo nei baci al mio ventre
celandomi alla vista la tua brama.
Mani a ghermire glutei in contro canto
donando del respiro il ritmo al corpo
mentre i tuoi seni premono ciliegie
coscia che incidi in turgido sfiorare.
Monta marea nel lago dei sussurri
mentre la lingua peripla la vetta
guance scavate a contenere guizzi
nell’esplosione calda a dissetarti.
Simulando l’impronta del tuo corpo da: “Vocali in apnea”
È ancora il tuo biancore immaginato
ad arruffare voglia a inturgidire
è lento il mio crollare alle carezze
raccontando le tue curve alla pelle;
inarco il fiato caldo al desiderio
simulando l’impronta del tuo corpo
stringo scettro in assenza di regina
a stirare le mie vene già gonfie;
affondo il movimento a denudare
la cupola vermiglia dal prepuzio
mancanza che travesto di piacere
battezzando la mano col tuo nome;
nel ritmo si frantumano vocali
e monta inarrestabile marea
singhiozzo quest’inganno nella notte
che orfana riplasmo nei pensieri.
- dentro l’apnea di un illuso sussulto -
Andrea Borrelli
Luce
Camminare
il lusso di camminare
veder le cose bene attento
a prendere con calma
il bisogno di osservare.
Passeggerei per descrivere
nella mente.
Non cerco correre
troppo veloce sobbalzerei
i particolari importanti.
Stare fermo non mi aiuta.
Neanche.
Per più di un passo
alla volta
non andrò veloce
ma svelto.
Nadia Lattanzi
Respiro
….e se respiro poco è solo perché tu sei lontana…quando ero con te l’aria entrava nei polmoni ed io
non dovevo guidarla in nessun posto..lei sapeva la strada…
…e se non fosse amore si sarebbe persa..avrebbe vagato nel mio corpo senza dare vita al mio
respiro…
Regina Re
Scomponiti
E chi non compra un vino per l’etichetta, un paio di scarpe per il tacco ed una donna per il suo culo?
E’ un lusso diciamocelo, l’esagerazione concessa all’occhio, una lussazione dell’oggetto, la visione
parziale di zone buie illuminate. Il resto è noia e ripetizione, un fritto misto dell’interezza, un corpo
scomposto, ad ogni parte un numero.
Il più alto al centro.
Calamita mi tiri, quattro frecce, ferma la macchina che fai il botto.
Non ti specchiare che ti puoi vedere. Non guardarti negli occhi, occhio è confronto che non reggi.
E’ un lusso che non ti puoi permettere. Sentiti vivo in questo istante, quando freccia e croce sono
simboli di corpi diversi. Una concentrazione di organi.
Il sole in un pozzo di gesti e movimenti.
E più sei pieno di vuoto e più ti svuoti riempiendo.
Vola farfalla, vola e lasciati ammirare
Che la polvere si perde in un battito di ali
La scala buia che va in cantina
Tema prossimo venturo, sempre votato dagli autori del gruppo fra gli altri temi proposti, è “La
scala buia che va in cantina“. Tema che può essere inquietante ma non necessariamente deve
esserlo. Può anche essere interpretato in modo simbolico e/o onirico. Speranzosi stavolta di
raccogliere un maggior numero di composizioni, chissà cosa troveremo su quei gradini e magari,
anche nella cantina? Sorprese o timori? Cosa penseremo, spereremo o ricorderemo scendendo?
Cosa creeranno con la loro fantasia questi inarrestabili scrittori, lo saprete la prossima settimana, per
adesso tutti a leggere (o a scrivere).
Monica Pasero
La scala dei ricordi
Passi lenti i miei, scanditi ad ogni battito di cuore avanzano verso il passato.
Con calma innaturale scendo giù per la lunga scala. Quanto tempo è passato penso. Discendo
lentamente quei gradini, dimentica del perché io sia qui solo ora.
Il buio avvolge ogni mio senso. Tutto intorno a me non ha contorno, il nulla ne fa da padrone anche
se è sol mascherato, basterebbe un’imposta aperta, una luce fioca per svelare e far fuggir le mie
paure, riportando ogni contorno alla sua realtà. Ora però quel nero tetro ricopre ogni cosa e luce non
v’è in questa mia discesa.
In fondo nell’oscurità si celano ricordi d’anni lontani, mi abituo al buio ormai dentro e fuori me,
l’udito e l’olfatto mi indicano la strada. I gradini scricchiolano al mio passaggio un inquietudine mi
vela il cuore, ma profumi dei tempi passati mi trasmettono nuova serenità, riportandomi alla mente
quei giorni trascinati via dal tempo che inesorabile non ferma la sua corsa. Profumi di vino, di
mosto mi rammentano i giorni di vendemmia, quando la vita s’inebriava di valori e gli occhi dei
mie cari s’illuminavano di gioie genuine donate dal duro lavoro.
Proseguo, ma sbatto contro qualcosa. Un dolore sordo pulsa sulla mia caviglia, afferro il colpevole
di tutto ciò un barattolo si è un barattolo intravedo a malapena il tappo è una vecchia composta, con
le mani sento la polvere che lo ricopre e l’odore forte di muffa che lo avvolge. Ripenso a mia nonna
nel suo sbucciar con pazienza la frutta e poi il profumo che aleggiava in quelle liete ore, dove ancor
bambina vivevo la serenità di quei tempi.
La mia discesa volge al termine, presto sarò giù da quella buia scala, potrò cercar l’interruttore che
illuminerà ogni mio ricordo, anche l’ultimo gradino è fatto, ecco premo il tasto ed una vecchia
lampadina illumina la cantina dei nonni. Quanti ricordi, gli occhi si riempiono di gioie dimenticate.
Mi rivedo con i mie codini il buffo abito a fiori e mani che stringono le mie mani rugose e vive più
che mai quelle dei mie nonni.
Elena Grifoni
Le scarpe viola
Potrei continuare ancora a cercarle ma, a questo punto, avendo ormai guardato ovunque, non sono
affatto sicura di riuscire a trovarle. Ho praticamente messo a soqquadro la mia vecchia cameretta
buttando tutto all’aria quando mia madre, forse disturbata dal rumore, si affaccia alla porta e con un
tono fra il sorpreso e il seccato esclama: “Ma si può sapere cosa stai combinando?” Emergo da sotto
il letto e rispondo “Sto cercando le mie scarpe viola. Sai quelle con il tacco alto e le decorazioni in
Swarosky? Quelle del compleanno! È la tradizione!”
“Ah quelle… credevo che le avessi portate via quando ti sei trasferita” “Mamma, lo sai benissimo
che non è così! Quelle scarpe sono sempre rimaste qui, in questa stanza, e precisamente in una
scatola nera sulla mensola dell’armadio; e adesso sono sparite! Tu hai idea di dove siano andate a
finire?” “Scatola nera hai detto? Ah, quella… L’ho messa giù in cantina insieme ad altre
cianfrusaglie di tuo padre, per fare un po’ di spazio.”
“Cavoli mamma! In cantina? Adesso vai e la recuperi!” rispondo seccata.
“Ma neanche per idea, se vuoi quelle vecchie scarpe te le vai a cercare!” Detto questo si gira ed esce
senza nemmeno aspettare una mia risposta.
-Giù in cantina… vale a dire perdute per sempre!- penso mentre cerco di ricordarmi la disposizione
degli spazzi nel grande seminterrato. L’estensione è praticamente quella della casa ad eccezione del
locale caldaia e della lavanderia che sono separato e da cui si accede da una scala esterna. Alla
cantina invece si arriva da una ripida scaletta di legno e da una porticina bianca in corridoio poco
distante dalla cucina. Ho sempre odiato quel posto umido e buio, pieno di cianfrusaglie accumulate
negli anni, in cui mia madre mi metteva in castigo quando ne combinavo una davvero grossa. Tutti i
miei giocattoli, prima o poi, andavano a finire la dentro e, irrimediabilmente, sparivano per sempre.
Con gli anni lo spazio si è via via ristretto, invaso da mobili e suppellettili per la casa sostituiti con
dei nuovi o più alla moda, ma mai gettati perché “non si sa mai”. Ora anche le mie adorate scarpe
viola, quelle che indosso sempre, senza eccezione, in occasione del mio compleanno, sono state
fagocitate dalla famigerata cantina. “Eppure lo sapevi che sarei venuta” grido a mia madre dal piano
di sopra.
“Ti ho chiamato ieri apposta per dirtelo”
“Dirmi cosa?” risponde lei da sotto.
“Dirti che oggi sarei venuta a prendere le scarpe”
“Quali scarpe?” – Ma allora me lo fa apposta! – penso.
“Quelle che hai esiliato in cantina!” urlo arrabbiata mentre scendo le scale. Nessuna risposta. “E va
bene, vorrà dire che scenderò giù a cercarmele…”
“Ecco brava” dice lei passandomi davanti mentre si dirige verso il salotto.
“Ma non buttare tutto all’aria anche laggiù!” aggiunge poi con aria seccata.
Sto per esplodere, ma riesco, con un respiro profondo, a mantenere un discreto autocontrollo. Mi
incammino lungo il corridoio in direzione della cucina. Eccola lì, la porticina bianca tanto temuta.
La maniglia oppone un po’ di resistenza, forse a causa del poco uso, e quando riesco finalmente a
sbloccarla la porta si apre emettendo quel sinistro cigolio che ho sempre associato a case di fantasmi
e film dell’orrore. – Ecco, non avrei dovuto pensarci – mi dico mentre un soffio di aria gelida
proveniente dallo spazio buio davanti a me mi fa rabbrividire. Apro totalmente il battente
appoggiandola contro il muro del corridoio per avere un po’ di luce mentre scendo quei quattro
gradini che mi separano dall’interruttore. Devo stare attenta a dove metto i piedi perché la scala non
solo è ripida ma ha anche i gradini belli stretti. Ne scendo un paio, anche questi molto scricchiolanti
e cedevoli sotto il mio peso, cercando di posizionare i piedi in diagonale e appoggiandomi al muro
con una mano per non perdere l’equilibrio. Mi sto sporgendo per raggiungere l’interruttore quando
vedo che il cono di luce proveniente dal corridoio si riduce velocemente fino a che, con un sonoro
tonfo, la porticina alle mie spalle si chiude lasciandomi completamente al buio. Un’imprecazione
mi esce spontanea solo per perdersi nel vuoto davanti a me dandomi l’illusione di trovarmi in una
caverna. Fortunatamente dopo un minuto i miei occhi si abituano un po’ all’oscurità e riesco a
scendere, trattenendo il respiro, i due scalini che ancora mi separano dall’interruttore. Individuo al
tatto la placca sul muro e torno a respirare. – Ok sono salva – penso mentre spingo il bottone e mi
aspetto di vedere la luce. Niente. Per esasperazione più che per convinzione spingo il bottone più
volte sperando che così facendo cambi qualcosa. Corto circuito o semplicemente lampadina
fulminata che mia madre non si è preoccupata di cambiare? Ok non importa, c’è una torcia elettrica
nel cassetto di cucina, salgo a prenderla e magari, già che ci sono, prendo anche una lampadina
nuova. Risalgo gli scalini inciampando evitando per un pelo la caduta schiacciandomi contro il
muro, ma una volta arrivata alla porta mi accorgo che manca la maniglia.
“Hai tolto la maniglia?! Ma sei impazzita?” grido a mia madre sperando che mi senta. “Mamma!
Non posso uscire” grido ancora battendo sulla porta per attirare la sua attenzione. Poi accosto
l’orecchio per sentire eventuali rumori. Niente. Silenzio totale. – Quando esco da qui giuro che la
uccido! – Cerco di calmarmi, devo trovare una soluzione. Esploro al buio la porta con le mani e mi
accorgo che c’è una serratura vecchio stile; allora mi ricordo che in fondo alle scale c’è una bacheca
con attaccate ed etichettate le chiavi di tutte le porte di casa! E di sicuro c’è anche quella della
cantina, e nel cassettone poco distante c’è una scorta di candele. – Per fortuna ho sempre con me il
mio fidato accendino… – Faccio un respiro profondo e l’aria umida di muffa mi pizzica il naso
facendomi venir voglia di starnutire. Lancio un altro colpo alla porta più per rabbia che per altro e
poi di nuovo giù, un passo alla volta, appoggiandomi al muro, cercando a ogni passo di far aderire
bene il tallone alla parte posteriore dello scalino per non rischiare di scivolare e farmela tutta a
rotoloni. A ogni gradino la scala scricchiola sempre più sonoramente. – Me la ricordavo più corta,
adesso sembra senza fine… – non so proprio come orientarmi immersa nel buio e nel silenzio, rotto
solo dai gemiti del legno e dallo strusciare della mia mano sul muro; non riesco a capire quanto ho
già percorso né quanto manca alla fine. Man mano che scendo la parete si fa più fredda e ruvida.
Poi il piede incontra una superficie più solida, ecco il pavimento; sono arrivata in fondo alla scala,
finalmente! Mi sento la brutta copia di un mimo mentre con entrambe le mani appoggiate al muro lo
percorro a tentoni in cerca della famosa bacheca. La trovo, tocco le chiavi appese e realizzo che al
buio non potrò mai riconoscere quella della cantina. Continuo allora il mio percorso verso il fondo
della stanza in cerca del cassettone e delle candele. Dopo qualche passo sbatto contro una libreria
che ostruisce il mio cammino; cerco allora di camminare scostata dal muro. Adesso sì che sono
disorientata… mi sembra di fluttuare, a braccia tese come un funambolo, su un ponte sospeso! D’un
tratto mi blocco. Sono sicura di aver sentito un rumore: un movimento strascicato proveniente dal
centro della stanza. Poi, una sorta di respiro. C’è qualcuno che sta respirando qui sotto… e si sta
muovendo! D’istinto indietreggio solo per trovarmi a sbattere di nuovo contro la libreria
provocando un piccolo sbuffo di polvere e la caduta di qualcosa dal ripiano più alto a cui fa eco un
risolino soffocato. Sempre con le spalle incastrate fra gli scaffali cerco freneticamente qualcosa con
cui difendermi, ma prima che io riesca ad afferrare un oggetto qualsiasi improvvisamente la luce si
accende lasciandomi, per qualche istante, abbagliata e disorientata. Poi, un grido mi fa sobbalzare
“Sorpresa!!!” Con il cuore in gola sbatto gli occhi più volte per riuscire a mettere a fuoco il
gruppetto di persone che, sorridenti davanti a me, agitano le mani e gli striscioni di auguri. Ancora
un paio di secondi per capire che quei pazzi dei miei amici con la complicità di mia madre, mi
avevano organizzato una festa a sorpresa per il mio compleanno.
“Ma siete tutti impazziti? Mi potevate far venire un infarto!” Esclamo mentre tutti mi si avvicinano
per farmi gli auguri. “Grazie di cuore, ragazzi, questa proprio non me l’aspettavo… ma state pur
certi che prima o poi ve la farò pagare!”
Regina Re
Master Dei
Se ne stava silenzioso alla sua scrivania. Quella mattina i corridoi erano disabitati.
Circa 30 minuti d’anticipo sull’orario d’entrata sono una gran conquista per chi vuole evitare il
traffico della strada e dei corridoi. Le macchinette del caffè ad ogni piano erano come i caselli
dell’autostrada. Era obbligato a fermarsi e a pagare, non per il caffè, ma per ogni “buongiorno” che
era costretto ad elargire senza alcuna generosità.
Il caffè non lo beveva, per presa di posizione, per non mischiarsi con chi gli offriva una possibilità
ogni mattina per scambiare quattro chiacchiere che poi sarebbero state tramutate in quattro frecce.
Non quelle della macchina che varca il casello. Quelle che varcano i confini della sopportazione
umanamente concessa.
“Non c’è amicizia intorno alla tua scrivania”, si ripeteva, ogni volta che rifiutava l’ennesimo invito.
Le possibilità le aveva scartate tutte e quindi aveva cestinato anche il caffè e la pausa pranzo.
Possibilità che non erano per lui ma per altri. Momenti ludici per spezzare la triste quotidianità di
chi si annoiava e aveva trovato in lui un gioco divertente da portare avanti. Un GdR, un Gioco di
Ruolo che dal tavolo si era spostato nel vivo delle coscienze senza nome ma con mille facce.
Chi avesse posseduto una quantità discreta di coscienza, si sarebbe rifiutato di giocare e si sarebbe
opposto alle regole dettate dal Game Master. Ma nessuno ne aveva più di coscienza. Tranne lui.
L’ambiente immaginario, le schede personaggio erano tutte studiate di modo che Alex avrebbe
avuto un solo ruolo: quello di chi doveva essere fatto fuori dal gruppo.
Era lì da 30 minuti a ripercorrere la storia delle sessioni di gioco che si svolgevano da un paio di
anni ormai.
Ci si era trovato per caso ed il caso, in questi casi, è sempre uno sbaglio.
Aveva accettato l’invito per un caffè, dopo la pausa pranzo.
Era nuovo in quell’azienda e gli era sembrato un buon modo per socializzare.
Aveva accettato l’invito da una delle pedine del Master.
In pochi minuti al Master erano arrivati i suoi dati e Alex, non appena tornato alla sua postazione,
aveva ricevuto una mail. Il mittente era semplicemente: “Master”.
Aveva aperto pensando che fossero le solite password dell’I.T.
Si era trovato davanti ad uno schermo nero con una scritta rossa al centro: “Security Instruction”.
Aveva cliccato sulla scritta convinto che fosse una maniera originale per istruire il personale nuovo
e non si era minimamente reso conto di aver varcato la porta dell’inferno.
Del resto la vita è un gioco manovrato dall’alto e che differenza volete che faccia un gioco
manovrato dal basso?
Il basso di un edificio che non è abbastanza alto per sfiorare il primo strato di cielo ma che dona ai
suoi abitanti la continua promessa di arrivarci.
Alex aveva giocato la sua prima partita tra applausi e sorrisi e aveva preso i suoi punti guadagnati
con di gioco.
Il gioco consisteva nel far fuori un dipendente a caso scelto dal Game Master.
Si era anche divertito a seguire le istruzioni: “Stampa l’allegato che hai appena ricevuto da Drago 7,
Recati presso l’ufficio B16 , 3’ piano e consegnalo dicendo che il documento te lo ha appena
consegnato l’autore stesso!”.
Soltanto il giorno dopo era stato chiamato dai piani alti e aveva ricevuto una promozione
accompagnata da un cerimoniale di elogi per aver consegnato un documento che incastrava l’autore
stesso. Era un falso e lui lo aveva capito soltanto quando gli era stato detto: “Non vogliamo neanche
sapere come ci sei arrivato. Ciò denota una grande intelligenza e una devozione particolare alla tua
azienda”.
Stordito era tornato al suo posto. Una nuova mail, nuove istruzioni, un nuovo nome, un nuovo
bersaglio. Da quel momento aveva cominciato a cestinare le mail ma lo schermo continuava ad
aprirsi e richiedeva di cliccare sulle Istruzioni. Pertanto aveva pensato di ingannare il Master e
aveva cominciato a far finta di giocare. Ma alla fine di ogni partita veniva chiamato a fare i conti
con qualche pedina.
Aveva stravolto le regole, aveva creato un nuovo gioco dove ogni giocatore ormai riceveva soltanto
il suo nome.
L’entità del miglioramento dei suoi personaggi era improntata su tattiche d’astuzia, l’unica arma
pulita che gli veniva concessa dal Master.
Il Master offriva potenti mezzi ma in cambio voleva pezzi di cervello virtuale. Voleva sostituire le
parti di cervello attivo con parti di cervello passivo. In cambio avrebbe dato dei bonus a seconda
dell’ambientazione del giorno: fiaccole, clave, lance, coltelli, sassi, fucili, pistole, mitra, veleni,
bombe.
Ma lui i bonus non li aveva mai accettati.
Erano passati due anni e in due anni aveva superato il limite, era sopravvissuto a tutti i tranelli,
aveva superato impossibili livelli.
Quel giorno era lì a studiare. Avrebbe voluto un’arma invincibile per abbattere il cervello che
governava quel gioco, per dar fuoco ad Outlook e a tutte le macchinette del caffè e a quella fottuta
sala mensa dove nel vassoio ti servivano trappole per primo, secondo e contorno. Al dolce Alex
stava già vomitando e la bottiglietta dell’acqua se la conservava sempre per il dopo.
Mail. Nuovo messaggio. Ore 08.30. Prima nessuno era abilitato a giocare.
Apri. Schermo nero ed una scritta “Canteen”. Entra. Altra scritta: “Menu”. Si ricordò di quella
volta, circa due anni prima, mentre andava a mensa e un tizio gli aveva chiesto in Inglese “I’m
sorry, where is the canteen?”. Forse l’emozione, aveva capito “cantina” e gli aveva indicato un
ristorante che aveva una cantina e che si trovava proprio nella zona industriale.
La barra menu aveva una sola opzione.
Aveva cliccato e si era trovato una scala in 3D, nella penombra era apparsa una busta che conteneva
le Istruzioni.
L’aveva aperta.
Un solo imperativo: “Go down stairs”.
Era sceso e alla fine della scala aveva trovato una scrivania ed un PC.
Il PC era in Stand by.
Aveva mosso il mouse e si era trovato lo schermo nero con al centro una scritta rossa:
“Welcome to the Mob Island”.
Una risata era schizzata fuori dal PC e si era piantata proprio lì, sulle sue labbra.
Oliviero Angelo Fuina
P(r)oesia a scalare
Strano, ma sono rilassato. Il respiro si è fatto più profondo e lento. Ci siamo. Lo sento. Non resta
che contare decrescendo. Dieci è un buon punto di partenza e già il nove è un gradino più sotto,
mentre all’otto il silenzio è già più denso. Sono solo oramai sulla mia scala. Il sette mi distacca
ulteriormente dai consueti rumori ormai lasciati. Il sei è quasi un punto esclamativo di una
affermazione mai troppo scontata. Cinque mi ricorda che il ritorno è distante, come in basso
parimenti è la meta. Quasi è apnea senza alcun sforzo, la pausa di un respiro con l’altro. E scendo
per mia scelta nell’oscuro richiamo del quattro. Ovattato è l’altro passo mentre il tre è già gradino
che calco. La cantina è ormai vicina, ricordandomi di sguardo a comando. Il penultimo conteggio
mi avvicina a questa meta, imposta, di partenza. Ecco l’uno di altri numeri a svanire, mentre il nero
che mi è noto, avvolge. Sceso al piano più interrato, lo scopo del mio viaggio è il respiro. E’ vasto
come il nulla, il buio. Allungo la mia mano ad esplorare. La maniglia curva le mie dita. La porta dei
segreti si rivela. Questo è il punto di retta senza fine, questo è varco che mi impongo di aprire.
Ferisce gli occhi abbaglio che fuoriesce. E’ luce d’incredibile candore; l’essenza mia più vera
scaturisce. E’ questo il lampo che mi definisce. Adesso posso infine ritornare, scalando fino al dieci
la coscienza. Molto ancora deve dirmi l’ipnotista!
Straniero in casa da “Blocco note”
Io che abito il mondo in ospitale inganno
sono straniero in casa quando non sono solo.
Abito a fondo: i silenzi delle mie grida,
i solchi d’inchiostro sulla terra dei fogli,
le spirali di fumo a tossirmi sul viso
e le pause pensanti fra coppie di aggettivi;
lancette piegate all’illuso Levante,
gli appesi calendari dai giorni prenotati,
le parole di getto da rileggere a conferma
e ciabatte alla deriva sotto i piedi.
Io sono quello che si adagia incurante
tra le matite sparpagliate nei colori
- da chi vive urgente prima che io nasca e giocosi incastri di plastica a riposo;
nei rassicuranti chiarori a basso consumo
e borse che sbadigliano nel sonno d’altri;
nei libri spalancati a promemoria
e schermi spenti che riflettono il mio viso.
La poetessa russa di una sera in prestito
palesa ogni mio limite, in cirillico e tradotta,
mentre il pianoforte di Einaudi di poc’anzi
era sprone al mio contro suonare la penna
ed io che voglio scrivere il mondo
abitando ogni casa abbandonata
non trovo il passaporto di un respiro
per varcare in domicilio le mie mura.
Rossana Roxie Lozzio
Quelle scale di sottile angoscia
Non ho mai amato quella scala di cemento che portava in cantina ed ogni volta che ho dovuto
percorrerla, da bambina, mi sono fatta del male… dentro.
Non c’era nulla che mi piacesse, là sotto… c’erano ragni, poche lampadine che, quando
funzionavano, finivano comunque per spegnersi a causa di uno sciocco automatismo che aveva
impostato colui che aveva creato l’impianto di illuminazione degli scantinati del piccolo
condominio, in cui abbiamo abitato per la manciata di anni che ci hanno visti insieme, come
famiglia e c’erano odori che, nella maggior parte dei casi, non mi solleticavano le narici ma mi
suggerivano di fuggire lontano.
Eppure era anche là sotto che avevi impostato il tuo regno, era là dentro, in quella piccola cantina
abbinata all’appartamento che avevi preso in affitto con il sogno di costruirti una bella famiglia, che
esisteva il tuo piccolo ma enorme mondo. Lì avevi riposto tutte le tue passioni, la creatività che eri
costretto, per una serie di circostanze che ti furono avverse, ad accantonare spesso… così come in
cantina si è soliti accantonare oggetti che danno fastidio o che non sappiamo dove altro potremmo
mettere.
Se ripenso a me che scendo quei gradini, è a te che non posso fare a meno di pensare… ogni ricordo
della bambina paurosa che si lasciava convincere a percorrere i gradini di quella scala illuminata a
tempo – a meno che qualcuno non si offrisse di restare a fare da sentinella al dispettoso interruttore
posto sulla parete in alto – è legato al padre che ho vissuto solo per una manciata di anni e che ha
rappresentato il vuoto della sua assenza, anche prima che lasciassi questa Terra, per tutto il resto
della mia esistenza.
Mi viene in mente il tuo lavoro, mentre facevi il vino, davanti a quell’enorme damigiana e il sorriso
che portavi dipinto sulle labbra, trafficandoci intorno, perché probabilmente ti faceva sentire
abbastanza bravo da poter provare orgoglio e mi vengono in mente la tua macchina per scrivere e le
tue dita che picchiavano nervosamente sui suoi tasti, dopo i continui ripensamenti che ti facevano
pensare di averla risposta lì per sempre… e ancora tutti i tuoi scritti, su quei quaderni antichi posati
sulle mensole, i tuoi componimenti musicali, i testi disegnati fra le righe del pentagramma!
Oggi sono una donna ma mantengo la bambina di allora dentro il cuore e vorrei poterci tornare, sul
pianerottolo di quei gradini di cemento che conducevano alle cantine. Vorrei scenderli ad uno ad
uno, con la segreta ed intima speranza di ritrovarti, all’ingresso del corridoio che vedeva
disseminate le porte o all’interno di quella che era stata assegnata a noi, impegnato a fare una delle
tante attività che ti vedevano protagonista. Distante da tutte le brutture che ti hanno accompagnato,
fuori da quel piccolo e bislacco mondo incantato.
M’immagino la faccia che farei, vedendoti riapparire dall’oscurità di quell’ambiente a me così ostile
e sorrido, perché ti ricordo sorridente. Ti amo, papà.
Dax Ax
Gradini neri
Scendo
non scendo
gradini neri
che sanno di morte
il buio che graffia
rumori di vento
malato
che corre
su per il corrimano
ingoio l’orgoglio
allungo la manina
e pigolo
“Mi accompagni?La mia bambola
e’ laggiù
caduta nel pozzo nero
Rotolando per le scale.
Le cose che non hai mai avuto il coraggio di
dire
Tema della settimana è Le cose che non hai mai avuto il coraggio di dire.
Tutto un programma. Chissà quante ne verranno fuori di cose mai dette ora che invece i nostri
impavidi autori non avranno timore di riportare. Quanti momenti di silenzio, a volte imbarazzato, a
volte rabbioso ci sono stati nella vita di tutti. Quanti argomenti, passati sotto silenzio per il quieto
vivere. Quanti sentimenti inconfessati e inconfessabili, quante parole, sia d’amore o rabbia o
desiderio non sono mai state pronunciate. Quanti peccati tenuti segreti e nascosti. Questa settimana
forse si romperanno gli argini e riceveremo rivelazioni, e magari scopriremo lati insospettabili in
molti autori che, fantasiosamente o meno, apriranno i loro animi facendo uscire ognuno a modo suo
tutte Le cose che non hai mai avuto il coraggio di dire.
Rossana Lozzio
Al vento e alla pioggia
Affido al vento, il silenzioso grido
composto dalle due parole che non ti dirò mai
e mentre lento e ineluttabile,
il pianto scivola dagli occhi per cadere al suolo,
alla pioggia lo regalo
e lascio siano pioggia e vento a condurle in tua direzione…
solo due parole, troppo spesso banalmente utilizzate,
che non posso dire guardandoti negli occhi: ti amo!
E dopo averle sussurrate, con la forza di un urlo prepotente,
resto ad osservarle volar via, mentre sospiro e mi domando…
chissà, se ti raggiungeranno mai.
Giancarlo Ibba
Alla deriva
Come conchiglie sulla spiaggia,
in attesa che una mano ci raccolga,
rotoliamo nella vita,
orfani delle stelle.
Tutto qui.
Perché
Aggrappato allo scoglio
dell’ignoranza,
resto,
mentre l’oceano si asciuga
e il sole tramonta,
nell’ombra indifferente.
Oliviero Angelo Fuina
Avevamo stelle nelle tasche da: “Cieli di carta”
Perché mi hai rubato il ricordo
degli anni verdi senza fiato
a correre intorno alla notte
contando stelle nelle tasche?
Ormai non è questo che vedo
nel tuo sguardo spento e impotente
dichiarando il tuo fallimento
nei sogni, da rabbia, interrotti.
Ti odio per tutte le scuse
che invento per non incontrarti
per i pochi falsi sorrisi
che il ritrovarti mi richiede.
…E i nuovi demoni ostentati
cercando di venderli bene
ma non trovo più stelle in tasca
- già bucata dal tuo cinismoE nel tuo astioso piegarti
- dove gli occhi graffiano terra ci siam persi nel cielo immenso
dove i sogni volano stretti.
Si, ti odio amico mio caro
perché sei caduto nel fango
ed ora non posso specchiarmi
ché sporca vedrei la mia pelle.
Nadia Lattanzi
Il nostro amore
Il nostro amore è diverso… è più intenso…
Noi non possiamo tenerci per mano per la strada perché ci guarderebbe tutti.
Noi non possiamo farlo perché non abbiamo una strada che percorriamo insieme.
Noi possiamo sfiorarci le mani solo “attraverso” una chat o una linea telefonica.
I nostri baci rimangono imprigionati negli abbracci mai vissuti… le nostre parole piccole frecce che
ogni giorno trafiggono la distanza che ci separa.
Noi non siamo un amore normale.
Noi combattiamo la nostalgia… la passione, i brevi ricordi di un incontro. Noi voliamo con la
fantasia o moriamo dentro un silenzio. Noi piccole regine di un amore nato così… in attesa di un
prossimo incontro, un anelito… uno sfiorarsi e tutto diventa di più e tutto diventa vissuto
intensamente… e tutto è.
Il nostro amore è diverso. Lo è.
Monica Pasero
Le parole che non ti ho mai detto
Nei mie silenzi
si celano le parole che non ti ho mai detto
dolci frasi che non ti sussurrerò mai
respiri,che non troveranno posto accanto ai tuoi
battiti che non ascolterai
parole che ho trattenuto in fondo al cuore
per troppo tempo,
lacerando la mia esistenza
parole soffocate dalla vita stessa
per il timore del a venire
parole che avrebbero dato un senso a tutto
ridette nella mia mente mille,mille volte
ancora stampate nel mio cuore
avrebbero dato speranza alla mia vita stessa
se solo fossi stata in grado di dirti
Torna amore
Parole che non servono…
Partii per questo viaggio nei meandri del mio inconscio per trovar quelle parole che ricercavo nel
profondo. In questo mondo che corre senza mai fermar il suo pensiero, avevo bisogno
d’intraprendere questo viaggio che mi donasse la forza e il coraggio. Camminai così, nell’anima
tua, ricercando la strada più sicura che mi conducesse innanzi al tuo cuore sommerso da troppo
tempo nel mar del dolore .
Intrapresi così sentieri carichi d’ostacoli, diradai le nebbie della tua diffidenza, attraversai fiumi
d’insicurezza, scalai monti irti di nostalgie, saltai dirupi colmi di paure, ma infine giunsi ai confini
del mio ricercare. Dove innanzi a me, paesaggi dipinti dai colori del tuo animo, rispecchiano
nell’essenza di ciò che sei. Ora io avanzo in questa terra per me inesplorata dove tutto profuma di
te, cammino con la speranza di trovar le parole che solo Dio conosce e ode.
Ora, qui innanzi a te, con l’anima mia nuda di fronte alla tua scopro… e non servono più parole.
Perché tu hai già aperto la porta al mio amore .
Tacqui
Tacqui per tutta la mia esistenza
Quanto il tuo amore fu l’unica mia essenza
Quanto essere amata da te mi rendesse viva
Quanto ho perso perdendo te Vita mia
Elisabetta Bagli
Non ti ho mai detto
Non ti ho mai detto
che lui mi ha dato la vita
le ali per volare
il sorriso da posare
su petali di rosa,
ha vestito di eternità
i nostri raggi di sole,
ha amato il mio corpo nudo,
la mia anima in bilico,
i miei occhi brillanti e vividi
e continua a farlo ancora.
Non ti ho mai detto
che anch’io conosco
il sapore delle sue labbra,
la voluttà delle sue mani
e quel suo sguardo seducente,
audace invito a percorrere
il suo bel sentiero,
a vivere la sua passione
lungo i binari di un treno
e sentire la sua potenza
riversata nelle membra.
Non ti ho mai detto
grazie per
i dolori e le gioie,
le energie e i tormenti,
i canti e l’amore
che, in segreto,
il tuo uomo mi regala
in ogni istante.
Andrea Borrelli
Messa per innato
Dovrai immaginare da solo la luce stanca
filtrata da una foglia verdissima e fradicia.
E dare colori insoliti all’arcobaleno,
che qui non esistono.
Potrai avere fede ma una diversa
da tutte quelle che conosciamo,
darai un nome alle cose
ma non sarà il nome che tutti impariamo
Racconterai a modo tuo l’amore,
forse sarà più fortunato di noi
se gli eviterai di sapere il dolore.
Risparmierai la bellezza e l’orrore,
l’inquietudine e la fantasia,
il sogno e la realtà,
la vita mia.
La morte però indugia.
È stata unica cosa davvero concessa,
figlio mio, mi dispiace tanto!
A chi non ha ti ha dato la mano
non hai mai ascoltato il pianto.
Sperò
Un piccolo pero al centro
è grande il mio giardino
intorno non vi è nulla
del resto s’è fatto solo.
La cura di un limone
unico fusto lì vicino
nella sua ombra ha fatto
breccia s’ aspetta lento
di toccarlo alla corteccia.
Voglia di sentirlo vivo
d’ essere considerato
ma l’ altro di continuo
scappa via verso il cielo
per l’ alto vuol toccarlo.
Nulla che tocchi al suolo
può tener la mano
e l’ altro non contento
ancora di lasciarlo.
Se almeno con le sue spine
sarà possibile graffiarlo.
Dax Ax
Sogno
Nebbia argentata
avvolge l’animo
sopito
dal benessere
si intravedono
sagome curve
di esseri soli
ma nella pienezza
del caldo nido
sfuma la cruda realtà
Nulla è un caso nella nostra vita
Cose che succedono, avvenimenti casuali, incontri improvvisi e situazioni inusuali.
Soltanto casi e coincidenze? Non lo crediamo, e non lo credono nemmeno i nostri autori che per
questa settimana hanno scelto come tema “Nulla è un caso nella nostra vita“. Che strane
riflessioni porteranno i nostri autori raccontandoci cosa succede nelle loro vite, come in quelle di
ognuno? E’ possibile davvero che certe circostanze si verifichino soltanto accidentalmente? O
chissà, magari dietro a tutto quanto c’è il piano di un sognatore, misterioso e imperscrutabile
chiamato Destino?
Scriveranno i pensieri emersi dopo essersi trovati in chissà quali situazioni, reali o immaginarie, per
chiarirci il loro punto di vista.
Nadia Lattanzi
Amante per caso… Io
..e in un attimo diventi quell’altra.
Quella che hai temuto, odiato e anche invidiato.
In un attimo sei la seconda chances.
Diventi la depositaria di una libertà chiusa dentro.
Diventi i bisbigli notturni, sei il mistero, la vanità.
Ti ritrovi a desiderare brandelli di tempo… Briciole di ore.
Senti di poter colmare un vuoto, anche quando troppo spesso il vuoto è dentro e intorno a te.
Sei la passione inesauribile, l’attesa a volte vana, la gelosia, il sogno sempre più insistente… Ma
mai a divenire realtà.
Sei gli appuntamenti mancati, le storie inventate, le scuse pronte.
Sei quella che non ha diritti, niente certezze…
Andrea Borrelli
Ego
Vivendo le lande del pensiero
come unico siero
serio nel far nulla
di più sul mio sentiero
specchio di vita inutile
senza alcun mescere
il vero e il faceto
feto dell’ arroganza mia
erta ad ascoltarmi
solo nel riflesso
di un piccolo giorno
perso in piacevoli assenze
distaccati ricordi
e fottio di musiche veloci.
Te
Se fossi te
a saper di fragole
le più piccole
particelle d’ aria
intorno a me
s’ io desto in te
il color cobalto
al volto nudo
del ciel sopra di me
sempre al suon
di carillon il fianco
mio accanto a lei
il tocco di una falange
sulla pelle d’ oro
e s’ infrange il gusto al cuor.
Giancarlo Ibba
Intersezioni
Per strade di polvere,
io vago,
miraggio di pellegrini
salmodianti,
interseco sguardi appassiti.
Mai più nulla,
dalla torre getterò,
poiché niente mi resta
e nessuno lo sa.
Dai gradini dell’io,
scivolo,
senza disturbare oltre.
Diana Mistera
La chiamata
Ho sempre creduto nel destino e da sempre ho agito in base ai segnali che mi dava, ma non é mai
stato facile. È partito tutto dalla prima volta che lo sentii; io ero immersa nei miei studi e come
sempre la tv era di sottofondo a volume bassissimo, ma quelle vibrazioni mi arrivarono dritte al
cuore. Lo vidi, rimasi senza respiro per un numero indefinito di secondi, me lo ricordo sempre il
sorriso che aveva quando salutava dalle telecamere,come se stesse parlando direttamente a me; in
quello stesso momento realizzai che il cuore aveva accelerato i suoi battiti, istintivamente spensi la
tv, non potevo innamorarmi di un cantante alla bella età di 28 anni, eppure iniziò ad abitare i miei
sogni che da sempre mi avevano mostrato quel viso come quello di una fantasia, ma non era più
tale, esisteva davvero. Passarono diversi mesi, anzi passò un anno e me o trovai di fronte, fu di
nuovo il destino a pianificare il tutto, per me che non mi sono mai sentita una semplice, comune
mortale. Non fu un caso c’erano 20 persone che lo aspettavano e lui venne verso di me, anonima,
lontana dalla folla, senza che neppure lo chiamassi, ed i suoi occhi sorridenti, intensi, verdi mi
sorrisero, da quel giorno ogni pensiero che avevo, lo sentivo uscire dalle sue labbra, persino i vestiti
con i quali lo immaginavo glieli vedevo addosso e quegli occhi nonostante passavano gli anni,
avevano sempre uno sguardo speciale per me, che continuavo a rimanere anonima. Adesso sono
passati 11 anni dal primo incontro, le coincidenze stanno nuovamente aumentando ad una velocità
anormale, così come i sogni strani. Dapprima mi sono detta ”ma si chiamiamole coincidenze” ma, il
posto in cui vedevo il nostro prossimo incontro é giusto quello in cui sarà venerdì, non lo ha mai
fatto prima, quello che farà venerdì. La situazione sulla quale ho fantasticato parlando con lui nei
miei sogni, sarà quella in cui si troverà venerdì. Non pentendomi permettere la situazione grande a
causa della disoccupazione, speravo in una possibilità più piccola, sempre parlando con lui nei miei
pensieri gli avevo chiesto di creare un modo accessibile anche a me..ed è successo. Ora niente
accade per caso, lo so, le coincidenze non sono mai tali, so anche questo, ma come fare quando ci
sono degli ostacoli che impediscono il realizzarsi degli eventi? Il destino avrà pensato anche alla
soluzione per scavalcarli? La voce chiama, è una chiamata che se non prenderò, non ricapiterà più,
ma gli ostacoli in questo momento da parte mia sembrano invalicabili, i confini chiusi e le distanze
infinite, la disperazione mesta.
Elena Grifoni
Non è colpa mia!
Cos’ho da dire a mia discolpa? Semplicemente che non ho nessuna colpa! Che è stata tutta colpa del
caso! Sì… è stato un dannatissimo caso! Io non c’entro proprio un bel niente! Infatti me ne stavo
bello tranquillo a leggere sulla panchina del parco davanti casa, come faccio tutti i santi pomeriggi,
e non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello di mettermi a tirar palloni ne tantomeno di
farmi rincorrere da cani inferociti! No davvero… me ne stavo lì tranquillo con il mio romanzo ad
assaporare lo svolgersi della trama e ad ammirarne i personaggi quando, forse sentendo lo
spostamento d’aria o un leggero sibilo mi son girato verso destra e bam! il pallone mi è arrivato
dritto in faccia facendo volare gli occhiali sul prato! Non vi dico il dolore! Il mio povero naso era in
fiamme e gli occhi non la smettevano di mandar giù lacrime neanche fossi una donnetta isterica…
poi li vedo arrivare di corsa, i piccoli delinquenti. Beh, senza occhiali e con gli occhi straripanti di
lacrime non è che abbia visto granché, ma li ho sentiti: i loro squittii e gridolini di scuse li avevano
preceduti. Non so che farmene delle vostre scuse! Mi avete rotto il naso, maledetti! Ho gridato loro
livido di rabbia e di dolore tenendomi il naso con la mano destra e cercando, a tentoni con la
sinistra, gli occhiali sul prato. Un inconfondibile rumore di vetro rotto mi fece capire che il piede di
uno dei ragazzi li aveva trovati prima di me e questo fu l’ultima goccia! Sono montato su tutte le
furie! Ci vedevo malissimo, ma ci vedevo quanto bastava per scagliare il libro che stavo leggendo al
delinquente più vicino sbagliando però totalmente mira e facendolo atterrare sul prato invece che
sul bersaglio. Allora ho afferrato il pallone con tutte e due le mani e ho iniziato a rincorrere quei
teppistelli, sperando di rendere pan per focaccia ad almeno uno di loro. Ed è qui che entra in scena
il cane. Eh sì, perché non c’è gruppo di marmocchi senza cane a seguito! E la fedele bestiola avendo
intuito le mie poco amichevoli intenzioni ha iniziato a rincorrere me, che rincorrevo loro, che
scappavano verso la strada. Ho tirato il pallone con tutte le mie forze giusto un attimo prima di
essere atterrato dal cane che con un balzo mi si è avvinghiato alla gamba, prima con le zanne poi
con tutto il corpo, e ha continuato a mantrugiare polpaccio, pantaloni e scarpa e anche quando,
sdraiato a terra, cercavo di farlo desistere dandogli dei calci con la gamba libera. Il pallone intanto
aveva continuato la sua corsa schivando tutti i ragazzetti e rimbalzando con un tonfo sul parabrezza
dell’unica auto in transito in una strada a quell’ora era solitamente deserta. Colto di sorpresa, il
conducente ha sterzato con violenza pensando di aver investito un animale. Ed è stato un caso,
ripeto, un dannatissimo caso che quella strega di mia suocera fosse lì in quel momento. Era uscita in
giardino a potare le sue rose, la vecchia, e l’auto che sbandando vi si è diretta a tutta velocità l’ha
presa in pieno. E questa volta sì, l’auto aveva davvero investito un animale. Purtroppo è morta sul
colpo; ma che ci vuoi fare… oggi siamo qui e domani chissà? Comunque, torno a ribadire che si
tratta di un caso; fortunato forse, ma di caso si tratta. Il caso volle che la suddetta suocera avesse
proprio il giorno prima modificato il testamento dopo l’ennesima lite con un paio dei suoi figli;
ormai era una consuetudine, lo faceva a intervalli regolari. Tu provavi a discutere con lei e quella ti
diseredava, un classico. I due malcapitati in questione erano i fratelli di mia moglie che avevano
osato contraddire la vecchia e si erano trovati per l’ennesima volta tagliati fuori dal testamento. Di
solito, una volta che all’arpia era passata la paturnia, ai trasgressioni delle sue personali leggi veniva
di nuovo accordato il diritto all’eredità (fra l’altro cospicua). Ma questa volta è diverso. Questa
volta la vecchia non si riprenderà più! Questa volta c’è rimasta secca e dura e il testamento è valido;
il che significa che mia moglie erediterà, da sola, tutto il patrimonio e il risultato dell’equazione è
uno solo: siamo fottutamente ricchi! E se qualcuno ancora insinua che tutto ciò è accaduto per colpa
mia, perché io ho tirato la palla che ha fatto sbandare l’auto, allora io gli rispondo Hei! vattela a
prendere con quei teppistelli, che invece di starsene in casa davanti alla tele se ne vanno nei parchi a
calciar palloni in faccia alle brave persone! Prenditela con quei bastardi di cani, che invece di star
legati a una catena scorrazzano in giro ad azzannare poveri passanti! Io non c’entro proprio un bel
niente! Io me ne stavo bello tranquillo sulla panchina del parco a leggere! E sai cosa ti dico? Adesso
sono talmente ricco che mi posso far costruire un parco privato dietro casa, dove metterò un bel
recinto elettrificato e un cartello con su scritto “vietato l’accesso a cani e bambini”!
Nadia Milone
Non è un caso
A volte la vita ci mette davanti a strane situazioni. Ci sono persone che,quasi senza che tu te ne
accorga, entrano a far parte del tuo mondo. Diventano parte di te, giorno dopo giorno, insinuandosi
nella tua anima senza un perché. Ma io credo che ciò non avvenga per caso. L’aver incontrato
determinate persone che poi, con il tempo, sono diventate importanti è stato un dono e forse era
giusto così. Ma il fatto che il destino me le abbia mandate, a tendere una mano nei momenti
peggiori, ad aiutarmi a superare un periodo buio, no, non può essere solo una coincidenza. Il
problema è che io tendo ad affezionarmi troppo, se sia un bene o un male non lo so, ma io mi ci
lego, con il cuore e con l’anima, non posso farci niente, ma questo sentimento un po’ mi spaventa
, perché non so se sia ricambiato. Forse è solo la mia insicurezza a parlare, ora, ma non ci sono
certezze nella vita, né bisogna pretenderle. Oggi le persone ci sono, ti vogliono bene e, magari, un
giorno spariranno senza dirti il motivo, senza una spiegazione. E nemmeno questo sarà un caso,
semplicemente dovevano arrivare, renderti felice per un po’ e poi, silenziosamente, andarsene. O
magari resteranno, chissà…
Non è un caso incontrare un amico, un amante o un amore, non è un caso che arrivi qualcuno a
renderti felice, così come non sarà un caso perderlo. Semplicemente deve andare così ed è inutile
accanirsi contro il destino, sarà sempre più forte di noi.
Prove del destino
Io ci credo nel destino, non penso che tutto succeda per caso. A volte veniamo messi alla prova,
forse per capire quanto possa essere forte la nostra forza di volontà ed i nostri sentimenti. Ci deve
per forza essere una spiegazione se determinate cose accadono. Ogni tanto succede che fatti che
prima avvenivano con facilità e naturalezza, improvvisamente sembrano diventati un’impresa
titanica, quasi un miracolo. E perché succede questo? Forse perché il destino ci vuole far riflettere.
Le cose belle, a volte, vengono date un po’ per scontate, ma non è così. Forse ciò che io ora sto
chiamando destino, è solo un modo per farci capire l’importanza di ciò che abbiamo, per farci
pensare a ciò che ci manca, a ciò che realmente desideriamo. A volte può bastare semplicemente
una parola ad illuminare la giornata, perché il desiderare non è soltanto un fatto fisico, ma è un
concetto ben diverso, a mio parere. E’ un fatto mentale, psicologico ed emotivo. Quando si desidera
qualcuno, non lo si fa solo con il corpo, ma anche con il cuore e con la mente. Si desidera ciò che
l’altra persona può donarci di se stessa e, a volte, può essere anche solo una parola o un sorriso. Se a
noi basta quella parola e quel sorriso per essere felici, allora vuol dire che davvero esiste qualcosa di
più grande, che va oltre il concetto di fisicità, per quanto questo possa essere bello e importante. Se
ci rendiamo conto che di una persona ci manca lo spirito, oltre che la sua presenza, allora credo che
ci si trovi davanti al concetto di bene assoluto. Forse, alcune situazioni si presentano proprio per
darci modo di riflettere su questo. Io, da parte mia, la riflessione l’ho già fatta da tempo. Quando
voglio bene, apro il cuore e non c’è fisicità che tenga. Certo, il contatto fisico è importante, il
vedersi e il parlarsi è quanto di più bello le persone possano fare, ma ci sono sensazioni che ti porti
dentro e che sono più forti di qualunque altra cosa. Quando comunichi con il cuore e con la mente,
il resto non conta. Per me è così, spero lo sia anche per le persone a cui tengo e a cui voglio bene.
Monica Pasero
Non fu un caso…
Non sei stato un caso rammenti come accadde?
Colori autunnali quel giorno sul mio cammino, foglie leggere cadevano innanzi a me
intraprendendo il loro ultimo tratto d’esistenza. Il cielo ormai grigio della sera preannunciava venti
gelidi, la stagione fredda era alle porte.
Era inverno anche nel mio cuore ormai innevato nei sentimenti, congelati in quei anni dove nessuno
era riuscito a riscaldarli. Piccole folate di vento mi fecero accelerare i passi, a breve sarei giunta a
casa. Dove nella mia solitudine mi sarei accovacciata sul divano e davanti ad una tazza di cioccolata
calda avrei passato un’altra serata leggendo l ennesimo romanzo d’amore. Per poi perdermi ancora
una volta nell’illusione di viver anch’io quei momenti, ma il destino aveva altri programmi per me
quella sera per noi.
Accelerai il passo, quando la mia distrazione già alquanto nota mi regalò il dono più bello “Tu”
Gli caddi direttamente addosso, fu lo scontro più imbarazzante ed emozionante della mia vita,
rotolammo a terra uno sopra all’altro su di un tappeto di foglie. Io arrossii violentemente, invece lui
rise di gusto. Mi ricordo l’imbarazzo nel presentarci io con una foglia tra i capelli e lui con la giacca
umida di terriccio, le nostre mani si sfiorarono i sorrisi distesero i nostri cuori, fu tutto semplice così
naturale, una parola, un sorriso e il mio cuore sciolse i suoi ghiacciai, la neve se ne andò. La
passione sbocciò libera come la vita stessa e non fu un caso se in quella fredda serata autunnale ti
concepii.
Nulla accade mai per caso
Nulla accade mai per caso
la penna di Dio scorre lentamente sulle pagine della nostra vita
adagio segna nostri giorni
quelli bui e difficili
colmi di paure e incertezze
ma nella sua immensa luce
ci dona giorni d’amore, di passione, di vita
che ci inebrieranno di gioia,
d’emozioni pure da ricordare
per sopportare meglio i momenti più difficili…
e quando tutto non avrà più un senso,
rammenteremo che nulla
accade mai per caso…
uno sguardo, un sorriso, un scontro
avviene sempre per mano di Dio
la sua penna, il suo inchiostro
scivoleranno sulle nostre emozioni
ricordandoci ancora e ancora
che Noi…
non siamo un caso…
ma un disegno di Dio.
Gabriele Palumbo
Vita per caso
E mentre tutto ciò che ti sta intorno scorre, tu rimani lì e riaffiorano ricordi che non ha mai
vissuto…
Dax Ax
Vola
Le mani chiuse
come uno scrigno
di carne
limitato dalla realtà
si aprono pian piano
e la farfalla
della mia coscienza
osa,seppur intimorita
a librarsi dove
le mie mani non possono
“Vola, amica mia, mia libertà, mia anima”
raggiungi i posti luccicanti
che mi sono impediti
da questa gretta realtà
Scrivimi
Tema dell’ultima settimana è risultato “Scrivimi“, tema ovviamente caro ai nostri autori che si sono
espressi in giocolerie letterarie, degne di affermati funamboli della parola. Inutile dire che i risultati
sono eccellenti e gradevoli, le scelte di argomento e svolgimento varie e multiformi.
Elisabetta Bagli
Fuga silenziosa
“Camilla, ciao!”
Da seduto sorrido a Camilla che avanza verso di me con una lettera in mano. Faccio per alzarmi e
lei mi fa segno di starmene fermo. Mi getta la lettera sul tavolo del giardino e sparisce tra gli abeti.
Confuso la prendo in mano e leggo l’intestazione: “Scrivimi”. Sorrido ancora. Ah, Camilla,
Camilla, sei una gran testona! Ma perché vuoi che ti scriva quando sai perfettamente quel che sento
per te? Certo che sono strane le donne, non si accontentano mai di quel che uno gli dà. Vogliono
sempre di più e di più non è mai abbastanza. E va bene, ti scriverò! Che ci sarà nella busta? Un
foglio bianco per scriverti?
Annuso la busta e sento il suo profumo di violette. La mia Camilla è speciale, senza di lei non
saprei vivere.
Sento la carta porosa sotto le mie dita, l’accarezzo e so che l’ha toccata lei. Un brivido mi percorre
la schiena. Camilla, la mia adorata amante, amica, confidente, la mia splendida donna che tutti
ammirano, che tutti vogliono e invece è mia, solo per me.
Ti amo, mio tesoro, non te l’ho mai detto? Ora te lo scrivo così sarai contenta.
Apro la busta e tiro fuori il foglio, lo stiro e vedo che è già scritto. Angelo mio, cosa mai mi dirai di
così bello e prezioso che la tua bocca di rosa non poteva dirmi? Cosa mi hai scritto di così
importante che i tuoi occhi di velluto non erano in grado di mostrarmi? Ti leggo, amor mio, ti leggo.
“Nonostante il fuoco in cui stai bruciando e che ti farà rimanere cenere, sei ghiaccio ormai per me.
Ma non ti scioglierai, no. Non ti dissolverai nel mare per vivere in compagnia delle altre gocce. Non
evaporerai, no. Non troverai la compagnia delle altre particelle d’acqua che si disperderanno
nell’aria per poi condensarsi in nuvola. Sarai condannato a rimanere una solitaria lastra di ghiaccio
che vaga nel nulla. Sarai solo da ora in poi, sarai eternamente solo. Io non sopporto il ghiaccio. Amo
il fuoco, ma il tuo con il quale mi sono bruciata, non è per me. Ora vado via e per sempre.”
Cara Camilla, ti sei salvata anche stavolta. Impassibile ripongo la mia Colt 9mm nella tasca della
mia giacca in attesa del tuo ritorno.
Giancarlo Ibba
Infanticidio
Era stato un parto difficile e complicato. Il concepimento era stato breve e insoddisfacente. La
gestazione un calvario. Adesso lei era li, una piccola ingrata senza futuro. Come tutte le premature
non era granché. L’aveva odiata dal principio, era il frutto imprevisto di una lunga notte affogata
nell’alcol, quando la solitudine rende romantiche anche le anime più dure. Ma ora lei era lì, davanti
ai suoi occhi. Implorava la sua attenzione. I suoi versi erano uno strazio. Incomprensibili. Cosa
voleva dire? Non le piaceva per niente. Era una creatura orribile. Figlia di un illusione.
Doveva eliminarla.
Con enorme tenerezza lei la guardò, per un ultima volta, senza dire nulla. Poi la prese tra le mani,
quasi cullandola… e la gettò tra le fiamme del fuoco.
Bruciò in silenzio.
Lei pianse, lacrime calde, ma non provò alcun rimorso.
In fondo… era una brutta poesia.
Presto ne avrebbe concepita un’altra.
Oliviero Angelo Fuina
Potresti scrivermi un sogno
Troppe volte ho letto i tuoi respiri
tra le pieghe di un vetro increspato
mostrando alfabeti d’occasione
cesellando lingua universale.
In verbi arditi ho spalancato porte
spogliandomi al tuo sguardo distratto
nel balbettio d’insicuro amore
che il silenzio tuo amplificava.
Bastava un segno scritto d’assenso
una domanda a svelarti di me
un aggettivo da accarezzare
sul cuscino di afone notti.
Ora, potresti scrivermi un sogno
e abbracci da indossare da svegli
graffiti da leggere su pelle:
ho nuove pupille alla lettura.
La tua storia l’ho scritta da solo
cambiando nel cuore la mia trama
scrivi pure di un tempo concluso
volto pagine a un libro mai nato.
Ma tu scrivi, tu scrivimi pure
le parole adesso ormai scadute
non fa male specchiarsi nel vuoto
quando si impara il riflesso di noi.
Elena Grifoni
Scrivimi
Scrivimi, ti prego, non posso più aspettare…
mi giro e ti guardo con occhi supplicanti.
Tu mi vedi e abbassi subito lo sguardo.
Hai capito la mia muta richiesta?
Scrivimi ti prego, metti nero su bianco
quello su cui da un’ora stai rimuginando.
Ecco, ti ho visto, hai preso un foglietto…
prego con tutto il cuore che sia quello su cui mi scriverai.
Non ti chiedo molto, solo poche parole, poche frasi…
traduci in rime il risultato dei tuoi pensieri, ti prego…
Ancora uno sguardo furtivo,
ma non posso guardarti a lungo, mi sento anch’io osservato.
Non c’è più tempo… non posso più aspettare…
ti decidi o no a passarmi la versione di latino?
Fede Giovanni Rega
Scrivimi
Scrivimi
Non importa dove,
Non importa come,
Non importa cosa.
Scrivimi
Una parola dopo l’altra
Scorrono violente
Su questo foglio spoglio
Scrivimi
Versi di cuore
Versi di dolore
Versi d’amore
Scrivimi
E sarò felice,
Tu però
Scrivimi!
Monica Pasero
Scrivimi
Scrivi su questo mio cuore la tua verità
Scrivi ciò che senti, anche se mi ferirà
Scrivi, e dammi ali per poter ancor volare
liberami da questo oblio, ormai mia trappola mortale
dove ora io mi aggiro senza pace nel mio cuore
bramando ancor parole che profumino d’amore
Non lasciar vuota questa mia pagina bianca
Ancor ora è intrinseca dal profumo
di questa ultima speranza.
Andrea Borrelli
Tesoro
Scrigni vuoti aspirano
diventar ricchi
di versi scritti
color diamanti
Mantengono le pareti
i loro inchiostri
non danno l’adito
a malfatti discenti
Respirano l’aria
dello sconforto
boccate grandi
di ristoro dovuto
Restaurando l’ anima
in acuti suoni di piacere
dalle viscere della carta.
Rossana Lozzio
Un altro dei miei sogni
Se soltanto mi potessi scrivere… se avvertissi il desiderio, benché minimo, di entrare in contatto
con me!
Ma continuo a sognare e un sogno è destinato a rimanere… tu non puoi farlo né lo faresti mai,
perché non solo neanche sai che esisto ma non mi prenderesti mai in considerazione.
Conscia della realtà, è comunque bello continuare a immaginare… un’icona che appare sullo
schermo del computer o su quello del cellulare oppure una lettera, indirizzata a me, con la tua
calligrafia rotonda dipinta sulla carta ed io che, emozionata al punto da veder tremare le dita delle
mani, apro quella busta – reale o virtuale – e mi accingo a leggere una tua missiva!
E lasciandomi andare all’immaginazione più sfrenata, leggo che mi pensi e che desideri entrare in
contatto con me, non importa come né quando né dove… hai desiderio di vedermi, di parlarmi,
finalmente l’uno di fronte all’altra e intanto penso che non starò a chiedermi neppure quale sarà
l’argomento ma già tratteggio – con la stessa fantasia che mi consente di sognare la tua lettera – un
abito col quale affronterò il magico momento e m’impongo di accettare questo atteso
appuntamento!
Se soltanto potessi smettere di sognarti… riapro gli occhi o li mantengo aperti, tanto fa poca
differenza e mi riscopro a sorridere. Perché comunque, anche rimanendo ancorata alla realtà, solo
pensare di incontrarti o meglio ancora, solo la certezza di sapere che esisti, mi conduce e con una
naturalezza che m’invidio anche da sola, a vestirmi di un sorriso colmo di beatitudine e a desiderare
di ricominciare da capo!
Ilaria Militello
Vorrei mi scrivessi…
Quante pagine ho riempito con i miei TI AMO,
ma che tu non hai mai letto.
Non sai nemmeno che esisto,
ma vorrei che ti accorgessi di me.
Vorrei solo che tu mi scrivessi un semplice SEI BELLISSIMA.
Non voglio frasi fatte,
nemmeno lettere d’amore infinite,
vorrei che mi scrivessi che sono davvero importante per te.
Parole dolci,
parole che mi fanno sentire apprezzata.
Vorrei mi scrivessi solo un semplice TI AMO.
Il mio sogno proibito
“Il mio sogno proibito” è il tema scelto dagli autori del gruppo per la prossima settimana. Ne
leggeremo delle belle! Sogni, fantasie, bollori e chissà quanto altro desiderano i nostri scrittori.
Scommetto che sapranno deliziarci con delicatessen che renderanno la lettura non un piacevole
diversivo, ma quasi un dovere da svolgere con sommo gaudio.
Sebastiano Impalà
Alternandoci
Acque limpide
su corpi sfatti
da pensieri accartocciati
dentro fibre
di muscoli rossastri.
Sei come me
donna dalle lunghe dita
che laceri la carne
insaziabile d’affetto.
Le nostre pupille,
liquidi di gioia
misti a salsedine,
squarcino figure
avvinghiate alle pareti.
Una volta tu
fra le mie gambe assorte
parli con il cuore
strangolato di piacere,
un’altra io
sul tuo collo avorio
bisbiglio
i miei perché
ma sordi sono gli attimi a venire.
Orbite distaccate
e mai trovate,
sussurri anelanti
invadono la stanza.
Fiumi, tempeste e sguardi
Io sono il tuo pirata
colui che ti ha bendato gli occhi
per baciarti,
faccia assassina dell’amore.
Io sono il tuo galeone,
legno pregiato
sul quale condurre
le tue idee
in porti bagnati
di salsedine e viltà.
Ammaina le vele
per vincere la tempesta,
distruttrice del pensiero
dove attecchisce
la miseria nichilista del tuo essere.
Dove sfoceranno
le acque torbide e furiose
dei nostri amplessi
d’argento e rame,
metalli di passione
e forge clandestine?
Ferma il passo
e osserva le tue mani…
vedrai la vita trasparente
colorarsi di rosso fuoco.
Scocca la tua freccia
e cerca di colpire
il centro dell’amore
e…non impressionarti
se, all’improvviso
le tue dita si sporcheranno di sangue: era un sogno…
Oliviero Angelo Fuina
D’ermafroditi sensi da “Vocali in apnea”
È fra i tuoi gemiti che vorrei stare
rubando le alchimie d’ogni tuo orgasmo
sentire lune tese sulla schiena
il roco capovolgersi dei fianchi
Mescolo carne in pensieri umorali
sentendo la tua lingua che deflora
aprirmi nella tua trasmutazione
androgina passione che sconquassa
- anelito d’ermafroditi sensi d’estatiche pulsioni m’avviluppo
aspergendoti amore alle pareti
e aprirmi poi a brame più complete
vestendomi del cielo più rosato;
disseto alla tua femminile essenza
t’accolgo imitandone gli spasmi
sentirti viscerale in ogni moto
incastri d’un reciproco respiro.
- safficamente complici d’inganno -
Andrea Borrelli
Insonnia
Sonnecchio e annaspo
tra lenzuola verde acqua
La quiete del calmo
dormir non appartiene
Resto bloccato nel cemento
di questo tessuto
Freme il muscolo
La mente inneggia ancora
alla vittoria sul sonno
Rimane a me proibito
sognare nel buio
Si vorrebbe la luce filtrar
tra le palpebre chiuse.
Dax Ax
Intenti
E guardo
i tuoi occhi
e tento l’azzardo
di alimentar i fuochi
che ardono
nei nostri cuori
nei nostri lombi
e tu sorridi
sicura e spregiudicata
cavallo bianco
nella notte scura
mi porgi la mano
sicura
mi accompagni
tra le lenzuola
del paradiso
Sogno proibito
A volte mi fermo per strada ed osservo la gente,i palazzi,le strade.
Mi incanto a guardare i balconi, i tetti, i muri di cinta.
E chiudo flop occhi e mi immagino muratore, architetto, decoratore e provo ad adattare il mio sogno
alla realtà, modificando, migliorando, rendendo tutto più bello e, soprattutto, funzionale.
Riapro gli occhi e, dopo un eterno istante, riprendo la mia strada.
Maurizio Donte
Orizzonti perduti
Silenzio eterno in questo mare
che sale le sue rive,
moto perenne di un veliero
che non trova pace.
Lacere vele svuotate di vento
parole perdute che amaramente
vorrei non aver detto.
Te che di me hai fatto deserto.
si vuota l’azzurro
e la vertigine trascina
il cuore nell’abisso
nulla rimane di te che credevo amore
a te cui avrei acceso il fuoco
e ti avrei donato molto insieme al cuore.
Diana Mistera
Sogni che sembravano proibiti
Mi ricordo, quando ad occhi aperti e sognanti guardavo alla luna desiderando di conoscerti, avevo
12 anni e tu eri la mia guida su tutto, sulle letture che avrei fatto, le idee che avrei avuto, la passione
che avrei cresciuto, i primi passi nel mondo della scrittura li feci traducendo le tue canzoni,
scrivendo storie brevi che tu lanciavi li come idee da catturare, parole con cui giocare. Eri colui che
mi stava sempre vicino perché fondamentalmente ero sola, eri colui a cui guardavo prima di
addormentarmi sussurrandoti parole d’amore, li appeso al muro nella carta patinata dei poster in
quella posizione plastica, ma con quella bellissima luce negli occhi che ti ha sempre caratterizzato,
eri tu che inconsapevolmente mi hai salvato dal suicidio quando per caso o per destino mi arrivò la
cartolina con gli autografi con dentro una tua lettera… Sentivo questo legame crescere, iniziavo a
capire che forse quello che molti psicologi new age stavano iniziando a dire che determinate anime
sono destinate ad incontrarsi in ogni vita, era forse vero, oggi ho definitivamente tolto il forse;
ascoltavo le tue canzoni,avevo sete delle tue parole, allo stesso modo come un assetato brama
l’acqua nel deserto e pensavo eri il mio sogno irrealizzabile, poi un giorno, tutto quello che avevo
sempre desiderato, sognato, scritto in papiri A4 alle mie amiche di penna si avverò. Fu difficile
trattenere le lacrime di gioia a quell’incontro, difficile parlare perché pensavo di sognare, difficile
spiegare, dipingere o descrivere quello che stava succedendo dentro di me, solo le lacrime
scendevano senza tregua, lacrime di gioia, una gioia immensa, anch’essa indescrivibile a parole…
Le stesse che a volte scendono ancora ogni volta che mi rispondi o parliamo.
Oggi, 14 anni dopo, ancora mi emoziono a parlare con te e quale sorpresa vedere che ancora ti
ricordi di me, quanto affetto nel constatare che nonostante il passare degli anni, questa cosa speciale
che ti ha sempre caratterizzato è ancora in te… Adesso il mio prossimo sogno è quello di riuscirti ad
abbracciarti di nuovo forte a me, scatenare un pianto collettivo, perché le emozioni muovono altre
emozioni… E chissà alla faccia del calendario Maya succederà magari a Parigi nel 2014.
Sogno proibito
Proibito é quel sogno
lasciato morire nei meandri della mia anima
proibite sono le parole a lui legate
i pensieri i desideri i miei sguardi furtivi.
Proibito era l’amore di Lilith
la sua passione
la sua carne.
Eppure accolse il morso del serpente
ed il frutto che le offrì.
Se questo sogno non fosse proibito
smetterei di sognare
di vivere
di amare e scrivere
con il veleno, che come per Lilith
adesso scorre nelle mie vene insieme al sangue
e senza il quale non esiterei, non esisteresti.
Nadia Milone
Sogno proibito
Un sogno rimane sempre e comunque un sogno. A volte si avvera, altre no. Però ci sono sogni che si
possono vivere, in qualche modo. Io so che il mio sogno è destinato a non realizzarsi e finire, prima
o poi, perché è un sogno proibito, di quelli da vivere di nascosto, nell’ombra, che puoi soltanto
immaginare, ma quando li immagini possono sembrare più reali che mai. Non ho bisogno di
chiudere gli occhi, per immaginarlo qui, vicino a me. Mi basta pensarlo. Improvvisamente mi
sembra quasi di sentire la sua voce, le sue mani che mi sfiorano dolcemente il corpo e il suo respiro
sul collo. Mi spoglia piano, ho i brividi, ma non per il freddo. Mi stringe a sé, sempre più forte e ci
perdiamo nel vortice della passione. Lui è fuoco, è passione, desiderio puro e io mi sento sulle
stelle. In quel momento è solo per me, non abbiamo nessun altro intorno.
E’ solo un sogno, ma non posso fare a meno di pensarci ogni volta che mi soffermo a guardare
quella fotografia. Ma in quei momenti lo sento, lui c’è. Poi, però, la realtà torna prepotente a
tormentarmi, a dirmi “smettila, è impossibile, non è tuo”. Così io torno a fissare la foto, gli bacio le
labbra e gli sussurro: “A domani, mio bellissimo sogno proibito”. Mi sente, lo so che ci riesce. Lo sa
che penso a lui e questo mi basta.
Musica è droga, musica è poesia
Eccoci ancora qua! Tema per la settimana in corso “Musica è droga, musica è poesia“. Per cui ne
leggeremo di note. Saranno sinfonie scritte. Di Ogni genere immagino; come i gusti letterari anche
quelli musicali danno ampio spazio a possibili interpretazioni. Le parole possono davvero diventare
come note in mano a un abile scrittore, trasformandosi da mezzo di comunicazione in opera. Se poi
si scende nel campo poetico, la musicalità delle composizioni, il loro equilibrio di verso e pausa, di
pieni e vuot,i è davvero paragonabile a un pezzo musicale.
Quanto si potrebbe scrivere sulla musica, quante possibilità in questo immenso argomento.
Andrea Borrelli
Nato
Stava lì fermo
non poteva muoversi
su e giù tra laringe e faringe
si dimenava bloccato
quando poteva riusciva
a spingersi fino alla punta della lingua
ma di più non osava
scendere come sabbie mobili
la saliva ogni volta inghiottiva
fino al giorno quando le lancette
trovarono tempo in quel posto
non si tirò più indietro
finalmente allora si fece vedere
negli occhi stupiti degli Alti
trovò pace in aria
musica calda
scosse il vento freddo
facendo più rumore
di quanto volesse
ancora
prese forma
fece suono
uscì l’urlo.
Conchilium
Che la musica si mescoli
Sulle briciole di sale e il colore
Oro giallo dei raggi di sole
Confonda le acque profonde
A far sbagliare le onde
Che si ripetano perdutamente
Ma mai a consumarle
Mentre proceda infinita
Un’ unica canzone si sente
Sempre incompiuta
Con l’unirsi incessante dei versi
E le note calanti
E ululanti
E si ricomponga
Ogni volta senza fine.
Sebastiano Impalà
Musica di menestrelli in una piazza di città, con due innamorati che giocano
all’amore
Amo
le tue vulcaniche labbra
ed il tuo sesso
come fiore rosso..
alle luci dell’alba
rientro in te
come portiere di notte
senza chiavi….
e guardo le tue pupille nere
ed immagino
la notte di feroce sentimento.
Sei fuoco
e son canzone
da cantare all’universo,
con chitarre d’insonnia prolungate….
….e cerco il mondo
in un batter d’occhi
e guizzi d’acri movimenti.
Trovo solo te
a strappare l’amore
dal mio ventre
in piena lotta.
Oliviero Angelo Fuina
No music no Life tratto da “L’uomo nudo con le mani in tasca”
(…)
Through
the
barricades,
degli
Spandau
Ballet.
Siamo
al
primo
giorno
dell’anno
1987,
poco
prima
di
mezzogiorno.
La notte di San Silvestro non me lo ricordo nemmeno dove facemmo il brindisi; mi ricordo soltanto
qualcosa di vago circa un interessarmi per prenotare due posti in un locale di San Primo o dintorni,
nei pressi del Ghisallo, qualche chilometro più distante e più in alto di Oggiono.
Presumibilmente siamo stati lì, prima di tornare, di notte, a casa mia, o meglio, alla mia pensione,
per dormire insieme sempre nella famosa camera numero tre. Sì, quella che avevo condiviso anni
prima con Ondine, e suo fratello.
Ricordo però benissimo il completino intimo molto sexy che aveva indossato per l’occasione e il
mio desiderio di lei che mi faceva stare quasi male. Fu una piacevole notte, ricca di magici momenti
condivisi pienamente e anche di un dormire abbracciati per pochissime ore. Intimo momento al pari
e forse più del buon sesso che ci siamo reciprocamente offerti quella notte di confine tra i due anni.
Quello in cui sentivo d’essere nato e quello che ancora non sapevo che sarei morto.
Verso le undici scendemmo al bar, salutammo mia madre che già era lì a lavorare da qualche ora,
bevemmo un caffè e la riportai a casa per poter poi sostituire mia madre in servizio. Era un primo
gennaio di sole meraviglioso, sia nel cuore che nel cielo. Viaggiai piano verso casa di Fausta, che
distava pochi chilometri, per far durare più a lungo quel viaggio con lei al mio fianco. A nemmeno
due chilometri da casa sua alla radio cominciò quel meraviglioso brano degli Spandau e in quel
momento sentii di avere tutto l’universo accanto a me e dentro me. Quell’arpeggio di chitarre,
quella voce melodica e soprattutto lei che appoggiò la sua testa sulla mia spalla destra, mi fecero
letteralmente scendere lacrime di gioia sulle guance. Fausta se ne accorse e senza dire nulla me le
baciò, me le asciugò con le sue carezze di labbra, e mi tenne la mano che avevo sul cambio stretta
tra le sue (Tanto più che in terza non avrei messo data la bassa velocità di marcia). Il mio cuore
scoppiava d’immensa felicità! Non avrei potuto chiedere nulla di più alla vita in quel momento se
non l’eternità dello stesso momento. Sulle note finali della canzone arrivammo comunque davanti al
cancello di casa sua e provai l’impulso irrazionale di far manovra veloce con la macchina e
scappare via da lì con lei per non vederla scendere da quella bolla di magia che si era formata. Alla
gioia di quel momento meraviglioso, di quell’epifania del cuore che non ne voleva sapere di
starsene tranquillo nel petto, percepivo l’irrazionale sensazione che se fosse scesa dalla macchina
nulla sarebbe stato più come quel momento. E nel salutarla alla porta per tornare al mio bar percepii
la sensazione di aver vissuto con lei l’ultimo ultimo dell’anno, e primo. E così fu. Fisicamente la
vidi l’ultima volta al mio compleanno di agosto, dopo che a Luglio mi aveva lasciato.
Effettivamente però io portai lei e l’essenza di quel momento con me per decine di altri veglioni di
San Silvestro.
E “I will always love you” di Whitney Houston fu il suo regalo di compleanno, da ex mia ragazza.
La musicassetta originale, insieme all’ultima di Bennato (Ok Italia), fu il suo regalo d’addio, visto
che poi non la vidi più se non nei miei sogni o nei riflessi delle mie lacrime dentro lunghe veglie.
“Io ti amerò sempre”, diceva Whitney Houston. Una contraddizione regalatami da lei che
rappresentava tutto me stesso, in quel momento.
L’orologio della notte tratto da “Cieli di carta”
Tic-Tac, Tic-Tac, Tic-Tac, Tic-Tac…
Dal rubinetto che perde
sul muro della mia stanza
nel ritmico stillicidio,
gocciolando queste ore
che non mi fanno dormire,
scavando dentro la roccia
d’inadeguato presente
e Tic e Tac e Tic e Tac
e chiudo, per non sentire,
gli occhi e il tuo falso ricordo
ma il frastuono dei secondi
mi rende ancora impotente
al respiro cadenzato
del tuo volto già disperso
dentro il tempo che t’ignora
e Ticchete poi Tacchete
e potrei anche impazzire
solo non lo fossi stato,
bussa alla porta la luna
che il suo volto più non vedo
di crateri somatici,
quando lancette veloci
ci rubavano ogni istante
e Tacchete poi Ticchete
e mi chiedo cosa veglio,
altra notte che non voglio,
che ricerco e più non fuggo
che mi vesto ancora insonne
che travaglio dentro un foglio
nell’appiglio che mi assorda
d’altra notte che ticchetta.
Di te ho chiesto con voce nascosta
Negli incensi che accendono lo sguardo
tu non sei, alla fine delle mani
all’inizio di un rotondo sentiero
nel centro di ogni nostra direzione;
mentre il palpito si accorda al tamburo
è sincopato il singhiozzo represso
come un torto che ho fatto nel silenzio
al tempo del tuo nome condiviso.
Di te ho chiesto con voce nascosta
sapendo di svelare ancora il cuore
ma innalzano le ali tue trovate
e sotto sterno io vivo il tuo cielo.
Cammino nei tre mondi che ora scopro
cercando di acquietare il mio giaguaro
trovo nei fiumi le pietre più vere
lascio nel vento domande scadute.
Diana Mistera
Melodia incompleta
Ed eccolo tornare, il tormento
quel senso di inquietudine dentro
il voler negare le evidenze
pensando che siano solo coincidenze.
L’abnegazione creata da questa illusione.
Seppur la melodia è già stata scritta
l’opera non è ancora finita
e la conclusione è ciò che mi spaventa.
Come avrai messo le note sullo spartito?
Costruendole intorno al mio cuore smarrito.
Ma attento al tempo,
quello, è ancora indefinito.
Musica è droga, musica è poesia
Benedetto questo amore, maledette le lacrime che senza seguire i miei comandi scendono dai miei
occhi, maledette eppure amate, che non riescono proprio a trattenersi quando le prime note della
canzone annunciano l’esplosione del mio cuore, non ti vedo ma mi appari davanti,con quella
melodia che un demone travestito da cupido ha voluto comporre e che non riesco a dimenticare, ti
immagino salire sul palco, ogni tuo passo sembra essere una corda che si spezza, ti rivolgi ad un
pubblico che non capirà cosa nasconde questa canzone. Tu, una bellezza dipinta di tristezza con una
maschera nuova ogni giorno..ma gli occhi..quelli non puoi nasconderli, mascherarli e sono quelli
che io guardo.
Ero sicura che avrei lasciato il mio segno nella tua anima, ma poi tu mi hai detto, non rimarrà altro
che quello che abbiamo dimenticato perché niente é per sempre e così rimango ad aspettarti in
questo oblio, la chitarra strilla la sua triste melodia, aspetto un abbraccio, aspetto che tu mi dirai ti
amerò fino alla fine dei tempi…poi la melodia sfuma..le lacrime sono scese portandomi quel
sollievo che la tua voce mi ha sempre dato, abbracciando la tua oscurità mantengo la fiamma
perpetua che consuma il mio cuore, perché un giorno tu riesca a ritrovarmi dopo il tuo lungo
perderti.
Gabriele Palumbo
Le note dell’anima
C’era qualcosa in quelle note, qualcosa che cercava di consolarti nei momenti più tristi…
C’era qualcosa in quelle parole, qualcosa che sembrava capirti quando nessun altro ci riusciva…
C’era qualcosa in quella melodia, qualcosa che ti dava la forza per andare avanti ancora una volta…
C’è qualcosa nella musica, qualcosa che prende tutto di te e per un momento ti mette di fronte alla
tua anima…
Rossana Roxie Lozzio
Tu SEI musica
Tu SEI musica… sensuale come un tango argentino, esplosione di note rockeggianti, basta guardarti
muovere!
Note che sui tuoi fianchi si appoggiano e proseguono, risalendo fino ad entrarti dentro e
raggiungono anche me, attraverso gli occhi, per arrivare al cuore ed indurlo a cantare!
Tu SEI musica… melodia, armonia, un mondo di accordi, mentre sorridi o più semplicemente, ti
giri e illumini l’universo che rifletti e che prende a somigliare a ciò che hai dentro.
Note musicali, le tue, che non hanno bisogno di appartenere ad alcun pentagramma… che non
necessitano di essere scritte su alcuno spartito, perché sono perfette così come sono nate.
Tu SEI musica… per chi la sa ascoltare e comprendere e fare sua.
Luigi Bonzanini
Il Messaggero del Re
Stavolta, sembrava proprio che tutto dovesse andare a catafascio. La cosa peggiore non sarebbe
stata la galera per debiti, ma la vergogna che ne sarebbe inevitabilmente seguita. Ci mancava solo la
prigione per coronare la sua reputazione già tanto compromessa. Tutto inutile: le fughe da una città
all’altra, le lettere disperate ad amici e parenti che erano rimaste sistematicamente senza risposta, la
ricerca spasmodica d’un lavoro qualunque per accontentare, almeno in apparenza,la moglie e i
creditori. Tutto inutile. Adesso era bloccato in quella stanza d’albergo, senza nemmeno i soldi
bastanti a pagare il conto, e i creditori stavano per rintracciarlo nonostante la fuga precipitosa da
Zurigo. Guardò di sfuggita un calendario appeso alla parete: era la sera del 2 maggio 1864. Sarebbe
passata ai posteri come la sera in cui il grande musicista misconosciuto era finalmente crollato sotto
il peso del suo destino infame. L’uomo s’accasciò sul letto accanto alla borsa da viaggio dove
custodiva le sue uniche, vere proprietà: un fascio di spartiti incompiuti e destinati chiaramente a non
essere mai eseguiti. Certo non era granché neanche fisicamente: sulla cinquantina, piuttosto basso e
con un’evidente tendenza alla pinguedine, la sua testa era decisamente troppo grossa per quel corpo
così infelice. Aveva capelli biondi con lunghe basette che tendevano ad unirsi in un collare sul
mento sporgente. L’unica caratteristica notevole del suo aspetto erano gli occhi: azzurri e gelidi
nella più autentica tradizione sassone. Comunque, adesso erano pieni di terrore disperato. Si era
ficcato proprio in una situazione senza uscite, e tutto per cosa? Per una colossale illusione da
demente. Aprì la borsa e ne trasse le partiture manoscritte, tutte redatte in bella calligrafia, senza
l’ombra d’una sbavatura o d’una correzione. Sfogliò per un po’ quelle pagine coperte della sua
grafia minuziosa, con una specie di rimpianto indicibile. Probabilmente, in futuro, tutta quella sua
fatica da certosino operoso sarebbe andata perduta. Tutto il lavoro di una vita perso a sognare su
quelle pagine che non valevano un soldo: Lohengrin, Walkiria, Siegfried, Tristano.
Tutte ineseguite; sogni mastodontici destinati a restare sulla carta alla faccia di chi vi aveva speso
sopra tante notti insonni, in questo caso solo lui, il più stupido fra gli illusi. Lui: Richard Wagner,
emerito compositore sconosciuto, ex maestro di cappella alla corte di Lipsia, licenziato in tronco per
aver partecipato alla sollevazione rivoluzionaria del ’48. Gli venne da piangere pensando a come
sua moglie Minna godeva nel rinfacciargli quel primo tracollo della sua inesistente carriera, non
tanto perché gli rimordesse la coscienza a causa di quel licenziamento che, in realtà, era stato una
sorta di liberazione, ma piuttosto perché doveva ammettere che Minna, come sempre, aveva
ragione. Il mondo era un posto sudicio governato da usurai privi di scrupoli: senza denari, niente
rispettabilità, niente gloria; Solo la vergognosa necessità di mendicare soldi ovunque e con qualsiasi
mezzo. Anche in ginocchio, com’era accaduto a Parigi con Mayerbeer, quel giudeo infame che gli
aveva allungato effettivamente un’elemosina per poi mandargli all’aria il Tannhauser. Ancora se li
sentiva rintronare nella testa i fischi dei parigini: il più clamoroso fiasco in tutta la storia dell’opera
lirica. Merito esclusivo della livida invidia di Mayerbeer per la sua opera che rischiava di metterlo
in ombra davanti al pubblico francese. Era dovuto scappare in gran fretta anche da Parigi; poi,
tornato in Germania, aveva giurato odio eterno a quell’ebreo borioso e a tutta la sua razza di usurai.
Si era sfogato con un volumetto velenoso: “Il Giudaismo in Musica”, ma neanche quello aveva
fruttato un quattrino. Sembrava proprio che della musica e delle opinioni personali di Wagner su di
essa, all’umanità intera non gliene potesse fregare di meno. Mayerbeer, al contrario, quel laido e
danaroso cialtrone, quello sì che era un musicista arrivato, corteggiato, ammirato. E lui, Wagner,
aveva dovuto supplicare per avere da quel porco ebreo i denari appena bastanti a passare un
inverno, e a quali condizioni poi: doversi adattare a trascrivere per cornetta a pistoni la musica di
quell’altro cialtrone, Donizetti! Quel sifilitico scribacchino che sfornava un’opera in quindici giorni,
quando a lui erano occorsi dodici anni abbondanti per finire il Tristano. Senza neanche rendersene
conto, Wagner prese a sbattere la fronte contro la parete, masticando bestemmie e insulti in dialetto
sassone. Il dolore lo fece rientrare in sé; per quando fosse resistente la sua grossa cervice satura di
teutonico orgoglio frustrato, il muro era comunque più duro. Tornò a sdraiarsi ma, anche così, il
panico lo costringeva quasi a boccheggiare. Esasperato, frugò freneticamente nella borsa da viaggio
e ne trasse un flacone scuro con un’etichetta scritta a mano: Laudano.
Il medico l’aveva prescritto a sua moglie per alleviare le sue continue emicranie. Scappando da casa
per l’ennesima volta, due giorni prima, Richard l’aveva infilato nella borsa con la vaga intenzione
di usarlo come ultima difesa delle sue illusioni contro la bieca malignità del mondo. Adesso si
trovava sull’orlo dell’abisso, costretto infine a fissare il nulla che lo attendeva in fondo alla
bottiglia. Sentì un brivido corrergli lungo la schiena e la volontà annichilirsi dinanzi alla soglia che
aveva fantasticato di varcare con cinica noncuranza. Se fosse coraggio disperato o suprema viltà,
quel suo avvinghiarsi testardamente alla sua vita disastrata, questo non lo sapeva. Seppe soltanto
che non sarebbe riuscito comunque a trangugiare quel liquido nerastro, neanche per far dispetto a
Mayerbeer che certo non avrebbe pianto per lui, né per lasciare la combriccola dei creditori a fissare
ammutoliti il suo corpo esanime calcolando mentalmente gli interessi irrimediabilmente perduti.
No, no, no!… Meglio la galera, meglio il sarcasmo di Minna, meglio persino i fischi e le grasse
risate dei parigini. La vita è una ferita sanguinante nell’anima dell’artista, ma lui preferiva essere
vivo e ferito nell’orgoglio, magari anche messo alla berlina, piuttosto che una salma anonima
nell’obitorio di Stoccarda. Di quella porcheria ne avrebbe bevuto soltanto un cucchiaino, giusto per
darsi una calmata e riuscire ad addormentarsi. Poi, domani, all’alba, sarebbe uscito di soppiatto
dall’albergo e sarebbe sparito in qualche città remota, magari in Italia dove il clima è sempre mite,
lontano dalle nebbie bavaresi e dal sarcasmo di Minna, lontano dagli usurai ebrei, lontano dalla
carità pelosa di Mayerbeer. Alla malora tutto e tutti, lui aveva la tetralogia da portare a compimento!
Non poteva arrogarsi il diritto di privare il mondo del suo genio.
Fu così che il misconosciuto maestro di cappella ingollò un sorso appena del farmaco letale e, senza
neanche togliersi la palandrana, scivolò lentamente in un sonno torbido e inquieto. Si ritrovò in un
posto strano che pareva proprio un palcoscenico deserto. il golfo mistico era vuoto; niente musica
né pubblico, soltanto delle facce arcigne che lo fissavano da dietro le quinte. Ebbe un guizzo di
spavento pensando: ancora creditori!… Ma quelle sagome indistinte restavano confinate nella
penombra, senza osare accostarglisi. Poi, di lontano, come da un’altra dimensione, gli parve di
sentire il suono d’un corno che scandiva il tema di Siegfried e, udendolo, la sua anima fu invasa da
un sollievo indicibile come quando, camminando per una via senza luce, si scorge d’un tratto in
lontananza un vecchio amico che ci viene incontro sorridendo. Un po’ rinfrancato, Wagner si guarda
attorno e s’accorge che su quel palcoscenico male illuminato non è più solo. Qualcuno sta
avanzando verso di lui a grandi passi, e lo chiama per nome con un tono di deferente rispetto a cui
non è abituato. Quel qualcuno è un giovane bruno, quasi un ragazzo, con il volto d’un pallore
esanime e gli occhi dilatati in modo innaturale come quelli d’un pazzo. Il giovane lo fissa e continua
ad avvicinarsi; Wagner ne è dapprima intimorito, poi scrutandolo meglio, s’avvede che sorride d’un
sorriso ingenuo, quasi infantile. Il giovane, vestito in alta uniforme, gli giunge dinanzi e gli stringe
la mano con devozione commovente e, nel frattempo, sussurra a voce bassa:
“Maestro, maestro!… Non abbia più timore!…”
Tre colpi secchi e violenti alla porta: Wagner si sveglia di colpo e si ritrova nell’infima stanza d’uno
sconosciuto albergo di Stoccarda. Alla malora anche i sogni! La squallida realtà bussa alla porta
come il destino nella quinta di Beethoven, e il maestro viene colto ancora una volta dal panico.
Stavolta è finita sul serio: i creditori l’ hanno trovato e sono arrivati, magari con qualche gendarme
al seguito. E’ la fine! La fine!… Che vergogna, uscire in strada con le manette ai polsi!… Nel
corridoio risuona stridula la voce dell’albergatore che grida senza alcun riguardo:
“Herr Wagner, ci sono visite per lei!…Herr Wagner, mi sente?!…”
Maledetto figlio d’un cane rognoso, gridalo ancora più forte casomai qualcuno non t’avesse sentito!
Fallo sapere a tutti che Richard Wagner oggi sarà arrestato per insolvenza!
Wagner resta muto ed immobile così come s’è destato a fissare la porta oltre la quale lo aspetta un
destino inesorabile. E il lazzarone insiste:
“Herr Wagner, si sente bene?… Deve aprire la porta o dovrò farla sfondare!…”
Wagner non si muove più, pietrificato dall’orrore. Dopo parecchi minuti, riesce soltanto ad
articolare una specie di mugolio:
“Che volete?…”
“C’è qui un signore che vuole parlare con lei. È venuto apposta da Monaco ed ha molta fretta!”
Oddio, addirittura da Monaco l’hanno fatto venire!!!… Quello m’arresta e mi trascina in catene fino
alla gendarmeria!!!… Oddio!!!…
D’un tratto una voce nuova, bassa e incisiva, si sovrappone a quella del locandiere:
“Herr Wagner, la prego, apra la porta, sono qui per espresso volere del re! Ho notizie importanti che
la riguardano!…”
Notizie importanti?!.. Magari Mayerbeer è crepato d’un accidente e vogliono incolpare me della sua
morte!… Dice che lo manda il re in persona!… Madonna santa, sta a vedere che stavolta mi danno
la pena capitale!!!…
L’altro, intanto, ha perso la pazienza e si mette a strillare:
“Herr Wagner!!!… Se non apre immediatamente dovrò tornare dal re e riferirgli che lei non mi ha
voluto ricevere! Non ne sarà affatto contento!… Il re la vuole assolutamente a corte entro la sera di
domani!…”
“Il re mi vuole a corte?!… Ma che razza di pasticcio è questo?…”
D’un tratto la paura è sparita per lasciare il posto allo stupore misto a curiosità. Wagner si alza e si
decide ad aprire la porta. Nella penombra del corridoio, davanti a lui compare un signore brizzolato
in marsina nera. Una tipica faccia da imbrattacarte prezzolato con occhi stretti e due baffoni
spioventi che assomigliano, pensa un po’, proprio a quelli di Nietzsche, altro gran figlio di buona
donna.
Lo sconosciuto fa un passo avanti e chiede con compassata cortesia:
“Posso entrare, Herr Wagner?… O dobbiamo restare a discutere in corridoio?!”
Ancora spaesato e incredulo, Richard lo fa passare e quello avanza nella stanza guardandosi attorno
con un sorriso malizioso. Gli basta uno sguardo per capire tutto, e non può fare a meno di
sogghignare. Poi si ricompone e, con un tono assai compassato, si decide a svelare il mistero:
“Maestro,” ma c’è un velo di sarcasmo nel tono in cui lo dice; “permetta che mi presenti. Sono
Franz Seraph von Pfistermeister, segretario personale di Sua Altezza Ludwig II, sovrano di Baviera,
e sono venuto espressamente da Monaco per portarla a palazzo. Il re vuole assolutamente
conoscerla e credo abbia intenzione di affidarle un importante carica, anche se io personalmente mi
sono trovato in disaccordo con lui su quest’ultimo punto.”
Ma vedi un po’ che razza di babbuino! Piomba qui facendomi quasi pigliare un accidente, dice
d’essere mandato dal re ma che lui, poverino, non è d’accordo su tutta la faccenda!…
Il maestro, piccato, non può far altro che rispondere:
“Capisco!… Ma cosa vuole il re da me?…”
“Probabilmente una sua opera!… Il re è giovane ed anche molto ingenuo. Dato il suo entusiasmo
per la musica e le arti in generale, da vari mesi richiede con insistenza di conoscerla.”
Pfistermeister fa una pausa e poi mugugna:
“Anche se io l’ho ben messo in guardia sul fatto di non essere il solo a richiedere la sua presenza!…
Mi risulta che la regia polizia nutra da tempo lo stesso desiderio.”
Wagner non sa cosa rispondere e quindi, paonazzo di rabbia, resta muto davanti al messaggero che
gli reca la salvezza.
Il segretario del re è comunque un uomo di mondo, e capisce l’imbarazzo di Wagner:
“Suvvia, maestro, non s’offenda se le parlo a viso aperto. La vita non è facile per nessuno di questi
tempi. Io credo comunque che lei potrà trarre grandi vantaggi dall’entusiasmo del re per la sua
musica. Se saprà condursi convenientemente, lei presto potrà dimenticare tutte le ristrettezze della
sua vita attuale. Non avrà più problemi di sorta!… Prepari il suo bagaglio, bisogna partire subito. Il
re l’aspetta a palazzo!”
Poco dopo, nuovamente solo nella squallida stanza, Wagner rimugina ancora sbigottito su ciò che il
messaggero gli ha rivelato. Il re di Baviera lo vuole a corte!… L’angelo della misericordia divina ha
scorto la sua disperazione ed è giunto a recargli la salvezza sotto le vesti di quell’arcigno cortigiano.
Di colpo rammenta il sogno in cui si trovava smarrito su un palcoscenico deserto, e il richiamo d’un
corno gli ha annunciato l’arrivo d’un giovane in uniforme che lo interpellava dicendogli: Maestro,
non abbia timore!
Questo, dunque, era il vero volto del destino? Fino ad oggi Wagner non sapeva nulla di Ludwig e
certo non immaginava questo lieto fine per la sua tormentata vicenda. Di certo non sa che Ludwig
cova in sé il germe della follia che lo porterà fatalmente al suicidio. Non sa nulla e non può fare
altro che seguire il suo destino. Forse ci voleva un re folle perché i grandiosi sogni musicali del
piccolo uomo infelice e fuggitivo potessero prendere vita e consegnare il suo nome alla storia. Forse
ognuno di noi, lungo l’incerto cammino, finisce sempre per incontrare sé stesso.
La notte e i suoi tormenti
La notte porta consiglio... e spesso reca con sé anche dubbi e tormenti. E sono proprio questi aspetti
delle veglie notturne che c'interessano, chiedendoci quali e quante problematiche vengono
affrontate nel corso delle ore più buie. Tuttavia è innegabile il fatto che le incertezze, le insicurezze,
i propositi più deleteri e le risoluzioni più estreme solitamente si scatenano proprio nel corso della
notte. La saggezza popolare consiglia di non prendere decisioni definitive, ma di aspettare la luce
dell'alba, la quale normalmente non si limita a rischiarare solamente le volte celesti, ma anche gli
animi, portando a più miti consigli e riconducendo la mente verso un percorso logico più terreno e
più conciliante. Dunque, cari Portatori di Penne, raccontateci i vostri tormenti e noi aspetteremo
l'alba in vostra compagnia, non lasciandovi da soli nelle tenebre.
Nadia Lattanzi
…ed è notte…
“Ma poi cos’è la notte?”
“Solo buio e silenzio..solo fantasmi che arrivano e che alle prime luci dell’alba saranno andati a
dormire.”
“Cos’è la notte in fondo?”
“Un mucchio di ricordi appesi dentro ad un armadio, solo vestiti vecchi che puzzano di incubi.”
“Ma si..dai dimmi cos’ davvero la notte?”
“Forse le mani di qualcuno che non avrebbe dovuto sfiorati?..ma anche no.”
“Tu non sai cos’ è davvero la notte.. no non lo sai!”
“Si che lo so!”
“No! tu non sai che la notte sono solo io..io soltanto. Io. E me. E forse è proprio questo che mi fa
paura. Sapere che all’interno di quel buio e al di fuori di quel silenzio non ci sono che io. Io
soltanto.”
“Allora? Lo sai cos’è la notte ora?”
“Si lo so..no..anzi, forse..lo immagino..la notte siamo noi..noi soltanto.”
Oliviero Angelo Fuina
Angelo è seduto sul confine
Angelo è seduto sul confine
ha un biglietto di penna d’oca
- respira l’odore della pioggia gioca con la pagina del cielo
a trovare differenze con i monti;
il grigio per suo figlio è rosa
- daltonico ottimismo da invidiare gocce tamburellano il tendone
assordando i timidi pensieri;
lampioni al nastro di partenza
aspettano le ombre decisive
di un vespero davvero imminente
nei colpi di coda del giorno.
E’ applauso di acqua scrosciante
adesso a fremere le fronde
Angelo vorrebbe ringraziare
ma non si usa, dietro le quinte,
e piega le spalle senza inchino
nascondendo un sorriso di sfida.
Gocce di piano e carezze d’archi (a mia madre)
Gocce di piano e carezze d’archi
sotto la pelle, vicino al cuore
parole e suoni di me bambino
sotto le scale di una canzone;
gocce di note sulle mie guance
dentro i riflessi della mia casa
ricca di tante povere cose
della tua mano sulla mia testa,
dei tuoi sorrisi ai miei pensieri
di quel profumo sulla tua pelle
delle impazienze senza ritorno,
mesto tuo sguardo al vecchio tiranno,
che gli anni miei lontano spingeva
dalle carezze mai più trovate.
Gocce di sale scendono dense
di vita sapida senza di te.
Sono io il grande e tu la bimba
che nei miei gesti cerca il fanciullo
perso fra scale fatte di fretta,
per quel bisogno di essere altrove
tanto lontano dalle mie risa
troppo distante dalla tua mano.
L’assedio più lungo
Nuova mi appare la costa sassosa
d’arida terra dagli alberi spogli
dai forti venti marini, svestiti
e l’orizzonte dei miei chiari monti
stagliati nel cielo color del mare
d’Itaca sono e più non conosco.
Di Patria è mendace il mio ricordo:
è forse questa un’isola spersa
nell’acque per decenni che ho solcato?
(Mai fidarsi dei marinai feaci
forse golosi dei doni d’Alcinoo).
Sono partito con manto regale
faccio ritorno di stracci vestito,
mendicante, nell’usurpata casa,
di quei vent’anni rubati da guerra
perdendo donna nel dubbio che sale
per la vittoria di noi tutti achei.
Qual è l’onore da Elena perso?
Per quanti lutti nel gioco di dei
ho perso figlio nei verdi suoi anni?
Mai la realtà si confronti col sogno
quando al risveglio ti trovi privato
di tutta una vita per mari persa
da riafferrare con mano straniera
ancora usando quest’arma d’imbroglio.
Lo sconosciuto Telemaco figlio
conosce l’ordito del mio inganno
la sempre amata Penelope sposa
tengo a distanza nel fingermi altro.
È vento di sale che bagna le gote
o nel mio cuor si rivela dolore
per un ritorno a lungo sognato
e ritrovarmi da lei più distante?
Come mai un bagliore di sospetto
non rischiara stracci da mendicante,
nella mia taciturna Penelope,
da palesarle presenza di sposo
spazzando nubi inquiete timorose?
[“Perché si rivela a tutti e non a me
l’agognato sovrano nel ritorno?
È forse sol maschile la vendetta
O la fiducia s’è persa fra i mari?
Nell’incredulità, implacabile,
ostenterò inquietudine tacendo.
Non posso perdonargli l’abbandono,
m’assistano gli dei nella schermaglia
testimoni del mio risentimento”]
Antioco dei Proci, la fiera più scaltra,
sguardo le intreccia, talamo mirando
e la mia sposa, pur sempre una donna,
nel desiderio, annega il rimpianto?
Dodici cerchi la freccia trapassa
le sue sorelle mutilano membra,
lavano ancelle quell’immondo sangue
ma del mio regno non sono padrone
se mi rifiuta, Penelope, sguardi.
Torto ha subito, da mia dipartita
seguendo l’onda dei miti immortali,
m’aspetta ancora l’assedio più lungo
per conquistare fiducia e il suo cuore
varcando porte da lei spalancate.
È vana la mia celebrata astuzia
se non può far breccia nelle sue mura,
mi spoglio, di eroe, delle mie gesta
stivali d’avventura getto al vento
per consegnarmi ancora il suo re scalzo.
Quel tuo infinito a termine
Eppure non ti ho chiesto io
di scrivere i tuoi
sui riflessi del mio nome,
accecandomi di Speranza;
era allora il tuo presente
quell’infinito a termine
che volava l’elastico
in ritorni convenuti.
E oggi tu mi domandi
come respira il mio cuore
mentre io boccheggio a vuoto
l’indifferenza mentita.
E’ di te la mia risposta
che non voglio comprendere
tu che hai chiuso l’orizzonte
nel recinto del tuo mondo.
Ho nuove ali in collaudo
per rotte quasi colluse
la mia prudenza è il tuo dono
in radente via di fuga
- aspettando correnti ascensionali -
Si è sempre soli
…Si è sempre soli, ad ogni risveglio
in ogni pensiero che segue lo sguardo
portando alla bocca la tazza del latte
ferendosi il volto nell’aria di brina.
…Si è sempre soli, in mezzo alla folla
ognuno fra bolle di sopravvivenza
sfiorando contatti a scalfire la quiete
contando nei passi distanze d’abisso.
…Si è sempre soli, in ogni dolore
gridando a se stessi la voce del vento
pareti di carne attutiscono il verbo
e i muti lamenti bestemmie taciute.
…Si è sempre soli fin dentro un abbraccio
vestendo di pelle la propria corazza
spacciando la brama per doppia scintilla
vivendo l’orgasmo rappresi sui sensi.
…Si è sempre soli anche l’ultimo istante
cercando ricordi nell’urna esclusiva
nell’ultimo verso che non si è dettato
lasciando più soli quegli occhi di pianto.
Ti leggo allo stipite del giorno
Ti leggo allo stipite del giorno,
fra le mani la tazza di caffè
e il mio vero diluito sguardo,
tra sbadigli di piazze e di case;
ricevo la carezza di lemmi
che distanza annulla nel sospiro
di tastiere complici e ruffiane,
allungando amichevoli dita.
Attimo di grazia regalato
nel suono di parole mentali,
nel sorriso che schermo riluce
prima che s’affossino le spalle.
Andrea Borrelli
Autunno
Mosse le braccia degli alberi
al vento che strofina le foglie
musica la pioggia nelle orecchie
cader quel po’ d’acqua
di più non riesce a fare
lo spettacolo continuo sembra
mai avere un fine diverso
se riempire goccia dopo goccia
il cuore irrobustendolo
senza aver luce per sé
gridare al mondo
adorazione per il grigio.
La stanza alle mie spalle
Il ricordo di te è la stanza alle mie spalle.
Si è ripulita con l’odore di nuovo che adesso l’ attraversa
e unita al sapore della tua confusione immediata
ci richiama.
Del tuo viso è stata incoronata la parete bianca,
macchiata con una vecchia musica,
graffiati i versi di un canto
come gli altri uniti da te con i miei.
Ho preteso l’armonia stonata degli oggetti
e teso il pensiero.
Lasciando la fioca luce che illuminava lo spazio nero.
Col tempo ingigantirà la sua luce
e sfiorerà di nuovo le sue labbra con il buio.
La notte passerà al giorno
di nuovo il giorno alla notte.
E sarà prima buongiorno.
E poi buonanotte.
Trucco e parrucco
L’ho deciso oggi
struccare i ricordi
del passato
Indossare una finta
chioma d’idee
nel presente
Mostrare l’anima
com’è veramente
solo in futuro
rimandando per sempre.
Giancarlo Ibba
Foglie d’Autunno
Foglie d’Autunno,
incendiano
orli di sentieri bisbiglianti
e fatui merletti di ghiaccio,
preludio di fiocchi silenti
nelle insonni aurore.
Dalle vette immortali,
giganti di pietra,
vegliano…
in attesa del nulla.
Elena Grifoni
Loop
Percepisco la luce che filtra dalle persiane chiuse; sento una specie di chiacchiericcio, deve essere
una radio accesa. Beh, ormai non ho più sonno. Mi tiro su a sedere sul letto e con gli occhi ancora
chiusi infilo le ciabatte, mi stiracchio un po’, mi alzo. Saluto il mio coinquilino, poi le solite cose:
bagno, colazione, vestiti puliti. Esco con lui per andare a lavoro ma qualcosa non quadra: davanti
casa, invece del solito giardino incolto, si apre una strada trafficata dove un fruttivendolo, munito di
ombrellone e scatole di ortaggi, urla ai passanti slogan accattivanti per incitare all’acquisto. Mi giro
verso il mio coinquilino per farglielo notare, ma al suo posto c’è una mia vecchia compagna di
scuola che, come se niente fosse, chiude a chiave la porta di casa e mi esorta a seguirla a passo
svelto per non far tardi a lavoro.
“Sto sicuramente sognando”
Nell’istante stesso in cui la coscienza del sogno fa breccia nel mio inconscio eccomi di nuovo sotto
le coperte, la luce che filtra dalle persiane, un chiacchiericcio di sottofondo mi fa pensare a una
radio accesa da qualche parte. Apro gli occhi… che strano sogno.
Mi alzo, infilo le ciabatte, mi stiracchio un po’, mi lego i capelli e esco dalla camera; saluto il mio
coinquilino, poi le solite cose: bagno, colazione, vestiti puliti. Esco con lui per andare a lavoro. Ci
fermiamo in un bar a fare colazione, io ordino un macchiato e un cornetto e lui un cappuccino. Un
momento… ma io ho già fatto colazione! O sbaglio… e poi perché quando arrivo alla cassa mi
fanno pagare cinquanta pezzi dolci? Di chi sono gli altri quarantanove?
“Accidenti, sto di nuovo sognando!”
Sono di nuovo nel mio letto, sento il tepore delle coperte che mi avvolgono. Non mi va di aprire gli
occhi, credo che aspetterò la sveglia. Avverto l’aprirsi e richiudersi della porta della camera, e passi
silenziosi di qualcuno che attraversa la stanza; ne vedo la figura attraverso le palpebre chiuse. Le
doghe del letto cigolano piano mentre il materasso si alza e si abbassa, chiunque sia si è sdraiato
accanto a me, posso sentirne il calore, sento il suo respiro e indovino le sue emozioni combattute.
Poi il peso si sposta di nuovo e il calore si dissolve. Percepisco la luce che filtra dalle persiane e una
specie di chiacchiericcio in sottofondo; tiro fuori le braccia da sotto le coperte e mi allungo più che
posso; mi tiro su a sedere sul letto, mi metto la felpa e sto per mettere i piedi nelle ciabatte quando
suona la sveglia! Apro gli occhi di colpo: sono sotto le coperte, tirate quasi fin sopra la testa.
D’istinto mi giro verso la parte vuota del letto a due piazze quasi aspettandomi di trovarci qualcuno.
Mi tiro su a sedere sul letto, spengo la sveglia, la radio chiacchiera nell’altra stanza. Mi infilo le
ciabatte ed esco dalla camera. Saluto il mio coinquilino con un: “Di nuovo buongiorno! Questa è la
terza volta, stamattina”.
Lui mi guarda come se fossi matta e continua a mangiare il suo pane e marmellata.
Sono appena le otto e sono già stanca… questi sogni a Loop mi sfiniscono ancor prima di alzarmi
dal letto!
Sebastiano Impalà
Miele d’acacia
La mia donna
ha gli occhi grandi
quando posa i suoi capelli
sul cuscino
dell’amore.
Si avvinghia
lentamente alle mie gambe
in un amplesso
senza fine
e i suoi seni,
acini di uva asprigna,
odorano di vento fresco.
Nella notte
distinguo il suo bagliore
come luna senza tempo
che danza
con galassie impertinenti
ed amo il suo sapore
che miele d’acacia
sgorga di passione.
Ora son suo,
irrompo nel suo sesso
per sconfiggere le ombre,
lambendo coi pensieri
il concetto assurdo
dell’eternità.
Rosa D’agostino
Notte
Passano lente,
come ombre vaganti,
le ore, i minuti, i secondi,
danzano con movimenti lenti
svolazzano come farfalle impaurite
le vedo avvicinarsi ed una musica
rintocca come una campana
che suona a morte.
Vorrei alzarmi,
ma non riesco a muoverei le gambe,
sento la gola arsa,
la testa che mi scoppia
sento una voce calda
due braccia che si tendono
sento sfiorarmi il viso
sento baciarmi le labbra.
voglio dormire
chiudere gli occhi e sognare
le ore passano
sono ancora sveglia
a rincorrere fantasmi,
la finestra s’apre
è un soffio di vento a smuovere una tenda
è l’ombra di un albero
che si proietta sulla parete
è un orologio
che batte il tempo,
è solo il mio pensiero
che crea dei fantasmi
è solo una notte
come un’altra…
non dormo…
vorrei averti accanto
e sogno
ad occhi aperti.
Diana Mistera
Notturno
Rimango a guardarti
mentre cerchi di seguire le tracce invisibili
che ti ho lasciato
per raggiungermi in quelle terre sconosciute della tua anima.
Illuminato dalla luna mi insegui
cullato dalla mia voce
viaggi dentro questo tempo distorto.
Ma la notte sta lentamente svanendo
portando con se tutte le sue stelle
lasciando un silenzioso, frustrante, vuoto di memoria.
Elisabetta Bagli
Ora so chi sei
Ora so chi sei,
non cercarmi,
non ti risponderò.
Continua a credere
nella tua verità,
continua a trattare
le tue persone come bestie.
Getta su di loro
il fumo della tua mente,
ordisci le tue trame
di false parole.
Sei finito.
Credi di avere
il mondo in mano,
ma sei un povero,
vecchio predatore.
Stanotte ho sentito
la tua paura,
codarda, beffarda,
infima amica.
Senza rischi,
l’hai abbracciata
dimenticando le promesse
che mi hai fatto.
Ora so chi sei.
Sei l’acqua putrida
che ha sporcato
il mio cuore,
il petto ansante
che ha mentito
al mio seno,
le labbra perverse
che hanno giocato
con le mie,
gli occhi impietosi
di un amante malato.
Ora so chi sei
e non guarderò indietro
verso la fiamma
che ha consumato
il nostro fiele.
Calpesterò con spilli di piombo
il ghiaccio gracidante
della tua anima nera,
affamata di terra bruciata,
di polvere solitaria
e di morte in vita.
Monica Pasero
Tenebre
In questa notte avvolta
dalle tenebre
riaffiorano fantasmi
prigionieri
della mia anima
Volteggiano liberi nel buio
Oscurando i miei pensieri perduti.
Flutti di vita
riappaiono nell’oscurità
dipingendo esistenze immaginarie
ombre che si saziano del loro bisogno reciproco
affiorano innanzi a me
nel mio eterno
fantasticare
Cosa ti manca
Questa settimana i nostri autori si prodigheranno nel farci capire cosa manca, cosa manca a livello,
materiale affettivo o di valori. Cosa più riempire quel vuoto che a volte sentiamo, cosa si pensa
possa essere usato per raggiungere la felicità, cosa per sentirsi completi e soddisfatti. Chissà quali
sono le cose di cui poi si sente la mancanza. Cosa è sempre mancato o cosa c'era e poi non abbiamo
più trovato. Voi cosa rispondereste se vi chiedessero: Cosa ti manca
Giancarlo Ibba
Basta!
A capo chino,
ti vorrebbero,
muto sarcofago di rimpianti,
sfinito dal vuoto delle loro miserie,
senza più orizzonti blu da esplorare…
Ma non devi essere per forza cosi’.
Basta!
Esci dalle comode catene della rassegnazione,
uccidi l’abitudine alla quiete preconfezionata,
dichiara guerra alla pace grassa dei potenti,
vivi o muori,
l’attimo e’ adesso.
Dimentica il maestro,
ricorda gli insegnamenti:
non porterai nulla,
ma lascerai tutto.
Gabriele Palumbo
Che cosa ti manca
Volevo arrivare fino in fondo, ogni volta, per trovare qualcosa che non fosse di nessuno…e se fosse
arrivato qualcuno avrei detto:”qui non è di nessuno”… ma nessuno arrivava… E tu, ogni volta, mi
ripetevi: “che cosa ti manca?”… non lo so” dicevo sempre, “tutto e niente… mi manca la radio, mi
manca l’asfalto, mi manca lo sguardo, il giudizio degli altri, mi mancano i soldi, mi manca un
motivo per sentirmi al centro, un armadio dove mettere i giorni che sto perdendo… tutto e
niente”… poi guardavo il cielo, le notti bruciavano di stelle… e tu mi rimboccavi le coperte, per
non vederle… “mi mancano gli altri, mi manca la voglia di averli davanti”…
Andrea Borrelli
Città
Si intasa l’aria degli odori sporchi
Lucidati come maniglie
da vecchie e nuove braccia mozzate
Fin tanto ne entra nei polmoni
Respiro ancora e assapora il gusto
Del catrame
Eppur a questo nauseabondo
Non mi stanco
Se me ne distacco
Ancora torno
al tono nero dell’affanno
A ricordarmi quei giorni in cemento.
Lamento
Credo che mi sia sempre mancato il coraggio
La cosa che mi ripeto più spesso
L’ unico assente a cui ho sempre pensato
Indignato
Contestato
Sopravvalutato
Criticato
Offeso
Guardando l’immagine riflessa
Me stesso
Avrei voluto avere più coraggio
Buttarmi
Arrampicarmi
Scagliarmi
Lanciarmi
Cadere
In quel vuoto che è dietro lo specchio.
Sebastiano Impalà
Cronaca di poveri amanti
Vengo a prendere
il tuo cuore,
creatura dai colori
della notte,
dai mille pensieri
che turbinano nel cielo.
Alito di donna
sulle mie spalle asciutte,
brividi di un’estate
silenziosa e mite…
al mattino ti ritrovo accanto a me.
Assente,
nei tuoi capelli sciolti
ritrovo il corso della storia,
la vita che pulsa nello stomaco,
il vorace sentimento
che divora
l’umile diaframma del soffrire.
E mi ritrovo errante
come un turista spento
al tuo abbandono
quando i confini
del tuo mondo
non toccano più i miei.
Solo una foto
in bianco e nero,
cornice impolverata sul comò
unico ricordo
di una storia vissuta e mai scordata
da due poveri amanti
come noi.
Regina Re e nik56
Il tiro
Mi fa male qualcosa che non so
sto scocciato e ho fatto un po’ di tiri oggi
perché il genio, quando c’è, collima tutto.
Ma ora tu che passi ispirami, piantami un chiodo nel cervello
con un tiro lungo.
“Io non so sparare.”
Non lo sai se sai sparare o meno,
andasse a fare in culo lo sparare o meno.
Dimmi cosa, dimmi quando, dimmi che.
La cosa che è la stessa cosa, prima e dopo il quando
come quando fuori piove,
piove come e quanto non sai più se e come piove
dove non c’è più il quando.
Piovono chiodi nel cervello senza spari,
Dunque niente chiodi, non ho la mira,
e te l’avevo detto.
È un divertissement, non è poesia.
La poesia fa male. Questa fa il solletico alla pineale.
Oliviero Angelo Fuina
Io, che mi manco da morire
(E adesso anche tu non sei già più tu
io, invece, non lo sono più stato.)
Ho annacquato il tuo sguardo d’annata
tracimando il mio lago dal volto;
ho trovato nuove sponde piane
d’abbracciare con sguardo mio lento.
Rimane l’eco d’un tuffo sciolto
del gabbiano con ali di piombo
che nello slancio d’altre rincorse
ha perso del volo la tua spinta.
Sopra i fogli scrivo la mia storia,
barchette di carte alla deriva
nei notturni canali a perdere,
sperando in una secca del tempo.
Fumoso ectoplasma imperfetto
che fioca lampadina riflette,
inutile cercarne il contorno
fuori dall’urna della memoria.
(Ed io, che mi manco da morire,
e tu, che non sei forse mai stata.)
Diana Mistera
Ispirazione
Una strana sensazione di vuoto
mi assale e non sento più nulla
i sensi sono addormentati
ibernati,
i loro scheletri coperti di neve
in cui il ghiaccio ha fermato il tempo.
Tutto quello che mi avvolge è l’assoluto,
pesante silenzio che mi contorce;
sono sorda
cieca
smarrita,
in compagnia di quel disagio
che chiamo
mancanza di ispirazione.
Elena Grifoni
La pagina mancante
C’era una volta e non c’è più
il regno fatato di Timbuctù.
Lo so, è vero, esiste ancora
ma solo il nome e non la dimora
di quella città di antico splendore
dove regnavano la gioia e l’amore.
“Sei un po’ scontata!” direte voi,
“Ma è una favola! Che altro vuoi?”
È una storia che narra di una principessa,
di un bosco fatato e una madre badessa,
che una strega cattiva,
(non abbia a mancare!)
dal regno decise di eliminare.
“Con pozioni fatate o mele avvelenate?”
Non siate ridicoli… soluzioni già sfruttate!
Per far piazza pulita di rivale, badessa e bosco
non scelse la magia, ma un rituale ancor più fosco.
Lasciato il calderone sul fuoco con la zuppa,
munitasi di razzo e fuochi d’artificio,
con sottile astuzia e un tocco di fortuna
spedì l’intera corte in alto sulla luna!
“E come va a finire?”
Domandano impazienti
i bimbi tutti in coro
seduti nel cortile.
La cosa è alquanto strana,
e un poco imbarazzante…
qui, proprio in fondo al libro
c’è una pagina mancante!
“E adesso che si fa?” mi chiedono i bambini
“Sapere mai potremo,
se principessa e corte dalla lontana luna
son scesi in un baleno!”
Bambini state allegri,
smettete di belare
in quanto è cosa nota
che per un bel finale
non serve la magia
ma solo fantasia!
Nadia Lattanzi
Mi manchi
…mi manchi tu, e le tue risate…
Mi manchi da starne male.
Mi manchi tanto da sapere di essere un “in più”.
Mi manchi e a volte non so neanche io il motivo…
Mi mancano le tue mani nelle mie, anche se poche volte ce le hai messe…
Mi mancano sulla mia pelle..ad accarezzare a mesi alterni.
Mi mancano le parole che ognuna dice all’altra nel momento esatto in cui vorrebbe dirle…
Mi mancano i caffè della mattina… le buonanotti sussurrate a tre centimetri di distanza… mi
mancano gli urli per un dentifricio finito in fretta… mi mancano le incazzature di un lavoro da
raccontare… mi mancano le verdure bruciate per far l’amore o ancora le corse a recuperare un bacio
chissà dove…
Mi manca tutto, anche se mi fai sentire come una a cui non dovrebbe mancare niente e coi
chilometri che ci passano in mezzo, riesci sempre a farmi stare bene..ma poi quelle piccole cose di
“un di noi” nessuno ce le può dare ed è per questo che continui a mancarmi.
Ma si… tutte ste parole perché alla fine… mi manchi tu.
Rossana Roxie Lozzio
Troppe le cose che mi mancano
Troppe le cose che mi mancano… mi mancano il sorriso rassicurante di mia madre, i rimproveri di
mio padre, le loro voci.
Mi mancano gli amici lontani, anche se li sento sempre accanto e presenti, nel cuore.
Mi manca la sicurezza in me stessa, la serenità, tanti Natali con coloro che mai più potranno esserci
o che mai ci saranno.
Mi mancano tante, molteplici cose… ma soprattutto sei tu, a mancarmi! Al punto da far sì che mi si
spezzi il respiro e che il dolore mi si arrampichi dentro… fino a radicarsi nel punto più profondo
dell’anima.
Strani incontri
Gli strani incontri a volte cambiano la vita. A volte rappresentano quel particolare che ci induce a
rivalutare tutto ciò in cui abbiamo creduto, che abbiamo fatto e abbiamo pensato. Incontri che
possono durare un breve attimo oppure che diventano fattori stabili nel nostro quotidiano. Nessuno
può dire con certezza perché avvengano in determinati momenti, magari quando più abbiamo
bisogno di un cambiamento radicale nella nostra esistenza, così come nessuno può stabilire quando
sia il momento più adatto, tuttavia succede. E quando questo accade, gli strani incontri diventano
fondamentali, a volte persino per la nostra stessa sopravvivenza. Che sia la fantasia o la realtà a
muovere la vostra Penna, non fatevi scappare l'occasione di renderci partecipi delle vostre
esperienze.
Anna Cibotti
Strani incontri
Lei era là.
Lontana dalla riva lungo la quale stavo camminando sotto quel sole di luglio.
Non so perché mi venne di guardarla
Stava seduta sulla sabbia con un bambino in braccio.
Il piccolo teneva la bocca sul seno di lei che lo guardava teneramente.
"E' troppo grande quel bambino per essere ancora allattato", pensai.
La sua testa riccia rimaneva ferma sul petto della donna e assieme a lei formavano un quadretto
sconcertante.
Continuai a camminare, ma mi voltai continuamente, incuriosita dalla scena insolita.
Lei non si mosse né girò mai la testa verso di me.
Rimase immobile e indifferente al resto del mondo come se fosse sola.
Li avevo appena visti e di loro non riuscivo a ricordarne i particolari.
Solo una piccola testa riccia color seppia affondata nel seno di una donna identica a lui.
Ci pensai e mi chiesi perché lo feci: ma non trovai una risposta.
Solo quel giorno la vidi.
Passò l'estate e me ne dimenticai.
Ma l'hanno dopo lei è tornata.
Un giorno di luglio, anche se non so, se fosse lo stesso dell'anno prima.
Solo quel giorno!.
La cosa strana è che l'immagine di loro due era identica a quella precedente.
Stessa posa immobile e il bambino avidamente stretto al seno.
Inquietante la cosa.
Qual'è quel bambino che non cresce da un anno all'altro!
No, era rimasto come l'avevo visto, grande per essere allattato ma non cresciuto come la logica
vorrebbe.
Passai loro vicino e li fissai.
Niente.
Non diedero nessun segno di avermi vista.
Mi voltai ancora e ancora mentre mi allontanavo finché non furono che un punto sfuocato e lontano.
Fu l'ultima volta che li vidi.
Ricordo la loro immagine sbiadita come una vecchia fotografia incolore e sciupata dal tempo.
Penso che se li avessi toccati, si sarebbero sciolti come sabbia tra le dita.
Forse quest'anno lo strano incontro si ripeterà.
Ma sarà cresciuto il bambino?
Andrea Borrelli
P. ed I. non trovano pace
Immaginate per un momento.
Immaginate due uomini.
Per tenere l’anonimato li chiamerò solo con l’iniziale del loro nome.
Immaginate, quindi, due uomini, uno P. e l’altro I.
Due uomini completamente diversi tra loro, fisicamente ed intimamente, che ad un certo punto della
loro vita si incontrano faccia a faccia, in un dato luogo e tempo, senza la possibilità di poter tornare
indietro o di andare avanti. Ma con la sola certezza di vivere così, uno di fronte l’altro,
completamente diversi. Ognuno con il suo pensiero.
Adesso si avvicina un terzo uomo, M.
M. è bugiardo, cattivo, irascibile, falso, prepotente, manipolatore, superbo, vanitoso. Ad M. sta bene
che P. ed I. non smettano mai di litigare. Anzi ad M. sta bene che P. ed I. non solo litighino, ma
passino dalle parole alla violenza. Più la discussione cresce, più M. accende gli animi, per vedere
questa violenza. Non si allontana mai, ma sussurra parole d’odio all’orecchio prima di uno e poi
dell’altro.
Due uomini che discutono in maniera accesa, senza riuscire a trovare un compromesso alla loro
logica, ma continuando nessuno dei due riesce ad allontanarsi neanche di un passo dalle proprie
ragioni.
M. sembra mai essere soddisfatto, incalza fino a quando P. ed I. iniziano a prendersi a botte. M.
guarda e sorride, è contento. Rincorre gli uomini e preme affinché continuino a farsi del male.
Immaginate P. ed I., prendersi a calci, pugni e scorrere il loro sangue. Ma non finisce qui. Ogni
volta che uno scaglia un pugno verso l’altro con la mano destra, poi con la sinistra allunga il braccio
per aiutarlo a rialzarsi. Così a vicenda. Ferirsi, accoltellarsi anche spararsi. Poi aiutarsi di nuovo a
suturare la ferita. Perché M. è cattivo, ma non fino al punto di vederli morti, solo sofferenti e così
poterli veder curare, prendersene il merito. Continuare a tal punto che M. osserva, rimprovera ed
incoraggia ancora. E loro farsi del male e poi ricucirsi. All’infinito.
Adesso immaginate di poter dare un nome vero a tutto questo.
Immaginate di poter chiamare P. come Palestina e I. come Israele, ed immaginate il Mondo che li
guarda. Immaginate il dolore che c’ è. Immaginate quello che manca.
Denis Cornacchia
Quella notte al faro
Ricordo ancora il suo corpo appena unto di sabbia bagnata. Io sedevo accanto la lanterna, al di fuori
della stanzetta, sul belvedere del faro a fumare l’ennesima sigaretta quando il tempo si prese una
pausa… In sintonia con un tramonto di quelli particolarmente intensi di luce armoniosa, pronto a
cullare i pensieri, si, proprio quelli che aprono le ali della fantasia, quella sera magica volgeva al
termine, quando un lieve vento adagiò ai miei piedi il planare di un piccolo foglietto bianco. Strano
dissi, fin qua su, cosa può mai arrivare dal basso, eppure c’è, ed è lì che mi guarda, dovrò pure
assumermi la responsabilità di scoprire cosa c’è scritto. Rimasi immobile, lo sguardo riprese a tratti
il tramonto ed il faro acceso, come una videata cerimoniale, pur se di scarsa ufficialità, per me fu un
attimo sublime. Il mare faceva finta di non vedermi e se ne stava sereno a bassa voce. Decisi allora
di metter mano a quella macchietta bianca davanti a me, accartocciando l’oggetto non identificato,
lo strinsi nella mano e continuai a fumare indisturbato. In basso, la sabbia sembrava color oro
sbiadito, ogni tanto presenze silenziose riempivano con gracili rumori quel manto maestoso. C’era
una bella veduta dal sommo guardiano, poi un’occhiata lungo il fior d’acqua, poi un’altra e un’altra
ancora e quando la sigaretta terminò, aprii il foglio, alternando lo sguardo con una strana figura
all’orizzonte, ferma, si capiva che era una donna, con i capelli lunghi e neri, indossava un velo
bianco trasparente e il costume azzurro mare. Lessi il foglietto ormai quasi consumato, c’era un
numero di telefono. Pensai che le coincidenze rimanessero tali e che in fondo il paranormale fosse
tutta un’altra scienza. Il tramonto stentava un piccolo bagliore, decisi allora di inviare un messaggio
con il cellulare, ero curioso di sapere a chi appartenesse quel numero, e così feci. Nessuna risposta.
Il vento tremò risvegliando le acque fin troppo accomodate; cercai di nuovo la donna dal manto
bianco, ma nulla. Mi alzai tutto scricchiolante intenzionato a rientrare e scendere così dalla torre
quando un ultimo sguardo verso il mare, mi regalò la dea dal manto bianco, era lì e guardava verso
me. Rimanemmo forse per più di mezz’ora non ricordo, fermi fissi a guardarci, senza un cenno, un
movimento che facesse intendere un primo approccio.
Di colpo il cellulare emanò il suono unico del messaggio: chi sei? Il cuore scelse di ballare più in
fretta, era suo, quel foglietto era suo. Le risposi: sono il guardiano del faro, cosa ci fai lì tutta sola?
Non rispose subito, si girò verso il mare e aggiustandosi i capelli gridò qualcosa che non riuscii a
comprendere. Mandò un altro messaggio: io sono Roberta, sono nata in questo faro. Conosco le tue
abitudini, so con quanta passione svolgi il tuo lavoro, ma soprattutto scopro ogni giorno che passa,
il tuo amore per il mare. Interminabili attimi correvano in quella notte di luna piena. Decisi di
scendere, ma qualcosa mi diceva di andare piano, di non correre sui scalini della chiocciola, come
se non avessi nessuna meta da scegliere. Arrivai sulla spiaggia e finalmente era lì, di fronte a me,
col sorriso sulle labbra e la mano tesa. Camminammo sulla sabbia umida per chilometri. Si parlava
di noi, della vita e della storia del vecchio faro. Ricordo che lei mi prese per mano e stringendosi il
mantello e a me, mi chiese: puoi amarmi? Non capivo più nulla, tutto troppo in fretta, eppure la
stringevo a me, ascoltando lo stesso mare e respirando la stessa emozione. Arrivati al faro: è tardi,
devo controllare la lanterna su alla torre e poi devo riposare, domani sarà una giornataccia per me,
ci sono molti rientri al porto e devo segnalare il loro arrivo. La baciai e nel salutarci lei mi riprese la
mano e mi seguì. Notte indimenticabile, nell’incertezza di esserci, mi sembrava tutto un sogno,
eppure fu reale. Notte d’amore e di dubbi, non si trattò di fare la parte del maschio, c’era molto di
più, forse amore a prima vista, forse l’unica verità fu amarci per una sola notte, forse nulla di tutto
questo.
So con certezza che dormii per un’ora soltanto e che al risveglio mi ritrovai sulla spiaggia coperto
da un velo bianco dal profumo di fragola. Salii sulla torre, questa volta correndo, controllai la
lanterna ed uscii sul belvedere, accanto la porta in vetro, cicche di sigaretta sparse ed un mucchietto
di carta bruciata. Mi girai verso il muro esterno della torre e proprio in direzione del mare c’era una
scritta: Alfa e Omega – Roberta… per sempre. Frastornato, accesi l’ultima sigaretta rimasta e mi
adagiai nello stesso punto della sera prima, assorto nei pensieri e stupito di essermi innamorato di
un fantasma. Il manto bianco si disperse nel nulla, il mare s’infuriò ed il faro segnalò: pericolo.
Oliviero Angelo Fuina
Aghi di brina
Aghi di galaverna, stalattiti di fiele,
del cuore, alle pareti, nel gelo del tuo sguardo;
diteggio le parole sui datati spartiti,
cacofonico testo di musica immemore;
eteronomo gesto la mano nel taschino,
eufemismo eufonico per spacciarti sorriso;
del tuo scozzare carte sul tavolo graffiato
d’impotente dolore, ti rassegno vittoria.
E nel mesto profilo del mio voltarti viso,
lascio ai tuoi piedi gocce d’aghi di brina sciolti
Senza parole
Se avessi saputo che l’incontrarti mi avrebbe arrecato una così grave perdita, quel giorno sulla riva
del mio lago non mi sarei mai permesso di sfidare note leggi fisiche facendo saltellare la pietra
piatta sulle vene pulsanti dello specchio d’acqua.
Uno, due, tre, quattro, …e si!, cinque salti per il mio sguardo sempre stupito.
Niente di male, in questo atto di sfida.
Male fu cercare la tua muta approvazione, con fiero sguardo proteso, come se essermi testimone
fosse indispensabile.
Tu nel tuo anacronismo statico di lunga veste bianca e ombrellino in tinta.
Tu, il lago ed io, che già vivevo in un quadro di Monet!
Qualsiasi parola al riguardo avrebbe potuto frantumare questa tela ma tu, disegnandoti un sorriso
d’invito, ti girasti verso l’acciottolato che tagliava il prato, sommando passi che aspettavano la
sfida.
- Qui, anche dopo sei passi, sicuramente non affonderemo – ti dissi stupidamente dopo averti
affiancato nel ritmo.
- Ne sei proprio sicuro? – fu la tua risposta sibillina, prendendomi con inusuale confidenza sotto
braccio.
No. Non lo ero più. E nuotare nel mare tempestoso del mio sangue ribollente dal cuore divenne
impresa ardua.
Galleggiammo comunque tutto il giorno in un lago di seta su zattere di pelle e carne ed i tuoi sospiri
furono petali di ninfa nelle mie liquefatte emozioni.
Quando le nostre ombre si uniformarono al crepuscolo sdraiato nella stanza, la carezza del tuo
sorriso si fece portavoce nel tuo commiato.
Con stupita confidenza andasti a lavarti e ti rivestisti di quel bianco ancora luminoso nei contrasti
serali.
Ti vidi andar via come quando uscisti dal lago, per quello che ricordo. Solo l’ombrellino rimase
chiuso.
Scostai lacrime di lino e dall’occhio di vetro della stanza ti seguii fino al tuo voltarti verso me,
regalandomi il tuo ultimo sorriso. Senza parole.
Come da allora ne rimasi senza io.
Le uniche superstiti furono quelle di questo ricordo che porto nel taschino della giacca vicino al
cuore.
Tutte le altre mie parole sono restate sulla tua pelle conosciuta da sempre.
Il tuo nome soltanto mi è rimasto sconosciuto.
Non potendo chiamarti scrivo di te con le uniche parole rimaste.
Ferma quel gesto che l'anima strazia!
L'Uomo tramonta nella sua natura
quando equilibrio più sacro distrugge
è femminile ogni ventre d'approdo
nel miracolo più intenso di Vita.
Spegni nel cielo la parte che vale
quando precludi l'armonico volo:
ferma quel gesto che l'anima strazia,
che dolce saggezza nega al tuo sguardo!
Crimine orrendo perpetui nel Mondo
mentre rinneghi natura migliore
sol anche una donna messa a tacere
porta un silenzio che mai potrai dire.
Uomo è la somma di entrambe le parti
muore a sé stesso chi alza la mano;
possa la Dea cancellarti dal Libro
di razza umana riflesso divino!
Andrea Borrelli
Per strada t’ho amato
Siamo cresciuti lontano
non conosciamo noi
la voglia del domani
ha sapor dolce richiamo
Non scosse il vento
la pelle ma l’ urto
degli occhi lo sguardo
un secondo s'allinea
Per saper due rintocchi
di labbra socchiuse
la voce andar piano
ci scopra vergogna
“ciao”
Blocca un respiro.
Sogna la bocca.
Sfiora l’ anima
E l’ aria si tocca.
Rosa D'agostino
Uno strano incontro
Apro il computer
cerco facebook
faccio scorrere un po la home... curiosità su quel che scrivono i miei amici..qualche condivisione di
link simpatici
poi un nome noto: Alberto Rossi
ma guarda un pò ! questo deve essere un mio vecchio compagno di scuola, a quei tempi era
fidanzato con la mia compagna di banco.
Chiedo l'amicizia e scrivo un messaggio: Ciao ! forse noi ci conosciamo.. sei di Messina , andavi
all'ist.tecnico? ti ricorda qualcosa il nome Maria Vinci?
ecco che mi risponde:
si, andavo al tecnico ma non mi ricordo di Maria Vinci, mi ricordo di una ragazza bionda che dopo
diplomata ha lavorato in una agenzia di viaggi
ed ora guardando la tua foto..posso sicuramente dire : sei proprio tu!
Accidenti ! che confusione quel ragazzo non si chiamava Alberto Rossi ma Mario Rossi ed era stato
il mio ragazzo , anche se per poco tempo.
Dio mio che figura ! ma è solo per un attimo.... i sentimenti cambiano gli anni passano ..
lui mi chiama in chat , rispolveriamo i vecchi tempi, si parla della nostra vita , dei nostri figli, del
nostro matrimonio della sua separazione.
Io guardo le sue foto..Dio mio..come è cambiato e dov'è quel bel ragazzo che mi ha fatto perdere la
testa, era alto , biondo magrissimo, bellissimo
ora.. è alto, senza capelli , grasso.
Certo, anche io sono cambiata , da magra son robustella, ma lui dice che sono sempre bellissima.
Che strana la vita ..ci siamo incontrati su facebook , uno strano incontro, uno sbaglio di persona, ma
non sono pentita,
il grande amore ora si è trasformato in una grande amicizia.
Sebastiano Impalà
Ti ho cercata
Ti ho incontrata
una sera
all'uscita del tram
in una città senza nome
fra passanti assurdi e musiche zigane.
Poi ti ho cercata
nei miei sogni appesi,
nelle lunghe camminate dell'inconscio,
sotto gli archi di monumenti arcani.
Infine ti ho trovata,
la scia del tuo profumo che mi inonda
gli occhi scuri della notte
su di noi,
amanti persi per una sola notte.
Nulla avviene per caso
nella vita.
Nulla
Viaggio nel tempo
Tornare nel passato o proiettarsi nel futuro? Rivivere avvenimenti già accaduti, magari adattandoli a
circostanze nuove, oppure sognare un domani diverso, più soddisfacente e accattivante? Viaggiare
nel tempo è sempre stata una delle fantasie più gettonate dalla fervida fantasia degli scrittori, questo
perché il tempo è un fattore irrimediabile e nel momento stesso in cui accade, è già passato, sfuggito
dalle nostre dita e dalla possibilità di poter cambiare ciò che è stato. A volte è il rimpianto o il
rimorso a condurci nel passato, piuttosto che uno sfrenato desiderio d'innovazione a trasportarci nel
futuro. Comunque sia, in qualsiasi direzione temporale vogliate andare, portateci con voi, in quello
che sarà sicuramente un percorso ricco di idee e di spunti sui quali riflettere.
Nadia Lattanzi
Ti amo cosi...
Credo sia amore...lo credo perché fino a ieri nulla conoscevo di te, se non te. Niente passato, ne
dolorosi orpelli di cui prendersi cura oggi. Niente presente, ne conoscenza di lotte quotidiane da
dover dividere. Nessuna aspettativa sulla quale costruire un' illusione... Ho conosciuto solo l'essenza
di te, certa che quello che vedo e amo oggi è la somma di quello che in tutti questi anni ha
contribuito a costruirti, ma a me ti sei rivelata scevra di ogni dolore adolescenziale, spoglia da ogni
ferita d'amore..libera da ogni cicatrice dell'anima.
Così voglio amarti, senza sapere cosa ti manca eppure poter colmare quel vuoto. Senza saper cosa
hai, ma farne parte in silenzio. Voglio amare la parte più intima di te e poi guardarti e riconoscere da
sola gli strappi del cuore, osservare con cura ciò che ti ha resa cosi..scoprire, nella curva della tua
schiena, quali giorni ci si sono posati sopra.
Sebastiano Impalà
Fasti e crostacei
due chele di granchio
un osso di seppia
barche secche
adagiate,obliate
in sere sanguigne...
una donna fastosa
veste gonne e conchiglie
carte andaluse e visi imbruniti.
San Vito e' vicino
guarda il destino
che passa e si posa a Mazara;
si parte
e sono sfere di grano
le tue labbra saracene...
Time
the days run away
upon unknown books.
over the shoulders of time
we, two drops
of thunder only.
it's a storm
in spring time,
new sensations
of wrangler sun.
sons of moon
and hard stones,
green lovers
of contaminated woods,
you as a strong rock
i, a dinamic ocean.
other's water in a glass.
L'amante francese
Quando ti dissi
ti amo
tu mi guardasti incredula
convinta che il mio cuore
fosse già volato via.
Allora
lo ripetei in francese
e,nella lingua di Montaigne,
tu mi credesti e ti convinsi.
Versai torrenti d'emozioni
sopra te,
lungo la schiena ardita
respirai il tuo odore
e sporcai di nero china
il quaderno
che giaceva intorno a noi.
Sulle cime del mondo
ti portai e mi portasti....
salimmo vertiginosi picchi di piacere,
angeli senza ali
fummo noi in un istante.
Poi,la quiete
s'impossessò di noi,
strinse le nostre mani
con le corde dell'unione
e tornammo a vivere....
come sempre...
gli umili concetti
della quotidianità.
(Da "Empiriche sensualità" di SEBASTIANO IMPALA'-giugno2011-tutti i diritti riservati)
Il senso del viaggio
Navigo senza vento
in quest'incerto
mattino d'autunno.
Attendo il tuo respiro
amore mio
che gonfi le mie vele
per salpare.
Solcheremo
mari nuovi
intorno al mondo,
viaggio senza meta
fra villaggi sperduti
di gente primitiva,
visi intensi da incrociare,
danze di ritmi tribali
e cibi nuovi da gustare.
Il senso della vita
siamo noi,
l'uno accanto all'altra
nei giorni e nelle notti
da venire
mentre ci stringiamo ad ammirare
soli incandescenti
e pallide lune
da baciare.
Denis Cornacchia
Al di là dei mondi
Vedo nel tuo sguardo nascente
il mio disperato impeto
che risale
dalle valli morenti
dell’Universo svuotato.
Incredulo e severo
ammonisci
le sembianze mie sdraiate
sui flussi eterni… limate.
E nuovo
rinasco
ai confini dell’immaginario
e sposo l’alba
che un dì mi amò
nel verde del ricordo senza fine.
Ora è mai,
simbiosi di colori e suoni
a cavalcar mesti
arcobaleni e nubi sciolte.
Si, è vero
non sei l’Universo,
la mia anima è già oltre.
Oliviero Angelo Fuina
Il mio silenzio in valigia
E te ne vai
portando in valigia
il mio silenzio ostinato
ad assordarti nel viaggio
che ti farà raggiungere
l’eternità della distanza
da me a un incrocio di braccia
nei futuri acquattati dietro il vetro.
E il mio annaspare muto
frantumerà di decibel la stanza
svanendo nel virtuale
un sogno mai creduto
nelle notti illuse di parole;
e ancora ti vedo, accesa,
sul cornicione di un palpito
mentre lancette squartano.
- Ma domani più non saremo -
Andrea Borrelli
Deja-vu
Non sei tu a sognare
ma il sogno
ti costringe
mentre sei cosciente
nella realtà
pensi di viaggiare
in un secondo negli anni
invece lui si ostina
a farti credere di vivere.
Regina Re
Il viaggio
Hai preparato la tua valigia, chiudila
Apri la tua testa e parti, resta
Il tuo corpo segue il tempo, preservalo
L’orologio è fermo, conservalo
Non svanire nei tuoi sogni, dimentica
Non svegliare i ricordi, atterra
Fede Giovanni Rega
-la poesia forse è mortaNon riesco più a scriver una poesia
Era pane quotidiano, era cocaina
Eh ora?
Non riesce la mia mano
La penna nemmeno
Non riusciamo perché la poesia è morta
La poesia oggi è morta.
Dietro un monitor, o una tv
Dietro lo Spread o la tecnologia
Non c è posto per la poesia
Non riesco perché lei ha deciso così
Rimane sola nella sua alienazione
Rimane fredda nel suo non nascere
,nel suo non venir fuori ,
Piogge e venti, lune e stelle
Non la ispirano più
Affranta, delusa, stanca
fugge via in un qualche iperuranio
In un Eden lontano, lontana da noi
Lontana da me, giace tranquilla
La poesia forse è morta.
Vive in quell'Eden
ritornerà un giorno , o forse no.
Anna Ciraci
Un solo minuto
Un solo minuto, per poter ricordare
la mia prima vita voglio guardare
e fermarmi, solo per celebrare...
Tutte le ore che ci son state,
e anche quelle che son mancate,
per quelle leggere e spensierate,
e anche quelle tutte arrabbiate,
che niente sfugga o sia ignorato,
che ogni viaggio sia considerato
che tutto alla fine sia catalogato
il mio lungo minuto fotografato.
Un solo minuto per ricordare
per riguardare e non far scappare.
Solo la traccia di un monumento
che mi riporti indietro nel tempo,
un solo minuto, per poter ricordare
perché è tutto ciò che ne rimane.
Rossana Roxie Lozzio
Non ho tempo
Non ho più tempo, perché il mio tempo sei tu da sempre
e prima di te, non vedo nulla di importante né posso immaginare un futuro orfano di te.
Non ho più tempo, perché sono costretta a vivere giornate infinite e notti senza senso, nella tua
assenza
mentre so che altri beneficiano di quanto posso solo immaginare.
Non ho più tempo, perché mi sento vuota e niente mi regala abbastanza emozione, niente riesce a
togliermi quel senso di vuoto e di inutilità…
e nessuno comprende che io sono niente,
perché ti ho profondamente dentro
ma non posso averti accanto in questa vita che detesto.
Monica Pasero
Neve
Lenta e copiosa
giunge fino al cuore
Profuma di vita
attutisce il dolore
Ogni fiocco ha il suo destino
e tra baffi di fumo
si posa anche sul mio camino
Nel suo manto incontaminato
avvolge ogni cosa
come anima bambina
il cuor mio riposa
mitiga le paure
il suo lento cadere
ricoprendo il mondo intero
questa è la mia neve.
Tratto da Lungo viaggio verso il ritorno ( pubblicabile )
L'abbaiare di Bobo destò Leo, che stiracchiandosi strizzò gli occhi, si guardò intorno e restò a bocca
aperta quando capì che non era più nella stiva della Santa Maria.
Si sedette, osservando con attenzione ogni particolare del nuovo ambiente che lo circondava.
Sembrava un laboratorio .Sì!
Come quello dell’aula d’artistica!. Pensò.
Di fronte a lui, su un grosso tavolo di legno, c'erano tanti recipienti pieni di pennelli e colori, il
tavolo era ricoperto da una miriade di macchie, alcune di pittura spiccavano qua è là sul vecchio
pavimento in pietra.
Leo spostò l'attenzione su Bobo, che era alle prese con l'inseguimento di un gatto e aveva
l'espressione inferocita.
.Dai Bobo! Piantala!.
lo riprese Leo, ma il cane era troppo preso per obbedire. Il gatto, lesto, saltò su uno scaffale,
rovesciando un contenitore di vernice che cadde miseramente sulla testa del cane, tingendo la
bestiola di un bel rosso; guaendo, Bobo tornò dal ragazzo con la coda bassa. Leo, pur spaventato
dalla nuova situazione, non poté trattenere una risata.
.Povero Bobo! Quel gatto ha avuto la meglio, sei proprio buffo così!.
Ritornò ad osservare l'ambiente circostante: oltre al tavolo, c'erano appoggiate al muro delle tele e
in fondo alla stanza c'era uno scrittoio stracolmo di carte e fogli sparsi.
Perlustrando la stanza, scoprì meravigliosi dipinti, poi si avvicinò allo scrittoio strabordante di carte,
il cui contenuto, però, non riuscì a decifrare. Un rumore inatteso lo allarmò. Proveniva da una
finestra in fondo alla stanza. Con passo cauto, Leo giunse davanti al vano illuminato e con mano
tremante scostò il pesante tendaggio che celava la finestra. Scorse allora una via affollata: c'erano
molte persone che passeggiavano, alcuni erano a cavallo, altri spingevano a mano carri colmi di
frutta e verdura; lungo la strada si affacciavano diversi caseggiati, la carreggiata non era asfaltata
ma rivestita in pietra. La gente era vestita stranamente: c'erano alcune donne con gonne lunghe
avvolte in scialli di lana, gli uomini indossavano strani cappelli e lunghi stivali; c'erano poi bambini
che correvano scalzi, altri ancora trasportavano pesanti ceste, traboccanti di mele; c'era un gran
vocio.
.Ma dove sono capitato! Mi sembra d'essere caduto nel quadro che la nonna ha sopra il caminetto!.
disse stupefatto a Bobo, che però non lo sentì nemmeno perché troppo intento a leccarsi via la
pittura di dosso. Tutto ciò fece capire a Leo che il suo sogno non era ancora terminato.
.Dobbiamo uscire da qui!. Urlò.
Bobo inclinò la testa per metà a pelo rosso e abbaiò in segno di consenso.
.Ok! Troviamo l'uscita!.
Leo e il suo fedele amico giunsero davanti alla porta, che però non si aprì:
.Accidenti, è chiusa e adesso come facciamo!. Esclamò.
Inutili furono i tentativi di aprirla, con calci, pugni e spallate: la vecchia porta resistette alla furia del
ragazzino, che stanco e sconfitto si accasciò a terra.
.In che pasticcio siamo finiti! Adesso ci tocca aspettare che venga qualcuno, altrimenti non
usciremo mai da qui!.
Bobo guaì e strascinandosi si accucciò sulle gambe del suo padroncino, che continuò ad osservare la
stanza. I minuti diventarono ore. Il sole stava tramontando e la camera era quasi del tutto immersa
nell'oscurità. Gli occhi di Leo erano sempre più tristi e pesanti. Ripensava al capitano e a ciò che
aveva visto e soprattutto sentiva la mancanza della mamma e dei suoi amici. Ma perché non si
svegliava? La pazienza lo stava lasciando e il panico lo avvolgeva serrandogli la gola.
Uno scricchiolio improvviso lo liberò da quella morsa di paura. D'impulso prese Bobo in braccio e
si nascose dietro grandi tele. Il respiro gli si fece sempre più affannoso quando gli scatti nella toppa
divennero percettibili. La porta lentamente si aprì cigolando, Leo abbracciò con forza Bobo. Mentre
i loro due cuori battevano all'impazzata, una piccola luce rischiarò la stanza, Leo spiò e vide una
fiammella che si avvicinava accompagnata da una gigantesca ombra. La sagoma si stava
approssimando e il ragazzo, nel tentativo di nascondersi meglio, fece cadere a terra le vecchie tele.
Leo capitombolò davanti a due grossi piedi scalzi e alzando lo sguardo verso l'alto intravide due
gambe ossute, coperte fino al ginocchio da un camicione a righe. Proseguendo, i suoi occhi si
posarono su una lunga barba che dondolava su un grosso pancione.
.Eh tu... hi saresti?.
La luce della candela si fece più intensa, rischiarando il volto sconosciuto.
.Orsù rispondi! T'ho fatto una domanda!.
La figura che gli si parò dinanzi era di un uomo sulla cinquantina d'anni, con una lunga barba
bianca e con capelli anch'essi lunghi e bianchi che gli ricadevano sulle spalle, anche se mancavano
del tutto sulla parte alta del capo. Lo sguardo era vivace e gli occhi piccoli e vispi. .Sembra Babbo
Natale!. pensò Leo con sorpresa ed entusiasmo.
.Oh grullo! T'ho fatto una domanda!.
Leo, rincuorato dalla somiglianza con Babbo Natale, si alzò
da terra e rispose con voce tremante:
.Mi chiamo Leo, signore!.
.Oh he stranezza è mai questa! Ragazzo mi hiamo anch'io osì!..
Leo squadrò l'uomo che stava davanti a lui, non poteva essere... era impossibile che fosse... i suoi
pensieri vennero interrotti dalle parole dell'individuo.
.Ragazzo, io sono Leonardo da Vinci e tu perché sei nella mia...asa? Se non fosse di troppo disturbo
mi piacerebbe sapere.... osa ti ha portato qui?..
Leo rimase pietrificato dinanzi all'affermazione dell'uomo e con un filo di voce disse:
.Non ci credo! Lei è il vero Leonardo da Vinci?..
L'uomo lo osservò sorridendo.
.Eh... hi altri se no! Ragazzo, hai battuto il... apo o sei proprio... osì strano di tuo?..
Leo, ancora confuso, si guardò in giro per cercare Bobo, che in quel susseguirsi di avvenimenti non
aveva più visto.
.Eh! he stai cercando? He ti guardi in giro?. indagò Leonardo.
.Il mio cane signore! Si è spaventato e non riesco a trovarlo!..
.Un... ane e... hi altro c'è qui... on te?..
.Nessuno signore, solo il mio Bobo!. terminò il ragazzo.
Leo iniziò a chiamare il cane, che, impaurito, sbucò da dietro una vecchia cassa.
.Eh... osì tu saresti Bobo! He strano nome per un... ane!.osservò Leonardo.
.Ora.... he ci siamo presentati potrei sapere... hi sei?..
.Beh! Vede signore.... disse Leo a occhi bassi, .io credo di stare dormendo e che questo sia il mio
sogno. Ieri ero sulla Santa Maria con Colombo e stamani mi sono svegliato qui!..
.Oh povero ragazzo! Hai proprio battuto il apo! Hai bisogno di un dottore!. esclamò l'uomo.
.No, no! Niente dottori, sto benissimo! So che per lei è difficile da credere, ma è andata proprio
così, son cascato da una sedia e non ricordo più nulla! So solo che mi sono addormentato, ma prima
o poi mi risveglierò, anzi lei potrebbe aiutarmi: è un grande inventore no?..
Leonardo intanto si era seduto e ascoltava confuso il suo interlocutore.
.Eh certo, sono o no Leonardo da Vinci? Cercherò tra i miei scritti se esiste un modo per svegliarti,
ma io ontinuo a pensare he tu abbia perso la ragione figlio mio! ...omunque ora è tardi, ci
penseremo domani, forza vieni... on me, ti sistemerò per la notte, ma prima un pezzo di pane lo
mangerai volentieri vero?..
Lo stomaco di Leo brontolò ed egli sorridendo disse:
.Con molto piacere signore!..
I due scesero una scalinata in pietra e si trovarono in una cucina adibita anche a stanza da letto. Il
camino era acceso e al suo interno scoppiettava un bel ceppo di legno. Leonardo aprì un vecchio
armadio e tirò fuori una grossa pagnotta ed un pezzo di formaggio, ne tagliò una parte e la diede al
ragazzo, che, grato, mangiò di gusto il pasto offertogli, dividendolo con il suo amico Bobo.
Leo e Bobo dormirono accanto al camino sopra una vecchia trapunta. Leonardo russava
alacremente nel suo letto quando un fascio di luce annunciò l'arrivo del nuovo giorno e le ultime
scintille di fuoco scomparivano dal camino lasciando spazio alla cenere.
Un fischiettio destò i due ospiti. Leo stropicciò gli occhi e vide Leonardo che seduto al tavolo
trafficava con una montagna di carte. L'uomo, alzando gli occhi, lo salutò:
.Oh buongiorno! ...ome stai? Hai dormito bene ragazzo?..
Sbadigliando il ragazzo gli si avvicinò.
.Che cosa state facendo?. disse curioso Leo.
.Oh, nulla d'importante, sto leggendo una lettera di una mia ara ami a he verrà a farsi fare un ritratto
nei prossimi giorni! A proposito, preparati he si esce e datti una sistemata a quella testa!
. affermò l'uomo, indicando i capelli arruffati del ragazzo.
Leo si passò una mano nei capelli scarmigliati e chiese:
.Dove andiamo?..
L'uomo e il ragazzo, usciti dal portone, si trovarono in strada. Bobo era spaventato e stava attaccato
alle gambe del suo padroncino. Era tutto strano, la strada era lastricata in pietra e non c'erano auto o
pullman ma solo dei carri trainati da cavalli e per le vie scorazzavano tranquillamente pecore e
galline. Leo rise.
....he hai da ridere ragazzo?. chiese l'uomo.
.No! È che, nel mio paese di animali non se ne vedono circolare liberi sulla strada, altrimenti le auto
li investirebbero. Disse Leo.
Leonardo si lisciò la barba:
.Uhm! Auto e he os.è un.auto?.
.Beh, vede... è una macchina che trasporta le persone, nella mia città ce ne sono tante in giro..
.Una ma hina che trasporta le persone!. replicò Leonardo, poi aggiunse: .Beh, certo parli della
arrozza!..
Il ragazzo lo guardò e disse: .Una specie, ma senza cavalli..
Leo continuò a guardarsi in giro incontrando i volti di molti curiosi che lo osservavano divertiti.
.Che c.è che non va? Perché mi guardano così?. chiese al suo accompagnatore.
Leonardo fissò il ragazzo: .Ami... o mio, non posso dargli torto, mi spiace dirtelo ma chi ti ha
onciato in questo modo? Dove hai trovato delle vesti osì ridicole?..
Leo si guardò il maglioncino e i jeans e stranito disse:
.Io non ci trovo niente di strano nei miei abiti!..
Leonardo rise di gusto, pensando che forse il giovane era veramente arrivato da lontano.
Proseguirono tra gli sguardi ilari della gente e Leo, guardandosi attorno, chiese:
.È proprio bella questa città, ma come si chiama?..
L'uomo lo fissò sbigottito e gli rispose allargando le braccia:
.Ragazzo mio, ma questa è Firenze!..
.Uaho! Ma nelle foto è diversa!. rispose entusiasta il giovane.
.E ora dimmi, he sarebbe odesta foto?..
.Ecco eh... sono delle immagini stampate sulla carta!. Gli spiegò.
.Interessante, molto interessante; e dove potrei vederne una?..
.Per farle ci serve la macchina fotografica!. disse Leo.
.Ragazzo, tu mi fai pigliar il mal di ...apo! E adesso ...osa sarebbe sta ma... hina fotografi... a?..
Leo ridacchiando tra sé considerò: .Ma non doveva essere un genio .sto Leonardo?.. Poi,
osservando Bobo alle prese con uno dei suoi inseguimenti, pensò che un gatto era un gatto in ogni
epoca ci si trovasse, invece gli uomini erano così differenti.
Leonardo arrestò il suo cammino su un ponte, si soffermò ad osservare il lento scorrere del fiume
sottostante, poi disse:
.Hai visto ...ome è bello l'Arno? La scorsa settimana ero a Pisa ...on al... uni amici, sono anni
ormai ...he lavoro a ...odesto progetto, sto studiando un modo per deviare il fiume, creando un
...anale da Pisa a Firenze. Ciò porterebbe grandi vantaggi all'agricoltura e alle ...omunicazioni
fluviali!..
Il ragazzo non diede peso alle parole dell'uomo, era molto più interessato al buon profumo che
arrivava da una casa di fronte al ponte. Anche Leonardo inspirò a fondo quel delizioso profumino e
disse:
.Che ne dici di una bella fetta di torta?..
Leo entusiasta seguì l'anziano accompagnatore, che bussò a un vecchio portone esordendo:
.Rosa! Oh! Tu ci sei?..
.Dai! Sali ...he ho fatto la torta proprio ...ome piace a te!.
rispose una bella voce squillante.
.Santa donna!. disse Leonardo, osservando il volto gioioso del suo giovane compagno.
Pochi istanti dopo erano seduti attorno a un vecchio tavolo e avevano tra le mani un enorme pezzo
di torta.
.E ...odesto ragazzino, sarà mi...a tuo?. chiese la donna.
.Sei la solita impicciona Rosa! L'ho trovato nel mio laboratorio ..
.E ...hi sarebbe?..
.Non si sa! Il ragazzo ha le idee un po. confuse in proposito!..
I due parlavano a voce bassa, ma Leo era troppo preso da quel delizioso dolce per pensare ad altro.
Durante il viaggio di ritorno Leonardo e il giovane si fermarono in un prato. Il vecchio si sdraiò a
terra brontolando per il suo mal di schiena, poi, con un filo d'erba in bocca ed il naso all'insù,
osservò il volo delle rondini giunte da poco a Firenze. Anche Leo si era sdraiato e con la coda
dell'occhio guardava le pupille vispe del vecchio, che col dito al cielo tracciava per aria
il tragitto delle rondini:
..he spetta...olo ragazzo! ...ome mi piacerebbe volare! Fin da ragazzo è stato il sogno mio più
grande, forse un giorno!..
Poi interruppe il suo discorso e inspirò a fondo l'aria del tardo pomeriggio.
A fatica si rialzò dal tappeto d'erba verdeggiante e guardando Leo disse:
.Su ...oraggio! Dai ...he si va a ...asa!..
Leo sapeva che un giorno gli uomini avrebbero volato sugli aerei, ma sapeva che quando questo
sarebbe accaduto il suo vecchio amico non sarebbe stato lì ad assistere all'evento, perciò non disse
nulla, ma domandò:
.Puoi farmi tornare a casa? Sei un inventore, inventa qualcosa che mi svegli, ti prego! Mi manca la
mamma..
L'uomo guardò il ragazzino e disse:
.Vorrei tanto aiutarti, ma ...he posso fare, non son mi...a un mago! Poi tu sei ...osì sicuro di star
sognando?..
.Sicurissimo che sogno!. esclamò infuriato il ragazzo.
.Io abito in un posto dove ci sono la tv, la play station, treni, auto, la gente ha il telefonino e, come
dice la mamma, le donne stanno arrivando al potere!..
.Vai piano ragazzo, non ho ...apito nulla del tuo discorso, spiegami bene!..
Seduto su un muretto, Leo tentò di raccontare la sua storia al grande genio che aveva di fronte: gli
raccontò della sua casa, di quanto gli mancasse la mamma, dei suoi pranzetti, delle sue giornate con
gli amici davanti alla play o a vedere i cartoni in tv, di come suo papà passasse le ore al computer a
scrivere per ottenere la promozione.
Leonardo, incredulo, ascoltava ogni parola con vivo interesse, poi disse:
.Ora le ...ose son due: o sei matto ...ome un ...avallo ed è la ...osa più probabile o arrivi da un altro
mondo, o per meglio dire dal futuro; e se ciò è vero esattamente da ...he anno?..
.Beh! Veramente, abbiamo appena passato il 2008 da un mese!. disse a bassa voce Leo.
Gli occhi vispi del vecchio scintillarono e una grassa risata gli uscì spontanea.
.Oh, ma se ciò fosse vero, tu saresti una rara fonte di studio per me, sempre che tu non sia pazzo!.
Affermò l'uomo.
.Sì! Sì! Ho capito, ma puoi farmi tornare a casa?..
.Ci lavorerò! Orsù dai ...he si va, ora ho degli scritti da leggere!..
Un'ombra grande e una piccola si accompagnarono lungo il tragitto del ritorno. Il sole stava per
andare a riposare, un altro giorno era passato e il piccolo Leo ancora sognava. I giorni che vennero
Leo li passò accanto a Leonardo, facendo insieme con lui lunghe passeggiate, sempre osservati dalla
folla che li additava al loro passaggio; passavano ore negli archivi per tentare di trovare un rimedio
da quel lungo sogno che faceva pensare a Leo di essere prigioniero, ma Leonardo non trovò nulla
nei suoi libri che potesse aiutarlo a spiegare ciò che affermava il ragazzo; la pazzia gli sembrava
perciò l'unica risposta e così un giorno affermò la sua tesi:
.Ragazzo mio, si potrebbe provare ...on un salasso, forse tornerai in te!..
Ma Leo, dopo avere avuto ampie delucidazioni su cosa fosse un salasso, strabuzzò gli occhi per la
paura e il suo rifiuto fu irremovibile.
Il genio alzò le braccia sconfitto:
.Non so ...he fare per te! Ami...o mio, speriamo tu ti possa svegliare presto da solo!..
Anche Leo lo sperava tanto! Nell'attesa che ciò avvenisse, seguiva l'amico ovunque, l'osservava
durante i suoi studi, seduto ad un piccolo scrittoio sommerso da innumerevoli carte sparse qua e là.
Leonardo aveva un modo di scrivere molto strano: era mancino e, cosa buffa, iniziava a scrivere
dall'ultima riga del foglio risalendo al contrario la pagina! Leggeva molto, disegnava e non era mai
stanco, sembrava che il tempo per apprendere non fosse mai sufficiente per lui.
Leo a volte sonnecchiava, quando il vecchio partiva con una delle sue innumerevoli teorie e tentava
di far capire al ragazzo quanto fosse importante imparare. Un giorno Leonardo beccò il ragazzo sul
fatto mentre sonnecchiava nel bel mezzo di un suo discorso, lo scrollò svegliandolo e con tono
autoritario disse:
.Oh grullo ..he tu non sei altro! Impara ora nella tua gioventù ...he un giorno ...osì ti possa divenir
sapienza, quando la tua barba sarà lunga e bianca ...ome la mia oggi!..
Poi sotto gli occhi spaventati di Leo prosegui dicendo:
.E se tu ragazzo un giorno penserai che diventar vecchi significa esser saggi, adoperati affinché un
domani tu possa esserlo!..
Dopo quella sfuriata Leo non si fece più pizzicare a dormire.
Un mattino il ragazzino era intento a fare scender Bobo da uno scaffale dopo che il suo cane aveva
tentato un nuovo inutile inseguimento di un gatto randagio, che ogni tanto entrava in cerca di cibo
in casa.
.Ma perché sei andato a cacciarti lassù? Non ti è bastato il ricordino che hai ancora in testa? Tanto
quel gatto è più furbo di te! Amico mio rassegnati, dai che ti ho preso!..
Leo aveva afferrato l'animale, che si tenne saldamente a lui tremante. Il ragazzo allora sghignazzò
dicendo: .Sei proprio un fifone!..
Bobo saltò giù dalle braccia del ragazzo e mugolando andò nel suo posto preferito, al calduccio
davanti al camino. Il ragazzo rideva di gusto nel pensare che Bobo si fosse offeso, quando alcuni
colpi alla porta spensero il sorriso sul suo volto. Al momento era in casa solo, perché Leonardo era
andato a fare rifornimento di colori e tele.
.Chi sarà?. pensò. I colpi si ripeterono e si udì una voce di donna: .Leonardo ci sei?..
Il ragazzo aprì intimorito la porta e fu scioccante vedere chi era dall'altra parte dell'uscio. Si trattava
di una donna molto bella: aveva dei lunghi capelli neri che le ricadevano sulle spalle; anche gli
occhi erano scuri, in contrasto con la pelle chiara, quasi eterea, della donna. Aveva un non so che di
familiare, ma Leo non riusciva a ricordare dove l'avesse già vista.
La donna sorrise e lo scosse dai suoi pensieri: .Ehi tu, chi sei ragazzino?. e senza indugiare oltre,
entrò.
.Buongiorno signora! Se cerca Leonardo, ora non è in casa!.
disse con un filo di voce Leo.
La donna fermò il suo sguardo indagatore su quello strano ragazzo che aveva di fronte, poi
rispose .Bene, aspetterò!., andando a sedere su una seggiola. Intanto Bobo studiava la nuova
arrivata annusandole le vesti. La donna misteriosa sorrise al cane:
.E tu pi...olo ...hi saresti?.. Poi si rivolse al ragazzo: .È tuo ...odesto ...ane?..
.Sì signora! Si chiama Bobo. rispose Leo.
Lei accarezzò l'animale, che senza remore si accucciò ai suoi piedi.
.E tu ...ome ti chiami ragazzo?. chiese posando lo sguardo sul giovane.
.Io, signora, sono Leo!..
Il volto le si illuminò e sorrise al giovane, che imbarazzato ricambiò il gesto. Per fortuna Leonardo
fece ritorno, aprì la porta con un calcio e sommerso dai pacchi fino al collo urlò:
....oraggio! Vieni ad aiutarmi!..
Leo accorse e liberò l'uomo da alcune scatole in bilico tra le sue braccia. Solo allora l'uomo notò la
nuova venuta e sorridendo le andò incontro allargando le braccia:
.Oh! ...ome stai? Se avessi saputo che il tuo arrivo era ...osì prossimo, mi sarei preparato a riceverti
meglio!..
La donna sorrise maliziosa: .Non ti preoccupare ami...o mio, ci ...onosciamo da troppo tempo per
usare simili formalità!..
Leo, ancora con i pacchi tra le braccia, osservava curioso la scena.
.Forza ...oraggio! Ragazzo posa quei pa...hi e vieni qua che ti presento una persona!..
Assetato di curiosità, il ragazzo si strofinò le mani sudaticce sui jeans e si avvicinò verso la
gentildonna. Leonardo con due colpi di tosse partì con la presentazione:
.Ragazzo mio, questa è la mia ...ara ami...a Lisa, la devo ritrarre, perciò passerà molte ore in nostra
compagnia!..
La donna sorrise e strinse la mano di Leo, che iniziava a comporre i ricordi su quel volto.
I giorni che seguirono Leonardo li passò interamente nel suo laboratorio; Lisa, puntuale come un
orologio, arrivava al mattino e passava molte ore in posa.
.È un lavoro lungo!. soleva ripetere Leonardo, ma la signora annuiva rispondendo che la sua
presenza lo deliziava e che amava ascoltare le sue nuove trovate per migliorar ...odesto mondo.
Intanto Bobo e Leo si accovacciavano in fondo alla stanza ad ammirare come la bella signora
prendesse vita sulla tela. Leonardo era un pittore attento e meticoloso nel dipingere e rivedeva molte
volte ogni particolare prima di concederlo alla tela.
Firenze, 1506
.Oh, finalmente è finito!. esclamò il maestro.
Leo, Bobo e Lisa guardavano estasiati il dipinto, che in breve tempo aveva rapito la tela bianca
impossessandosi di ogni particella di tessuto. La donna meravigliata disse:
.Oh Leonardo, hai superato te stesso! Ma mi hai fatto un po. troppo grassa!..
Leonardo sorrise: .Oh mia ...ara! Tu sarai sempre bella in qualsiasi forma! Hai un viso troppo
particolare per non apparire incantevole!..
Bobo abbaiò confermando le parole del vecchio.
Leo annuì dicendo: .Sì signora! È vero: lei è bella quasi come la mia mamma!..
Gli occhi di Lisa si emozionarono quando arrivò il momento dei saluti: .Addio amici miei!..
Poi con sguardo dolce si rivolse al ragazzo e disse, accarezzandogli una guancia:
.Spero ragazzo ...he presto tu possa tornare da tua madre!.. Infine, rivolta al suo caro amico:
.E tu ...he dire? Sei un genio, ma tu già lo sai!..
Leonardo si lisciò la barba e tronfio disse: .Se lo dici tu!..
Quando Lisa si congedò, Bobo e Leo si buttarono sopra la loro trapunta davanti al fuoco. Il camino
acceso scoppiettava e Leo si perse nelle sue mille scintille, entusiasta per avere incontrato la
Gioconda e pensando a quando lo avrebbe raccontato alla mamma. Lei sarebbe morta d'invidia!
Diceva sempre che voleva andare a vederla al Louvre, a Parigi, lui invece l'aveva vista in carne ed
ossa. Leonardo russava da un pezzo, quando il ragazzo si addormentò con il sorriso sulle labbra.
Nella quiete della notte Leo ripartì per il suo viaggio ed un nuovo sogno bussava già alla porta.
.La vita ben spesa lunga è..
Leonardo Da Vinci (1452-1519)