L`attesa - Il mondo dello scrittore
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L`attesa - Il mondo dello scrittore
Introduzione L'anno appena trascorso ha condotto verso nuove iniziative che hanno dato modo agli autori di potersi esprimere su varie tematiche. 7 giorni di follie ha dato questa opportunità, lasciando che fosse la fantasia di ognuno a esprimersi sulle pagine del blog omonimo e sul gruppo segreto di facebook “riflessi allo specchio”. Tanti sono stati gli autori che si sono succeduti e che ci hanno arricchito con le loro storie, i loro sogni, le speranze e i tormenti. Ogni scritto riporta la chiara impronta personale dell'autore, ogni brano è una breve testimonianza della mente creativa di chi ha condiviso un determinato pensiero. Dunque ringraziamo tutti coloro che hanno partecipato a questa iniziativa, regalando, anche in questo caso, una raccolta di tutto quanto è stato scritto. E come nel caso della raccolta di Christmas Fast vogliamo specificare che questo non è un libro, non è identificato con un codice ISBN e noi non siamo degli editori. Christmas Seven vuole essere un omaggio alla vostra bravura e alla vostra incredibile capacità versatile di poter scrivere di un qualsiasi argomento venga scelto. Non ha alcuna importanza che siate stati più creativi verso alcune tematiche e meno verso altre, ciò che importa è lo sforzo che è stato fatto e la volontà che è stata posta nel volersi cimentare in qualcosa, che non fosse circoscritto al genere al quale siete normalmente avvezzi. Dunque vi ringrazio, cari Portatori di Penne, per il contributo che avete dato alle pagine del blog 7 giorni di follie, grazie per la vostra fantasia e per i frammenti di anima che si colgono nei brani postati. Buone Feste a tutti voi. Erotismo L'erotismo è da sempre una delle tematiche preferite dalla letteratura mondiale, molti sono gli autori che, pur scrivendo altri generi, si sono comunque cimentati in questa prova di scrittura. Non è sicuramente facile ricreare un'atmosfera che sappia coinvolgere il lettore, senza cadere nella pornografia, così come non è semplice lanciarsi in determinate descrizione emotive, senza sembrare scontati, stucchevoli oppure ridicoli. 7 giorni di follie, cari Portatori di Penne, inizia con questo accattivante tema scelto, ovviamente non a caso, per stuzzicare la vostra fantasia, sia come lettori che come scrittori. Siamo certi che le idee non mancheranno e siamo altresì convinti che, nonostante alcune “tinte forti”, saprete condire l'argomento con la giusta dose di malizia, follia e atmosfere calde. Buon divertimento. Andrea Leonelli Mia Il buio che sgocciola dalle lampade spente si raccoglie sul pavimento, striscia negli angoli come una nebbia consapevole. evita, sembra, il solo cono di bianchissima luce che trasforma il tuo corpo appeso con lacci di cuoio alle catene che si srotolano dal soffitto. I tuoi polsi, circondati dai lacci, tenuti ben alti e lontani l’uno dall’altro quanto lo consente la lunghezza delle tue braccia sono arrossati e dolenti così come le tue spalle. Alla violenta luce appari diversa da come normalmente sei. I chiaroscuri evidenziano alcuni tratti, nascondendone altri. Schiariscono la pelle, e cambiano di colore ai tuoi capelli, gli occhi sembrano infossati e gli zigomi più sporgenti. I seni più grandi e il ventre, in ombra, più piatto. Le gambe, tenute aperte da un mozzo, legate alle caviglie sembrano più lunghe e più snelle. Sei un perfetto oggetto… Indifesa, esposta, spaventata, eccitata dall’essere inerme bollente di desiderio terrorizzata dal dover ancora attendere. Il gioco però ha le sue regole, la soddisfazione dei desideri dipende dallo sfizio di chi domina. Mi vedi avvicinarmi. poi ti bendo, non mi vedi più abbasso anche l’intensità della luce perché non voglio che ti ferisca prima di me adesso non sai da che parte arriverà la carezza o lo schiaffo. Cammino silenzioso ti giro intorno ti circondo con lo sguardo lo senti sulla pelle attendo trasali al minimo rumore attendi alle tue spalle ti prendo per i capelli tiro indietro la testa tieni il fiato un bacio sospiri la mano sulla gola si chiude ansimi addolcisco la presa rantoli piacere nei respiri affannati. Sento sotto le mie mani il tuo corpo che brucia. Corde uso corde per circondarti, costringerti, renderti difficile resistere… Aumento ed esalto il tuo essere in mio potere sollevo il mozzo che ti tiene le caviglie e ti lascio sospesa esposta anche negli angoli più intimi completamente indifesa ho pieno accesso ad ogni tuo recesso ogni centimetro del tuo corpo a mia disposizione. Baci, morsi, carezze, colpi, la frusta. Ho il dominio completo di te. Prolungando il tuo piacere quando lo deciderò, lo avrò anche della tua mente. Mi sarai schiava sottomessa e fedele, serva ubbidiente, ansiosa di compiacermi con dedizione assoluta e con il tuo corpo che non esiterò a marchiare con dolore e piacere. Adesso accendo il tuo desiderio Con parole sussurrate sfiorandoti appena rendendo sensibile e ricettiva la tua carne. Ti porto alla soglia del piacere usando il tuo stesso desiderio. Mi fermo. Obbligo il tuo corpo in nuove pose sempre più dolorose umiliando la tua mente al desiderio di compiacermi Godo della tua frustrazione Ricomincio in un gioco paziente e crudele. Mi implori di farti raggiungere l’apice dell’orgasmo ma io te lo nego. Sarà ancora maggiore il dominio; quando avrò finito Tornerai domani per godere il tuo dolore e poi ancora non avrai ricevuto che il supplizio ed il piacere che potrai ottenere non lo avrai ottenuto da me. Chiederai ancora di far parte dei miei giochi ti piegherai sempre più alle pratiche più umilianti e lo farai con gioia e speranza disperata di ottenere da me quel che non ti darò se non saltuariamente, per sfizio e ancora di più lo anelerai e ancora di più mi sarai schiava finché io lo vorrò. Quando ti caccerò soffrirai il mio abbandono come fosse l’abbandono della tua stessa vita. Succube La sua silhouette si stagliava nel riquadro della porta del balcone. Il suo corpo in negativo, bagnato dalla luce della luna e dal buio della stanza. L’ovale delle testa, il lungo collo che si unisce alle spalle, e poi giù, scendendo fino alla vita, stretta e poi i fianchi generosi, le lunghe gambe. Il vento portava odore di lei, un po’ selvaggio, un po’ sudore, un po’ sesso e sigaretta. Il fumo di quest’ultima ne decorava i contorni danzandole attorno lieve, e l’ho invidiato, per la vicinanza, la delicatezza del tocco, l’artisticità degli arabeschi. Si gira, aspira dalla sigaretta e la brace le illumina, crudele, il bel volto trasformandolo in un ghigno satanico, rosso, spietato. Lancia la sigaretta che descrive una curva come cometa triste per l’essere stata gettata via, rifiutata dopo essere stata sfruttata. Il suo passo, sicuro, lieve e implacabile come quello di un predatore mentre si avvicina al letto, dal quale la stavo osservando. Scivola e mi fissa con quei suoi occhi verdi, quasi luminosi, indagatori… Sta cercando di leggermi dentro, e probabilmente ci sta riuscendo. Sono abbastanza lineare, scoperto, semplice. Mi fissa, e mi sento come cadere, una vertigine. Allunga una mano e mi sfiora il torace senza smettere di fissarmi, mi sta sfidando, e sa benissimo che io ho già perso. Come lo so io. Dopo avermi così guardato può chiedermi di fare qualsiasi cosa e sa che le ubbidirò senza protestare, mi annulla, non riesco a ribellarmi… E’ come se mi ipnotizzasse…Intanto la sua mano vaga sul mio corpo, continua a sfiorarmi, delicatissima e al contempo dura, incide con le unghie lunghe la mia pelle, ma senza dolore, lievissima. Si alza, si volta e dandomi le spalle mi dice: “Vattene adesso. Se e quando ti vorrò rivedere ti chiamerò io, Intesi!?” Chino il capo, accenno un silenzioso si nel momento in cui volge la testa dalla mia parte sopra la spalla, raccolgo le mie cose e me ne vado. Mi rivesto in un’altra stanza, fuori dalla sua vista, poi sempre silenziosamente esco chiudendo delicatamente la porta della sua casa… Mi avvio verso la mia abitazione pensando alla mia miseria, e alla angosciosa attesa che mi aspetta. Solitudine, tristezza, ansia… Il desiderio di lei, che mi domina, che mi usa per il suo piacere, è insopportabile, ma so che devo ubbidire, altrimenti mi punirà negandomi la sua presenza. Troppo dolore la consapevolezza che lei esista e sia irraggiungibile. Meglio servire “a chiamata” che mai. Sono succube. Di LEI. Estrai il mio cuore Sei sopra di me, mi sovrasti, le tue mani sul mio petto appoggi le unghie le spingi nella carne mi squarci il petto arrivi al mio cuore lo estrai e cominci lentamente teneramente a carezzarlo come per assaggiarlo, allunghi la tua lingua rosso strumento di tortura e gliela passi sopra più e più volte voluttuosamente mentre continui dolcemente a strofinarlo infine, come a cibartene lo succhi, come per estrarne l’essenza che infine esplode marchiandoti riponi a posto il mio cuore ti alzi mi sorridi te ne vai il mio cuore dopo te non sarà mai più lo stesso Irma Panova Maino Il mio nome Lento il respiro si sofferma sulle labbra, mentre il gemito ha la stessa eco del battito che rallenta, diventando profondo. La mano si distende sul lenzuolo candido cercando quell’appiglio che impedirà ai sensi di volare via, di perdersi nel caleidoscopio di colori che dipingi sulla mia pelle. Nel silenzio sento scivolare le tue dita, come se avessero la stessa consistenza della seta che mi accoglie, graffiandomi l’anima con la tenerezza del gesto, marchiandomi nel fuoco che ancora non brucia, ma consuma. È il calore del mio amante, quello che scorgo dietro la benda, il suo sapore che risveglia i miei sensi, il sentore della sua passione che mi scuote, scaraventandomi oltre il reale, in quel mondo onirico in cui le anime si fondono e si confondono con le ombre della sera. Mi danza intorno, sfiorando le estremità della mia coscienza, sussurrando quelle catene che imprigioneranno il mio volere, riducendomi schiava di quella brama che non riesco più a nascondere. Il fiato pare congelarsi in quell’attimo in cui comprendo, in cui sciolgo i nodi delle corde che mi hanno tenuta legata, a una verità che non mi appartiene più. Sento quella parte di me che era rimasta assopita e dormiente, tendere verso i confini del mio mondo antico, cercare quel passaggio che potrebbe condurre il mio essere a nuova vita, verso colui che mi ha dato il mio nome celato. Che mi ha chiamata, con quel sussurro portato dal vento, usando l’unica parola che avrebbe aperto quel mausoleo in cui ero stata rinchiusa. E quel gemito lieve diventa tempesta, diventa l’uragano che spazza via i detriti, le rovine, i cocci di un passato ormai obsoleto. Chiamami con il mio nome. Quello vero, quello che hai compreso perché hai visto l’essenza di ciò che sono. Chiamami per portarmi a te, cavalcando quella tempesta che solca i cieli e illumina le tenebre con i suoi lampi di passione e i suoi tuoni di ardore. Richiama a te gli ioni che crepitano nell’aria e che sono le molecole del mio essere tuono e fulmine e tempesta, particelle cariche di quell’elettricità che solca i nostri corpi, bagnandoli di quella patina umida che aumenta il desiderio represso. Fammi arrivare fino a te attraverso quel lieve pronunciare, attraverso i sensi protesi e le mani che si sfiorano esitanti, tremanti, quasi incredule. Dimmi ciò che sono. Nulla di ciò che è stato mi appartiene più, non ho più identità, corpo e forma. Sarò ciò che tu vuoi che io sia, perché sarà il tuo calore a modellare la mia essenza, adattandola alla tua. E mentre languo nell’attesa, aspettando che tu definisca i miei contorni, lascio i mie pensieri vagare nelle sensazioni che creo nella mia mente, ricordando te, i timbri della tua voce, dei tuoi sospiri. È un corpo che s’inarca, che si tende verso un sole che ancora non è sorto, ma che tinge l’orizzonte annunciando la nuova era. Un corpo pronto per spiccare il volo verso l’astro nascente, pronto a bruciare al suo calore, ancora e ancora, come se non potesse mai morirne e mai saziarsi. Invece muoio e risorgo ogni giorno sulle tue labbra, avvelenato miele che mi riduce a brandelli l’anima, trascinandomi nei desideri torbidi della tua brama, senza darmi tregua, senza lasciarmi quel respiro essenziale, che mi permetterebbe di vivere. Tuttavia, cosa sarebbe questa vita, senza la tortura che mi infliggi, senza il fuoco che mi consuma. Cosa sarebbe senza la tua voce che mi sussurra e m’incatena nell’illusione? Allora chiamami, fammi risorge nel mio nuovo mondo, sovrana della tua terra, padrona del tuo cuore. Lascia che sia di nuovo fertile e produttiva la tua terra. Sono la vita che spira fra le fronde, riportando nuova speranza. Nuovi boccioli sui rami spogli. Pronuncia il mio nome e rendimi eterna, lasciando che l’alba ci colga sfiniti e colmi della sola tenerezza che alberga nei cuori. Dammi il nome che mi spetta, l’unico che veramente conta, che serra i ferri sulla mia carne, facendomi tua. Chiamami amore Gianluca Frangella Follia Follia. Lessi così intensamente le tue parole d’eros, che densamente esse han preso possesso di me, e inevitabilmente ho provato l’orgasmo! Follia. Giochi d’ombre La musica ondeggia lentamente nella stanza. Suonano le note contro le pareti, rimbalzano, si scontrano e penetrano la mente di chi le ascolta. Segretamente penetrano il corpo, e assorbite dalla pelle, iniziano, lente, a scorrere nel sangue. Ombre di candela si cercano, si uniscono, si fondono. Il morbido seno si delinea in curve dolci, che ora vengono afferrate da una mano. Profili di corpi scivolano lungo la bianca parete, e con discrezione, nel gioco di luci ed ombre, ora si fondono al buio degli occhi di chi non può vedere. Si afferrano e i visi si incontrano, si uniscono in un bacio, e ora, adagio, i baci di un uomo scivolano sul corpo di donna col capo rivolto verso l’alto, a richiamare attenzione al collo. Dondolano i capelli, spogli di forme, bidimensionali, nel continuo gioco di ombre, mentre il seno spunta di nuovo, tondo e morbido, lasciato dal bacio dell’uomo. Ora è sulla pancia, le sue mani abbracciano il corpo della donna. Scende lentamente, guidato da note melodiche che riempiono la stanza. La donna solleva una gamba, la mano dell’uomo l’afferra. Ora lei prende il suo capo e lo spinge verso il suo corpo, lui si lascia andare al consiglio del piacere dettato dal momento. E la lingua, lieve, suona i tasti dell’immenso piacere; risale la sua bocca sul seno, mentre le mani accarezzano le cosce. Lei china il suo viso sopra il suo capo. Ora tutto il suo seno e nella sua bocca, morsi pregni di passione su capezzoli irrigiditi dalla voglia di essere posseduta, cadono le note ancora. La gamba dal braccio continua a levarsi verso l’alto. L’uomo è in ginocchio, davanti a lei. La gamba sale sulla sua spalle. Nel bidimensionalità del gioco d’ombre, baci roventi accarezzano labbra infuocate. Il piacere del suo sesso è lava di un vulcano che sta per eruttare. Il piede si distende, segno di rigidità di un orgasmo bramato. Mentre le ombre ora si muovono con leggeri scatti, quasi isterici, quasi incontrollati. Le note suonano, i baci scivolano, le labbra mordono, si afferrano, e le ombre si uniscono si dividono, si afferrano si rincorrono. Lei scivola sul pavimento, le ombre si fondono, si cercano di nuovo e ora di nuovo scappano. La sua bocca sul suo sesso, risale verso l’alto, e ora di nuovo, l’ombra del suo seno, si mescola con l’uomo. Le gambe si sollevano, lui si distende sul suo corpo… La vita che vorrei Le sue gambe dalla morbida pelle bruna mi avvolgevano mentre il suo corpo lo vedevo contorcersi dal piacere sotto il mio; e bruciava il fuoco dei suoi desideri più erotici, dando luogo, con la sua fiamma ardente, ad un incendio di sensazioni implacabili dentro di me, che per tutta la notte ci accompagnò fino a lasciarci andare ad un sospiro d’immenso piacere, per poi scivolare in un dolce sonno, abbracciati. Io e lei. Storia di un libro mai scritto Ora tutto tace, c’è chi legge, chi sogna, chi dorme, chi balla in discoteca, chi fa l’amore. E tutto tace. Tu dove sei ora? Forse sei davanti al portone e stai salendo le scale di casa, fine della serata. Forse appoggiato su uno scalino trovi un libricino, lo prendi, lo guardi. Non è tuo lo sai, qualcuno lo avrà perso senza accorgersene. Lo posi sullo scalino, ma poi ti guardi intorno e forse pensi sia il caso di lasciarlo sulla buca della posta. Lo apri e leggi “Sono qui per te. Sono il tuo libro, la tua seduzione mentale, il tuo desiderio nascosto”. Troppo ridicolo come inizio, forse un poco presuntuoso, ma la curiosità di scoprire c’è. Nell’ingenuità di poche parole, si cela la curiosità di donna che è il tuo dono. Lo tieni, lo porti con te. Lo guardi mentre apri la porta di casa, forse dovresti ridarlo al legittimo proprietario. La porta è aperta, accendi la luce nel soggiorno. E’ vuoto. C’è silenzio. Apri di nuovo il libro e continui a leggere “Non mi credi? Allora perché esiti? Ti basta lasciarmi dove mi hai trovato. E’ semplice, molto più semplice di quel che pensi. Ma nulla può cambiare il fatto che io sono qui per te, che sono la tua seduzione mentale”. Richiude il libro. E’ impensabile che si possa leggere un qualcosa di così assurdamente infantile. Eppure, seppure è nel tuo dovere, restituire quel libro, ti chiudi dietro la porta pensando che domani potrai sempre riposarlo dove lo hai trovato. Giusto una notte con te, una sola notte. Solo una notte per capire di cosa sta parlando. Ora sei nel tuo soggiorno, poggi il libro per disfarti dei tuoi abiti. Il cappotto sull’attaccapanni, le scarpe le sfili e le lasci accanto alla porta. Cammini scalza fino al divano portando con te il libro, ti lasci cadere. Richiami a te le gambe, ti massaggi i piedi, e continui a leggere. “Come sei bella nel tuo vestito nero. Hai un corpo che mi seduce i sensi” e sorridi, nel notare il tuo vestito nero scivolare su dolci lineamenti. “Si. Sto parlando proprio di te. Di te e del tuo neo sul collo” ti sfiori “Ti stai sfiorando” ti fermi “ma non ti fermare, ti prego, forse è solo una misera coincidenza la mia. Ma io continuerò a parlare di te”. Distendi le gambe. L’inchiostro nero su fogli bianchi assumono nella tua mente un senso indistintamente umano, caldo, e ti abbracciano i complimenti. Ti senti sola probabilmente, o forse poco attraente, come accade a molte donne, ma non per questo dovresti lasciarti andare a poche parole di un libro. Eppure lui è lì, tra le tue mani, e ora lo riapri per continuare a leggere. “Sapresti immaginare le mie mani sul tuo corpo? Ebbene io ti sogno da sempre, ti scruto, ti immagino, ti vivo, ti respiro. Il tuo profumo. Sento il tuo profumo propagarsi nella stanza” di colpo chiudi il libro, ti guardi intorno. Non c’è nessuno intorno a te, sei sola. Sei tu e quel libro. Non c’è alcun titolo, non c’è autore, non c’è quarta di copertina. In questo istante una gamba si distende sul divano e la tua mano si accarezza. Ti guardi mentre istintivamente la mano risale il ginocchio e solleva il vestito fino a mezza coscia. Ti fermi, riapri il libro. Leggi. “Sei sensuale. La sensualità è la virtù di una donna. C’è femminilità nei tuoi gesti. Perché ti sei fermata? Perché hai frenato l’istinto? Mostrami di più, ho voglia di sedurti per dissetarmi l’anima di piacere. Sono le parole del tuo desiderio più nascosto, sono il tuo eros più profondo. E tu non ci credi che parlo di te, ma vorrei tanto tu provassi a fidarti. Continua ad accarezzarti”. Lo so, è strano a dirsi. Eppure è così. Rileggi le parole, ma non cambiano, sempre le stesse. E l’idea di un occhio indiscreto che ti guarda accarezzarti, ti eccita. Ti senti spiata nella tua intimità. Così, per curiosità, continui a risalire la coscia sollevando il vestito fino a mostrare il ricamo dell’intimo. “Bianco. Il candore del bianco sulla tua pelle abbronzata. I miei baci, le mie carezze, il mio respiro sono lì, sulla tua gamba. Mi senti? Le mie mani sono le tue , mi muovo attraverso te. Posso sentire la tua pelle scivolare sul palmo. Posso sentire la tua morbida coscia sotto le mie labbra. Posso sentire il tuo profumo, e odo il tuo respiro ansimare”. Ora ansimi. Costretta ad arrenderti, richiudi il libro e ti copri la gamba. Ora basta. Questo è troppo. Ti copri e riapri il libro. “Perché? Perché mi privi di tanto piacere? Potessi esser lì, su quel divano al tuo fianco! Vorrei baciarti la caviglia, massaggiarti il piede. Lasciati andare, mentre ti spoglio di tanta paura. Lasciati rivestire di sicurezza, di serenità. Sei così bella. E i miei baci no, non li fermare. Dammi la mano, lasciala guidare di nuovo lungo la coscia, lasciala svestire fino al piacere”. Ora cosa succede? La tua mano è risalita e la tua coscia è di nuovo spoglia. “Sono qui, lungo le tue gambe”. Tu le allarghi leggermente. “Sono qui, vicino il tuo sesso. Sento l’intimo sfilarsi” La tua mano si posa sul pube. “Sono qui, sono le mie dita che senti, ed è la mia lingua ad accarezzare le tue labbra roventi” Le tue mani sfilano l’intimo. “Lo senti il piacere? Senti il mio respiro sul tuo corpo? Sento il tuo sesso bagnarsi, e il godimento scorrermi sulla lingua” Ti tocchi. “Come sei bella, scusami se mi ripeto, mentre ti penetro dolcemente e continuo a leccare il tuo sesso” La tua mano sfiora il clitoride. “Ora sto risalendo il tuo corpo, sento il tuo seno sul palmo della mano” Una gamba si piega verso il petto, e si allarga. La mano è sul pube, vorresti reagire, arrenderti non è facile, richiudi le gambe e stringi con forza la mano, come per fermarla. Ti volti su un lato “Come sei attraente quando mi resisti. Il tuo corpo è rigido, il tuo seno sodo. I capezzoli si sono induriti dal piacere, i muscoli si contraggono. Distendi le tua gambe, sconfiggimi, resistimi, ma io sono la tua seduzione mentale” Le tue gambe si allungano, i piedi si stirano, senti fremere il piacere, il desiderio invadere la tua mente. Ti rigiri, provi a ribellarti, ora sei di nuovo con le gambe aperte e la mano nell’intimo tocca il clitoride. “Sono qui, sono qui sul tuo seno, mentre la lingua gioca a sedurre i capezzoli, prima uno poi l’altro. Afferrami forte la schiena. Senti salire l’orgasmo, lascialo scorrere nelle vene, e non frenare l’atto della passione. Penetrare” Un gemito fuoriesce dalla bocca. “Penetrare. Lasciami entrare dentro di te” Altro gemito, e non puoi evitare di toccarti. Scagli il libro in terra, lo rialzi, lo sfogli, e intanto ti tocchi. Provi un immensa sensazione di purezza, di sublime trasgressione, e di voglia. Ti tocchi e ti contorci. I gemiti diventano più acuti, non li sai più gestire, non ti sai più gestire, fin quando col fiatone il tuo corpo cede. Respiri guardando il soffitto. Gli occhi sbarrati, l’espressione seria. Affannata ti volti lentamente, raccogli il libro dal pavimento. Lo apri e ti accorgi che tutte le pagine di quel libro, sono bianche. Nadia Milone Sogno Mi giro nel letto, allungo una mano e ti sfioro. La tua pelle é liscia e morbida. Avrei voglia di accarezzarti, di baciarti e di morderti, però non lo faccio, ti aspetto. Consapevole del mio desiderio mi respingi per gioco, ma poi mi cerchi. Sembriamo due adolescenti sotto le lenzuola e la cosa mi eccita e annulla ogni mia inibizione. Adesso non sei il moralista di sempre, vero? No, adesso sei solo il mio giocattolo preferito. Il gioco continua, ormai siamo entrambi in preda ad un desiderio incontrollabile. Il fuoco ci brucia e i sensi esplodono in una danza di amore e passione. Siamo nudi, completamente privi di indumenti e di difese, l’uno accanto all’altra senza maschere né costumi e ci uniamo in un unico corpo e in un’unica mente. I nostri corpi si muovono in perfetta sincronia, come in una danza. Ora non mi respingi più, finalmente mi vuoi, mi desideri come io ho sempre desiderato te Baci ogni centimetro del mio corpo ed io rispondo ai tuoi baci con ardore, è una vita che desidero sentirti così! Fremo al calore del tuo corpo sopra il mio e al tuo respiro ansimante sul collo, sento la tua lingua che mi cerca e mi esplora e le tue mani stringono il mio seno fino a farmi male ma non mi lamento anzi, mi piace. Mi conduci con te fino alle vette più alte del piacere e voliamo insieme verso mondi proibiti, sfidando il peccato. Se è all’inferno che devo andare, allora voglio essere con te. Mi guardi e sorridi malizioso, sei insaziabile e vuoi ricominciare. Ancora, ancora e ancora. Apro gli occhi e mi guardo intorno, ma tu non ci sei più. Dove sei? Era un sogno? Sì, lo era. Un incredibile e bellissimo sogno. No, non mi voglio svegliare, non ora. Richiudo gli occhi e, finalmente, possiamo riprendere da dove ci siamo fermati… Ronnie Corbo 2 Spade Notte fonda e poca gente in circolazione. Solita vita di una noiosa cittadina di provincia. Stava girovagando in macchina da un pub all’altro senza trovare nessuno di interessante. Non aveva voglia di darsi all’alcool come faceva abitualmente. Quella sera no. Poi all’improvviso gli venne in mente quel locale di quarta categoria dove spesso si trovava gente strampalata, mariti con le loro amanti segrete, tutte donne di una certa età in cerca di un ultima avventura prima di raggiungere la pace dei sensi. Donne con i collant a rete strappati sui talloni e minigonne stropicciate sempre troppo corte per i fisici di quell’età. C’era di tutto in quel posto: ubriachi uomini d’affari ormai in bancarotta e donnacce pronte a tutto pur di rimediare una scopata come dio comanda. Lui c’era andato qualche volta in passato e data la sua età, al di sotto della media del posto, aveva subito trovato una donna che ci aveva provato: proposta rifiutata con garbo ed educazione come era nel suo stile. Ma non fu quello il motivo che lo spinse a tornare quella sera. Il motivo si chiamava Lele. Così chiamavano quel ragazzo, se poi si chiamasse Raffaele o Samuele lo ignorava, non era questo che rendeva speciale quel ragazzo dai capelli lunghi, leggermente mossi e neri come la notte. La cosa che lo ossessionava di Lele era che quando lo vedeva gli prendeva qualcosa di strano allo stomaco, come dei crampi, come se avesse un coniglietto che si dibatteva nelle sue budella. Lui non aveva mai pensato a certe cose, agli uomini, lui amava le donne fino all’adorazione religiosa, fino all’ossessione. Ma cosa gli faceva quel tipo? Cosa aveva che gli altri non avevano? Ora lo voleva scoprire. Parcheggiò difronte al locale ed entrò. Come previsto lo trovò seduto ad uno sgabello mentre parlava con un vecchio gay cliente fisso del posto. Rideva ed era bello. Sì. Semplicemente bello. Il coniglietto cominciò a dimenarsi. “Ora basta” si disse mentre lentamente si mise vicino a lui. Ordinò rum e coca e gli sorrise. Lui ricambiò col viso illuminato di gioia. “Ci siamo”. Sapeva che di lì a poco Lele gli sarebbe andato più vicino e gli avrebbe detto qualcosa. Così fu. “Ciao, che bello rivederti… ma dov’eri finito?” La sua voce da effemminato lo eccitava da morire. Solo lui aveva questo potere. Conosceva altri gay ma nessuno di loro aveva questo effetto su di lui. Incomprensibile ma allo stesso tempo piacevole. Lele gli si fece molto vicino, lo toccava con la gamba destra e poteva sentire il calore del suo corpo infiammato dal desiderio. Prese il bicchiere con la mano quasi tremante e lui avvicinandosi all’orecchio gli sussurrò: “Poi andiamo…sì?” Ancora quella voce, ancora quell’eccitazione incontrollabile. Si volto e sfiorandogli il viso con la bocca rispose sottovoce: “Sì..non vedo l’ora”. Poi tornò nei suoi panni e con un colpo da maestro del bere trangugiò tutto il rum e coca in un fiato, gettò dei soldi sul bancone senza guardare quanti fossero, non importava più niente in quel momento, c’erano solo lui e Lele. Uscirono di corsa e via in macchina fino a quando non trovarono un luogo appartato dove poter dar sfogo alla loro voglia di sesso. Fu Lele a prendere l’iniziativa baciandolo partendo dal collo e pian piano avvicinandosi alla sua bocca. Cominciò a sentire la sua lingua sulle labbra che poco dopo aprì facendola entrare in contatto con la propria. Si stupì di come il suo bacio fosse delicato come quello di una donna. Questo lo mise ancor più a proprio agio e si sciolse definitivamente. Anche lui ora si muoveva seguendo il solo piacere, nient’altro importava al mondo. Si baciarono come due amanti appassionati. Sentiva il sapore di Lele e gli piaceva ne avrebbe voluto ancora e ancora e ancora. Cominciarono a spogliarsi, le due camicie volarono via come fazzoletti al vento e i jeans si abbassarono contemporaneamente. Ora il gioco si faceva più interessante visto che lui non aveva mai nemmeno toccato un altro cazzo in vita sua. Combatté e vinse questa sua mancanza prendendo in mano quello di Lele e cominciando ad accarezzarlo delicatamente. Stava scoppiando di piacere. Gli leccava il petto e i capezzoli poi su di nuovo al collo e alla bocca. I respiri si incavallavano sembrando un’unica creatura in preda a spasmi di piacere. Lo baciò sul petto, poi sullo stomaco piatto e liscio fino a quando cominciarono i peli mori e ricci. Non si fermò e scese ancora. Lo teneva ancora in mano quel cazzo pulsante e lo guardò sorridendo prima di aprire la bocca e cominciare a succhiarlo con impressionante e inaspettata avidità. Si accorse di quanto fosse bollente quella carne ma anche buona da mangiare. Si fermò solo quando Lele glielo chiese, era sul punto di venire. Evidentemente anche se non lo aveva mai fatto era un gran spompinatore. Poi si misero uno sopra all’altro, i due cazzi duri si sfidarono come due spade in un duello mozzafiato. Si strisciarono un po’ poi fu la volta di Lele che si lasciò scivolare tra le sue gambe e questa volta toccò a lui godere delle attenzioni di quel magico ragazzo. Mentre glielo stava succhiando si sentì qualcosa in mezzo alle chiappe. Era un dito che gli stava entrando nel culo. Lo lasciò fare capendo presto di aver fatto la scelta più azzeccata della sua vita perché il piacere che provò fu disarmante. Lele succhiava e accarezzava il suo cazzo con la lingua e muoveva avanti e indietro il suo dito medio. Lui stava provando qualcosa di indescrivibile. Mai avrebbe potuto immaginare di godere in quel modo così assurdo ,incredibile. Non riuscì a trattenersi e gli sborrò urlando dal piacere in pieno volto. La cosa non lo sorprese affatto ma, anzi, cominciò a leccarsi la bocca come i bambini dopo aver mangiato il gelato. Gli piaceva lo sperma, era evidente. Lui era ancora sdraiato sul sedile col petto che prendeva aria ansimando come quello di un grosso pesce fuor d’acqua. Aveva goduto come non mai. Poi Lele gli si fece sopra e lo baciò sulla bocca. Aveva ancora le labbra umide di sperma ma andava bene. Si abbracciarono per un po’ poi si rivestirono e tornarono al locale. Entrando la gente si voltò a guardarli, erano entrambi sudati. Se ne fregarono altamente e presero da bere qualcosa di fresco. I cuori ancora a mille e le guance arrossate. Erano felici, soddisfatti. Gli altri uomini ubriachi presto si dimenticarono di loro e tornarono alle loro baldracche da due soldi. Finirono i drink e si salutarono con la promessa di rivedersi presto. Lui accese il motore, mise la prima e si avviò sorridendo verso casa. Si sentiva leggero. Ora era tutto a posto. Adesso il mistero era risolto e avrebbe guardato il mondo con occhi diversi, con occhi di chi sa qualcosa in più degli altri. Era felice, voleva bene ancora alle donne ma alla lista si era aggiunta una nuova voce: Lele. Un segreto I loro sguardi si incrociarono soltanto quella sera in quel ristorante. Lei col suo fidanzato e lui con sua moglie, ma il pomeriggio prima non fu così. Non si sarebbero dimenticati così facilmente del loro incontro nel parcheggio sotterraneo del centro commerciale dove avevano parcheggiato vicino nell’angolo più buio e isolato. Lei aveva appena riposto le borse con gli abitini nuovi sui sedili posteriori quando girandosi si accorse di lui che la fissava incantato con un gomito appoggiato alla capote della sua Mercedes. La cosa non la sorprese, sapeva di fare quell’effetto agli uomini,sapeva di essere tremendamente bella e ciò la riempiva di gioia. Le veniva voglia di concedersi a tutti quelli che la guardavano in quel modo come per riconoscenza, adorava essere ammirata più di ogni altra cosa al mondo. Lui la fissava anche se lei gli si era messa dritta davanti, non aveva vergogna di essere stato scoperto oppure era davvero incantato dalla vista del suo corpo perfetto. La giovane fece scivolare una mano lungo il suo ventre piatto fino alle cosce poi si fermò per un istante mentre inarcando le dita prese il bordo della minigonna a ventaglio e lentamente se la sollevò fino a mostrare all’uomo le sue cosce bianche e carnose, di burro. Ora solo le mutandine di pizzo rosa separavano la sua fica da lui. Fece quattro passi e sollevandosi in punta di piedi lo baciò dolcemente sulle sue labbra immobili. Poi gli sussurrò “Cosa ne dici, ti va?” La sua vocina ebbe un effetto ipnotico su di lui che rispose quasi come un automa “Sì”. In un attimo furono sulla spaziosa Mercedes, i sedili buttati giù con violenza e i loro corpi stretti nella morsa della passione. La ragazza non aveva perso tempo e affondando una sua manina nei pantaloni aveva trovato quello che si aspettava, un grosso cazzo già duro e pulsante di desiderio, poteva sentirne anche le vene rigonfie di sangue bollente. Lui le aveva tolto le mutandine con due dita, come se non avessero alcuna consistenza al confronto delle sue grandi mani muscolose, e le stava massaggiando la fica con movimenti circolari. Poteva già sentire la calda umidità sulle dita tra quelle cosce bianche di una giovane fanciulla che avrebbe potuto essere sua figlia. Ma non lo era. I respiri si facevano più affannati e mentre lui si stava facendo largo con le dita nelle labbra arrossate e calde lei gli strinse con forza il cazzo e, con una sicurezza che mai nemmeno sua moglie aveva mai avuto, disse “Ora diamoci un taglio” e aggrappandosi a lui con un solo braccio usò la mano libera per infilarsi dentro il suo membro con una tale decisione da sembrare una donna di almeno quindici anni più grande. Gemette solo un po’ quando quel grosso pezzo di carne la riempì, poi gli si strinse come un serpente al torace e lo accolse in sé per tutta la sua lunghezza. L’uomo le sbottonò istericamente la camicetta e succhiò avidamente da quel petto giovane e bianco come la luna, le stelle e tutto quanto di magico c’è in natura. Scoparono in quell’angolo buio di mondo senza timore di essere visti e senza alcun ritegno. L’uomo rimase stupefatto solo quando lei gli sussurrò di tirarlo fuori dalla fica perché aveva voglia di essere scopata anche di dietro e quasi era sul punto di dire “Non esageriamo” o qualcosa del genere, come se solo in quel caso il suo senso del pudore si facesse sentire, ma poi acconsentì immediatamente quando la sentì precisare che, in caso affermativo, avrebbe potuto sborrargli nel culo. La cosa finì come la ragazzina si era prefissata e il cinquantenne si sentì un miracolato. Sapeva che mai più in vita sua gli sarebbe capitata una cosa del genere e proprio per questo era infinitamente grato alla sorte e a quell’angelo trovato per caso in uno squallido parcheggio. Furono attimi senza tempo per l’uomo. Per lei forse non era la prima volta e di sicuro neanche l’ultima. Erano due mondi lontani entrati in un piacevole conflitto, due generazioni con niente in comune se non il fatto di vivere sullo stesso pianeta e di cenare allo stesso ristorante. “C’è qualcosa che non va caro?” gli chiese la moglie vedendolo assorto nei suoi pensieri, “No tesoro, va tutto bene…tutto bene”. Mal’âq ‘Ȃnf Fràn’ I nostri cuori: sono scrigni d’Amore, di Passione e… L’ora è arrivata! Mi lascio dietro le spalle il sole caldo d’Oriente, bello, radioso, raggiante pieno di meraviglia e stupore, e intraprendo il mio viaggio di ritorno verso l’Occidente. Durante il viaggio, mi metto ad osservare il cielo, limpido, azzurro, di una nitidezza indescrivibile. La mia attenzione si posa sul sole che è quasi al tramonto, in cui la luce dell’est comincia ad indebolirsi per diventare notte. Si, proprio notte, una notte oscura, buia, spenta… Mi soffermo, con un rammarico nel cuore, con la consapevolezza che al mattino dopo, quando mi sveglierò e vedrò la luce del sole, non sarà la stessa, non sarà la stessa luce che ho visto in questi giorni. Il cuore mi si rattrista, e mi chiedo:<< perché ti rattristi anima mia, e perché tu gemi su di me? Dove mai potrò trovare il mio conforto paragonabile a quella che la beata ventura mi ha presentato? In chi dovrò sperare?>>. Il mio amato non c’è, non è qui con me. I miei occhi grondano lacrime, senza cessare. Entrambi abbiamo varcato le ali del ritorno, lui ad oriente ed io ad occidente, vie opposte ben distanti l’una dall’altra. Perché tutto questo! Attimi infiniti che irrorano nel tempo, che hanno segnato la nostra storia, la nostra vita, il nostro Amore. Come potrò mai dimenticarlo, come potrò levarmi di mente la sua infinita dolcezza. Lui è stato per me non una Musa greca, ma un Profeta di Sion, venuto da terra straniera. Un profeta capace di far intrecciare Passione e Amore in un’unica cosa. Mi ha coinvolto in tutto. Tutti i miei sensi sono stati partecipi. Ci accarezzavamo, le nostre mani scivolavano sui nostri nudi corpi come se stessimo sfiorando seta pura. I nostri corpi emanavano soavi profumi, un’essenza afrodisiaca che scaturiva dalla nostra libidine. Gli occhi restavano chiusi, solo cosi ci si vedeva internamente e l’udito ci permetteva di sentire la voce del calore, che pian piano aumentava, perché il godimento era forte. Mi nutrivo dei baci della sua bocca, la nostra saliva scorreva sulla nostra pelle, la rendeva umida, permettendo alle nostre mani di scivolare in maniera soave. Le nostre lingue si adagiavano reciprocamente, strisciavano nelle nostre bocche, percorrevano i nostri corpi, da cima a fondo senza fermarsi. Le parti intime diventano luogo di ritrovo per le nostre bocche, leccandoci e succhiandoci senza sosta. Eravamo entrambi bagnati, ma non era orgasmo, era una secrezione dettata dalla libidine, che ci comunicava che eravamo pronti per godere ancora di più, di prenderci, di entrare l’uno nell’altro… Ci siamo donati vicendevolmente, Tu mi hai fatto tuo, mi hai preso, sei entrato dentro di me con il tuo membro, ed io ti ho accolto serenamente, con garbo, perché, mentre entravi in me, mi stringevi, mi stringevi così forte da garantirmi una forte e sicura protezione. Mi tenevi per mano come se fossi un bambino, ed io ti facevo più intimo dell’intimo mio. Tu mi hai preso, Tu mi hai stregato, ed io godevo nel sentirti dentro di me, e tu godevi quando mi penetravi, urlando di infinito piacere… Siamo diventati una sola cosa, un solo corpo unito ed un’anima dalla quale pulsa l’essenza della vita. Mio Amore e mio tutto!!! Anche quando si raggiungeva il culmine del piacere, il sublime orgasmo, fragrante come l’incenso, e poi Continuavamo imperterriti a gustarci, i nostri corpi, docile miele, nettare puro… Restavamo fermi, lì, sempre abbracciati a sussurrarci tenere parole. Il verbo aveva preso forma e materia in noi, si era solidificato. Non potrò mai dimenticare la nostra prima volta, imbarazzati e curiosi, ma con tanta voglia di conoscerci e di godere. Ecco fatto, ci siamo riusciti. Adesso il giorno volge al suo desio, anche se non ti vedo realmente, sono cosciente che sei dentro di me, ed io in te. Due mezze parti che si sono completate nell’atto di una nobile penetrazione… Non solo sesso carnale, ma elevazione del corpo allo Spirito, che era tra noi. Ricordati che hai tatuato il tuo nome nel mio cuore, ed io ho impresso il mio nel tuo. Nessuno potrà mai separarci da tutto ciò… Tuo! Ora! Per sempre….. Ti custodirò …..nel mio Cuore, che è un prezioso scrigno d’oro e d’avorio, lavorato da due artigiani: l’Amore e la Passione….che c’è stata, che c’è, e che….ci sarà!!! In confidenza Fu una giornata all’insegna del lavoro, stanchi, affaticati e con tanta voglia di mandare le traduzioni a quale paese. Io e Joshua, un collega del dipartimento di ricerca di letteratura e filosofia ebraica, con il quale avevamo trascorso circa sei mesi assieme tra le sudate carte. Quel giorno eravamo sfiniti, frutto di un lavoro assiduo, senza sosta che durava da quasi un mese… Erano quasi le 18:00, il sole era all’imbrunire, ma il caldo era sempre soffocante; si faceva fatica a respirare. Lui mi chiese se poteva rinfrescarsi un po’ utilizzando la mia doccia ed io gli risposi di si. Sinceramente non mi interessava più di tanto, già la fatica cedeva il suo passo alla stanchezza. Joshua si inoltra nella doccia, io nel frattempo prendo una bibita per rinfrescarmi… Trascorrono dieci minuti e mi sento chiamare. Mi chiede se potevo dargli un telo più grande per asciugarsi. Mentre gli passo il telo, lui apre la tenda della doccia. Li per li mi sono bloccato un attimo, lui mi fa un sorriso, ed io gli cedo subito il telo ed esco…Appena ritorno in cucina mi sdraio sul divano, e subito mi è venuta in mente la sua immagine sotto la doccia. Uno spettacolo della natura, un corpo lineare, pulito, liscio, l’acqua che gli scorreva addosso dava l’immagine di un corpo velato. Un corpo asciutto, ben scolpito, sembrava che fosse stato fatto da Fidia, lo scultore greco che dava vita al marmo… Lui uscì dalla doccia, si ritirò in camera per vestirsi ed io mi alzai per andarmi a lavare.. Si, una doccia fredda mi ci voleva, per distrarmi da quella sensazione strana che d’un tratto mi ha reso quasi cieco… Esco dopo un po’ senza pensarci più, ma quando ritorno in cucina ancora con il telo attorno alla vita, vedo che lui non si era vestito, era rimasto tale e quale come era prima Mi invita a sedermi e bere una birra. Nel frattempo aveva preparato un po’ di stuzzichini, olive, salse piccanti, crostini di pane, insomma la fame si faceva sentire… Mentre banchettavamo, mi chiede di prendergli un libro, che era posto sul tavolo a lato del divano. Appena mi giro per prenderlo, lui mi afferra da dietro, ridacchiando e dicendomi: “adesso sei mio”. Io li per li non ho detto nulla, mi sono solo messo a ridere, ma lui è rimasto indifferente a tale risata. Iniziò prima a baciarmi il collo, poi iniziò a farmi dei succhiotti sul lato destro del collo. Oh, povero io! Mi dicevo, tra me e me stesso. Lui non mi dava tregua, mi girò e si distese su di me, il suo corpo era infuocato, la sua saliva aveva un sapore piccante, ma piacevole, e la saliva che emetteva era paragonabile ad un valanga di neve… Siamo rimasti un bel po’ a strusciarci come due serpenti , fino a quando lui con la sua afosa bocca iniziò a leccarmi sul torace, a giocare con i miei capezzoli mentre con le mani mi continuava a massaggiare delicatamente. Scendeva sempre più giù e iniziò a leccarmi le parti intime, soffermandosi molto sull’inguine per poi leccarmi l’ano… Quella è stata per me una esplosione, il brivido che sentivo era fortissimo…. La punta della sua lingua, talmente vibrava veloce … che sembrava la lingua biforcuta di un serpente… Risale al leccarmi, ma dalla schiena fino ad arrivare al collo, punto di partenza Si alza e mi chiede di gustare il suo membro, di assaporarlo come se fosse un piatto da me tanto amato… Iniziai a tenerlo fra le mie mani, mi accorsi che era già umido. Lo presi in bocca e cominciai a deliziarlo, e nello stesso tempo mi deliziavo io…. L’eccitazione era talmente insostenibile, non si riusciva a controllare… Mi alzo e mi sdraio con il fianco destro sul divano, Gli chiesi di appoggiarsi dietro di me, a di strusciarmi il suo membro tra i mie glutei….Si, era bellissimo, ma ad un certo punto, tra fatiche, sudori e piaceri, non ci ho visto più. Alzo lentamente la gamba sinistra, prendo il suo nerboruto membro e lo posizione sulla bocca dell’ano. Penetrami, voglio sentirti dentro! Penetrami con dolcezza, questo è un meritato godimento per entrambi! Lui iniziò ad adagiare dentro di me tutto di se stesso, anima e corpo. Siamo stati ancora un bel po’, avvolti dal silenzio dei nostri gemiti, dai sospiri ormai senza aria, fino a quando un urlo, di meritata soddisfazione ci fa arrivare ad un orgasmo simultaneo. Il gemito cedette il passo alla soddisfazione: Ipse dixit: era quello che volevo! Nutrimi Vieni, vieni qui. Perché ti nascondi? Io ho bisogno, ho bisogno della tua presenza. Ti voglio vero, ti voglio sentire come quando si tiene con mano una luminare candela. Trascorre il tempo, anche se sono solo pochi attimi, sembra un’eternità. Oh, tempo dannato è il mio. Ma solo dopo, una immeritata attese, vedo al di là di questa misera fiamma il tuo Essere che avanza, silenzioso a passo felpato. Un attimo, un attimo ancora e la candela che tengo tra le mani inizia a spegnersi, mentre Tu inizi ad emanare una luce speciale. Inizi ad accarezzarmi, a sussurrarmi parole dolci, io sento man mano delle forti e piacevoli sensazioni, il brivido della passione mi arriva in tutto corpo. Io dannato! Si, ma con orgoglio!!! La tua bocca inizia a sfiorarmi il collo, il lobo dell’orecchio,,,,, le tua labbra, poi….. ardono di puro piacere! No, non c’è tempo, anche io, anch’io voglio partecipare a questo incontro di labbra, accogliere le tue…. Ed ecco che a d’un tratto le nostre labbra si sono unite, le succhiavo come se fossero rossi frutti, succosi come la melagrana. Le nostre mani scivolavano lungo i nostri corpi. Non c’era tregua!!! Ormai, i nostri corpi divampavano, ardevano di passione. Ardevano e io volevo che quell’istante non passasse mai. Ti prego, resta ancora, continua a a nutrirmi, non lasciarmi solo. La candela ormai si è spenta! Nutrimi ancora!!! Ricordami anche Tu… Sono quasi le 18:00, ed io, come al solito mi reco nei pressi dell’Ulivo. Si, l’Ulivo, l’albero che si trovava non molto distante della mia abitazione. L’albero che un giorno mi riempì di grazia… Arrivato, come al solito, distesi la mia coperta per terra, mi sono seduto ed inizia a leggere. Ad un tratto fui distratto dal canto delle tortorelle, che avevano fatto un piccolo nido, tra i suoi rami frondosi, ed una docile melodia, causata dalla brezza pomeridiana che saliva dal mare, e dalle fugaci volpi che rovistavano tra i vigneti. Ad un certo punto, alzo gli occhi verso la collina, e vedo una luce, una nobile presenza, che scende verso valle. Non sapevo chi fosse, non ero in grado di riconoscere, perché tanta era la sua bellezza, la luce che emanava che facevo veramente fatica… Allora, mi alzai da terra, e in un batter d’occhio, tale presenza era dietro l’albero, dietro quel possente fusto secolare, che con i suoi frondosi rami abbracciava buona pare del terreno, anzi alcuni addirittura lo sfiorarono. Io rimasi in estasi, ma non capivo chi fosse. Oh, povero me!!! Non disse nulla, mi fisso negli occhi e mi fece un nobile sorriso. Io ricambiai allo stesso modo e subito ci siamo seduti. Iniziammo a leggere, ma la mia mente, i miei occhi fissavano il suo volto. Ad un certo punto mi disse: “avvicinati a me, sono qui, perché ti turbi, perché non ti fai convinto?” Mi si aprirono gli occhi, mi si aprirono, umidi di lacrime, lacrime di gioia, iniziai a singhiozzare e Lui mi prese fra di sei, mi strinse e mi sussurrò: “Sono qui, con te, stringimi anche Tu, affinché possa trasmetterti il calore che tanto desideravi”. Era forte il desiderio che mi si era innescato, la sua luce mi radiava, il suo profumo mi inebriava, sembrava mirra, incenso, più l’annusavo e più mi venivano i brividi. Le sue mani scivolavano lungo il mio torace, come se stesse spianando qualcosa mentre le mie erano distese in aria, verso l’alto. Mi modellava, ecco quello che faceva… Mi spogliò, iniziò a riempirmi di baci, mi sfiorava con la bocca, poi con la lingua, man mano che la sua lingua scivolava sul mio corpo mi lasciava un segno, come se fosse passata una lumaca. Io non riuscivo più a contenermi, dovevo far qualcosa, ed ecco, con forza gli tolsi i vestiti, perché anche la minima cosa addosso, per me era un nemico, un rivale: ero geloso, anche della natura che ci guardava, silenziosa o forse sbalordita! Non importa, eravamo uniti, in silenzio, si sentiva la musica del nostro ansimare, l’affanno non della stanchezza, ma della forza che scaturì in noi, travolti dal turbine della Casta passione. Gemiti, gemiti e ancora gemiti di piacere, quando le nostre lingue iniziarono a salpare i luoghi dell’intimo, gustando totalmente quanto ci eravamo serviti. Lui era già bagnato, ma non importa, che cosa vuoi che sia, miele, nettare o forse ambrosia, non importa era dolcissimo al gusto. Io non resistevo, non volevo lasciarlo andare, ma lui capì che era il momento, si inserì tra le mie gambe, con dovuto rispetto iniziò a leccarmi l’ano, a massaggiarlo prima con la lingue e poi si aiutò con le dita, lubrificandolo ben ben facendo in modo che fosse pronto per essere accolto. Si mise dietro di me, di fianco, mi giro la testa verso di lui e si attacco alla mia bocca come se fosse una ventosa, e lentamente la sua mano, accompagno il suo valido scudiero alla mia porta. Mi sussurro all’orecchio, ansimando: “Prendilo, prendilo, tanto l’hai desiderato, adesso non ti lascio, voglio che raggiungi la settima stanza, la stanza dove il sublime si incontra con il piacere”. Continuava, senza fermarsi, non mi dava pace….eppure godevo da morire!!! Ad un certo punto uscì dal mio corpo, mi girò verso di lui, si alzò e si mise d’innanzi alla mia faccia, invitandomi a gustarlo ancora, ma io ero troppo eccitato, non mi diede il tempo di gustarlo a dovere che io raggiunsi l’orgasmo… Lui godeva, godeva, in silenzio, solo ad un certo punto emise un urlo straziante, ho avuto paura, e ben che non si dica mi riempi il volto del suo seme. Non avevo parole, era caldo, un profumo agre, denso, sono rimasto senza parole. Si distese su di me, tenendomi le braccia, immobilizzandomi… Si, non aveva finito, iniziò a leccarmi il viso, a imbalsamarmi fino al collo e poi risalendo sul mio viso, si fermò nella mia bocca. Gustai, gustai con coraggio tale invito: meritava pienamente. Stanchi e affannati cademmo in un torpore di sonno. Dopo un po’ mi svegliai, mi girai intorno e non c’era. C’era silenzio, la brezza era cessata, e le tortorelle non cantavano più. Il vigneto era deserto, e il sole era quasi scomparso all’orizzonte. La luce era svanita. C’era solo l’Ulivo, con i suoi frondosi rami, pendenti, come se fossero rami di salice. Sentii un misero fruscio di foglie, un fruscio mesto, cupo. Alzo gli occhi verso la collina, risento il fruscio delle foglie, ma non era il fruscio, era il Ricordo di un ricordo che rivivevo tutte le volte che mi sedevo sotto l’Ulivo. Lui non c’è, è andato via, anche questa volta, o forse non è mai arrivato. Io l’ho visto, l’ho toccato, l’ho sentito, l’ho fatto mio. Allora ti chiedo di ricordarmi… ancora una volta, qui sotto l’Ulivo, in cui scorre linfa di pace, serenità e miele dai suoi fiori. Ricordami… ancora una volta!…. Ho bisogno che mi riabbracci, come la prima volta. Come l’ultima… volta, sussurrami il tuo alito di vita e……. tienimi stretto, a Te: ……non mi lasciare! Rossana Roxie Lozzio Hollywood e dintorni (estratto dal volume omonimo) All’improvviso, alcuni suoni appena percettibili, gli giunsero all’orecchio. I tuoni, momentaneamente, erano echi lontani e non sovrastarono quei gemiti soffocati che cominciò a distinguere, come appartenenti ad un pianto sommesso… anche se disperato. Doveva esserci qualcun altro, su quella che gli era parsa una spiaggia deserta, quando aveva cominciato a passeggiare. La vide immediatamente, stagliata, a pochi passi da lui, in piedi, in riva all’oceano…una figura, inequivocabilmente femminile. Terrel rabbrividì, quando, la luce chiarissima di un lampo, gli permise di scorgerne, dapprima, i capelli… era voltata ma l’avrebbe riconosciuta comunque, anche se fosse stata più distante. “Nikki…”. Mormorò, stupito per averla incontrata a Santa Monica, da sola e per di più, a mezzanotte passata da alcuni minuti. Che cosa ci poteva fare, sulla spiaggia che aveva contribuito a farlo innamorare perdutamente di lei, durante una sera di un anno prima? E perché mai, stava piangendo disperatamente? L’osservò, rimanendole alle spalle, in silenzio e gli sembrò maledettamente infelice. Così sola… e gli parve davvero ingiusto, considerato il fatto che, una donna meravigliosa come lei, avrebbe dovuto avere il meglio dalla vita. Sentì, prepotente, il desiderio di raggiungerla… magari, avrebbe potuto posarle una mano sulla spalla e dirle semplicemente “ciao, come stai?” e poi, le avrebbe offerto il suo aiuto. Invece, scosse il capo, rendendosi conto che, anche se faceva male, la realtà era la stessa… Nikki era ancora la signora Forester e lui doveva stare fuori dalla sua esistenza. Evitare di intromettersi nel suo rapporto di coppia, in modo da non complicarlo. Si accinse ad allontanarsi, attento a non produrre rumore, quando, un nuovo lampo, illuminò il cielo e si stagliò, ad illuminare la figura di Nikki… Terrel sussultò, nell’accorgersi che si era appena girata ed i loro sguardi s’incontrarono, così, poté distinguerne il bellissimo viso, dannatamente triste. Adesso, restava una sola cosa da fare… in fondo, non era cambiato niente, gli sarebbe bastato voltare le spalle e tornare sui suoi passi, fino a raggiungere la sua automobile, per poi correre via, in macchina, verso casa. “Terrel…”. Ma lei lo chiamò, con la voce incrinata dal pianto e continuò a guardarlo, ne fu certo, nonostante l’oscurità non gli permettesse di appurarlo. Restò immobile, aspettando il prossimo lampo per ottenere una nuova visione della donna che amava. “Ciao…”. Esordì, abbozzando un inutile sorriso. “Non intendevo disturbarti, stavo facendo una passeggiata… ma me ne vado subito”. Nikki scosse il capo. “Non a causa mia, ti prego”. Gli disse, schiarendosi la voce, nel tentativo di frenare il pianto che l’aveva scossa fino a quell’istante. “Non fare caso a me, d’accordo? Prosegui pure la tua passeggiata, la spiaggia non è mia…”. “Non è per questo, che…”. S’interruppe, decidendosi ad avanzare in sua direzione e le si fermò di fronte, in modo da poterla vedere anche senza dover usufruire della luce prodotta dai lampi. “Non sei tu, a darmi fastidio, anche se la sensazione che avverto…”. “Quale sarebbe?”. Gli chiese, passandosi una mano sul volto bagnato. “Sta cominciando a piovere…”. “Avverto un dolore profondo… il tuo”. Rispose Terrel, posandole le mani sulle spalle. “E se tu soffri, non posso fare a meno di desiderare…”. “Lo so”. Lo interruppe, sfiorandogli una mano con il viso. “Vorresti confortarmi… ma non sono una bambina, ormai, sono una donna”. “Una donna sposata”. Convenne, sottolineando quell’ultima parola. Scosse il capo, scostandosi da lui e si passò le mani fra i capelli bagnati dalla pioggia, che stava cominciando a scendere fittamente. “Avresti potuto risparmiartela…”. Mormorò, tirando su con il naso. “Vieni qui…”. Terrel l’attirò a sé, con fermezza e la strinse fra le braccia. “Che cosa succede… si tratta di Claire?”. Nikki avvertì una fitta lancinante trapassarle il cuore. Chissà che cosa stavano facendo, in quel momento, Clay e la madre del suo primogenito? Si allontanò, bruscamente, mentre si accorse che ogni cellula del corpo reagiva elettricamente, allo sguardo magnetico di quel bellissimo uomo. Un nuovo lampo illuminò i loro volti, indurendo, insolitamente, i tratti energici di quello di Terrel. “Avanti, vieni con me!”. Le ordinò, all’improvviso. Scorgendola immobile, l’afferrò per un braccio e la trascinò, lungo la spiaggia, per raggiungere la macchina. “Dio mio, sono fradicio…”. Aggiunse, rendendosene conto, come se si fosse appena svegliato da un breve sonno profondo. “Okay, ti porto a casa”. Nikki scosse la testa, più volte, seguendolo malvolentieri. “Non torno, a casa… non mi costringerai a farlo, te l’assicuro”. Decretò, divenendo furente. “Ed ho la mia auto… non darti tanto disturbo per me, Kendall!”. “Disturbo…”. Ripeté, passandosi una mano fra i capelli inzuppati d’acqua, come i loro abiti. “C’è una cabina, per lo meno, ripariamoci dalla pioggia…”. Quando furono all’interno del momentaneo rifugio, il tintinnio della sua cintura che urtava il pavimento, l’indusse a trasalire. “Che cosa accidenti, stai facendo?! Esci immediatamente…”. Terrel la spinse da una parte, seccato per il modo in cui lo stava trattando, divenendo indisponente, come doveva essere stata da bambina. Tutto sommato, avrebbe anche potuto ridere, di quella situazione grottesca… un giorno, forse, quando lo avrebbe ricordato, certo, non ora. “Mi sto sbarazzando di questi vestiti bagnati… forse, non l’hai notato ma negli ultimi pochi minuti, la temperatura è scesa di almeno dieci gradi”. Affermò, con tono autoritario. “E nemmeno il rispetto del tuo virginale pudore, m’indurrà a starmene ancora qui, vestito, a rischiare una polmonite!”. Involontariamente, la toccò di nuovo e Nikki trattenne il fiato, sentendosi schiacciata contro quel corpo che aveva conosciuto perfettamente… avrebbe voluto evitare di ricordare quanto erano stati bene, insieme ma si abbandonò nel circolo protettivo delle braccia di Terrel, dimenticando la rabbia che l’aveva sconvolta, fino a pochi attimi prima. Si rilassò, mentre il battere incessante dei loro cuori e la spinta di quel corpo aitante contro il suo ventre, le fecero scorrere nelle vene un desiderio che divenne insopportabile. La dura carezza della sua peluria sul seno, era incredibilmente erotica… Nikki mosse i fianchi, d’istinto ed avvertì la reazione istantanea di Terrel, contro le sue cosce tremanti. “Piccola…”. Mormorò, ansante, imprigionandole il viso fra le mani. Cercò invano, per un interminabile istante, di resistere alla bellezza di quel corpo e di quel volto, contornato dai capelli grondanti di acqua, si sforzò di contenere l’irresistibile forza che lo spingeva a sfogare le emozioni che era stato costretto a reprimere per un anno. Arrendendosi al desiderio, infine, s’impossessò con uno slancio devastante di quelle labbra meravigliose… che trovò pronte ad accoglierlo. Senza quasi rendersene conto, Nikki si trovò seminuda, distesa sul pavimento, sotto di lui… che tremando convulsamente, lottava per controllare l’uragano di passione che stava per travolgerli e che li avrebbe condotti ad un’inevitabile conclusione. Avvertendo la sua resa, si divincolò bruscamente, trattenendo il fiato. “Nikki, stai accendendo un fuoco che potrebbe divampare…”. L’avvertì, rivolgendosi soprattutto alla parte razionale di sé. Inebriata da quel senso di potere, completamente inatteso e cosciente della propria femminilità, fece scivolare le sue fino a dove il torace dell’uomo si restringeva nella vita… Terrel non si mosse, rimanendo muto e proprio quel silenzio, quella passione così faticosamente repressa, l’eccitarono immensamente. Quando la sua mano giunse ai riccioli lievi che circondavano l’ombelico, sentì tremare i suoi muscoli addominali. “Nikki…”. Protestò, in un gemito che l’indusse a desiderarlo ancora di più. “Che cosa stai facendo?”. “Non voglio parlare”. Sussurrò, sfiorandogli il collo con le labbra morbide. “Non costringermi a parlare…”. La bocca di Terrel piombò, affamata, su un capezzolo della ragazza e la ruvida carezza della sua lingua, la fece fremere convulsamente. Dopo essergli passate sui fianchi, le sue dita scivolarono a cercare il centro del suo rovente ardore. “Mi stai uccidendo…”. Mormorò lui, con voce rauca, sistemandosi in modo da assecondarla. I tuoni continuavano ad esplodere e la pioggia scrosciava, ormai assordante, cancellando ogni ragionamento. Per Nikki c’erano soltanto Terrel ed il suo possente magnetismo, che li imprigionavano, insieme. Perduta nel desiderio che pulsava interiormente, cominciò a muoversi con un ritmo regolare, invitandolo ad unirsi a lei nell’eterna danza dell’amore ma si rese conto che continuava a contenersi. “Non mi vuoi?”. Gli chiese, provocandolo ulteriormente. Terrel le si accasciò sopra, nascondendo la faccia nei suoi capelli bagnati. “Se ti voglio? Oh, mio Dio… come puoi domandarmelo?”. Rispose, piano. “Per me, significherebbe molto più di…”. La voce gli mancò, mentre le mani di Nikki cominciarono ad esplorargli gli angoli più segreti del corpo. Catturandole i polsi con le mani, glieli sollevò al di sopra della testa. Attraverso la semioscurità della piccola stanza, i suoi occhi cercarono il corpo perfetto, appena illuminato. Dio, pensò, quanto era bella… ma così terribilmente vulnerabile. Il momento era sbagliato… avrebbe dovuto impedire che accadesse l’inevitabile. Avrebbe voluto che non stesse soffrendo, al punto da spingersi a donargli se stessa. “Nikki, Nikki…”. Nemmeno lui, riconobbe quella voce così inasprita dal desiderio. Le fece scorrere le labbra sulla guancia, sugli incavi delicati, così incredibilmente belli, sotto gli zigomi. Le assaggiò la gola setosa… e poi, fu inesorabilmente attratto dai seni perfetti. Nel sentimento che provava per lei, c’era il loro passato… tutto il futuro, se Nikki avesse voluto, lo sapeva. “Oh, Terrel, ti prego…”. Quella sommessa implorazione, fu sommersa dallo scroscio della pioggia sul tetto della cabina ma lui l’udì ugualmente, la sentì e provando quasi uno stupore sacro, davanti a quello che poteva sembrare un miracolo, accantonò ogni ritegno e completò la loro unione. Devastato da un sentimento così profondo, da superare ogni violento impulso sensuale, si abbandonò alla marea che lo travolgeva e quando sentì Nikki avvinghiarlo con selvaggia felicità, le fece scavalcare insieme a lui l’onda più alta. Si trattenne sulla cresta, per attimi ansanti, ineffabili, prima di lasciarsi ricadere, esausto, in acque più tranquille. Lentamente, con indefinibile dolcezza, galleggiarono in una calda e dorata nebbia… entrambi senza parole, senza più pensieri coerenti. Fuori, Santa Monica… i tuoni che continuavano a rumoreggiare, lasciarono dietro nuove raffiche violente di pioggia. Elisa Vangelisti Il ragno e l’iguana (estratto dal volume omonimo – Cap. 25 riveduto) Rimasi in piedi di fronte a lui a perdermi tra i suoi baci per un po’. Mi stringeva con attenzione per non esagerare, facendo scivolare le mani sul mio pigiama con gentilezza, molto lentamente. Mi prese in braccio portandomi a letto e nella penombra della stanza lo spogliai un po’ alla volta. Mi ero aggrappata a lui come al solito, mentre mi baciava senza fermarsi, in preda a una frenesia che aveva bisogno di sfogarsi in maniera più marcata del solito. Mi voleva. Mi voleva subito e finalmente sembrava che fosse il momento giusto. Mi diede una mano se era necessario e per il resto mi lasciò fare. Le mie mani scivolarono lentamente dal collo al torace, frugando nella camicia, slacciando un bottone dietro l’altro. Cercavo di essere concentrata in quel che stavo facendo per non perdere il coraggio. Non avevo mai fatto nulla di simile, prima. Né con lui né con nessun altro. Avrei dovuto essere un po’ timida, forse, ma in realtà non era così. Ero curiosa. Trovavo ogni aspetto del suo corpo così intrigante da non fermarmi neppure a pensare alle conseguenze di quel che stavo facendo. Quando la mia mano scese a perlustrare la zona pericolo mi sfuggì un sospiro: non me l’aspettavo. La sua pelle era morbida come il resto del suo corpo o, se possibile, ancora di più. La dolcezza di quella pelle di seta, però, era ingannevole, perché sotto la superficie pareva essere fatto d’acciaio. “Stringi” me lo soffiò all’orecchio, la voce bassa, nessun tremito e respiro spezzato, ma sapevo che gli piaceva. Gli piaceva senz’altro. Era difficile per lui riuscire a dimostrarlo, ma – non essendo più completamente umano – parlare era l’unico modo per compensare questa sua mancanza. La prepotenza del suo desiderio era lì di fronte a me, esibita come sempre, del resto; ma trovarmela fra le mani fu tutta un’altra cosa. “Non essere timida, Rynn, non ti mangio” mi sfuggì quasi una risata. Sul fatto che non mi mangiasse ci sarebbe stato da discutere. “Non sono timida. Ho paura di non sapere molto bene quello che devo fare…” mi sollevò il viso con due dita, quando gli occhi s’incrociarono mi cedettero quasi le gambe, fra le quali stava accadendo qualcosa di molto strano. Lui non disse nulla. Si limitò a togliere la mia mano dai suoi boxer e poi iniziò a leccarla, infilandosi le dita in bocca come se volesse mordermi. La saliva era una delle poche cose umane che gli restavano e non serviva solo a chiudere le ferite dei suoi denti su di me, evidentemente. Mentre passava coscienziosamente la lingua sul mio palmo e fra le dita, mi sembrava di sentirla addosso altrove. Poi, quando sentì di essersi impegnato abbastanza, la rimise dov’era. “Stringi. Sai che non puoi farmi male. Muovi quella mano, Rynn. Sai che non vedo l’ora di essere dentro di te, ma ancora è presto” chiusi gli occhi sentendolo duro e tiepido fra le mie dita. Non ero per niente d’accordo, desideravo solo farlo. Subito. A qualunque costo. Contro qualunque timore. Lo amavo così tanto. “Prendimi” il suo sesso fra le mie dita sembrava urlare di desiderio e prendendoci confidenza pareva si gonfiasse ancora, se possibile. Mi trattenevo dal mordermi le labbra solo per lasciarle totalmente a sua disposizione. Mi sentivo vergognosamente bagnata, giù in basso, la seta del pigiama era madida di certo, non avevo bisogno di controllare. Non avrei raggiunto quel livello di eccitazione nemmeno toccandomi da sola e in quel momento non mi stava proprio toccando nessuno. Avrei voluto che lo facesse: gli sarebbe piaciuto? Arrivò, il bacio. Sentirmi la sua lingua fresca in bocca mentre lo masturbavo mi diede la scossa, un effetto a voltaggio letale. Una scintilla vitale scaturita da lui e da me, potenziata al massimo dal sentimento che ci animava e ci faceva perdere la testa. La tensione continuava a salire e avevo paura di non riuscire più a pensare. La sua eccitazione si fondeva con la mia trasformando il desiderio in una forma sottile di dolore. Avrei voluto morderlo, morderlo e basta, ma non lo feci, perché appena mi fece riprendere fiato mi parlò sulle labbra e le sue parole erano l’unica dimostrazione chiara di come si sentiva. “Non sei pronta”. “Sì invece” ansimai posando la bocca contro la pelle tiepida del suo collo. “Sono così pronta che non ne hai un’idea. Non mi sono mai sentita così… così…” ma non potevo continuare, perché non trovavo le parole. “Lo spero, Rynn, spero di piacerti” spero di piacerti? Il mio ragazzo era un vero idiota. Stavo per prendere fuoco, altro che piacermi! Ci inginocchiammo sul letto e Gabriel si mise dietro di me, portandomi le mani sui bottoni del pigiama per farli uscire uno ad uno, mentre mi annusava il collo. Aprì la bocca mordendomi per finta e fece scivolare via il pigiama dalle braccia. Indossavo ancora i pantaloni, ma lo sentivo appoggiato contro di me in maniera tale che era come se non avessi niente addosso. Posò entrambe le mani sul mio stomaco, facendole poi scomparire oltre l’elastico dei pantaloni, mentre mi baciava piano il collo e dietro l’orecchio. Mi sentivo bruciare. Percepivo il suo corpo fresco in maniera vaga, come attraverso la nebbia di un geyser. Mi accarezzava pigramente come se non dovesse andare oltre a questo. Iniziavo a rantolare. Pensavo che non mi sarei sentita mai più eccitata di così, ma mi sbagliavo. Mi sdraiò sul letto e sollevai i fianchi per togliere i pantaloni, poi mi baciò nel punto in cui prima mi stava accarezzando. E allora persi davvero la ragione. La sua lingua morbida si scontrò contro la punta di un iceberg in fiamme. Ardevo. La mia passione esplose contro la sua bocca e lanciai un urlo che smorzai contro un cuscino. Lo sentivo bagnarmi, accarezzarmi, esplorare ogni piega ed ogni anfratto con una lentezza straziante. “Ti amo, Rynn. Piccola ragazzina perversa, ti amo da morire” me lo sussurrò in mezzo alle gambe, mentre mi spalancavo sotto l’assalto dei suoi baci. M’inarcai contro di lui presa da una frenesia che sommerse ogni cosa: la prudenza, la paura, la fiducia, persino l’amore. Non ero altro che questo, come creta fra le sue mani. Avrebbe potuto fare tutto quello che gli sarebbe passato per la testa ed io non l’avrei fermato. Con il leggero velo di razionalità che mi era rimasto, capii perché avesse insistito tanto sul fatto che dovevamo provare di giorno. Non so come si sentisse Gabriel ma, nello stato in cui ero io, se la situazione fosse stata ribaltata l’avrei prosciugato fino all’ultima goccia. Lo chiamai quasi piangendo, avevo bisogno di sentirmelo contro, subito. Lo cercai con le mani e allora coprì il mio corpo con il suo. Poi, baciandomi sulla bocca e senza aspettare ancora, entrò dentro di me. Lo desideravo così tanto che istintivamente sollevai i fianchi andandogli incontro. Sentii un dolore improvviso e bruciante che mi fece tornare di botto sul materasso, oltre al quale però non potevo andare. Gabriel mi sussurrò delle parole che non riuscivo a capire, ma il tono della voce bastò a tranquillizzarmi. Me lo aspettavo. Restammo immobili per un momento, poi lentamente lui ricominciò a muoversi, riprendendo a baciarmi. Capivo perché mi aveva bagnata tanto, perché avesse preteso lo stesso per lui, perché aveva voluto aspettare che il desiderio mi rendesse così umida da grondare desiderio fino in mezzo alle cosce. Per lui. Perché riuscissi ad accoglierlo senza che infastidisse troppo la mia carne tenera di vergine inesperta. Bruciava. Sentivo un dolore che si faceva via via sempre più lieve ogni volta che si sollevava e tornava a spingersi dentro di me. Era dolcissimo e non so quanto gli costasse essere così delicato. O forse no: forse era normale così. A volte in certi film vedevo scene di passione più violente e mi ero sempre chiesta che tipo di desiderio avrebbe condotto due esseri umani ad essere così ferocemente presi dal godimento da non avere nessun tipo di riserva. Ero inesperta, ma non ingenua ed era chiaro che la prima volta era necessario una specie di rodaggio. Se non altro per me. Avevo le mani abbandonate oltre al cuscino, gli occhi chiusi e le cosce leggermente sollevate: mi venne in mente il quadro che mi aveva tanto colpita nell’atelier. Poi nella mia testa non rimase più spazio per nulla. Sentivo un piacere sottile che mi attraversava a ondate, che aumentava lentamente e combaciava con il movimento dei suoi fianchi su di me. Lo strinsi afferrandolo per la schiena, senza dire niente. Aprii un attimo gli occhi rapita dalla curiosità, senza più l’ombra di imbarazzo. Era fulgido e lucente come la stella del mattino e aveva gli occhi chiusi. Era bellissimo. Gli baciai la mezzaluna sulla tempia e sorrisi. Poi il piacere divenne più forte, mi sovrastò al punto che mi lasciai condurre senza oppormi e richiusi gli occhi anch’io. Allora mi lasciai andare e non decisi più nient’altro. Alessia Cutrufo Improvviso Il mio corpo disteso sui cuscini rossi di uno scricchiolante divano, una musica dolce di sottofondo, nell’aria l’odore intenso delle ore appena trascorse. I suoi passi leggeri, accompagnati dall’aroma caldo del caffè appena preparato. Il suo sorriso che si avvicina, avido ancora di noi. Quella notte era nata così, come il bisogno astratto ma potente di svestirci dei panni del consueto vivendo di battiti. Un incontro casuale, una birra tra amici in un pub in cui il fumo delle sigarette faceva ancora da padrone sull’intenso odore di birra e di frittura. I bicchieri erano intarsiati di minuscole goccioline, giocavo con un dito a farle incontrare, forse sperando che spezzassero il silenzio. Poi, la sua voce…Alzai gli occhi, pronunciò solo il mio nome,nient’altro, in quel breve istante in cui gli sguardi si toccarono forse per la prima volta, era racchiuso quello scioccante uragano che ci avrebbe di lì a poco travolti. La nostra mente si liberò…non ricordo nemmeno come, ma le sedie si avvicinarono e io per la prima volta in quella serata rimasi senza respiro. Il calore delle sue labbra salì potente sul mio viso, ricordo il suo sapore mentre cercava con la sua di trovare la mia lingua …Le loro danze si portarono presto alle nostre mani… si cercavano, si trovavano, per poi perdersi di nuovo… Ansimanti ci fermammo, forse per un istante capimmo che l’uomo al tavolo vicino ci stava guardando sorridendo. Mi sentii tirare, presi veloce la borsa…non avrei mai immaginato che potesse avere tanta forza e che il desiderio poteva portarci a correre per strada, continuando a cercarci con le labbra. …Le mie mani tremavano nelle sue… Salimmo di corsa le scale del mio hotel, di quelli più simili a vecchie case d’incontri, con la moquette che raccontava di rapporti di pelle e di respiri interrotti, e la carta da parati che sembrava voler scoprire un muro vivo. Sentivo il suo calore sulla pelle, il suo petto si muoveva sempre più velocemente finché non arrivammo a quel freddo letto dalle lenzuola blu… Conosceva me, le mie paure, la mia storia…mi prese per mano e mi accompagnò su quel letto…mi baciò iniziando a spogliarmi dolcemente ma con la passione di un uomo che mai avevo visto prima. In quel momento il tempo e lo spazio dilatarono, i nostri corpi si desideravano, si volevano e noi non potevamo far altro che accontentarli. Furono ore in cui il piacere raggiunse più volte l’apice, i nostri corpi si fusero, le nostre mani scoprirono angoli inesplorati, i nostri respiri inebriarono l’aria… Più volte crollammo sfiniti sui morbidi cuscini, fissandoci, in silenzio, baciandoci dolcemente per far rallentare i battiti….più volte le sue mani e la sua bocca mi condussero in luoghi lontani facendomi gridare…Le nostre fantasie si fondevano, compenetravano pianeti che mai avremmo pensato di esplorare…Uniti come se la paura più forte fosse perdere anche un solo istante di quella strana alchimia. Era un poeta, quella notte scrivemmo insieme, nudi, dopo aver fatto l’amore…Mi porse la tazzina, fuori albeggiava… tra le mani il foglio con la nostra poesia, mi abbracciò da dietro … Sapevamo che mai più avremmo vissuto quella notte …Sorridemmo nell’ultimo bacio…per fermare il sapore di un amore destinato a rimanere inchiostro sul foglio bianco... Carmine Rosano Istantanee Il profumo del caffè che brontolava in cucina giunse fino al soggiorno, dal suo suono capì che era ormai pronto e si allontanò, tornando poco dopo per servirglielo. Sofia osservava con attenzione ogni suo movimento, sorridendo a tratti del suo modo di fare un po’ impacciato, sentendosi lusingata per quella gentilezza colma di tenerezza e per le piccole attenzioni con cui lui la serviva. Sembrava quasi un bambino, Enrico, aveva un sorriso timido e ingenuo. Molte volte si erano incrociati nel cortile del condominio o sul pianerottolo, aveva notato il modo in cui lui la guardava, il suo sguardo in cui traspariva il desiderio soffocato dall’imbarazzo, dal non saper trovare il modo di avvicinarla. In quegli occhi poteva leggere la passione di un amante dolce, insaziabile, poteva intuire il fremito del suo corpo, immaginarlo nudo e imperlato di sudore mentre raggiungeva l’estasi. Un giovane uomo dalla pelle morbida da saggiare a piccoli morsi, facendo vibrare il suo piacere con sapienti carezze, fino a sentirlo suo, per poter leggere nei suoi occhi il calore di un amore incondizionato, implorante, come quello che tanti le avevano già giurato, morendo tra le sue braccia. Ma c’era molto di più nei suoi occhi, c’era qualcosa di ineffabile, una tristezza profonda, misteriosa, una strana familiarità che la incuriosiva e la spingeva a ricambiare quegli sguardi impacciati. Lo colse di sorpresa, invitandolo a farle compagnia per una passeggiata e lui accettò, quasi balbettando e annuendo con eccessiva enfasi, arrossendo quando Sofia rise della sua reazione. Camminarono a lungo per le strade della città avvolta nel torpore di un giorno di festa, indugiando nella lentezza di un tempo che ricadeva su se stesso. Ascoltarono i propri passi risuonare tra le case di quella piccola città, abbandonandosi alla dolce nenia del suo silenzio. Le strade vuote e assolate, sembrava si fossero scrollate di dosso quel frastuono frenetico che le opprime e nasconde la loro vera bellezza, per pochi istanti tornavano a splendere tra i bagliori di una purezza originaria e senza tempo. Era proprio come loro quella città, persa nella propria solitudine e travolta da vite estranee che la investivano senza badare a lei, ed ora l’ascoltavano insieme quella voce solitaria, parlando con essa e attraverso di essa con le vibrazioni silenziose delle loro anime, che sembravano essere talmente vicine da potersi baciare mentre camminavano l’uno accanto all’altra senza parlare. Ora sedevano sul divano, sorseggiando il caffè, il loro pomeriggio li aveva uniti senza farli conoscere, avevano comunicato solo con il silenzio, come se le parole fossero troppo pesanti per loro, non sapevano nulla delle rispettive vite, ma era come se si conoscessero da sempre, come se quel momento così intimo li avesse attesi a lungo. Il brivido di un’attesa indefinita soffiò tra le tende di quell’atmosfera soffusa, nella luce rischiarata dalla crescente penombra del tramonto che entrava nella stanza. Sofia fece scivolare un piede fuori dalla scarpa e lo allungò poggiandolo sulle sue gambe, cercando le carezze che di lì a poco lo accolsero con un delicato tepore che salì lentamente, sfiorandole le cosce. “Adagio” pensò tra sé, mentre il suo giovane amante indugiava, solleticando lentamente ogni lembo della sua pelle, come se potesse ascoltare i suoi desideri. Trattenne i fremiti di quel piacere come se non volesse perderli, assaporandoli con gli occhi chiusi, mentre seguiva ogni carezza, facendo riecheggiare quel brivido sul petto liscio di Enrico, frugando nel tepore che sentiva pulsare sotto il proprio piede. Sentì quelle mani sconosciute e familiari, nel tocco lieve che percorreva i sentieri ombrosi del suo piacere, come un viandante che fa ritorno alla città natia dopo un lungo viaggio in terre lontane. Enrico le sollevò il piede e se lo portò alle labbra, sfiorandolo con piccoli e lunghi baci sulle dita, accarezzando con la punta della lingua il sapore della sua pelle, lo bevve a piccoli sorsi, lasciando che quel piacere lo riempisse fino a traboccare, riversandosi nella sua anima assetata. Erano emozioni soffici, le loro, come la neve che cade nel silenzio della notte, e Sofia si abbandonò ad esse, frugando tra i suoi capelli mentre l’umido della sua bocca seguiva la calda scia lasciata dalle mani, che ora la stringevano in vita tenendo su la gonna. Lo attirò a sé, baciandolo e sentendo il sapore del proprio piacere nell’abbraccio morbido della sua lingua, lasciando che Enrico la penetrasse dolcemente, restando fermo dentro lei e accarezzandole il seno ansimante. Rimasero così per alcuni istanti, fissandosi negli occhi come per cercare la propria immagine riflessa, immobili e uniti nella tensione di un amplesso sospeso nella carezza dei loro respiri. Si scrutarono nei loro amori passati, immergendosi in un tempo in cui forse si erano già amati, in un ricordo intenso ed evanescente, tra i bagliori di quella illusione, del sogno improvviso che li aveva travolti, giocando con la solitudine dei loro destini che per un attimo si erano intrecciati. Poi Sofia distolse lo sguardo e lo spinse via, allontanandolo da sé, trattenendo il tepore dell’ultimo abbraccio dei loro respiri. Si alzò, rivolgendogli un ultimo dolce e misterioso sorriso… e in silenzio, così com’era entrata, uscì, portando con sé il profumo di un ricordo intrappolato tra le onde del tempo. Massimiliano Cara L’ascensore Lo trovai nudo dentro l’ascensore. Come una risposta arrogante. Come uno schiaffo in pieno volto. Che domanda feci per meritarmi tanta sconcia audacia… Mi vestivo. Mi spogliavo. Mi guardavo nuda di fronte allo specchio. Uscivo dalla doccia e poi entravo in camera con la finestra sempre senza la censura delle tende. Sapevo che mi guardava. E lui sapeva che io non lasciavo niente al caso. L’ultima volta rimase fermo, come sempre. Con il suo sguardo fisso su di me. Con l’unica differenza che lasciò andare un po’ di se sul pavimento. Risposi con un sorriso compiaciuto e un po’ stronzo. Dopo aver messo lo stop all’ascensore, mi prese e mi portò in alto. Ero ancora bella e ordinata. Pronta per andare dai miei alunni. Incollò la sua bocca vorace sul collo. Sul seno. Sulla mia bocca. Scostò le mutandine. Rispose con un sorriso malizioso e compiaciuto. Mi trovò già tutta bagnata. Dieci minuti di coito. Ancora mi tremano le gambe. Anche se ora sono seduta sul letto. Fisso lo specchio. Fisso la finestra senza tende. Ma lui non c’è. Andrea Mazzolini Rosa Bianca (estratto) Certe cose si sanno. Anche se non sono scritte sui giornali. Che il sindaco se la faccia con la Bruna, quella dell’anagrafe, lo sanno tutti. Fossi sua moglie lo butterei fuor di casa a calci. E invece eccoli lì, la domenica che vanno bellini bellini alla messa abbracciati come due fidanzati. Che ipocrisia, gente! Le cose si sanno, dicevo. Come? Venite in negozio da noi, basta una semplice messa in piega e quando uscite saprete tutte le ultime novità. Certo, certo, dipende dalle clienti. Tutte amano ascoltare ma mica tutte raccontano tutto, magari solo qualche tessera. Ma datemi un paio di settimane, basta incrociare le voci e il mosaico è completo. E pensare che io non sono pettegola, io non spiattello tutte le novità. Ci pensano le altre ragazze, Teresa in particolare. Io chiacchiero, chiacchiero, ma in termini generali, non mi piace fare riferimenti alle mie clienti; e quasi sempre me ne esco con una frase a effetto. Per questo mi chiamano la filosofa, e manco so cos’è la filosofia. Insomma certe cose si sanno. Anche se l’ultima notizia è di quelle da tenere segrete. Veramente. Me l’ha confidata Teresa. C’è quella nuova palestra che hanno aperto, sulla strada per andare in città, Perfect Body, mi sembra. Pare che oltre alle normali attività ci sia un massaggiatore, molto in gamba. Secondo Teresa è un dio del sesso, no, lei non c’è mai stata ma che dici, è sposata (e parla sempre male del marito), l’ha sentito dire in giro, delle amiche sue hanno voluto provare una volta. Lo chiamano “il consolatore“. Insomma questo massaggiatore, finito il lavoro per cui viene pagato, fa una domanda innocente alle clienti che gli piacciono. Serve altro? E se la cliente risponde “ha ancora del tempo per me?”, il gioco è fatto, il tempo si trova. Sono diverse settimane che voglio andare in questa palestra. No, che avete capito, a me il massaggio basta e avanza, non voglio altro, con gli uomini ho chiuso. Sono soltanto curiosa di vedere come è fatto questo dio del sesso. Che c’è di male? Per fortuna il lunedì pomeriggio questa palestra è aperta e c’è pure il massaggiatore: con gli orari che faccio gli altri giorni non ce la farei proprio. Sono arrivata in palestra con un bell’anticipo rispetto all’orario fissato. Al telefono mi aveva risposto una tizia fintamente gentile, dev’essere questa qua con i capelli rossi che sta all’ingresso. Ma chi gliel’ha tinti così male? Arrivato il mio turno sono entrata in una stanzetta profumata, con un lettino, le luci soffuse e questa musica new age. Dice che faccia rilassare, mah. Eccolo qua, ma quale dio del sesso, ma che dice Teresa? Io mi aspettavo un vichingo di due metri, con due spalle così ed ecco questo signore anonimo, si chiama Guido, ma che nome brutto è Guido; avrà più di quarant’anni, altezza media, non brutto ma niente di speciale, già qualche capello bianco. Mi chiede di cosa ho bisogno. Secondo te cosa sono venuta a fare qua? A raccontare barzellette? Rispondo che sto tutto il giorno in piedi, in negozio, e soffro di male alla schiena e alle gambe. Ci penso io, ha risposto. Ma questo Guido ha mai detto in vita sua una frase con più di tre parole? Mi ha chiesto di spogliarmi, di rimanere soltanto con le mutandine, ah, lo vedi questo qua, devo pagare per farmi vedere le tette. Se pensa che poi, io Samanta, alla fine, gli chiederò dell’altro, si sbaglia di grosso. Senza nessun preambolo mi fa sdraiare sul lettino e comincia a spargermi di oli profumati e poi a massaggiarmi. Devo ammettere che ci sa proprio fare con le mani, però. Ma dove ha imparato? Mi viene in mente che il primo e ultimo uomo che mi ha messo le mani addosso è stato Francesco, il mio ex fidanzato, saranno passati quattro anni dall’ultima volta, poi mi ha lasciato. La sera, a letto, mi saltava addosso, mi strizzava le tette, faceva i suoi sporchi comodi, rantolava un po’, mi diceva ti amo (i primi tempi, poi aveva smesso), si girava dall’altra parte e si addormentava. Ma che te ne fai degli uomini, dico io, è stato un bene che se ne sia andato con quella zoccola polacca. Ma perché parlo ogni tanto di Francesco? Ma chi se ne frega! Questo massaggio, piuttosto, è una cosa speciale, non so come descriverlo, sono una filosofa mica una scrittrice, io. Sto bene, le sue mani sanno come muoversi sulla mia pelle. Saranno le luci soffuse, sarà questa musica, non lo so che è, ma bisogna spargere la voce a tutte le clienti del negozio. Questo Guido vi rimette al mondo. Non lo so poi quanto è durato questo massaggio, devo aver perso la cognizione del tempo. Alla fine lui si allontana e mi fa: serve altro? Ed io, così, senza pensarci due volte: ha ancora del tempo per me? Certo, risponde lui, abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Non so come ha fatto ma mi ha tolto le mutandine come fosse il gesto più naturale del mondo; ha cominciato a baciarmi il collo, poi, molto lentamente è sceso sul mio petto e ancora più in giù, fino alla parte interna delle cosce. Con le sue mani così abili si è fatto subito strada ed ha cominciato a baciarmi là nel mezzo, Francesco queste cosa non la faceva, diceva che non gli piaceva l’odore. La lingua di Guido invece si è mossa rapida e ha continuato a muoversi dolcemente, esplorando la mia femminilità, seguito dalle sue dita. Mi sono sentita uno strumento, il suo strumento. E lui un musicista straordinario. Con le sue mani e la sua bocca tirava fuori di me una musica nuova, intensa, mai sentita prima. Poi è salito su di me ed è entrato nel mio giardino. Ho sentito di nuovo le sue mani dappertutto, ma non come prima durante il massaggio. Le sue mani questa volta mi hanno avvinghiata, sembrava mi volesse strappare la pelle. Il ritmo ora era diventato quasi brutale. Oh cielo. Ho sentito l’odore forte della sua pelle. Ho sentito l’odore della sua bocca che sapeva del mio odore. E’ l’ultima cosa che ricordo. Poi sono volata in un’altra dimensione, fuori da quella stanza, da quella palestra. Lui era il mio dio del sesso, io in quel momento la sua dea. Quando sono uscita dalla stanza non ero la stessa Samanta di quando ero entrata. Il mio consolatore invece è rimasto lì, la sua giornata non era che all’inizio. Ho cercato le chiavi nella borsetta, sono salita in macchina, mi sono guardata nello specchietto retrovisore per rimettermi a posto. E nello specchietto sapete chi ho visto? C’era Teresa che entrava rapida in palestra… Certe cose si sanno, ma forse è meglio non raccontarle troppo in giro. Adriana P. Sam (estratto) “Non ci mise molto a farle salire il primo piano di scale, mentre continuava a giocare con la lingua nella sua bocca, e ancora meno tempo impiegò a toglierle di dosso quella sola tunica che ancora portava: la spinse sul letto, in quella grande stanza, e si fermò a rimirare ogni angolo della sua bellezza, sospirando estasiata ad ogni occhiata. Pensò a cosa avrebbe voluto farle, in un attimo di indecisione: avrebbe voluto sfiorare il suo corpo, nella sua interezza, con la punta della lingua e assaporarla lentamente, godendo e gioendo del suo gusto, eppure avrebbe anche voluto possederla, stringerla, passionalmente, velocemente, per respirare a pieno il suo piacere. Si avvicinò al letto, decisa ormai a comportarsi come il suo corpo e la sua mente in quel momento le chiedevano, e, sentendo il suo cuore battere nel torace all’impazzata, le strinse i seni, quel tanto che bastò a far sussultare la sua amante: avvicinò la bocca e morse prepotentemente prima uno e poi l’altro capezzolo, gustando il loro dolce sapore. Non poteva resisterle, non poteva attendere ancora oltre: voleva vederla fremere di piacere per lei, in un orgasmo così intenso da non poterlo dimenticare. Anche Sam si spogliò, velocemente, e tornò a stringerle il florido seno, mordendole i dolci capezzoli: i loro caldi corpi, iniziarono a muoversi, fregandosi e sfregandosi, uno contro l’altro, in un movimento continuo, ripetitivo e sinuoso. Non si conoscevano, eppure si desideravano. Non si conoscevano, eppure si stavano dando ciò che desideravano. E più Sam la stringeva più lei fremeva; e più Sam la mordeva più lei si eccitava. E quell’eccitazione, tra le sue gambe, non passava inosservata a Samantha, che bramava nel conoscerne il sapore: fece scivolare la sua bocca lungo la pancia e i rotondi fianchi, baciandoli e lasciandoli umidi al passaggio delle sue labbra, e arrivò a quel pube di un colore castano chiaro, leccando dolcemente il centro del suo piacere. Al passaggio sentì la sua lingua bagnarsi della sua goduria; sentì i suoi muscoli inguinali contorcersi, chiedendo ancora di essere stimolati. Samantha lasciò libera la sua lingua di lambire e libere le sue labbra di baciare con passione ed insistenza quel piacere e quella goduria, di entrambe. La lingua si insinuava a conoscere la nuova amante, in ogni suo dettaglio, e tentennava ad attimi alterni nel volerla conoscere ancora, più approfonditamente. Lei fremeva, sospirava, si contorceva ed, eccitata, amava: donandosi completamente a chi ancora non conosceva. Eppure già si fidava: il corpo intriso di umori si concedeva, si fidava, e godeva. Quand’ancora Samantha stava nella sua intimità, un piacevole urlo squarciò il silenzio venutosi a creare nella notte. Quand’anche Samantha iniziò ad esplorare col tatto la provenienza di quell’amplesso e le sue dita ad accarezzare quel pube color castano chiaro, un altro estasiato urlo percosse le pareti. E più il letto si bagnava di piacere, più Samantha era desiderosa di darne; e più lei si eccitava più avrebbe voluto dar piacere a Samantha. Quando riuscì a metterla sotto il suo corpo, Sam scoprì le più focose voglie della sua nuova amica: la voleva possedere, forse anche troppo violentemente, eppure tutto questo la stava facendo godere come mai le era accaduto. Sentiva le sue mani e le sue labbra muoversi lungo il suo corpo e, come se fosse in uno stato di trance, lasciava che lei facesse ciò che più desiderava, senza alcun freno inibitore, che invece era subentrato in molte altre circostanze: sentiva di voler ricevere in eguale modo il piacere regalato e, stranamente, più i suoi sensi si perdevano negli amplessi, più voleva perdersi; più sentiva lei pervaderla e invaderla, più la voleva in sé a colmarla.” Horror Abbiamo concluso la settimana dedicata all’horror e alcuni pezzi hanno lasciato senza fiato molti dei lettori, per non parlare degli incubi, che sorgeranno con il favore delle tenebre, al ricordo di alcuni testi veramente accattivanti. Un consiglio spassionato per tutti coloro un po’ deboli di cuore, non leggete questi racconti con il calare del buio. Non vi svelo nulla per non togliervi il piacere di andare a verificare di persona quanto possano farvi paura, ma preparatevi a sentire gli scossoni che alcuni racconti vi daranno emotivamente. Irma Panova Maino Cristalli di ghiaccio “Che dice Capitano, un altro poveraccio morto dal freddo?” L’uomo chiamato in causa si strinse nel cappotto provando un brivido gelido e non tanto per la temperatura polare, quanto per l’ennesimo corpo rinvenuto durante quella settimana, inspiegabilmente deceduto a causa di un unico colpo inferto al petto. Un buco scavato fin dentro nel ventricolo, il quale aveva paralizzato il cuore, interrompendo qualsiasi funzione vitale e dai primi rilevamenti, le uniche tracce utili erano state dei cristalli ancora ghiacciati, rinvenuti all’interno di quel tunnel letale, come se l’arma fosse stata un punteruolo gelato oppure un pezzo di stalattite strappata da qualche cornicione. Il Capitano alzò lo sguardo verso il proprio Maresciallo, scuotendo la testa sconsolato. “Queste morti mi stanno facendo perdere il sonno. Nessun testimone, nessuna traccia utile, niente di niente e non so più a quale santo votarmi.” L’altro non rispose, non aveva nulla da aggiungere e in quella fredda mattina di febbraio, risparmiare sul fiato aiutava a trattenere il calore corporeo. Tuttavia un giornalista zelante non si lasciò sfuggire l’occasione di sorprendere il titolare del caso da solo, senza avere l’immancabile codazzo di cronisti, fotografi, reporter e cameramen al seguito. “Capitano? Capitano una domanda!” L’altro sbuffò producendo una nuvola di condensa, che parve cristallizzarsi prima ancora di riuscire a disperdersi nell’aria. “Merini, fa un freddo cane questa mattina, non possiamo rimandare?” Il giornalista sorrise allungando il proprio palmare sotto al naso dell’ufficiale. “Capitano e quando mi ricapita più di beccarla da solo?” Il Maresciallo, felice di non essere lui quello sottoposto alle domande della stampa, sgattaiolò verso la macchina di servizio, sfregandosi le mani e battendo i piedi prima di entravi. Al Capitano non rimase altro da fare che sorridere di buon grado, in attesa che il giornalista facesse il suo lavoro. “Avanti Merini, mi faccia le sue domande e cerchi di sbrigarsi.” “Ecco la prima Capitano, questo è il quarto morto in una settimana, si tratta forse di una vittima di un omicida seriale?” L’ufficiale squadrò l’uomo con un certo astio, non sapendo se mandarlo subito a quel paese o trattenersi il tempo necessario per cercare di confutare certe ipotesi: scatenare il panico non era nell’interesse della comunità. “Non userei certi termini, Merini. Parlare di serial killer è eccessivo.” “Tuttavia non può negare che quattro cadaveri siano veramente tanti. Due uomini, una donna, un ragazzo… tutte persone diverse fra di loro, senza nulla che parrebbe accomunarle… a me sembra che…” L’ufficiale lo interruppe, prima che le divagazioni prendessero una piega imbarazzante. “Senta Merini, se lei ne sa più di me, allora sono io che dovrei fare le domande a lei e non viceversa. Nulla lascia supporre che si tratti di un maniaco o roba del genere, quindi non scriva fesserie e non faccia congetture controproducenti!” Il giornalista non perse il proprio sorriso, ma negli occhi ogni traccia di divertimento si spense. “Capitano, ci sono quattro morti che chiedono giustizia e la cittadinanza ha il diritto di sapere se può aggirarsi liberamente dopo le cinque del pomeriggio per le strade!” “E chi glielo impedisce?” borbottò il graduato arrivando in prossimità della macchina, ma prima di riuscire a salire a bordo, il giornalista gli pose ancora una domanda: “Sono stati tutti uccisi con qualcosa di affilato, no? E lei questo come lo definisce?” Per un momento i due uomini si guardarono negli occhi, ognuno cercando di decifrare quanto ne sapesse l’altro, alla fine l’ufficiale si produsse in un sorriso tirato. “Maresciallo, porti il signor Merini in caserma, direi che è una persona informata sui fatti e forse è in grado di far luce su quello che per noi è un caso inspiegabile.” “Ma lei non può…” protestò subito il giornalista. “Non posso fare cosa? Interrogarla? Vogliamo vedere?” “Senta Capitano, mettiamoci d’accordo, io le dirò quello che so e lei mi dirà quello che può.” L’ufficiale si lasciò sfuggire una risata alquanto amara. “Quello che io posso dire? Andiamo Merini, ha voglia di scherzare! Le sue fonti sono migliori delle mie, a quanto pare. Io ho quattro morti che aspettano e nessun colpevole da portare ai miei superiori. Ho un’arma del delitto che pare inesistente e nessuna spiegazione valida.” “Il ghiaccio Capitano, il ghiaccio. Sono stati uccisi con qualcosa di gelato, anche l’ultimo, non è vero?” L’ufficiale si appoggiò stancamente alla macchina, facendo cenno al Maresciallo di rientrare nel veicolo, come se la conversazione in corso dovesse rimanere privata. Guardò il palmare in mano al giornalista e questi, intuendo le intenzioni dell’altro, spense l’apparecchio e lo ripose in tasca. “Merini cosa sa veramente di questo caso?” L’altro valutò per un istante che cosa rispondere, poi con un sospiro fece un cenno con la testa verso il punto in cui la scientifica stava ancora facendo i rilevamenti intorno al cadavere. “Anche quello è morto pugnalato al cuore, no?” “Sì Merini, anche quello. Allora cosa sa?” Il giornalista tornò a fissare lo sguardo in quello del carabiniere e finalmente parvero intendersi. “Conosco un barbone, che a sua volta conosce un altro barbone, che dice di aver visto qualcosa la sera dell’uccisione del ragazzo, quello uscito dall’università.” “La seconda vittima?” “Sì, quella. L’amico del mio amico dice di aver visto una strana cosa, una forma tutta bianca, aggirarsi per quel tratto di strada, ma nevicava troppo forte per capire esattamente che cosa fosse.” L’ufficiale parve trasalire. “Come sarebbe a dire una forma bianca? Una forma di cosa? Di formaggio?” la tensione nella voce era palpabile, così come l’improvviso nervosismo del Capitano. Merini istintivamente fece un passo indietro, alzando le mani come per volersi difendere da un’eventuale accusa. “Ehi, non sono io che sto dicendo questo! Nemmeno io ho capito che cosa voglia dire questa storia della forma bianca… oltretutto la mia fonte nell’Istituto di Medicina Legale mi ha confermato che le uniche tracce trovate, nell’unica ferita rilevata sui cadaveri, presentava residui di acqua piovana e una certa percentuale del pulviscolo presente nell’atmosfera. E questo fa pensare ad un’arma fatta con del ghiaccio. Lo so che sembra assurdo, ma sono giunti tutti alla stessa conclusione.” Il Capitano sbuffò risentito. “A qualcuno di quelli del laboratorio metto le manette ed un bavaglio! Va bene… e quindi? Questa forma bianca che forma ha?” Il giornalista sventolò le mani come a voler cercare le parole adatte, ma non trovandole, alla fine sospirò di nuovo scuotendo la testa. “Non lo so… non ho ben capito quello che ha tentato di dirmi il mio amico e credo che nemmeno lui abbia capito bene che cosa intendesse dire il barbone di sua conoscenza, ma sembra quasi che stiamo parlando del classico fantasma con un lenzuolo.” Il Capitano sgranò leggermente gli occhi ed un lieve sorriso ironico si dipinse sulle sue labbra. “Un fantasma con lenzuolo? Come quello dei castelli scozzesi con tanto di catene? Ma andiamo Merini, non crederà veramente ad una panzana del genere?” “Non so cosa credere Capitano, ma tutto questo è strano, non trova? Sono arrivato presto sul posto, questa mattina, ho visto anch’io che non c’erano impronte intorno al cadavere…” “Non significa nulla, ha nevicato parecchio nelle ultime ore, qualsiasi traccia potrebbe essere stata seppellita sotto altri cumuli di neve!” Tuttavia, proprio mentre lo diceva, il Capitano parve dubitare delle proprie parole e istintivamente lo sguardo corse verso il cadavere che veniva issato in quel momento sulla barella, per essere portato via da un’ambulanza in attesa. Per quanto assurdo potesse sembrare, anche lui aveva avuto l’impressione che non vi fossero impronte intorno al cadavere, anche se queste avrebbero potuto essere nascoste sotto altri strati di neve fresca. E se mancavano delle impronte intorno al morto, allora cosa lo aveva ucciso? Un fantasma con un lenzuolo bianco, armato di un punteruolo fatto con il ghiaccio? Scosse la testa senza nemmeno rendersi conto del gesto. Più ci pensava e più gli sembrava verosimile come ipotesi, ma era certo che nessuno avrebbe creduto ad una teoria del genere. * Fa freddo in questo immenso mondo candido e ghiacciato. Fa freddo e sento le estremità rigide, totalmente inutili. Non so nemmeno io perché mi trovo in questo stato, perché sono stato costretto in questa immobilità, rattrappito dentro a questo involucro. Non ricordo nulla di ciò che è stato, nulla di quello che ho vissuto, provato, assaporato… sento la mia anima congelata alla stessa stregua delle mani o dei piedi. Vorrei poter dire che la mia vita sia servita a qualcosa, ma non ricordo nulla. Loro sono vivi, sono tutti vivi e questa certezza mi divora, mi strazia, rende la mia consapevolezza del mondo un luogo orribile in cui condividere il mio orrore. Sento l’odio pervadere le mie vene inutili, riempirle con dell’acido astioso, dando vitalità a un corpo che non esiste. Loro mi guardano, mi deridono, mi girano intorno con le loro faccette insignificanti. Mi toccano, palpeggiano senza alcun riguardo per i miei sensi, i miei desideri. Sono invadenti, non si curano del male che potrebbero farmi, mi rimodellano pensando solo al proprio divertimento, alla gioia dei loro figli, piccoli vandali in erba. L’odio è il carburante che porta energia nelle mie forme, l’odio corroborante che fa smuovere il mio piccolo universo gelato. Vedo le altre vite scorrermi intorno e non posso interagire come vorrei, non posso comunicare… posso solo uccidere… * Il bambino guardò fuori dalla finestra. La sua camera si affacciava proprio sul giardino interno, dandogli la gioia di potersi godere la neve attraverso i vetri. La neve e quelle costruzioni fatte con mamma e papà, l’igloo, il pupazzo… Per un momento rimase immobile a guardare quello spazio immacolato, delimitato dalla recinzione che circondava la proprietà, poi si agitò così all’improvviso sulla sedia da doversi afferrare al bordo della scrivania per non cadere. “Mamma! Mamma, vieni a vedere! Il pupazzo di neve è di nuovo sparito!” Andrea Leonelli La sposa I petali sanguinano sul pavimento lucido fino a essere quasi uno specchio, riflettendosi e moltiplicandosi, perdendosi in spazi aperti e vuoti. Entrando nella casa l’atmosfera è moderna e minimalista. Superfici piane, poche fotografie alle pareti: quasi lapidi in bianco e nero su arredamento e spazi altrettanto bianchi e neri. Pavimento, mobili e suppellettili, tutto un contrasto di positivo e negativo. In questa casa non c’è spazio per altro che non sia netto, delineato. Anche le linee della casa sono categoriche, dritte. A terra una traccia di petali rossi. Come la scia lasciata da un ferito che sanguina, sono petali freschi, con il colore ancora vivo. Quando saranno secchi diverranno neri, intonandosi al resto della casa. I petali scarlatti guidano attraverso locali scarni, nudi, tutto in bianco e nero, bianco e nero, sempre e solo bianco e nero. Tutto: colonne, rivestimenti delle pareti, infissi, mobili. Ossessivamente. Ripetitivamente. Esclusivamente. Bianco e nero. Seguendo la traccia rossa fino a una porta e fin dentro la camera da letto. Vuota a eccezione del giaciglio di ferro battuto, le coperte candide. La sposa, nel suo abito bianco giace sul letto. Bianco su bianco. Anche in viso la ragazza mostra un pallore cadaverico. Quasi diafana. Morta. Morta il giorno del matrimonio, o almeno così lascia intendere il vestito. Il vestito che una donna si mette una sola volta. Una cosa definitiva. E’ perfetta: una sposa rubata all’altare, strappata al percorrere la navata nelle sue scarpe nuove, candide, con l’acconciatura appena coperta da un velo finissimo. Le mani, curate, pronte a ricevere l’anello nuziale e ora appoggiate in grembo. Unica nota di colore, stonato, un rossetto vermiglio, che risalta in tutto quel bianco come sangue sulla neve, come una ferita, uno strappo rosso al posto delle labbra. L’espressione della donna è tranquilla, serena, sembra veramente che potesse dormire al momento della morte. C’è, sulle labbra artificialmente sanguigne, l’ombra di un sorriso, l’enigmatica espressione di Monna Lisa riportata in carne, morta, e ossa. Silenziosamente, minuziosamente, quasi religiosamente raccolgo i petali: stonano adesso in questo ambiente bicolore. Torno silenzioso sui miei passi. Ho goduto della mia opera d’arte, la mia artistica costruzione. Il mio tocco da maestro è stata l’aggiunta della sposa morta e delle sue labbra. Ho affascinato me stesso con questa creazione di dolore non sofferto. Con questa composizione di cose morte in ambiente puro. Ho contaminato la bellezza con altra bellezza. L’incorruttibile con il decomposto. Adesso per cancellare le mie tracce senza rovinare la mia creazione dovrò purificare tutto con il fuoco. Ho già tutto predisposto, il gas, i timer, gli inneschi. Il materiale contenuto nella casa, le vernici, i mobili e quant’altro è contenuto fra queste mura, è infiammabile. Inferno controllato tramite telefono. Adesso uscirò, andandomene definitivamente. Chiudo la porta e come con la preghiera, trovo pace. Luigi Bonzanini Verso l’Abisso Il giovine ed aitante marchese Vitellozzo Della Rogna si rimirò per l’ennesima volta nel grande specchio che troneggiava nel suo salotto privato e non poté frenare un moto di compiacimento contemplando l’immagine elegante,sobria e virile che il cristallo gli rimandava. Scrutando il proprio volto affilato, la fronte ampia e pensosa, gli occhi grigi ed a tratti balenanti come schegge d’acciaio, non poté trattenere un moto quasi fanciullesco di legittimo orgoglio: ” Bello!… Quanto sei bello! ” sussurrò con la sua voce suadente e vellutata rivolto al baldo giovane che lo fissava dalle profondità dello specchio. D’un tratto, il sorriso vago ed ingenuo che indugiava sulle labbra di corallo dell’aitante Vitellozzo si mutò in un’espressione pensosa ed assorta: egli meditava ora sulle alterne vicende dell’umano destino e di una forza al mondo, lo sapeva ormai per esperienza, avrebbe potuto distrarlo dalla sua meditazione solitaria e malinconica che a tratti si impossessava di lui estraniandolo dal mondo anche per ore ed addirittura giorni. ” Ma che cos’è mai questa mia povera vita, a paragone dell’eternità?… ” mormorò fra sé e sé. ” E’ vero: sono bello, raffinato, colto, ricco, intelligente; le donne mi rincorrono, gli uomini sbavano d’invidia, ma a che vale questa mia esistenza che si trascina annoiata fra gli agi, le mollezze e le orgie sfrenate?… Forse null’altro che un sogno vano! ” Proprio in quel punto, comparve sulla soglia la pallida ed emaciata figura del vecchio maggiordomo Calogero. Vitellozzo si volse a fissarlo con occhi di brace e, con gelida calma, lo redarguì: ” Che vuoi, vile bifolco?… Non vedi che sono assorto nei miei malinconici pensieri?! ” Il vecchio e smunto Calogero fissò a sua volta Vitellozzo strabuzzando gli occhi e, con un sorriso spettrale, rispose esitante: ” Venivo a riferire che il suo eccellente padre, il marchese Callisto Della Rogna, l’attende con ansia malcelata nella serra per colloquiare con lei di cose intime e segretissime. Se ho fallato, mi punisca pure, signorino Vitellozzo, ma sia indulgente con questo vecchio canuto ed un po’ rincoglionito sulle cui ginocchia ella ha giocato da piccino!… “ Udendo queste parole oneste e sincere, sgorgate dall’intimo del tremulo vegliardo, Vitellozzo non poté trattenere un moto di disappunto. Corse verso il saggio Calogero e lo strinse forte al proprio petto esclamando: “Vecchio, dolce, caro e rimbambito Calogero, come ho potuto dubitare della tua rettitudine?! Orsù, abbracciami!” Entrambi commossi il vecchio smunto e l’aitante giovane s’abbandonarono ad un lungo e tenero abbraccio, finché una lacrima solitaria spuntò sul ciglio del venerando vecchio. * Dopo aver lasciato il fido maggiordomo ad asciugarsi i lucciconi che gli brillavano negli occhi stanchi, il giovane e fiero Vitellozzo s’avviò, camminando rapido e sicuro sulle uova come aveva appreso a fare fin da piccino, verso la serra. Traversò con inquietudine mista ad un vago scoramento molte sfarzose stanze dell’avita dimora finché, trepidante e trafelato giunse nell’immensa serra dove il padre Callisto lo attendeva. Costui, uomo di rude stampo, piccolo di statura, calvo, rincagnato e notoriamente irascibile, vedendo il figlio appressarsi con tanta sollecitudine si volse di scatto e lo fissò a lungo con i suoi freddi occhi cerulei. Intimorito da quello sguardo d’acciaio, Vitellozzo indietreggiò d’un passo, ma subito il marchese Callisto gli tese le braccia e mormorò con voce resa stentorea dall’emozione: “ Figlio mio, vieni fra le mie braccia!…” Colto da una gioia subitanea, Vitellozzo si precipitò fra le braccia del padre gridando: “ Babbo!…Oh, babbo mio!…” ” Figlio, io ti riveggo ancora; ma come ti sei smagrito dall’ultimo nostro incontro! “ ” Babbo caro, ci siamo lasciati soltanto iersera e già mi rimproveri di trascurarti?!… “ ” Figlio diletto, la lontananza, sai, è come il vento: spegne i fuochi piccoli, ma accende quelli grandi! “ ” E’ vero, babbo caro!… Hai ragione come sempre! “ Il vecchio ed indomito marchese fece assidere Vitellozzo su di un divano foderato di seta turchina e lo squadrò a lungo, senza più proferire verbo alcuno. Poi, con uno scatto subitaneo, gli afferrò le mani e disse: ” Figliolo caro, prole dei miei lombi, debbo darti una notizia che ti farà felice: domani sposerai la contessina Amarilli Degli Albigesi! “ Il volto di Vitellozzo si fece terreo; dalle labbra illividite a stento gli uscì un flebile lamento: ” Ma, caro babbo, io non l’amo!…” ” E perché?!…” Chiese il venerando padre, rabbuiandosi di colpo. Sempre più confuso e stordito, il giovane rispose: ” Ma, caro ed amato babbo mio, la contessina ha la gobba!…” ” E a te cosa te ne cale?!… Ella è immensamente ricca e di nobile lignaggio! “ Vitellozzo cominciò ad annaspare sentendosi venire meno l’animo già provato dal recente incontro con Calogero. ” Babbo mio, costei sarà anche ricca, ma ho sentito mormorare che soffre pure di alitosi e meteorismo!…” ” Sciocchezze!… Pettegolezzi di gente plebea. Ascolta la voce del sangue e mostrati degno di cotanto padre!… Ricorda le glorie della nostra stirpe!… “ Qui il truculento vegliardo s’arrestò di botto avvedendosi che Vitellozzo, bianco come un cadavere, era caduto riverso sui cuscini del divano e non dava più segno di vita. Sorpreso e deluso, il marchese Callisto prese a schiaffeggiare sonoramente e sistematicamente le guance esangui del figlio finché un flebile gemito gli dischiuse nuovamente le labbra: ” No!…La gobba no!!!… “ ” E ché, figliolo caro, vorresti dunque lasciar morire il tuo vecchio genitore nella più nera indigenza?! “ ” Ma babbo, tu sei ricco da fare schifo!… “ ” Non più, pargolo mio, non più!… ” E qui il vecchio trasse un sospiro cavernoso. ” Sappi dunque il vero: noi siamo rovinati!… “ ” Che odono le mie orecchie!…” ” Ahimè, il vizio del gioco mi ha trascinato a questo: devo sacrificare il mio diletto figlio per salvarmi dalla galera. Altre alternative non ho se non quella di ficcarmi una palla nel cervello!… “ ” Non sarebbe poi un’idea malvagia!… “ ” O serpe ingrata, dovrò dunque morire per muovere a compassione il tuo cuore di pietra?!… Che cosa ti chiedo in fondo?… Soltanto d’impalmare una dolce e pia creatura forse non perfetta esteriormente, ma certo bellissima dentro. “ ” E ché, le hai fatto dunque una radiografia?… “ Udendo quest’oziosa domanda, il volto del marchese Callisto si fece di brace per la collera. Puntò l’indice della sua scarna ed eburnea mano verso il tristo figliolo e proferì queste tremende parole: ” Odi, Vitellozzo!… Odi e trema!… Se non sposerai la gobba, la maledizione di tuo padre colpirà te e tutta la tua progenie fino alla quarta generazione! Osi ancora ribellarti?… “ Annichilito e ferito nell’imo del cuore, il misero giovane non poté far altro che assentire: ” Ebbene, sposerò la gobba!… “ Dopodiché svenne per la seconda volta. * Fu così che quella stessa sera, il livido e tremante Vitellozzo, anche se sorretto dal fido Calogero, dovette affrontare il primo abboccamento con la contessina Amarilli Degli Albigesi, venuta in visita a palazzo con la di lei madre contessa Cunegonda onde definire i dettagli degli sponsali. In effetti, la fanciulla non si poteva definire proprio una bellezza: alta un metro e cinquanta, anoressica e distrofica, oltre che di una scoliosi assai pronunziata soffriva visibilmente di strabismo e di un’incipiente alopecia. All’opposto, la contessa Cunegonda apparve agli occhi del misero giovane come una matrona bulimica ed ansimante che subito gli si gettò addosso piena d’entusiasmo e volle ad ogni costo abbracciarlo e baciarlo sulla bocca riversandogli in faccia un alito simile ai miasmi delle fogne di Calcutta. Vitellozzo si sentì venir meno e le ginocchia gli si piegarono; valse a salvarlo dal crollo fatale soltanto la stretta dell’indefesso Calogero che, ancora commosso per le effusioni del mattino, frenava tuttora a stento le lacrime ed ogni tanto mormorava fra sé: ” O rimembranze!… “ Sfoderando in un truculento sorriso gli ultimi dieci denti che le restavano in bocca, la contessa madre spinse innanzi con un gesto pieno di grazia la figliola e, con voce colma di materno orgoglio, dichiarò: ” Ecco la mia piccina!… La mia asinella adorata! “ Era infatti cosa risaputa che la dolce Amarilli univa alle scarse doti fisiche un’intelligenza anche più scarsa: in pratica era una mezza scema. E tuttavia, quale soave espressione di gaudio illuminò il volto della poverina appena ch’ebbe adocchiato Vitellozzo: strabuzzando gli occhi dietro le spesse lenti correttive, dalle sue labbra minute scaturì un grido spontaneo: ” Ih, ih, ih, ih!!!… “ Udendo quella risata sinistra, lo sventurato marchese barcollò per l’ennesima volta e, ancora una volta, l’onnipresente Calogero provvide a sorreggerlo. Pallido come un morto, Vitellozzo trovò comunque la forza d’animo bastante a fare gli onori di casa: fece sedere le due dame ad un prezioso tavolo d’ebano intarsiato ed ordinò con voce stentorea che fosse servito l’apéritif avec des bonbons. Il solerte e mesto Calogero, non molto ferrato in francese, rimase immoto a fissarlo con un’espressione assorta da baccalà. Imbarazzato e con i nervi a fior di pelle, Vitellozzo ripeté l’ordine: ” Calogero, l’aperitif avec les bonbons!… “ Sul ciglio di Calogero spuntò un’altra lacrima furtiva mentre il poverino, paonazzo di vergogna, restava immobile senza saper che pesce pigliare. La contessa Cunegonda, piuttosto scocciata, non perse l’occasione d’interloquire: ” Ma dove l’avete trovato quel pesce lesso di maggiordomo!… Mio Dio, in che casa sono capitata!“ Subito Amarilli le fece eco con la sua risata cavallina: ” Ih, ih, ih, ih!!!… “ Colmo d’ira e di frustrazione, Vitellozzo sbraitò alla volta di Calogero: ” Imbecille, gli aperitivi con i dolci!!!… Cosa aspetti, una richiesta scritta?!… “ Basito ed umiliato, il vecchio servo fedele chinò il capo e scappò via dalla sala guaendo come un cane bastonato. Dopo questa scena penosa, Vitellozzo affrontò l’immane sforzo di mostrarsi cortese con le ospiti: atteggiò il viso ad un piacevole sorriso che in realtà si rivelò un ghigno deforme e si rivolse alla sua promessa sposa con una domanda originalissima: ” E che fa di bello la signorina, studia?… “ ” Ih, ih, ih, ih!!!.. “ La vecchia Cunegonda, rispose facendo le veci della figlia: ” Studiare?… No, non studia. Però ci sono fior di professori che studiano lei. “ ” E perché mai?… ” chiese il giovane Della Rogna, incuriosito. L’ombra di un ricordo penoso passò sulla faccia spettrale della contessa. ” È giusto che lei sappia!… Questo mio bocciolo di rosa, alla tenera età di dieci anni cadde per disgrazia nella concimaia della nostra tenuta di campagna e vi rimase per un giorno ed una notte in compagnia dei maiali prima che la ritrovassimo. Da allora, il trauma subito l’ha resa praticamente muta e sorda. Ancora non s’è trovata una cura adeguata. Capisce ora, marchese, quale strazio lacera questo mio cuore di madre?!… “ ” Capisco, capisco! E avete già pensato ad una località per il viaggio di nozze? “ ” Se a lei va bene, avremmo già deciso per Lourdes. Naturalmente io verrò con voi! “ ” Che bello… ” balbettò Vitellozzo che improvvisamente provava un bisogno impellente di vomitare. Riapparve il tremulo Calogero, con gli occhi rossi di pianto, recando un vassoio d’argento sul quale faceva bella mostra di sé un grosso zampone modenese ancora fumante con contorno di lenticchie. Vedendolo, Amarilli, entusiasta, prese a battere le manine ed a squittire come una pantegana: ” Ih, ih,ih, uh,uh,uh,!!!… “ Vitellozzo, furibondo, si rivolse al mesto Calogero sbraitando: ” Deficiente, che cosa ci hai portato?!… “ Confuso e tremante, Calogero non riuscì a far altro che balbettare: ” O marchesino, perdoni questo vecchio stolto. Se ho fallato mi punisca, ma sia indulgente verso questa mia vetusta canizie. Pensi al tempo felice della sua infanzia quand’ella giocava beato sulle mie ginocchia!… “ ” Calogero, che ti pigli un accidente, a te ed alla tua canizie! “ Ancora una volta la contessa s’intromise nella discussione: ” Ma non fa nulla!… Anzi, io e la mia frugoletta avevamo giusto voglia di zampone con le lenticchie!… Lei permette, nevvero, marchese?… “ Senza nemmeno aspettare una risposta, la contessa afferrò lo zampone con le mani nude e prese a divorarlo strappandone grossi bocconi con i dieci denti che le restavano in bocca. Nel giro di pochi minuti lo zampone era già scomparso nel poderoso stomaco della vecchia che, una volta placata la fame, si rivolse con garbo alla figliola: ” Suvvia, cara. Mangiati pure le lenticchie. Tu devi badare alla linea e mantenerti snella per il tuo futuro sposo! “ Senza farselo ripetere due volte, Amarilli afferrò il vassoio e prese a leccare le lenticchie direttamente dal fondo, sbrodolandosi tutto il leggero vestito di tulle che lasciava chiaramente intravedere la totale assenza di seni. Una tale visione fu per Vitellozzo la mazzata finale. Lo sciagurato spalancò la bocca come per lasciarne uscire un grido disperato, ma non si udì invece alcun suono. Le pupille del giovane si arrovesciarono all’indietro, egli s’accasciò esanime sulla sedia e svenne per la terza volta nello stesso giorno. * Un mesto epilogo Circa due mesi dopo, in una solare mattina di primavera, la lussuosa vettura del vecchio marchese Callisto Della Rogna correva speditamente lungo una strada di campagna costeggiata di platani in piena fioritura. Curvo e terribilmente corrucciato, il Della Rogna se ne stava rincantucciato in un angolo del sedile posteriore foderato di pelle di leopardo. La macchina avanzò a lungo per tornanti polverosi finché si fermò davanti al cancello di un’amena villa campestre che una targa di bronzo incastrata nel muro di cinta identificava come Villa Gaudiosa. Un autista compassato ed asettico aprì la portiera posteriore ed il marchese sgattaiolò fuori dall’auto. Suonò il campanello ed il cancello s’aprì con uno scatto secco. Callisto, sempre scuro in volto, s’incamminò a passo svelto lungo il sentiero alberato che correva in mezzo al grande giardino della villa. Un uomo in camice bianco gli venne incontro a braccia tese. ” Caro, caro marchese, quale gioia vederla qui! “ Il marchese si lasciò abbracciare senza entusiasmo e, sempre corrucciato, sbottò: ” Esimio dottore, bando alle ciance. Sono qui per vederlo e rendermi conto del suo stato. Ci sono speranze?… “ Il celeberrimo dottor Magnapoco scosse mestamente la testa. “Ahimè, egli non mostra alcuna volontà di guarire. Ma, caro amico, venga con me e constaterà lei stesso! “ S’avviarono dunque i due vegliardi verso un angolo solitario del giardino popolato da strani personaggi dai visi inquietanti intenti alle più strane incombenze. Chi camminava sulle mani con le gambe all’aria, chi se ne stava disteso carponi abbaiando come un cane; chi, infine correva da un albero all’altro cercando vanamente d’afferrare i passeri al volo. Fra tutti quegli infelici, ecco infine l’aitante figura dello sfortunato Vitellozzo che se ne stava appollaiato sul ramo più basso d’un secolare abete, col bel viso ormai del tutto inespressivo rivolto al vaporoso orizzonte, scrutando con occhi vacui le nuvole migranti nel cielo turchese. Il marchese Callisto s’appressò al figlio fin quasi a toccarlo e, con voce rotta dai singhiozzi, gemette: ” Vitellozzo, figlio mio adorato, non mi riconosci?… Sono il tuo babbo che tanto t’ama!. “ Il figlio parve non essersi nemmeno accorto della presenza del genitore e continuò impassibile a fissare l’orizzonte. Con un tono ancora più accorato il vecchio ripeté la domanda: ” Vitellozzo, non riconosci dunque più il tuo povero babbo?… “ Per un breve attimo il giovane parve destarsi dal suo torpore, gettò un’ occhiata in tralice al vecchio, scosse la testa come per destarsi da un sogno penoso e poi, di colpo, rispose con uno strano verso querulo: “Ih, ih, ih, ih!!!…” Le Larve A novembre avanzato, il tempo si manteneva ancora insolitamente mite. Quasi ogni giorno, verso le prime ore del mattino, una pioggerella tiepida ed oleosa bagnava la città per poi lasciarla in preda ad un tepore umido e malsano fino al crepuscolo. La gente si rendeva conto assai distrattamente che, molto più a nord, nelle desolate regioni artiche, i ghiacci si stavano lentamente sciogliendo, ma la cosa non li preoccupava più di tanto. In fondo, si trattava solo d’una piacevole estate di S. Martino. Lazzaro Loisio, violoncellista ormai anziano e senza più illusioni, in una di queste mattinate stranamente afose ed umide, s’avviò al suo tormento quotidiano, immerso come sempre in tetre meditazioni. Con Loisio la vita era stata eccezionalmente avara di gratificazioni: questo era un fatto inoppugnabile del quale egli era fin troppo cosciente. Anche a causa del suo carattere scostante e poco incline al compromesso si ritrovava, non più giovane, in una situazione quanto mai ostica. Niente legami familiari, niente amici, un passato colmo di ricordi penosi ed un futuro pieno di incognite. La sua croce peggiore: l’orchestra. Non che avesse nulla da rimproverarsi riguardo alla sua professione, salvo il fatto di non aver intuito per tempo che il talento conta assai poco in un ambiente ottuso e gretto come quello in cui s’era ritrovato fin dai giorni lontani della sua gioventù. In una situazione così disgraziata, per mettersi in evidenza e fare un po’ di carriera avrebbe dovuto usare le armi che più aborriva: lusinghe ed opportunismo. Ovviamente Loisio, onesto e privo di malizia, si ritrovava ora, alla fine del suo cammino esistenziale, completamente spiazzato ed emarginato. Il suo destino s’era arenato in una palude d’indifferenza e di astio assai amari da sopportare ma era anche inutile lamentarsi: i suoi svagati coetanei si mostravano sempre infastiditi se egli mostrava un qualche moto di ribellione. Niente è più tedioso di un’ uomo che si lamenta della sua sorte ingrata, specialmente se le sue ragioni sono ben fondate. Dunque Loisio aveva appreso a tacere e sopportare e trascinava i suoi giorni in una palude di rancori inespressi. * ” Questa è la volta buona che lo conciamo per le feste! ” L’illustre maestro Behemot con questa dichiarazione suggellò la sua totale sudditanza alla degna combriccola di celeberrimi musicisti che gli stavano attorno. Manco a farlo apposta stavano disquisendo sulla sorte del disgraziato Loisio e la dichiarazione di Behemot riassumeva perfettamente le intenzioni dei presenti nei suoi confronti. Per la cronaca, nella simpatica congrega, oltre al raffinato Behemot, erano presenti altri musici di chiara fama: la signorina Petulia, il primo violoncello Maestro Asmodeo, l’allampanato Vassago, afflitto da un leggerissimo strabismo che comunque non oscurava minimamente il suo fascino virile e l’illustre spalla dei primi violini. Tutti questi formidabili talenti erano debitori nei confronti del Loisio di una o più lezioni di vita. Presi singolarmente, costui non aveva avuto problemi a strapazzarli come i loro meriti richiedevano, ma così coalizzati stavano per diventare un vero e pressante problema. Proprio in quel momento la vittima potenziale di tanta acredine fece la sua comparsa nel golfo mistico e, notando immediatamente i loro sguardi carichi d’astio feroce, non poté fare a meno di tremare. Il maestro Asmodeo gli si avvicinò ridacchiando e gli sibilò poche parole: “Per stasera, abbiamo programmato una prova supplementare per la sola fila dei violoncelli!…” Sul volto di Loisio apparve una smorfia amara, ma in tono sommesso rispose soltanto: “Va bene! …” Evidentemente, in quell’ accenno apparentemente innocente riguardo alla prova a sezioni, Loisio aveva intuito la volontà precisa di tutti i presenti di metterlo sotto torchio fino a farlo crollare. Comunque, da quanto ho saputo in seguito, Loisio non pensò affatto si sottrarsi alla prova. Ricordo però che quella sera lo vidi uscire dal teatro visibilmente sconvolto. Il giorno seguente non si presentò in orchestra e neanche nei giorni immediatamente successivi. Vi fu chi tentò di contattarlo telefonicamente al fine di evitargli sanzioni disciplinari, ma ogni tentativo fallì. Verso la fine della settimana, fu chiaro finalmente a tutti che Loisio era misteriosamente e definitivamente scomparso. * Nelle settimane successive alla scomparsa di Loisio il tempo atmosferico continuò a mostrarsi innaturalmente clemente a parte i soliti scrosci di una pioggerella tiepida ed oleosa che fece salire l’umidità a picchi inusuali mentre la temperatura di quel novembre avanzato si manteneva ostinatamente afosa contro ogni ragionevole previsione. La stampa cittadina si occupò con fervore dell’argomento, anche per una sua carenza cronica di temi più interessanti. L’unico giornale locale a grande tiratura, essendo platealmente e sistematicamente schierato con il partito al governo, non s’azzardava mai a trattare temi di rilievo sociale per il perenne timore di mostrarsi critico nei confronti del sussiegoso e permaloso potere costituito. Per tale ragione, la notizia del subbuglio climatico venne sviscerata e discussa in tutte le sue forme possibili, avvallando e negando contemporaneamente tutte le ipotesi. Si giunse così agli ultimi giorni di novembre quando, in una brumosa e quieta serata, finita la prova dell’orchestra, la donna addetta alle pulizie, una robusta ed attempata somala, svolgendo le sue mansioni abituali notò negli angoli del retropalco minuscoli depositi di piccole uova oblunghe e biancastre. Non vi fece molto caso e, semplicemente, provvide a rimuoverle. Tuttavia, il mattino seguente le capitò di notare che gli strani depositi s’erano riformati durante la notte. Provvide nuovamente a rimuoverle, ma il terzo giorno le uova erano ancora disseminate negli angoli e la donna cominciò a preoccuparsi. Nel frattempo, la vita della piccola comunità musicale che vegetava nel golfo mistico del teatro comunale, trascorreva noiosa e fiacca come al solito. Verso la metà di dicembre, in un mattino grigio e piovoso, avvenne finalmente un fatto curioso che per qualche ora ruppe la monotonia. In pratica si trattò soltanto d’un bizzarro incidente: semplicemente, due signorine non più giovani, entrambe violiniste nell’orchestra, stavano discutendo di fatti insignificanti quando una di loro, notò sul leggio dinnanzi a sé qualcosa che a prima vista le parve un magnifico fiore tropicale. Incuriosita e vagamente eccitata, s’avvicino per scrutare meglio; il suo viso si chinò sui petali d’un rosso vivo screziati di nero. Già la sia mano s’era levata per toccarlo quando, d’improvviso, il fiore s’animò: i petali scarlatti si rizzarono di scatto per serrarsi sul suo collo ed Elisa percepì la morsa di due minuscole mandibole che le artigliavano il labbro inferiore. La donna gettò un urlo penetrante e prese a scuotere il capo tentando di liberarsi da quella morsa dolorosa. Strinse fra le dita lo stelo del fiore malefico cercando di staccarlo da sé; il dolore al labbro si fece di colpo insopportabile: il fiore le sgusciò fra le dita con un guizzo subitaneo per ricadere a terra con un frammento di carne viva serrato fra i lunghi petali rossastri che si torcevano come artigli. Qualcuno ebbe la presenza di spirito d’afferrare il leggio ed usarlo per colpire la creatura che restò spiaccicata sul pavimento con un rumore sinistro simile al fruscio di un’enorme foglia secca. Appena il trambusto si fu calmato e la donna col labbro sanguinante fu spedita in ospedale, qualcuno si prese la briga di esaminare i resti del fiore maligno: benché ciò che ne restava fosse soltanto una poltiglia piuttosto disgustosa, alla fine fu chiaro che non si trattava d’un vegetale, ma d’un insetto e precisamente d’una mantide di grandezza inusuale. L’ ovvia domanda conseguente a tale scoperta fu: com’era finita quella creatura nel golfo mistico del teatro, a migliaia di chilometri dalle regioni e dai climi a lei congeniali? * A questo punto, io stesso che scrivo il resoconto di questa storia, mi devo fare avanti come testimone. Non credo opportuno dilungarmi troppo sulle mie vicende personali; spero che basti precisare che anch’io per quasi tre decenni fui un membro dell’orchestra e quando, per l’età e la mancanza di prospettive, le mie capacità di strumentista cominciarono a declinare inesorabilmente, fui messo da parte senza troppi riguardi. Dovetti accontentarmi di restare nell’ambito del teatro con la mansione molto più modesta di guardiano notturno. Sempre meglio che la fame. Avevo frequentato Loisio per molti anni ed ero forse l’unica persona che un’ uomo così scostante avesse accettato come amico. Il mondo è crudele con i perdenti e noi avevamo in comunque lo stesso destino fallimentare che ci accomunava in una sorta di malinconica alleanza. Dopo la sua inesplicabile scomparsa, ero stato l’unico che si fosse preso la briga di fare qualche ricerca, peraltro del tutto inutile. Nel frattempo, la mantide spiaccicata era stata infilata in un sacchetto di plastica e gettata in un cassonetto senza che nessuno si curasse più di indagare oltre sulla sua provenienza. Volendo seguire fino in fondo una mia incerta premonizione, io recuperai di nascosto il sacchetto e con esso mi presentai alla sezione Entomologia del Museo di Scienze Naturali. Riuscii a convincere un assistente piuttosto distratto ed indaffarato ad esaminare i resti della mantide. Il giovanotto parve sconcertato e mi chiese dove l’avessi trovata. Mentii: “ Nel giardino di casa mia.” “Incredibile! Si tratta di una specie tropicale piuttosto rara: il nome scientifico è Idolum Diabolicum. Le viene dalla sua capacità di assumere le sembianze d’un fiore dai colori sgargianti; gli insetti ne sono attirati e lei li cattura con le zampe prensili simili a petali per divorarle.” Quella stessa sera tornai in teatro per svolgere il mio turno di lavoro. Casualmente notai un bidone della spazzatura piazzato proprio a lato dell’ingresso principale. Incuriosito, vi sbirciai dentro: era stracolmo di sacchetti di plastica dove erano stati raccolti i resti spiaccicati di altre mantidi; ne contai più di una cinquantina. Quello che temevo s’era avverato: grazie forse al perdurante clima umido e caldo, le larve s’erano schiuse. * Quando lo spettacolo è finito, i musicisti se no sono andati e tutte le luci vengono spente, nel teatro deserto e buio cosa accade? In teoria non dovrebbe accadere nulla, ma chi lo può affermare con certezza assoluta? La notte che seguì fu una fra le peggiori della mia vita. La mia condizione attuale è già abbastanza colma di desolazione e, come se non bastasse, il dovere mi obbliga a vegliare per interminabili notti in quell’edificio strano e misterioso, vagando per le sale ed i praticabili immersi nell’oscurità, senza niente di meglio da fare se non riandare con la memoria al passato, quando ero un giovane musicista pieno di speranze. Forse si tratta dell’ultimo infame scherzo del mio destino gramo: essere condannato da vecchio a vagare in solitudine nel teatro che mi vide giovane ed illuso. Ma quella notte qualcosa doveva succedere; era un presentimento che mi sentivo pesare addosso come una cappa. Forse perché il mio amico Loisio era scomparso ed a me non restava più nessuno con cui condividere la mia solitudine, forse perché il tempo era ancora così innaturalmente afoso ed umido in pieno dicembre, forse per la strana invasione delle mantidi diaboliche misteriosamente apparse dal nulla. E in effetti qualcosa accadde. Verso le tre del mattino, mi aggiravo nei pressi del foyer immerso nel buio, girando all’intorno il fascio di luce d’una torcia elettrica. Il silenzio assoluto fu rotto di colpo da un rumore lontano: qualcosa di simile ad un lamento. In principio non vi diedi importanza, ma poi il suono si ripeté una seconda volta, e poi una terza. Pareva provenire dall’ala sinistra dell’edificio. Salii una breve rampa di scale e mi incamminai nel praticabile che dava accesso alla prima fila di palchi. Avanzavo con circospezione, cercando di dissipare l’oscurità del corridoio con la luce della mia torcia. Alla fine lo vidi: se ne stava immobile in cima ad una scaletta dinnanzi alla porta che conduceva al palcoscenico. Era livido, con le occhiaie infossate, il suo corpo sembrava non avere più consistenza ma brillava piuttosto d’una luce irreale. Spaventato e sbalordito, mi avvicinai di qualche metro puntandogli addosso il fascio di luce e notai altri particolari: i suoi capelli che lui portava abitualmente lunghi s’erano fatti candidi ed i suoi occhi, in quel volto dal colore cinereo, erano senza pupille: non ne scorsi altro che la sclera bianca infossata nei cerchi neri delle occhiaie. Vidi le sue labbra muoversi come per formulare una frase, ma ne uscì soltanto un altro gemito lieve come un soffio di vento. Nonostante il mio sgomento, avanzai ancora fino ai piedi della scaletta ed in quel momento Loisio disserrò nuovamente la bocca e da essa scaturì un sussurro assai simile al fruscio delle foglie secche d’inverno. Disse qualcosa come: “ Non posso più suonare!…” Poi, di colpo, la sua figura immobile s’animò e parve lievitare nel buio. Lo vidi protendere le braccia in avanti, verso di me. Restò per un attimo sospeso a mezz’aria e poi, rapido come un lampo, mi si precipitò addosso. Udii ancora le foglie fruscianti che mi sussurravano: “ Giù, giù!… Nel profondo abisso!…” Fui investito da qualcosa assai simile ad una folata di vento gelido che mi attraversò letteralmente da parte a parte, gettandomi a terra per poi dileguarsi nelle tenebre oltre le mie spalle. Caddi all’indietro e la torcia mi scivolò di mano; probabilmente gridai ma nessuno udì il mio richiamo ed io rimasi immobile nel buio, pieno di terrore e disperazione perché ora sapevo che Loisio era morto, ma sapevo anche che la morte non gli aveva dato la pace che tutti meritiamo ed egli, dalla regione desolata in cui vagava, era tornato per chiedermi di aiutarlo. * Anche i peggiori incubi hanno una fine e, quando Dio volle, l’alba pose fine a quella notte maledetta. Per parecchi giorni rimasi letteralmente barricato in casa senza vedere nessuno. Poi, quando finalmente mi costrinsi a rivedere la luce del giorno, tornai per una forma di coazione irrefrenabile a quel teatro che per me era diventato l’anticamera dell’inferno. L’estate di S. Martino adesso era veramente finita. Tornai al teatro in un mattino tetro e piovoso agli inizi di dicembre, un vento freddo da settentrione spazzava le strade e smuoveva nel cielo la pesante cappa di nubi grigie che ristagnava sulla città. Quando fui nei pressi del teatro, mi avvidi subito che qualcosa di grave ed ineluttabile era accaduto. Alcune ambulanze sostavano presso l’ ingresso principale assiepato di curiosi. Dal portone uscirono degli uomini in tuta che recavano delle barelle coperte con teli bianchi. Sotto i teli si distinguevano delle forme umane. Mi avvicinai facendomi strada fra la ressa, giunsi accanto ad una delle barelle e, con un gesto meccanico, sollevai il lenzuolo. Quello che scorsi doveva essere l’illustre maestro Behemot, almeno a giudicare dalla corporatura dato che non aveva più la faccia. Tutto ciò che restava del suo volto erano le ossa del teschio scarnificate con precisione quasi chirurgica. Anche i bulbi oculari erano stati strappati; sulla sommità del cranio un lacerto di pelle conservava ancora un ciuffo sparuto dei suoi inconfondibili capelli tinti di biondo. Mi rivolsi ad uno dei portantini e chiesi: “ Sono state le mantidi?…” Più che una domanda era un’affermazione. L’uomo in tuta mi rispose: “ Adesso non ci sono solo le mantidi. Là dentro c’è un’ intera collezione di bestie schifose, una più enorme dell’altra. Hanno fatto fuori almeno sette persone, senza contare quelle che sono scomparse senza lasciare traccia. Entro stasera inonderemo tutto l’edificio con l’iprite: pare che sia l’unico sistema per farle crepare. Dio ci salvi, questo posto è maledetto.” Io varcai la soglia e lui subito m’afferrò per una spalla: “ Non vorrà mica entrare?!… È assolutamente vietato!” – “ L’iprite non servirà a niente! Io credo invece di sapere dove sta il loro nido.” – “Non se ne parla neanche! Torni a casa e ci lasci lavorare!” – “Va bene.” Arretrai dalla porta e m’allontanai. Imboccai un vicolo laterale e girai attorno all’edificio finché mi trovai sul lato opposto rispetto all‘ingresso principale. Lì c’era un piccolo portone che immetteva direttamente nell’attrezzeria. Nei pressi non scorsi nessun uomo in tuta. Evidentemente erano sicuri che nessuno sarebbe stato così incosciente da entrare volontariamente nella tana degli insetti assassini. Io, invece, ero abbastanza pazzo da correre il rischio e, anche se le gambe mi tremavano, entrai. * Il magazzino era immerso nell’oscurità; tentai di far scattare l’interruttore della luce ma non accadde nulla. Evidentemente l’impianto elettrico era saltato ed io non avevo portato neanche la mia torcia. Avanzai a tentoni fino all’ascensore: quando lo raggiunsi, dal buio alla mia destra udii una serie di scatti secchi seguiti da un curioso ronzio. Mi frugai nelle tasche e ne trassi un accendino. Al lume di quella fiammella tremula mi diressi verso la sorgente dei suoni e lo vidi: doveva appartenere alla specie dei coleotteri, probabilmente un cervo volante. Completamente nero; era lungo più d’un metro ed alto almeno una ventina di centimetri. Sbatteva ritmicamente le enormi mascelle con fare aggressivo e le sue elitre ronzavano frenetiche smuovendo l’aria stagnante all’intorno. Arretrai istintivamente mentre quello si levava in volo per aggredirmi. L’accendino mi cadde di mano ed io, in preda al panico , annaspai cercando all’intorno qualunque cosa fosse utile per difendermi. Trovai soltanto una vecchia asse di legno e con quella colpii l’aria alla cieca finché si udì un cozzo sordo. Il ronzio delle elitre comunque non cessò; mi gettai carponi sul pavimento alla disperata ricerca del mio accendino. Lo trovai e, quando la fiamma incerta riprese a rischiarare l’oscurità scorsi l’ insetto che, steso a terra a pancia in su, girava su sé stesso come impazzito. Le lunghe mascelle prominenti erano ripiegate su sé stesse, probabilmente spezzate, e le zampe si muovevano nel vuoto con un ritmo frenetico e disperato. Senza più curarmi dell’insetto, schizzai verso l’angolo dove sapevo trovarsi le scale di servizio e presi a scendere verso i piani sotterranei. * Iniziai così, nel buio più fitto, la mia discesa nei meandri più segreti del teatro; giù, sempre più giù verso l’abisso di disperazione ed orrore in cui presentivo si fosse rifugiato Loisio dopo la sua cacciata dall’orchestra. Giunsi nel locale delle caldaie, ma non mi fermai, soltanto io sapevo che in un angolo remoto dell’immenso locale c’era l’accesso ad un’ulteriore rampa di scale che portava ancora più in profondità, verso i sotterranei che da decenni nessuno aveva più frequentato. Raggiunsi l’imboccatura delle scale: i gradini erano di legno fradicio e le pareti di calcare. Ripresi a scendere, ansimando per lo sforzo e l’aria stantia. Non so dire quanto durò questa la mia calata agli inferi: ricordo che raggiunsi un corridoio angusto, col pavimento di terra battuta, in fondo al quale scorsi un vago bagliore verdastro. Avanzai per parecchi metri lungo il tunnel largo appena a sufficienza per consentire ad un uomo di media corporatura di avanzare a capo chino a causa del soffitto troppo basso. Su entrambi le pareti s’aprivano dei pertugi bui e maleodoranti: la fiamma del mio accendino ne illuminava a stento l’interno dove scorsi cataste di ciarpame: avanzi di vecchie scenografie, casse sfondate, costumi ammuffiti. Alla fine del cunicolo mi trovai dinnanzi ad un apertura più ampia delle altre: quella da cui proveniva il chiarore spettrale. Entrai, e ciò che vidi non lo potrò mai scordare, per quanto lungo sia il tempo che mi resta da vivere su questa terra. C’erano larve ovunque: sul pavimento, pendenti a grappoli dal soffitto, ammucchiate in grumi oleosi negli angoli: erano tutte enormi, le più piccole misuravano almeno quanto un uovo di struzzo. Diafane e trasparenti, lasciavano intravedere le crisalidi all’interno e, soprattutto, emanavano una luminosità verdastra e quasi maligna che mi permise di scorgere ciò che s’ergeva al centro del locale. Finalmente avevo ritrovato Loisio, o almeno quello che ne restava dato che il suo povero corpo era ormai ridotto ad una carcassa quasi del tutto scarnificata. Purtroppo, assieme al mio vecchio amico avevo trovato anche la sua assassina: la Mantide Imperatrice. Doveva superare i sei metri d’altezza e muoveva il capo a scatti con un movimento meccanico da destra a sinistra e da sinistra a destra. Fra le sue zampe posteriori stavano i resti martoriati di Loisio mentre quelle anteriori, d’un acceso colore vermiglio, erano giunte nella classica posizione simile a quella di un essere in preghiera. Per parecchi secondi restai a fissarla paralizzato dall’orrore finché la Mantide smise di girare il capo all’intorno e, lentamente, si protese verso di me. Io gettai un urlo ed indietreggiai istintivamente verso il cunicolo. Colto da un panico irrefrenabile inciampai e caddi a terra, mi rialzai a fatica e presi a fuggire lungo il corridoio. Alle mie spalle udii uno strano lamento simile al suono di un ramo secco che si spezza. Continuai a correre nell’oscurità, incespicando, cadendo e rialzandomi e, mentre correvo, continuavo a balbettare: “ la porta è troppo stretta!… Non può uscire!… Non può uscire!…” Raggiunsi il locale delle caldaie e, per lunghi minuti senza fine, annaspai nel buio in cerca delle scale. Alla fine le trovai e ripresi la salita fino al magazzino degli attrezzi. Ma lì, nella penombra, percepii ancora una volta qualcosa che mi gelò il sangue nelle vene. L’aria intorno a me risuonava ovunque di ronzii assordanti. Fui sfiorato dal frullo di dozzine di elitre vibranti. Il magazzino era ormai completamente invaso dagli insetti: l’esercito della Mantide aveva già invaso ogni recesso del teatro. Non so come ci riuscii, ma raggiunsi la porta da cui ero entrato e mi ritrovai di colpo sotto la pioggia scrosciante, nella luce fredda del mattino. M’appoggiai contro un muro per riprendere fiato illudendomi che l’incubo fosse finalmente finito. Proprio in quel momento sentii che la parete dietro di me cominciava a vibrare: vi fu in primo fremito, quasi impercettibile e poi un altro più distinto e prolungato. Ebbi la sensazione che la strada sotto i miei piedi prendesse ad animarsi e fui colto da un senso di nausea. Udii sinistri scricchiolii provenienti dalla base dell’edificio e, di colpo, una larga crepa squarciò l’intonaco del muro a cui m’ero appoggiato. Allora capii: la furia distruttiva della Mantide stava scardinando le fondamenta del vecchio teatro. Feci l’unica cosa che mi restava da fare: fuggii correndo verso casa. * Adesso sono nella mia stanza, disteso sul letto. Ho serrato le persiane per non far entrare la luce grigia del giorno. La pioggia continua a martellare la città senza requie e a tratti odo in lontananza l’eco snervante delle sirene. Probabilmente il vecchio teatro ha ormai ceduto alla furia dell’assassina ed è crollato con tutto il suo carico di fasti decrepiti e di dolore senza riscatto. Forse è meglio così. Forse sulle sue rovine se ne costruirà uno nuovo dal quale saranno bandite la prevaricazione, l’opportunismo e le lotte meschine per il potere. Un nuovo teatro creato solo per la musica, dove gli uomini possano semplicemente rinfrancare le loro anime ferite dal tedio della vita. Resta una domanda senza risposta: da quale mondo oscuro è giunta fra noi la Mantide col suo esercito di mostri? Posso solo avanzare un’ipotesi: per anni Loisio aveva sopportato in silenzio angherie e soprusi senza mai lamentarsi. Quando finalmente capì che in quel suo ristretto mondo ormai saturo di ipocrisia per lui non c’era più posto, era fuggito verso l’oscurità e dal germe del suo rancore tanto a lungo covato era nata, per una qualche misteriosa trasmutazione, una nemesi mostruosa che aveva divorato il suo creatore per poi spargere all’intorno i semi dell’odio e della vendetta. Il Pozzo delle anime Guardavo il cielo scuro attraverso i vetri della finestra e speravo che l’alba fosse vicina. In realtà l’alba è sempre lontana anni luce per chi, come me, non riesce a dormire in pace. Così mi sono rimesso a letto e sono rimasto solo nel buio a fare i conti con me stesso. Ovviamente i conti non tornano mai. Devo essermi addormentato, ma il mio era un sonno estremamente inquieto; attorno al mio letto percepivo un continuo tramestio; in principio mi sono illuso che fosse il gatto affamato che veniva a reclamare la sua cena, ma poi ho capito che erano tornati gli spettri. Per non vederli tenevo gli occhi serrati ma, anche con le palpebre chiuse, potevo distinguere vagamente ciò che accadeva nella penombra. Mia madre fluttuava silenziosa sopra di me e mi fissava con occhi ostili; evidentemente, la mia indipendenza attuale la indisponeva. Ho cercato di raggiungere con le mani la lampada elettrica sopra la mia testa, ma quella non voleva saperne di accendersi. Alla fine mia madre è sparita senza dire una parola ed è apparsa la vecchia zia: sembrava più grigia e scheletrica del solito: forse anche i morti soffrono come noi e si consumano con le loro ossessioni. La zia si è avvicinata al mio capezzale ed ha infilato un pacchetto di dolci sotto il mio cuscino, poi ha sussurrato qualcosa come: “ Ricordati di darne anche agli altri! ” Quali altri? ho pensato, di tutta la famiglia son rimasto solo io in questa casa cadente. Lentamente, in un silenzio irreale, anche la zia si è allontanata. Ora la luce funzionava; in preda all’agitazione mi sono vestito in fretta e sono uscito. Sopra i tetti, una luna tonda e giallastra illuminava le strade scure e deserte. Senza una meta precisa, mi sono avviato verso il fiume. Camminando, rimuginavo: una città di gente gretta ed inerte: gli unici che hanno vita facile qui sono i vigili urbani che sguazzano nel traffico caotico. Sul lungofiume c’è una vecchia casamatta austriaca dove anni fa dei drogati vagabondi sono stati bruciati vivi: non si è mai saputo chi sia stato a spargere la benzina e ad appiccare il fuoco mentre quelli dormivano perduti nei loro sogni intossicati. Comunque, il mattino successivo quel cumulo di ossa carbonizzate non era precisamente un bello spettacolo e dal tugurio si levava un lezzo infernale di carne bruciata. Uno soltanto aveva evitato il rogo gettandosi dal bastione nel fiume sottostante, ma s’era spezzato le gambe e la testa sull’argine. Ho proseguito lentamente fino al Pozzo delle Anime: soltanto una vecchia cisterna vuota dalla quale, in certe notti di plenilunio, si odono uscire gemiti soffocati. Ho sporto la testa oltre il bordo: nella pallida luce lunare ho intravisto una miriade di mani spettrali che si tendevano verso di me. Ne ho afferrata una a caso ed ho preso a tirare; quello che è uscito fuori era incredibilmente leggero anche per le mie scarse forze. Un giovane pallido come il marmo, vestito alla moda del secolo passato: giacca nera e stiracchiata, colletto rigido di una camicia che molti anni addietro doveva essere stata bianca, pantaloni attillati grigi e scarpe con le ghette. Aveva l’espressione spaesata di chi si desta da un sogno, labbra sottili e grandi occhi foschi; l’unico difetto: orecchie troppo larghe ed un sorriso forzato che gli deformava l’espressione del viso altrimenti intelligente. Cominciò a parlare con un certo imbarazzo: disse che veniva addirittura da Praga ma, prima del suo prematuro trapasso, era vissuto per due anni a Berlino. Ovviamente non si esprimeva nella mia lingua: biascicava uno tedesco piuttosto arcaico infarcito di espressioni tipicamente ebraiche. Capivo pochissimo di quello che raccontava, credo di avergli udito narrare che occulti passaggi sotterranei collegano tutti i cimiteri d’Europa al pozzo da cui l’avevo appena aiutato ad uscire. Era estasiato dalla luna piena, dall’aria umida di quella notte autunnale e dal corso placido del fiume che scorreva accanto a noi. Gli chiesi il suo nome, anche se già l’avevo immaginato. Mi rispose: “ Ich bin Franz. Franz Kafka!… Lei è stato molto cortese a farmi uscire dal pozzo.” “ E adesso che sei uscito, che hai intenzione di fare? “ Dopo tanto buio, io vorrei rivedere il mondo!…” “ Non so se è una buona idea: è peggiorato parecchio dai tuoi tempi. Lo sai che c’è stata una guerra, i campi di sterminio per tutti quelli come te; sei milioni di ebrei uccisi? “ “ Ho sentito raccontare qualcosa di simile dalle mie sorelle. Quello che più mi dispiace è che la mia biblioteca sia stata saccheggiata. D’altronde ciò che scrivevo valeva assai poco. Ho incaricato il mio amico Brod di bruciare tutto. “ “ Per fortuna non l’ha fatto. Pare che tu goda ancora d’una certa fama. “ “Questo davvero non è possibile! Tutto quello che ho scritto era così… grausig!… Come si dice?… Lugubre! La mia vita non è stata facile, soprattutto a causa di mio padre. Avrebbe voluto che fossi più pratico. Una moglie, una famiglia, una casa degna di lui!…” “ Non sei il solo ad avere questi problemi. Per qualche infernale motivo, fra genitori e figli non è mai stata possibile alcuna intesa. “ “ Neanche lei ha famiglia?…” Dal suo tono si capiva l’imbarazzo di chi teme di fare una domanda indiscreta. “ Io, ormai, mi intendo solo con i morti e col mio gatto. Per il resto del mondo non esisto. “ “ Lei è un artista?…” “ Scrivo musica, ma non interessa a nessuno. Per il resto, sono messo peggio di te: tu almeno a quarantadue anni hai finito di penare. Io sono più vecchio e senza futuro. I miei lavori sono come strani fiori sbocciati in mezzo al deserto; probabilmente moriranno con me. “ “ Se lei è d’accordo, io sarei molto interessato ad ascoltare la sua musica!…” Piuttosto sorpreso, lo fissai diritto in quel suo viso magro e cinereo. “ E perché mai? “ “ Lei mi ha tratto dal pozzo.” “ Comincio a chiedermi se ho fatto bene. “ “ Mi ha concesso una nuova opportunità. Consenta che le restituisca il favore.” Per un po’ continuammo a camminare in silenzio, piuttosto a disagio entrambi. Alla fine gli dissi: “Non credo che ti troveresti bene nel mondo moderno. Io ci sopravvivo da una vita e ti assicuro che fa abbastanza schifo.” Finalmente, ad oriente il cielo cominciava a schiarire: s’annunciava un altro mattino grigio e piovoso. Camminando eravamo giunti all’imbocco del vecchio ponte romano. Che idea, diventare amico d’un fantasma. Certo, si trattava d’un tipo famoso, ma ormai defunto da decenni. Chissà come avrebbe reagito il mio gatto nel vederlo! Ma perché no? In fondo meglio con Kafka che solo come un cane. Con un mezzo sospiro gli dissi: “ Andiamo, casa mia non è lontana.” Paolo Fiorino Il predatore Estate 2012 Cosa ci poteva essere di peggio che morire in quel modo? Forse solo non morire affatto. I pensieri di un trentenne non dovrebbero mai essere così disperati, ma in certe situazioni non si può essere molto ottimisti, nemmeno da giovani. Ormai aveva perso il conto delle sue vittime. La ragazza di oggi, appesa a testa in giù e scuoiata viva come uno scoiattolo, era solo l’ultima di una lunga lista. La scena appariva ancora vivida davanti ai suoi occhi. Vedeva ancora distintamente il sangue colare dal suo corpo straziato e si raccogliersi in una pozza scura sotto di lei. Vedeva le braccia che pendevano come rami spezzati. Ma soprattutto sentiva ancora distintamente le urla di dolore che erano risuonate nella cantina mentre compieva la sua opera. Aveva inciso la pelle quel tanto che bastava per sollevarne alcuni lembi poi aveva tirato con cura fino a staccarla come un guanto. I muscoli pulsanti erano venuti allo scoperto, ma la ragazza non era morta subito perché per prolungare la sua agonia l’aveva appesa a testa in giù in modo che il sangue affluisse al cervello in maggior quantità e la tenesse cosciente fino all’ultimo. La sua pelle ora era poco più di un fagotto gettato sul pavimento come un vestito vecchio, uno spettacolo al tempo stesso nauseante ed esaltante. Lo disgustava tutto quel sangue ma al tempo stesso sentiva che l’odio che lo possedeva si nutriva di quel dolore e con esso si rafforzava. La bestia che albergava nel suo corpo si era acquietata solo dopo aver avuto ciò che desiderava, solo quando il cuore della ragazza aveva ceduto e le sue urla disperate erano cessate. Adesso forse lo avrebbe lasciato in pace per qualche giorno. Forse. Ormai non era più sicuro di nulla. Il tempo tra una caccia e l’altra si riduceva sempre di più e la crudeltà con cui eseguiva le sue condanne a morte cresceva in maniera incontrollata. La bestialità di quanto era capace di fare lo sgomentava, non tanto per le azioni in sé quanto per il fatto che sentiva di non potersi più fermare. Ma poi, in fondo doveva ammetterlo, si divertiva con quei giochi. Godeva del male che faceva e desiderava spingersi sempre un po’ oltre. Guardò con freddezza il cadavere appeso. Oggi è toccato a te, mi spiace. Voltò le spalle e se ne andò. Non avrebbe smesso. Mai. Estate 2012 Quello spettacolo era quasi insopportabile. Quasi. Perché dopo tanti anni passati a vedere cadaveri martoriati un po’ ci si fa l’abitudine e le cose cominciano a sembrare un po’ meno gravi, un po’ meno importanti. A poco a poco tutto comincia a sbiadire attorno a te e sembra che a un certo punto nulla abbia più davvero importanza. Ombre. Niente di più. Le persone vivono e svaniscono senza lasciare tracce, come ombre gettate sul muro dai fari di un’auto di passaggio. Però uno spettacolo del genere era un po’ troppo, perfino per uno come per lui. Doveva fermarlo, impedire che succedesse di nuovo. O almeno che succedesse ancora troppe volte. Il poliziotto prese un pacchetto di sigarette dal taschino della camicia e se ne accese una. Aspirò il fumo acre e si preparò alla caccia. Estate 2010 Il vecchio giaceva riverso sull’asfalto. Si era accasciato tra i rifiuti proprio davanti ai suoi occhi. Cazzo, ma non poteva aspettare ancora qualche minuto? Non poteva aspettare che fossi passato? Sbuffando gli si avvicinò per tentare di aiutarlo. Tese la mano e lo afferrò per una spalla, nel tentativo di rigirarlo a faccia in su. Al contatto con la stoffa della sua giacca provò un brivido di disgusto così intenso che dovette ritrarsi per un istante. Ma che ti prende? E’ solo un vecchio che sta male. Vincendo il ribrezzo, lo voltò e lo aiutò a mettersi seduto. - Signore? Come sta? Ce la fa ad alzarsi? – gli disse. Il vecchio non rispose. La sua tesata ciondolò come quella di una bambola dal collo spezzato. Sbuffò per il caldo che gli faceva appiccicare la stoffa della divisa alla pelle. Afferrò il mento del vecchio e gli sollevò la faccia. Un disgustoso rivolo di bava gli colava da un angolo della bocca. Di colpo il vecchio spalancò gli occhi e lo afferrò per un braccio con un vigore insospettabile. La sua presa era così forte che non poteva essere vinta. La stretta gli procurò una fitta di dolore lancinante, ma la cosa peggiore fu l’essere obbligato a sostenere lo sguardo vitreo del vecchio. Era uno spettacolo terribile, come se da quelle due palle spente e prive di vita sgorgasse un’energia che non poteva essere compresa. Tutto il male e il marciume dell’universo parevano essersi concentrate in quello sguardo. Il terrore si impadronì di lui. Sbarrò gli occhi e cominciò a tremare. In un solo istante perse completamente il controllo del proprio corpo. Non riusciva più a muovere un muscolo e benché desiderasse con tutte le sue forze alzarsi e fuggire, non ci riusciva. Non poteva nemmeno girare la testa o chiudere gli occhi, era costretto a sopportare quello sguardo carico di odio che gli penetrava nella testa e bruciava i suoi pensieri come uno stiletto arroventato. Tentò di urlare ma le parole gli morivano in gola. Per un attimo temette di morire, poi cominciò temere di continuare a vivere. Il terrore era troppo grande. Insopportabile. Il cuore gli martellava nel petto come impazzito e pareva voler esplodere da un istante all’altro. Il vecchio lo fissò intensamente ancora per qualche istante poi chiuse gli occhi, allentò la presa e ricadde all’indietro, privo di vita. Di colpo la morsa che lo aveva trattenuto si indebolì e il cieco terrore che lo aveva sopraffatto scomparve. Si alzò di scatto e arretrò di un paio di passi. Si guardò attorno, ancora squassato da un tremito incontrollabile, e si mise a correre a perdifiato, nel vano tentativo di allontanarsi dall’orrore che aveva appena vissuto. Estate 2012 Risolvi il caso in fretta, gli aveva detto il commissario. Già, in fretta. Come se si trattasse di una cosa facile. Ma in fondo era colpa sua. Lo aveva abituato bene e adesso doveva giustificare le sue pretese. Questa volta però non aveva appigli né indizi. Gli omicidi erano brutali e inspiegabili e le vittime parevano scelte in modo casuale, senza premeditazione. La solita sigaretta gli pendeva dalle labbra, ma questa volta il fumo che gli bruciava la gola e i polmoni non lo aveva aiutato a concentrarsi. C’era qualche traccia di cui non si era accorto? Qualcosa di cui lui e la scientifica insieme non si erano accorti? Poco probabile. Anzi impossibile. Eppure nessun delitto è mai perfetto, se un caso non viene risolto è sempre colpa dell’investigatore che non sa cogliere le tracce. La soluzione era davanti ai suoi occhi, solo che lui non poteva vederla. Eppure la sentiva. Era vicina ma inafferrabile. E questo lo faceva impazzire. Non aveva mai fallito e non intendeva cominciare questa volta, costasse quel che costasse. Non gli importava di altro nella vita. Estate 2012 Ancora in caccia. Ancora una vittima da trovare. Ancora e ancora. Senza fine. Senza scopo. Senza rimedio. All’improvviso vide l’uomo e seppe che era lui quello che stava cercando. Era un individuo di circa quarant’anni, alto, ben vestito con i capelli corti e il viso affilato. Perse il controllo. Buio. Una scarica di adrenalina lo invase, il suo corpo reagì con un brivido. Riaprì gli occhi e lo vide. Non dovresti girare da solo a quest’ora della sera, stronzetto. La sensazione di onnipotenza che provava in quei momenti era l’unica cosa buona della sua vita. Per il resto era uno schifo. Un lavoro noioso, pochi soldi, solo qualche bicchiere a tenergli compagnia. Nulla per cui valesse la pena di vivere, in ogni caso, ma quei momenti lo ripagavano di tutto. Un solo istante vissuto così lo ripagava dello squallore di interi anni. Qualcosa per cui valesse la pena di vivere c’era, dopotutto. Diede un colpetto sulla spalla dell’uomo per attrarre la sua attenzione. L’uomo si voltò e lo fissò. - Che vuole? Nulla, solo la tua pelle. Senza dargli tempo di reagire lo colpì con un diretto al volto che lo fece stramazzare a terra. Gli fu sopra in un attimo e lo colpì alla testa con un manganello telescopico che aveva estratto da una tasca posteriore dei pantaloni. Non ci fu bisogno di un secondo colpo. L’uomo cadde riverso, privo di conoscenza. Lo afferrò per le spalle e lo caricò in fretta sul furgone. Era sera e la strada era deserta, nessuno poteva averli visti. Lo gettò senza molto riguardo nel retro, poi si mise alla guida e partì. Non si curò di legare la sua preda. Era sicuro che il colpo che gli aveva assestato fosse abbastanza forte da tenerlo fuori gioco per molte ore. Estate 2010 Correva da un tempo che gli pareva infinito ma ancora non si sentiva tranquillo. Non aveva messo abbastanza distanza tra lui e il cadavere di quel vecchio. Anzi, per quanto corresse sentiva che il pericolo non si allontanava. Vecchio bastardo! Ma cosa cazzo mi ha fatto? Qualcosa era cambiato in lui. Se ne rendeva conto ma non riusciva a spiegarselo. Non aveva mai avuto così tanta paura in vita sua come quando aveva incrociato lo sguardo di quel relitto umano. Non era l’uomo che lo aveva spaventato, era evidente, ma qualcos’altro di infinitamente pericoloso. E quel qualcosa lo seguiva, ne era certo. Non sapeva cosa fosse né cosa volesse da lui, ma era certo che fosse alle sue spalle pronto a ghermirlo. Non poteva liberarsene. Non lo avrebbe mollato. Mai. Poi lentamente, passo dopo passo, la paura cominciò a scemare. Il suo cuore rallentò e la scarica di adrenalina che lo aveva fatto schizzare via come un proiettile impazzito si esaurì. Rallentò la corsa. Ora si sentiva meglio. Rallentò ancora e infine sì fermò, ansante. Il sudore scorreva a rivoli sulla sua pelle ma si sentiva davvero meglio. Si stupì di quanto si sentiva bene, molto più di quanto si fosse mai sentito prima. Era una percezione inspiegabile, ma piacevole. Tutto il terrore e il disgusto di poco fa parevano essersi dileguati e quella che provava non era solo la sensazione di scampato pericolo, ma qualcosa di più profondo. Si sentiva forte. Molto forte. Invincibile, questa era la parola giusta. Estate 2012 L’uomo nudo era legato al tavolo in modo che non sarebbe mai riuscito a liberarsi. Grosse corde gli serravano i polsi e le caviglie e si incrociavano sotto il piano del tavolo in un nodo che si stringeva sempre di più quando l’uomo si contorceva nel tentativo di liberarsi. Lo aveva imbavagliato perché la sua voce stridula lo infastidiva. Ora emetteva solo dei mugolii incomprensibili. Prese un grosso coltello da macellaio dalla lama affilata e cominciò a incidere le sue carni a partire dalle piante dei piedi. Questa volta non gli importava molto di tenere in vita la sua vittima per lungo tempo. Gli importava solo di causargli il maggior dolore possibile. Cominciò, tracciando un solco sanguinante sulla gamba destra, fino all’anca. Attese un attimo, per far calmare le contorsioni che avrebbero rovinato la sua opera, poi passò all’altra gamba. Con la lama disegnò a lungo, incidendo e sollevando lembi di pelle ma senza causare ferite mortali. Il sangue scorreva copioso. Pochi minuti ancora e l’emorragia sarebbe stata fatale. A quel punto era ormai pronto. Afferrò i lembi di pelle che aveva sollevato dalle gambe e cominciò a tirare lentamente, scoprendo i fasci muscolari. - Sei un vero elegantone, ma uno come te dovrebbe badare un po’ meno alle apparenze e un po’ di più a ciò che ha dentro. L’uomo ebbe un tremito violento e si inarcò. - Già, ma cos’avrai dentro? Vogliamo dare un’occhiata? Con un forte strappo separò la pelle del torace dai muscoli sottostanti. L’uomo si irrigidì e poi di colpo si distese. Dolore. Un lungo brivido di piacere gli discese lentamente lungo la schiena. Poi più nulla. Silenzio. Era tutto finito, ma questa volta non sentiva la stessa soddisfazione. Sentiva un impulso interiore, una pressione strana. La sua mente voleva qualcos’altro, qualcosa di diverso. Inspiegabilmente mancava ancora qualcosa a quella scena per raggiungere la perfezione. Era una sensazione che aveva già provato, ma mai con tanta intensità. Strinse le spalle, come a voler scacciare quel pensiero che pareva provenire da un altro luogo. Si accese una sigaretta e aspirò il fumo azzurrognolo. Il sapore acre della nicotina aveva sempre avuto il potere di calmarlo. E in effetti anche questa volta pareva aver funzionato. Ora si sentiva più tranquillo. Ora c’era davvero tutto. Tossì e gettò la sigaretta di lato. Poi si allontanò. Ancora in caccia. Estate 2010 Si sentiva forte e invincibile. Non era mai stato così bene. I suoi muscoli parevano esplodere di rabbiosa potenza e i suoi sensi erano acuti come quelli di un predatore. Gli era accaduto qualcosa di inspiegabile quella sera e ne era felice. Però c’era qualcosa che ancora gli mancava. Una sensazione profonda lo tormentava. Era una sensazione indescrivibile, come un desiderio a lungo represso che stava gradualmente tornando a galla. Di colpo tutto si fece chiaro. Era un predatore. Buio. Adrenalina. La caccia era cominciata. Estate 2012 Gli ultimi due erano una donna appesa a testa in giù e un uomo legato a un tavolo. Entrambi erano stati scuoiati vivi. Non c’era altro. Nessun movente e niente arma del delitto. Nulla di nulla. Ancora una volta. Fino a che aveva notato la traccia. C’era un mozzicone di sigaretta a pochi passi dal tavolo dell’esecuzione. Lo aveva raccolto senza farsi vedere e nascosto in una tasca dei pantaloni. Stava nascondendo una prova e non sapeva nemmeno perché. L’unica cosa di cui era certo era che quella era l’unica cosa giusta da fare. E quel mozzicone gli aveva aperto gli occhi. Su tutto. La saliva sul filtro era sua, glielo aveva confermato il laboratorio, a cui lo aveva consegnato per la comparazione assieme a un suo campione. Il tizio del laboratorio gli doveva più di un favore e quindi non fece domande. Quel mestiere si faceva di giorno in giorno più difficile, e lui aveva un disperato bisogno di aiuto. Per questo si era rivolto allo psicologo. Ma non era servito. Poi aveva trovato una strada alternativa. O meglio, la strada alternativa aveva trovato lui. Da tempo era perseguitata da visioni di feroci omicidi e ora volava liberarsi da quel fardello. Questa cosa andava fermata. Senza aspettare oltre. Accarezzò la canna della pistola e se la infilò in bocca. Era il modo migliore di uccidersi, lo sapeva molto bene. pararsi alla tempia a volte non risolveva la situazione. Alcuni aspiranti suicidi sopravvivevano al proiettile e passavano il resto della loro vita come larve in letto d’ospedale. Invece un proiettile sparato direttamente nel palato faceva inevitabilmente volare via gran parte della calotta cranica e metteva fine a tutto, senza problemi. Era difficile accettare che fosse giunta la fine, ma tutto sommato era meglio così. Essere un poliziotto era già abbastanza faticoso, ma questo era davvero troppo. Da quando, due anni prima, aveva aiutato quel vecchio nulla era stato più lo stesso. Uno stronzo demone del cazzo. Ma proprio a lui doveva capitare? Un fottuto spirito maligno che si era impadronito di lui e lo costringeva a uccidere per soddisfare la sua voglia incontenibile di male. E se non fosse stato così attaccato al suo lavoro di poliziotto non si sarebbe trovato in quella situazione. Ora non sarebbe stato al capolinea della sua vita con una pistola in bocca. E invece quel suo maledetto senso del dovere aveva dovuto mettersi in mezzo. Aveva dovuto spingerlo a lasciare in giro quel mozzicone di sigaretta. Aveva dovuto lasciare una traccia per far catturare l’assassino. Solo che l’assassino era lui. Una specie di confessione involontaria. Uccidere non era un bel passatempo per un poliziotto. Non era un bel passatempo per nessuno, a dire il vero, però per un poliziotto era ancora peggio. Doveva fermarsi, una volta per tutte e non c’era altro modo. Doveva smettere di essere un predatore. Strinse il grilletto fino al limite, un millimetro dopo l’altro, lottando per vincere la resistenza del suo istinto di autoconservazione. Le sue nocche sbiancarono per la tensione. Ancora un millimetro e l’esplosione della cordite avrebbe messo fine a quel delirio. Ancora un millimetro, quello più difficile, l’unico che contasse davvero e poi tutto sarebbe finito. Ancora uno sforzo. Ancora uno. Buio. Adrenalina. Si tolse rapidamente la pistola dalla bocca e la rimise nella fondina, con un sorriso gelido. In fondo per morire c’era sempre tempo. Prima valeva la pena di divertirsi ancora un po’. Maurizio Antinori Inchiostro rosso Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi. Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano dietro. E’ il potere della pagina bianca, credo. Ti risucchia e ti libera: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte. “Allora?” mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta. Io non lo guardo. Sento il peso del suo sguardo mentre il fumo invade prepotentemente il vuoto dell’aria. Avrei voglia di fargliela mangiare, quella sigaretta. “Possibile che la tua vena creativa si sia esaurita qui?” sbotta lui rompendo di nuovo l’imbarazzante silenzio del mutismo che mi ha colpito. Non parlo, ma se avessi penna e foglio scriverei quello che penso; il mio lavoro è scrivere, non parlare. Sento che è il mio momento. So che sta per nascere qualcosa. Sono pieno di idee; sono un vulcano di idee. Intanto la stanza sta riempiendosi di parole e fumo. Non ascolto più. Parole e fumo. Ma quanto parli? Scrivitelo da solo un romanzo, se hai tutte queste cose da dire. Mi scappa un sorriso e le parole svaniscono. Alzo lo sguardo e nella stanza c’è solo fumo. Il mio sorriso deve aver infastidito parecchio l’editore che è uscito dalla stanza sbattendo la porta. Questo fumo che galleggia mi fa pensare alle anime dannate. Chissà perché? Devo aver visto qualcosa di simile in qualche film; o magari è così che le ho immaginate leggendo un libro. Questo rosso alle pareti; questa luce giallognola. Mi piace. Ecco, potrei iniziare a scrivere, ora. Ma non ho un foglio. Diavolo! Possibile che non ci sono fogli nello studio di un editore? Che assurda contraddizione. Il fumo sta svanendo, e così anche la mia idea. Perché la devi scrivere subito; va colta al volo, l’idea; altrimenti sbiadisce e si confonde con nuovi pensieri che contaminano la scintilla che avrebbe acceso il fuoco. Fuoco e fumo. Mi scappa un’altra risata. La mia testa è in continua fibrillazione. Ogni cosa che vedo, ascolto, respiro. Ogni cosa mi accende un’idea. E’ il mio momento e devo sbrigarmi. Mi serve il foglio. Mi serve la pagina bianca. Forse dentro un cassetto della scrivania. Tendo l’orecchio: niente. Non voglio che l’editore mi trovi a frugare nella sua scrivania, ma ho bisogno di un foglio. Sposto piano la sedia dove sono seduto e sento che il tappeto è dalla mia parte assorbendo eventuali rumori delle gambe. Mi alzo piano. Tendo l’orecchio: niente. Respiro lentamente mentre la gola si restringe e il battito cardiaco aumenta di potenza rimbalzando nelle mie tempie. Ma cosa mi prende? Io voglio solo un foglio. Controllo il respiro e ritrovo subito il controllo. Faccio il giro della scrivania. Due cassetti si trovano sulla destra. Apro il primo, ma non si tira. Deve essere chiuso a chiave. Provo con l’altro. E’ aperto. Bingo! Prendo un po’ di fogli, chiudo il cassetto e torno a sedermi sulla sedia. Ora ti faccio vedere io di che pasta sono fatto, quando rientri, caro il mio editore ti farò trovare l’incipit di una grande storia. Rimarrai senza fiato. Ti sbalordirò. Fisso la pagina bianca. Lei fissa me. Stiamo stabilendo un contatto. Mi lascio trasportare. Ci siamo. Il bianco mi circonda. Non ho bisogno della penna, qui; mi basta pensare. Muovere le mani, dare un calcio e tutto prenderà forma così come voglio. Sono in una sorta di trance. Il mio corpo è li fuori che scrive, ma io sono qui: nella pagina. Sapevo che ci sarei riuscito. Lo sentivo. Era da tanto che non provavo questa sensazione. La sensazione di fondermi con il foglio. Ma ora basta, devo cominciare. Ma? Cosa è stato? Sento dei passi. Deve essere lui che ritorna, ma non può proprio ora; non ho ancora finito. Non bado a lui e comincio a dare forma ai miei pensieri. La porta, che è alle mie spalle, si apre. “Allora?” mi chiede di nuovo accendendosi un’altra sigaretta. Io continuo il mio lavoro; non voglio essere disturbato. Questa fase è la più importante non posso uscire dal foglio proprio ora. “Ma che diavolo stai facendo?” mi apostrofa indicando il foglio. Ancora non ho scritto niente. La sua presenza mi disturba, ma non voglio uscire da questo cazzo di foglio. Sento che sto iniziando a sudare. Sono troppo nervoso. Non devo pensare a lui, non devo pensare a lui. Gocce di sudore mi imperlano la fronte. Non devo pensare a lui, non devo pensare a lui. L’editore fa qualche passo verso di me. “Vaffanculo!” urlo con tutta la rabbia che ho dentro e lo ripeto per tre volte urlando a squarciagola l’ultima vocale. Ma nella stanza non risuonano le mie parole. Le mie parole prendono forma sul foglio bianco. La faccia dell’editore, che ha letto il foglio da sopra le mie spalle, è un misto di stupore e rabbia. Mi rendo conto che non è l’incipit col quale avrei voluto meravigliarlo. Dopo un lungo attimo l’editore mi strappa il foglio da sotto mano. “Ma dico, sei proprio impazzito?” mi dice fissando il foglio e senza rendersi conto che in realtà sta fissandomi negli occhi. Il mio corpo non si muove ma io sostengo il suo sguardo. “Tu devi farti vedere. Non stai bene. E invece di scrivere cazzate, vedi di buttare giù il romanzo prima della scadenza del contratto, o sono guai per te.” Così dicendo prende il foglio con due mani e lo strappa una, due tre e più volte. Il dolore è indescrivibile. Sento una lama che mi entra in testa per ogni strappo dell’editore alla pagina. Ho l’impressione che qualcuno abbia scoperchiato la mia calotta cranica e stia inzuppando biscotti nel mio cervello. L’editore mi da una botta sulla spalla e il mio corpo, ormai privo di vita, cade inerme sulla scrivania. “Ma che diavolo…?” non finisce la frase. Sto morendo. Tutto si sta spegnendo. Ma non posso fare a meno di ridere. Rido e mi chiedo se saprà mai spiegarsi, l’editore, quel rivolo blu che esce dalla mia bocca, e quel liquido rosso e appiccicoso che non smette di fuoriuscire dal foglio che ha strappato. Andrea Mazzolini La grande nevicata Dove sono le nevi d’un tempo che l’aprile ha disciolto? François Villon Le previsioni del tempo erano inclementi e non lasciavano spazio a nessuna incertezza. La neve sarebbe caduta copiosa per una settimana, coprendo l’intera regione. I giornali, le radio, le tv non parlavano d’altro. Era una continua, noiosa, incessante raccomandazione a fare scorta di cibo e acqua, coperte e legna. Le autorità locali avevano predisposto tutti i mezzi a disposizione e la guardia nazionale aveva procurato dei vecchi motori diesel da utilizzare come generatori di corrente. Ci mise un po’ a raggiungere la cornetta del telefono, le gambe di Jack non erano più quelle di una volta. — Pronto, chi parla? — Papà, sono io, sono Danny e… — Senti, senti chi sa fa vivo, saranno due anni che non mi chiami! Che cosa vuoi da me? — Senti papà, lo so che non mi faccio vivo da un secolo ma ora verrà questa tremenda nevicata e preferirei che tu stessi in città con noi. Lo so che non vai d’accordo con mia moglie ma non puoi sopravvivere tutto solo… se vuoi oggi pomeriggio passo a prenderti e… — Ho tutto quello che mi serve. Non sarà una stupida nevicata a togliermi dal mondo. E poi non sono solo, sono qui con tua madre Wendy. — Papà, la mamma è morta da quasi cinque anni… Non ci fu nessuna risposta, Danny sentì soltanto un click, suo padre aveva riattaccato. Jack non credeva molto alle previsioni del tempo e a tutte le altre stupidaggini che fanno vedere in tv. E poi la neve da quelle parti non veniva mai, se non una lieve spruzzatina che si scioglieva di solito in un pomeriggio di sole. Quella sera andò a letto presto, come sempre, dopo aver augurato la buonanotte a sua moglie. “Wendy, amore mio. Nostro figlio ci ha chiamato questa mattina, voleva che me andassi in città da lui, in casa con quella sgualdrina di sua moglie. Figuriamoci! Anche lui crede a questa stupidaggine della grande nevicata. E se proprio deve nevicare, che cosa avrei dovuto fare, secondo lui? Lasciarti qui da sola? Io Danny non l’ho mai capito davvero… Buonanotte, amore mio”. Si svegliò nel cuore della notte silenziosa e andò alla finestra. Nella luce di un lampione capì che forse le previsioni non avevano sbagliato più di tanto. La neve cadeva copiosa sulla stanca terra; la sua vecchia automobile, il capanno con gli attrezzi, le siepi in giardino, tutto era già sepolto sotto una candida coltre. Non aveva mai visto così tanti fiocchi in vita sua, sembrava che mille secoli di neve stessero scendendo all’improvviso. “Wendy, amore mio, nevica davvero ma il vecchio Jack non ha di certo paura della neve. Ho fatto la guerra io, ho visto la terra rossa di sangue e di dolore, non sarà qualche fiocco a spaventarmi”. Tornò a letto e nel silenzio di quella notte bianca si riaddormentò. Si alzò di buon ora e, come faceva da una vita, preparò la colazione per sé e per sua moglie. La neve continuava a scendere ininterrottamente. Fu mentre lavava le tazze della colazione che andò via la corrente elettrica. “Wendy, ora telefono alla centrale elettrica, anche se nevica devono venire subito da noi, non potranno lasciarci qui da soli al buio”. Anche il telefono però non funzionava. Fu allora che il vecchio Jack capì che non sarebbe stato così facile andare avanti. Lui, però, non era un uomo moderno, uno di quelli che si abbatte alle prime difficoltà. Aveva cibo a sufficienza e un po’ di legna in casa, si sarebbe scaldato, al limite avrebbe bruciato i mobili. In fondo, nevicava da poco più di dodici ore. Le previsioni non avevano sbagliato. La neve cadde per giorni e notti e notti e giorni. I mezzi di soccorso non potevano agire e molte zone rimasero completamente isolate. “Wendy, amore mio, sono quattro giorni che nevica, non ho più niente da mangiare, forse avrei dovuto andare in città da Danny; ma non ti volevo lasciare qui da sola. Dobbiamo risparmiare anche sulla legna, hai freddo, amore mio? Io me ne andrò a letto, proverò a scaldarmi sotto le coperte”. Sognò sua moglie, come sempre. Erano stati insieme una vita, si erano sempre voluti bene. Quando si svegliò aveva fame e molto freddo, tremava. Vide sua moglie lì davanti a lui che gli sorrideva. “Vieni, Jack, amore mio, ti aspettavo”. La neve smise di cadere. Anna Cibotti Sepolta viva Era una specie di dormiveglia, lo stato in cui Ronda si trovava, mentre sentiva il suono attutito dei colpi ritmati prodotti dalla terra che pian piano la stava coprendo. Ne percepiva appena l’odore. Era una coltre umida che le si appiccicava addosso facendola rabbrividire di freddo e di terrore. La sua mente rifiutava il risveglio da quello stato di torpore, per non conoscere l’orrenda realtà. La terra cominciò ad avvolgerla come una coperta e se la sentì nella bocca, nel naso e bruciare negli occhi. Cercò disperatamente di muovere le braccia e le mani cercando di togliersela di dosso. Le braccia erano di piombo sotto quello spesso lenzuolo umido e nero che pesava, pesava su di lei come un macigno. Sepolta viva. Questo le disse la mente i cui pensieri corsero in fretta. Non c’era tempo per dilungarsi in essi. Rivide lui sorridente che le offriva il bicchiere pieno di frizzanti bollicine e l’ultima perfida carezza prima che perdesse i sensi. Ancora viva per qualche attimo per farsi e fargli una promessa. Il suo corpo nascosto sotto un cumulo di terra bagnata odorosa d’erba non ancora marcita, sarebbe stato cibo per i vermi, ma la sua energia avrebbe vissuto ancora e ancora. In ogni istante della vita di quel essere immondo che aveva creduto l’amasse, lei gli sarebbe rimasta accanto. Per odiarlo. Lui, avrebbe trovato ogni notte tracce di terra e saliva sulle sue lenzuola. Avrebbe sentito nelle orecchie il suo sospiro di morte. In ogni momento del giorno lei era con lui. Un’ombra nera e fredda. L’urlo che sentirono in strada i passanti, quella sera d’autunno inoltrato, mentre calpestavano le foglie gialle e accartocciate, immobili nell’aria senza vento, fu il suo grido di paura. Un grido infinito che si portava dietro da mesi. Ora era uscito come una liberazione. Per morire con lui. Angelo Francesco Anfuso Una voce arcana Vagavo nella notte, girando per la periferia, senza avere un minimo di orientamento, senza nessun punto di riferimento, come se cercassi chissà che cosa. Ero stanco, ansimante, il freddo gelido mi gravava sui sensi, il respiro si faceva sempre più lento, si faceva sempre più fitto e denso, come se fosse una nube bianca. Qualcosa mi impediva di vedere oltre… Non c’era nessuno, tutto era buio, a stento si intravedeva un misero raggio di luna piena che filtrava miseramente la nebbia. Sentivo una voce, delicata, di un bambino che mi diceva di non fermarmi, di andare dove lui voleva. Ma non riuscivo a comprendere dove mi volesse portare. Ad un certo punto, mi sfiorò il viso, mi prese per la mano dicendomi di andare con lui. Ero bloccato, non avevo la forza di dire chi sei, cosa vuoi, dove mi porti…. Insomma avevo il senno bloccato. Mi lasciai portare, fissando lo sguardo tra il fitto buoi della periferia, senza sapere dov’ero. Strada buia, ignota. Ero solo, non vedevo nulla, anche la luna si eclissò, l’unica cosa che sentivo a parte la sua voce era il calore della sua mano, ma non lo vedevo. Ero stanco, non avevo più forza mi lasciò la mano ed io e caddi per terra. Dopo qualche istante, la sua mano mi accarezzo i capelli, e mi sussulto all’orecchio parole che non comprendevo, sentivo il suo alito, ma non capivo cosa dicesse. Alzo gli occhi ero un bambino di quasi dieci anni. Il suo volto era pieno di luce, pelle chiara e gli occhi pieni di lacrime. Sulla fronte aveva un marchio, uno strano simbolo, una stella che mutava, prima a cinque punte di colore rosso carminio e poi a sei punte di colore blu oltremare. Mi abbracciò e iniziò a cantarmi una ninna nanna, triste, con una cadenza a dir poco spenta. Ripeteva sempre una strofa “Vieni con me, ti porterò dove la notte prevale, dove ti aspettano lacrime amare”. Ma perché mi dici questo, dicevo a me stessa, un bambino dal nobile aspetto, con un sorriso angelico, perché mi vuoi condurre nel modo della sofferenza. Perché quel bimbo è crudele, che cosa ho fatto mai. Ad un certo punto, si senti un boato, la sua voce cessò e mi fissò negli occhi. Mi parlò con la forza del pensiero, dicendomi che era inutile che mi ponessi tutti quei perché. Restai fermo, rigido non riuscivo nemmeno a batter ciglio, ero pietrificato in tutto e per tutto. Ancora continuava a parlarmi, con quel sorriso a dir poco diabolico. Mi sfiorò il volto, e mi disse sotto voce: “ sei stato tu a chiamarmi, io ti ho detto che cosa vuoi e ti sei abbandonato a me”. Stavo male, io ho chiesto un po’ di serenità, un po’ di forza per alleviare il mio dolore, invece sei arrivato tu. Lui mi disse: “ tu, mi hai invocato, ed io ho ascoltato la tua voce disperata. Non chiederti il come, il quando e il perché, il tuo grido è stato tanto forte, che mi ha destato dal sonno di mia madre: la morte”. Non credevo, stentavo a crederci, facevo fatica, quel bimbo che mi ha preso per mano, che mi teneva fra le sue braccia era il mio fato, era il figlio della morte, lui era la morte, con lui stavo tracciando il mio ultimo percorso di questa misera vita terrena. Cominciò a inneggiare versi lugubri, dei carmi tristi e angoscianti, in cui il soggetto ero io, vittima infelice, anima pietosa, la quale non aveva nessun riparo nessun conforto, ero imprigionata da me stessa, la morte si era presentata al mio cospetto senza pensarci due volte, sotto le sembianze di un fanciullino, candido alla vista ma tremendo nell’intimo del cuore. Chiedevo pace, imploravo misericordia, ma nessuno mi ascoltava. Un coro di angeli, fecero da cornice a quel paesaggio lugubre semibuio. Tutti lentamente e con voce bassa iniziarono a recitare le stesse parole di quella dannata ninna nanna avevo canticchiato qualche attimo prima. Non è un canto ma un lamento, non era una ninna nanna ma un inno alla disperazione alla dannazione eterna. Ero presa dalla paura, dal timore, il mio corpo era gelato, iniziai a sudare sangue freddo, ero cosciente che mi mancavano pochissimi istanti, la richiesta della mia serenità non era altro che l’invocazione della morte… Lui mi lasciò, mi fissò per l’ultima volta e svanì nel nulla… Rimasi solo, avvolto da una luce soffusa, solo in lontananza si sentivano dei lamenti, strazianti e bagliori di folgore che andavano da oriente ad occidente… Mi addormentai… Mi sentii come un angelo con le ali spezzate… Dopo essere stato abbracciato da quel disperato sonno, tra sospiri di angoscia, mi ritrovai nei pressi di una collina, piena di alberi, colma ad alberi simili a cedro del Libano. Mi sollevai da terra, ero pieno di melma, e sui rami stavano fermi decine di gufi, che mi fissavano, come se fossero pronti a precipitarsi sulla mia carne, mezza putrefatta. Iniziai a percorrere il viale, a solo pochi metri di cammino, vidi una sorgente luminosa, cercai di riprendermi la forza perduta e sentii una voce. Che mi disse: “mio amato, mi tutto”. Appena spalancato gli occhi, mi ritrovai il suo volto dinnanzi al mio, era sospeso nell’aria, come se fosse una nube vagante. Allungò le sue mani, mi sfioro le guance, erano calde, e mi sussurrò sotto voce: “ormai sei pronto”. Non capivo a cosa alludesse, ma un brivido freddo tornò a paralizzarmi. Mi sentii agitato, scosso, il cuore iniziò a battere velocemente, la paura si era impossessata dei miei sensi. Mi offrì una coppa colma di sangue umano, mi invitò a berlo, solo in questo modo mi avrebbe liberato da questo tormento. Inizia a sorseggiarlo, man mano che bevevo, il suo volto si trasfigurava, iniziava a prendere una forma quasi umana. Non era più puro spirita, ma assumeva la forma simile a un uomo, di nobile aspetto, canuto, dai modi gentili. Si avvicino e mi strinse, ad un certo punto mi strappò il cuore senza tanti scrupoli recitando la sua ninna nanna, che finalmente era giunta al termine. In quel momento fu come se uscii dal mio corpo come un fantasma e potevo di nuovo vedere e sentire. e sentii queste parole: “Tu sei la vittima innocente di un destino senza uguali. Non puoi fuggir la morte, in questa vita. Mi hai invocato, visto, udito, toccato. Sei tu che suggelli il patto con me. Si celò quel poco di luce che era rimasta, e tutto precipitò nell’abisso. Anima dannata, spirito impuro, fin dalla nascita…. Metamorfosi La metamorfosi non è solo intesa come una mutazione fisica, ricordando tematiche horror, ma può anche essere interpretata come una trasmutazione emotiva o spirituale. Vi sono passaggi nel corso di una vita, che portano immancabilmente a compiere quel passo che porta verso uno stadio successivo, verso quella soglia che conduce in un'altra dimensione del nostro essere, facendoci immancabilmente crescere. Metamorfosi kafkiana dunque, nella quale l'essere trova una nuova identità del proprio vivere, adattandosi a quelle che sono circostanze del momento, dettate da cambiamenti sociali, personali oppure emotivi. Tuttavia, è proprio un tipico aspetto dell'essere umano, quella capacità che ci porta a mutare per sopravvivere, quel desiderio di cambiamento necessario per arrivare a una fase evolutiva. Quindi scaldate le Penne ed immergetevi in questo nuovo argomento. Andrea Leonelli Evoluzione Difficili equilibri Nella ricomposizione interiore Trovare il peso per la gamba La mano da tenere ferma Nuovi punti di vista Nuove prospettive negli occhi e nella mente Lasciare indietro passati pesanti E zavorre inutili Sfondare muri mentali Aprire nuove strade dentro se Nuove vie per pensare Guardando le sfaccettature Includendo fattori Assorbendo incognite Facendole proprie Rompere gli specchi dall’immagine falsata da vita e persone Aprirsi a sconfinate possibilità di me Anna Cibotti Nostalgia Se oggi mi svegliassi da un sonno lungo trent’anni, mi troverei in un mondo diverso da come lo ricordavo. Un mondo nuovo e sconosciuto. Mi appellerei al ricordo delle cose che vedevo in quei giorni lontani e che adesso, non sono più le stesse. Mi tornerebbe in mente una spiaggia lunga profonda e solitaria, nell’alba di allora. Un’immensa campagna odorosa di terra, di verde e di vento. Una fitta pineta profumata di resina che nascondeva le case e guardava il mare affondando le radici dei suoi pini nella sabbia dorata. Un piccolo paese fatto di poche case con le chiavi lasciate attaccate alle porte. La metamorfosi lenta e inesorabile di questo lungo sonno, la sento e la vedo oggi. Oggi che sono sveglia e guardo il mare che ha divorato la spiaggia rendendola una striscia di sabbia che ad ogni mareggiata s’inonda d’acqua per lasciarla poi, piena di tronchi e meduse morte, sento quasi il suo sapore salato che mi brucia la gola. Gli altissimi pini piegati dal vento, hanno lasciato posto alle case. Ora non guardano più il mare. Sono pochi e malati di solitudine. Sono secchi e pronti a cedere al primo temporale, e le lunghe radici spaccano il cemento per riprendersi lo spazio rubato. I campi coltivati e i prati posso vederli solo da lontano. Sono piccoli ora che ville, villette e strade li hanno resi un semplice e ridotto contorno. Mangio frutta e verdura di serra che mi lasciano in bocca quel loro sapore di niente. Sono sveglia e guardo un orizzonte dove un tramonto ancora rosso, illumina i profili delle fabbriche in lontananza colorando appena il loro grigio spento. Sono cambiata anch’io come il mondo intorno. Tengo in mano una rosa Le spine le ha ancora……ma nessun profumo. Rossana Lozzio Una farfalla sul cuore (estratto) Lo avevo chiesto agli angeli, più volte… e mi hanno accontentato”. Camilla gli si rivolse, con tono di voce pacato e guardandolo dritto negli occhi, dopo averlo raggiunto ed essersi messa a sedere con lui sulla panchina, subito dopo il suo arrivo nel loro posto magico. “Che cosa… cosa vuoi dire, tesoro?”. Le chiese, felice per averla incontrata ma piuttosto confuso circa il suo esordio e il modo in cui lo stava fissando. “Che avevo chiesto agli angeli di farmeli incontrare, proprio qui e sono stata per giorni ad aspettare ma non succedeva niente… fino a quando sei arrivato tu ed ho capito subito”. Gli disse, sconvolgendolo. “Quella farfalla azzurra si è posata su di te, ricordi? E ho capito subito che tu eri uno di loro”. “Di loro, chi? Cosa stai dicendo?”. Samuel non riusciva a capire ma si sforzò di non sottovalutare l’importanza di quel discorso che stava tentando di affrontare e che sembrava starle molto a cuore. “Uno dei suoi parenti…”. Specificò, procurandogli una fitta dolorosa. “I parenti della persona che mi ha donato gli occhi”. Concluse, con la naturalezza che soltanto una bambina della sua età e così forte, poteva mantenere, affrontando un argomento tanto delicato. “Perché sei convinta di questo e… perché me lo stai dicendo, adesso?”. Domandò, accorgendosi di non essere sorpreso più di tanto, dopo quanto aveva vissuto insieme a lei e quanto gli aveva riferito Gregory, dopo aver sentito sua madre parlare con suo padre del giorno dell’incidente. “Perché tu non devi lasciarci”. Gli disse. “Tu vuoi andartene ma non puoi… tuo figlio vuole che restiamo insieme ed io so che lo vuole anche mamma”. Il cuore sembrò smettere di pulsare per alcuni secondi. Il tempo di assemblare ricordi, avvenimenti presenti e la speranza di un futuro migliore. “Come sai che avevo un figlio?”. Le chiese, piano. “Perché so che sei il padre del ragazzo che morì quel giorno, quando venni operata… te l’ho detto, ho chiesto agli angeli che mi portassero qui qualcuno dei suoi parenti, per ringraziarli e tu puoi essere solo suo padre. E’ così, vero?”. “Vorrei avere la tua certezza ma… è vero che avevo un figlio e che è morto in un incidente di moto a Milano, probabilmente, lo stesso giorno in cui sei stata operata tu”. Confessò. “E tu hai donato i suoi organi?”. Gli chiese, prendendogli una mano e stringendola forte fra le sue. “Reni, cuore e cornee”. Mormorò, abbassando lo sguardo. “Le cornee sono le mie”. Annuì, conducendosi la sua mano agli occhi ed invitandolo ad accarezzarglieli, dopo avere abbassato le palpebre. “Grazie a te e a tuo figlio, ho potuto vedere il mondo…”. Aggiunse, piano, dandogli sempre di più la sensazione di essere troppo adulta per avere solo nove anni. “Sono sempre stata convinta che, se potevo vedere i colori di questo posto, allora, era qui che avrei dovuto incontrare le persone che me lo avevano permesso”. “E credo che abbia già incontrato Stewart”. Dichiarò, trattenendo il desiderio di piangere, mentre posava la mano sulle palpebre della bambina e sentiva il cuore battere all’impazzata per un’emozione mai vissuta prima. Camilla riaprì gli occhi, inducendolo ad accarezzarle la guancia. “Stewart?”. Ripeté, abbozzando un sorriso. “Si chiamava così?”. “Già”. Convenne. “Ma non ripetevo il suo nome da moltissimo tempo… troppo”. Aggiunse, mentre la scorgeva sorridere con maggiore entusiasmo. “Che bel nome…”. Commentò, perdendosi a fissare verso il lago. “Aveva mai visto Stresa?”. Gli chiese, commuovendolo sempre di più. “Credo che l’abbia vista con i tuoi occhi, la prima volta”. Rispose, circondandole le spalle con un braccio ed attirandola a sè, con dolcezza. “Mi dispiace… ma sono sicura che lui sia qui, da sempre e che non voglia che tu ci lasci”. Ribadì, convinta al punto da riuscire a condizionarlo. Ma poi, dopo tutto, se anche fosse stata solo una loro convinzione e quelle che sembravano coincidenze troppo precise per non corrispondere ad una realtà tanto emozionante, fossero state solo tali… avrebbe cambiato il bene che voleva a Camilla? L’avrebbe resa meno speciale di quanto non fosse? Lo avrebbe indotto ad amare di meno sua madre? E soprattutto, avrebbe cambiato il fatto più significativo e cioè che aveva recuperato la voglia di vivere pienamente e si era scoperto un uomo migliore? La strinse teneramente a sé e sorrise. “Non so se sia la stessa cosa che vuole tua madre, tesoro…”. Asserì, sospirando. “Ma posso prometterti che farò quanto in mio potere per appurarlo”. Camilla sorrise, indicandogli un punto nel cielo ed invitandolo a sollevare il viso come aveva appena fatto lei. La grande farfalla azzurra li stava sovrastando e fece alcuni giri sopra le loro teste, prima di sparire nuovamente nel cielo. Elisabetta Bagli La vita cambia E’ il suo segreto, questa forma di terapia. Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona. Di solito ha un giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace coccolarlo. Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta sul balcone e aspetta. Verso le sei e mezzo spunta il gatto sul terrazzo di fronte. E’ un persiano bianco, di quelli di razza. Si guarda intorno, poi con un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa. Stefano pensa che sono già tre mesi che abita nella nuova casa con Paola e ancora non è riuscito a vedere il padrone di quel gatto. Lui e il bianco animale sembrano avere un appuntamento quotidiano. Alla stessa ora, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, la porta-finestra del terrazzo al quarto piano dell’edificio di fronte al suo si schiude ed esce il gatto che inizia a giocare cercando il suo equilibrio sul cornicione. Stefano è sempre lì con la sua immancabile sigaretta, pronto ad osservarlo mentre si stiracchia e mette le zampette una dietro l’altra, sicure, senza alcun cedimento, proprio così, come fanno i felini, sprezzanti ed incoscienti del pericolo. Dall’alto del suo sesto piano vede perfettamente ogni mossa del suo piccolo amico. Vorrebbe sapere se anche durante il fine settimana ha la stessa abitudine di andarsene in giro per cornicioni o se preferisce rimanere avvolto dal calore delle gambe del suo padrone. Lui e Paola, nei week-ends, non sono quasi mai a casa. Amano fare passeggiate nei boschi, in campagna, al mare, da soli o in compagnia di amici. Amano esplorare posti nuovi, approfittare del tempo insieme, prima che la vita, inesorabilmente, li cambi. Il sabato e la domenica il gatto persiano spariva dalla vista di Stefano. Ma la curiosità per il mistero di quella casa rimaneva nella sua mente. E il lunedì successivo sperava sempre di veder soddisfatta quella sua curiosità. Ma ancora niente da fare. Sembrava come se il gatto abitasse da solo in quella casa. Mai una luce, un movimento, un segnale di vita. Stefano vedeva sempre e solo il gatto. Ma qualcuno doveva accudirlo, qualcuno doveva aprire e chiudere quella porta-finestra del balcone per farlo entrare ed uscire. Anche oggi la sua curiosità doveva rimanere tale? Stefano decide di aspettare ancora, fumando un’altra sigaretta, riposando la mente nell’osservare la sinuosità dei movimenti di quell’ammasso di pelo bianco-latte. All’improvviso la porta-finestra si schiude di più e si vede la mano di una donna richiamare il gatto. Ma non esce nessuno. “Perché non esci e non ti fai vedere? Sono mesi che mi tieni incollato qui per scoprire chi sei e l’unica cosa che sono riuscito a vedere sono delle dita affusolate, bianche che escono fuori dall’oscurità della tua casa. Me lo dice sempre Paola che sono un tipo troppo curioso io, peggio delle donne. Sicuramente la mia è deformazione professionale. Noi fotoreporter non possiamo farci sfuggire nessun dettaglio. Dobbiamo sempre investigare. Quelle dita affusolate. A chi appartengono? Ad una donna, sicuro… Il gatto, però ancora non torna su. È ancora sul cornicione incurante del richiamo della sua padrona. Chissà, forse oggi la potrò vedere. Mi accendo un’altra sigaretta, così aspetto ancora un po’. Sento che l’attesa porterà i suoi frutti. Paola oggi arriverà più tardi del solito. Dopo il lavoro deve passare da sua madre per portarle la spesa. Anche questa ci mancava. Com’è possibile che certe donne, a qualsiasi età, pensano di potersi arrampicare ovunque, salendo su sedie e scale per poter fare le pulizie di casa come se fossero sempre giovani, proprio come se fossero delle gatte? E poi succede che magari cadono rompendosi gambe e braccia, senza capire che il tempo passa per tutti, uomini e donne. Orgoglio femminile. Certe donne non vogliono chiedere aiuto per non farsi vedere deboli, per mantenere il punto, rimanendo perennemente bambine. Non so perché mai, alcune hanno anche la necessità di sentirsi vittime del mondo intero e per questo sono sempre in lotta con tutto ciò che le circonda. Emilia è così. Meno male che sua figlia Paola non lo è. Lei è tutto ciò che ho più desiderato dalla vita. Lei mi ama, è mia complice, è straordinariamente donna. Sa tutto di me. Mi scruta con quel suo sguardo intenso e riesce a capirmi anche solo da una ruga in più sul mio viso. Vittoria era diversa, era come Emilia. Una donna forte che voleva fare tutto da sola, non aveva bisogno del mio aiuto. Non mi amava veramente. Era egoista, amava solo se stessa e sentire se stessa. Per questo ho deciso di togliere il disturbo. L’ho lasciata sola a farsi consolare da qualcun altro. A farsi consolare da… un gatto! Vittoria! Sei tu la sua padrona. Sei uscita in balcone e stai chiamando la tua gatta -Bella! Bella! Dai vieni qui!-. Ma la gatta è ancora rannicchiata sul cornicione in basso e non ne vuole sapere di ritornare su. Vittoria sei ancora più bella dell’ultima volta che ti ho visto. Sembri rifiorita. Non hai più quello sguardo duro che avevi prima. Sembri dolce, indifesa. Chissà che ti ha fatto cambiare? La tua vestaglia bianca si apre con il vento e lascia intravedere le tue gambe tornite e lisce. Immagino cosa c’è andando ancora più su. E ancora più su. Ricordo perfettamente il tuo corpo caldo e profumato quando facevamo l’amore. Sembravi docile, ma eri una belva. Mi lasciavi entrare solo dopo un’estenuante gioco che inventavi tu, ogni notte diverso. Giocavi con me sul filo di lana. Sapevi come tenermi a bada. Non volevi che fossi io a condurre il gioco. Volevi farlo tu. Ti piaceva così ed io non mi opponevo, ti amavo. Avevamo pochi interessi in comune, ma mi piacevi. E alla fine neanche il sesso era per tutti e due, era solo per te. Mi hai logorato dentro. Con il tempo mi sono reso conto che non era quello che volevo. Anche se ti desideravo, io ricercavo equilibrio nella mia vita. Tu volevi solo passione sfrenata e divertimento. Con te sentivo intense scariche di adrenalina. Al principio mi piaceva. Ma non si possono vivere le emozioni e le sensazioni sempre al massimo, nella vita. Perdi te stesso. Avevo bisogno di equilibrio, quello che tu non volevi. Eri una bambina capricciosa che punta i piedi per sentirsi donna, quello che non eri. Con te mi sentivo un po’ come la tua gatta quando cammina sul cornicione in basso, sempre in bilico. Non andava bene, non per me. Io volevo creare qualcosa di duraturo con te e tu non volevi. Non ti sentivi a tuo agio con certi discorsi. Ho conosciuto Paola. Una donna a tutto tondo, una donna forte e fragile nel contempo. Una donna che è sempre con me qualunque cosa io faccia. Ed io con lei. Una donna che non ha paura di chiedermi aiuto e di darmelo, che non ha paura di mostrare le sue debolezze e di curare le mie ferite. La mia donna. Ora ha nel suo ventre il nostro futuro. Entri in casa. Dove vai, Vittoria? Esci di nuovo in balcone. Hai in braccio un frugoletto avvolto in una candida coperta dalla quale pende un piccolo fiocco rosa. Tua figlia. È lei il motivo del tuo viso sereno. La coccoli. Le sussurri parole che non riesco a sentire e che avrei tanto desiderato fossero state dirette a quel figlio che non abbiamo avuto. La vita cambia e tu, finalmente, hai incontrato il tuo equilibrio. Vittoria alza il volto al cielo e lo vede. Stefano le sorride e lei sorpresa lo saluta indicandogli la sua nuova vita. Lui ricambia il saluto sorridendo ed entra in casa. Si dirige verso la sua poltrona. Prende il giornale ma non lo legge. Il suo sguardo è rivolto verso il vuoto. I suoi pensieri sono altrove. “Il mio equilibrio è qui”, pensa. Le mie ortensie Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’ di zucchero nel lavandino. Non le è importato. Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per prenderlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è avvicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare. Qualcosa ha cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei. E non è che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo, non vuole muoversi, andare di là. Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto. Apre la finestra, mette le sue mani fuori. Vuole avere un immediato contatto con la neve. La vuole sentire sciogliersi sulla sua pelle calda, stabilire con lei quel rapporto cinestesico come fa con tutte le cose, per sentirle, per sapere, con la percezione tattile che tanto ama, che esistono, sono reali. Vuole sentire l’odore del bianco, quell’odore tipico dell’aria pulita, rarefatta. Vuole farlo penetrare nelle sue narici, sentirlo scivolare nella sua anima per purificarla, per essere finalmente nuova. Ha voglia di scendere, di giocare, di rotolarsi sulla neve, di ritornare bambina. Ha bisogno di osservare quel miracolo con gli occhi innocenti dei bimbi. Sa che non sarà possibile rivivere quei momenti se non nei ricordi. Sa che nulla potrà mai essere uguale a prima. Ora lei è diversa. Le circostanze e i luoghi sono diversi. Ma il ricordo dello stupore provato quando da bambina aveva visto la neve per la prima volta a Roma, la sua città, la sta aiutando a capire che la decisione presa è quella giusta. Dal quattordicesimo piano del suo appartamento a Madrid, Sandra osserva uno spettacolo unico. La città sembra ancora dormire. Tutto è calmo mentre la neve continua a scendere, silenziosa. I tetti delle case, delle macchine, le panchine, le moto assumono una nuova luce. Gli alberi, le siepi, gli arbusti, che ha sempre visto eretti, piano piano, iniziano a piegarsi sotto il peso di quel manto bianco. Ora sembrano piangere. Un’immagine che la porta di nuovo al passato. Ricorda le ortensie del giardino condominiale sotto casa sua, a Roma. Era un vero spettacolo osservarle dall’alto del suo balcone al quarto piano. In primavera, si coloravano di viola e fucsia. La loro visione rallegrava inconsapevolmente le sue giornate. In quel gennaio di tanti anni fa’, quando vennero sorprese dalle neve, si stavano timidamente preparando alla fioritura. Avevano piccoli boccioli verdi, in attesa di aprirsi e di cambiare colore. Anche quegli arbusti vivi si erano dovuti inchinare alla neve. Ora, dopo tanto tempo, riflette sulle sue ortensie, su quanto abbiano accompagnato la sua vita, su come siano state testimoni silenziose delle sue trasformazioni nel ciclo vitale. Fino al grande salto. Fin quando, sempre avvolte nel loro mutismo, l’hanno vista varcare il portone di casa per andare incontro alla sua nuova vita di donna. Ora Sandra vuole scendere, andare al parco vicino casa sua, il Retiro, toccare la neve, le piante, gli alberi. Partecipare. Ha voglia di ridere, di essere felice, di avere un’altra opportunità. Un forte desiderio di cambiare, di essere nuova. “Mamma, mamma! C’è la neve! Usciamo, vero? Andiamo al Retiro!” dice con tono insistente sua figlia, mentre Luis cerca di ricomporsi dopo essere stato tirato giù dal letto da quell’uragano di Cristina. Ecco spiegato il trambusto. Sandra non ne aveva dubbi. Per questo non si era allarmata. Per questo continua tranquillamente ad essere incollata alla finestra della cucina, osservando l’incessante pioggia di neve diventata tempesta, ormai. Riflette. Pensa alle bufere, sempre meravigliose, che fanno apprezzare quel senso di sicurezza quando si guardano da un posto caldo e riparato. Si finisce per amare di più ciò che si ha. Aiutano a misurarsi con se stessi. Se si è al centro di una bufera la si odia e nel contempo la si ama, perché si ha la speranza che porterà qualcosa di positivo, una volta terminata. Sandra voleva cambiare. Luis, eccitato all’idea di giocare con le palle di neve insieme a Mateo, ripete la stessa cantilena della sorella, come un disco di vinile rigato che s’inceppa con la puntina. Sandra continua ad osservare Madrid. È bellissima. Non è Roma. Non potrà mai essere la sua mamma, anche se l’ha accolta come una figlia. Ma è qui il suo presente e il suo futuro. Lo vede osservando gli occhi felici dei suoi figli. Un abbraccio ai suoi due gioielli. Uno slancio d’amore eterno e una lacrima che scende giù rigandole il volto. “Sì, ho preso la decisione giusta”, pensa fra sé e sé. E con un grande sorriso inizia a tirar fuori, insieme a Cristina e a Luis, i doposci, i piumoni, i cappellini, le sciarpe e i guanti. E via, all’avventura sulla neve di Madrid! “Mamma, la macchinetta!”, grida Cristina mentre Sandra sta per chiudere la porta. “Dai su, non è importante! Andiamo!” replica la mamma. Ma vedendo il volto triste dei suoi piccoli entra dentro casa alla ricerca della macchinetta fotografica, chiude la porta e chiama l’ascensore. “Come posso spiegare a Cristina che per certe cose le fotografie non servono? Alcune non si possono fotografare. Si sentono. Rimangono chiuse in un cassetto, là, in fondo al cuore. Magari non ci pensi più. Magari non ci hai mai pensato, le hai solo sentite e non sai quanto sono parte di te, fino a quando una sensazione nuova, improvvisa le fa riaffiorare e ti accorgi che già la conoscevi. Magari ti rendi conto che era proprio quello di cui avevi bisogno per capire te stessa. E, poi, non si può di certo immortalare la pura felicità che sanno trovare i bambini nelle piccole cose. Osservando un fiore, un animale che gioca, prendendo una pala e un secchiello al mare per fare i castelli di sabbia che un secondo dopo vengono distrutti da un’onda, loro sono contenti. Noi adulti, troppo spesso, consideriamo tutto ciò una perdita di tempo e ci dimentichiamo di quanto, invece, possa essere meraviglioso godere di ciò che abbiamo senza contaminazioni esterne. Cristina e Luis vivono ancora nell’innocenza. Sanno ridere, amare ed amarsi spensieratamente”. Sandra osserva con tenerezza i suoi figli mentre si dirigono tutti verso il parco. Prendono la neve per terra, l’appallottolano ed iniziano la loro battaglia. Tirano palle di neve a lei e a qualche passante. Sandra risponde divertita. “Mi ci voleva la neve”, pensa. “Non sapevo di desiderarla così tanto…” Una leggera contrazione del suo stomaco. Inizia il suo amaro viaggio nel passato. “La mia adolescenza. Quella necessità di piacere ad ogni costo, di volere un ragazzo, di essere desiderata, di essere bella, perfetta, eternamente giovane. Quella voglia di seguire i modelli imposti dalla società. Quel corpo che non mi dava piacere, goffo, grasso, che non amavo, che gli altri non amavano. I primi sintomi appena identificabili della malattia. Era divertente gettare la merenda nei rifiuti, quell’altalena tra il non toccare cibo e l’ingurgitare a dismisura qualsiasi cosa mi venisse a mano per poi vomitare. Provocarmi il vomito mi faceva star bene. Mi sentivo pulita, rinata. Avevo paura di perdere il controllo di me stessa, il terrore di aumentare di peso. Ero irritabile, iperattiva. Sentivo la pressione della mia famiglia, dei miei amici che mi volevano far capire ciò che non volevo capire. Stavo dimagrendo a vista d’occhio. La depressione e la paura di mia madre. I tourde-force ai quali mi costringeva mio padre da medici e psicologi. Non c’era verso. Io continuavo a sentirmi sempre più grassa. Soffrivo della tipica distorsione dell’immagine corporale della malattia che dicevo di non avere. Sono sicura che anche le mie ortensie vedevano che stavo male, che soffrissero insieme a tutti coloro che mi volevano bene. Ma non potevano aiutarmi. Nessuno poteva. Solo io potevo. All’improvviso Sonia, la cugina di una mia amica, morì per la mia stessa malattia. Mi si aprirono gli occhi. Da lì il cammino in salita. Le analisi, gli ospedali, le medicine, il mio lento recupero, l’amore di Manuel, la mia nuova vita a Madrid. La gioia di avere due bambini meravigliosi a cui dedicare tutta me stessa. Il contrappasso della solitudine per la costante assenza di mio marito per lavoro. Manuel è partito da due giorni. Deve stare fuori due settimane, questa volta. Troppo. Ho accettato questa situazione per amore. Pensavo di essere forte, di potercela fare. Ieri, un’altra interminabile notte, sola. Volevo iniziare di nuovo quel percorso. Davanti allo specchio, ho visto i solchi delle mie rughe, la mia pelle, una volta rigogliosa e senza macchie, appassita, priva di vita, con un cloasma che dopo le gravidanze non accenna ad andarsene. Perché comprare creme, andare a Pilates, condurre una vita sana alimentandomi in modo corretto, se poi il risultato è questo? Ancora dieci chili in più dal matrimonio. Ancora non sono la Sandra che voglio. Ieri notte, per un momento, mi sono sentita morire, ho sentito che l’unica soluzione ai miei problemi era chiudermi in bagno, aprire il water, chinare la testa, mettere l’indice e il medio della mia mano destra in gola fino a toccare l'ugola. La tentazione di provocarmi il vomito era forte. Non mi sono dimenticata di quella sensazione liberatoria, purificante. Ma non l’ho fatto. Oggi più che mai ho capito il perché. Ho un marito che mi ama, che ha curato pazientemente la mia anima malata, che mi è stato vicino con forza e dedizione. Ci sono le mie persone lontane e vicine che mi amano e che continuano a curarmi insieme al ricordo delle mie ortensie e della neve di Roma. C’è il presente che mi vede rotolare spensierata come una bambina sulla neve di Madrid, insieme ai miei figli. Vedo la neve attraverso i loro candidi occhi. Sono viva, completamente immersa in quel ghiaccio caldo che mi ha fatto rinascere”. Massimiliano Cara Don Gaetano (estratto da “9″) Don Gaetano prese coscienza della miseria apocalittica della sua anima. Immerso nella vasca per delle ore che per lui erano minuti. L’acqua era rossa, e lui disteso che cercava di ricordare tutto quanto nei minimi particolari. Aveva chiamato la diocesi, per farsi sostituire e detto alla sua domestica di non venire. Doveva riprendersi da uno stato influenzale. Uno stato influenzale che andava ormai avanti da una settimana. Si faceva vedere acciaccato da giorni. In caso qualcosa andasse storto, poteva usare la carta dell’alibi. E così ora faceva. Cosa era quel qualcosa che aveva trasformato un uomo, e peggio ancora un prete, in un essere necrofilo? Già la libido animalesca per un prete non è cosa buona. Ma lui provava un desiderio oltraggioso per chi è senza vita. Per le fanciulle giovani, strappate alla giovinezza come una spiga di grano dal campo. E così gli venivano in mente i ricordi in ordine sparso. La sua famiglia che finalmente mangiava la carne, da quando lui aveva cominciato a studiare per farsi prete. La sua mamma che lo strappava dagli amici perché gli gridava contro che erano figli di gente sporca. La sua mamma che confidava alla sorella che non aveva allattato il piccolo Gaetano perché detestava quel mordicchiare il capezzolo. Il padre che mai una volta lo prese per mano. Al massimo lo prendeva per un braccio per puntargli il dito. Sua madre che però non si vergognava di lavarsi nel suo stesso bagno, quando lui aveva i primi impulsi ben visibili. Sua madre che mai gli alzò le mani contro. Ma che poi lo rinchiudeva dalle galline. Suo padre che gli diede tante legnate perché morse una gallina. Lui che desiderava di andare in giro a vendere le bibite con il negoziante del paese. Sempre sua madre che diceva che non era cosa buona. Sua madre che ogni domenica lo portava in cimitero e poi spariva, lasciandolo da solo e solo in compagnia di quelle infinite foto. Cristiana Verazzo Attesa Solo nel silenzio più assoluto, quando tutto il rumore tace, riesco a lasciar perdere la vita. Sono fregata, lo so, soprattutto quando capisco che il tutto ormai è appeso a meno di un filo, ben peggio di una corda in tensione pronta soltanto allo schiocco finale. Ma è in questi momenti che ritrovo me stessa, quella di un tempo, capace di razionalizzare un azione e farne pensiero, il più delle volte positivo, che mi sprona, malgrado le brutture quotidiane ad andare avanti. E il filo…..che ormai comprendo quasi spezzato, mi tiene ancorata al presente….e io attendo che finalmente si recida per lasciarmi scivolare verso l’oblio…..o verso la vera vita? Il dolore Il dolore è qualcosa che ti cambia….sempre….e anche quella volta sentii arrivare il cambiamento. China sul tavolo della cucina con la fronte poggiata alle mani mi chiedevo il perché delle mie miserie infinite. Dopotutto non ero né la prima tanto meno l’ultima persona a potersi lamentare dell’attuale stato delle cose; non potevo esimermi da scelte differenti non causate dalla mia volontà e dovevo subire i fatti né più né meno di tutti gli altri. Ma la mia natura ribelle m’invogliava a scattare in piedi e uscire nella notte correndo a perdifiato pur di scrollarmi dalle spalle quella scimmia malefica che s’invischiava nel cervello corrodendo pensieri e volontà. Già……come se potesse bastare una fuga………. Un sospiro lento e un primo crack alla base della schiena mi fece sollevare la fronte. Magari mi ero impressionata, soltanto un cigolio…certo, cos’altro poteva essere! Secondo crack, stavolta con uno strisciare un po’ sinistro. Il cuore prese a pompare come un forsennato e il rivolo di sudore mi tagliò in due la schiena terminando……dove? Non alla base, non c’era mai arrivata quella goccia! Non osavo guardare, il tremore alle mani si ripercosse fino ai polmoni facendomi respirare a singhiozzo e con fatica m’imposi la calma. Dovevo capire cosa mi stesse succedendo per cui osai un’occhiata verso la spalla, poi il viso cominciò a voltarsi e sentii la stessa goccia di prima tornarmi su per ritornare alla base della nuca. Lo strisciare dipendeva dalla goccia, non da altre cose……terrorizzata provai a balzare in piedi, ma ero inchiodata alla sedia o meglio, guardando in basso notai un qualcosa sulle mie gambe…..un drappo forse, no……un velo……… Terzo crack e finalmente urlai, la goccia aveva raggiunto il collo e come un coltello affilato aveva realmente aperto la mia schiena a metà. Chiusi gli occhi sconfitta dalla mia impotenza, le lacrime scesero copiose sulle mani impossibilitate dal terrore…………un ultimo schiocco e fui inghiottita da me stessa. Nadia Milone La mia rinascita Ricordo ancora come vivevo fino a poco tempo fa. Alla continua ricerca di qualcosa o di qualcuno che mi donasse delle certezze, quelle sicurezze che sono sempre mancate dentro di me. Ebbene sì, lo ammetto, sono sempre stata un’insicura per natura, una piccola e debole foglia alla quale bastava un soffio di vento per staccarsi dal ramo e cadere a terra, pronta ad essere calpestata dal primo passante di turno. Tante, troppe volte sono stata schiacciata in questo modo. Troppe volte ho chinato la testa e chiesto scusa per cose di cui non avevo colpa e troppo spesso sono stata usata soltanto per alimentare l’ego di qualche bugiardo esibizionista. E ogni volta cadevo e mi rialzavo. Ma arriva un giorno in cui è difficile rialzarsi se si continua a permettere a gente priva di scrupoli di usarti e colpirti. E allora dici basta. Così è stato e così sarà. Un giorno mi sono guardata allo specchio e quello che vi ho visto riflesso non mi è piaciuto affatto. Quella donna ormai apatica e provata dalla vita doveva reagire! Non si può vivere costantemente ai margini, bisogna prendere in mano le redini della propria vita e non soccombere mai, per niente e per nessuno. Almeno questo, ora, l’ho capito. Quel giorno ho deciso che quella donna doveva cambiare. Sono stati passettini piccoli e difficili da compiere, perché quando l’autostima è praticamente inesistente è difficile ritrovarla da un giorno all’altro. Un percorso di crescita interiore molto lungo e non posso di certo dire di non aver mai avuto cedimenti. Tantissime volte ho creduto di non farcela, di non essere all’altezza nemmeno delle mie stesse aspettative. Ma ora posso orgogliosamente dire di non essere più quella persona e se il dolore che la vita mi ha donato è servito a farmi cambiare e maturare, allora ringrazio di averlo provato. Ora sono una persona nuova, mi sento rinata, risorta dalla mie stesse ceneri, proprio come l’Araba Fenice. Ecco, è stata proprio questa la mia metamorfosi. Ora so con certezza che non permetterò mai più a nessuno di calpestarmi o di prendersi gioco di me. Quella debole foglia non esiste più, ora voglio essere un solido tronco. Non sarò più lo zerbino per le scarpe sporche di qualcuno. Ora chi vuole la mia stima e la mia amicizia, mi deve innanzitutto rispettare come persona e questa è una cosa sulla quale non nutro più alcun dubbio. Non elemosinerò mai più le attenzioni altrui, non mi umilierò più davanti a chi gode nel vedermi strisciare e soffrire. Chi mi vuole, d’ora in avanti, dovrà imparare prima di tutto che anche a me piace essere cercata e coccolata. Se così non sarà, semplicemente non ne varrà la pena. Questo lo devo soprattutto a me stessa, alla donna che sono diventata, più forte ma, soprattutto, più consapevole del fatto di non essere inferiore a nessuno. Mal’âq ‘Ȃnf Fràn’ O Vere Maledicta nox Tutto trascorre nella misera normalità. David, un giovane trentaquattrenne, aveva trascorso fino a quell’ora la sua vita sforzandosi di cercare l’affetto che gli era sempre mancato. Provenendo da una famiglia di umili contadini, sin dalla più tenera età gli furono negati gli studi, perché doveva aiutare il padre nei campi, gli furono negati gli amici perché non poteva competere con loro, gli furono negati gli affetti da tutte le persone che aveva conosciuto fin dalla nascita. David, trascorreva l’intera giornata nei campi, godeva della luce del sole, trovava compagnia tra gli animali, immaginava che le piante come amici che puntualmente ogni mattino a levar del sole lo attendevano, il vento che scuoteva i loro rami, il fruscio tra le foglie era come una sorte di benvenuto. Davide si sentiva sicuro sotto il sole, ma quando le tenebre iniziavano a prendere il sopravvento, il viso di David diventava cupo, triste, cambiava aspetto, umido di lacrime. Insomma, il suo viso era l’immagine della sofferenza… Odiava la notte, perché doveva rientrare a casa, era solo, era privato anche da un piccolo misero moccolo, per poter leggere il suo libro preferito “Cuore” di Edmondo de Amici, in cui David si immedesimava (con la speranza che diventasse realtà) nel piccolo Scrivano Fiorentino…. Non chiuse occhi tutta la notte, aveva paura del buio, del silenzio cupo che rimbalzava in ogni angolo della parete. Pregava, chiedeva pace, requie, un po’ di ristoro per la sua anima, tanto triste e dannata come la notte. Si addormentò tra le braccia del suo nemico, la notte, oscura, chiedendo e richiedendo ancora una volta di risparmiarlo di così tanto atroce destino… Ormai la notte a preso il sopravvento, ma quella notte era diversa da tutte le altre notti. Quella fu la notte in cui tutto l’universo ne risenti. David, si desta dal sonno come tutte le mattine, esce di casa va nei campi e si accorge che manca qualcosa: il sole è a levante, tarda ad uscire dalla sua culla. David procede nei suoi passi, celeri, scattanti, ma il sole non fa un minimo passo rimane fisso, come se fossero due fenomeni naturali: alba a oriente e tramonto ad occidente, sole e luna segnano i due estremi contemporaneamente. David cerca di raggiungere la luce, ma non ci riesce perché entrambi vanno nello stesso verso, un moto a dir poco armonico, che richiama il moto del sole e della luna attorno alla terra. Ad un certo punto, un bagliore di stelle in lontananza, cercarono di chiamarlo, ma erano troppo lontane, erano piccolo e lui si sentiva impotente. Solo dopo infiniti giri, per raggiungere la luce, prende coscienza di essere morto, e di essere diventato un tutt’uno con la Notte: due anime in pena. La notte che aveva odiato, disprezzato, la notte che le aveva tolto il sorriso, la passione, la luce di cui aveva bisogno in realtà: era sua madre! Non si comprende se questa è una maledizione o una benedetta liberazione. David inizia a piangere, e dai suoi occhi iniziarono ad uscire lacrime, piccole gocce di luce simili a stelle. Inondò la terra, ma nessuno si rese conto che quella notte era diversa da tutte le altre. Le sue lacrime la maledissero e maledetto fu lui: maledetto da se stesso. O Vere Maledicta Nox….. Requiem in aeternam…. Ronni Corbo Schianto, storia di un cambiamento Diceva di chiamarsi Raissa, professione ballerina di lap-dance, nella realtà una gran fica. Era rumena come il novanta per cento delle ballerine di quel tipo di locali, non chiedetemi il perché, sono fatti. Quel locale aveva appena aperto alle porte del paese e fu subito un successo, forse per le ragazze a dir poco splendide o per il semplice fatto che una novità è pur sempre una novità. Avevo cominciato a frequentarlo con gli amici nei fine settimana, non sempre, diciamo un paio di volte al mese, in quei posti il divertimento costa caro, molto caro. Ma ogni volta che entravo lei era lì, sul lungo palco a ferro di cavallo, al solito palo proprio dietro al bancone del bar dove mi potevo godere il suo corpo ballare bevendo cocktails in quantità industriale. Ingoiavo di tutto e più forte era il cocktail più la desideravo. Agli inizi non fu subito una gran cosa, faceva la timida, ma col passare del tempo, un privé dopo l’altro, si scioglieva sempre di più e il divertimento aumentava e i nostri incontri nei salottini privati diventavano sempre più caldi, molto caldi. Avevo cominciato ad andare al locale due o tre volte alla settimana e lei era sempre lì che mi aspettava, appena entravo mi saltava addosso con quel suo corpo morbido e perfetto e le danze avevano inizio. Via di corsa nei privé, tutto il resto non esisteva più. Bevevo sempre molto, le notti diventavano sempre più lunghe e a volte capitava dormissi solo un paio d’ore prima di andare al lavoro. Ma stringevo i denti e lottavo contro la stanchezza. Avevo un gran fisico, ero abituato a certi sforzi. Non guardavo in faccia nessuno quando entravo nel locale, non una gran perdita, c’erano solo uomini falliti con matrimoni altrettanto falliti, le loro facce di cartone mi mettevano tristezza, quindi sguardo dritto davanti a me, solo Raissa meritava di essere adorata. I mesi passarono e gli incontri divennero sempre più frequenti, lei e niente più nella mia testa. O quasi. Già! C’era l’Inter di Mancini che spadroneggiava in campionato. L’unica cosa che riusciva a distrarmi da quel culo bello da impazzire era l’Inter, solo i gol dei neroazzurri catturavano la mia attenzione strappandomi dalle cosce carnose e lisce di Raissa. Da un sogno all’altro, da un godere all’altro. Sì perché è solo una leggenda che nei privé non si possa “fare niente”, solo per la legge è così, ma la legge, si sa, è fatta dagli uomini ed è supervisionata da degli uomini. Se poi questi tutori della legge frequentano i night club è ovvio che non possano rimanere indifferenti a tutte quelle ragazze, a quelle gambe, a quelle tette che saltellando allegramente gli passano di fianco sfiorandoli e lasciando un’intrigante scia di dolce profumo. Così il gioco è fatto: i poliziotti e i finanzieri godono di “trattamenti speciali” e le ragazze possono fare ciò che vogliono senza paura di essere cacciate dal loro capo in caso venissero sorprese in atteggiamenti troppo “calorosi” con un cliente. Un tacito accordo per il bene comune. Beh, fatto sta che le serate con Raissa erano ormai diventate routine, i soldi che spendevo non li contavo nemmeno più, era una cosa passata in secondo piano. Lasciavo il locale alla chiusura, alle quattro passate e poi al lavoro completamente rimbambito o ancora ubriaco. Gli altri non venivano più al night, li avevo persi di vista. “Cazzi loro”, mi dicevo “non sanno godersi la vita quegli sfigati!” E invece ero io ad essere caduto in un circolo mortale dal quale avrei dovuto stare alla larga. Ero fuori controllo. Alcool e Raissa mi stavano risucchiando nelle profondità della notte, nel buio più nero, verso qualcosa che tutto era tranne che vita. E venne quel maledetto giorno, l’ultima domenica di campionato, e l’Inter vinse quel fottuto campionato. Già nel pomeriggio cominciai a festeggiare, birra e vino come se piovesse senza alcun ritegno, a più non posso. Ore e ore con bottiglie in mano e urlando a squarciagola dapprima canti da stadio e via via cose sempre più insensate. Venne sera e arrivò l’ora di andare da Raissa. Mi presentai al locale con indosso ancora la maglia dell’Inter, ero sudato e ubriaco fradicio. Lei mi sorrise, io estrassi il bancomat e così venne l’alba. Il mio turno al lavoro cominciava alle sei di mattina. Lasciai Raissa alle quattro e mezza passate. Ridotto a uno straccio, nemmeno più felice, non connettevo più, in tilt come un flipper preso a calci. In qualche modo arrivai a casa, parcheggiai un po’ in mezzo alla strada e non so come mi coricai nel letto credendo di potermi riprendere in una mezzoretta. Impossibile. Vennero le cinque, poi le cinque e venti e dovetti alzarmi e andare al lavoro. Dodici chilometri, quindici minuti scarsi per arrivare. Accesi il motore, misi la prima e partii. Quella mattina al lavoro non mi videro. A metà strada c’era una rotonda ma mi addormentai qualche decina di metri prima e ci finii sopra con la macchina. Un gran casino, venni sballottato nell’abitacolo come un pupazzo, una ruota si staccò e se ne andò per la propria strada poi più niente, solo dolore, un gran dolore. Rimasi in ospedale per due settimane e quando uscii venni a sapere che Raissa aveva abbandonato il lavoro. Io comunque avrei abbandonato lei. E l’alcool. Adriana P. Tendenzialmente Ero così. Ero così marcia. Era quello il periodo in cui girovagavo senza meta con una bottiglia in una mano e una diecimila lire nell’altra: le pupille gustative inesistenti; la gola in fiamme; le narici bruciate. Ero così. Tendenzialmente persa. Era quello il periodo in cui non ricordavo il mio nome e la mia provenienza ma, ancora peggio, neanche mi importava ricordarlo. Nient’altro ero se non quella bottiglia e quella diecimila lire in mano. Euforica, estasiata, in bilico tra corde di violino troppo tese per poterci camminare sopra. Ho sempre amato i precipizi, specialmente quando credevo di camminare sul loro bordo e invece naufragavo persa nella lava di un vulcano. Ero così. Marcia. Era quello il periodo in cui mi sentivo potente, e non perché lo fossi realmente: potente è chi sa scegliere la propria vita e camminarci affianco, a volte sbandando. Chi si lascia trascinare negli inferi senza saperne uscire non è potente, neanche con una bottiglia in mano e tanto meno con quelle diecimila lire arrotolate nell’altra. Ero così e forse lo sono ancora. Tendenzialmente marcia. Lo sono io, forse fa parte di me, e in quanto mia assoluta parte oscura me la tengo cucita addosso senza riuscire a distaccarmene. C’è una sola differenza, così piccola e grandiosamente immensa. Ero così e un giorno, mentre girovagavo persa senza meta, degli occhi mi hanno perforata: ho appoggiato la bottiglia sul marciapiede e ho srotolato quelle diecimila lire. “Scusi, quanto costano quelle rose?” Ecco, avevo trovato un buon uso per quei soldi. Andrea Mazzolini La metamorfosi Con quella mano e quell’uncino puoi fare tutto quanto vuoi, e ci sono cose che un uncino fa meglio di una mano intera, un uncino non sente dolore se deve fissare un filo e un ferro, non si taglia, né si brucia, e io ti dico che Dio è monco, e ha fatto l’universo. Memoriale del convento – José Saramago Chiamatemi Gregor. Da molti anni, troppi ormai, la gente crede che io sia un chirurgo estetico, uno dei migliori di tutta Europa. Non è così. Non è semplicemente così. Le mie mani non si limitano a tagliare, a spostare, a cucire, a disegnare. Non è semplicemente questo. Io trasformo la materia. O meglio: io creo. Ormai ho perso il conto di tutti gli interventi chirurgici che ho effettuato. E ho perso di vista anche il mio conto in banca, da molti anni non mi interessa più, sono straricco. Il mio mestiere è ben retribuito, la giusta ricompensa per chi vende illusioni: si trova sempre un padre che paga per la rinoplastica della figlia oppure un marito che finanzia la mastoplastica additiva di una moglie insoddisfatta. Io non ridisegno corpi, io do forma alle illusioni. Vi siete mai chiesti cos’è la bellezza? Sembra una domanda facile, scontata. Non lo è. Io disegno i corpi per renderli più belli. Ma la bellezza di Fidia non è la bellezza di Canova e la bellezza di Rodin non è la bellezza che cercano i miei clienti. Figuriamoci! La maggior parte di loro non sa neppure chi sono stati Fidia o Michelangelo. Tutt’al più conoscono le immagini photoshoppate che si trovano sulle riviste di gossip. Quello che a loro interessa è uscire dalla mia clinica diversi da come sono entrati, con la certezza di apparire migliori. Per anni ho pensato che un naso migliore potesse farti sentire accettato, che un seno ben proporzionato potesse migliorare la tua autostima; questo è quello che pensavo e questo è tutto quello che raccontavo ai miei clienti nella visita preliminare. Ma io non operavo solo per migliorare la vita a qualche signora o a qualche ragazzina, né per i soldi. Io lo facevo perché solo nella sala operatoria, con il cliente anestetizzato e attaccato a una macchina, solo nel momento in cui la mia mano precisa iniziava a tagliare, sono allora io mi sentivo libero, lontano dal mondo e dalle angosce della vita. Forse è la stessa sensazione che ha uno scrittore quando inizia un nuovo romanzo, o un musicista quando scopre nelle chiavi sempre uguali di una tastiera una nuova melodia, o un innamorato quando bacia per la prima volta la sua donna. Quella pagina di romanzo, quella melodia, quei baci sono sempre esistiti, dalla notte dei tempi, ma nessuno fino a quel momento si era accorto della loro presenza: stavano lì, appesi nel mondo delle idee come le stelle stanno appese nel cielo. Ma è solo quando qualcuno scrive quella pagina, trova quelle note, bacia quella donna che si continua l’opera della creazione. Io quello ho fatto per tanti, troppi anni. Ho creato. Purtroppo la mia mano ora è malferma, avrei dovuto smettere già da diversi mesi. Mi hanno trovato addosso un male incurabile ma non sarà lui ad averla vinta, non sarà lui a trasformare Gregor, il famoso direttore della clinica Metamorfosi, in un mucchio d’ossa. Ho appena inghiottito una scatola di forti medicinali. Qualcun altro da domani porterà avanti tutta questa baracca. Alessia Cutrufo Rivestire i miei panni L’ostinato disperdersi delle molecole del mio corpo, nella speranza che un lieve alito di vento possa portarlo lontano da quella prigione di diamante nella quale la mia anima si infligge torture con catene dorate. Su quel piccolo frammento di specchio, ultimo superstite dei miei sogni di ragazza, si riflette un corpo non mio…. un viso segnato che è solo il residuo di una natura che si svelava. Quel viso mai sfiorato da mani amiche, quel corpo concesso a cercatori di tesori intenti a scavare la carne per portare via brevi istanti di piacere. Alla ricerca di quegli avventurieri che non cercano altro che passione, uomini ai quali puoi nascondere il tuo viso, che non lo conosceranno mai, che non lo cercheranno mai. Uomini che possono ferire la carne di quel corpo ormai distante da me, ma che mai scalfiranno quelle pareti di ghiaccio che celano il segreto. Il calore della notte scalda quei brandelli di pelle rimasti illesi da giornate di sfrenata passione, e nel calore della notte, su un letto disfatto, trovo la forza di liberarmi di quella maschera di donna per tornare bambina tra le braccia di Morfeo…..” Fuoco Il lunedì inizia con questo articolo dedicato al fuoco che finalmente si è estinto dalle nostre pagine. L’ardore e gli incendi sono divampati nei vostri testi, portando alla luce la vena poetica di molti di voi, oltretutto bellissima e decisamente sentita. Se avessi saputo che “bolliva” in pentola tutta questa passione bruciante, ve lo avrei proposto anche prima. Ovviamente non sono mancate le sfumature horror, quelle erotiche, piuttosto che la pura cronaca di fatti verosimilmente reali. Tuttavia ogni pezzo ha segnato, con il proprio fascino, le pagine di questo blog. Davvero bravissimi tutti. Detto fra noi, non potrei essere più orgogliosa di così per questa iniziativa, sto scoprendo dei talenti veramente insospettati e persone che hanno veramente la capacità di comunicare delle emozioni nelle più svariate forme, oltretutto con una bravura eccezionale. Signori autori, l’editoria italiana dovrebbe sapere che cosa si perde nel non avervi scoperto, in tutto il vostro meraviglioso potenziale. Tuttavia consolatevi, vi abbiamo scoperto noi e personalmente sono davvero felice di poter godere di ogni vostro singolo scritto. Regalatemene ancora. Grazie infinite. Adriana P. Bruciami Mi bruciavi sempre tu. Mi infuocavi. Così, in egual modo, mi spegnevi. Mi bruciavi sempre tu. Mi bruciavano le tue dita quando mi stringevano troppo o troppo poco. Mi bruciavi sempre tu. Mi bruciavano le tue labbra, mi bruciava la tua lingua. Ancora di più il fuoco risaliva lungo la mia schiena con le tue parole. Le hai sempre sapute usare bene. Mi bruciavano le viscere. Dentro. Mi bruciavi sempre tu. Credevo che una fiamma così ardente, e che fosse amore o dolore non me lo sono mai chiesta, non si sarebbe mai spenta. Dentro. Fuori. Ovunque te mi stessi bruciando. Mi bruciavi sempre tu e godevi di quel fuoco su di me. Lo vedevi in me e godevi ancora di più. Ogni fiamma si spegne, prima o poi, che sia d’amore o di dolore. Come godrai d’ora in poi? L’ho scoperto quel giorno, quello in cui mi hai supplicato. Bruciami. Infiammabile Quanti gradi c’erano sotto quel sole? Temevo l’uscita dalla porta di casa, tanto era il calore che già potevo percepire. Il corpo, caldo, troppo caldo che mi affaticava le membra e la mente. L’acqua ghiacciata che tentava di ristorarmi ma scivolava sulla pelle senza lasciare traccia alcuna. Infiammabile. Ecco come mi sentivo. Ero così, dentro e fuori di me. Lo ero da giorni e non trovavo pace, con una fiamma ad incendiarmi il cuore e non solo. Nessun`altra parola mi avrebbe descritto meglio. Infiammabile. Lo ero dall’istante in cui lei mi aveva guardata e senza chiedermi il permesso mi aveva baciata. Quel muro caldo di pietra lo potevo sentire ancora sulla mia schiena mentre lei mi sfiorava non solo sulla pelle. In me. In me qualcosa era cambiato e mi aveva resa… infiammabile. Anna Cibotti Che ne sarà... Quel pomeriggio inoltrato di un’estate ormai morente, mi trovai a passeggiare lungo un sentiero nel bosco che conoscevo bene per averlo percorso quasi ogni mattina. Insolitamente, mi ci trovai all’imbrunire. Fu una decisione istintiva quella che mi portò a scegliere un orario invece di un altro. Camminavo lentamente guardandomi intorno stupendomi della strana luce che filtrava tra gli alberi. L’effetto cromatico cambia al tramonto rispetto al mattino ed io ne avvertii la differenza quasi con disagio. Mi sentivo fuori posto. Avvertivo una presenza da qualche parte. Si…… non ero sola. Sentivo il rumore dell’acqua del ruscello che gorgogliava tra i sassi come se volesse dirmi qualcosa. Mi fermai ad ascoltare. Parlava col vento che volendo dire la sua, si infilava tra i riccioli d’acqua per poi alzarsi e finire sibilando tra i rami. Sentii un fruscio. Tra gli alberi qualcosa si muoveva. Qualcosa o qualcuno. Mi allontanai dalla riva lasciando il ruscello al suo gorgogliare col vento, e mi avvicinai alla fonte del rumore che ancora sentivo. Poi lo vidi. Un piccolo omino con un lunga barba bianca e vestito di rosso saltellava qua e là canticchiando. Sembrava una lingua di fuoco che passando da un cespuglio all’altro, volesse incendiare il bosco. Ad un tratto così come era venuto sparì. La sensazione che avevo provato prima di non essere sola lasciò il posto ad una completa solitudine. Ora c’era un silenzio assoluto. Anche l’acqua e il vento non parlavano più. Mi sedetti a lato del sentiero sulla terra ancora tiepida dal sole che stava tramontando…..e pensai. Pensai all’omino rosso e a ciò che mi aveva evocato. Il fuoco. Che ne sarà dell’amore quando l’abitudine spegnerà il fuoco della passione? Che ne sarà delle bocche di fuoco quando i cannoni taceranno? Che ne sarà del fuoco nelle vene quando gli anni ti renderanno stanco? Che ne sarà del fuoco del camino quando non avrai più legna? Che ne sarà dell’uomo senza il fuoco della vita? Che ne sarà di questi modi di dire del fuoco quando non avrai più parole? Oltre alla cenere? Un baluginare di fiammelle tremule uscire dalla terra. Un fuoco fatuo. Alessia Cutrufo Fiamma viva E risorgo, come fuoco dalle ceneri spente, divampo, mascherata del rosso di un sole al tramonto. Stringo a me le tue carni, le fondo alle mie, in un’unica fiamma viva. Forgiata dal fuoco di battaglie senza tempo la tua lama ha spezzato le mie potenti lingue di luce, bruciato il legno a protezione dello scrigno. Nell’aria l’odore di fumo ed incenso, in una stanza buia, solo il lontano riverbero dell’imminente distruzione, in un letto disfatto, il ricordo di un fuoco risorto, tra le ceneri spente… Andrea Leonelli Fuoco e Acqua Fuoco che ardi nelle vene al pensiero la passione bruciante le ustioni, di mani bollenti di corpi in fiamme di onde che si scontrano mari in tempesta su scogli e poi risacca sulla spiaggia acqua e fuoco l’uno sull’altra sono emozioni sismiche eventi imponenti che toccano il cuore di due mondi ad unirsi non c’è vita senza entrambi il fuoco scalda raffreddandosi il mare mitiga riscaldandosi un’unione generatrice d’eventi forze diverse che s’incontrano e calore diffuso percezioni liberate mentre scorro su te sensazioni nuove ma sempre sentite dentro conosciute come usuali bocche infiammate come vulcani sottomarini bagnate da desiderio e le mie onde diffuse nel tuo calore risuonano nel cuore della nostra necessità impossibili da separare indissolubilmente legati dalla nostra libertà di essere fuoco e acqua Irma Panova Maino Le ceneri Scavo sotto le ceneri di un passato che giace devastato ai miei piedi. Scosto, quasi con delicatezza, quei frammenti anneriti e ingrigiti che hanno perso ogni consistenza, cercando di trovare ancora il rossore di una passione che si è spenta, è svanita, si è annullata nell’indifferenza quotidiana. Tuttavia nulla pare più brillare nel silenzio monocromatico della mia anima, nulla pare aver conservato quel minimo ardore che avrebbe lasciato viva la speranza. Mi aggiro fra questi detriti, considerando che non ha molta importanza quale sia la forza devastante che porta alla rovina, se un uragano sia più distruttivo di un incendio o un terremoto, quando il destino si abbatte con forza sulle nostre vita, non rimane più niente, se non tirare le somme e pagare i conti. Gli “avrei potuto”, “avrei dovuto”, non hanno davvero più senso, non servono a nulla e rimestare ancora in queste ceneri, ha lo stesso sapore acido del fallimento che invade la bocca, bruciando il gusto per la vita, per quel futuro che è morto e sepolto sotto la stessa tonnellata di macerie che mi circondano. È passato del tempo dall’ultima volta in cui ho rovistato fra i carboni, trovando ancora qualche tizzone acceso, la stessa speranza che portava a credere che, se sussisteva ancora quell’alito di vita, avrei potuto ancora accendere una fiamma per illuminare il cammino, ma quel tempo è finito. Non vi è più nulla che possa produrre quell’energia in grado di ravvivare il fuoco. Non vi è più nulla se non il silenzio. Ciò che raccolgo ormai si sbriciola fra le dita, diventando la polvere che viene trascinata via dal vento. Lo stesso vento che spazzerà via tutto, disperdendo i frammenti di un’esistenza passata nell’immenso spazio di un domani celato dal fumo. Cancellerà, al suo passaggio, ogni traccia di ciò che è stato, di quello che ho provato, di ciò che ho vissuto, lasciando nuovamente il terreno sgombro dalla distruzione che è avvenuta. L’ultimo sguardo che dedico a tutto questo, serve solo a ricordarmi che non vi è nulla di certo, nulla di così solido e incrollabile che possa resistere alla furia degli elementi, quando questi si scatenano, tutto ha la sua valenza relativa, il suo effimero scopo in questa vita mortale e passeggera. Basta un nulla, una favilla qualsiasi per alimentare un fuoco che, perdendo il controllo, diventa l’incendio distruttore di noi stessi. Ed è stato davvero un attimo. L’attimo in cui il sussurro è diventato tempesta, l’attimo in cui quel “basta”, mormorato quasi in modo incerto all’inizio, ha preso forza, alimentandosi con lo stesso furore scaturito dalla negazione, da quei continui rifiuti dati nella totale inconsapevolezza di quanto stava accadendo. Raccolgo me stessa, le briciole di me, ricomponendo, affliggendomi, le ferite aperte, lenendole con quel poco di orgoglio che ancora mi avanza. Non mi guarderò più indietro, non tornerò fra quelle rovine, cercando ancora fra quelle ceneri una scintilla occhieggiante. Andrò avanti, un passo dopo l’altro, lasciando volute di fumo sulla scia delle mie orme. L’alba mi accoglie disperdendo le spirali grigie, gli sbuffi della notte, aprendosi verso un giorno le cui tinte ricordano ancora l’incendio devastante, i colori sono forti, intensi, dolorosi, ma come sempre accade, con il tempo arriveranno le sfumature, i pastelli, le pennellate leggere. La cenere scende, mi abbandona, svolazza verso il terreno impregnandolo, mischiandosi al terriccio e rendendolo fertile, creando quella base affinché un domani qualcosa vi possa crescere ancora. Sole Lei era lì, pigramente distesa sotto il sole, a crogiolarsi per quell’attimo di pace inatteso. La lettera, che stringeva ancora in mano, non era altro che la risposta a una sua missiva spedita un paio di settimane prima e quella stessa missiva recava con sé una speranza che in quel momento era diventata realtà. Gli aveva alla fine scritto, aveva confessato ciò che provava, dandogli modo di diventare consapevole dei sentimenti che agitavano il suo animo. E mentre cambiava posizione sul lettino, a bordo della piscina, distendendosi a pancia in sotto, la mente ripercorse le righe scritte di getto e con l’emozione che ancora le faceva tremare la mano. “Mio caro, questa mia la dedico a te e a quello che l’ultima volta è intercorso fra di noi. TI penso e ricordo, sento il sapore della tua pelle e la pressione delle tue mani. La memoria ha ben impresso quell’attimo in cui mi hai resa eterna, donandomi per sempre il calore del dei tuoi sentimenti. Quindi è per questo che ora ti invio questi miei versi, per darti la misura di quanto io mi sia sentita amata e desiderata; di quanto la prospettiva della mia esistenza sia cambiata alla sola idea di poterla condividere con te. Danzano le fiamme Nella notte senza luna È l’incendio Che congiunge gli amanti È il pericolo Che li rende eterni Il pericolo lo abbiamo affrontato e sconfitto, rendendoci complici in quello che era il nostro gioco di sguardi e carezze furtive, rubate in momenti in cui nulla avrebbe dovuto turbare gli equilibri. E ora io so, ho saputo, che nulla può ostacolare ulteriormente ciò che proviamo l’uno per l’altra. So, perché ho visto in fondo al mio cuore, che non sfuggirò più al mio destino, ricoprendo quanto ci è dovuto con timori e dubbi. Attendo solo una tua risposta, un tuo cenno che verrai a reclamare ciò che è già tuo. Con amore infinito.” Questo era il tenore di quella missiva. La trepidazione che l’aveva colta, mentre attendeva con ansia la risposta dell’uomo della sua vita, l’aveva portata a essere frenetica, quasi isterica, incontrollabile. Nulla l’aveva soddisfatta nei giorni precedenti e nulla sembrava placare il suo animo in tumulto, il timore che fosse ormai troppo tardi le aveva attanagliato le viscere, portandola a un’inappetenza forzata. Tuttavia, ora che finalmente la risposta era arrivata, la pace era scesa sul suo animo, portandola a distendersi su quel lettino sotto il sole cocente, alla ricerca di quel calore che le era venuto a mancare per giorni. Si tolse gli occhiali da sole graduati, che le avevano permesso di leggere la lettera e si cosparse il viso con della crema, per prevenire le scottature, quindi, lasciandosi andare, si rilassò dando modo alla mente di vagare libera, libera di poter sognare. E mentre la tensione finalmente lasciava le sue membra, portandola verso un mondo onirico nel quale ricongiungersi anticipatamente con l’amato, il sonno la trascinò via, cullandola nella meravigliosa idea di un futuro ormai roseo. Non avrebbe potuto accorgersi del raggio di sole che, filtrando attraverso la lente dell’occhiale, andava a colpire ripetutamente l’angolo sfilacciato dell’asciugamano in fibre naturali di cocco e cotone. Non avrebbe nemmeno potuto presagire ciò che quel raggio era in grado di fare e come, un fattore così benevolo, potesse trasformarsi in qualcosa di così orrido. L’incendio divampò all’improvviso, senza lasciare tregua e senza dare scampo, cancellando in un mucchio di cenere ogni speranza. Viky Hachiko Lancione Il fuoco che vive in me Come una fenice dalle proprie ceneri io risorgo grazie a te. Il fuoco che mi anima che divampa in me. Caldo e rassicurante, passionale e sconvolgente. Tu che mi inebri con la tua dolce fragranza e infuochi la mia anima con la forza del tuo amore. Elisabetta Bagli La danza Danzerò nuda per te alla luce del fuoco di luglio, brucerò tutto intorno al tuo corpo la magia del nostro primo momento, incontrerò il tuo sguardo fugace e sentirai scoppiarmi l’incendio. Abbandonati al mio gioco d’amore e avvicinati a me lentamente, accarezza le mie fiamme roventi sciogliendo il ghiaccio fondente come un ruscello d’acqua pura asciugato dalle tue lingue di fuoco. Non parlare, non proferir parola. Amor mio, sfiderò il mondo intero intrecciando le mie gambe alle tue, introducendo in ogni mio poro il tuo odore e il tuo dolce sapore. Tra il fuoco e il ghiaccio, ti farò mio. Tra il fuoco e il ghiaccio, per sempre mio. Andrea Mazzolini Il fuoco Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia. Fahrenheit 451 – Ray Bradbury Ci sono persone che lasciano una traccia indelebile nella nostra vita. Nel mio caso la prima persona a lasciare questa traccia, dopo i miei genitori, fu la mia insegnante di italiano e storia ai tempi delle scuole medie. Era vedova, senza figli. Suo marito era stato un famoso medico veterinario, forse era per questo che la sua casa zeppa di libri era animata da gatti bellissimi. Non celava mai le sue simpatie politiche; la professoressa era, per sua stessa definizione, una vecchia mazziniana; i suoi argomenti preferiti erano il risorgimento, la monarchia e la repubblica, e non la finiva mai di parlarci di educazione civica. Aveva una straordinaria passione per il suo lavoro, sembrava una vocazione più che un semplice mestiere. Ricordo come fosse oggi la lettura e la spiegazione di certi brani omerici (adorava l’Odissea), lo spasso che provava di fronte all’ippogrifo ariostesco e l’adorazione sacrale che tentata di trasmetterci per i Sepolcri del Foscolo. Non disdegnava uscire dai programmi canonici della scuola media dell’epoca. Fu grazie a lei che sentii parlare per la prima volta dell’Antologia di Spoon River o dei Fiori del male di Baudelaire. Era una donna straordinaria, gli americani l’avrebbero definita “larger than life”. Andai a salutarla dopo l’esame di terza media. Mi accolse calorosamente, amava aprire la sua casa agli studenti. Per l’occasione mi regalò un libro che aveva letto nella sua gioventù. Fahrenheit 451. Il titolo non mi diceva proprio niente. Lo aprii a caso e trovai una frase sottolineata. C’era un buffissimo uccello, chiamato Fenice, e questo uccello ogni quattro o cinquecento anni si costruiva una pira e ci si immolava sopra. Ma ogni volta che vi si bruciava, rinasceva subito poi dalle sue stesse ceneri, per ricominciare. E a quanto sembra, noi esseri umani non sappiamo fare altro che la stessa cosa, infinite volte, ma abbiamo una cosa che la Fenice non ebbe mai. Sappiamo la colossale sciocchezza che abbiamo appena fatta, conosciamo bene tutte le innumerevoli assurdità commesse in migliaia di anni e finché sapremo di averle commesse e ci sforzeremo di saperlo, un giorno o l’altro la smetteremo di accendere i nostri fetenti roghi e di saltarci sopra. “Questo, Alex, sembra un libro di fantascienza, ma non è semplicemente un libro di fantascienza. Questo libro descrive un mondo terribile, una società che brucia col fuoco tutti i libri del mondo.” Guardai la sua casa ricoperta di preziosi volumi, non senza un brivido alla schiena. “C’è una cosa che vorrei dirti. C’è un fuoco che devi portare avanti nella vita meno terribile ma altrettanto forte. Devi mantenere il fuoco nel cuore, la speranza, la passione per quello che farai ogni giorno, per i tuoi studi, il tuo lavoro, le tue amicizie, i tuoi affetti, i tuoi amori. In questo libro c’è scritto che tutti dobbiamo lasciarci qualche cosa dietro quando ce ne andiamo: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Ecco, io tra un anno andrò in pensione, tu sarai al liceo nel fiore dei tuoi anni; ci tengo a lasciarti questo insegnamento prezioso. Non spegnere mai il fuoco dentro al tuo cuore. Portalo sempre con te, anche quando intorno vedrai solo buio e disperazione.” Ho ritrovato Fahrenheit 451 dopo molti anni, per caso, dopo un trasloco. E ho pensato alla mia insegnante delle scuole medie. Se ogni giorno tento di non spegnere mai il fuoco dentro al mio cuore, forse, è anche grazie ai suoi insegnamenti così preziosi. Luigi Bonzanini L’Evocazione Una cappa soffocante di umida calura incombeva sulla città quando, verso mezzogiorno, un taxi si fermò davanti all’ingresso del Teatro comunale e ne fu visto scendere l’impresario Cavalier Ilario Delli Ponti. Costui, un amabile e distinto vegliardo dai capelli d’argento sempre perfettamente curati, entrò a passi spediti nell’androne oscuro che dava accesso ai locali della direzione. Non si sentiva affatto al meglio della sua forma abituale: stravolto dal caldo stagnate che gli toglieva il respiro, il Cavaliere sospirò ripensando alla settimana di piacevole quiete trascorsa in montagna e troppo presto interrotta da una telefonata del suo segretario, tale Maestro Ludovico Angustia, che lo aveva informato d’un improvviso sciopero dell’orchestra indetto con motivazioni piuttosto oscure e capziose. Mentre saliva le scale che portavano al suo ufficio, il Cavalier Delli Ponti provò interiormente un convulso moto di stizza verso quei musicisti bizzosi e sempre scontenti che lo avevano costretto a lasciare il suo eremo montano per tornare ad impegolarsi in interminabili diatribe con i delegati sindacali. ” Ma in fondo, che cosa pretendono?! ” grugnì, mentre il suo fastidio aumentava man mano che saliva le scale; ” Sono pagati profumatamente ed invece di pensare a studiare a fondo gli spartiti s’aggrappano ad ogni cavillo per avanzare sempre nuove pretese! La frusta ci vorrebbe! Proprio la frusta!… Se potessi fare a modo mio, in un paio di giorni saprei metterli in riga! Zitti e quieti li farei stare, e guai a chi sbaglia una nota!… “ Proprio in quell’attimo, dal corridoio davanti a lui sbucò fuori, pallido e trafelato il suo segretario Ludovico Angustia: era sulla quarantina, con un’aria mesta da sagrestano frustrato; dietro due spesse lenti da miope sbarrava di continuo gli occhi ogni volta che rivolgeva la parola a qualcuno. Quel giorno pareva addirittura più inquieto e spaurito del solito. ” Cavaliere!… ” esordì sollevato, vedendo arrivare il suo superiore; ” Cavaliere, meno male che lei è tornato! Qui succedono cose strane!… “ ” Si calmi, Angustia! Si calmi e si ricomponga! ” lo rimproverò Delli Ponti in tono rude e sbrigativo; ” Che sarà mai successo di così grave per costringermi ad interrompere le ferie?! Spero che avrà delle spiegazioni più che valide se non vuole ritrovarsi a spasso! “ ” Cavaliere, le assicuro che la faccenda è seria!… ” La voce di Angustia tremava un po’ a causa dell’ultima velata minaccia del Cavaliere; ” Sarebbe meglio che lei scendesse in teatro a constatare di persona… “ “E che ci sarà mai da constatare?…” ” I professori d’orchestra!…” ” Che hanno combinato?… “ ” Niente!…Ma da iersera sono tutti là… “ ” Là dove?!… “ ” Nel golfo mistico!… “ ” E che c’è di strano?!…Non è quello il loro posto?!… “ ” Ma loro vi hanno passato tutta la notte!… “ Un guizzo di intuizione illuminò la mente non troppo brillante del Cavaliere; in tono scandalizzato esclamò: ” Dunque, hanno occupato il teatro!…Ma che cosa rivendicano? “ ” Niente. “ ” Come niente! Per niente non si occupa un teatro!… ” La voce del Cavaliere s’era fatta gracchiante per il fastidio come ogni volta che non riusciva a comprendere bene un problema, il che accadeva piuttosto spesso. ” Dicono che stanno aspettando qualcuno…Non ho capito bene chi. “ ” I delegati!…Voglio parlare coi delegati! Dovranno spiegarmi! Io quelli li denuncio tutti!… ” Il Cavaliere ora sbraitava a tutto spiano proprio in faccia all’assistente che, in preda al marasma, s’era fatto cinereo. ” Bando alle chiacchiere, ” concluse Delli Ponti; ” entro mezzora voglio i delegati nel mio ufficio! …E non stia lì impalato, Angustia! Si muova, li cerchi!… ” Con un gesto brusco scostò lo sventurato maestro Angustia ed entrò nel suo ufficio privato sbattendo la porta nel richiuderla, come per dimostrare che lì il padrone era sempre lui. Appena entrato nel vestibolo, si accorse subito che qualcosa non andava: apparentemente ogni cosa era al suo solito posto, ma nell’aria stagnava un terribile fetore di marcio. Si sarebbe detto che l’ufficio fosse stato invaso dai miasmi fetidi d’una palude. Disgustato, il Cavalier Delli Ponti tolse dal taschino della giacca un fazzoletto di seta e lo portò al naso usandolo come filtro. Dedusse che si trattava senza dubbio di un guasto all’impianto igienico e s’avviò verso la porta del suo studio; qui ebbe una nuova sgradita sorpresa perché s’avvide che l’uscio era socchiuso e, se il suo olfatto non lo tradiva, il tanfo micidiale proveniva proprio dall’interno. Senza por tempo in mezzo, spalancò la porta ed entrò, dopodiché restò per un lungo minuto immobile sulla soglia, con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati, a fissare inebetito l’incredibile scena che si rivelò al suo sguardo e della quale non riusciva in alcun modo a capacitarsi. Un uomo vecchio ed allampanato, una specie di vagabondo cencioso infagottato in un lercio pastrano grigio, se ne stava placidamente sdraiato sulla sua poltrona e russava sonoramente poggiando i piedi calzati con luride scarpacce spaiate sul piano della sua lussuosa scrivania di mogano. Come un sonnambulo, il Cavalier Delli Ponti avanzò nella stanza e subito si rese conto che il fetore mefitico proveniva proprio da quel laido individuo che evidentemente da parecchi mesi aveva smesso di frequentare la vasca da bagno. Cercando di vincere lo sbigottimento e la repulsione, Delli Ponti si fece forza e, con una voce che gli suonò curiosamente stridula, gridò: ” Ehi, lei!… Senta un po’!… Ma si svegli, accidenti!… “ Lo straccione continuò a russare beato; evidentemente aveva il sonno duro. ” Senta, buon uomo!… ” Il tono del Cavaliere si fece ancora più stentoreo; ” Dico a lei!…Voglio sapere che cosa ci fa nel mio studio privato!… “ Lo sconosciuto si decise finalmente a socchiudere gli occhi; per un attimo levò su dal petto una faccia segaligna e scura con la fronte nascosta da una frangia di capelli grigi, sudici e talmente lunghi da arrivare oltre il bordo del colletto; fissò di sbieco il cavaliere e subito ripiombò nel suo sopore mugugnando: ” No me romper los cojones!… “ ” Ma insomma,” strillò l’impresario esasperato; ” Chi diavolo è lei?!… ” Il vecchio sbarrò gli occhi di colpo e si mise a fissare l’impresario con uno sguardo di ghiaccio che dava i brividi tanto era saturo di malignità. ” Ohohh, buenos dìas, Don Ilario!… ” Gracchiò in tono sfottente; ” Qué sorpresa tan agradable!… “ Delli Ponti, livido in volto e con le mani tremanti per l’agitazione, puntò un dito minaccioso verso l’intruso e, sforzandosi di dominare il nervosismo, gli intimò: ” Lei se ne deve andare! Questo è un ufficio privato. Se non se ne va da solo, sarò costretto a chiamare la questura!… “ ” No digas tonterìas, Don Ilario!… “ ” E la prego inoltre di rivolgersi a me in italiano!… “ ” Perdón, Don Ilario!…Yo ablo poco poco tua lingua. Tu devi tener paciencia!… “ Sfiancato dalla tensione, Delli Ponti s’appoggiò al bracciolo d’una seggiola. ” Ma insomma, si può sapere chi è lei?… “ L’altro schiuse la bocca in un sorriso ripugnante, mostrando una chiostra di denti rotti: ” Yo soy Guedè, el nuevo secretario!.. .” ” Ma segretario di chi?!…” ” Ma de Don Andromalius, el nuevo empresario!… “ ” Non dica idiozie! Qui c’è un solo impresario e sono io!…” ” Yo no soy mentiroso. Don Ilario, no te des tantos aires: ahora tú estás desocupado! “ Senza più preoccuparsi di reagire, Delli Ponti afferrò la cornetta del telefono che stava sul tavolo e prese a comporre sulla tastiera il numero d’emergenza della polizia. Di botto la mano gli si arrestò a metà del numero perché la cornetta non emetteva alcun suono; Delli Ponti ne trasse a sé il cavo e s’avvide che era stato troncato a metà. Ancora una volta rimase immobile e smarrito, senza sapere che fare. Poi, di colpo, batté con forza il pugno sul tavolo e strillò con la rabbia della disperazione: ” Fuori!…Vattene fuori! Lurido, sozzo farabutto!…Te ne devi andare!… “ Senza troppo scomporsi, il losco individuo si stiracchiò pigramente sulla poltrona, emise un rutto rumoroso ed infine, molto lentamente, si decise ad alzarsi mentre il vecchio impresario lo fissava strabuzzando gli occhi per la rabbia e la paura. ” Don Ilario, tú estás todo loco, pero yo soy amable e te lo agradezco mucho y espero volver a verte muy prónto! Me cago en tu madre!… ” Detto questo, lo straccione di nome Guedè raggiunse l’ampia finestra alle spalle del Cavaliere, la spalancò e con un balzo felino superò il balcone ritrovandosi ritto sul cornicione del palazzo, in mezzo ad una miriade di piccioni spaventati che subito spiccarono il volo nel Sole ardente che imperversava sulla piazza sottostante. Come in un incubo, Delli Ponti udì il disgraziato urlargli: ” Muchos saludos!!! “ Poi, con un’ultima smorfia, si gettò nel vuoto. Il Cavaliere si precipitò alla finestra in tempo per scorgere una strana esplosione di luce azzurra proprio sotto il cornicione; era sicuro che, sporgendosi un po’, avrebbe potuto vedere il cadavere spiaccicato sul lastricato trenta metri più sotto ma, con suo sommo sbalordimento, non vide assolutamente nulla: Guedè pareva essersi letteralmente volatilizzato nel cielo terso e senza nubi. Mezzo morto per lo spavento, Delli Ponti si scaraventò nel vestibolo in cerca d’aiuto perché sentiva d’essere prossimo ad uno svenimento; appena ne ebbe varcata la soglia, percepì qualcosa di grigio saettargli fra le gambe sfrecciando poi subito via sul pavimento. Il suo sguardo ansioso si fissò sulla moquette: una miriade di piccole sagome grigie zampettavano senza posa su di essa: erano topi; dozzine di grossi topi di fogna dai piccoli occhietti famelici che lo fissavano con odio. Spalancò urlando la porta che dava sul corridoio e cadde letteralmente fra le braccia del suo segretario Ludovico Angustia che proprio in quel momento stava per bussare. ” Per l’amor del Cielo, Angustia, salvami!…Qui l’inferno si sta scatenando!… “ Piuttosto perplesso, il segretario non seppe far di meglio che balbettare: ” Cavaliere, sono spiacente, ma i delegati sono irreperibili… Che debbo fare ora?… “ ” Lascia perdere i delegati, imbecille, non vedi che siamo invasi dai topi!… E tu dov’eri poco fa, quando quel matto s’è gettato dalla mia finestra?!… “ La voce querula di Angustia tentò di placare il marasma dell’impresario: “Ma, veramente, qui non c’è nessun topo!… “ ” Come no! Guarda là dentro, fesso che non sei altro!… Sono dozzine!… ” Varcarono assieme la soglia del vestibolo, ma dei ratti non trovarono nemmeno l’ombra. L’impresario, in evidente stato confusionale, si lasciò cadere di peso su una seggiola. ” È tutta colpa di questo maledetto caldo!.. ” farfugliò provando una vaga vergogna per essersi lasciato andare al panico davanti al suo subalterno. ” Ho avuto una serie di allucinazioni incredibilmente reali!… C’era uno straccione che puzzava come una fogna e parlava in spagnolo: diceva delle scemenze senza capo ne coda; pensa un po’: secondo lui l’impresario non sarei più io ma un certo Andromando… Androcefalo!… “ ” Andromalius!… ” lo corresse Angustia, sbarrando gli occhi come gli succedeva sempre quando era agitato. Delli Ponti lo fissò, colto da un’improvvisa apprensione: ” Ma tu come fai a sapere quel nome?…Lo conosci, forse?… “ ” Stanotte, in teatro, i musicisti lo invocavano a gran voce!… Io me ne sono andato perché m’è parso che le cose prendessero una piega pericolosa ma mentre uscivo li ho sentiti gridare in coro quel nome: ANDROMALIUS!… ANDROMALIUS… le assicuro, Cavaliere: erano grida da far accapponare la pelle!… “ ” Ma oltre a chiamare ‘sto Andromalius, che altro facevano? “ ” Non so; li ho visti soltanto sedersi in cerchio sul palcoscenico vuoto ed iniziare a gridare e dimenarsi, poi sono subito uscito. Però, quando già scendevo lungo la scalinata dell’ingresso principale, m’è parso di sentire qualcosa di simile ad un rombo di tuono provenire dal palcoscenico ed anche delle urla rauche, diverse dalle altre… Parevano i ruggiti di una belva. “ ” Tutte scemenze!… ” lo interruppe Delli Ponti, che s’era un po’ calmato e già stava riacquistando l’abituale alterigia; ” Pure tu sei stato vittima del caldo!… In quanto a quei quattro cialtroni strimpellatori, ora vado giù io e gli faccio passare per sempre la voglia di fare le ammucchiate notturne nel mio teatro! “ Quando, circa venti minuti dopo, l’impresario Delli Ponti giunse in teatro e, attraversato il foyer a passi spediti, varcò la porta della platea la trovò immersa in una fitta oscurità. Soltanto le luci di due piccoli fari illuminavano il palcoscenico dove qualcuno con della vernice nera aveva disegnato sull’impiantito un’enorme stella a cinque punte al centro della quale era stato issato un grosso palo di legno circondato da fascine di rami secchi. Inoltre, dalle profondità del golfo mistico saliva il velato riverbero livido delle lampade elettriche che illuminavano i leggii degli strumentisti. In un silenzio di tomba, l’impresario avanzò fino al parapetto della grande fossa orchestrale e quando guardò giù, ancora una volta si convinse di essere in preda a un’allucinazione dei suoi nervi stressati: vide infatti i musicisti dell’orchestra, ognuno disciplinatamente seduto al suo posto, ma tutti assolutamente immobili e muti, con i volti pallidi e segnati dalla fatica della veglia, come colti da un incantesimo improvviso che li avesse pietrificati. Tentò di farsi notare ostentando qualche colpo di tosse, ma nessun volto si levò verso di lui ed il silenzio continuò a regnare glaciale. Non potendo ormai più tirarsi indietro, decise allora di giocare tutte le sue carte. Con tutta l’autorità che riuscì a trovare nel suo animo già scosso da troppe emozioni, esordì: ” Dunque, ci siete riusciti: avete fatto la vostra bravata!… Ed io che mi illudevo di avere a che fare con dei professionisti seri! Spero saprete fornirmi almeno delle spiegazioni convincenti prima di costringermi a licenziarvi tutti in blocco. Col vostro gesto insensato avete infangato il prestigio del nostro amato teatro ed ora…” Proprio in quell’attimo, fra le luci spettrali dei leggii, un ignoto musicista s’alzò in piedi e lo apostrofò con una voce resa aspra dal rancore: ” Tu!…Tu solo hai infangato il prestigio del teatro! …“ Colto di sorpresa, Delli Ponti non riuscì a trovare una replica efficace; si limitò a balbettare: ” Come puoi dire questo! Senza di me non siete niente!… Io vi conosco tutti, così come conosco la vostra mediocrità: non valete uno zero! Siete vecchi ed imbolsiti. Dovreste essermi grati se, nonostante tutto, vi concedo ancora di guadagnarvi il pane che non meritate!… “ Su dall’orchestra si levò un mormorio di protesta; qualcuno, dal fondo, si levò a gridare: “Affamatore!… Schiavista!…” Il musicista riuscì a ripristinare il silenzio, quindi si rivolse nuovamente all’impresario in tono duro e sferzante: ” Per cinque lustri siamo stati amministrati da molti impresari del tuo stampo: gente senza scrupoli che ci ha sfruttato fino all’osso, mortificando ogni nostra attesa musicale, condannandoci senza riguardi a macerarci nella noia infinita di insulse opere sconosciute, lasciandoci umiliare da direttori arroganti ed incapaci, mandandoci allo sbaraglio in concerti preparati troppo in fretta. Fra tutti costoro, tu sei stato comunque il peggiore! Con la tua becera dittatura, con la tua incapacità congenita e la tua totale ignoranza di cose musicali, sei riuscito là dove gli altri avevano fallito: per colpa tua, il teatro in cui per vent’anni abbiamo lavorato è ormai al limite del fallimento. Stando così le cose, stanotte abbiamo provveduto a contattare un nuovo impresario che ci ha garantito di riportare il teatro ai fasti d’un tempo e per quel che ci riguarda tu non rappresenti più niente. Sei finito! Non potrai fare altri danni!… “ A questo punto, vedendosi scoperto, Delli Ponti decise di tentare il gioco duro: sbottò dapprima in una risata plateale e poi, con velenoso sarcasmo, chiese: ” E dove lo troverete un altro impresario che si prenda la briga di badare a questo schifo di teatro di provincia?!… Dove sta, che lo voglio conoscere, questo paladino degli oppressi?!… “ Senza scomporsi, l’orchestrale gli rispose: ” Sta proprio dietro di te; voltati e vedrai Andromalius, giunto qui dalla contrada chiamata Gheenna; Signore di 99 Legioni e responsabile musicale della Regione Infera. Sarà lui il nostro nuovo impresario! “ Perplesso, il Cavaliere sentì dietro di sé dei passi felpati che s’avvicinavano mentre dal fondo della buia platea una voce bassa e roca salmodiava dei versi enigmatici: ” È furiosa la figlia di Anu, è furiosa! Su dalle forre della Notte si leva il suo clamore! In nome dell’Oscurità io sono venuto a voi; io, l’Angelo Nero della cupa melodia! 666 è il mio numero. Nelle profondità dell’abisso sono 666. Obbedite alle Tenebre!… Io sono 666… “ Come soggiogato da una formidabile forza magnetica, il Cavalier Delli Ponti non poté fare a meno di voltarsi e si trovò dinanzi un uomo alto e pallido ravvolto in un ampio mantello nero. Andromalius gli pose entrambe le mani sulle spalle e l’ex impresario si ritrovò suo malgrado in ginocchio davanti a quell’essere di cui non osava sostenere lo sguardo. La voce sussurrante del demone gli chiese: ” Sei pronto per il sacrificio?… “ Prossimo ormai ad un collasso nervoso, con le guance rigate da lacrime di disperazione, Delli Ponti riuscì appena a mormorare: ” Quale sacrificio?…Io non capisco!…Per piacere, non fatemi del male! …“ ” I musicisti mi hanno evocato, ma perché io possa compiere la mia opera a loro favore è necessario un sacrificio umano; questa è la legge antica! Loro hanno designato te come vittima predestinata!… “ Non vi fu risposta perché a questo punto il Cavalier Delli Ponti era già crollato con la faccia a terra privo di sensi. Alcuni musicisti salirono in platea e provvidero a trasportarlo sul palcoscenico dove fu legato saldamente al palo dentro il pentacolo e ricoperto con fascine di rami secchi. Subito dopo arrivò qualcuno con una scatola di fiammiferi ed una tanica di benzina. * Recentemente ho assistito ad alcune rappresentazioni liriche veramente grandiose al vecchio Teatro Comunale. Non c’è che dire; da quando la gestione è cambiata, la qualità degli spettacoli è migliorata in modo sbalorditivo. Se non ricordo male, la prima serata della stagione autunnale è stata inaugurata col Mefistofele di Boito: una vera apoteosi. La dichiarazione d’amore Vi sono giorni in cui i demoni della desolazione imperversano sul mondo e corrono col vento per le strade delle città, fomentando l’arroganza ed i soprusi dei protervi. In altri giorni, per ignoti meccanismi astrali, appaiono fra gli umani i demoni della collera, assai più pericolosi e spesso mortali. Il Maestro Domenico Sangallo, anima semplice, in tutto l’arco della sua lunga vita non aveva mai neanche sospettato l’esistenza di queste letali presenze metafisiche e ne era quindi stato spesso la vittima inconsapevole. Le divinità infuriate prediligono i mesi estivi, quando l’afa soffocante rende gli umani predisposti a cadere nelle loro trappole. Appunto in una serena mattina di luglio, il vecchio Sangallo si destò da un sonno irrequieto senza minimamente presagire le insidie che lo attendevano. Uomo scettico, pragmatico e vitalista fino all’eccesso, si levò di scatto dal letto con un’esclamazione compiaciuta: “All’opre feconde!…” S’aspettava che a questo suo retorico grido, qualche uccello canterino rispondesse con un trillo suadente ma, da oltre i vetri della finestra, nella pura luce del primo mattino, non percepì che un silenzio quasi irreale. I demoni o spiriti malevoli in questione, usano sistemi assai subdoli per condurre le vittime predestinate ad un insostenibile livello di esasperazione. Abitualmente, gli strumenti meccanici e le situazioni in generale cominciano a non funzionare o funzionano in modo distorto. Il primo aggeggio che si inceppò fu il rasoio elettrico e proprio nel bel mezzo della rasatura mattutina, cosicché Sangallo si ritrovò con una guancia rasata e l’altra ancora irta di peli, tentando inutilmente di riavviare il rasoio riottoso. Nei tempi lontani della sua gioventù, spesso veniva rimproverato per il suo carattere intollerante che, comunque, egli riteneva d’aver ammansito con la saggezza dell’età. La stizza per quel noioso incidente ravvivò di colpo l’aggressività sopita ed egli prese ad imprecare a bassa voce: “ Ma guarda che razza di trappola, Marianna porcona!… E porco qua e porco là!…” Il suo disappunto era in fondo giustificato dato che proprio quella mattina contava di far visita ad una dama assai avvenente che, di tanto in tanto, apriva il suo salotto ad una cerchia esclusiva di persone raffinate. Da alcuni mesi il Sangallo era perdutamente invaghito della bella signora e contava appunto quel giorno di recarsi da lei per dichiararle i propri sentimenti. Ovviamente, presentandosi in quelle condizioni grottesche, con mezza faccia sbarbata e mezza irsuta, avrebbe fatto una figura ben meschina. Comunque, determinato a non lasciar spazio allo sgomento, subito si ricompose dichiarando a voce alta: “Andrò dal barbiere! ” Finì di vestirsi in fretta e scese in strada a cercare la sua modesta ma dignitosa utilitaria. La trovò tempestata di guano d’uccello. Uno stormo di colombi si era accanito a sfregiarla con una solerzia quasi ossessiva. Sangallo riprese a mugugnare imprecazioni, stavolta a bassa voce, per non farsi udire dai passanti che avrebbero potuto scambiarlo per uno zotico. “ Porcaccia la Marianna beduina!… Ma guarda che razza di schifezza!… Proprio sulla mia dovevano sfogarsi quelle bestiacce fetenti!…” Infastidito e visibilmente alterato, aprì lo sportello e si mise al volante. Accese il motore e la macchina si mise in moto con notevole difficoltà. Manovrò per uscire dal parcheggio e, proprio in quel momento, un giovanotto svagato gli saettò davanti in sella alla sua moto. Sangallo frenò di colpo evitandolo per un soffio. Il motore si spense bruscamente e la spia dell’impianto elettrico prese a lampeggiare. Sangallo, sempre più livido e teso, proruppe in una bestemmia irripetibile. Senza neanche rendersene conto, prese a tempestare di pugni il volante digrignando i denti e grugnendo come un cinghiale braccato. Cercò immantinente di riprendere il controllo: “Calmo!… Io sono calmo come la iena che s’apposta per l’agguato!… Niente e nessuno può scalfire la mia calma ferrea!…” Perse una decina di minuti a suggestionarsi con altre affermazioni del tipo: “Sono inossidabile come una baionetta inglese, inattaccabile ed infallibile come uno squalo del Mar Rosso!…” Poi riavviò il motore e la vettura rimase inerte e silenziosa. Sangallo girò e rigirò la chiavetta dell’accensione, ma pareva proprio che la sua sfortunata vettura avesse ormai esalato l’ultimo respiro. Uscì dall’abitacolo e s’incamminò a piedi, diretto verso la bottega del barbiere. Camminando, non poteva evitare di roteare gli occhi lanciando occhiate belluine all’intorno. I passanti che lo incrociavano, restavano a fissarlo perplessi. Il negozio del barbiere distava circa tre isolati: il furibondo Domenico lo raggiunse in una ventina di minuti a passi veloci, spintonando senza scrupoli chi gli si parava dinnanzi. Giunse finalmente davanti alla bottega e un moto di sgomento gli si dipinse sul volto: sulla saracinesca abbassata spiccava un cartellino scritto a mano: Chiuso al mattino per terapie al ginocchio Vi era quasi un compiacimento diabolico in quella semplice frase vergata con apparente noncuranza. Ma quali terapie?!… Lo sanno tutti che le terapie non servono ad un cavolo! Se quell’imbecille aveva il ginocchio della lavandaia, avrebbe fatto meglio a tenerselo e a proseguire col solito orario senza fare tante storie. E poi, proprio quella mattina aveva scelto per farsi le terapie! Non poteva aspettare il giorno dopo? Non poteva farsi amputare la gamba che, tanto, per il suo mestiere non era prettamente indispensabile? Non poteva farsele amputare entrambe così da restare in permanenza nel negozio per essere disponibile in casi d’emergenza come il suo?! Niente! Quell’impiastro doveva farsi le terapie e lo lasciava solo nel momento più drammatico della sua vita. Cosa avrebbe detto la marchesa Fanny vedendolo apparire con la faccia sconciata in quel modo? Si sarebbe fatta una risata; anzi, si sarebbe sbellicata dalle risate, e tutta la paziente opera di seduzione portata avanti per svariati mesi sarebbe crollata come un castello di carte per colpa di quel fesso e del suo ginocchio della lavandaia! Sempre più stravolto, Sangallo trasse dal taschino l’orologio per controllare l’ora: le dieci e mezza. Alle undici aveva fissato l’appuntamento in casa della marchesa. Ed ella abitava nel quartiere dei benestanti, quasi all’altro capo della città. Urgeva una decisione. Rinunciare?… Impossibile! La faccenda andava risolta al più presto: Sangallo non poteva ancora protrarre gli indugi portando avanti quel penoso stato di prostrazione in cui era caduto a causa del suo innamoramento. Bisognava dichiararsi ed in un modo inequivocabile per poter finalmente uscire dai tormenti e dalle ansie in cui si dibatteva. Non c’era un minuto da perdere! La marchesa era una donna di mondo e non si sarebbe formalizzata per il suo aspetto bizzarro; più tardi, nell’intimità, dopo essersi liberato della gravosa incombenza della dichiarazione, avrebbe potuto spiegare con calma le cause banali della sua trascuratezza. Benché non più giovanissimo, Sangallo aveva ancora le gambe salde. Troncando di netto ogni indugio com’era tipico della sua indole pragmatica, s’avviò a passo svelto verso la dimora di Fanny. Fu una traversata epica a passi falcati, senza quasi il tempo di respirare. Forse Sangallo aveva un po’ sopravvalutato le sue energie. Giunse al portone della marchesa quasi schiantato dalla folle camminata. Boccheggiando e con la vista appannata, riuscì infine a suonare il campanello. Dal citofono si levò una voce bassa e compassata che chiese: “Chi è?…” Asciugandosi la fronte sudata con un fazzoletto, Domenico riuscì a farfugliare: “ Sono Sangallo!… Ho un appuntamento!…” “Chi?!…” “Sangallo!…Porca Marianna!… Sono Domenico Sangallo!… La marchesa m’aspetta!…” “Va bene, entri pure. Guardi che l’ascensore è rotto.” Udendo quell’ultima e fatidica frase, il disgraziato Domenico fu ad un passo dal tracollo psicofisico. Con un moto disperato s’aggrappò alla maniglia del portone perché sentiva le ginocchia piegarsi per lo sfinimento e la tensione. Il portone s’aprì con uno scatto e Sangallo trovò comunque la forza di entrare nell’androne semibuio. Vide la tromba delle scale che gli apparve inaccessibile e minacciosa come una vetta inviolata e fu sul punto di piangere per la disperazione. La solita voce grave e neutra, da un’altezza indefinita lo rampognò: “Si sbrighi! La marchesa sta per uscire! ” Sta per uscire?!… Ma come?! Io quasi mi faccio venire un infarto per essere puntuale e quella vuole uscire!… In ogni caso, il dado era ormai tratto e bisognava andare fino in fondo anche se a questo punto Sangallo aveva una gran voglia di mandare a quel paese la marchesa assieme al barbiere, ai piccioni bombardieri, ai rasoi difettosi e a tutti i dannatissimi accidenti di quella infausta mattinata. Cinque piani a piedi: senza quasi respirare, ma ce la fece. Sulla porta dell’appartamento lo aspettava Ubaldo, il sussiegoso domestico della Fanny. Si sa, i nobili sono attaccati alle tradizioni con un’ostinazione quasi maniacale, e la marchesa Fanny ci teneva ad avere in casa quella specie di beccamorto in marsina che, grazie alla sua faccia pallida ed inespressiva, dava all’ambiente un tocco di ancien régime assai pittoresco. Sangallo non lo poteva soffrire avendo l’impressione che quel baccalà dai modi affettati lo scrutasse di continuo con malcelato disprezzo. Comunque, in quel preciso frangente Sangallo non era nelle condizioni di disquisire sui modi di Ubaldo; in pratica si scaraventò letteralmente oltre la porta d’ingresso per poi crollare distrutto su un divano. “La vedo sconvolto!…” “Ma no, sono solo un po’ provato per scale! ” “ Lei sta sudando! ” continuò l’altro con un tono che a Sangallo parve sarcastico. “ Sto benissimo! Mi annunci alla marchesa!… Ho un appuntamento.” “Come vuole, ma dovrà attendere. A causa del suo ritardo la signora era già sul punto d’uscire. La signora non ama aspettare.” Andate ad impiccarvi, tu e la signora! Uscito il sinistro cameriere, Sangallo, finalmente solo, prese a rimuginare pensieri sempre più tetri. L’ora delle decisioni irrevocabili era dunque scoccata. Il suo futuro, le sue speranze erano tutte là, oltre la soglia del salotto che fra poco avrebbe oltrepassato. Il cammino della sua vita era ormai ad un bivio; non doveva, non poteva fallire. Ma cosa le dirò?… Come troverò le parole?… Il suo demone interiore riprese a pungolarlo: Devo! Devo riuscire a convincerla! Ella è il faro che illuminerà i miei ultimi anni. Quella creatura così dolce, affabile e sensibile. Ella mi ama, lo so per certo!… Nel frattempo i minuti passavano lenti come secoli e la porta del salotto non s’apriva. Sangallo prese ad agitarsi sul divano in preda ad una smania ansiosa; cominciò a torcersi le mani ed a mangiarsi le unghie, ormai senza più controllo sul suo delirio interiore. L’eternità passò sulla testa di Sangallo sconvolto da un’ansia indicibile. Ma anche l’eternità ha una fine e quando l’uscio maledetto del salotto finalmente si aprì, sulla soglia apparve il malevolo Ubaldo che agli occhi di Domenico sembrò quasi un messaggero dell’Aldilà. Il domestico disse soltanto: “S’accomodi!…” Niente di più e niente di meno, ma quell’unica parola risuonò nelle orecchie di Sangallo come una sentenza. S’avanzò con le gambe che tremavano, e la luce del salotto inondato dal sole di mezzogiorno quasi lo accecò. Fanny, una bella donna di mezza età dal portamento aristocratico, si volse verso di lui ed esclamò: “ Finalmente si è deciso!…” Il tono della marchesa era di distratta noncuranza, ma Sangallo non se ne rese conto. “Dunque, di cosa doveva parlarmi con tanta urgenza?…” Sangallo provava un curioso cerchio alla testa; tentò di rispondere e lui stesso si stupì del tono insolitamente acuto della propria voce: “ Io!…” “Sì, voi?…” Fanny sembrava quasi divertita nel vederlo in quello stato. “Io ardo!…” “Si vede! Siete tutto rosso in faccia e sudato! ” “ Ma no!…Intendevo dire che io ardo!…” “Ho capito.” La Voce di Sangallo gli uscì dalla gola come una sorta di gemito querulo: “Io ardo d’amore per voi!…” Fanny rimase per un momento perplessa poi, con studiata lentezza, s’affacciò alla porta e chiamò: “Ubaldo!…” Riapparve il domestico ed a Sangallo sembrò che trattenesse a stento un ghigno satanico. Fanny fissò il suo spasimante con uno sguardo freddo come una lama di rasoio e quindi, rivolta al servo ghignante, sussurrò gelidamente: “Ubaldo, porta al signore un bicchiere d’acqua gelata! Non vedi come arde?!…” Nella calura opprimente di quell’afosa giornata di luglio, chi si trovò a passare nei pressi della lussuosa dimora della marchesa Fanny certo non poté evitare di notare un curioso individuo che vagava senza meta strabuzzando gli occhi e balbettando frasi sconnesse. Pare che, verso sera, qualche anima pietosa abbia informato chi di dovere. Giunse un’ambulanza e il disgraziato vi fu caricato a viva forza. Quattro robusti infermieri dovettero provvedere al penoso incarico poiché l’individuo scalciava e si dimenava come un ossesso, sbraitando ingiurie e maledizioni. Paolo Fiorino Libia, 1941 Era una maledetta giornata in un deserto infernale e lui era agonizzante, intrappolato in un groviglio d’acciaio rovente che bruciava, nel bel mezzo di uno scontro tra corazzati. Del modesto carro Fiat M13 che aveva lanciato all’attacco sulle dune che circondavano Bengasi ormai era rimasta solo qualche tonnellata d’acciaio contorto, fuoco, sangue, fumo e rabbia, tanta rabbia per l’entusiasmo con cui si era lanciato in quella guerra, per le bugie del Duce che li mandava a morire senza equipaggiamenti adeguati, per le centinaia di cose che avrebbe potuto fare se la sua vita non avesse preso quella piega inaspettata. Con uno sforzo sovrumano si sollevò di quel tanto che bastava a gettare lo sguardo oltre lo squarcio nella corazza aperto dalla granata del Matilda che aveva centrato il suo carro e ucciso i suoi compagni. Lo vide, tra il fumo denso del carburante che bruciava. Il tank inglese era ancora lì, a pochi metri da lui, e ruotava la volata, indeciso se dare il colpo di grazia all’avversario agonizzante o risparmiare un proiettile per un uso migliore. Dopo qualche secondo il carro nemico arretrò. - Maledetto! Mi lascia qui a morire – pensò, con delusione. Un brontolio profondo richiamò la sua attenzione. Non poteva vederli, immobilizzato com’era, ma sentiva distintamente i motori di molti altri carri armati che si avvicinavano. - Amici o nemici? – si domandò. L’incendio divampava attorno a lui, il calore era diventato quasi insopportabile. La gola e gli occhi gli bruciavano per il fumo. Il fuoco avanzava rapidamente, come un predatore in cerca della sua vittima, e tra pochi istanti lo avrebbe avviluppato. Era la fine. - Amici o nemici? – Si chiese di nuovo, tentando di ignorare il dolore atroce delle fiamme che cominciavano a consumare le sue carni. Ormai non aveva più importanza. Allungò la mano verso il detonatore della granata, staccò la linguetta e sganciò la sicura. Pochi istanti ancora e il dolore sarebbe cessato. Ormai c’era rimasta solo la rabbia. Angelo Francesco Anfuso Misera Fiamma Sfiorami con la Tua fiamma, Riscaldami il cuore, inebriami di passione. Sii il mio dovuto sostegno. Tienimi stretto, prendimi per mano. O Fiamma, non lasciarmi, non spegnarti… Il mio è un grido disperato, cosa mai potrò fare? Solo il tuo calore, io desidero. Perché è così difficile pretenderti, sfiorarti, o toccarti. Ma Tu non mi ascolti. O forse fai finta…. O forse hai paura… Io ti vedo, ti sento, ma tu, nemmeno mi degni di uno sguardo, Sono misero, sono povero, non ho nulla se non un cuore malato, che terge lacrime, alla vista di una fiamma, che Tu per meritato sbaglio mi donasti. L’hai accesa in me, ma alla fine, hai avuto paura di alimentarla. Non sono degno di nulla, ma sono solo sicuro che nel mio cuore non c’è una fiamma, ma un nobile Focolare d’Amore. Rossana Roxie Lozzio Tu e il fuoco Guardo le fiamme ardere e bruciare, all’interno del caminetto acceso e mi perdo nel loro colore caldo e intenso, concentrandomi sul delizioso rumore che produce il loro crepitio. Non posso fare a meno di pensare al giorno in cui ti ho colto intento a fare altrettanto e non sono più riuscita a spostare lo sguardo da te… non avevo notato nulla di quanto mi sta affascinando in questo momento, probabilmente perché niente è per me più attraente ed intrigante di te. Torno a fissare il fuoco e mi rendo conto che paragonarlo a te può essere più semplice di quanto non sembrerebbe. Il fuoco è caldo, colorato, magico e vitale ed è in grado di trasmettere passione, esattamente come te ed è così che, come per incanto, riesco a sentirmi se soltanto ho la possibilità di restare ad osservarti. Quel giorno, entrando in questo stesso ristorante, potevo aspettarmi qualunque cosa ma non di incontrarti e ricordo perfettamente che, varcando la soglia di questa sala che è caratterizzata proprio dal caminetto al quale sono ancora di fronte, per poco non temetti di essere vittima di un’allucinazione. Tu eri lì, immobile e solo, ad osservare il fuoco acceso che crepitava e che giocava sul nero lucido dei tuoi capelli, proiettando luci ed ombre che nemmeno il più talentuoso pittore avrebbe potuto rappresentare in un quadro. D’altra parte, sei un capolavoro! Rasenti la perfezione, la tua è una bellezza che sembra dipinta e che soltanto un Dio capace e onnipotente avrebbe potuto rendere reale. Pensai che non potevo essere così fortunata e che quello stesso Dio che ti ha creato non poteva essere stato anche tanto magnanimo da averti posto sulla mia strada, regalandomi un’occasione per godere della tua bellezza da vicino! L’ho colta al volto, approfittandone per rimanere a guardarti, alle tue spalle, mentre non sembravi avere occhi per nient’altro che quel fuoco che sembrava averti attratto e ipnotizzato, con la stessa forza con la quale saresti riuscito a fare se soltanto li avessi posati sul mio viso! Torno a guardarlo, quel fuoco ignaro di avere avuto la fortuna che vorrei toccasse in sorte a me… è stato così abile da indurti in tentazione e ti ha avviluppato, risultando attraente al punto da catturare la tua completa attenzione. Impagabile, la tua espressione, mentre eri perso di fronte alle sfumature di quel rosso vivace e cosa avrei dato per poter intuire il corso dei pensieri nascosti dietro a quello sguardo malinconico che portavi disegnato sul volto! Sospiro, mentre ricomincio a mettervi a confronto e comprendo che siete simili e che simile, è l’effetto che producete su di me ma rabbrividisco, perché avverto il freddo penetrarmi la pelle e raggiungermi l’anima, adesso che vedo abbassarsi le fiamme che rischiano di spegnersi ed è la stessa sensazione che mi accompagna da quell’attimo fuggente che non sono stata in grado di cogliere. Ti ho lasciato andare via, mi sei passato accanto e mi sono incapricciata anche del tuo passo sicuro ed intrigante, concedendomi soltanto il lusso di rimetterti al centro dei miei pensieri o del cuore, lì dove sei da sempre e dove resterai, per sempre. Tutti i colori delle emozioni Nel frattempo è iniziata la settimana dedicata ai colori delle emozioni. Voglio subito precisare che lo schema, sottoposto di seguito, serve solo a titolo indicativo, giusto per darvi qualche idea e per aiutare chi di voi si trova a corto di ispirazione. Tuttavia non vi ancorate allo schema stesso, NON è VINCOLANTE in nessun modo. Ognuno deve potersi sentire libero di esprimere a modo proprio il significato di un colore abbinato a un’emozione, anche se dovesse essere l’unica voce fuori dal coro. Rossana Roxie Lozzio Arcobaleno Se soltanto potessi odiarti per essere riuscita là dove nemmeno lontanamente sarei mai stata capace di arrivare… se soltanto potessi provare rabbia, invidia o sentimenti negativi, per te, che sei entrata nella sua vita e ne hai carpito il cuore, fino a indurlo a chiedersi se mai avrebbe più potuto fare a meno di te! Invece, ti sono grata per essere al suo fianco, per averlo reso padre, per avergli regalato gioia, sentimenti, stabilità… perché evidentemente sei la donna giusta per un uomo tanto speciale ed essere sua moglie, contribuisce a fare sì che possa continuare ad apparire tale e che questa meraviglia possa riflettersi su chi gli gravita attorno. Guardo nei tuoi occhi e indago dietro al tuo sorriso, intravvedendo tutti i colori dell’arcobaleno che sono in lui, donna fortunata… Rosso, come l’amore e la passione che vi avrà legati durante i primi anni della vostra relazione, di tutta l’energia che emana… Arancione, come il desiderio che continuo ad avere di passare le mani fra i suoi capelli, di accarezzarne la pelle, di carpirne sensazioni ed emozioni… Giallo, come il suo colore preferito e che, come lui e come il sole, ci fa pensare alla luce, ad un’energia positiva, al calore… Verde, come la speranza che ho nutrito per anni di poter condividere almeno un’ora della mia vita insieme a lui e come l’equilibrio, quello che invece avrete costruito nella vostra relazione… Azzurro, come il cielo e come l’acqua del mare che ho sempre scorto nei suoi occhi scuri e profondi, immaginando di potermici specchiare… Indaco, come la spiritualità che avrei potuto portare nella sua vita, contrapponendola alla sua vivacità e a quella sana follia che me lo ha fatto amare da subito… Infine, viola, come la nobiltà di quella sua anima inquieta ma sincera che lo induce a dire sempre quello che pensa, anche quando questo lo può rendere scomodo… E così, donna fortunata, tu hai lui e godi del suo arcobaleno, della sua magia, delle sue mani! Tu ti svegli al suo fianco e sai come appare al mattino e sempre tu, sai cosa lo fa soffrire e puoi asciugare le sue lacrime, quando eventualmente dovessero scivolare da quegli occhi scuri e profondi che me ne hanno fatto innamorare, insieme alla sua voce. La stessa voce che ti ha detto quanto non gli sentirò mai dire, nemmeno per gioco… ti amo. Giallo girasole Non mi aspettavo di trovarlo, non qui, non in questa piazza grigia ed adibita a parcheggio ed ora che ci penso bene, adatta al mio umore malinconico di oggi. Invece è lì, si erge nella sua ineguagliabile bellezza, cresciuto in quella poca terra all’interno di uno spazio minimo che attornia la palazzina sede degli uffici pubblici nei quali mi sto per recare e pare osservarmi, fiero, bellissimo, aperto e direzionato verso il sole che sembra sempre cercare, al punto da avere indotto qualcuno a fargli avere in sorte quel nome che ti induce ad amarlo immediatamente: girasole. E’ un unico fiore ma è alto, impettito e splendido, così perfetto e magico da darti la netta impressione che, anche nella landa più desolata al mondo, possa nascere e resistere qualcosa di tanto naturale ed energico. Mi fermo a guardarlo, ne sono attratta al punto da non poterne fare a meno e chissà perché – forse perché mi accade quotidianamente, abitudine adottata da quando ti conosco – mi sorge spontaneo paragonarlo a te. A te che ne ami il colore, il giallo e che, come lui, sei attratto da tutto ciò che è solare e probabilmente, ignori di rappresentarne l’essenza… sei luce, calore, rappresenti ciò che il sole rappresenta per la terra. Sei vita. Sei tutta la mia vita. Il primo bacio che sconvolge, estratto da “Fino alla fine” Varcò la soglia del salone, accompagnata dalle note di una delle canzoni più famose del repertorio di Daniel Weston e si compiacque di poterla ascoltare, grazie alle vetrate aperte sulla terrazza. Raggiunse velocemente la poltrona sulla quale ricordava di aver lasciato lo scialle e sorrise, accorgendosi che era ancora lì, quindi lo raccolse e se lo posò intorno alle spalle, attirata all’esterno dalla musica che conosceva bene e che amava particolarmente. “Ciao…”. La sua voce le giunse da dietro, qualche istante più tardi, emozionandola come la canzone che l’aveva indotta ad uscire in terrazza. Amber Rose raccolse del fiato, sforzandosi di assumere un atteggiamento che potesse essere adeguato alla situazione ed augurandosi di apparire tranquilla, si girò, dipingendosi un sorriso sulle labbra. “Ciao!”. Lo salutò, scoprendolo più attraente che mai ed incapace di capire se fosse per l’abito che indossava e che gli donava moltissimo o piuttosto, semplicemente, per la bellezza del suo volto. “Non ti avevo visto, credevo di essere sola…”. “In effetti, lo eri… ero nei pressi della villa, quando ti ho vista arrivare e così, ti ho seguita”. Le rivelò, riuscendo a sconvolgerla. “Avevo freddo, c’è un’aria pungente e sono venuta a recuperare questo…”. Si giustificò, indicando lo scialle, imbarazzata per il modo in cui la stava fissando. “Poi, ho sentito questa canzone e dato che l’amo molto, sono uscita per non perderla…”. “Daniel è straordinario”. Convenne, Matteo, pacatamente. “Il tuo abito è davvero bello…”. Aggiunse, accarezzandola con quello sguardo inedito che la mise in allarme. “E’ della Collezione MAGGIE…”. Affermò, sempre più a disagio, dandosi della stupida per non essere in grado di gestire la situazione. “Come mai, Elisa non è con te?”. Domandò, tentando di mantenere una certa freddezza. Lui le si affiancò, posando le mani intorno alla ringhiera della balconata e guardando verso il palco illuminato, al centro del parco, sul quale si stavano esibendo Daniel e Kevin. “Elisa si trova in Olanda”. Rispose, interrogando se stesso circa l’istinto che lo aveva indotto a seguirla nella villa e che lo stava facendo agire piuttosto sconsideratamente. “Ma ti sorprenderà, sapere che è stato Simon ad insistere affinché partecipassi ugualmente a questa splendida festa…”. “Simon?”. Ripeté, perplessa. “Già…”. Annuì, abbozzando un sorriso. “E nonostante tutto, non si è ricordato di dirmi che la sua compagna saresti stata tu…”. “Forse, non lo ha ritenuto importante… non credi?”. Replicò, stringendosi nello scialle, scossa da brividi che non erano più causati unicamente dall’aria fresca della notte. “Non abbastanza, vuoi dire?”. Le chiese. “State molto bene, insieme…”. La provocò, accorgendosi che stava tremando. “Almeno, in apparenza… ti ho già detto come la penso, in proposito”. “Me lo ricordo…”. Assentì, emettendo un leggero sospiro. Matteo si tolse la giacca, girandosi per posargliela sulle spalle, sorprendendola favorevolmente. “Hai ancora freddo…”. Osservò, sfiorandole le braccia con le mani per lasciarle scivolare lentamente, costringendola a sussultare. “Tu e Simon avete parlato di me?”. Gli chiese, temendo che l’attore avesse rotto il loro patto e che gli avesse raccontato l’episodio al quale aveva assistito, quel pomeriggio nel parco e per cui avevano stretto l’accordo che aveva incluso la sua partecipazione al suo fianco alla festa. “Avremmo dovuto?”. Matteo la guardò, perplesso. “E’ che hai uno strano modo di comportarti…”. Rispose, senza trovare il coraggio di guardarlo. “Credevo di conoscerti abbastanza da poter escludere che Simon fosse il tuo tipo…”. Dichiarò, sollevando le spalle. “Non esiste l’uomo ideale!”. Ribatté, improvvisando un sorriso che, involontariamente, finì per provocarlo. “Allora, auguri, miss Hamill…”. Ironizzò, accingendosi a lasciarla. Amber Rose trattenne il respiro e chiuse gli occhi per un istante, prima di voltarsi per restituirgli la giacca. I loro occhi s’incontrarono, perché lo scorse a pochi passi di distanza, immobile. “Dimentichi questa…”. Mormorò, facendosela scivolare lungo le braccia, avvertendo il profumo dell’uomo e sforzandosi di continuare a fingersi interessata a Simon Weston, nonostante desiderasse negarlo. “C’è qualcosa che non mi convince…”. Matteo indagò nei suoi occhi, mentre gli porgeva l’indumento, senza muoversi di un solo centimetro. “E’ un problema tuo…”. Replicò, attendendo che si decidesse a prendere la giacca e mantenendola sollevata in sua direzione con la mano. “D’accordo…”. Annuì, serissimo, avvertendo un’energia che lo spinse a smettere di tollerare quell’atteggiamento arrogante che non apparteneva alla ragazza che aveva frequentato fino a qualche mese prima. Percorse il breve tratto che li separava e finse di riprendere ciò che gli stava porgendo, quindi le afferrò la mano ed Amber Rose trasalì, lasciando cadere la giacca sul pavimento. “Sei a caccia di emozioni forti?”. Le chiese, attirandola bruscamente a sé e cingendole la vita con la mano libera. Completamente ostaggio dei suoi occhi, non si mosse per tentare di sciogliersi da quella presa, diversa dagli abbracci che l’avevano preceduta e decisamente sconvolgente, quindi gli permise di accarezzarla e lasciò che le passasse entrambe le mani fra i capelli. “Scusa…”. Matteo sembrò recuperare il controllo altrettanto in fretta, mentre lei lo aveva quasi perso del tutto, confondendola maggiormente. “Ti prego, scusami…”. Mormorò, accorgendosi di avere esagerato e prendendole il viso fra le mani, l’attirò a sé per abbracciarla. “E’ che sei così provocante, stasera…”. Aggiunse, inebriato dalla sensazione dei loro corpi abbandonati e decisamente pronti a regalarsi emozioni che desiderava vivere. “O forse, sono io che…”. “Puoi farlo”. Amber Rose lo sconvolse, pronunciando quelle parole che non si pentì di avere appena usato. Matteo le allontanò il viso dal petto, con le stesse mani che ve lo avevano condotto un attimo prima, scorgendovi una luce che lo appagò. “Che cosa?”. Le chiese, scrutando attentamente nei suoi occhi. “Puoi baciarmi…”. Dichiarò, trovando un coraggio che le avrebbe permesso di andare oltre, improvviso come era stato il modo in cui l’aveva attirata a sé prima di chiederle scusa. Ma lei non voleva che le porgesse delle scuse… lo guardò e si rese conto che aveva solo voglia di confessargli che lo amava. Che lo aveva amato dalla prima volta che lo aveva visto e che lo avrebbe amato fino alla fine dei suoi giorni. “Stai scherzando…”. Mormorò, sicuro del contrario. “Se lo vuoi, puoi baciarmi”. Ripeté, regalandogli un piacevole senso di appagamento che non lo avrebbe più abbandonato. “Altrimenti, lasciami andare… e fallo adesso, Matteo. Così dimenticherai quello che è successo…”. “Certo che lo voglio, Amber Rose…”. Le disse, scoprendosene infinitamente attratto e colpito dal modo in cui gli stava offrendo quel bacio. “Allora, fallo…”. Ribadì, mentre si chinava per avvicinare i loro visi, senza smettere di guardarla negli occhi. Matteo posò le labbra sulle sue, lentamente, trovandole dischiuse, quindi cominciò ad assaporarle e ci giocò per alcuni istanti, prima di dare inizio ad un’esplorazione che fu dolce e che si trasformò in un incontro appassionato di lingue, mentre le loro mani si persero sui reciproci corpi, spingendosi fin dove ignoravano che sarebbe stato possibile, almeno fino a pochi minuti prima. Un leggero sapore salato indusse Matteo a riaprire gli occhi, per scoprire che da quelli della ragazza stavano scendendo alcune lacrime e allora, s’impose di riacquistare il controllo, per concedere loro il tempo che sarebbe servito a capire. “Amber…”. Sussurrò, passandole un dito sulle labbra ancora umide ed altre sulle guance, bagnate da un pianto silenzioso. “Che succede?”. La ragazza scosse il capo, imbarazzata. “Sono una stupida…”. Rispose, piano. “Vuoi tenermi stretta, per favore? Ti prometto che smetterò di piangere…”. “Non eri affatto pronta…”. Commentò, credendo di interpretare le sue lacrime. “E’ così, Amber?”. “Tu, abbracciami… ed io, smetterò di piangere”. Ripeté, attirandolo a sé ed immaginando il vuoto che avrebbe vissuto dal momento in cui si sarebbero nuovamente separati. Matteo la strinse forte a sé, accarezzandole i capelli. “Non piangere…”. La pregò, colpito dal modo in cui stava reagendo ad un bacio che non lo aveva certo lasciato indifferente. “Nel caso non lo avessi capito, tu mi piaci, Matteo…”. Confessò solo in parte, a quel punto, evitando accuratamente di guardarlo. “E se piango, oltre al fatto di essere stupida, è perché so che non potrò averti”. “Sei incredibile…”. Matteo invece la costrinse a guardarlo, terminando di asciugarle il viso con le mani. “Anche tu mi piaci… mi piaci al punto da condividere quello che hai appena detto”. “Adesso, torno nel parco”. Affermò, recuperando il controllo e cercando la forza per staccarsi da lui definitivamente. “So che non si ripeterà ma… è stato bello”. Concluse, regalandogli un sorriso. “Vorrei trattenerti ma so che sei più saggia di me e dovrò darti ascolto”. Convenne, passando un dito sul contorno delle sue labbra. “Dovrai rifarti il trucco o Simon ti chiederà…”. “Simon dovrà distrarmi dal ricordo di quello che è appena successo”. Lo interruppe, sconcertandolo. “E non sarà un compito facile… devi credermi”. “Mi dà fastidio ma immagino di non potertelo impedire”. Confessò, fissando le sue labbra e sentendo i sensi riaccendersi pericolosamente. “Buona fortuna, Matteo…”. Amber Rose sorrise, scostandosi dal corpo che aveva esplorato per attimi che non avrebbe più potuto dimenticare. “Davvero, per tutto”. Guardandola allontanarsi, sospirò e chinandosi per raccogliere la sua giacca, comprese che aveva sbagliato tutto. Aveva sbagliato quando aveva creduto che lo detestasse, aveva sbagliato quando aveva finto che non gli interessasse e probabilmente, lo aveva fatto anche adesso, permettendole di uscire dalla sua vita. Se solo non fosse stato sposato, pensò, passandosi le mani fra i capelli, dopo aver indossato la giacca, nel tentativo di darsi un contegno. Se solo avesse potuto vivere due vite… AlessiaCutrufo Attendevi La luna in disparte scolorisce piano. Le candide tende giocano con Eolo fanciullo. Mano fatata dipinge con tocchi di rosa, di giallo, di viola l’amato cielo. Attendevi l’alba. La brezza leggera soffia tra i capelli canuti ormai mentre una dolce foglia si abbandona, inerte, al vortice. L’alba amica che impaziente attendevi rivolse al cuor tuo la sua lucente lama. Rosso rubino Di fronte allo specchio, afferro la lama sottile che tingerà le mie labbra di rosso rubino, il colore prenderà forma trasformando per sempre il mio volto…Per cosa? O per Chi? Le domande si affollano nella mente, mentre la mia unica arma sfiora piano la bocca delineandone i confini. Netti, decisi, come la donna che ho deciso di essere stasera. A tratti si fermano, nelle piccole increspature che l’arsura di notti senza acqua hanno scavato sul mio viso. Rosso, sangue, rubini, cuore, passione, rose….si….rose….odore di rose nell’aria ferma. Riesco a cogliere il vento che me ne porta il profumo da una finestra aperta sul nulla. Raccolgo i capelli, sorrido ad una me che non conosco, ma che voglio rendere viva. Un bacio allo specchio, ricordo indelebile di quella notte di follia, in cui sola….in abito da sera rosso, accompagno i miei passi stanchi per le vie di un paese che non riconosce la mia pelle… in un paese che senza stupore, osserva due labbra rosso rubino, rapire invano istanti di solitudine. Andrea Leonelli Yesterday’s Colors Bagliori Barbagli Di luce Davanti agli occhi Colorati in rosso dal risveglio Forzato Vomitato fuori dal nero della notte Nel bianco accecante Di questa luce Rossi i miei occhi Iniettati Di sangue e fame I desideri Sopiti appena ieri Oggi tornano a colpirmi Sogno il colore della tua pelle Il contrasto con la mia Il caldo porpora del sangue che ci ha bagnato mio e tuo mescolato sulla pelle che mi scende sulla schiena il viola dei segni lasciati quando ti ho presa che lento sfumerà all’oro al verde ricordandoti me ricordando i giochi serrati d’amore e passione l’azzurro del cielo che abbiamo visto assieme posati sull’erba verde il giallo e nero delle api attorno a foglie giallo verdi e su fiori bianchi come le nuvole che ci sovrastavano candide e amichevoli e poi il buio nel quale ci siamo rifugiati per baciarci ancora sulle labbra rosse quasi consunte e poi la notte nera di solitudine, nera come il buco rimasto della tua assenza Grigio Grigio… Grigio… atmosfera grigia e rumore bianco confuso dalla statica diffuso nella nebbia indefinito una sfumatura di nulla un bagno nel non colore come se fosse aspirato via evaporasse sospeso un in limbo vago E nel Grigio… Grigio nullificante resto come indicazione che nessuno legge ne leggerà senza nemmeno l’onore della scritta solo una freccia puntata indistintamente verso il grigiore uniforme e piatto anonimo e senz’anima né nome né forma né colore solo Grigio… Irma Panova Maino Schiuma Sento le bollicine schiudersi sulla superficie del derma, dandomi la sensazione carezzevole di essere sfiorata da mille mani. Mille dita compiacenti che mi toccano appena, rotolando lievi. Microscopiche mani che si insinuano ovunque, rilasciando la fragranza dell’essenza racchiusa nella schiuma, profumando l’aria fino a coinvolgere i miei sensi in notti esotiche, ricche di piaceri infiniti. Nuvole eteree che galleggiano sull’acqua coprendo ogni cosa, ogni imperfezione, ogni segno, ogni possibile anomalia, vera o presunta che sia. Un mare infinito di bianco candore iridescente che scoppietta felice, cercando il contatto con la pelle, incollandosi a essa, sollecitandola, stuzzicandola, rendendola più sensibile. E il desiderio per quella consistenza effimera diventa un bisogno acuto, quasi un’ossessiva ricerca di quella solidità che non c’è e che porta al sospiro, alla rassegnazione. La schiuma scivola avanti e indietro seguendo l’ondeggiare del corpo, riempiendo gli spazi con il bianco occhieggiare delle bollicine minuscole, continuando a scoppiettare allegra, senza portare quella soddisfazione che l’animo anela. Il soffio delicato le spinge via, facendole librare nell’aria per quell’attimo necessario affinché si vedano in tutta la loro magnifica mancanza di essenza, come fiocchi di neve che scendono lievi dalle coltri spesse e dense di nuvole cariche di suggestione. Esco, decido di andarmene dalla massa che ancora mi attira a sé, lasciando che scie di denso candore scorrano lungo il corpo, continuando a sfiorarmi la pelle. Per un momento rimango incantata, inseguendo la coda di queste piccole comete palpitanti godendomi ancora la sensazione che sanno procurami, senza altro pensiero che non sia vederle sciogliersi verso la propria distruzione. E segretamente gioisco, crudele e malvagia, considerando che non hanno fatto altro che servirmi, procurandomi esattamente le sensazioni che ricercavo, persino la frustrazione. Mi avete servito bene, piccole perle, avete compiuto il vostro dovere e ora liberatemi della vostra presenza, così che io non debba passare la prossima mezz’ora a liberare la vasca dalla vostra consistenza. E mentre afferro con indifferenza l’asciugamano, ormai dimentica dell’oasi di piacere di cui ho appena goduto, uno sbuffo dispettoso, rimasto inaspettatamente aggrappato ai capelli, scivola sul viso, finendo direttamente nell’occhio. La vendetta si compie con quell’unico inconsistente fiocco di schiuma. La rivalsa del niente contro colei che, ingrata, ha goduto senza dare. Cioccolata Il marrone non è un colore normalmente amato e non è nemmeno nella top ten di quelli nominati e preferiti da chiunque. La maggior parte delle persone sceglie i rossi, i neri, i bianchi; i più fantasiosi i blu e i gialli… questi ultimi forse perché facilmente abbinabili al mare e al sole; mentre quelli più folli spaziano dal rosa al viola, passando attraverso il verde… ma il marrone? Suvvia, chi avrebbe il coraggio di pensare al marrone, come alla tinta preferita? Persino il grigio, che racchiude in sé tutto il tedioso piattume immaginabile, riuscirebbe a suscitare prose romantiche ispirate alla nebbia, forse persino allo smog. Ma il marrone? La domanda si ripete, una nenia che raccoglie i pensieri intorno alle varie sfumature, veleggiando fra il beige, il kaki… per arrivare alle tinte forti, cariche di pigmento. Un beige coloniale, un abbinamento che fa correre i pensieri verso distese aride e desolate del bush, frammezzate da baobab maestosi, i quali svettano indomiti in mezzo a una natura che non da tregua e non permette errori. Oppure quel color mattone che racchiude punteggiature di sfumature rossastre, le quali ricordano abitazioni rustiche con tanto di gerani colorati e pendenti fuori dai balconi e mucche stupidamente violacee che pascolano su prati immacolati e intonsi. E nonostante questo, nonostante le innumerevoli possibilità, marrone verrebbe associato a qualcosa di sgradevole, qualcosa che, nella nostra mente, appartiene alla zona degli scarti, dei rifiuti, dell’immondizia umana. Provateci, dite marrone e poi provate a negare che non stavate pensando a quello… a un bel mucchietto arrotolato e fumante… denso quanto basta per non dover ricorrere al medico, con tanto di moschini ronzanti e fastidiosi intorno. Se dite di no, state mentendo spudoratamente. L’immagine è lì… ai confini della memoria, pronta a prendere il sopravvento su qualsiasi altro pensiero. Marrone… marrone… marrone… iniziate a sentirne anche l’odore? Magari se insisto ancora un po’… Tuttavia, per passare dalle stalle (e lì di marrone ce n’è in abbondanza), alle stelle, ecco che vi sono altri soggetti, altre sfumature che portano in altre direzioni. Ad esempio verso la cioccolata. Calda… fumante… densa… ALT! La stessa descrizione diventa quasi inquietante, non trovate? Due soggetti così diametralmente opposti, ma che hanno consistenze descrittive similari. Non può essere solo un caso. Dunque? Che insegnamento trarne alla fine? Che anche se è cioccolata quella che stiamo introiettando, assaporandola con gusto sul palato, sempre in cacca è destinata a finire? La metafora della vita credo che si possa leggere nel sottile messaggio che si deduce da un’attenta valutazione: dal momento che tutto finisce in merda, tanto vale goderselo fin dall’inizio. Andrea Mazzolini Due sbavature di colore rosso Cara Mary, sono appena tornato dalla tipografia. Ho in mano la bozza del catalogo con tutte le mie opere più importanti. Ho insistito per mettere come titolo “Il grano, l’erba, le rose e i narcisi”. Come sai la pittura per me non è stata soltanto un lavoro ma una passione, una pazzia forse. E comunque, dimmi dove lo trovi un artista che non sia anche pazzo. Pazzi per l’arte come si è pazzi quando si è innamorati, vorrei aggiungere. Alla soglia dei quarant’anni lo posso affermare: dipingere, o imbrattare le tele come mi ripeteva sempre mio padre, è stata tutta la mia vita. Il mio credo sta tutto in questo catalogo che ho tra le mani. Fa un certo effetto scorrere le pagine e scoprire la propria anima là sopra, le emozioni, gli sbagli, i successi. Forse è la stessa emozione che prova uno scrittore quando si trova tra le mani suo primo romanzo. Un pittore non dipinge mai la realtà, o meglio, non dipinge mai la realtà apparente delle cose. I colori, le righe, i tratti, le proporzioni, tutto questo è inutile se non si trasmette un’emozione, un domanda, un mistero, un sogno. Ed io questo ho sempre provato a fare con i miei pennelli, dipingere le emozioni, fotografare i sogni, raccontare l’anima delle cose. Quando sono rientrato in casa mi è venuta in mente un vecchio aneddoto, imparato sui banchi dell’accademia. Una volta Toulouse-Lautrec si trovò tra le mani un foglio appena sporco di vernice, soltanto una sbavatura, due minuscole macchioline rosse. Beh, gli piacquero talmente tanto che incorniciò due metri quadri di foglio bianco solo per quelle minuscole sbavature di colore. Non sono un pittore bravo come lui ma come o più di lui sono pazzo, lo so. Sono pazzo di te, Mary. Tu non sei la donna più bella di questo mondo e nemmeno la più intelligente o la più affascinante. Ma per me e solo per me tu sei la più bella, la più intelligente e la più affascinante. Non sono mai stato bene con un’altra persona come lo sono stato con te. Non c’è un’altra ragione alla mia pazzia. Non sono mai stato capace di fare grandi discorsi ma, credimi, Mary, tu sei quelle due sbavature di colore rosso sulla mia esistenza e Dio solo sa quanto vorrei spargere di colore la tela della tua vita e sparpagliare il grano, l’erba, le rose e i narcisi; questo soltanto vorrei. Massimiliano Cara Energia martire Amori dilatati, labbra surriscaldate, organi rossi di sangue, parti di corpo usate per dare e avere emozioni, lente, o veloci, potenti o suggestive. Impulsi mentali chiusi in gabbie da accartocciare, esplosioni di gioia calda, energia martire per dare un senso alla lussuria. Movimenti quasi costanti. Ritmici e potenti. Piccoli canali di rosso che irrorano le cavità più intime, che ora sono esposte alla vista. E noi complici e affamati siamo qui che giochiamo come bimbi vogliosi e senza pudore. Nadia Milone I colori della mia vita E’ strano come la vita cambi, come anche i giorni più bui riescano ad illuminarsi, proprio quando non ci crediamo più e stiamo andando incontro alla rassegnazione. E’ un po’ quello che è successo a me… Le esperienze negative, i fallimenti e le delusioni, mi stavano convincendo che intorno non avevo che cumuli di macerie, giornate tinte di nero passavano davanti ai miei occhi senza che io avessi la forza per ribellarmi. Ma per fortuna, man mano che i giorni passavano, quel nero tendeva sempre più al grigio, grazie all’aiuto di persone uniche e stupende che mi sono rimaste accanto. Un grigio con mille sfumature, una nebbia che mi avvolgeva come un manto, io non riuscivo ancora a vedere oltre ad essa, ma sapevo che, prima o poi, avrei ritrovato il sole. E quando finalmente la sua luce gialla e calda mi ha illuminato la strada, ho capito che esisteva ancora una speranza. Da quel momento, il grigio che ancora avevo nel cuore ha lasciato il posto ad un arcobaleno di mille colori, ad un’allegria inaspettata, ad una voglia di ridere che non mi apparteneva più da troppo tempo. Come vedo la mia vita adesso? Colorata, verde come la speranza che non mi ha mai abbandonata. E vedo rosa, tanto rosa delicato intorno a me, tanta voglia di ricominciare a credere che la felicità esista e che i miei sogni si possano ancora realizzare. E ho voglia di amore e di passione, ho voglia di indossare un vestito rosso e sapere che ci sarà qualcuno che saprà apprezzarlo e che quel qualcuno avrà voglia di sognare con me. Non mi importa se se ora la gente mi dice:” Attenta, cadrai un’altra volta e ti farai ancora più male”. Io ho voglia di volare dentro questo arcobaleno, ho voglia di sentirmi leggera e libera e se domani sbatterò contro ad un muro e tutto tornerà nero, pazienza. Potrò sempre dire di aver tentato di colorare la mia vita. Alessandra Elisabeth Gravestone Paoloni L’abitatore dell’anima L’essere diversi non significa necessariamente essere pazzi. Ma vivere come se nel proprio corpo coesistessero due entità distinte forse lo è. Potrei sembrare una ragazza come tante: buona famiglia, ottimi voti a scuola, educata e abbastanza carina. Ma la realtà è ben diversa e lontana dall’essere compresa anche dallo strizzacervelli dal quale andavo fino a qualche tempo fa. Quell’ometto basso dagli abiti sempre impregnati dell’odore pungente del sigaro, mi diagnosticò quello che viene comunemente denominato “disturbo bipolare della personalità”; ma io credo che il mio malessere fisico e mentale andasse ben oltre quella definizione. Credo di avere dentro di me qualcosa, o forse chissà “qualcuno”. Non nel ventre, per carità. Ma nell’anima. Questa entità, concepita forse dalla mia stessa mente, mi divide in due, sgretola le mie certezze e il mondo per me diviene frammentato in due fazioni distinte: il bianco e il nero. La luce e l’oscurità. Ciò che è corretto (o corrotto) e ciò che non lo è. Molte volte mi sono soffermata a riflettere sui miei continui cambi d’umore, sul perché io dapprima sia felice e successivamente dopo, senza alcun motivo logico, malinconica e triste. Quasi votata alle tenebre e alla loro oscurità. Le due estremità del mio animo si contendono la mia ragione, e in questa eterna lotta io finisco col soccombere. Questa è la mia malattia, stare al centro di due fuochi e non saperne uscire viva. E se da una parte il pensiero di mondi e cose legate alla sfera della coscienza e della giustizia invocano il mio nome, dall’altra la pece di un universo oscuro mi brama. Pensate che la lotta tra il Bene e il Male non esista? Provate allora a sentirvi come me, dilaniata in due, sospesa tra il peccato e le virtù. Un sorriso. Una volta regalai a un passante un sorriso. Lui ricambiò. L’istante dopo, mutato atteggiamento, gli rivolsi un’occhiata gelida; quasi malevola. La mia mutazione, dalla luce alle tenebre, dal bianco al nero, lo fece sussultare. E la mia anima s’infiammò di quella continua lotta intestina. Misera me e l’incapacità di porre rimedio a questo strappo dell’animo! Sarò per sempre preda di questa divisione, lacerata in due, alla ricerca di un precario equilibrio. Per risolvere questo malessere mia madre dice di avermi trovato un nuovo strizzacervelli. Dio solo sa quanta sofferenza mi procura farmi analizzare di nuovo, come se fossi la cavia di un laboratorio, alla ricerca di una cura per quel cancro dell’anima che finirà, lo so, per diffondersi dappertutto. Mi guasterò, avvizzirò e cadrò vinta dalla mia malattia. Perché non c’è scampo per me, né scelta. Si contendono la mia vita, lo yin e lo yang, il nero e il bianco. Le tenebre e la luce. La follia e un barlume latente di sanità. Adriana P. Leila Leila era la peggiore puttana del paese. Non che non mostrasse dignità nel suo lavoro ma era come i coperti della pizzeria giù all’angolo: cinquanta a giorno. Leila non nascondeva le sue prospettive, se vogliamo chiamare prospettive i centimetri di seno che quotidianamente lasciava in pasto agli occhi indiscreti di tutti, e neanche si nascondeva dai commenti delle vecchie del paese, proprio quelle che ogni giorno dalla loro panchina che affacciava sulla piazza del mondo evidentemente invidiavano chi poteva dare e avere più di loro. Insomma, Leila quello era e quello faceva e mi ricordo come fosse oggi i pomeriggi d’estate passati ad osservare la sua abitazione: che frequentazioni assidue, dal macellaio al notaio, dal giornalaio al fioraio. La casa di Leila non era proprio un porto di mare, perché di barche non ne ho mai viste entrare, ma un centro di raccoglimento di monnezza indifferenziata sì. Che bella casa poi si era scelta: affacciata sul mare e su quegli alti scogli da cui potevo sbirciare. Da cui lei mi faceva sbirciare. Già, perché io tenera fanciulla al varco della pubertà ancora non sapevo se chiamarla puttana uniformandomi alle vecchie del paese o se definirla amatrice e lasciarmi amare da quei centimetri di seno scoperto sprofondandoci dentro. Fatto sta che per quanto tutti guardassero a Leila in malo modo io vedevo in lei un’anima pura, ricoperta da un’aurea bianca, come fosse stata l’ultima delle vergini. Lei era nera, la donna nera per chiunque: per le donne che la additavano come amante dei mariti e per i mariti che prima se la scopavano e poi si fingevano pentiti e adducevano scuse poco plausibili. In fondo si sa, da sempre è colpa della donna. Io Leila la vedevo così candida e la immaginavo sola, passati quei cinquanta coperti; la immaginavo pura anche nel suo lavoro e nel darsi agli altri. Potevano chiamarla puttana ma per me non lo era. Quando anche sono cresciuta, Leila che aveva poco più di dieci anni in più di me, continuavo a vederla nella sua abitazione sempre affollata, e non aveva smesso di essere una bella donna. Forse la sua anima era sempre bianca ma la mia non più: ora avrei saputo cosa fare con quei centimetri di seno scoperto. Leila era la puttana peggiore del paese, o la migliore vista la quantità di affari. La mia anima si colorava di rosso quando la vedevo passare, come anche le gote, ma io non la volevo come tutti gli altri. La sua anima era bianca e io la volevo solo per me. Elisabetta Bagli Rosso sangue Rosso amore è il mio cuore. Vola libero e leggero. Ama, ascolta, accarezza il mondo. Sereno vive donando sorrisi. Caldo e sorpreso è il mio cuore. Promette di non lasciarti solo. Ti accoglie, ti annusa, ti vive. Ti ama in silenzio, ti sente sincero. Rosso sangue è il mio cuore. Nudo e trasparente ai tuoi occhi. Ingabbi la sua luce nella tua notte. Senza un perché violenti la sua ingenuità. Senza pietà lo prendi, lo spremi e lo getti tra i rovi. Piove sangue nel mio cuore. Spazzato dal tuo vento, calpestato dal tuo egoismo, indifeso ora muore come un’incredula macchia rossa asciugata dal sole. Elisa Vangelisti Tratto dal cap.4 de “Il Ragno e l’Iguana” Premessa: la protagonista femminile vede le emozioni delle persone sotto forma di luci colorate. Appena fummo in casa, abbandonammo le giacche e risalimmo nella mia stanza. Mi fermai davanti alla finestra, rivolta a ovest, e mi accorsi che ormai il sole era solo un bagliore aranciato avvolto dal verde dell’aria fredda. Gabriel mi raggiunse, sempre senza far rumore, e si fermò dietro di me, spostandomi i capelli color fieno dalla spalla per scoprire il collo. La maglietta strategicamente sbottonata metteva in mostra un frammento di pizzo del reggiseno, ma di certo era tutto quello che poteva vedere. Sempre che non avesse la vista di Superman. “Non è del tutto vero quello che ti ho detto prima” sussurrò appoggiando il naso freddo al mio collo. Ahi, ci siamo. Qui giace Rynn McRyan, prosciugata da un vampiro alla tenera età di sedici anni… “Un leggero cambiamento c’è; però, se vuoi vedere tu stessa, devi girarti”. Il sole era completamente scomparso. Mi voltai verso di lui, incerta su quel che avrei dovuto aspettarmi e rimasi immediatamente colpita dalle sue emozioni. La luce che lo avvolgeva fino a quel momento era stata calda, dorata e brillante. Adesso Gabriel era avvolto da una luce luminosa pazzesca, di un azzurro simile ai suoi occhi. Glielo dissi. “Le tue emozioni ora sono blu” sorrise. Facendolo scoprì i denti e mi resi conto che i canini erano spaventosamente lunghi. Finché teneva socchiusa la bocca non si notava, ma appena faceva un sorriso eccoli lì, sfacciati e brillanti. E spaventosi. Lo guardai ipnotizzata. “Adesso puoi…?” “Adesso sì” distolse lo sguardo, la luce restò fortissima. Avrebbe dovuto offuscarsi, perché col linguaggio del corpo mostrava timore, invece brillava come non mai. Probabilmente la sua natura ora modificava anche le sue emozioni. Ero incerta sul da farsi. Glielo chiesi. “Vuoi andartene?” Lui mi guardò, titubante. “Solo se tu vuoi che me ne vada”. “No, non voglio” mi appoggiai contro di lui. Mi sentivo stranamente tranquilla. “E’ più difficile, adesso?” “Un po’”. “Ma… devi farlo tutti i giorni?” Avevo appoggiato una mano sul suo petto: era difficile resistergli. Lo stavo accarezzando distrattamente, fingendo di non preoccuparmi dei suoi sfacciatissimi denti a dieci centimetri dalla mia giugulare. Sembrava che stesse tremando. Non capivo se per la sete o per la carezza. “No, non è necessario. Basta anche meno” sussurrava. E continuava a brillare di blu. Luce fredda. Anna Cibotti Il sogno di Kemal Quel pomeriggio era pieno di luce. Il vecchio uscì dalla capanna di fango e paglia che, come poche altre, formavano il piccolo villaggio africano. La sua casa. Il suo mondo. Alcuni ragazzi scalzi e vocianti si rincorrevano attorno all’albero frondoso posto al centro dello spiazzo arido e polveroso. Lui li osservava sorridente. Di lì a poco il sole avrebbe tinto d’arancione l’orizzonte e il suo improvviso tramonto avrebbe lasciato posto alle lunghe ombre della notte. Come ogni giorno, sarebbero tornate le donne uscite per la provvista d’acqua. Le avrebbe viste arrivare una dopo l’altra, silenziose e rassegnate, con le facce lucide di sudore e le vesti colorate. Si stagliavano nella luce polverosa come fiori variopinti in mezzo al giallo spento della natura. Come ogni giorno. Come sempre. Il vecchio canuto appoggiò il bastone sulla soglia e si sedette ad aspettare il tempo. Era nero come l’ebano e le rughe profonde gli scolpivano il viso come una scultura lignea. Il suo nome era Kamal e se ne stava lì, con la testa inclinata sul petto scarno, assorto in chissà quali pensieri, quando sentì il tocco di una mano leggera sulla spalla. Era Kim, il più piccolo dei ragazzini del villaggio. - Nonno – gli chiese. - A cosa stai pensando?” Mi hanno raccontato che in certi luoghi lontani, le montagne, gli alberi, e le case sono coperte da una coltre bianca. E’ la neve, che cade dal cielo come la pioggia ma è più grossa e bianca come farina. Dicono che quando c’è il vento i suoi candidi fiocchi volteggiano nell’aria come farfalle. Ci pensi Kim……come sarebbe bello poterla vedere almeno una volta!” - Quando sarò grande, nonno, ti ci porterò io a vedere la neve!Gli prese la mano ossuta e rugosa tra le sue e rimasero lì a sognare insieme. Prima del nero della notte……il loro sogno immacolato. Io nello specchio Siete davvero meravigliosi e vi ringrazio per l’opportunità che date, a chiunque abbia voglia di leggere qualche estratto, di avvalersi di un pezzetto di cultura, la quale evidentemente non è ancora morta e sepolta sotto le macerie di un’ignoranza invadente. Dunque non posso che attendere con trepidazione ciò che le vostre menti saranno in grado di produrre con il nuovo argomento IO NELLO SPECCHIO. Mi rendo conto che l’introspezione porterà sicuramente a chiedersi quanto possiamo effettivamente esporre del nostro IO interiore e quanto sia opportuno condividerlo con gli altri. Rossana Roxie Lozzio Anima allo specchio Non è facile, non lo è mai stato, guardarmi nello specchio. Non è facile… non mi piace quello che vedo, non sono io. Perché dentro avrei tanto da dire e avrei tanto da dare e invece resto ferma, immobile, paralizzata… spesso reagisco con indifferenza a quanto di buono mi viene riservato e accade di raro. Non sono abituata alla gioia, non so quasi più cosa significhi sorridere e ho dimenticato il significato del termine spensieratezza! La leggerezza, poi, quella dell’anima… non mi è mai appartenuta, nemmeno quando sono stata piccola. Mi guardo nello specchio e vedo quello che sarei, che vorrei essere e che non sono capace di manifestare. Vedo tutto quello che penso, che sento, che desidero… indago nei miei occhi e mi accorgo di possedere un’anima graffiata dalla vita ma ancora colma dello spirito propositivo che avrei potuto sperimentare se non fossi stata ferita. Vedo la donna che vive dentro di me, quella sentimentale, che sogna ancora di amare e di essere amata, quella che si proietta in quel futuro divenuto oscuro e che vorrebbe aprirsi come un fiore a quel calore e alla luce di un sole che si è spento da tempo! E’ così che faccio a meno di specchiarmi, il più delle volte… per non dover fare i conti con me stessa e con la parte di me che talvolta vedo ancora e solo attraverso gli occhi degli altri, quella migliore. Ma ci sono, dentro a questa immagine riflessa… vorrei gridare che riesco persino a farsi amare, nonostante i muri che ergo quotidianamente, che una volta, cantavo e che speravo di crescere e di vivere la vita che non sto vivendo! Invece, resto muta e silenziosa… sono immobile e mi osservo, domandandomi se sarò mai capace di emergere. Io, davanti ad uno specchio Io, davanti ad uno specchio immobile, spenta, indago nei miei occhi e non trovo la donna che vorrebbe riflettersi nei tuoi… che sei lì, sempre, ovunque ma dietro allo specchio Maria Capone Flashback - Non stare troppo davanti allo specchio altrimenti passa l’angelo e rimani pietrificata così, per sempre. Zia Giovanna ripeteva questa frase più volte al giorno. A quel tempo avevo appena otto anni e la vanità, secondo i vecchi canoni educativi, andava repressa. Per questo stesso motivo avevo imparato a guardarmi nello specchio sottecchi, di traverso. Mia madre era morta e vivevo con mia sorella Eleonora a casa di zia Giovanna. Mio padre faceva i turni da macchinista, lo vedevamo raramente, e mio fratello Carmelo, il ribelle, era stato mandato in collegio perché non lo voleva nessuno. Con la morte di mia madre, quindi, erano iniziate le paure. Quella dello specchio era soltanto una tra le altre, ma più che dello specchio in sé temevo di vedere materializzarsi quel riflesso indotto, un paio d’occhi d’angelo che si incrociavano con i miei. E pensare che sino a quel momento avevo considerato gli angeli come figure protettive e buone. A quel tempo ero una brava e bella bambina, dolce e paziente. Distribuivo ricette di cucina che conoscevo a memoria e avevo persino imparato a cucire e ricamare. Per “premio” mia zia mi aveva portato dal parrucchiere e anche lì, davanti ad uno specchio, un paio di grandi forbici avevano reciso la mia lunga treccia di capelli. - Occorre troppo tempo per districarli e rimetterli in ordine. – si era scusata così con il parrucchiere. Non con me, ovviamente. -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.- Eleonoraaaaaa, guarda qui! Dio, come faccio adesso? Proprio oggi che devo uscire per la prima volta con Marco! – strillai e gridai davanti allo specchio guardando schifata l’orribile bubbone posto sulla punta del naso. - Calmati, vediamo che cosa si può fare – aveva risposto con più calma mia sorella dopo essersi attrezzata con pennelli, fondotinta e cipria. - Perché proprio sul naso e non sulla fronte? Avrei potuto camuffarlo con qualche ciocca di capelli – gridai. - Tu sei troppo curiosa, metti sempre il naso dappertutto e questi sono i risultati, goditeli adesso. - Ma che dici? Che cosa c’entra adesso la mia curiosità con questo obbrobrio pullulante? – ribattei. - No, non va proprio niente, si vede ancora! Basta, ho deciso, non esco più. Addio serata romantica, resterò chiusa in casa sin quando non scomparirà del tutto. -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.Crashhhhhh Saranno soltanto ridicole superstizioni? Il guaio peggiore era che ci credevo realmente e già iniziavo a contare i sette anni di disgrazie che mi avrebbero perseguitato. Raccolsi i pezzi piangendo. -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.Ho compito da poco cinquantenni e non credo più in molte. Considero gli angeli creature meravigliose che non ti pietrificano davanti ad uno specchio , non credo nelle superstizioni, considero i brufoli normali sfoghi di gioventù, non conto le rughe sul mio viso. Ho imparato a guardare la mia immagine nello specchio, a sorridermi, a farmi l’occhiolino, a prendermi in giro con simpatia. Non ho più paura. Cristiana Verazzo Frammenti di me Cerco di vedere, ma mi pare che la luce sia spenta. A tentoni allungo le mani per ritrovare il niente; all’improvviso tutto s’illumina, e vedo. Quello che ho di fronte non mi piace: è scuro, grigio, senza sfumature di colore. In una parola spento. Io che di colore ho sempre vissuto, mi ritrovo rinchiusa nella negazione stessa della vita. Impossibile. Dalla luce ho tratto calore, affetto, gioia e volontà; quei piccoli pezzi scuri che vedo sparpagliati disordinatamente non sono me. Non possono essere ME! Lo sconforto vibra sotto pelle, così come la paura, paura di perdere il controllo di una vita che pian piano va in frantumi. Pezzi che mi ostino a tenere legati con un collante che forse non basta, ma nel tempo che ci vorrà a trovare quello giusto continuerò a tenermeli stretti uno per uno. Mi guardo: è vero, è buio, ma in fondo ad ogni frammento vedo brillare una scintilla, la piccola fiammella di ciò che ero, di ciò che ancora sono e che sarò sempre. Anche quando vorranno spegnere la mia luce lotterò con unghie e denti e non permetterò a nessuno di cancellare il mio colore, perché io vivo….io sono. Andrea Leonelli Frantumi Solo pezzi di vetro Taglienti Stringo ora fra le mani A ferirmi Lo specchio è sotto Più nessuna immagine Da riflettere Barbagli di luce Che feriscono gli occhi E squarciano i sogni Come lame i polmoni Sangue dalle mani Cade A raffreddarsi Aspetto la fine Sperando in una parola Che mi salvi Dall’aspettar la morte Solo La vista offuscata Un occhio in una Scheggia di specchio Sta piangendo M’aspettano giorni Appeso al muro Uno specchio incrinato Mi rimanda Scenari Di mondi vuoti Di castelli crollati Farfalle cadute L’immagine Del mio volto Mi guarda sprezzante Quasi a girarsi Per non vedermi Mentre inutile Muoio di mancanza di sogni Della tua assenza Del tuo odore sempre più flebile M’aspettano giorni Di vane attese E un vuoto dentro A divorarmi Non ero io Non ero io Nello specchio Nemmeno la superficie Della mia immagine Era davvero mia Maschere Facce di cartone E verdi dei rospi Inghiottiti a forza Infrango lo specchio E la catturo L’immagine vera Quella che è stata Vicina a scomparire Tiro Fino a riprendermela Me ne rivesto Di me Lo specchio ora Mi sorride Mi riconosco Nell’anima e Mi guardo negli occhi Vedo la mia vita I miei sogni Che ora ripartono Irma Panova Maino La maledizione Frammenti di vetro che spuntano dalle carni come gioielli preziosi, come diamanti che riflettono la tenue luce di un giorno che va spegnendosi, moltiplicando all’infinito le innumerevoli ferite di cui è cosparso il corpo. Sangue che cola a lenti rivoli dalla carne slabbrata, spezzandosi sui bordi frastagliati, mentre si specchia in quelle superfici lisce che ne accentuano il rossore. Il dolore diventa profondo per quest’anima fatta a pezzi, per l’essere che fu e che non è più e mai più sarà ciò che era. Ti dissi allora che avrei messo a nudo la tua essenza, che nessuna maschera ti avrebbe protetto dall’immagine che sarei stata in grado di farti vedere. Ti dissi che era la mia maledizione e che chiunque si fosse attardato a guardare più a fondo nei miei occhi, avrebbe alla fine trovato se stesso e la natura celata dietro alle convenzioni, ai timori, alle incertezze… Ti dissi che non vi era scampo dal fato, che nulla avrebbe potuto salvarti, nel momento stesso in cui avrebbe prevalso l’incoscienza e tu avresti guardato, in cui non avresti potuto resistere e il tuo sguardo si sarebbe incatenato al mio. Mi hai deriso. Hai detto che volevi osservare che cosa si nascondesse dietro alle mie iridi, che cosa vi fosse nel fondo della mia anima e che volevi comprendere quale fosse la mia reale natura. Non ti mentii allora e non l’ho mai fatto in nessun altro momento. Sul fondo di quelle iridi avresti visto te stesso, non avresti trovato me. Questa è la mia maledizione, il mio dono oscuro, la capacità di far vedere alle persone ciò che realmente sono, spogliate di tutti i paraventi, i segreti, le facciate precostituite. Io sono lo specchio. Io sono colei di fronte alla quale ogni menzogna viene svelata, ogni sotterfugio scoperto, ogni artificio distrutto. Io sono la vera immagine dell’IO che si riflette, la reale essenza di chiunque abbia la sfortuna d’imbattersi nei miei occhi. Io sono tutto ciò che ognuno cerca di nascondere nel profondo di se stesso, sperando di non dover mai fare i conti con esso. Questa è la verità e lo sai. Questo è tutto ciò che posso fare. Tuttavia non ho chiesto io il sangue e non ho preteso io che l’anima, spogliata di tutto, venisse a morire su questa cornice. Non posso raccontare una storia diversa solo per salvare la pelle di entrambi e non posso fare finta che tutto questo non uccida anche me. Per ognuno che non accetta la verità, io vado in frantumi, mi disintegro nei mille pezzi che poi esplodono ferendo la carne. Finisco in schegge acuminate che incidono e tagliano e creano ferite indelebili, rimanendo impresse nella memoria della pelle. La verità mi lega a colui che guarda e mi costringe a condividerne il destino, poiché più a fondo guardi e più profondamente sveli il mio arcano e questo destino condiviso crea quel legame che mi porta a condividere il fato. Vorrei poter fare a meno di tutto questo, vorrei non portare un potere simile, non è né divertente né appagante, è solo maledettamente doloroso. Porto sotto la pelle tutte le ferite di coloro che non hanno saputo resistere, di tutti coloro che hanno voluto vedere, pensando che non potesse essere così tragico specchiarsi, che non potesse essere reale una predisposizione del genere e, come Cassandra, continuo a mettere sull’avviso gli ignari, sapendo bene che non verrò creduta e che nessuno terrà da conto i miei avvertimenti. Nemmeno tu lo hai fatto e adesso se tu cedi, porterai i mille pezzi di me nella tua carne, conficcati profondamente nella tua anima. Se tu cedi, ucciderai anche me. A te la scelta. L’immagine Se non avessi trovato quella superficie in cui specchiarmi, forse avrei seriamente dubitato di esistere. Mi aggiro per casa sentendomi quasi un fantasma, avendo quella folle sensazione di dislocamento in cui il corpo rimane in un posto e lo spirito se ne va in un altro. Avete presente quei film in cui il protagonista si vede disteso sopra una barella, mentre la gente si affolla intorno a quel corpo inerte, pensando che sia ormai spacciato? Quel fluttuare dall’alto, riuscendo a vedere particolari del proprio essere che diversamente sarebbe impossibile riuscire a scorgere? Bene, mi sento esattamente nello stesso modo. Respiro, soffro, piango… quindi esisto, tuttavia è come se non ci fossi, come se fossi trasparente e la mia essenza fosse talmente inconsistente da non essere afferrabile. Le persone intorno a me si muovono, parlano, gesticolano, discutono animatamente, ma io rimango in disparte, emarginata dal resto, come se in realtà non stessi occupando una sedia o uno spazio qualunque. Allora perché? Perché combatto da una vita per quel posto che pensavo mi spettasse e invece continua a sfuggirmi? Perché continuo a sentirmi come un’estranea in posti in cui, teoricamente, dovrei appartenere? Mi muovo, cammino, sposto oggetti e faccio tutto quanto è necessario affinché qualcuno si accorga che ci sono, che ho bisogno anch’io, che passo anch’io attraverso gli inferni per trovare un pezzetto di paradiso, ma pare tutto inutile, tutto così vano che non ha davvero più senso continuare a insistere. E allora mi siedo nel mio angolo, osservando il mondo che mi passa intorno, senza avere nemmeno più la voglia di allungare una mano per afferrarlo, per ghermirne almeno un pezzo, per farlo mio. E il mio timore è quello di scoprire che anche se mi tornasse la voglia di provare, forse non sarei più in grado di afferrare nulla, forse passerei attraverso gli oggetti senza più riuscire a toccarli. Allora mi ritraggo, sempre più nel profondo delle ombre, rendendomi conto di come la mia consistenza svanisca nel tempo. Ogni giorno passo davanti allo specchio e ogni giorno vedo la mia immagine sparire, perdersi e confondersi nel gioco di ombre. Arriverà il giorno in cui, passando davanti, nulla si specchierà più. Elisabetta Bagli I tuoi occhi, il mio specchio Vorrei scriverti una poesia ora e mandartela domani, ma non ho un temporizzatore per poterlo fare. Oppure la vorrei scrivere oggi e mandartela in questo momento ma so che non sarebbe giusto. Hai chiesto Time out. Non so cosa stai attraversando ora. Oppure lo so troppo bene. Magari ti do la buonanotte. Sì, magari quella va bene. Mi chiedi scusa per essere egoista. Egoista, tu? No. Chi sbaglia sono io. E probabilmente chi è egoista sono sempre io. E’ stato troppo aver cullato l’illusione di volerti per me anche solo per un minuto in questa vita. Ho preteso la felicità, ho rubato troppi baci alla vita insieme a te, per poter vivere un sogno che non si realizzerà mai. Va bene così, come sempre lo STOP, il BASTA, lo decidi tu. O anche ORA E’ IL MOMENTO, ORA SI PUÒ, lo decidi sempre tu. E io? Io non ho mai deciso niente nella mia vita. E tu lo sai. Sai che sono sempre stata schiava delle mie insicurezze. Non sono degna di essere quel che sono perché appena mi si conosce nello specchio, le persone mi sfuggono tra le dita, come impalpabili fili di seta che hanno impreziosito la mia vita andandosene per sempre. Evidentemente non ho dato loro abbastanza. O quel che ho dato loro non era ciò che volevano. Ma io? Continuo a essere qui, davanti a questo specchio che da sempre raccoglie la mia vita. E’ grande, è immenso e mi ha visto crescere, trasformarmi in un’adolescente piena di paure, sorridere con le amiche mentre ci truccavamo prima di una festa, ballare da sola balli proibiti, inscenando un flamenco un po’ arrangiato, con la musica a tutto volume e la pancia scoperta mentre sentivo che stavo diventando donna. Sei tu, mio caro specchio, che accogli di nuovo le mie lacrime perché sono una donna che ha visto sfumare i suoi progetti nella vita man mano che si presentavano. Piango davanti a te che non fai che rimandare la mia immagine riflessa e mi accorgo che ormai le mie lacrime dalle mie guance sono scivolate proprio sulle mie labbra penetrando nelle fessure della mia bocca. Lì si sono fermate. Sento il desiderio irrefrenabile di tirar fuori la mia lingua per leccarle, quasi a lenire le ferite delle quali ormai la mia anima è piena, nello stesso modo in cui faresti tu. Nessuna ferita si è mai rimarginata. Credevo di aver fatto esperienza. Pensavo che nulla più mi avrebbe ferito in questo modo e, invece, ho mentito a me stessa. Tu specchio, con il tuo attento occhio mi metti a nudo e mi fai vedere quel che io non voglio e che invece c’è. Il sangue è ancora fresco. Ferite vecchie e nuove dalle quali è uscito lo stesso sangue che si è mescolato confluendo in una grande pozza dentro al mio cuore, una pozza dalla quale attingere per poter macchiare il mio volto, striarlo di rosso e dargli quella vita che ormai ha perso da tempo e che pensava aver ritrovato con te. Ogni volta che mi guardo allo specchio immagino i tuoi occhi fissi su di me. Immagino te che mi guardi come se fossi un animale da palcoscenico. Ogni volta che ti passo davanti inizia lo show. La mattina, appena mi alzo ci sei tu che mi osservi: ho i capelli arruffati mentre maltratti i miei occhi costringendoli a vedere il viola delle mie occhiaie, la pelle assonnata e ormai irrimediabilmente piena di rughe. Mio caro specchio, hai visto crescere il mio ventre per due volte e lo hai accarezzato insieme a me, sono diventata mamma e da quel giorno lo sono diventata non solo dei miei figli, ma anche tua. La donna è diventata solo mamma. Ma ora mi vuoi di nuovo donna e mi chiami e mi piace che lo fai. Mi chiami e mi piace il tuo modo di farmi sentire di nuovo viva. Devo guardarmi mentre mi tolgo la camicia da notte per prepararmi alla doccia. Il mio corpo nudo, pieno di desideri adolescenziali con la consapevolezza che ormai il tempo è passato e non può tornare, è lì, proprio di fronte a te. E tu, mio diavolo tentatore, mi spingi a provare ancora le gioie di un’estasi solitaria alla quale nessuno ha mai partecipato e la cui conoscenza sai solo tu. Mi fido di te, solo di te e voglio rendertene partecipe. Una mano inavvertitamente scivola sul seno, va verso il mio sesso, sento che sei tu che mi guidi. Mio caro specchio, mi osservi anche mentre mi preparo per uscire, mi trucco, mi sistemo i capelli. Vivi la mia vita, vivi con me, eppure sei così lontano. Riesci a dominare i miei sentimenti di qualsiasi natura essi siano attraverso il tuo semplice sguardo. La mia luce è gialla e tu sei nero. Non ti vedo, eppure osservi le mie movenze sinuose quando passo innanzi a te. Ma in definitiva cosa sei tu, se non un vetro mischiato a sabbia di silicio e al mercurio liquido? Il mercurio fa diventare pazzi e tu lo sai. Mio caro specchio, mi hai avvelenato cuore e anima facendomelo bere a piccole dosi quotidiane, inebriando il mio essere al suono delle tue parole. Conosco la tua voce, il suo tono, il suo cambio di modulazione in certi momenti. So che mi chiami e mi chiamerai sempre, quando avrai bisogno di me. So che non saprò resisterti e accorrerò per farmi vedere dai tuoi occhi, il mio specchio. Angelo Francesco Anfuso Uno specchio d’acqua L’ora si attarda, sono stanco e solo. Mi rifletto in uno specchio d’acqua ormai putrescente. I miei occhi sono stanchi, non hanno forza e a stento le mie palpebre rimangono aperte. Vedo un uomo dal volto misero, in lui rifulge l’immeritata sofferenza. I suoi occhi sono ben aperti e in loro si riflette un uomo dall’animo mesto che fissa l’alba di un nuovo giorno. Piange, nell’intimo del suo silenzio. È un uomo ricco di sconforto. Chiudo gli occhi, sono stanco ormai. Sento un lamento, un singhiozzio latente. Riapro gli occhi, vedo un uomo dal volto meschino che fissa il tramonto di un vecchio giorno. È un uomo sofferente, disperato e avvilito, privato da ogni conforto e coronato di ogni beata angoscia. Piange, dai suoi occhi grondano lacrime senza cessare. Chiudo gli occhi. Sono sempre più stanco. Io ho paura, sono solo, abbandonato. Riapro gli occhi, e vedo in quel misero specchio d’acqua una soffusa luce che man mano si spegneva. Era la mia vita. Mi rifletto ancora una volta. Vedo un uomo avvolto da un’ombra. Lo sfiora, lo accarezza e lo prende tra le sue braccia. Mi rifletto ancora una volta. In quel dannato riflesso, vedo me stesso. Ero io che andavo incontro alla morte. Non più luce… Eterna oscurità! Il mio riflesso, in quel misero specchio d’acqua mi ha ridato la vita. Ero morto prima e adesso io vivo… Il Riflesso di Me Stesso Mi rifletto in uno specchio, buio, privo di vita, amorfa è la sua struttura, insensata la sua natura. È privo di vita, non respira, tace, ma nel suoi intimo urla. Non giudica, ma condanna. Nel sui silenzio, avvolto da una luce soffusa, mi scruta. Entra attraverso i miei occhi L’immagine interiore riflette, non il mio corpo. Io rimango fermo, immobile. L’amorfo specchio inizia ad illuminarsi, prende voce, inizia a far scorrere la mia immagine interiore. Vedo come sono in realtà, triste, solo lacrime di un grido disperato. Mi tende una mano, ma io mi rifiuto di afferrarla. Non posso, è solo un riflesso Mentre la mia miseria umana è vera. Due nature, distinte e separate da un tormentoso abisso. Piango, solo questo so fare. È inutile, questa è la mia sorte. Il mio destino è crudele… Solo sospiri, solo affanni di una immagine rattristata ai mie occhi. In me si incarna la sofferenza. indegna, immeritata. Nessuno è in grado di vedere la mia anima. È nascosta, velata, celata da un falso sorriso. Il mio riflesso piange, il mio specchio si illumina, mi vedo vedo il riflesso non più di me stesso ma della mia crudele sorte. Spenta è la mia vita… Insensato il mio respiro. Il riflesso è vero Perché mi riflette. Io, sono martire di me stesso Della mia stessa vita. Perché questo tormento Al cospetto di un riflesso? Non lo comprendo, il mio senno è limitato. Sono solo un uomo. Andrea Mazzolini Io nello specchio Non conoscevo quella stanza. Era l’unica cosa che riuscivo a capire. Mi ero svegliato ma quella non era casa mia, non era la mia stanza. Dove mi trovato? Provai ad alzare la testa ma ogni sforzo risultava vano, riuscivo solo a muovere gli occhi. Non indossavo gli occhiali, tutto era sfuocato, vedevo solo un soffitto, una parete e una porta aperta, apparentemente su un corridoio. Quella non era la mia camera. La mia stanza era… com’era la mia stanza? Non me lo ricordavo ma ero sicuro di non trovarmi a casa. Dove diavolo ero? Da dietro la porta sentivo delle voci indistinte. Riuscii a sollevarmi un attimo e fu allora che capii: ero in una stanza d’ospedale. Come c’ero finito? Era stato un intervento, un incidente? Ma soprattutto: come potevo uscirne? Non avevo forze, probabilmente non mangiavo da chissà quanto tempo e mi tenevano in vita con l’ago cannula che stava infilata sul mio braccio. Avrei voluto rimanere sveglio ma non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Mi riaddormentai. Nei sogni guidavo la moto per le colline. Mi svegliai di nuovo. Una voce continuava a ripetere “Alex, Alex”, come per chiamarlo. Chi diamine era questo Alex? Aprii gli occhi. Una donna, vestita da infermiera, mi guardava e mi diceva: “Alex, Alex”. Sorrise. “Non mi chiamo Alex” riuscii a dire. “È scritto così nella cartella clinica. Quando ti hanno portato qua in ospedale, dopo l’incidente, abbiamo trovato i tuoi documenti, c’è la tua foto sulla patente, sei tu Alex Speroni… capita, sai, dopo un incidente di avere delle amnesie, ti riprenderai presto, vedrai, abbiamo fatto una TAC, il medico dice che è tutto a posto, l’hai scampata davvero…”. Alex. Dunque io mi chiamo Alex, pensai. No, dico, non è possibile, io, io, io mi chiamo… Non ce la facevo nemmeno a pensare o a ricordare come mi chiamassi. “Ho fatto un incidente? Non ricordo davvero niente… Da quanto tempo sono qua?” “Sei qua da ieri pomeriggio. Un incidente in moto, hai perso il controllo e sei scivolato sull’asfalto. Incredibilmente non c’è niente di rotto, hai solo il corpo ricoperto da escoriazioni. Ti abbiamo dato molti antidolorifici, altrimenti urleresti dal dolore. Il casco comunque ti ha salvato la vita. O forse qualche santo su nel cielo. Io ora devo continuare il mio giro nelle altre stanze. Tra un po’ passerà il primario per le visite. A dopo, Alex.” Alex, dunque mi chiamavo Alex. E cosa facevo nella vita? Ma sì, questo avrei dovuto ricordarmelo. Io ero un..come si dice, uhm, io ero un… Niente. Non mi ricordavo il mio mestiere. E la famiglia. Avevo una famiglia? Dei genitori, una moglie, dei fratelli, dei nipoti, dei figli? Gli amici? Avevo degli amici? Avrei voluto ricordarmi di tutto questo ma non ce la facevo, più tentavo di ricordare e più la mia mente pescava nel nulla. Non avevo ricordi. Si è vivi quando non si hanno ricordi? Sogni. Avevo dei sogni? Dei desideri? Che cosa mi piaceva? Chi ero in quel momento? Un uomo senza ricordi, senza sogni, senza niente. Mi assopii di nuovo in quel niente fatto di domande e nessuna risposta. Devono avermi svegliato per la visita del primario. Non sentii un gran che di quanto confabulò con i suoi assistenti. Lasciarono presto la mia stanza lasciandomi ai miei pensieri e ai miei non-ricordi. Provai di nuovo a muovermi, volevo tirare la corda del campanello ma riuscii soltanto a sentire molto dolore misto ad un senso di profonda impotenza. Gridai. Nessuno rispose. Gridai di nuovo. Si affacciò un’infermiera. Non so se fosse la stessa con cui avevo parlato qualche ora prima. “Che succede?” “Posso avere uno specchio?” “Uno specchio? E cosa te ne fai?” “Voglio vedere il mio volto!” “Stai tranquillo, avevi il casco, il tuo viso è rimasto intatto. Secondo me saresti pure un bell’uomo ma ti voglio rivedere bene quando uscirai da questo letto. Ora però sta’ calmo.” “Uno specchio, ti prego, voglio uno specchio” continuai a gridare. “Se mi prometti di stare buono, vado a cercare uno specchio”. Tornò dopo pochi minuti. Non potevo prenderlo in mano, fu lei a tenerlo. Mi guardai. Quello non ero io. Non ero io dentro allo specchio. Chi era quel volto sconosciuto? Si è vivi senza ricordi e senza futuro? E si è vivi quando non si riconosce il volto nello specchio? Chi ero? Chi sono? Nadia Milone Io nello specchio Lo specchio è sempre stato il mio incubo peggiore. Solitamente, ci passo davanti distogliendo lo sguardo. Non mi sono mai piaciuta, questa è la verità. Ho sempre visto riflessi tutti i miei difetti e mai un pregio. Lo specchio riflette un’immagine, ma non solo. Se guardi attentamente, puoi vedere dentro ai tuoi occhi e per me questo, ha sempre voluto dire fare i conti con me stessa. Credo che confrontarsi con se stessi sia la prova da superare più difficile in assoluto, poiché noi siamo i giudici più severi e i critici più spietati. A volte, mi sembra quasi di trovarmi davanti ad un uomo che mi guarda, mi analizza e dal quale mi aspetto un giudizio, ma ne ho paura. In fondo, sono un’insicura per natura… Ed io provo vergogna a rimanere davanti allo specchio, a spogliarmi e a guardarmi come se non fossero i miei occhi ad osservarmi, ma quelli di qualcun altro. Ma sono così stanca di aver paura di me stessa! Voglio provare a guardare dentro quello specchio con un sorriso. Voglio piacermi e volermi bene, finalmente. Voglio accettare quella persona riflessa, con i suoi pregi ed i suoi difetti, con le sue mancanze e le sue fragilità e riuscire a riconoscermi. Guardarmi negli occhi e dire: “Sei un essere umano con le tue debolezze ma, in fondo, anche tu puoi essere una persona speciale”. Ma soprattutto, mi vorrei guardare dritto negli occhi e dirmi: “Ho diritto ad essere felice, nonostante tutto…” Forse domani guarderò dentro quello specchio con occhi diversi, forse mi sentirò più donna, sarò consapevole delle mie scelte e convinta che ogni cosa che faccio e che farò, così come ogni cosa che dico e che dirò, non sono nient’altro che le mie piccole occasioni per diventare una persona migliore, soprattutto per me stessa. Gennaro Fiorillo Io… Sono Io, è inutile specchiarmi, ormai mi conosco troppo bene. conosco la mia finta allegria, i miei falsi sorrisi. conosco la verità. e fa male. Guardo i miei occhi riflessi e ti cerco, con forza con speranza con passione. Stanotte guarderemo la stessa luna, le stesse stelle, sospireremo. ma le catene che ci separano vinceranno ancora su di noi. ancora una volta. Sono io, ancora io … e continuo a specchiarmi… Alessia Cutrufo Specchio infranto È impossibile fingere Di fronte ad uno specchio infranto, il moltiplicarsi delle forme, il moltiplicarsi di finti sorrisi, si svela nel suo gioco perverso di maschera comica. Si svela il mistero, si ricompongono i sorrisi in un’unica forma … in un unico viso sconosciuto, in un’unica bocca che svela se stessa. Lo specchio Per anni ho vagato, alla ricerca di uno specchio, che riflettesse la parte bella di me … Ma la mia ombra era scura, grigia come il cielo in un giorno di neve. E tornavo a vagare, per ritrovare sempre lo stesso viso vuoto. Svuotato di ciò che lo avrebbe reso bello anche agli occhi della gente. Privato della luce del sorriso, derubato della gioia di uno sguardo … Per anni ho vagato … e forse vago ancora … alla ricerca di un’ombra che io sola vedo nello specchio. Anna Cibotti Lo specchio di Anna Il mio specchio e tridimensionale. Si, tridimensionale in verticale. Infatti è composto da tre parti divise da una sottile striscia di legno concava che mi serve come pomello per aprire gli scomparti del mobiletto che uso come scarpiera. E’ accanto alla mia grande e fornita libreria, proprio di fronte al letto. L’immagine che mi riflette è quindi divisa in tre parti. L’effetto è positivo perché mi allunga leggermente la figura e quando voglio vedere un particolare, mi abbasso o mi alzo facendo così anche un po’ di ginnastica. Non amo gli specchi. Ne faccio l’uso necessario alla mia decenza. Quello che ho nella stanza da letto è l’unico che mi riflette intera e a me basta. Mi è stato regalato quando ho cambiato casa e non trovando posto altrove, l’ho collocato dove è più funzionale alle mie necessità. Lui mi vede anche quando non lo guardo; sta lì e vede tutto. Mi fa compagnia. E’ uno specchio amico, non finge con me. E’ esattamente quello che io sono. Può esserci un amico più sincero e spietato nella sua trasparenza? Mentre lo guardo stasera mi dice che sono bella. Lo sono perché dal mio viso traspare la certezza di una ben più importante bellezza interiore. Attimi di follia Attimi di follia vuole essere un’apertura verso tutto ciò che potete ritenere al di fuori dell’ordinario, non è necessario che vi esprimiate con una poesia o un pezzo di narrativa, anche solo descrivere quello che per voi rappresenta, e il significato che volete dare alla frase, è già più che sufficiente. Quindi non createvi problemi di alcun genere e preoccupatevi solo di avere lo spazio necessario per poter esprimere il vostro pensiero. Adrena (con il contributo di Nadia Milone e Rossana Roxie Lozzio) Attimi di follia Alle otto di ogni mattina Anna elargisce una miriade di ordini da far eseguire a sua figlia, poi esce di corsa gridando e sbattendo la porta. Valentina non l’ascolta più, risponde a cadenze prestabilite alternando i sì, ai va bene. Il rumore della porta definisce la fine di quelle urla e l’inizio del nuovo giorno. Chiara e Annalisa arriveranno di lì a poco accompagnate dall’odore di tre cornetti alla crema appena sfornati. Il chiacchiericcio delle tre amiche si ferma alle prime note de “La follia” l’opera di Vivaldi. Valentina ha srotolato la tela a tappeto e deposto i vari pennelli vicino alle ciotole di terracotta. Le prime gocce cadono lentamente seguendo la sinfonia, strisciano leggere le pennellate, poi… i colori si susseguono velocemente, il rosso, il suono del basso, il verde, il suono frenetico dei violini, il giallo, l’arancione. Piccoli tocchi di colore a passi di danza. Strisce di colore e volute, e ancora colore che schizza dappertutto. Brevi pause, il blu, la musica incalza ed è ancora rosso, ancora giallo, arancione. Rallenta il ritmo, il verde, l’azzurro. Valentina è rapita dal ritmo, ora appoggia le sue mani direttamente sulla tela, si rotola nel colore. Attimi di follia li chiama sua madre. Per lei, invece, non è così. Tutto questo è vita, ognuna di quelle singole macchie colorate, che sembrano buttate a caso sulla stoffa, non sono altro che rappresentazioni dei suoi stati d’animo. Apparentemente differenti tra loro ma così dannatamente intimi! Valentina ha bisogno di sentire il contatto diretto con il colore, di toccarlo, di annusarlo, di viverlo appieno. Chiara la conosce da quando erano bambine e ancora, nonostante tutto il bene che le vuole, non è riuscita ad accettare quelli che definisce attimi di follia, proprio come sua madre! Annalisa, invece, la guarda senza capire. Vederla così felice, in mezzo ai suoi colori, le regala un’euforia inaspettata. “ Ti ho sempre amato per quel che sei” esclama Annalisa prima di correrle incontro, abbracciarla e saltare riempiendosi spudoratamente i vestiti di quei colori. “Non ti sporcare” … lontane eco, ossessioni da dimenticare. “Scusate, non ci sto…” dice Chiara, esce sbattendo la porta, proprio come Anna. “Sono proprio identiche quelle lì” commentano tra i denti ed in coro le due amiche. Rimaste sole, la voglia di trasgressione detta le sue regole; si strappano i vestiti, si dipingono l’un l’altra, iniziando dal viso scendono sempre più giù, ridono fino alle lacrime, piangono, si abbracciano. Rivoli di colore primario si mischiano tra loro formando il verde, l’arancione, il viola. Tutt’intorno è bianco. Troppo bianco! “Valentinaaaaaaaa” “Dio, è tornata mia madre. E adesso che cosa si fa? Sì, mamma, sono nella mia stanza con Annalisa, dimmi…” “Non hai portato il cane fuori?” urla. “ Il cane? Non l’avevi con te?” “Te l’avevo detto prima di andar via, mi hai sentito? Valeeee, vieni subito fuori dalla tua stanza, adesso!” “No, proprio non posso… oddio ma che fine ha fatto il cane?” D’un tratto eccolo spuntare da sotto il letto, correre per la stanza, e finire dritto dritto sulle ciotole dei colori rovesciandole. Attimi di caos totale. Anna è dietro la porta della stanza, l’apre. “Noooooooooooooooo, non è possibile, ora pulisci tutto! Ma tu sei pazza da legare!- poi, rivolgendosi al cane – e tu dove credi di andare così conciato? Anna insegue il cane, inciampa, si sporca. E le piace! Sì, le piace molto, si diverte. Sono di nuovo in tre nella stanza… dipingono le pareti. Il tromp l'oeil che prende forma rappresenta una finestra aperta e un prato dove correre felici. Irma Panova Maino Capitolo 8 – Reazioni – tratto da “Il peccato di Rennahel” “Che ci fai qui?” La voce alle spalle la fece girare di scatto e il predatore, che era in lei, la portò ad assumere automaticamente un atteggiamento offensivo. Gli artigli si allungarono velocemente sostituendo le unghie e le zanne che, fino a quel momento lunghe quel tanto che bastava per arrivare a punzecchiarle il labbro inferiore, improvvisamente si allungarono di un altro centimetro, inspessendosi come per poter affrontare un impatto più violento. Soffiò istintivamente accucciandosi leggermente e, contraendo i muscoli, fu pronta ad aggredire o a difendersi da un assalto. Una postura totalmente differente da quella che doveva aver avuto nel vicolo, dal momento che in quell’occasione non si era proprio difesa. E il solo pensiero che era stata pronta a saltare alla gola dell’uomo apparso sulla soglia, pronta a squarciargli la giugulare, strappando tendini e lembi di carne, la fece raddrizzare raggelandosi. Ogni velleità bellica sparì dalla postura lasciandola immobile e barcollante al centro della stanza. Dio! Aveva fame! Solo questo. Vide l’uomo socchiudere gli occhi diffidente e squadrare la sua nudità, seguendo il percorso del lenzuolo che si afflosciava svolazzando sul parquet. Tuttavia non si sentiva esposta, non avvertiva più l’impellente esigenza di dover soddisfare una sorta di pudicizia. Aveva fame. Questo era l’unico pensiero che s’ingigantiva, ad ogni scorrere di secondo, nella sua mente. Un pensiero che assorbiva ogni altro concetto logico, qualsiasi altra considerazione opportuna. Il bisogno primordiale prese il sopravvento su qualsiasi altro percorso mentale, diventando l’unico aspetto primario e fondamentale. Fame… Non era in grado di pensare ad altro. Le capacità cognitive della propria massa grigia si richiusero su se stesse, lasciando che fosse il puro istinto predatorio a prendere le redini dell’aspetto motorio del corpo. Si mosse verso di lui senza nemmeno rendersene conto e il fatto di vedergli fare un passo indietro, la portò istintivamente a passarsi la lingua sulle labbra gonfie, inclinando leggermente il capo di lato in un’espressione provocante, quasi beffarda. “Ren…?” Lo chiamò con una voce falsamente dolce e gentile, imprimendo nel suono quell’acuto e disperato bisogno che aveva di lui. Una necessità che scaturiva dalle viscere e che le scaldava il ventre. Siria non si rendeva davvero conto di quello che stava facendo, non capiva fino a che punto la malia del vampiro scaturisse da lei e con quale potenza colpiva i sensi dell’uomo. Lo vide vacillare, come se una spinta lo avesse portato a spostarsi, ma i piedi, incollati al pavimento, gli avessero impedito di compiere quell’ennesimo passo all’indietro. Lo vide in affanno. Il torace che si muoveva rapido sotto la camicia di seta, gonfiandogli i polmoni alla ricerca di un’aria che sembrava venire a mancare ad ogni passo che lei compiva verso di lui. Ogni muscolo si tese, irrigidendosi sotto la stoffa lucida e i pugni si serrarono decisi, come se fossero stati pronti a colpirla. “Ren.” Lo chiamò ancora, più decisa, più accattivante e lui barcollò facendo un passo sofferto in avanti Poi un altro e un altro ancora. Strisciando i piedi sul pavimento, costretto a spostarsi contro la sua volontà e contro tutto ciò che lo avrebbe portato invece ad allontanarsi. Non voleva venirle vicino, la ferocia nel suo sguardo era lampante. Le iridi, scuritesi dall’ira, l’ammonivano a non proseguire oltre, a non portare a termine la malia, a non lasciare che l’istinto predatorio prendesse il sopravvento, per non provocare in lui una reazione violenta. Avrebbe reagito. Siria ne era più che consapevole. Sapeva istintivamente che non le avrebbe lasciato fare ciò che il suo corpo agognava disperatamente. Non si sarebbe lasciato mordere senza lottare. E quella presa che aveva ancora su di lui, andò lentamente sfaldandosi sotto l’impatto della sua rabbia di uomo. Gli vide allungare le mani e afferrarla saldamente per le spalle e, con un gesto secco, respingerla. Andrea Leonelli Espressioni di Follia Follia. Patologia o stato naturale? Temporaneo o definitivo? Un attimo di follia, in cui tutto si può concepire, liberandosi da preconcetti E lasciando fluire libero il pensiero Perché non è forse vero che succeda che si agisce, ingabbiando alcuni desideri? Magari si vorrebbe fare qualcosa, una certa cosa e non la si fa perché “gli altri” penserebbero che siamo matti? E ci frustriamo, nei desideri e nelle azioni Ma dentro le nostre teste? Quante follie vorremmo fare, quante cose nuove e inconsuete vorremmo sperimentare? Cose che per la società, per “i normali”, sarebbero criticabili se non direttamente censurabili? Sapete una cosa? Ho iniziato, in buona misura ma non totalmente, dato che anche io vivo nella società a fregarmene. Voglio essere “folle” e vivere la mia follia se ciò significa anche, nel contempo, “essere libero” Voglio sentirmi libero e se proprio devo, morire libero Pregiudizi e preconcetti li lascio volentieri agli altri, tranne magari alcuni a salvaguardia di me stesso Voglio vivere “sotto il sole” per quanto mi è possibile e fare le cose che mi fanno stare bene, e molte sono folli, almeno per “i normali”. Sapete una cosa? Me ne frego, viva la mia follia e che duri un attimo o una vita, chi lo sa La vivrò giorno per giorno Se non è follia questa, in un periodo in cui pare bisogna pianificare anche l’andare in bagno… Pensate anche al tempo e a come lo si percepisce, non il come girano le lancette, ma come non passa nelle attese e come corre, non è forse follia? Il tempo è sempre uguale, ma dentro? Viverlo folli significa anche tollerare lunghe attese comprimendole in pochi attimi e poi esplodere in infiniti bervi istanti che rimangono eterni dentro. E’ o no follia questa del nostro percepire? Pensate alla follia delle sensazioni. Come si fa a fidarsi sulla base del puro e semplice istinto? Persone mai viste con le quali ti trovi con feeling perfetti e di cui riesci a fidarti “a pelle”, per pura sensazione. Oppure cose che sai che accadranno. È il pensiero, il modo di pensare che ci hanno insegnato che spesso ci ingabbia in vite prefabbricate, con porte e muri che stanno dove la società decide, e le finestre per guardare fuori e sognare sempre più piccoli, pezzi di cielo stellato sempre più ridotti, posti in cui sdraiarsi a sognare sogni sempre ridotti. E pure i sogni si son ridotti. Ma la follia più bella è l’amore. Quello si che ti fa infrangere gli schemi della normalità. Ti fa sentire libero e soprattutto felice. Ti fa sentire dentro sensazioni intense e spesso ti fa vedere oltre la realtà “pitturata” delle cose. A volte strappi la carta da parati e vedi oltre, vedi dentro ciò che viene solo mostrato. E l’apparenza non conta, ma conta la sostanza. Arrivi nel flusso vitale delle cose e dopo averle avute sott’occhio capisci il loro vero valore. Cose bellissime e perfettamente inutili, che soddisfano solo l’occhio, e peraltro non di tutti. E cose apparentemente senza valore estetico, che si rivelano però indispensabili. C’è molto oltre la superficie, ma bisogna essere un po’ folli per andare a vedere, e bisogna esserlo ancora di più forse per guardare bene nel fondo della propria anima accettandosi per quel che si è e arrivando a confrontarsi ogni giorno con se stessi prima che con gli altri. La bellezza? Chi stabilisce cosa è bello brutto o meraviglioso se non il gusto solo di chi guarda? Perché altrimenti tante forme d’arte? Ognuna può essere un polo d’attrazione con persone con gli stessi gusti e di repulsione per chi li ha diversi, ma che però potrebbe comunque incontrarsi accanto a punti d’interesse diversi… Quanti generi musicali? Quante forme di pittura e correnti e generi letterari? L’arte è intrisa di follia, ne è spessissimo espressione diretta. Ed è meravigliosa in quanto esposizione dell’anima folle di ognuno. E capire che nulla accade per caso, ma come in una ragnatela ogni filo che tocchi ne fa muovere altri in reazione, e quei fili di quella enorme ragnatela che ci unisce li tocchiamo tutti creando azioni reazioni, vibrazioni armonie e cataclismi. Il pezzo appena scritto vi pare slegato? Pazienza sono folle e volevo scrivere follie. E se in queste follie ci trovate del vero, chissà, magari un seme di follia dentro l’avete anche voi, io vi consiglio di curarlo e farlo germogliare e crescere. Con la consapevolezza che vi potrà aiutare ad andare “oltre”… Nadia Milone Cos’è la follia? Cos’è la follia? Chi ha una risposta me lo spieghi, per favore. Io non lo so fino a che punto l’animo umano possa spingersi prima di definirsi folle. Siamo abituati a vivere in formato standard, ad incasellarci in schemi prestabiliti in funzione di ciò che gli altri pensano e considerano “normale”. Non stiamo bene, vorremmo ribellarci come animali feroci rinchiusi in una gabbia troppo stretta ma, chissà perché, non lo facciamo e con finti sorrisi e atteggiamenti di circostanza, andiamo avanti fingendo che tutto vada bene. Ma non va bene per niente! E allora possiamo dire che la follia non sia nient’altro che una forma di ribellione per non impazzire in questo stupido mondo. Ma i veri folli sono coloro che ci circondano, che giudicano le nostre scelte e le nostre azioni, non sono io, che invece sto solo cercando un salvagente per non affogare. La follia non è in quelli come NOI, che vogliono soltanto evadere da una realtà devastante, la follia sono loro, quelli che non capiscono o non vogliono capire che non siamo agnelli da sacrificare per il pranzo pasquale. Ma io sono stanca di dovermi conformare a canoni prestabiliti e ipocrite convenzioni, stanca di aspettare l’approvazione altrui… Sono stanca di pormi limiti che altri hanno deciso per me e farmi domande, voglio godermi quello che la vita mi pone davanti. Quello che gli altri pensano, è solo un loro problema. Cogli l’attimo, si dice, perché nulla torna indietro. A qualcuno piacerà ciò che ho scritto, ad altri, forse, meno. Ma io non scrivo per piacere agli altri, ma per cercare di piacere a me stessa. Forse anche questa è follia, allo stato puro. Ma so che vivendo in questa follia, un giorno, riuscirò ad apprezzarmi. Sarò folle ma felice Mi sono sempre considerata una persona equilibrata. Per intenderci, di quelle che, solitamente, fanno la cosa giusta per compiacere qualcuno. Ho sempre cercato di mettere al primo posto gli altri e le loro esigenze, dimenticandomi che, forse, esistevo anch’io. Ed è così, credo, che le persone hanno incominciato a darmi per scontata. Ero una presenza fisica sicura, un aiuto, un appoggio ma… ero anche una donna. Chi si accorgeva, ormai, di me come donna? O magari gli altri lo sapevano, ma ero io a non sentirmi più così. Ho iniziato a pensare che una vita del genere non valesse la pena di essere vissuta, finché, un anno fa, non ho incontrato Lui. Lui che mi capiva, lui che mi diceva che ero una persona speciale, unica e stupenda, lui che mi ha illusa fino a farmi perdere la ragione. Ho fatto tanti errori nella mia vita, ma fidarmi delle sue parole è stato il più grande. In pochi mesi, sono diventata una scheggia impazzita in balia del mio destino. Nemmeno io capivo cosa mi stesse succedendo, ma era chiaro che non ragionavo. Non dormivo, non mangiavo e passavo ore a guardare il telefono nella speranza che arrivasse un suo messaggio, come un’adolescente. Avevo perso la testa, è vero. E la follia più grande fu pensare che sarebbe potuto nascere qualcosa di speciale. Ero pronta a lasciare tutto, mi sarebbe bastato un cenno da parte sua. Ma questo cenno non è mai arrivato e quando è scappato come un coniglio davanti alla prima difficoltà, mi sono ritrovata a terra, perduta, senza più uno scopo. Sono mesi che combatto nella mia testa con il suo ricordo e con la follia dei miei pensieri. Ma oggi ho deciso di dire basta, di cambiare. Ho deciso che voglio vivere e star bene, voglio ridere ed essere felice. Non ho affatto abolito le follie dalla mia vita, anzi… Non voglio assolutamente tornare a quella vita piatta e noiosa che mi soffoca come se fossi rinchiusa in una gabbia. Voglio essere folle, ma questa volta per me stessa. Mi voglio divertire e fare quello che mi passa per la testa. Folle, pazza, trasgressiva…sì, ora lo sono, ma con una consapevolezza in più: tutto ciò che farò, nel bene o nel male, dovrà farmi stare bene. Ho giurato a me stessa di non versare nemmeno una lacrima, mai più. So che ce la farò, perché adesso io sto bene, sono serena come non lo ero da un sacco di tempo e, finalmente, riesco di nuovo a ridere ed è bellissimo. Massimiliano Cara Escrementi Sono folle. Sono un folle perché mi ci sono trovato. E quando è arrivata la stagione del rimanerci, ci sono restato. Mi è sembrata la scelta più logica, ma nel caso bisogna di dire più folle. E così mi sono chiesto se io stesso ho scelto il mio stato folle. Questo mio stato folle è costruito da un dolore atroce. E’ modellato dal fango della psicosi. Dal Liquame dell’angoscia. Da sprazzi di malinconia confusa. Da ondate di nostalgia irreale, forse prenatale. Ma poi quello stato-ragnatela è diventato quasi piacevole. Una gabbia ovattata dove il pianto ha fatto posto alla necessità del ragno. Quel ragno che mi consuma, che mi divora ogni giorno. Un pezzetto per volta lui si ciba di me. E io posso poi cibarmi dei suoi escrementi. Un giorno ho capito che non erano così male. Quel giorno capii che il folle sarebbe rimasto tale. Viky Hachiko Lancione Follia Cos’è la follia? Viene identificata come perdita della ragione. Fosse così semplice. Nella follia c’è una serie infinita di minuscole sfumature. Schegge del passato, schegge del presente. Schegge che si insinuano nella testa, ne ingarbugliano i fili, distorcendo i pensieri. Interpretare la mente di un folle è peggio che trovare l’ago nel pagliaio. Sostanzialmente la definirei in follia buona e follia cattiva. La follia cattiva… quel raptus che ti fa fare i gesti più ignobili. Puntare un coltello contro tua moglie, uccidere, stuprare. Quello che vorrei capire è cosa passa per la mente di questi folli. Quello che mi domando ogni giorno che passo in questa casa, dove regna una mente malata. Domando a voi, se leggerete queste poche righe di una persona altrettanto folle, da cosa nasce tutto questo? Cosa innesca il processo che arriva alla follia? C’è da dire che non tutto il male viene per nuocere e io stessa mi considero folle. Perché in questo mondo, che ti priva di tutto, folle è chi crede ancora nei sogni, chi ama incondizionatamente, chi da tutto se stesso alle persone. La follia è anche quella nota di pazzia che ci fa compiere i gesti più memorabili. Una scappatella al chiaro di luna, un bacio proibito, un gesto azzardato. Non potrà mai esistere una definizione alla follia, che molto ha in comune con l’amore. Come una favola diceva: non c’è logica spiegazione a una tal disturbazione, niente ti disgretola, ti scombuzzola, ti scompiffera, ti rimestola, ti scompisciola, ti scombuzza di più! Questa definizione non è forse adatta anche alla follia? Elisabetta Bagli Follia Un pizzico di follia è entrato nella mia anima, attraversa i miei sensi, strazia il mio corpo, lacera le mie certezze. La mia storia è la tua. La nostra è una follia. È un gioco seducente che ora non fa male. È una folle battaglia combattuta con la vita che ci ha vinto. Appassionatamente ci ribelliamo alle sue decisioni. È pura follia lasciarci accarezzare il cuore dal dolce suono delle nostre parole mai pronunciate. È pura follia sentire il desiderio di voler confondere i nostri corpi, le nostre anime leggendo i racconti del nostro passato, assaporando il nostro presente, investigando il nostro futuro. Assetati di noi, follemente beviamo dalla stessa fonte. I nostri desideri li esploriamo, li afferriamo, li mascheriamo nella folle ricerca di ogni minima possibilità che ci faccia sentire più vicini, più uniti, più vivi, che mitighi la nostra consapevole paura di perderci. Ma ormai ci siamo persi, l’uno nell’altro, senza un perché. Sappiamo che ci siamo persi, sappiamo di esserci felicemente, follemente persi. Opere prime infinite, lontane, così vicine, così confuse, così meravigliosamente folli. La nostra follia La mia è una follia nuova. Mai provata in vita mia, ma mi ci sono buttata anima e corpo. Perché l’ho fatto? Perché vivere vuol dire provare e, soprattutto, provare a superare se stessi e i propri limiti. Ho dei limiti. Ma chi di noi non ne ha? I miei sono dei limiti atavici, retaggio di secoli di imposizioni, di catene alla quali sono stata legata fin da prima di nascere. La morale poi, inculcata dal mondo in cui vivo, mi ha fatto camminare nelle incertezze per tutta la mia vita, come se dovessi stare attenta a non calpestare l’oro che gli altri avevano ai loro piedi e io no. Insicura di me sono arrivata fino a dove sono, senza mai vincere. Adoro Pirandello e le sue Maschere Nude. La maschera è il simbolo di ciò che ognuno di noi indossa in questa vita. Nessuno è mai se stesso fino in fondo. Difficile riuscire a non indossare la maschera per vivere, o meglio per sopravvivere. Ma ora che sono “grande” ho deciso che non voglio più indossarla, ho deciso che per una volta nella mia vita la mia Maschera sarà davvero “nuda”, perché corrisponderà esattamente a ogni centimetro della mia pelle che godrà di sensazioni nuove, diverse, uniche. Supererò i miei limiti, non solo perché voglio farlo, ma perché sento che è giusto salire quei gradini che ho sempre visto da lontano come chimere che non avrei mai potuto raggiungere. Li supererò e non lo farò da sola. Lo farò con te. Tu, il mio meraviglioso uomo che sei entrato nella mia vita come un sole, riscaldando ciò che ormai era diventato freddo e privo di vita. Mi hai insegnato a essere me stessa, mi hai preso per mano e mi hai portato negli angoli perduti della mia esistenza facendomi ritrovare ciò che era così ben nascosto dentro di me che me ne ero quasi dimenticata. Mi hai fatto scoprire che posso salire quei gradini e che posso farlo con te. Generoso, mi hai parlato dritto al cuore, mi hai fatto vedere che esistono diversi modi di dimostrare l’amore anche se noi non potremmo mai chiamarlo così. Inavvertitamente siamo caduti, come angeli caduti e ci siamo sussurrati parole d’amore, anche se sappiamo che non sono per noi. Ma ci sta bene così. Meglio stare vicini che non starci per nulla, meglio “amarsi” così ed essersi incontrati così, fregando la vita, rubandole istanti a morsi, piuttosto che rimanere inermi aspettando il giorno in cui gli occhi si chiuderanno. E’ folle tutto ciò? E’ una vera e propria follia, una meravigliosa follia che mi tiene in vita colorando la mia esistenza di tutti i colori dell’arcobaleno. So che per te è lo stesso, anche se non me lo dici. Ma la follia la vuoi pure tu. Io lo so. Adriana P. Follie quotidiane di una mente assurda àtinasni aim allen itnat onos oi e àtilamron aut allen onu ies ut éhcrep; olevs ol non e orehcsams it éhcrep; igrocca en et non e odired it éhcreP. avlas im em ni aillof al olos e ilrirpair accot im amron id am, ognoporp im onas id ehc òic eredev non id etnemanasni odnareps, oduihc il ihcco ilg ossepS. ais ehc anasni o anaS. aillof al è oh ehc aticsu id aiv acinu l’ihcco ilga intavad arrabs is im entemanaiditouq ehc òic ad atatneserppar è amron al es èhcrep, em ni onasni id è’c asoc odeihc im arO. àtitnaS allad asiced àtinas artson alled ittaip ien otaignam omaibba e; airetsi anasni alodnedner aillof anas orol al otazzamma omaibba E. em id, et id inas ùip neb onare orol id itnauq e imocinam ien ericram a osuihcnir omaibba illof itnauQ. amron allad irouf erats acifingis, otseuq acifingis ellof iamro éhcreP. elamrona id, ellof id è’c asoC. et ouges non éhcrep olos, em ni onasni id è’c asoC. Insensato E’ insensato parlare di follia. E’ ancora più insensato parlare di follia, ora, in questa società ove follia non è nient’altro che normalità. Non normalità inteso come qualcosa di normale, che sta nella norma, perché la norma non esiste e il normale ancora meno. E’ insensato parlarne perché viviamo nella rincorsa alla follia e sentirsi dire “Sei normale” corrisponde quasi a un insulto. E’ partita da anni la caccia al trasgressivo, all’aggressivo, al diverso, al differente. E’ partita la rincorsa all’apparire. E l’essere? E’ disperso altrove, da qualche parte, o in taluni ancora è presente. Che follia è mai questa? Sei semplicemente te stesso, così semplice, così abituale! Diciamolo, sei anche un po’ noioso. Che follia sarai mai questa: essere se stessi è la vera follia in un porto di mare in cui essere normali è ormai eresia. Alessia Cutrufo Giochi della mente Lucida follia intesse con mani abili, trame dal contorno distorto. Sorride, poi piange, in un volto che è sé e io, che è maschera comica e tragica insieme. Lenta lavora ogni giorno, chiude gabbie di diamante dalle maglie troppo strette per essere infrante. Muove fili di cristallo, fragili, ma che lacerano la pelle scoprendo il sangue di un’anima imprigionata. Osserva, scruta lo sgomento, si sorprende della forza, contrasta una lotta senza vinti… Distorce i colori, cambia i volti alle cose, crea e disfa disegni nell’aria giocando con un dito a toccare l’aria. Sposta i corpi pesanti di bambole senza vita, di legami ad un passato lontano che ricrea se stesso in uno specchio infranto. Folle! Guarda il viso riflesso, gioca con i colori mutandolo in smorfia. Rivive, trasmuta, cambia la pelle spogliandosi di sé… Rinasce, da istanti di cosciente follia e libra alta un’anima di fuoco, libera dalle trame di un passato a lei sconosciuto. Andrea Mazzolini In una notte di neve sbagliata Mancavano due giorni a Natale e un vento sferzante dal Nord portava un freddo polare su tutta la penisola. Tra parentesi, io a dire la verità non sono mai stato ai Poli ma immagino che ci sia molto più freddo rispetto al centro Italia. Sono i telegiornali che parlano sempre di freddo polare d’inverno e caldo tropicale d’estate. Evidentemente le iperboli vendono bene. Fine della parentesi. Era veramente freddo ma le previsioni avevano escluso categoricamente che la neve che aveva imbiancato gli appennini sarebbe scesa a bassa quota. Ciò nonostante nevicava, o meglio, il vento si divertiva a far ruzzolare i fiocchi di neve. Stavo tornando a casa quando la spia del carburante iniziò a lampeggiare, fu per questo che svoltai verso il distributore. Il benzinaio non c’era, non so se fosse già passata l’ora di chiusura oppure se semplicemente avesse deciso di anticiparla. Utilizzai il selfservice e per una volta riuscii a non farmi mangiare la banconota dalla macchinetta. Risalii in macchina e accesi i fari. La vidi sulla strada, abbastanza svestita, nonostante il freddo. Non sapevo come si chiamava o di che colore avesse gli occhi ma non avevo dubbi sul perché stava là. Era una delle tante sfortunate che vendono un po’ di calore e un surrogato d’affetto. Fino a quel giorno non avevo mai utilizzato i servizi offerti da lei o dalle sue colleghe. E non pensavo che me ne sarei mai servito. Ma un attimo di follia può capitare, così, senza una ragione, se ci fosse una ragione per tutto non esisterebbero i folli. La raggiunsi, rallentai e mi accostai a lei. Le aprii lo sportello senza dire niente e la feci salire. Ripartimmo. Continuava a nevicare. Le chiesi come si chiamava. “Natalija”, rispose senza aggiungere altro. Pensavo alla strana coincidenza di aver incontrato Natalija l’antivigilia di Natale e non mi resi conto che stavo guidando direttamente verso casa mia, come se stessi accompagnando una mia amica e non una donna di facili costumi. Ora direte che sono pazzo, e forse in quel momento lo ero, ma quando entrammo in casa le feci fare un breve giro per mostrarle le stanze e le preparai un tè. Provai a scambiare qualche frase con lei ma rispondeva solo a monosillabi. La sensazione era che comunque capisse molto bene l’italiano ma che fosse stata istruita dai suoi protettori a non raccontare niente. Finimmo in camera da letto ma non successe un gran che, ero molto imbarazzato e il fatto di trovarmi con una professionista non aiutò molto. Le pagai comunque quanto dovuto. Continuava a nevicare e nonostante mi dispiacesse riaccompagnarla sulla strada del distributore con tutto quel freddo, non era rimasto molto altro da fare. Fu allora che vide il mio pianoforte. “Io da ragazza suonavo e cantavo” disse con un sorriso misto a malinconia. È passato così tanto tempo. Il mio sogno era interpretare la Carmen, non sai quante volte mi sono immaginata un teatro gremito tutto per me. E guarda come sono finita…” Una lacrima le solcò il viso. “Ah, vedo che parli italiano molto bene… se vuoi possiamo cantare qualcosa insieme” proposi. “No, no, portami via…” Si diresse verso la porta e forse riaccompagnarla era la cosa giusta da fare ma non sempre si segue la ragione e si fa ciò che è giusto. Mi sedetti al pianoforte e cominciai a picchiare i tasti, cercando di suonare Habanera, l’aria di Carmen. Erano anni che non la suonavo ma le note vennero da sé, sotto le mia dita, come per magia, all’improvviso. Ma una magia, molto più grande, un miracolo, fatemi dire, stava per sorprendermi. Come il canto di un usignolo, la voce di Natalija si librò in alto a ricordarci che l’amore è un uccello ribelle che nessuno può domare. Mancavano due giorni a Natale e due perfetti sconosciuti in un attimo di follia si sorpresero a fermare il tempo e a lasciare fuori la vita e a cantare follemente una vecchia aria in una notte di neve sbagliata. Non l’ho più rivista. Deborah Fasola L’uomo nero: la follia che come un’ombra avanza La stanza era buia ed io avevo paura, ma a trent’anni si può ancora aver paura del buio? Stavo fissando quella porta che mi aveva così inquietato da bambina: era socchiusa e scura, come la mente di molti esseri umani dai quali fuggivo costantemente. Non ero mai stata normale, le ombre mi avevano reso una pazza, uno strumento del mio Io, un meccanismo di rimozione per un dolore troppo grande. Non mi era mai interessato ricordare, anzi, tutti i miei nervi erano sempre tesi ma la mia mente si rifiutava di rievocare immagini. Ci fu un tempo in cui lo avrei voluto morto, l’uomo nero. Non fu come per tutti gli altri bambini, fu intenso e devastante, perché io avrei voluto distruggerlo con le mie mani, così com’era stato fatto a me. Ma quella notte ero tornata, quella notte avevo sfidato sorte e resistenze, per cercare di capire. Ero di nuovo nella quiete della mia cameretta, l’avevano lasciata intatta, tra pizzi e merletti rosati, tra bambole di porcellana che, come me, non parlavano e non sorridevano più. Poi uno scricchiolio mi fece trasalire e sollevai le coperte sino agli occhi, come quando ero piccina. Poi la mano scarna e tremolante di qualcuno, comparve nel varco dischiuso dell’origine del mio orrore. Udii una risata sommessa e poi la sua voce, la voce del mostro che, ormai anziano, chiamava il mio nome. “Non nominarmi, fai che le tue sporche labbra macchiate di peccato, non pronuncino mai più il mio nome… o ti distruggerò” pensai. “Stai lontano da me, non sono più indifesa, sono pronta a lottare contro i fantasmi del passato e ora che quell’oscurità io l’ho abbracciata, il nero che ti porti addosso, la devastata mente che agisce per te… non mi fanno più paura. Hai capito? Io non ho più paura. Di te” Ma lui avanzò, lui entrò nella mia stanza e nella mia nuova mente, lui scavò ancora dentro essa per cercare di circuirmi, per plagiarmi, per toccarmi. Era l’uomo nero, la follia che nell’ombra avanza, per inghiottire anche me. Avevo scelto di non capire, di non voler più sapere… eppure era sempre stato vicino a me, l’uomo nero dei miei sogni era sangue che mi scorreva nelle vene ed era colui che mi aveva donato la sua follia, rendendomi parte di essa. Poi un rumore sordo mi traumatizzò: era la sua testa che, picchiando forte contro il muro, lo macchiava della sua pazza crudeltà, frantumando i pensieri che lo avevano accompagnato per una vita, distruggendo il mostro che era stato. Non era stata colpa mia, non ero stata io… era stata la pazzia: sua insana essenza, mia eredità. Anna Cibotti Genio e follia Genio e sregolatezza. Genio e follia. Le due parole sono strettamente correlate ad un luogo comune che non mi trova d’accordo. L’estro dell’artista non è proporzionale alla sua sua eccentricità. Conosco persone che nel loro andare quotidiano sono capaci di fare cose che nella loro semplicità e bellezza, di geniale hanno tutto. Penso ad una amica che in cucina è più creativa di uno chef stellato. E che dire del cesello dell’orafo, dell’intaglio del carpentiere, del cucito della sarta, del lavoro di un artigiano?. C’è fantasia e creatività in tutti loro. C’è arte senza follia. Ma esiste una follia ad arte. Quella follia che agli occhi degli altri è normale se associata ad un artista. Per creare, dipingere, scrivere, non serve la follia. Il folle è folle. Che sia genio o no. Ma in chi uccide, stupra, ruba e fa la guerra il seme della follia c’è. C’è anche il genio. Il genio del male che in ognuno di noi, talvolta, si associa ad attimi di follia. Angelo Francesco Anfuso Ragionata Follia Chiedo un attimo di silenzio, un attimo di pace, un attimo di comprensione, un attimo di silenziosa follia. Sono solo folle, forse… Chissà? Permettetemi di cantare, permettetemi di inneggiare alla mia sorte: crudele e tormentosa, o forse dannata. Chissà! Sono un uomo, un uomo folle. Sono un uomo, distinto, originale è il mio vissuto. Riconosco me stesso, i miei limiti, la mia natura. Sono così. Basta! Ma tu dove sei? Non ho risposta, eppur mi sei d’innanzi. Io ti osservo e tu non mi vedi. Non hai coraggio di alzare i Tuoi occhi, per osservarmi, per scrutarmi. Mi chiedo allora: “come potrò mai avere una Tua risposta?” Un uomo saggio, è reso saggio in virtù della follia, perché essa orna e schiarisce la sua natura. Un vero uomo, è Uomo solo quando varca i gloriosi confini della conoscenza, si trascende in essa. Elevarsi alla conoscenza, raggiungere le alte vette. Questa è follia, questa è silenziosa follia, questa è filosofia… Ma perché? Sono saggio e folle, sono un uomo perché penso: dunque sono. Ragionamento sensato è il mio, partorito nel silenzio del mio intimo. Silenzio puro: si!… ma folle. Vito Nomade La follia Come scusa? Dici che sono pazzo, solo perché normalmente (passami il gioco di parole) dico quello che penso? Sì è vero, a volte esagero, ma non sempre. Almeno secondo me. Quella mattina, però, devo avere pestato i piedi a qualcuno, vero? Ma io dico; se scrivi su un blog o su Fb o su altri cazzi di siti simili, perché non dire quello che pensi? Va bene, scusa, niente parolacce… Però sarai d’accordo con me che non c’è più la famosa o famigerata libertà di parola in questo (ex) Bel Paese? E poi cosa mai avrei scritto di male, parlando dell’ex Presidente? Ho scritto solo che si fot… ok ok, lo evito! Ripetermi fa male dici. Se lo dici tu! Ahh, la volgarità ti offende. E poi stai qui, davanti a me e insisti nello spiegare come ci si comporta in pubblico, come ci si comporta nel caso si scriva ad altre persone… ma perché tu scrivi a te stesso? Ma allora il matto sei tu, non io. Eccolo, ancora offeso… che palle di uomo che sei. Ma lo sai che una volta io ero un giornalista? Bravo anche! E molto ricercato, aggiungo! Poi un giorno, anche in quella occasione, ho scritto di un povero… ok, niente epiteti, di un politico che rubava allegramente soldi pubblici e faceva a metà con un finto cattolico pederasta… ma cosa t’incazzi? Era vero! Eccolo lì… sempre a urlare che questo non si dice, che quello non si scrive: ma perché non vai anche tu a dar via… ah, eccolo il vero macho che si maschera da giustiziere della verità e picchia il povero imbecille di turno! Voi siete tutti uguali: sia qui dentro, che fuori, nelle piazze! Non importa se in divisa o con una penna, voi potete farlo. Siete voi a fare i casini e a risolverli, dando a quelli come me la colpa di tutto. Noi, per voi, siamo capri espiatori e capre da sodomizzare, ecco cosa siamo! Eccolo finalmente il tuo vero “io”! Come mi hai definito? Sporco comunista? Ma tu lo sai cosa vuol dire essere sporco? No vero? Tu e tutti quelli come te, siete capaci di gridare slogan e parole al vento sentite e risentite milioni di volte; senza senso, ma già dette e quindi, secondo voi, reali. Beh mio caro dottore, sbagli! Tu sei qui dentro, davanti a me, con un camice simile e con gli occhi sbarrati al sentire quello che io e tutti gli altri ti diciamo, una volta alla settimana, in queste insulse riunioni di gruppo. E poi? Che ne fai delle nostre parole? Niente vero? Finiscono in un file o in un cassetto a svanire, perché tu possa tornare a casa dalla tua bella famiglia e fingere di essere sereno, mentre ti genufletti al potere. Magari sentendo nell’aria il profumo di corna o di infelicità. Ecco cosa significa essere sporco: ipocrita. Senza avere un tuo reale pensiero perché, tanto, non lo potresti esprimere. Noi almeno torniamo nelle nostre celle imbottite. Ma con i nostri pensieri possiamo vivere. Rossana Roxie Lozzio La mia follia Folle, è sempre stato considerato il sentimento che mi lega a te… da chi mi ama e cerca di comprendermi, da chi non mi capisce e persino da me stessa che, dopo tutto, continuo a pagarne le conseguenze sulla mia pelle. Folle, è da sempre l’amore che mi conduce da te ogni volta che posso e altrettanto folle, è la sofferenza che mi accompagna quando torno alla mia vita. Una vita vuota, nonostante tutto quanto accada che la possa colorare, perché l’unico colore che l’accende nel profondo è quello che emana la tua luce… un colore immenso, unico, che racchiude tutte le tinte di un arcobaleno dopo la pioggia più intensa! Folle, è ogni attimo che precede i nostri incontri… folli, sono le fantasie che faccio, mentre ti muovi… folle, è la tua anima, così diversa eppure tanto vicina alla mia! Folle, è ciò in cui mi trasformo, io che non lo sono mai stata e che non conoscevo il significato del termine fino a quando non ho preso atto di non poter amare nessun altro quanto te… che sei e resti la parte irrazionale di me. Ronni Corbari Splendida follia Sognare nel modo più viscerale possibile di raggiungere un obiettivo, avere costantemente quelle che le giovani verginelle innamorate chiamano “le farfalline nello stomaco”, desiderare ardentemente qualcosa che a te sembra quasi impossibile e che confidandoti anche solo alle persone di cui nutri profonda stima, e quindi sai che ti potrebbero dare solo consigli sensati e ben ponderati, ti senti dire “Stai attento, poi potresti rimanere deluso”, oppure “Non credo che sia la cosa migliore da fare”, o “Solo tu puoi pensare una cosa del genere” , e capisci che nemmeno quelle persone capiscono fino in fondo la tua anima. Nessuno riuscirà mai a comprendere i tuoi pensieri in tutta la loro complessità e forse nemmeno tu. Ma quando arrivi alla fine della corsa, della lotta, quando il sogno lo puoi toccare e ce l’hai lì a portata di mano, e perché no anche di pisello, lasci cadere tutto. La ricerca è finita, come dopo un mucchio di partite sempre difficili, sempre diverse l’una dall’altra, ti danno l’agognata Coppa dei Campioni e tu esulti totalmente fuori controllo. Poi basta, finito. In quella coppa c’è il triste messaggio che sancisce la fine dell’avventura ma che in qualche modo ti sprona a cercarne un’altra diversa e magari anche più difficile. Ma gli altri non capiscono quando dopo un successo ti volti senza dire niente e cambi strada. “Sei un pazzo”, ti dicono e forse hanno ragione. Ma quando decidi che la tua vita deve andare così, che gli obiettivi sono solo ingranaggi di un motore più complesso ecco che un sorriso impercettibile si materializza sulla tua bocca. Nessuno potrà mai toglierti e capire questa tua splendida follia. Luigi Bonzanini Un drastico gesto In effetti, a causa d’una sequela imprevista di penose esperienze, il mite ed ingenuo Domenico Sangallo, anziano musicista ormai in pensione, era progressivamente caduto in preda ad una curiosa forma di ossessione. Praticamente nel giro di pochi mesi il suo umore s’era fatto sempre più cupo e il suo comportamento era divenuto imprevedibile fino al limite della bizzarria. Si era segretamente convinto d’aver sprecato la propria vita inseguendo falsi valori e lasciandosi abbindolare da persone di pochi scrupoli che avevano carpito la sua buona fede per portarlo infine quasi al tracollo finanziario. In realtà, il principale artefice dei suoi guai era stato lui stesso con la sua ingenua fiducia nelle apparenze più vacue del mondo e del suo prossimo, assecondata da una razionalità piuttosto grossolana e colma di luoghi comuni. A Sangallo restava ormai soltanto un amico fidato: il portiere dello stabile in cui abitava; un vecchietto bonario e senza pretese che rispondeva al nome di Gondrano Scopettone. Costui conosceva i più intimi segreti del Sangallo come del resto era al corrente di tutti i fatti del caseggiato e, da integerrimo portiere quale tutti lo ritenevano, sapeva ascoltare senza commenti e soprattutto sapeva tenere per sé le magagne di cui era a conoscenza La sera della vigilia di Natale Domenico Sangallo, rientrando nel suo malinconico appartamento da scapolo, passò come sempre davanti alla guardiola dello Scopettone e, preso da un’improvvisa smania di confidarsi, rivolse al suddetto una frase decisamente inquietante: “ Ormai ho deciso: è per domani!… ” Gondrano Scopettone strabuzzò gli occhi e, con un tono pieno d’apprensione, reagì: “Ma come, per domani?!… Ha pensato bene alle conseguenze?… Rifletta prima di fare una tale fesseria!…” Sangallo, con il volto tirato e un’espressione dura nello sguardo ribadì: “Devo compiere qualcosa di estremo per avere la mia rivalsa su questa umanità vigliacca! Ho deciso per domani e la mia decisione è ineluttabile!… ” “Ma chi ve lo fa fare?!… Nessuno capirà il perché e l’unico che ci rimetterà sarete solo voi, come al solito!… ” Indifferente ai saggi consigli del portiere, Sangallo, con lo sguardo spiritato fisso nel vuoto, gettò là un’ ultima frase lapidaria: “Occorre un esempio, un grande sacrificio per smuovere le coscienze inerti di questa gente arida e bolsa!… ” Gondrano, con aria desolata, non poté fare altro che scuotere la testa e chinare il capo mentre l’anziano musico s’avviava verso le scale. * Giunto nel suo silenzioso appartamento Sangallo si tolse il cappotto e, senza neanche cenare, passò la serata fissando tristemente dal balcone la strada illuminata a festa. Verso mezzanotte s’addormento sulla poltrona del salotto. Si svegliò circa alle sette del mattino con lo stomaco che brontolava per la fame e il collo dolorante per aver dormito in una posizione innaturale. Sbirciò fuori dalla finestra e restò stupefatto per quel che vide: durante la notte era caduta la neve e una fitta coltre bianca ricopriva ora tutta la strada sottostante, i tetti delle case, le siepi dei giardini e gli alberi spogli. Storse la bocca in un ghigno amaro e sussurrò fra sé: “Ma bene!… Qualcuno lassù vuole complicarmi le cose!… Ma io non demordo!… Ormai ho deciso per oggi e oggi sarà!…” Passando per il corridoio gettò uno sguardo distratto al grande specchio che ne ornava la parete e rimase quasi spaventato dal furore che i suoi occhi spiritati tradivano. Anni di umiliazioni e solitudine sarebbero stati riscattati da ciò che si accingeva a compiere; inesorabilmente tutto il mondo si sarebbe finalmente accorto di lui e sarebbe rimasto attonito dinanzi al suo coraggio ed alla sua incrollabile determinazione. Entrò nella camera da letto e lentamente, con gesti calmi e studiati, cominciò a togliersi la cravatta, poi la camicia, la canottiera e via di seguito. * Più o meno nello stesso momento, il portiere Gondrano era intento a spazzare di malavoglia la neve dal marciapiede di fronte allo stabile. Maneggiava la scopa con gesti meccanici e fiacchi dato che la sua mente era decisamente altrove: pensava al vecchio Sangallo e al drastico gesto che intendeva compiere. “Quello è talmente matto che può fare veramente una fesseria!… Bisognerebbe avvertire qualcuno. Ma chi?… Non ha parenti, non ha nessuno, neanche uno straccio d’amico!… Forse sarebbe il caso di chiamare il 113!.. Ma se poi non succede niente, la figura del fesso la faccio io! ” Un vero dilemma senza scappatoie. Con la scopa in equilibrio sulla spalla, Gondrano s’avviò verso la sua guardiola dove l’aspettava un bricco di caffè fumante. Mentre lo sorbiva un sorso dopo l’altro, dalla tromba delle scale silenziose gli parve di percepire lo scatto d’una serratura. Fu come se un segnale d’allarme fosse scattato dentro di lui: posò la tazza di caffè e, veloce per quanto glielo permetteva l’età avanzata, si precipitò su per le scale fino al primo piano dove abitava Sangallo. Quando giunse sul pianerottolo tutti i suoi peggiori presagi parvero avverarsi: Sangallo era ritto sulla soglia spalancata del suo appartamento con gli occhi sbarrati che fissavano il nulla davanti a sé e, perduto in un suo segreto delirio, biascicava frasi sconnesse del tipo: “La mia riscossa è giunta!… Tutti mi devono vedere!… Sono un simbolo!… Sono l’unico puro e innocente in un mondo ipocrita!…” Con le mani fra i radi capelli, Gondrano Scopettone lanciò un gemito di scoramento e poi strillò: “Oddio, l’ ha fatto sul serio!… L’ ha fatto sul serio!… ” Pallido come uno straccio, si portò le mani agli occhi per non vedere l’orrore che stava davanti a lui e, in effetti, nessuno avrebbe potuto dargli torto dato che Domenico Sangallo, nudo come un verme, avanzò a passi decisi sul pianerottolo e lentamente, con plateale compiacimento, gli passò accanto per poi scendere lentamente le scale e, una volta giunto nell’androne, s’avvio speditamente verso il portone dal quale schizzò fuori a braccia levate nell’aria gelida calpestando la neve fresca coi piedi nudi e continuando a blaterare: “Sono un essere puro!… Sono un fanciullo gentile!… Non abbiate paura: fate come me e sarete mondi!…” * Purtroppo lo sventurato aveva scelto male il tempo ed il luogo per la sua esibizione in costume adamitico, stante che la mattina del giorno di Natale verso le sette quasi tutta l’umanità indugiava volentieri sotto le coperte dopo una serata di festeggiamenti. Oltre al Gondrano, l’unica testimone del gesto provocatorio fu una vecchia ottuagenaria che per tempo si stava recando in chiesa per la funzione mattutina. Mentre camminava quieta e trasognata lungo il viale che portava alla chiesa, la signora Orietta Beccacivetta, tale era il nome della poverina, vide d’un tratto sbucare da una strada laterale il Sangallo che avanzava verso di lei a passi incerti con le braccia tese verso il cielo e con gli attributi in bella mostra, ululando: “ Sono un fanciullo gentile!… ” Doveva aver percorso circa un centinaio di metri correndo senza meta nella neve dato che il volto appariva già cianotico e le gambe magre ed ossute arrancavano tremanti facendolo barcollare. Impietrita dallo stupore e dall’orrore, la Beccacivetta riuscì a stento ad emettere un gemito strozzato per poi accasciarsi di schianto sulla neve che fortunatamente attutì la caduta. Sconvolta e tremante, poté a malapena scorgere la sagoma ignuda del vecchio garrulo che le passava accanto per poi allontanarsi barcollando verso il centro cittadino. A questo punto le urla dello sciagurato lentamente si fecero sempre più fioche e il viale deserto ripiombò nel silenzio ovattato ed irreale di quello strano mattino d’inverno. Dopo circa un minuto, trafelato e spaventato, apparve il portiere Gondrano, chiamando a gran voce: “ Sangallo, Sangallo, per carità, torni a casa!… Si piglierà un malanno e poi daranno la colpa a me!” Ma ormai Sangallo, perduto nel suo delirio, non lo poteva più sentire e anche se lo avesse udito… Il ricordo I ricordi sono la struttura interiore di ognuno di noi e ve ne sono alcuni che rimangono impressi e indelebili nei nostri animi, pronti a ricondurci con la memoria al tempo in cui sono stati vissuti. Basta davvero poco a volte, un profumo, un colore, un brano musicale e la nostra mente rivive quel momento che ha segnato, in qualche modo, la nostra vita. Dunque il nuovo argomento richiede lo sforzo della vostra memoria e il desiderio di condividere quell’istante essenziale con noi. Rossana Roxie Lozzio Hai cambiato la mia vita Partita all’improvviso per non tornare più Non ho amato più nessuno non apro il cuore più. Sì, quel giorno sei partita faceva caldo ma dentro è sceso un freddo gelido che è ancora in fondo a me. E il mio pensiero vola ti cerca e non ti trova… Eri tutta la mia vita non te l’ho detto mai Hai portato via in un attimo la luce che era mia Come un vento gelido che soffia e spazza tutto via Una madre fantastica toccata in dote a noi Eri proprio una favola e chi ci crede, ormai… E il mio pensiero vola risposte mai non trova Hai cambiato la mia vita andandotene via Ti sei spenta e in un attimo la luce è andata via… I colori accesi e vivi non torneranno più. Ogni tanto non ci credo è impossibile, sai! Ricordare fa male, non può essere, dai… tu rispondimi, adesso! La chiave dei ricordi Ho imparato a relegare i ricordi in un angolo remoto della mente, là dove, complice la mia cattiva memoria, non dovrei riuscire ad andare a ripescarli nemmeno se lo volessi! Ho la pessima abitudine, però, di spalancare la porta chiusa a doppia mandata dietro la quale so che si nascondono, soprattutto quando si tratta di te e pur sapendo che mi farò male, ne estraggo uno e lo trascino fino al cuore ed una luce così chiara e fastidiosa mi appare davanti agli occhi, come si accendessero decine di lampade al neon e m’impedissero di vedere altro che te, nella tua magnificenza! Sono pochi, i ricordi che ci vedono insieme, per lo più sono legati solo a te, alla tua bellezza, alla tua voce… e quando ripenso a quei rari momenti vissuti al tuo cospetto, mi ritrovo a sorridere e nello stesso tempo, mi commuovo. Se sapessi quello che smuovi da sempre, qui dentro… mi domando se e quanto ti sentiresti colpevole, adorabile carnefice! Invece, continuo a tacere, ad amarti in rigoroso silenzio e ad evitarmi di dover aggiungere un ricordo a quelli racchiusi dietro a quella porta blindata… un ricordo che diventerebbe indelebile e che vedrebbe me, delusa, amareggiata, prossima alle lacrime, mentre ti ascolterei affermare che non c’è speranza che quel presente che ci vede da sempre in separate sedi, si trasformi in un futuro comune. Non aprire quella porta sarebbe quanto di meglio potrei fare per me stessa… dimenticare anche dove lascio la chiave che ne apre la serratura, di tanto in tanto e che mi riconduce dritto da te. Invece, la chiave dei ricordi, è sempre con me, in qualcuna delle tasche del cuore, del corpo, dell’anima… esattamente dove so che abiti anche tu e dove corre la mia mano, ad afferrarla. Irma Panova Maino Il matrimonio In che modo comprendi che è giunto il momento e che è lui l’uomo della tua vita? Quando, guardandolo negli occhi, ti rendi realmente conto che desideri passare il resto della tua esistenza con lui? Forse quando te lo chiede. Forse quando s’inginocchia platealmente davanti a te con un bel mazzo di fiori in mano, dietro il quale il suo volto imbarazzato sparisce e ti chiede con voce tremante: “Vuoi sposarmi?” Francamente, fino a quel momento, fino a quando non gli ho visto posare quel ginocchio per terra, non mi era passato nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di sposarlo e tanto meno di passare il resto della mia esistenza con lui. Tuttavia, proprio in quell’attimo in cui si schiariva la voce e dava fiato alle trombe, mi sono resa conto che non era così assurdo prendere seriamente in considerazione la proposta. In pochi secondi mi sono passati davanti agli occhi tutti i trentadue anni della mia vita, tutti gli uomini che ne avevano fatto parte, tutte le sconfitte e le vittorie e mi sono detta, perché no? Credo che in effetti quel “perché no?” non fosse esattamente la motivazione migliore per convolare a giuste nozze, ma tant’è che dissi di sì. Peccato che me ne pentii praticamente nell’istante successivo, stretta nel suo abbraccio mortale, mentre farfugliava quanto fosse felice della mia risposta. A questo punto c’è da chiedersi perché non cercai subito di rimediare alla situazione e non cercai di porre un freno al suo entusiasmo. Se lo avessi fatto subito, avrei potuto contenere i danni, avrei potuto quanto meno evitare tutto il caos che si scatenò subito dopo e la sbronza colossale che mi presi entro la fine della serata e che mi tormentò con i suoi postumi per ben due giorni, forse tre. Peccato che mi nascosi proprio dietro a quei calici che vennero levati per festeggiare l’evento, sorridendo come un ebete da dietro il bordo fine di cristallo, osservando il mondo impazzito attraverso le bollicine scoppiettanti dello spumante. Nemmeno il mal di testa del giorno dopo riuscì a farmi rinsavire, nemmeno quello ebbe il potere di riportare un po’ di buon senso nei miei pensieri alcoolici. E tutto questo perché, per tutta la notte, ero stata ulteriormente convinta dal mio promesso sposo, il quale si era lanciato in tutta una serie di performance degne del più navigato attore porno. A seguito di una sollecitazione del genere, come potevo rifiutare? Come potevo tornare sui miei passi e dirgli semplicemente: scusa, lasciamo perdere? Non potevo. Non quando mi guardava con quei suoi occhioni azzurri e languidi, con quelle sue labbra imbronciate e mi sussurrava parole tenere e gentili alle orecchie, facendomi sentire l’orco e la strega cattiva in un miscuglio degno di Barbablù. Come potevo stroncare quella felicità che gli vedevo lampeggiare negli occhi, ogni volta che incrociavo il suo sguardo? Ma cielo! Che diavolo stavo combinato?! Forse non sarà stato il migliore degli uomini, ma era pur sempre una brava persona, un essere delicato e comprensivo, un uomo che riusciva comunque a infondermi una serie di sentimenti positivi. E nemmeno quelli erano una motivazione sufficiente per sposarsi. Avevo sempre pensato che quando fosse giunto il fatidico momento della proposta, mi sarei sciolta nel romanticismo, mi sarei sentita annientata da un’esplosione emotiva stratosferica, mi sarei dissolta in lacrime e avrei finito per tremare come una foglia… non che sarei stata sommersa da ondate di panico. E ancora una volta c’è da chiedersi perché non fermai quel circo che si scatenò intorno a me, trascinando nel vortice degli eventi sia gli amici che i parenti di entrambe le parti. Perché calcolai, erroneamente, di poterlo sopportare. Di poter far fronte ai doveri e di potermi godere i diritti. A trentadue anni era anche ora che mi sposassi, che uscissi dalla lista delle zitelle, pardon, oggi come oggi si chiamano single per scelta, anche se per quella degli altri, e mi lanciassi in quell’avventura coniugale a cui, bene o male, ogni donna aveva diritto di approdare, superata la trentina. A trentadue anni, con qualche rapporto naufragato alle spalle una serie di episodi più o meno tragici nella mia vita, probabilmente avevo tutti i diritti di meritarmi una stabilità e una sicurezza derivanti proprio da un matrimonio. In fin dei conti, se proprio fosse andata male, sarei stata una divorziata e non più una zitella. Certo che pensare ai preparativi per le nozze con in testa l’idea che, semmai dopo, avrei sempre potuto fregiarmi del titolo di divorziata e non più di zitella, non era proprio il massimo. E questo avrebbe dovuto dare un’ulteriore misura di quanto fosse profondamente sbagliato il passo che mi accingevo a compiere. Perché non me ne resi conto? Penso che a volte nella vita si opti per il male minore, per quello che pensiamo possa essere la soluzione ideale a tutti i nostri mali, dando una svolta definitiva a un percorso già fallimentare. Forse se ci legassero a una sedia e ci ponessero davanti a uno specchio, magari la nostra stessa immagine potrebbe in qualche modo farci rinsavire, magari sputandoci in un occhio. Peccato che difficilmente venga fatto uso di specchi in questi casi e non per l’utilizzo per cui andrebbero usati. Quindi, mi ritrovavo con un uomo in ginocchio, sprizzante gioia da tutti i pori, il quale si stava già lanciando nell’organizzazione dei preparativi mentre io restavo lì, attonita, a osservarlo in silenzio, con la mente che rincorreva pensieri confusi che sfuggivano continuamente a qualsiasi logica. Avevo appena acconsentito al matrimonio, avevo appena posto una seria ipoteca sul mio futuro e avevo appena accettato di passare il resto della mia vita svegliandomi ogni maledetta mattina di fianco a lui. Il sonoro e rimbombante clangore del portone della mia coscienza si richiuse con un tonfo assordante, dandomi la netta impressione di essere appena stata sbattuta fuori di casa. Di essere stata abbandonata nel nulla delle mie scelte sbagliate, con un enorme indice puntato verso l’infinito, sul quale vi erano scritte a lettere cubitali le parole: adesso arrangiati! Quando non si dà retta al buon senso, non resta altro da fare che arrangiarsi. D’altra parte, perché non avrei dovuto prendere in considerazione il mio futuro sposo? Era un bell’uomo, alto un metro e ottanta, bel fisico longilineo, capelli biondi, occhi azzurri, un tipo assomigliante alla John Voight, sorridente, spensierato, pronto a tutto per avermi… quindi dov’era il problema? Purtroppo lo scoprii dopo dov’era il problema e capii anche che cosa il mio stramaledetto subconscio aveva tentato di comunicarmi prima del fatidico “sì”. Ma accidenti, perché il subconscio parla in aramaico antico quando tenta di comunicarti qualcosa di importante? Perché non si limita semplicemente a esporre i fatti in modo chiaro e preciso? Perché forse ci sentiremmo ancora più degli idioti. Dopo sei mesi restituii il mio sposo alla sua famiglia, depositandolo sul zerbino d’ingresso insieme alle sue valigie e a tutte le sue cose, cercando di non sottolineare l’ovvietà del fatto, ovvero che mi avevano rifilato un “prodotto” che non era adatto a me. A lui piacevano gli uomini. Questo era il problema. E rendersene conto, trovandolo a letto con il testimone di nozze, non era stata esattamente una bella sorpresa. Non mi fece incazzare il fatto che fosse gay, mi fece diventare furibonda il fatto di avermelo taciuto. Accidenti a lui… se me lo avesse detto chiaro e tondo fin dal primo momento, forse lo avrei sposato ugualmente, ma la menzogna non riuscii proprio a tollerarla. Tuttavia, ancora adesso mi chiedo come fu possibile per lui avere rapporti sessuali con me, viste le sue preferenze… non lo saprò mai e forse nemmeno lui. Mio padre Ricordo mio padre. Un uomo che ho compreso solo nel momento in cui l’ho perduto. Un uomo che mi ha dato il suo nome, la sua casa, il suo affetto e il suo rammarico per non essere riuscito ad amarmi fino in fondo per ciò che ero. Ero troppo simile a mia madre, diceva. E lui era arrivato a odiarla. In verità lei aveva fatto di tutto per farsi odiare, per distruggere quel poco di rapporto umano che avevano costruito insieme, rendendolo un uomo acido, sofferente e perennemente insoddisfatto del proprio vissuto. Ma l’ho capito dopo, ho compreso la distruzione alla quale è andato incontro solo dopo che la terra aveva ricoperto le sue spoglie. Tuttavia, il momento in cui ho rivissuto tutto il nostro dramma padre/figlia è stato il giorno in cui sono dovuta andare a riesumarlo. Barbara abitudine di una società impietosa e crudele. Come si può pretendere che qualcuno dei parenti presenzi a un rito così orribile? Come si può pretendere che sia presente per constatare l’avvenuta “consumazione” del cadavere? Per Dio! Era un uomo prima di essere solo ossa e polvere! Ricordo il momento in cui hanno aperto la fossa, ricordo la mia solitudine per essere stata l’unica che ha avuto il coraggio (o l’incoscienza) di esserci. E le immagini di quegli attimi sono ancora impresse nelle anse del mio cervello, come tarli che ogni tanto vengono a tormentarmi, sottolineando la nostra stramaledetta inutilità su questo suolo terrestre. Siamo niente. Siamo solo ossa e polvere che un giorno finiranno per consumarsi del tutto, tornando a concimare quel terreno che abbiamo calpestato senza nemmeno vederlo. Siamo falene destinate a bruciare e stelle ormai spente, che ancora vagano nel ricordo della propria impronta orbitale. Siamo solo una frazione di nulla fugace, nell’immenso spazio del tempo. E io lì, ritta e ghiacciata, davanti a quella fossa aperta, ricordai solo l’uomo che fu. L’uomo che portava i suoi centoventi chili su un metro e ottanta di individuo senziente, colmo di un amore che non è mai stato compreso, né da me né tanto meno da mia madre. Un uomo che è morto nella solitudine di un letto di ospedale in piena notte, venendo a darmi il suo saluto quando già il suo ultimo respiro veleggiava nell’etere. Un’ombra appena percettibile, il tocco di dita invisibili che mi hanno appena sfiorata, trasmettendomi ciò che la carne e il sangue non erano state in grado di comunicare. E in quella mattina gelida, mentre riponevano i suoi resti in quella che sembrava una scatola per scarpe, solo un poco più grande, mi sono chiesta più volte come potevano entrare le sue spoglie in un contenitore così piccolo. È stato allora che gli ho rivolto il mio saluto di figlia. L’ultimo. L’ultimo viaggio Lo faremo insieme Tenendoci per mano E sorridendo alla vita L’ultimo viaggio Lo faremo insieme Nel silenzio Del mio cuore Andrea Leonelli Poi torni a ora Ricordi Come fiumi Una goccia che diventa Un fiume in piena Basta niente Per tornare Viaggiando Impotenti a opporsi Involontari passeggeri del sé A momenti Seguendo il filo L’incisione della mente Sentirla con le dita Come un bassorilievo Leggendo il braille della mente Riscoprendo se stessi Nel dolore atroce Nella gioia incredibile Nell’estasi di attimi E poi paura Perdite Ognuno ha scolpito in se Il proprio passato Creato ad arte dalle mani del proprio sentire A volte come strappato alla vita e cacciato a forza nella memoria Rimanendo Attimo Indelebile Magari impolverato ma incancellabile Sono frasi Sono suoni Sono a volte microscopiche ma profondissime stilettate Altre volte lievi ed estese abrasioni come a scivolare sull’asfalto della propria vita Ferite piccole e sporche o incisioni nette e ricordi chi ti sutura l’anima confortandoti senza grazia Nella mente gioie e dolori Quelle estasi che devono provare i panni stesi al sole o i fiori schiudendosi per la farfalla la gioia degli occhi nel vedere l’amata la dolcezza magica di due labbra che accarezzano uno stringersi di mani Poi torni a ora E continui a costruire i tuoi ricordi Ricordi Ricordi che rimangono come segni sulla pelle come immagini impresse sulle lastre della memoria stampe della vita appese alle pareti del nostro essere flash di sensazioni che ti assalgono al sentire musiche, profumi e colori oppure guardarsi allo specchio e vedersi finalmente come ti ricordavi di essere ma eri senza chiarezza momentanee amnesie di se stessi il sapore dei sogni quando apri gli occhi il calore sulle mani si ricorda sempre tutto alcune sfumano altre restano nitide ma tutte dentro lasciano il segno anche dopo solo un attimo hanno già il loro posto nella memoria Nadia Milone Il regalo Sarebbe bello chiudere gli occhi e far finta che non sia mai successo, che tutto quel dolore che mi ha soffocato in questi ultimi mesi, non fosse altro che un brutto sogno. Ma non è così, non è possibile far finta di niente. E proprio questi sono i giorni più tremendi… Esattamente un anno fa, come oggi, era il mio compleanno. Auguri, festa, torta, il tutto organizzato in un bellissimo villaggio turistico della Sardegna. Cosa avrei potuto desiderare di più? Un regalo… Oh sì, un regalo! E’ arrivato eccome! Proprio lui me l’ha fatto… il regalo più spietato e crudele. Poche parole in un messaggio mi hanno fatto capire quanto poco contassi e quanto poco valessi. ” Non voglio problemi, io non mi rovinerò la reputazione”. Questo contava per lui, la reputazione. E io ho sputato sangue per difendere quello che credevo potesse sbocciare tra noi. E invece? Un’illusione, un’utopia, immaginazione… ecco cos’era. Avrei dovuto scacciarlo dalla mia mente come un insetto fastidioso, ma non ce l’ho fatta. Ogni giorno lui era lì, nella mia mente, con quelle parole che mi uccidevano giorno dopo giorno. Durante questi mesi, ho cercato di andare avanti in qualche modo e non pensare. Forse ci sono anche riuscita. Ma oggi… dannazione, oggi è il mio compleanno, di nuovo! E i ricordi mi assalgono e mi travolgono, come un anno fa. Sarà sempre così? Il mio compleanno sarà sempre una ricorrenza malinconica? Spero di non ricevere altri regali, mai più… Andrea Mazzolini Io le tue labbra ricordo, improvvise Io le tua labbra ricordo, improvvise. Vino e miele ricordo, luna e sole. Un aroma che inebria, dolcezza che consola. Un fuoco che divampa, il buio che riposa. Io le tue labbra ricordo, improvvise. Avrai letto stupore nei miei occhi: come la prima volta che si vola, la prima volta al largo con la prua. Tu sei talmente bella che ancora non ci credo, fu l’ultimo pensiero prima di naufragar sulla tua bocca. Le tua labbra ricordo, inaspettate in quella sera tiepida di maggio. I tuoi baci son vento tra le foglie, echi di canti antichi, spiagge di cielo, nuvole di mare. I tuoi baci, improvvisa primavera di fiori nuovi sui miei prati bianchi, un ricordo che il tempo non cancella. Tu sei talmente bella che ancora non ci credo. Elisabetta Bagli Luis “Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare praticamente tutto. Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono precipitato qui. Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo farlo. Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì davanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove abita e non sarebbe un problema. Solo sì. Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo.” Guardo Luis senza parlare. Non so che dire. Me l’aspettavo. Era esattamente ciò che volevo dopo tanti anni insieme, dopo aver fatto dell’aereo la nostra casa. Roma-Madrid-Roma, la tratta più battuta degli ultimi nove anni. L’amore. La mia prima volta. Il nostro desiderio di creare una famiglia. Tutto coincideva. Tutto portava a questa meravigliosa dichiarazione d’amore. Perché non parlo? Perché non gli dico: “Sì”? Che mi succede? Lo guardo e mi sento combattuta. Vorrei saltargli al collo e gridare con tutto il fiato che ho in gola: “Sì, ti sposo, perché sono felice con te, perché ti amo, perché mi hai fatto scoprire il mondo, mi hai dato la gioia di sentirmi amata per quello che sono, perché sei il mio uomo, sarai il padre dei miei figli…” E, invece, sono qui. Bloccata. Siamo in piedi ad un angolo del “Tempio di tutti gli dei”, il Pantheon a Roma, la mia città. Nemmeno i raggi intensissimi del sole che entrano dall’Oculus al centro della maestosa Cupola, illuminando i nostri volti, riescono a dissolvere quella nube che si sta facendo sempre più fitta nella mia testa. Perché non parlo? Perché non gli dico:“sì”? È semplice, davvero un’unica semplice cosa dirlo. Non ne sono ancora capace. Per un’interminabile frazione di secondo, davanti ai miei occhi si è materializzata la tua figura. So che non sei qui. So che sei un prodotto della mia mente, ma ti vedo. Bello, sorridente, felice che mi guardi e non mi vedi, come sempre. Ho sofferto in silenzio sapendo che per te non sono mai esistita. Perché sperare ancora che a pronunciare quelle parole sia tu e non Luis? Ormai ho perso il conto degli anni che ho vissuto nell’illusione tutta mia che un giorno forse, grazie a un miracolo, l’avresti fatto. Ma tu non mi hai dato speranze, mai. Perché continuare ad amarti così? Perché farmi del male e farlo soprattutto a Luis che mi ama immensamente? Eccolo! Ora che vedo il suo volto che mi scruta, in attesa di una mia risposta, ora che sento il calore del suo abbraccio, che mi asciuga con il suo fazzoletto le due lacrime che stanno scendendo sul mio viso, senza conoscerne il motivo, so che ti devo lasciare per sempre. Già l’avevo fatto. Sono nove anni che non mi ritornavi in mente così prepotentemente come sta accadendo ora. Ora che non dovevi. È un passo importante per me, un passo che vale tutta la mia vita, il mio futuro, la mia felicità. Ma chi me lo dice che con te sarei felice e con Luis no? Ho trascorso nove anni meravigliosi con lui. Sono stata e sono felice con lui. Lo sarò anche in futuro. Non voglio pensarti un minuto di più. Non voglio rimanere ancorata al ricordo di chi non mi ha mai visto né come bambina, né come adolescente, né come la donna che sono diventata. Tu conoscevi la mia esistenza. Avevi semplicemente deciso d’ignorala. Perché io non dovevo fare lo stesso con te? Mi sono costruita le basi per una vita alla quale andrò incontro con il sorriso sulle labbra, senza te. Se rispondo di “sì” a Luis, so che la mia vita cambierà totalmente. Dovrò fare le valigie, mettere tutto il mio mondo lì dentro, portarmelo dietro e crearmene un altro. Ma lo voglio? Sì che lo voglio! Lo voglio! Voglio vivere il mio sogno, quello possibile, l’impossibile rimarrà per sempre impossibile. Voglio vivere l’avventura della mia vita insieme a Luis. Voglio farlo ed amarlo con tutta me stessa. “Sì, Luis, amore mio, ti sposo!”. Con uno slancio l’abbraccio forte. Il mio cuore gli sorride. Luis mi mette l’anello al dito e me lo bacia. Il raggio di sole che illumina le sue labbra felici, lo rende meravigliosamente bello. Il sole ha rischiarato la mia mente. Ora so che la mia decisione è quella giusta. Gabriele Palumbo Orme Nei momenti di solitudine vorresti mandare a fanculo la tua testa…il silenzio faceva eco ai miei pensieri, e io pensavo sempre al passato, se pensavo a bei momenti rimpiangevo che non potessero più tornare, se pensavo a momenti negativi rimpiangevo il fatto che sarebbero potuti andare diversamente…in ogni caso avrei preferito non pensare…ma era impossibile…tutto ciò che avevo visto o fatto nel corso della mia vita mi tornava in mente come un insieme disordinato di immagini e suoni: vecchi amici, vecchi amori, viaggi fisici o mentali che fossero…ricordavo tutto…fluttuavo nel nulla insieme alla mia mente…ormai non contava se fossi tra le quattro mura della mia stanza o fuori in mezzo a chissà quante altre teste pensanti…ormai non contava niente…ero chiuso in me stesso…decisi di uscire e dopo un po’ mi ritrovai davanti ad un viale alberato, sulla destra si vedeva una catena di montagne dalle vette ancora innevate, l’aria era fresca, ma il calore del Sole rendeva la giornata piacevole…mi fermai a guardare il paesaggio e tornai a pensare:” quante cose avevo fatto, cose piacevoli da ricordare, cose che non avrei mai voluto vivere, cose da andarne fiero e molte altre no…e sapevo che ne avrei fatte ancora tante”…ripresi a camminare… i pensieri mi seguivano ovunque andassi… Ricordi futuri Ogni volta con gli amici si parlava di ciò che avevamo fatto insieme…ogni santa volta ridevamo e scherzavamo pensando alle solite cazzate fatte in passato…e ridevamo e scherzavamo…ogni volta…ma a cosa serviva mi chiedevo…perché continuiamo a rifugiarci nei ricordi…e perché poi erano sempre i bei ricordi ad uscire fuori in quei momenti, mentre quelli negativi ti assillavano quando eri solo e disarmato, quando erano più difficili da tenere a bada…ogni volta era sempre la solita storia, ti divertivi certo, ma era solo un modo per non guardare in faccia la realtà, la tua realtà, la nostra realtà…ci rifugiamo nei ricordi ogni volta che non abbiamo il coraggio di pensare al futuro…o forse perché siamo consapevoli che i ricordi che avremmo in futuro saranno unicamente di quelli che ci tormenteranno nei momenti di debolezza… Alessandra Elisabeth Gravestone Paoloni Per non morire Come tante lame taglienti, che la carne fanno sanguinare, i ricordi che in noi si ridestano non sono altro che l’inganno per non guardare avanti e continuare a vagare nell’incertezza del futuro. A volte mi aggrappo a uno di essi e non vorrei staccarmene. A volte invece li rifuggo, e sono demoni avvinghiati alla mia mente, inerpicati su per la memoria. E tra questa altalena di rimembranze costruisco il mio bagaglio di attese; perché nulla di ciò che è accaduto potrà essere cancellato, e tutto ciò che costruiamo apparterrà al ricordo di noi e di quello che ci lasceremo alle spalle quando il viaggio avrà fine. Per non morire con esso. Angelo Francesco Anfuso Piegato dal tuo ricordo Il tuo ricordo mi ha piegato… Vorrei stare da solo, senza nessun accanto. Vorrei restare in silenzio senza nessuna Voce. Eppure mi tormenti, ti sento sempre, sei assillante, mi hai fatto male, mi hai ferito profondamente. Pochi anni di gioia immensa tramutati in un tormento eterno. Cosa mai c’è di buono, affinché io possa ricordare? Cosa mai potrò raccontare al mio futuro? Dimmelo! Dimmelo tu! Io non ho parole, non ho la forza, non ho il coraggio. Mi rammarico l’animo per il tempo che ho vissuto con te, delle tue false illusioni, delle tue tante maschere… delle tue…. Non sei mai stato vero, non sei mai stato nessuno, hai recitato benissimo la tua parte. Eppure, quando cammino per i vicoli del centro, ricordo quei momenti trascorsi assieme, le tue dolcezze, le tue attenzioni. Io, ricordo tutto di te. Ma alla fine, mi hai dato il ben servito, tradendo la mia fiducia, la mia dignità. Non ho forza alcuna, il tuo ricordo continua a piegarmi… Hai infangato la mia persona, mi hai reso parte integrante della melma di putride acque… Il Tuo ricordo mi fa letteralmente male, mi rimbomba in maniera assillante nella testa come un eco senza via di uscita tra le vette dei monti… Pace! Questa sola desidero: un po’ di pace. Adesso, lasciami! Lasciami stare, affinché io possa inneggiare a questa cruda e bastarda sorte. Mi hai abbandonato, umiliato… Ma tu, che cosa sai della mia vita, di quello che ho vissuto, di quello che ho passato, del pane amaro che ho dovuto ingoiare e della assurda arsura di un’acqua senza ristoro… Oh, ricordo amaro è il mio vissuto con te. Lasciami stare, non tormentarmi ancora nei miei ricordi, privi di luce e di speranza… Voglio solo cantare alla vita, affinché mi ascolti, affinché mi veda, affinché interceda a colui che tanta meritevole grazia mi ha negato. Tu, non mi hai mai amato, non hai mai condiviso un attimo d’amore con me. Sei un vero attore, hai fatto della mia vita una tragedia, il grande Eschilo è stato superato. Ahimè! Eterno ricordo tormentoso, il mio. Dammi pace, dammi conforto, per tutte quelle volte che ho versato lacrime. Ma tu, che ne potrai mai sapere? Elevo i miei occhi nella notte, fissando il cielo, le stelle, chiedendo loro ausilio, conforto, sperando che il tutto fosse un sogno. Tutti tacevano, solo la voce del tuo ricordo mi assillava. «Dove ho sbagliato? »- Io mi domandai! «Che cosa ho fatto mai? »….. Ad oggi, tutto tace, nessuno mi risponde, nessuno mi ascolta, nessuno mi degna di uno sguardo, nessuno mi presta una misera attenzione. Oh, luna! Perché ti adombri al mio lamento. Tutto il creato si oscura al mio canto, solo la tua voce, il tuo ricordo resta acceso in me. Ma perché? Perché non ti spegni? Forse perché io ti ho amato veramente, ti ho dato tutto di me stesso, tutto quello che avevo. Che ricordo mai avrò di te? Solo un ricordo di un tempo prezioso, ormai passato, ma tutt’ora presente… Mi hai piegato, mi hai reso un verme… Il mio è un doloroso ricordo… Mariella Bernio Ricordi E le stelle che graffiavano il cielo ai miei occhi erano lucciole salite troppo in alto per respirare l’alito di Dio. E ogni giorno la vita ricominciava con me e il mondo era un balcone a cui affacciarsi piano. Sono stata felice sotto quel grembo di cielo, ora sono i battiti del cuore a segnare quel tempo lontano ché, tornando, più non si trova ciò che si ha lasciato ma solo i ricordi ti corrono incontro nella carezza del vento che abbraccia una casa un cortile una bimba seduta sull’uscio a sognare Adrena (Maria Capone) Stralcio del libro “Una donna come tante” Che gioia sentirti scalciare! Tutto a posto quindi? Bene. Oggi ci aspetta un bel po’ di lavoro, dobbiamo uscire, comprare le tempere colorate e disegnare il muro della tua stanzetta. Avevo pensato a due enormi pesci posti uno di fronte all’altro immersi in una marea di bolle dal celeste più chiaro al blu più intenso al verde cobalto. E le alghe, i cavallucci marini, le stelle di mare, le conchiglie… Che cosa ne pensi? Se sei d’accordo, tirami un calcetto ma non farmi troppo male eh… È bellissimo sentirti nuotare e soffermarmi a parlare con te tra mille carezze. Mi chiedo spesso se tutte queste carezze che faccio alla mia pancia ti arrivino sotto forma di vibrazioni o di non so che cosa. Ho paura che non avrò mai una risposta… Non vedo l’ora di averti qui, di portarti incontro al sole, di farti conoscere il mare. Ogni volta però ho una percezione strana… è come se tu già conoscessi il mare. Forse perché ti ho sempre detto che altro non è che un sacco più grande di quello dove vivi con un sapore diverso. No, non è solo questo. La sensazione che ho quando vado al mare è che tu voglia assolutamente immergerti con me tra le sue acque per vedere attraverso i miei occhi, per sentire il suo profumo attraverso il mio naso. Sento che il momento è vicino… presto ti avrò tra le mie braccia. Bambino mio, a volte durante la mia attesa, ho avuto paura di questo momento, presto ti staccherai dal mio corpo per affacciarti alla vita e io, da quel momento in poi, dovrò dividerti con il mondo. Come potrò abituarmi a vivere di nuovo, da sola, senza te dentro me? A proposito abbiamo deciso che ti chiamerai Andrea a prescindere se tu sarai un bambino o una bambina, sia io, sia tuo padre, non abbiamo mai voluto saperlo. Chissà se ti piacerà… E chissà se ti piacerò… Posso dirti soltanto che sono certa che non cambierò mai e che tu imparerai ad amarmi e odiarmi contemporaneamente. Deb Lee Tentavo di non ricordare Tentavo di non ricordare, stavo bene così, che male c’è? Cercavo solo di non farmi male. I ricordi sono quanto più si avvicina a una lenta agonia. Avete notato che nei ricordi restano indelebili soltanto le cose brutte? Le cose belle sono le prime a svanire del tutto, diventano flebili: ti ricordi un tuffo al cuore, rammenti un senso di gioia passeggero, che si dissolve in un piccolo sorriso. E invece il dolore resta: quando ci ripensi è ancora dolore, è dolore di nuovo e sarà così in eterno. Allora io, semplicemente, cercavo di non ricordare. Avevo messo sotto chiave il tuo volto nel cuore e avevo costretto la mente a non ricordarlo, a non mandarmene immagini; persino se ti vedevo in giro, ingannavo la tua presenza con altri pensieri: eri l’innominabile, il non ricordabile, il dimenticato. Cercavo davvero di non farmi male. Ma tu torni, come sempre tornano quelle cose che ci hanno fatto davvero male. Torni, sorridi e sei più bello che mai. Sei così muto e intoccabile, che persino il tempo si ferma a guardarti. Allora se torni, io non riesco a non ricordare, non riesco a dimenticarmi di te e rischio di non poterlo fare mai più. E sei sempre così serio e distante, nelle tue forzate rimpatriate, diverso. Sei un altro te, ben lontano da quello che avevo conosciuto e amato; e noi siamo distanti, ora. Tra di noi c’è quel genere di lontananza che non avrei mai desiderato avere proprio con te. Quella lontananza che ti divide per sempre. Ed ecco che il cellulare suona, mi hai scritto; ti rispondo ma il cuore salta un battito, di cosa stiamo parlando? Siamo due estranei, non siamo più noi… chilometri e chilometri di strada ci separano e sebbene io vorrei davvero rimettermi a camminare per raggiungerti, so che tu non lo farai. Perché tu fai così: torni soltanto per farmi male ancora un po’, torni per ricordarmi quanto me ne hai già fatto e per mostrarmi quanto mi manchi. Torni un po’ per dovere, un po’ per gioco, un po’ perché… forse non lo sai neppure tu. Ma poi vai via ancora e ancora, per un altro milione di infinite volte. Non posso più sopportarlo. E’ come stare lì, ferma, a permetterti di spezzarmi il cuore e di rievocare dalla mia mente tutti quei pomeriggi di noi… consapevole del male che mi stai facendo. E sorridi, tu sorridi mentre ripercorri la strada dei ricordi… E sorrido anch’io, a volte, ma solo per un attimo. Giusto il tempo per realizzare che la gioia che sto provando nell’aver di nuovo tue notizie, sarà rapida come un fulmine nel cielo, che mi colpisce però in pieno petto. E’ solo per un attimo, la mia gioia che sa di te, e sarà così per sempre. Perché non mi puoi offrire più di quell’attimo, non mi puoi dare nient’altro, non vuoi. Però quando vai via, lasci qualcosa: qualche segno, qualche ricordo, qualche amara traccia d’amore… qualcosa di tutto quello che è stato e che non sarà mai più. Anna Cibotti Un segno indelebile Appena pochi anni dopo la fine della guerra, nel collegio dove stavo assieme ad altre bambine orfane come me, c’era una situazione a dir poco precaria. Le suore, nonostante gli aiuti, non riuscivano a provvedere in modo adeguato alle nostre esigenze materiali e la scarsità del cibo unita alla mancanza degli affetti familiari, resero la nostra infanzia il momento più difficile della nostra vita. Il giorno di Natale una famiglia del paese ospitava una di noi per quella giornata di festa e quello è rimasto per me il ricordo più importante e significativo. Mi capitò una coppia giovane con un figlio della mia età; cinque anni. La loro casa era bella, spaziosa e accogliente. L’ abete addobbato e luccicante era così alto che per vederne la punta dovevo alzare completamente la testa. Era posto in un angolo della sala dove c’era la tavola apparecchiata con una bella tovaglia rossa. Fu il mio primo pranzo completo di ogni ben di Dio. Mi sentii a casa, felice. Passai delle ore serene e desiderai ardentemente che la giornata non finisse mai. Quando arrivò il momento di ritornare dalle suore scoppiai a piangere. Avrei voluto restare li’ per sempre. Mi ritrovai invece al portone del collegio con un sacchetto pieno di mandarini e castagne secche. Fu tutto quello che mi rimase di quella giornata. Sentii un senso di abbandono e di perdita, quando mi salutarono. Nei giorni che seguirono sperai che da un momento all’altro mi chiamassero per dirmi che mi erano venuti a prendere per portarmi a casa con loro. Ma i sogni restano tali. Li rividi ogni Natale per altri quattro anni ed ogni volta il distacco fu tristissimo. Il loro figlio morì. Saltò in aria pestando un residuo bellico, al fiume, mentre giocava con altri bambini. Aveva nove anni. Quel Natale prima della disgrazia fu l’ultimo che passai con loro. Un ricordo incancellabile, una scuola di vita. Imparai a desiderare solo le cose possibili e lottare per averle. Ai sogni ho dato poco spazio e agli amori non ho permesso di farmi soffrire. Gli ho voluti e lasciati sempre quando l’ho voluto io. Ogni anno da allora il giorno di Natale è il più bello e il più triste dell’anno. Quando si fa’ sera provo intensamente ancora quel senso di perdita e di solitudine che il tempo non è riuscito a cancellare. Predatore e preda Questo nuovo argomento, Predatore e Preda, ha fatto discutere molti dei nostri autori. Alcuni si stanno già mettendo le mani nei capelli, cercando di capire in che modo far scaturire dalla propria fantasia qualcosa che possa restare attinente al tema prescelto. Il paradosso nasce dalla questione che la tematica è stata scelta e votata proprio dagli autori e il fatto che ora non sappiamo come affrontarla, rende questa sfida decisamente più gustosa! Carissimi i miei Portatori di Penna, sono ancora più orgogliosa di voi proprio per questa vostra capacità di affrontare le avversità e superarle brillantemente. Gabriele Palumbo A caccia dei tuoi occhi Resto immobile aspettando il momento giusto, resto acquattato tra l’erba alta attendendo con pazienza l’attimo perfetto per saltarti addosso…ma nessun momento mi sembra mai quello giusto… ti vedo, mentre ti abbeveri al ruscello ti volti e due occhi da cerbiatta incrociano i miei, ma non fuggi, perché non scappi via?…Vuoi essere presa? O sai che il lupo solitario non si deciderà mai a fare la sua mossa?…Quello sguardo mi ha messo in difficoltà…non riesco a decidermi…faccio un passo avanti lentamente e mi fermo ancora ad osservare…ho fame, non ho mai fallito un agguato, perché allora non mi decido?!…Ti volti ancora una volta e fuggi via…rimango fermo poi decido di insegurti con tutte le mie forze, ma troppo tardi…ti ho visto per l’ultima volta tra le fauci di un altro predatore, rimasto nascosto fino alla fine…io non ti avrei azzannato, ma questo non lo saprai mai… Angelo Francesco Anfuso Afferrato dalla Tua bellezza Il tramonto, si inclina al suo giorno. Ti osservo, sei disteso, stanco sulla riva del mare, un mare calmo e senza onde. I miseri raggi ti sfiorano dolcemente, il debole fruscio della marea soccombe il tuo silenzioso lamento. Uomo docile e di bell’aspetto, unico nel suo genere. Mi sono avvicinato, e Tu piangevi… Non dicevi nulla, non chinavi il capo per ripiegarti dalla vergogna Mi fissavi nel silenzio del vespro. Il tuo silenzio, il tuo corpo tra la riva, baciato dalla schiuma delle onde, e lambito dal sole, oramai dormiente, tiepido, mite, di poco affetto. Le tue lacrime… Che meraviglia la tua presenza. Rimasi immobile, fermo ad assaporare quell’istante. Mi sentii rapito dalla tua bellezza, trasportato dalle deboli onde in cui tutto sembrava rinascere. Il tuo riflesso sopra quell’acqua limpida, azzurra, trasparente, raddoppiava la tua bellezza, la tua sensualità, sofferente e sofferta. Chiudo gli occhi. Mi avvicino, sento il tuo profumo, il tuo odore. Mi sfioravi con garbo, mi coccolavi nonostante piangessi. Entrai in un sogno, toccai le vette dell’Estasi lasciandomi alle spalle il mio passato. Mi lasciai trasportare senza esitare. Che destino sarà mai, il mio! Il sole è deceduto, notte, buio e tenebra si calano dal cielo. Dove sei, mia bellezza! Non ti vedo, non ti sento, non sento il tuo profumo Mi hai afferrato, fatto tuo. La tua bellezza mi ha divorato. Mi hai reso cieco, hai privato i miei sensi di ogni loro capacità. Il tuo pianto… Era il mio grido disperato. Non ti vedrò mai più, non sentirò il calore delle tue mani sulle mia pelle, il tuo profumo, soave fragranza per il mio olfatto, il tuo lamento, il tuo… Ormai ti sei saziato, o forse hai saziato me. Chi è il predatore tra noi? Chi la preda? Mi hai nutrito con il tuo fascino, caldo e sensuale. Mi hai divorato. Solo ora comprendo, solo ora non vedo ma sento che siamo una sola cosa. Un solo spirito, ecco quello che siamo. Una sola cosa… Rossana Roxie Lozzio Chiudo gli occhi Provo a chiudere gli occhi e immagino… ci siamo noi, insieme, l’uno di fronte all’altra. Io ti amo, tu no ma non farà differenza, tu sei molto abile… ci sono anni di esperienza, c’è il tuo essere predatore, ci sono i giochi che sai fare. Mi muovo, ti muovi e mi tormenti, camminando in quella maniera che ho imparato a distinguere e che cattura la mia parte animale e sembri pronto a gettarmi una sfida, nonostante sia evidente che non sono altrettanto pronta a raccoglierla. Allora, mi guardi e ti decidi a mettere in atto il ruolo che ti calza a pennello. Ti avvicini, istrione intrigante… mi provochi, con occhi scuri e maledettamente accesi, ti diverti, perché sai che sono già nelle tue mani, preda consapevole del tuo fascino. Non mi porrai domande, non ci saranno risposte, nemmeno parleremo… non ci sarà bisogno di dirci che sarò il tuo prossimo giocattolo e che, come fossi creta, saprai e potrai creare quello che sento di essere da sempre ma che non posso manifestare. La donna nata per essere la tua compagna. Costasse quello che costasse… perché, lacrime, dolore, fatica e dispiacere, saranno sempre meglio della devastazione che si riappropria di me, mentre riapro gli occhi e per un’ennesima volta, prendo atto del vuoto che mi vive dentro e mi divora, nella tua stramaledetta assenza. Andrea Leonelli Dispenso dolore Dispenso dolore E sale sulle ferite Cauterizzo organi Sani Il mio vivere Disfunzionale Mi punisco Godendomi Le pene inflitte Specchiandomi Nei chiodi Che pianto Soave Nell’ossa altrui Uccido la speranza Vestendola da illusione Slogherò le articolazioni Con ogni menzogna E sentirò nei miei Tendini il tuo dolore Ravvivato dal mio scrollarti Mi auto torturo Martoriandoti Sento Consapevole Le pene che infliggo Le gusto già prima Come se volessi anche il diritto Di provar orrore Prima di te Privandoti in parte Dell’orgasmo totale Del martirio Apoteosi d’autolesionismo La belva Ti mangia mentre l’assapori É un pasto che non sazia Ma divora É la fame che cresce Ti possiede Ti sacrifica a sé Mentre ti immoli In ansiti e rantoli E godi la tua preda Son morsi liquidi Che gocciano In comunioni D’occhi fusi Inchiodati nell’altro sguardo In se riflessi In eguale fame In medesimo desiderio Insostenibile Insaziabile E affondare le fauci Di sguardi predatori orgasmi Passioni incontenibili In fluidi mescolati Assaporati Condividendo Esplosioni di piacere E volerne sempre Sempre di più E ancora Senza limiti Né fisicità Né tempo Solo e sempre Fame Di te Irma Panova Maino Ero io il cacciatore Mio era l’onere. Mie le sensazioni. La scelta era ricaduta istintiva, complice, naturale… Sentivo la preda. Era confusa, incerta, lacera… Ed era l’odore del sangue che mi aveva condotta a lei. Quel timore manifesto, la frenesia, la ferita ancora aperta… Perfetta. Era perfetta per la mia fame. Perfetta per il desiderio di carne e sangue, di possesso e conquista. Per la mia caccia. Come una belva, trattenuta troppo a lungo, mi sono avventata, incauta, bramosa, cogliendo quell’attimo in cui la distrazione è divenuta fatale. Quel sentore pungente e accattivante del suo strazio ha scatenato i miei sensi, riducendoli in cenere, annientando ogni precauzione, ogni istinto venatorio, ogni regola così faticosamente segnata sulla propria pelle e sulle proprie ferite. Fame. Nient’altro che cieca e sorda fame incontenibile, richiamata da quei fremiti guizzanti sotto una pelle pronta per essere lacerata, squarciata, dilaniata… Zanne gocciolanti saliva e artigli protesi fino allo spasimo, occhi ardenti e famelici, concentrati per cogliere ogni sfumatura, ogni possibile tentativo di fuga… ero pronta. Pronta per la mia preda. E lei mi ha colto. Attanagliato e avvinghiato nel suo strazio, portandomi a fondo con lei, annegandomi in quel dolore infinito che pareva non avere confini né limiti. Quanto potevo ancora ferire un animo così devastato? E quanta sofferenza potevo ancora infliggere, restando insensibile? Porto la catena della mia scelta. Porto il collare che mi ha reso consapevole e volontariamente parte di una follia che non rinnego. E questo peso, dolce per la verità, placa la mia fame, sazia il mio bisogno, lasciandomi nell’attesa di vedere comparire di nuovo la mia preda. I passi – tratto da L’Erede Il porticato era ricoperto di ombre e la poca luce che giungeva dai lampioni posti sulla strada principale, non era sufficiente per dissipare le zone completamente immerse nel buio. Camminavo a passo spedito, impedendo all’apprensione di creare immagini terrificanti nella mente, continuando a ripetere che nulla si stava muovendo alle mie spalle e nulla si nascondeva dietro ad ogni colonna. Tuttavia, quel breve tragitto che mi separava dal portone di casa, mi parve improvvisamente più lungo di quelle decine di metri effettivi. Quanto ancora? Trenta, quaranta metri Forse qualcosina in più. Troppi in ogni caso. Un fruscio improvviso bloccò il mio passo a metà, costringendomi in una posa innaturale, dovuta più che altro per l’urgenza di voler cogliere quel suono prima che si disperdesse nel nulla. Mi voltai di scatto. C’era qualcosa in fondo al porticato? Qualcosa così confuso nelle ombre da non essere visibile? Oppure era la mia immaginazione a farmi vedere e sentire cose che in realtà non esistevano affatto? Rimasi tesa e immobile per un tempo che parve infinito, solo gli occhi schizzavano da una parte all’altra, timorosi di dare conferma a quanto solo l’immaginazione pareva alimentare. Era la forma di una mano, quella che sembrava spuntare vicina alla serranda del negozio in fondo? Oppure era la sagoma di un uomo, visto di profilo, quella che si delineava vicino alla rientranza del negozio di tappeti? Inspirai a fondo, sentendo brividi freddi solcarmi le vertebre, precipitando il coraggio in fondo alle scarpe. Quante volte avevo già fatto quel percorso, quel tratto di strada che intercorreva fra la mia abitazione e la zona centrale del paese, in cui erano situati la maggior parte dei locali e delle attrazioni turistiche? Quante volte ero rientrata poco prima dell’alba, se non addirittura dopo? E quante volte avevo avuto l’impressione di essere seguita? Mai. Mai fino a quel momento. Inspirai ancora, provando la sensazione che l’aria fosse diventata come piombo, che bruciasse nei polmoni, soffocandomi il respiro. Nulla. Non c’era assolutamente nulla. Niente che potesse impensierirmi o dare conferma alle sensazioni. Tuttavia la sgradevole impressione di non essere da sola continuava a persistere. Mille pensieri si affollarono nella mente agitata. Mille supposizioni, una più terrificante dell’altra. E altrettante soluzioni si affacciarono nella confusione, accavallandosi disordinatamente, mescolando argomenti difficilmente compatibili fra di loro. Mai dare le spalle al pericolo… Mai abbassare lo sguardo… Mai guardare il nemico degli occhi… Mai sfidare con lo sguardo uno psicopatico… Mai dimostrare il panico… Ma da cosa dovevo guardarmi realmente? Alla fine cedetti. Per quanto assurdo potesse sembrare, mi voltai su me stessa e mi misi a correre. Il portone mi arrivava addosso a velocità spaventosa, mentre cercavo di raggiungere la sicurezza. Il tunnel del porticato mi si strinse attorno, aumentando il senso di panico e di soffocamento, allungandosi ad ogni metro percorso, come se non dovesse avere mai fine. La mano tremava quando raggiunsi finalmente le porte in vetro e i primi tentativi d’infilare la chiave nella serratura si persero nel vuoto. Calma! Finalmente la stramaledetta chiave trovò l’alveo in metallo e scivolò con relativa facilità nel suo alloggiamento. E allora lo sentii. Avvertii quel fiato sul collo che preannunciava la mia fine. Non avevo dubbi in proposito. La vittima non ne ha mai quando arriva il momento. La preda sa sempre quando il predatore pone la parola fine alla caccia. Rimasi nuovamente immobile, totalmente conscia della presenza alle mie spalle e l’orrore per quello che vi avrei trovato, se mi fossi girata, m’impedì di voltarmi per guardare in faccia la morte. Qualcosa di umido e vibrante mi accarezzò la pelle del collo, scostandomi con uno sbuffo di fiato i capelli. Un naso… Umido e caldo. Inequivocabilmente ero annusata da qualcosa di così grosso che aveva dovuto ripiegarsi su se stesso per arrivare alla pelle delicata della nuca. Qualcosa di grosso, peloso e odorante di resina e foglie bagnate. Trattenni il respiro, appoggiai la fronte al vetro, evitando categoricamente d’individuare l’ombra alle mie spalle, la stessa che vedevo riflessa sulla superficie fredda. Un grugnito attirò la mia attenzione. Un suono basso, gutturale, vibrante in una gola che non aveva nulla di umano e comprensibile. Un suono così alieno che mi costrinse, mio malgrado, a sollevare lo sguardo, incontrando l’immagine nel vetro. Per quanto distorta potesse essere, era l’immagine di un animale. E per quanto l’ingenuità fosse l’ultima delle mie doti naturali, ciò che vidi mi lasciò pochi dubbi sulla natura del mio aggressore. Mi annusò ancora ed oltre al fiato, a quel punto registrai anche il fruscio dei suoi peli sulla pelle. Il lieve solletico prodotto da un pelo folto ed ispido. Oltre alla sensazione strabiliante delle sue zanne… Quella era la morte. Assurda. Impossibile. Inconcepibile. Non vi era alcun termine per poter descrivere le mie sensazioni di quel momento. Quante volte avevo fantasticato? Quante volte, scherzando, mi ero chiesta se poteva esistere una creatura simile? La risposta era là, a pochi centimetri dal mio collo, con le zanne snudate, pronte a colpire. E fu allora che mi voltai. Se era la morte, volevo vederla. Se quella era la mia fine, non me ne sarei andata con gli occhi chiusi, pregando nel miracolo o sperando in un possibile salvataggio in extremis. Volevo vedere. E volevo farlo con tutta la consapevolezza che l’attuale situazione mi poteva permettere. Mi voltai e fissai la creatura negli occhi, perdendomi nel mare profondo ed oscuro delle sue pupille dilatate. “Mio Dio… sei reale…” la frase mi scappò del tutto involontariamente, dimostrando tutta la meraviglia che provavo nonostante l’orrore iniziale. Sorrisi. Stupidamente, inconsciamente e, tenendo conto delle circostanze, in modo del tutto inopportuno. Cosa c’era da sorridere davanti a quel muso appuntito? Un muso in cui il biancore delle zanne offuscava qualsiasi altra cosa? E non c’era possibilità di errore. La pelle sulla sommità era arricciata in pieghe compatte, rughe profonde solcavano l’epidermide pelosa lasciando scoperta la bocca della fiera, socchiusa in un ghigno famelico. Tuttavia il suono della mia voce produsse un effetto rilassante su quel muso e lentamente la pelle tornò a distendersi, coprendo le gengive e parte dei lunghi denti. Forse, dopo tutto, non mi avrebbe sbranata subito. L’animale si spostò nervosamente da una zampa all’altra e raddrizzò tutto l’imponente corpo di qualche centimetro, come se non fosse più così sicuro delle proprie intenzioni. Emise un sordo brontolio impaziente e tutto il pelo ondeggiò al ritmo dei suoi muscoli tesi. “Vorrei toccarti…” Oddio! Che razza di idiozia avevo appena detto? La frase era sgorgata senza alcuna speranza di poterla fermare. Tuttavia era esattamente questa la natura dei miei pensieri. Volevo toccarlo. Infilare le dita in quel pelo folto e saggiarne la consistenza sotto i polpastrelli. Volevo sentire la sua carne guizzare sotto l’epidermide e bearmi della forza che poteva essere sprigionata dal suo fisico notevole. Amavo gli animali. Li avevo sempre amati e se non fosse stato per il fatto che non avrei sopportato l’idea di vederli soffrire, avrei studiato veterinaria. Tuttavia ero più che conscia del fatto che su cento esemplari che avrei potuto guarire e salvare, almeno un buon dieci per cento mi sarebbe morto fra le mani. E quelle morti non avrei potuto sopportarle, mi avrebbero straziato l’anima. Ciò che avevo davanti e che ancora mi guardava con aria famelica, era il Re di tutta la fauna presente in natura. Era il sovrano indiscusso di un mondo animale che presentava diversi aspetti poco conosciuti al mondo umano. Aspetti che avevo appena scoperto quella notte, segreti che mi sarei portata nella tomba. Paura, orrore, meraviglia, c’era di tutto nel mio sguardo confuso ed un desiderio inespresso che doveva essere in qualche modo soddisfatto. Almeno una volta… Dovevo poterlo toccare… Allungai involontariamente una mano e nel momento stesso in cui feci il gesto, la bestia scattò verso il mio arto proteso. I denti sfiorarono la pelle e la mascella si tese, pronta a far scattare la micidiale presa sul mio polso, pronta a perforare pelle e carne, a spezzare le ossa, triturandole, riducendo il braccio in qualcosa di sanguinolento e inservibile. Rimasi a osservare affascinata, incapace di distogliere lo sguardo dallo sfacelo che sarebbe avvenuto nel giro di pochi secondi. Tentando di preparami al dolore ed allo strazio. Tuttavia non accadde nulla di quanto mi ero aspettata di provare. Nulla. Ancora una volta nulla. Non chiuse la bocca. Rimase anche lui sospeso, a metà fra quello che doveva essere l’istinto e altro che non avrei saputo spiegare. Allontanò di scatto il muso dal mio braccio e chinò repentinamente la grossa testa, arrivando ad annusarmi il corpo. Rabbrividii sotto quell’invasione sensoriale improvvisa. Il tartufo, grande quanto un mio pugno, mi percorse da capo a piedi, sbuffando contro il tessuto dell’abito estivo, sollevandolo quasi quando raggiunse le gambe. Rabbrividii nuovamente e non avrei potuto dire che fosse solo per paura. Vi era qualcosa di primordiale ed eccitante in quel suo cogliere la mia traccia olfattiva. Qualcosa che richiamava altri istinti. Sollevò il muso, arrivando a sfiorami la pelle del viso, lasciandomi lievi solchi umidi sulla mandibola e sulla guancia. E il desiderio di toccarlo si fece quasi feroce. Tuttavia rimase solo un desiderio. Si allontanò da me con la stessa velocità con cui si era avvicinato e in pochi secondi lo vidi scomparire fra le ombre. Rintanandosi in quello spazio in cui anche gli incubi perdevano la loro consistenza terrificante. Eppure… Per pochi secondi, per un istante troppo breve perché io potessi capire alcunché, tornò a voltarsi, lanciandomi un’occhiata che non avrei saputo spiegare. Qualcosa in quegli occhi scuri, come la notte che ancora mi avvolgeva, nonostante l’alba imminente, mi diede la certezza che vi fosse una mente più che consapevole dietro a quell’apparenza bestiale. Un altro brivido mi scosse le membra e fu con estrema fatica che riuscii a far girare le chiavi nella serratura. Solo quando mi sentii al sicuro in casa, mi concessi il lusso di andare sul balcone per scrutare fra le ombre sottostanti, tentando d’individuare una grande massa pelosa che poteva aggirarsi ancora in zona. Tuttavia, nonostante tentassi di sforzarmi, nonostante cercassi di dare un senso a ciò che avevo appena passato, non riuscivo a capire in che modo potessi essere sopravvissuta ad un licantropo. Illusioni – tratto da Incontri Notturni L’atmosfera fra di loro si riempì di un’attesa erotica, parve addensarsi rendendo difficile ogni respiro e lei si accorse del proprio ansimare, quando fece eco con quello di lui. Il viso dell’uomo apparve al di sopra della sua spalla e finalmente lei ebbe la certezza assoluta dell’identità di colui che in quel momento le stava torturando i sensi. “Perché continui a sfuggirmi?” gli chiese cercando di controllare la propria voce. Lo vide ritrarsi e una delle sue mani, tornò a tormentarle l’orlo del perizoma. “Non mi sento molto sfuggente in questo momento…” il tono divertito le procurò un altro brivido. Fu allora che si rese conto del cambiamento, di un fattore aggiuntivo, di quell’elemento che era mancato fra di loro fino a quel momento. Avvertì finalmente la sua eccitazione. Ed era caldo e duro contro la pelle dei suoi glutei. Chiuse gli occhi, l’improvviso timore per ciò che avvertiva alle sue spalle la fece fremere. Un’idea maligna le sfiorò la mente, solitamente uomini con un pene di quelle proporzioni erano totalmente incapaci di usarlo, limitavano la propria presunta bravura alle dimensioni, pensando erroneamente che bastassero solo quelle per dare piacere ad una donna. Sicuramente la fortunata non aveva bisogno di una sostanziale partecipazione del partner per raggiungere i propri scopi, con un attrezzo del genere poteva divertirsi da sola, ma Amanda era sempre rimasta alla fine delusa da cotanto ben di Dio, ritrovandosi a sperare in dimensioni più normali e gestite con più perizia. Socchiuse le palpebre, predisponendo il proprio spirito all’attesa, il suo corpo assunse inconsciamente un atteggiamento di sfida, di quella che dice: avanti bello, fammi vedere cosa sei in grado di fare. L’uomo parve leggerle nel pensiero, dandole una dimostrazione pratica della propria capacità di saper gestire la situazione. Le sue mani scivolarono al di sotto della sua gonna, dita delicate scostarono il sottile tessuto del perizoma e dita più esigenti cercarono la fonte di tanta umidità. Trovarono lei, la sua natura selvaggia, accuratamente mimetizzata da una sorta di civile modo di essere. Trovarono il calore del suo corpo, insinuandosi decise all’interno di esso, travolgendo ogni suo tentativo di rimanere indifferente. “Stai ferma, non ti agitare troppo… a meno che tu non voglia far capire a tutti quello che ti sto facendo.” Amanda s’immobilizzò immediatamente, riportata alla realtà da quell’osservazione pungente, lui la stava prendendo in giro, la stuzzicava, la eccitava e la rimproverava se rispondeva al suo tocco. Si sentì quasi umiliata, ma la sensazione durò poco. Costernata dai propri pensieri, si rese conto del gioco che stava facendo lui, quel suo portarla sull’orlo della follia, per poi ricondurla improvvisamente al punto di partenza. L’eccitazione crebbe, esplose dentro di lei, aumentando in modo considerevole la quantità di umido che le bagnava l’interno delle cosce. Si mosse appena, desiderando le dita del suo amante più in profondità. Ma lui le fece scivolare fuori, lasciandole indugiare ancora qualche istante sulla superficie calda del suo sesso. Emise un gemito, una sorta di suono disperato parve impadronirsi del suo animo, non poteva lasciarla in quello stato, non poteva portarla sull’orlo del baratro per poi tirarsi indietro. Odiò se stessa, e odiò lui per averle provocato tutta quella frenesia, senza portarla alla soddisfazione più completa. Con un gesto di stizza fece per allontanarsi, ma le mani di lui l’afferrarono saldamente, riportandola indietro e mandandola a scontrarsi con il suo corpo marmoreo. “Non ho ancora finito con te.” La gonna tornò a sollevarsi ed il perizoma venne nuovamente spostato. “Adesso sei pronta per me.” Il sussurro le arrivò all’orecchio, carico e denso come un temporale estivo. Rimase immobile, incapace di reagire, come un coniglio di fronte ai fari di un auto, raggelata nell’istante in cui aveva avvertito la punta del suo pene scivolare lentamente dentro di lei. Non era preparata alla sua delicatezza, non era pronta al suo ondeggiare ritmico ed inesorabile, non si aspettava tanta dolcezza nelle mani che l’accarezzavano, mentre lui si spingeva sempre più in profondità dentro di lei. E lo sentì toccare il fondo, lì in piedi, in un’angolazione quasi impossibile per ogni altro essere umano, lui riuscì ad arrivare fino in fondo. La bloccò contro il proprio inguine, imponendole un’immobilità soltanto apparente, perché dentro di lei avvertì chiaramente la pressione del suo membro contro le pareti della vagina. Chiuse nuovamente gli occhi, appoggiando la testa contro di lui. “Lascia che sia io a muovermi per entrambi.” le sussurrò roco, smentendo in parte l’autocontrollo dimostrato fino a quel momento. Lo lasciò fare, lasciò che fosse il suo ritmo a travolgerli, lasciò che fossero i suoi fianchi a premere contro il suo corpo, lasciò che ancora una volta fossero le sue mani a toccarla, massaggiarla, stuzzicarla. Rimase immobile, sorprendendosi per la propria capacità di concentrazione, arrivando persino ad osservare le persone, vedendole finalmente oltre la coltre del proprio piacere. Persa e presente allo stesso tempo. Completamente in preda ai propri sensi e totalmente presente a se stessa. Fu un amplesso lento, privo di un qualsiasi movimento brusco, dolce, sensuale, controllato fino allo spasimo. Nessuno, guardandoli, avrebbe potuto immaginare fino a che punto il gioco erotico si era spinto, nessuno avrebbe potuto sostenere che il loro non fosse altro che uno stuzzicarsi al limite della decenza. Nessuno poteva capire quanto in realtà fossero travolti da sensazioni così sconvolgenti, quanto fossero prossimi all’orgasmo. “Ti eccita sapere che potrebbero immaginare quello che sta succedendo sotto la tua gonna, vero ?” Le bisbigliò lui, cercando di re-spirare fra una parola e l’altra. “Ti eccita che ti guardino senza capire esattamente che stai godendo? … no… ferma. Non muoverti.” Amanda stava impazzendo dietro a quel gioco, il suo corpo era teso come una corda di violino, percepiva il proprio orgasmo premere ai lati della sua coscienza e tentava ancora di trattenerlo, terrorizzata dall’idea di quello che avrebbe potuto fare, nel momento stesso in cui avrebbe finito per perdere il controllo. Il movimento di lui ipnotizzava tutto il suo corpo, le ondate di dolore si mischiavano alle sensazioni di piacere, quando arrivava a premere nella parte più profonda del suo essere, ma non si sarebbe mai sognata di dirgli di smettere, al contrario, non voleva che finisse, non voleva che quel momento di pura estasi avesse termine. Ma accadde, come tutte le cose, prima o poi avevano una fine. Avvertì l’inizio dell’orgasmo di lui nello stesso istante in cui percepì il proprio. Sentì il sussultare del suo membro, nello stesso istante in cui le contrazioni delle proprie pareti interne si strinsero in modo spasmodico intorno al sesso di lui, avvolgendolo in continue ondate. “Sei perfetta…” le aveva ancora sussurrato lui, senza smettere di stringerla contro di sé. Ed era stato allora che aveva avvertito due punte acuminate sfiorarle la base del collo. Si era irrigidita. L’estasi dei sensi le impediva di pensare lucidamente, di capire esattamente cosa fossero quelle due cose che avvertiva dure ed appuntite contro la pelle. L’istinto di sopravvivenza le impose di non muoversi, di ricacciare la paura primordiale della preda in balia del predatore, di mettere a tacere l’improvviso impulso di staccarsi da lui e di fuggire il più lontano possibile. Inspirò a pieni polmoni tornando improvvisamente lucida, in grado di mettere due pensieri insieme in modo coerente. E solo in quel momento si rese conto di non averlo mai visto sotto la luce diretta del sole, in pieno giorno. Le volte in cui si erano incontrati, erano sempre state ore serali o comunque nel tardo pomeriggio, in giornate nuvolose. Cos’erano realmente le cose acuminate che sfioravano la sua pelle esposta? Denti? Canini? Era la sensazione del pericolo ad averla attratta così inesorabilmente verso di lui? Il contatto cessò così come era iniziato, improvviso, senza che nulla facesse capire le reali intenzioni di lui, lo avvertì abbandonare il suo corpo, ritirarsi da lei con un sospiro. Sentì nuovamente le sue mani ricomporle i vestiti, il corpo di lui, ormai lontano, la lasciava vuota e con la spiacevole sensazione di essersi persa qualcosa. Seppe, senza nemmeno il bisogno di voltarsi, che se n’era andato. La notte – tratto da Quando viene la notte I suoi passi riecheggiavano sul fine acciottolato, la sua mente era in subbuglio, doveva svoltare a destra o a sinistra? Non ricordava più, voleva solo uscire da quel dedalo di viuzze, trovare un posto sicuro, un posto dove nascondersi, cacciare dalla mente le ombre che già da venti minuti la stavano inseguendo. La nebbia le impediva di ragionare con chiarezza, la stessa nebbia che lei aveva sempre amato, quella notte le si era ritorta contro come un rasoio ben affilato, come quella lama che aveva visto spuntare nelle mani di quell’uomo che, sotto il portone di casa sua, l’aveva minacciata e lei girandosi sui tacchi era fuggita. Dov’era adesso ? Si era persa, non trovava più punti di riferimento, non sapeva dove doveva andare. La mano la colse alla sprovvista, sudicia e maleodorante, sbucando dal nulla. Le tappava la bocca attirandola nel portone a fianco. E poi un dolore profondo, lancinante al fianco, mentre qualcosa trapassava il tessuto del suo abito, il tessuto della sua pelle e la sua carne, andando a conficcarsi sempre più profondamente dentro di lei. Forse fu la paura, quell’ultimo guizzo che la fece torcere leggermente e non permise alla lama di colpirle il cuore, ma non fu abbastanza, quando lui la estrasse, l’orribile risucchio le diede la certezza che qualcosa si era rotto comunque. Il sibilo che le uscì dalle labbra e l’improvviso sapore metallico che le riempì la bocca glielo confermarono. La seconda coltellata raggiunse la prima, più o meno nello stesso punto. Iniziarono a tremarle le gambe, ciò nonostante tentò di ribellarsi, non voleva cedere totalmente al panico; cercò di voltarsi per fronteggiare l’assassino. La terza le perforò lo stomaco, sentì lo strappo alle viscere, mentre la lama affondava per la quarta volta trapassandole le ovaie. La quinta le lacerò la schiena, mentre le bucava un polmone. La sesta le arrivò mentre ormai giaceva a terra. L’uomo la lasciò andare. “Non dovevi scappare….”sussurrò. Poi i suoi passi risuonarono sempre più lontani, sempre più attutiti dalla nebbia. Sentiva freddo, sentiva la vita scivolarle via in quell’immensa pozza umida e appiccicosa che andava a formarsi al suo fianco, sentiva che niente avrebbe avuto più importanza in quel momento, tutto era stato così vano, così inutile e lei non si sentiva ancora pronta, non voleva che finisse così, ma la stanchezza e il sonno si stavano già impadronendo di lei. Passò un’eternità. Un qualcosa di umido le sfiorò il naso, come se un cane fosse venuto ad annusarla. Un ringhio basso le alitò sul collo e l’ultima cosa che vide furono le zanne. Lunghe, lucide e luccicanti… zanne. Elisabetta Bagli E’ scritto nei corpi celesti Improvvisamente, l’aria si trasforma in luce. Con un colpo, mi hai scaraventato sul cristallo, il lampo che ora fende le mie membra nude. Intima pioggia scivola sul mio corpo martoriato dalle tue mani, livide come il crepuscolo del nostro amore. Alzo gli occhi e vedo il cielo coperto di fumo, triste argento antico, silenzioso testimone della tua inaudita violenza. Dense gocce di sangue, vive perle di morte scorrono sulla mia pelle spremuta tra le tue dita come un’inutile carta velina. La luna piena è alta, le stelle brillano sul mio respiro affannato, immense trame della mia oscurità crescente. Muoio perché devo: è scritto nei corpi celesti. Andrea Mazzolini Il predatore del deserto Inizi anni ottanta. Non avevo neppure trent’anni e già una taglia sulla testa. Ne avevo combinate di tutti i colori e non mi credereste se vi dicessi il numero di coloro che mi volevano vedere morto. Chiamatela pure vigliaccheria ma feci l’unica cosa possibile: fuggire, andarmene dall’Italia. C’era un tizio alla Farnesina che mi doveva un favore e così riuscii a scappare a Tripoli. Mi aveva trovato un posto imboscato come cameriere al circolo del tennis dell’ambasciata e fu così che nelle ore libere iniziai a prendere in mano la racchetta. Scoprii inaspettatamente di avere del talento, fino ad allora avevo tenuto in mano soltanto le pistole, e a un certo punto mi proposero perfino di dare delle lezioni private. Nelle ambasciate occidentali il numero di funzionari non era elevato, Tripoli era considerata molto rischiosa e infatti pochi anni dopo gli Stati Uniti di Ronald Reagan avrebbero sferrato un terribile attacco aereo. Ma in quel momento la guerra era l’ultimo dei miei pensieri. Non me la passavo affatto male. I figli degli occidentali studiavano tutti in una scuola internazionale e mentre i funzionari erano al lavoro molte delle loro mogli, affidate le casi alle governanti, passavano le giornate al circolo. Non sto neanche a raccontarvi che essere un maestro di tennis rappresentava un bel lasciapassare e la maggior parte di loro non si limitava a chiedermi consigli sul modo migliore per impugnare la racchetta. Diventai presto il loro sollazzo, consolavo le loro vite noiose e a quanto pare ci riuscivo anche bene. Il passaparola aveva funzionato alla grande, non avevo nemmeno bisogno di corteggiarle. Cascavano semplicemente tra le mie braccia, una dopo l’altra. Non ce n’era una che credesse di essere la preferita, tutte erano ben coscienti di giocare la stessa parte. Mi avevano affibbiato anche un soprannome, il predatore del deserto. In realtà io non mi sentivo un predatore e loro non erano certo le mie prede. Le mie giocatrici di tennis venivano da tutta Europa, erano le mogli o le compagne, solitamente più giovani, dei funzionari delle varie ambasciate e a nessuna di loro avevo mai negato il diritto a essere ben accudite. Solo una di loro, una francese, una certa Hélène, non si avvalse mai delle mie cure private. Era bella, di una bellezza che definirei acerba, come se non sapesse di esserlo o non volesse abusarne. Me la ricordo ancora mentre scendeva le scalette che portavano al campo. Il suo aspetto mostrava una bellezza velata, offuscata quasi, ma non rovinata dal tempo o dalla vita: una bellezza latente e maestosa allo stesso tempo. La sua andatura era leggera e la luce nasceva dai suoi occhi; le sue parole, i suoi sguardi, le sue timide risate, tutto questo mostrava una rara e preziosa intelligenza. Mi innamorai di lei, dell’unica donna che non riuscivo a conquistare. Le piaceva essere corteggiata, era lusingata dalle mia attenzioni ma non cedeva. E quando sembrava di essere sul punto di crollare si allontanava e per un certo periodo smetteva di frequentare le lezioni. Tutto questo durò diversi anni, poi la guerra costrinse i paesi occidentali a chiudere le ambasciate ed io me ne andai in Sud America, l’Italia era ancora un paese troppo pericoloso per uno dal mio passato turbolento. Solo dopo essere emigrato in Argentina mi resi conto di quanto avessimo giocato al gatto e al topo, io e Hélène e che il felino non ero stato certo io; e tuttavia mi mancava, Dio quanto mi mancava… L’ho rivista una sola volta, a Parigi, quasi un quarto di secolo dopo. Ci siamo incontrati per caso, in occasione di una mostra al Louvre. Hélène mi ha riconosciuto anche se non sono più un valente giocatore di tennis, né tanto meno un predatore nel deserto, ma soltanto un vecchio barbagianni. Ci siamo salutati e probabilmente non ci vedremo più. Ma una cosa la voglio dire. Ho avuto molte donne nella mia vita ma posso affermare con certezza di avere amato soltanto lei. Cristiana Verazzo L’ambiguo dallo sguardo vuoto Era tardi, come al solito, e non volevo rientrare nel vuoto più totale. Mi meritavo qualcuno per strada, dopotutto lavoravo per loro: la gente. Avrei voluto sentirmi un po’ più leggero, e invece, come ogni stramaledetto giorno dispari, mi portavo sulle spalle un fardello degno di Atlante. Purtroppo per me non ero il solito psicologo, non riuscivo a distaccarmi dai problemi dei miei pazienti come avrei dovuto. Risultato? La mia empatia mi portava ad essere meglio di uno sciamano…per loro, s’intende, perché toccava a me poi fare i conti con le brutture, i dolori, le fobie di ogni singolo individuo che si sdraiava su quel cazzo di lettino. Pur sapendolo non riuscivo ad evitare quel transfert e non capivo come mai, a scapito degli studi fatti con tanta attenzione, non potessi agire diversamente. Attraversai il corso principale che le saracinesche erano ormai serrate, sperare in qualcuno era ormai un’utopia, anche se…forse… E infatti eccolo lì, come sempre fermo a rimirare Sant’Andrea nella nicchia accanto alla pizzeria del Signor Ignazio. Alto, dinoccolato, con le spalle curve; doveva essere un fervido credente per trovarlo in adorazione tutte le sante volte che passavo di lì, ma chi lo sapeva. M’incuriosiva il tipo, ma dopo tutto non erano fatti miei come passava il suo tempo. Stavo per passargli accanto quando gli cadde dalle mani una candela accesa rotolandomi tra i piedi, scansai l’oggetto e mi chinai a raccoglierlo. Ero ancora inginocchiato quando mi sussurrò all’orecchio: ” Può salvarmi dottore? Può prendere il vuoto che c’è in me oppure riempirlo con qualcosa?” Mi voltai di scatto e incrociai il suo sguardo perso, opaco. Ma era sicuro di capire quel che diceva? “Non capisco” dissi fermo e lui sorrise di sbieco.”Ma sì che capisce, le basta toccarmi. Così” e dicendolo prese una mia mano e se la poggiò sul braccio. Lo scambio fu veloce e potente: in un istante tutto quello che conoscevo, che vivevo, che sentivo, passò a lui lasciandomi svuotato di ogni cosa. Sollevandosi mi fissò e sorrise: “Grazie dottore, è stato molto soddisfacente. Ah….dimenticavo: la prossima volta stia attento a ciò che desidera, potrebbe avverarsi”. Quando se ne andò mi accasciai sull’asfalto: quel mostro mi aveva appena prosciugato l’anima! Paolo Fiorino L’incontro La individuò da lontano. Era davvero bella. Molto di più di quanto si aspettasse. Era alta poco meno di lui, magra ma non troppo, aveva capelli neri tagliati a caschetto e due splendidi occhi verdi. E poi dicono che in chat si conoscono solo uomini, pensò. Si avvicinò e si presentò. Lei lo gratificò di un sorriso luminoso. - Dove vuoi andare? le domandò, con un po’ di imbarazzo. Lei alzò le spalle e disse con noncuranza: – Facciamo quattro chiacchiere davanti a una tazza di caffè. Aveva scelto di vederlo un luogo frequentato, non se ne stupiva. Era stata prudente fin dal principio e fino a quel momento non gli aveva dato modo di capire chi fosse davvero o dove abitasse. Sedettero in un bar del corso Vittorio Emanuele, all’aperto. - Perché hai voluto vedermi? – esordì lei. Questa domanda giunse un po’ inaspettata. – Credevo che lo sapessi. - Lo immagino, però voglio sentirlo da te. - Perché ho voglia di conoscere una persona che mi aiuti a ricominciare. Pareva una cosa fin troppo ovvia, però in realtà non lo era. Lei annuì e domandò: – E perché la cerchi proprio in una chat? Questa domanda se l’era posta almeno un milione di volte. La risposta che si era sempre dato era forse la più semplice, ma a volte lui stesso dubitava che fosse quella giusta. - Perché così è più facile. Sono un po’ timido e spesso non riesco a dire quello che penso. Se non vedo l’altra persona le parole mi vengono più facilmente. Lei non sembrò affatto convinta. – Sinceramente non mi sembra che tu sia timido né che tu abbia difficoltà a esprimerti. - No. Effettivamente con te è diverso. Mi trovo a mio agio, mi pare di conoscerti da sempre – si difese Giovanni. - Mi fa piacere. - E tu? - E io cosa? - Cosa cerchi nella chat? - Qualcosa… non lo so nemmeno io. Restarono per un attimo in silenzio, poi lei lo guardò con un’espressione sicura e gli disse: – Senti… - Dimmi. - Vuoi venire a casa mia? Giovanni era sempre più meravigliato. Tutta la prudenza e l’iniziale diffidenza di Angela parevano svanite nel nulla. Doveva averle fatto davvero una buona impressione. - Certo – rispose, con gioia. - Allora andiamo. Dottoressa Angela Matelli, recitava una targa di ottone attaccata al muro vicino alla porta di ingresso. - Dottoressa in cosa? domandò Giovanni, indicando la targa. - Psicologia – rispose Angela mentre entrava in casa. Giovanni la seguì dentro l’appartamento poi la donna richiuse la porta. - Quindi sei una psicologa? - Sì. Ti pare strano? - Sinceramente… un po’ sì. - È il mio lavoro. È una cosa molto importante per me. - Quanto importante? - Più di ogni altra cosa. Vuoi sederti? - Grazie. I due si accomodarono su un divano azzurro molto confortevole. L’appartamento era grande e luminoso, con un bellissimo pavimento di marmo e piante rigogliose ad ogni angolo. - Il lavoro non è tutto nella vita – disse lui. - Per me sì, non c’è nulla di più importante – rispose la donna. - E allora perché mi hai fatto venire a casa tua? - Per il mio lavoro. - Per il tuo lavoro? – domandò Giovanni, con una punta di risentimento. Cominciava a intuire la verità e la cosa non gli piaceva. - Mi interessano molto le persone come te. Vorrei capire cosa vi spinge fuori dalla realtà. Perché cercate compagnia in un mondo virtuale – riprese lei. Ora tutto era chiaro. Era questo il suo destino: incontrare solo donne che lo sfruttavano per i loro scopi. Sentì una fitta di dolore trapassargli il cuore. La delusione aveva un sapore amaro a cui non c’era modo di abituarsi. - Quindi per te sono solo… un soggetto di studio? – domandò, scoraggiato. Lei si rabbuiò in volto. Pareva sinceramente dispiaciuta di avergli fatto del male. – Per la verità, sì. Mi dispiace. La sua voce esprimeva rammarico, ma questo non poteva bastare. - Allora mi hai preso in giro? - Non la metterei proprio su questo piano. Io volevo davvero conoscerti. Possiamo ancora essere amici – tentò inutilmente di difendersi la psicologa. Giovanni le lasciò solo il tempo di terminare la frase e poi sbottò: – La solita storia! Voi donne usate le persone e poi le gettate via quando non vi servono più. Sei come la mia ex. Siete tutte uguali! - È questo che ti ha fatto? Ti ha usato e poi ti ha gettato? - Sì, è quello che fate tutte! La tensione nell’aria era diventata palpabile. Giovanni si sentiva sul punto di esplodere. La sua rabbia era quella di un animale ferito pronto ad attaccare. - Sei arrabbiato con me? domandò Angela, con un’espressione di sfida che sorprese Giovanni. - Sì – rispose, quasi timidamente. - Abbastanza da comportarti da uomo? – lo provocò la donna. La sua voce era diventata ferma e autoritaria, come se stesse tentando di rovesciare su di lui la colpa di tutto ciò che era accaduto. - Cosa? – disse Giovanni, disorientato. - Ho detto: abbastanza da comportarti da uomo? Sai come si fa, vero? L’attacco adesso era diventato ancora più violento. Giovanni sentiva la propria rabbia crescere di secondo in secondo ma ancora non comprendeva contro cosa dovesse orientarla. - Non.. non capisco… – balbettò. - E allora perché non te ne vai? concluse la donna. Giovanni era sbalordito. – Adesso mi butti fuori? Ma non volevi essere mia amica? - Amica di una nullità come te? Mai! Mi fai troppa pena. - Adesso stai esagerando. - Tutti uguali voi uomini. Davanti alla tastiera siete eroi ma poi in realtà non avete spina dorsale. Sei solo un fallito! - Basta! – gridò Giovanni, alzandosi e colpendola con un violento schiaffo che la fece barcollare. – Non ti permetto di parlarmi così! Quel colpo gli aveva dato una tale soddisfazione che stentò a trattenersi dal ripeterlo. - Sai solo picchiare chi è più debole di te, vero? Fallito! – gli gridò Angela. - Basta! Smettila! – Giovanni alzò la mano per colpirla, ma si fermò. - Avanti! Picchiami di nuovo! – lo incalzò lei, con una voce sibilante. Giovanni perse definitivamente il controllo. Allungò entrambe le mani per afferrarle il collo, fermamente deciso a spezzarle un paio di vertebre. Dopo un istante però si fermò. Sapeva di non poterlo fare. Non poteva uccidere per un accesso di rabbia, non era fatto così. Si ritrasse, con un pizzico di rammarico. - Perché ti sei trattenuto? – disse lei, allontanandosi di un passo. Pareva delusa. Giovanni respirò profondamente un paio di volte, per riprendere il controllo dei propri nervi e poi disse: – Credevi che ti avrei ammazzata per qualche insulto? Io non sono fatto così. - Peccato. - Come peccato? Avresti preferito che ti avessi strangolata? - Non te l’avrei mai permesso – disse la donna, mostrando una piccola calibro .22 che aveva estratto dalla tasca posteriore dei pantaloni. Lui sgranò gli occhi davanti all’arma. Era una pistola minuscola, pareva quasi un giocattolo, ma non era meno letale di un’arma più grande. - Tu sei pazza! Ma che diavolo vuoi da me? - Speravo che avresti avuto almeno il coraggio di provarci, ma mi sbagliavo. Angela era palesemente scontenta. Giovanni tentava ancora di far chiarezza nei propri pensieri. - Per il mio lavoro – rispose lei, sempre tenendogli la pistola puntata contro. - Ancora questa storia! Tu sei pazza, hai bisogno di cure! - No, credimi. - Ne ho abbastanza. Me ne vado – disse Giovanni. Si voltò e si incamminò in direzione della porta, ma lei lo fermò. - Non muoverti o ti ammazzo! Lui si voltò, spaventato, e disse: – Ma perché vuoi farlo? Angela adesso era straordinariamente calma. Dimostrava di possedere un controllo praticamente perfetto dei propri nervi. Perché ho avuto un’idea e non ti lascio andare fino a che non dimostro che è giusta. - Quale idea? - È cominciato tutto quando in chat mi hai parlato della tua fidanzata che è scomparsa. Speravo che tu l’avessi uccisa e speravo di riuscire a provocarti a tal punto da convincerti a tentare di ammazzare anche me. In questo modo avrei avuto la conferma che hai l’istinto dell’assassino. Vedi… prima ti ho mentito. Il lavoro non è la cosa più importante per me. La cosa più importante è il mio hobby. - Ma di che diavolo parli? - Parlo del mio hobby. Colleziono assassini. - Cosa? - Non posso farne a meno. Colleziono profili psicologici di assassini. Con il lavoro che faccio non è affatto difficile trovarli: a volte vengono spontaneamente nel mio studio altre volte devo cercarli e la chat è un mezzo come un altro per farlo. Ho una specie di sesto senso, non mi sbaglio mai. - Su di me invece ti sei sbagliata. Io non finirò nella tua collezione. - Forse no, però non ne sono ancora convinta. Facciamo un altro tentativo. - Cosa? - Mettiamola così: adesso ti sparo. Però voglio darti una possibilità. In quel cassetto c’è una pistola. Io ti terrò sotto tiro, quindi non tentare mosse stupide. Prendi la pistola e spara dalla finestra. Se uccidi qualcuno ti salvi. O dimostri di avere la stoffa dell’assassino o muori. A te la scelta. Giovanni scosse la testa. – Non mi serve la tua pistola. - E perché mai? - Perché ho la mia. - Davvero? – la donna sorrideva. Chiaramente non credeva alle parole di Giovanni. Pensava che si trattasse di un bluff. Era giunto il momento di togliersi la maschera. Anche se era venuto per un altro scopo non poteva più far finta di non essere ciò che era. - Sì. Sono un poliziotto. La donna sorrise. Bella trovata, complimenti. Però non ti salverà. - Non sto scherzando – ribatté Giovanni, mettendosi con calma una mano sotto la giacca. Prese dalla tasca destra il tesserino di servizio e lo mostrò alla donna. - Sei davvero un poliziotto… non posso crederci – disse la psicologa sbalordita, dopo aver guardato con attenzione il tesserino. – Comunque non hai nulla contro di me. Nel cassetto c’è solo una pistola giocattolo. Non volevo che uccidessi davvero qualcuno, mi bastava che accettassi la mia proposta per dimostrare che avevo ragione. Giovanni prese dalla tasca destra della giacca la sua Beretta di ordinanza e la puntò contro Angela. La psicologa lasciò cadere la sua arma. - Non mi servono le prove. Non ho intenzione di arrestarti. rispose l’uomo, raccogliendo con calma calibro .22 e mettendosela in tasca. Era un’arma interessante e probabilmente gli sarebbe tornata utile, una volta o l’altra. Sono un poliziotto ma per me il lavoro non è poi così importante. Anche per me viene prima il mio hobby. - E quale sarebbe? chiese la donna, incuriosita. - Colleziono cadaveri. Cadaveri di donne. Anna Cibotti Peccati di gola Gustavo era un predatore nel vero senso della parola. Al contrario della sua fidanzata, magra e lunga come uno stuzzicadenti, lui era un pacioccone ridanciano simpatico a tutti. Dopo cena era abituato a fare una passeggiata per digerire (così almeno faceva credere) ma lo scopo era tutt’altro. Rosina cominciò ad avere dei sospetti quando vide nelle sue camicie e nei pantaloni delle macchie strane. Le venne il dubbio che le mentisse e un lieve sospetto la sfiorò. Si rendeva conto che non era un adone, ma a lei piaceva così com’era con il suo faccione rubizzo e le “maniglie dell’amore” che adorava pizzicare nell’intimità. -E quelle macchie allora?Decise di non chiedergli nulla e di aspettare gli eventi. Gustavo non aveva le “phisique du role” e allora che predatore poteva mai essere! Lo era eccome! Non era un predatore di donne, le sue prede erano i panini assortiti in bella mostra nella vetrinetta sotto il bancone del bar. E non solo quelli! Anche le pizzette, le brioches e i tramezzini. Non gli resisteva e anche dopo avere cenato se ne abbuffava. Prede gustose da mordere con voracità in una pulsione irrefrenabile. Ma una notte Gustavo ebbe un incubo. Nel sogno vide un enorme panino col salame, profumato e invitante. Allungò la mano per prenderlo e improvvisamente il panino si aprì come una grossa bocca spalancata pronta ad ingoiarselo. La sua preda avrebbe ingoiato il predatore. Si trovò seduto sul letto sudato e atterrito con la povera Rosina che era caduta dal letto spinta dalle braccia che Gustavo dimenava alla cieca come a scacciare qualcosa. Dopo quella notte Gustavo non fece più la passeggiata digestiva né macchiò le camicie e i pantaloni. Cambiò anche bar. L’ingordo predatore rimase così……..in preda allo sconforto! Nadia Lattanzi Sogno Entrò in bagno e i vapori dell’acqua bollente gli tolsero il fiato! Ci mise un po' a far abituare gli occhi a quel poco vedere e il suo respiro a farsi regolare. Chiuse la porta e la figura di lei, sotto l’acqua, “uscì” dal vetro. La vedeva muoversi, ondeggiare sotto la pioggia d’acqua calda, vide il sensuale movimento dei suoi fianchi, le braccia alzate, accarezzarsi i capelli. Odorò il profumo intenso del bagno schiuma e ormai la sua eccitazione era palese. Continuò a guardarla cominciando a spogliarsi, solo allora s’accorse delle candele accese.. Spense la luce e lasciò che le ombre del suo amore si dipingessero sul muro di fronte. Si liberò degli ultimi indumenti e si fermò ancora un attimo davanti alla porta della doccia.. Sentì il suo respiro. Era chiaro che lei stava “chiamando”… Apri la porta e lei si voltò col volto di chi non stava aspettando che questo. L’aiutò ad “imprigionarsi” in un metro quadro e l’attirò a se. Sentì immediatamente che quello che voleva si era realizzato! Si rese conto che i suoi sensi erano obnubilati alla vista di lei… Gocce d’acqua imperlavano la sua fronte, scendevano sui suoi zigomi e s’andavano a suicidare sulle sue labbra. Ormai vittima del desiderio, la baciò con passione accarezzando il suo viso, sentì il corpo di lei protrarsi in attesa di un di più. L’accarezzò con lo sguardo e con le labbra la fece fremere di piacere, solo,baciandole l’incavo tra collo e spalla..scese sul suo seno leccando goccioline d’acqua che si fermavano sui suoi capezzoli. Le mani di lei erano intrecciate nei suoi capelli ormai bagnati. Guidava la sua bocca verso il centro del suo desiderio, ma no. Non era ancora il momento. Con le spalle contro la parete si permise di assaporare i suoi baci, le sue mani che l’accarezzavano, che le torturavano i seni, il suo respiro che si fermava sul suo ventre..prendeva tempo o ne perdeva? Istintivamente aprì le gambe e ormai impazziva dalla voglia..il “suo carnefice” ritardava l’attimo e tornò su, a baciarla sul seno. L’acqua bollente, ormai davanti alla passione dei due amanti, sembrava fredda..scese di nuovo, questa volta ad estrarre la sua gioia, a sentirla gemere di piacere, a vederla muoversi per guidare la sua lingua. Ormai lei era il cacciatore, la sua bocca prigioniera di lei, del suo piacere e si muoveva al centro di lei in attesa che arrivasse all’apice. Infine fu la fine e lei cadde…si spezzò e si arrese al vuoto che nessuna bocca avrebbe mai colmato! Si rannicchiò tra le braccia del suo amore, ascoltando insieme il battito del cuore suonare insieme all’acqua che lavava via la loro passione, lasciando l’amore. Nadia Milone Tu e io, predatore e preda Un gioco, un sogno, forse un’assurdità. Io e te, due anime perse in un universo più grande di noi, che ci travolge e ci stravolge. Ma quando siamo insieme, tutto il resto è fuori, non ci riguarda più, almeno per qualche ora. E che il gioco abbia inizio! Tu sei il predatore ed io la preda… Mi insegui, mi dai la caccia e mi catturi per farmi tua, ancora una volta. Mi diverto a sfuggirti e farmi rincorrere, per poi cedere ed arrendermi alle tue voglie, so che ti piace. E poi i ruoli, all’improvviso si invertono, tu diventi la mia preda, ti fai desiderare, ti fai inseguire e cacciare e, dopo averti catturato, ci abbandoniamo entrambi a quell’esplosione di sensi che sentiamo dentro. Vittime e carnefici al tempo stesso di noi stessi, dei nostri corpi e delle nostre menti. Ma il vero predatore, in questa storia, sei tu. Mi hai catturato corpo e mente, ormai, creando una sorta di magnifica dipendenza. Ormai non potrei più fare a meno di quei momenti, attimi di pura follia e di felicità, poche ore che riescono a ribaltare il corso delle mie giornate e forse, spero, anche delle tue. Io vorrei che questo gioco non finisse mai, ma so che non sarà così. Un giorno, spero il più lontano possibile, tu ti stancherai di darmi la caccia e troverai qualche preda molto più appetibile di me. Il predatore che è in te fiuterà subito la fresca e tenera carne e qualcuno sotterrerà i miei resti. Così è la vita, credo che dovrò e saprò accettarlo, anche se già so che mi mancheranno le nostre “battute di caccia”. Chissà, forse mancheranno anche a te, o forse no. Ma perché pensarci ora? A che scopo? Noi stiamo ancora giocando, quindi continua a cacciarmi, ti prego, fallo ancora per un po’… Mi piace essere la tua preda, sentire di essere apprezzata e desiderata da qualcuno, nonostante i miei mille difetti. Non smettere, non ancora, non adesso. La consistenza dei sogni Questa settimana siamo stranamente in anticipo sulla tabella di marcia, regalandovi, in questo modo, la possibilità di poter usufruire di 7 giorni 7 per poter postare il vostro pezzo sul nuovo argomento, ovvero La consistenza dei sogni. Sogni che si sfilacciano nel buio racchiuso della nostra mente, diventando a volte incubi o premonizioni. Quindi che si dia via libera alla fantasia racchiusa nel nostro intimo, lasciando sprigionare le idee che i meandri contorti della mente riescono a partorire. Siamo maghi e inventori, poeti e scrittori, siamo soprattutto creativi in grado di trasformare un semplice racconto onirico in qualcosa di reale e condivisibile. Quindi esprimetevi artisti della Penna e dateci in pasto, a noi belve affamate di sapere, il vostro contributo. E mentre restiamo in attesa delle vostre creazioni, godiamoci ciò che le nostre teste hanno contribuito a creare per l’argomento della settimana. Andrea Mazzolini Amore non è niente Il sogno è ricorrente, sempre lo stesso: io e te in riva del mare, un quarto di luna e un miliardo di stelle appese al cielo. Come sei bella, Dio, come sei bella, penso stupito. Non riesco a dirti niente, i pensieri annegano in gola. Ho solo gli occhi per parlarti. Ti ammiro. Tu non sei semplicemente un sogno, tu sei linfa vitale. Mi nutre il tuo respiro, il tuo sorriso mi disseta, mi inebria il tuo profumo. I tuoi occhi. Non c’è niente di più bello al mondo. Perché per me sei più di tutto, più di tutto ciò che amo. Sono una persona decisamente fortunata, ne sono cosciente: tutti i giorni posso vedere le colline toscane, le meraviglie di Firenze, il campanile di Giotto e la cupola del Brunelleschi. Ma tu ai miei occhi sei più bella di tutte le opere dell’uomo e della natura. Sei più di Firenze, di Roma e di Venezia, più delle Dolomiti e della Val d’Orcia. Sei più delle Piramidi, di Parigi, di New York e della Città Proibita. Per me sei più di Ulisse e Nausicaa, più di Paolo e Francesca, più della Pioggia nel pineto. Più di Mozart e dei Beatles, più di Picasso e di Van Gogh. Sei primavera nei ciliegi in fiore. (La tua bocca d’un tratto mi sconvolge.) Mi sveglio. Non c’è il mare. E non ci sei. Sei rimasta sperduta nei miei sogni. (Se non è questo, amore non è niente.) Nadia Milone Come una nuvola I sogni… posso quasi dire di aver passato la maggior parte dei miei giorni a sognare. Sono un’inguaribile romantica, purtroppo. E dico purtroppo, sì, perché a volte i sogni possono essere pericolosi, possono trasformarsi in incubi. Ma io non posso farci nulla, mi ritrovo non so come su quella stramaledetta nuvoletta che ha la stessa consistenza di una bolla di sapone. Mi fa sentire leggera, libera, ma prima o poi scoppierà, obbligandomi ad un inevitabile scontro con la realtà. E so già che l’impatto sarà devastante. Ora ci sarebbe da chiedersi: ma non hai imparato nulla? Proprio la vita non è riuscita ad insegnarti che il Paradiso non esiste? Ancora ci credi? Eh, lo so, è così purtroppo. Mille volte sono stata ammaliata da un sogno ed altrettante volte ci ho dovuto sbattere il naso, prima di capire che era soltanto un’illusione… Ma nonostante tutto, ho bisogno di credere in qualcosa, è necessario che io mi aggrappi ancora una volta ad una speranza e se anche questa volta dovesse rivelarsi una bolla di sapone, almeno per un po’ mi avrà fatta stare bene. Perché anche se nei miei momenti peggiori ho detto di non credere nei sogni, era una bugia. Una stupida ed inutile menzogna che raccontavo a voi ma, soprattutto, a me stessa nel tentativo di proteggermi dall’ennesimo fallimento. Ma non è mai servito. Io sono e sempre rimarrò una sognatrice, forse potrei anche dare la colpa allo zodiaco di questo, sono una cancerina persino un po’ lunatica, a volte. Amo volare con la fantasia, proprio non mi so frenare. Chi mi vuole bene, tenta inutilmente di farmi stare con i piedi per terra, lo fa per non vedermi soffrire, lo so, ma proprio non ce la farò mai ad essere razionale. E se un sogno dev’essere, allora sogno sia! Quando la nuvoletta scoppierà, ci sarà qualcuno lì sotto, a raccogliere i cocci. Così è stato prima e così sarà in futuro. Ho provato a chiudere i miei sogni in un cassetto per evitare che mi facessero del male, ma ne sono sempre usciti, aggiungendosi ad altri e altri ancora. Forse non si realizzeranno mai o forse sì, almeno in parte, ma vi dico che poco mi importa. Io continuerò a sognare e sperare, perché una vita senza sogni, a mio parere, è una vita vuota e priva di significato. Soltanto un sogno Finalmente sei qui. Era così tanto tempo che desideravo incontrarti! Posso guardarti, posso toccarti, posso abbracciarti. Le mie mani tremano intrecciandosi alle tue e la mia voce non è altro che un leggero sospiro che esce dalle mie labbra. Ti guardo e mi sento un po’ stupida perché ora che sei qui non riesco a parlare. Ma tu sei così dolce, così paziente con me… Mi stringi le mani, mi guardi negli occhi e poi mi abbracci. Non servono le parole, adesso. Sensazioni forti ci sfiorano l’anima. Le tue mani mi accarezzano e la tua bocca cerca la mia, quelle labbra così sensuali che ho desiderato per così tanto tempo. Il desiderio cresce dentro di noi e adesso io e te siamo una cosa sola, non abbiamo più tempo, non possiamo più aspettare. La passione ci travolge, i vestiti cadono sulla sabbia umida come petali d rosa e tu sei così dolce e passionale da lasciarmi senza fiato. Le mie mani accarezzano ogni centimetro del tuo corpo, sento il tuo respiro sul collo e mi vengono i brividi. Annuso la tua pelle che sa di salsedine e mi sento in paradiso. Io e te in riva al mare, nessun altro intorno, solo noi su questa spiaggia deserta, ora abbracciati a guardare il mare. Mi prendi per mano e ci tuffiamo in acqua. Tu continui a guardarmi, mi dici che ti piaccio e che mi vuoi ancora, e ancora, e ancora… Io proprio non riesco a resisterti. I tuoi occhi mi hanno stregata, quello sguardo un po’ malinconico da uomo d’altri tempi che mi fa una tenerezza infinita, quel tuo sorriso così dolce, in contrapposizione al tuo spirito un po’ selvaggio, a volte… Quanto mi piaci! Da impazzire. Te l’ho mai detto? Sì, certo che te l’ho detto e tu hai sorriso! Ti ho visto, sai, cosa credi? Ma… ma ora che succede? Cos’è questa luce? Dove mi trovo? Dove sono il mare e la sabbia? Dove sei tu? Niente, non c’è più niente. Non c’è più il sole, né il mare, né le tue mani a sfiorarmi la pelle. C’è soltanto un letto vuoto e freddo. E’ mattina, apro gli occhi e ripiombo nella realtà. E’ stato solo un sogno, un bellissimo ed indimenticabile sogno. Ora mi dovrò alzare, mi dovrò vestire e fare tutto ciò che ho sempre fatto: andare avanti come meglio posso. Ma adesso so di non essere più sola, perché stanotte tu tornerai da me, nei miei sogni. Lì ci incontreremo, soltanto lì… Ma è un appuntamento al quale non voglio rinunciare. Chissà se un giorno riusciremo a far diventare il mio sogno una realtà, oppure se saremo destinati a desiderarci senza incontrarci mai. Chissà… Rossana Roxie Lozzio Danza con me e baciami! Immagino come potrebbe essere dal primo momento in cui ho incontrato quel tuo sguardo accattivante e mi ci sono persa dentro. Avevo una ventina d’anni ed altrettanti e una manciata ne sono passati, da allora… e ancora, continuo a immaginarlo. Forse, proprio perché non so come sarebbe, non so come sia, non so come sarebbe stato… è quasi impossibile, persino immaginarlo eppure lo vedo. Vedo te e me, vedo uno sfondo confuso, che potrebbe essere qualsiasi ambiente e ovunque, tanto poco importa… sarà soltanto inutile contorno, per quell’attimo che renderemo eterno! Immagino di ballare fra le tue braccia, con le tue mani che danzano sulla mia schiena al ritmo della nostra canzone e la tua voce, che mi sussurra alcune delle parole all’orecchio, carezzevole come il tuo sguardo che all’improvviso, fissa le mie labbra ed io, abbasso gli occhi… non sono in grado di sostenerlo, nemmeno in un sogno. Allora, smetti di ballare e mi sollevi il mento con alcune dita di una mano per costringermi a guardarti, mentre assaporo gli attimi che seguiranno. Non ti sento pronunciare alcuna frase ad effetto, non ne ho bisogno, non adesso che sto per realizzare il sogno di baciarti! Prendi tu l’iniziativa o non sarebbe un sogno… ma non indossiamo maschere e finalmente, anch’io posso essere me stessa, manifestandoti che ti amo da tutta la vita e che non m’interessano il tuo passato, il tuo presente e neanche il fatto che non possa regalarmi un futuro da condividere. Non m’importa chi sei o chi sei stato e con chi… cos’hai fatto, durante la mia assenza, se sei il diavolo che mi raccontano o il bellissimo angelo dallo sguardo diabolico che preferisco immaginare, ora che stai per baciarmi. Tremo appena, mentre le labbra si avvicinano e continuo a tremare, altro che battito di ali di farfalla… dentro, devo avere un oceano di onde che mi smuovono e un nutrito esercito di farfalle che non sanno se ne usciranno indenni! Sento i battiti del cuore aumentare e rallentare, ho la voglia di spalancare gli occhi per accertarmi di quanto sta accadendo e non so dove stia trovando tutto il fiato che mi serve per stare dietro al ritmo incalzante di questo intimo gioco, finalmente condiviso con te… stiamo scambiandoci quanto, per come interpreto il gioco dell’amore, di più confidenziale e privato ci sia. Ci stiamo regalando qualcosa di noi e ci stiamo togliendo respiro, pur continuando a vivere, nel battito animale di quanto potrebbe avvenire in seguito. Ti sto assaporando, sento il tuo profumo, l’odore della tua pelle e il tocco delle tue mani sulla mia… niente è più immaginazione, il risultato è che le emozioni si tramutano in sensazioni ed è sublime. Mai mi sono sentita più viva di così, lo escludo e senza tema di smentita, poi, non so cosa succederà da adesso in poi ma posso solo ringraziarti, perché al termine di un esaltante, magico, lunghissimo eppure troppo breve bacio con il protagonista di tutti i miei sogni ad occhi aperti, mi stai teneramente abbracciando e finalmente, appagata e sfinita dal preludio di quanto continuerò ad immaginare, posso provare a rincorrere il sonno che, anche stanotte, sono certa arriverà in ritardo ad abbracciarmi al posto tuo. Estratto da “Fino alla fine” Aspettare Simon Weston, durante una calda serata di fine agosto, colma di elettricità che sembrava pronta ad esplodere nell’aria e per di più, nel suo appartamento… Amber Rose sapeva di non essere pronta ma il bell’attore inglese l’aveva chiamata il giorno prima e le aveva raccontato che avevano terminato di girare il film e che sarebbe tornato in Italia per trascorrere del tempo in Toscana, con Daniel. Non era stato facile tentare di evitare d’incontrarlo, perché doveva ammettere che non le sarebbe dispiaciuto rivederlo e comunque, detestava mentire… aveva accampato qualche debole scusa e poi si era piacevolmente arresa all’insistenza del giovane uomo che rappresentava l’unica alternativa alla solitudine. Sentendo suonare il citofono, Amber Rose spense il phon con il quale si stava asciugando i capelli e guardò l’ora, perplessa. Si erano accordati per incontrarsi alle nove ed erano soltanto le sette passate da qualche minuto… possibile che fosse venuto direttamente dall’aeroporto, senza fare tappa in albergo? Posò l’apparecchio e si diresse ad aprire, senza rispondere, cercando di sistemare al meglio i lunghi capelli ancora umidi, quindi socchiuse la porta d’ingresso e corse nuovamente in bagno, per riordinarlo e per specchiarsi un’ultima volta. Indagò nei suoi occhi, cercando di scavare nell’anima, mentre si chiedeva che genere di serata avrebbero trascorso, dopo l’ultimo periodo nel quale si erano semplicemente sentiti telefonicamente e nemmeno così spesso. In effetti, quando Simon le aveva chiesto di vedersi a Milano, non aveva potuto fare a meno di sorprendersi ma le parole spese da James, qualche sera prima, l’avevano indotta a riflettere e avevano fortemente pesato sulla decisione finale, circa quell’inaspettato appuntamento. Sospirò, sentendo la porta chiudersi e prima di recarsi nell’ingresso per riceverlo, trasse alcuni respiri profondi, dipingendosi un sorriso solare sulle labbra. “Simon, sei tu?”. Lo chiamò, dirigendosi fuori dal bagno. “Sei in anticipo, non si era detto alle…”. Giunta a destinazione, le parole morirono sulle sue labbra, così come il sorriso che aveva destinato all’attore e per un attimo, temette di perdere l’equilibrio, sulle gambe che divennero deboli. “Non sono Simon… spiacente di deluderti, Amber Rose”. Matteo allargò leggermente le braccia, investendola con il fascino che l’aveva conquistata da subito, costringendola a lottare con se stessa per tentare di mantenere la lucidità che le sarebbe servita per affrontarlo. L’emozione nel trovarselo di fronte, inatteso e così maledettamente attraente, le procurò un dolore fisico che le tolse il fiato. “Io…”. Si sforzò per trattenere il desiderio di gettargli le braccia al collo e si appoggiò discretamente ad una parete, sperando di recuperare il controllo. “Ho aperto, convinta che fosse Simon…”. Convenne, mentre la fissava con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto. “Certo, non avrei mai potuto immaginare che…”. “Lo so, non ti ho chiamata per avvertirti e forse, avrei fatto meglio ma…”. S’interruppe, mostrandole una videocassetta. “Ho qui una copia del film e credevo che ti avrebbe fatto piacere vederlo in anteprima… “. Concluse, rimanendo immobile, poco distante da lei. Fuori era cominciato a piovere ed un lampo squarciò il cielo, illuminandolo, seguito da un tuono che la spaventò. “Detesto i temporali…”. Si lasciò sfuggire, abbozzando un sorriso, imbarazzata. L’elettricità che aveva preannunciato l’evento atmosferico durante il pomeriggio, sembrò concentrarsi nei pochi metri quadrati dell’ingresso, mentre si trovavano di nuovo di fronte e non sembravano capaci di affrontarsi. “Hai il tempo per vederlo?”. Le chiese, sconvolgendola. “Non credo…”. Rispose, avvertendo una tensione che avrebbe preferito poter attribuire al suo timore per il temporale. “Voglio dire, mi farebbe piacere ma potrebbe mancare la corrente e poi…”. Matteo mosse quel paio di passi che li separavano e le si fermò davanti, inebriandola con il profumo che ricordava perfettamente. “Hai i capelli bagnati…”. Osservò, sollevando una mano e passandovi alcune dita, sensualmente. Un altro tuono l’indusse a trasalire. “Non ho fatto in tempo ad asciugarli, quando hai suonato il citofono ho dovuto…”. S’interruppe, scoprendosi in enorme difficoltà, ora che i loro corpi potevano sfiorarsi. “Stai tremando…”. Lui continuò a giocare con le dita fra i suoi capelli, posando l’altra mano sulla parete alla quale sembrava essersi incollata prima, imprigionandovela contro. “So che è infantile ma il temporale mi fa questo effetto…”. Mormorò, abbassando lo sguardo. Matteo si chinò leggermente, sfiorandole la fronte con le labbra. “Speravo di potermene attribuire una parte di merito…”. Asserì, incendiandole i sensi. Amber Rose deglutì, continuando ad evitare di guardarlo negli occhi, mentre la stoffa leggera della t-shirt che indossava le lasciva intuire l’armonia del suo corpo modellato dallo sport. “Sei sleale…”. Replicò, scivolando vero il basso e sfuggendogli con destrezza, per raggiungere il salotto. Matteo la seguì, con una pacatezza che lasciava trasparire una determinazione a compiere quello per cui doveva aver deciso di venire a casa sua e che la preoccupò. “Vedremo il film un’altra volta…”. Dichiarò, indicando la videocassetta. “Adesso, dovrei finire di prepararmi”. “Per Simon?”. Domandò, raggiungendola e fermandolesi di fronte. “Hai deciso di dargli una chance?”. “Perché no, dopo tutto?”. Ribatté, infastidita dall’atteggiamento che stava adottando. Quasi potesse vantare dei diritti su di lei. “Siamo liberi e se ci va di frequentarci…”. “Dimmi una cosa, Amber Rose…”. Matteo posò la videocassetta sul tavolino, prima di cingerle la vita con una mano per attirarla a sé. “Se adesso ti baciassi, mi chiederesti di andarmene o…”. “Non farmi questo…”. Sussurrò, sul punto di perdere il controllo. “Non puoi venire qui, dopo essere sparito nel nulla, come se niente fosse e…”. “Posso farlo eccome…”. L’interruppe, catturandola con il tono sensuale della voce e con la forza coinvolgente dello sguardo. “Ne ho una voglia spaventosa… non te ne sei accorta?”. Avvicinò il viso e sorrise, posando le labbra sulle sue, che costrinse a schiudersi per dare inizio ad una lenta esplorazione che convinse entrambi. “Voglio farti questo…”. Aggiunse, sollevando la maglietta che indossava e sfiorandole il seno con le mani. “E questo…”. Disse ancora, spogliandola con destrezza. “E poi, voglio vedere quella luce nei tuoi occhi…”. Concluse, sollevandola fra le braccia. “Quella che avevi la notte in cui ci siamo baciati per la prima volta, Amber Rose…”. Lei posò la testa sulla sua spalla, mentre la portava in camera e quando la depose sul letto, sorrise, guardandolo liberarsi della maglietta aderente e dei pantaloni, per poi sdraiarlesi accanto. “Non credi che…”. Matteo si riappropriò delle sue labbra con foga, facendola precipitare in quel vortice di sentimenti che l’avevano accompagnata per anni e che sembrarono pronti ad esplodere con la stessa violenza con cui i tuoni rompevano il silenzio all’esterno, sempre più spesso. Non ci fu tempo per i dubbi e le incertezze, non le permise di pensare che era l’uomo di un’altra e che non era venuto da lei perché l’amava e aveva capito di voler trascorrere il resto della vita con lei… adesso era soltanto il tempo per godere delle sue attenzioni e del desiderio che lo stava accendendo più di quanto i lampi sarebbero riusciti ad illuminare il cielo all’esterno. Matteo la condusse sull’orlo del piacere, giocando con i corpi e usufruendo di ogni arte amorosa, regalandole un’estasi che la condusse altrove… lontano da ogni dolore, dalla solitudine e da ogni paura. Anche da quella più grande, la paura di vederlo nuovamente andare via. Attese qualche istante in più, cavalcando l’oda del piacere con lei e sorrise, permettendole di ottenere il suo stesso appagamento, con la generosità di cui sapeva essere capace, nonostante avesse speso meno tempo di quanto avrebbe meritato Amber Rose in quello che avrebbe dovuto essere un corteggiamento degno di essere ricordato. Amber Rose si svegliò di soprassalto, al forte rumore provocato da un tuono ed istintivamente si voltò nel letto, cercando Matteo. Si passò le mani fra i capelli, poi si accorse di essere vestita e quando comprese che doveva essersi addormentata un paio di ore prima sospirò, rendendosi conto che mancava poco più di un’ora all’appuntamento fissato con Simon e che l’ansia che provava all’idea di rivederlo, doveva averla condizionata al punto da averle fatto sognare qualcosa che non era e non sarebbe mai accaduto. Viky Hachiko Lancione I sogni I sogni sono fatti di cotone, morbidi e lievi come le nuvole. Di miele e di fiele il loro ardore. Ti entrano in circolo ti fan star sveglio di notte. Ti danno il senso per la vita. Ti illudono, ti graffiano. Danno gioie e dolori, lacrime e sorrisi, sangue e acqua fresca. La loro forza e ciò che nella vita c’è di più grande. La nostra vita è dominata dai sogni che vivono sospesi come farfalle. Nascono come dei boccioli, pronti a fiorire e a inondare tutto con il loro dolce profumo. Anna Cibotti I sogni sono… Sogni I sogni non hanno colore né sapore e profumo. Sono nebbia di notte e di giorno proiezioni confuse. Illudono Tradiscono Svaniscono E sono sempre lì Quando credi di amare Quando vuoi essere amato Se vuoi essere ricco Se vuoi essere felice Non c’è risposta Mai Rimane la speranza Un altro sogno ancora Maurizio Donte L’incanto della sera Quando poso gli occhi sul lontano mare e attendo che le vele rientrino nel porto, il vento cala e lente nubi bianche navigano in ciel, mutando forma. Mentre s’allungano le ombre della sera, l’incanto si raduna lentamente: sorge poi improvviso all’orizzonte, come vampa rosseggiante che rapida s’accende, declina e muore: subitaneo tramonto infiammato, lunghe nubi trascolorate di viola, stancamente adagiate sull’ultimo confin del mondo. Son qui, seduto, sotto l’arco della loggia, e lontano odo sulla riva franger l’eco dell’onda di risacca: limpido concerto che il cuor consola nel suo voluto esilio, placido suon che concilia il sonno. Volutamente obliai i ricordi estivi, mentre nella volta del ciel ad una ad una, silenti, s’accendono le stelle. Profuma l’aria della notte del dolce effluvio dei gelsomini in fiore ed io ricordo, senza voler, e con la man nell’aere, qual musico, disegno meraviglie, evocando il suon di concerti lontani. Incanto della sera dove lampeggiano i ricordi, come fuochi nell’aria scura esplosi. Ti vedo! Furioso vento s’agita nel cuore. O tu…quando seduti a riva prendesti la mia mano: brevemente s’incontrano l’anime nostre per poi fuggir lontano. Ma il mio cuor non muta: ostinato amor di Prometeo incatenato, vincolato alla roccia e pur proteso al ciel nel grido: t’amo! L’eco rimbombante poi dissolve nel rintocco di campane, segnanti l’ora del riposo che s’appressa… e, risuonando d’echi, riempie il silenzio in cui la sera affonda. Scende dal ciel l’incanto in possenti cori. Sorge la luna dall’oriente ed illumina la notte, scintillando sulle onde del mare. Vaga la mente stuporosa in cerca di te, mia cara sposa… l’incanto, l’incanto mi prende quando sulla spalla piano, lieve come raggio d’astro in ciel posa la tua mano. Paolo Fiorino La donna del sogno Eccola, di nuovo, la donna del sogno, strana e irraggiungibile. Ai suoi occhi appariva come una presenza diafana in un mondo irreale le cui trame, fragili come tele di ragno, erano intessute di buio e luce. Era una figura sottile e luminosa ma, come sempre, la sua intuibile bellezza era parzialmente nascosta da un’ombra che ne velava il volto. Non era un’ombra reale ma piuttosto pareva che nella forma stessa del suo volto mancasse qualcosa, una parte minima e quasi non individuabile ma pur sempre fondamentale, una cosa senza la quale non potevano esistere né vitalità né bellezza. Eppure proprio questa incompletezza rendeva per lui quella figura ancora più desiderabile. Voleva con tutto se stesso completarla e godere della sua interezza, ma non sapeva come fare. Poi un giorno aveva capito, quasi per caso. Altre persone possedevano ciò che mancava alla sua donna del sogno, a volte era un dono che nemmeno conoscevano e lui poteva facilmente appropriarsi di un piccolo pezzo della loro complessità. Un piccolo pezzo di una vita inutile che improvvisamente avrebbe acquisito una nuova grandezza facendo crescere la donna del sogno. Era facile, anche troppo. Da allora la sua ricerca era stata ininterrotta: ogni piccola parte, ogni scheggia di luce che riusciva a carpire a coloro che popolavano il mondo reale contribuiva al disegno che cresceva continuamente dentro di lui, prendendo forma e avvicinandosi ogni giorno di più alla perfezione. C’era stata la concertista che aveva incontrato per caso all’uscita di un teatro e che gli aveva donato la sensibilità, c’era stata la ragazza di quel negozio del centro che gli aveva ispirato la razionalità, c’era stata la vecchia che aveva ceduto la sua saggezza e molte altre delle quali nemmeno si ricordava che avevano dato parte di sé, ciascuna contribuendo, con quel poco che aveva, alla nascita di un essere perfetto e indescrivibile. Ormai era come una droga per lui, aveva bisogno di vederla crescere sempre più per andare avanti, per sentire la sua vita che si prolungava giorno per giorno. Quando trovava qualcosa da donare alla sua amata sentiva dentro di sé una forza nuova e potente, una passione che lo consumava e lo rendeva forte, capace di superare ogni ostacolo. Sentiva un fuoco che lo bruciava dentro alimentando la sua volontà e amplificando la potenza del suo stesso essere, proprio come stava accadendo in quel momento mentre fissava la ragazza legata sul tavolo della sua cantina. La vedeva davanti a sé, impotente e terrorizzata, incapace di comprendere ciò che stava accadendo, di percepire la grandezza dell’attimo. Quella donna insignificante non riusciva a capire il suo piano, non vedeva la meta di perfezione alla quale lui tendeva e, come tutte le altre, nella sua limitata visione non arrivava a comprendere l’inevitabilità di quel momento. Lei non sapeva che ciò che avrebbe contribuito a creare con il suo sacrificio sarebbe sopravvissuto al tempo e agli uomini. Sarebbe stato un perfetto monumento, immutabile ed eterno, posto per sempre all’ingresso di un mondo nuovo. Lui vedeva quella ragazza disperata che si dibatteva per liberarsi dai lacci che la ancoravano al tavolo ma in realtà non percepiva altro che il suo bisogno di lei, il suo desiderio irrefrenabile di strapparle ciò che si teneva dentro e che spettava di diritto ad una creatura ben più importante di quanto lei sarebbe mai stata. E all’improvviso un pensiero lo sfiorò: questa sarebbe stata l’ultima volta. Prese il coltello e si avvicinò alla ragazza. Soppesò l’arma e assaporò per un istante il contatto con la fredda materialità dell’acciaio, gustando il piacere unico di quell’attimo e rafforzando dentro di sé la consapevolezza di ciò che stava accadendo. Sollevò la lama pronto a vibrare il colpo definitivo, quello che gli avrebbe dato la felicità e lo avrebbe per sempre affrancato dal suo gravoso compito. Quella lama avrebbe per sempre separato l’inutile corpo della sua ultima vittima da ciò che conteneva di buono e avrebbe donato quella minuscola scintilla alla creatura ideale. Ciò che le serviva era solo un pizzico di ciò che la ragazza poteva donarle, solo un pizzico di… Uno schianto alle sue spalle lo svegliò di colpo strappandolo dal quel suo mondo irreale e perfetto e riportandolo con la forza di un pugno nella realtà terrena. Aprì gli occhi e si alzò di scatto. Uscì dalla stanza e si precipitò verso la porta d’ingresso. Una ventata d’aria gelida, proveniente dall’esterno lo schiaffeggiò. La porta era stata sradicata dai cardini e un uomo, ammantato della luce che proveniva da un proiettore acceso alle sue spalle, che lo rendeva splendente come un angelo e indistinguibile nei suoi tratti, era entrato. L’uomo angelo gli puntava contro una pistola. - Non muovere un muscolo! – gli gridò l’uomo angelo, con una voce terrificante che paradossalmente sembrava provenire dall’inferno. - Ma io devo finire il mio compito, non posso rinunciare – sussurrò in risposta, troppo piano perché l’uomo angelo potesse sentirlo. Si voltò di scatto e in pochi istanti percorse i pochi metri che lo separavano dalla porta della cantina. Afferrò la maniglia e tirò con forza. La porta si aprì, ma all’improvviso una sensazione di calore lo colse alle spalle, un attimo dopo aver sentito un forte schiocco seguito da un sibilo. Il calore crebbe a dismisura fino a diventare un fuoco che gli devastava il corpo. Il dolore divenne insopportabile, lasciò la maniglia e cadde in ginocchio. Mentre le forze lo abbandonavano chiuse gli occhi e sprofondò in un turbine di luce. L’uomo angelo superò il corpo riverso e scese lentamente le scale, che conducevano in cantina controllando con attenzione che non ci fossero altri pericoli. Due uomini in divisa lo seguirono un istante più tardi. L’uomo angelo, ormai ridiventato umano, si avvicinò al tavolo, guardò la ragazza e disse: – Stia tranquilla è tutto finito. Erano passati alcuni confusi minuti, l’uomo angelo adesso era chino su di lui. La sua voce era troppo lontana perché potesse percepirla chiaramente, ma ormai non gli importava più. Ormai aveva raggiunto la sua meta e ciò era stato possibile solo grazie all’intervento di quell’essere soprannaturale. Ora sapeva, con certezza, che ciò che cercava era più vicino di quanto avrebbe mai creduto possibile. Non doveva cercare negli altri ciò che mancava alla perfezione della sua visione, non ce n’era bisogno. Ciò che serviva era la sua stessa vita, la sua più profonda energia vitale. La donna del sogno ora era completa, e non sarebbe potuto accadere altrimenti. Lei aveva bisogno della sua morte per acquisire la vita e ora lo guardava con occhi fiammeggianti che gli trasmettevano gioia e speranza. Nel momento stesso in cui questo pensiero attraversava la sua mente, si sentì finalmente libero di superare il proprio livello di esistenza per raggiungere uno stato più elevato. Sentiva la vita che lo abbandonava, ma ne era felice perché questo gli apriva un nuovo mondo, fatto di perfezione eterna. Poi all’improvviso lei scomparve, portando con sé la luce stessa… Riaprì gli occhi in una fredda cella vuota, maledicendo una volta di più il destino che gli aveva impedito di portare a compimento la sua ricerca della felicità e che ogni notte lo torturava con quel sogno multiplo. Gli uomini gli avevano negato il privilegio della libertà, rinchiudendolo per sempre tra sbarre d’acciaio e mura di cemento. Quel maledetto ispettore non era nemmeno stato capace di ucciderlo. Aveva sfiorato la realizzazione del suo più profondo desiderio e alla fine lo aveva perso per sempre. Ormai non poteva fare altro che torturarsi nel rimpianto, perché ciò che davvero lo consumava era l’amara consapevolezza che aveva acquisito nei lunghi anni della sua reclusione: non sarebbe potuto morire se non dopo aver contemplato la perfezione e non avrebbe potuto raggiungere la perfezione se non morendo. Il dilemma che lo consumava era troppo grande per la sua povera anima mortale, ma doveva sopportarlo. Era questa la sua vera condanna, non le sbarre o i muri. Lacrime di dolore solcarono le sue guance, come ogni notte, mentre il secondino passava accanto alla sua cella per il consueto controllo. Andrea Leonelli Perduto nel sogno (tratta da “La Selezione Colpevole”) Una ripida discesa quasi una caduta Nel profondo del nocciolo infinitamente piccolo di un vuoto infinitamente grande che è rimasto lì quando mi hai detto “Illusioni, miraggi, la tua sostanza non esiste.” Allora mi svegliai e non esistevo più perduto nel sogno di esistere come nella nebbia del mattino Piangono le mie mani (tratta da “La Selezione Colpevole”) Positivismo illogico ottimismo inatteso presenza di luce sorriso a sorpresa qualcosa fiorisce in me… Apro gli occhi fine del sogno buio mi circonda buio mi riempie piangono le mie mani vuote. Solitudine urgente. Desolazione nel letto vuoto errori ripetuti. Chiudo gli occhi torno a sognare Sogno Sogno che ci sei Con me Allungare la mano Trovarti Sentire il tuo corpo Sul mio Aprire gli occhi e trovarti Vedere che apri i tuoi Restare allacciati dallo sguardo Senza parlare Ascoltando le anime parlare Senza suono Sentire i tuoi passi in casa L’acqua della doccia La macchina del caffè Sogno Una quotidianità Fatta di piccole cose Bicchieri Sigarette accese e passate Piatti riempiti vuotati e da lavare Panni da stendere Letti da disfare e rifare in continuazione Sogno Squilli di telefono Sms e parole Di quando sei lontana E di quanto Siamo lo stesso vicini Sogno futuri Comuni Di piccole cose Piccoli gesti normali Resi speciali Da NOI Sogno Poi apro gli occhi Sento il tuo respiro Le tue labbra La tua voce nell’orecchio Sei qua E non sogno più Ora con te Io Vivo Irma Panova Maino Una volta sognavo C’è stato un tempo in cui ho sognato strascichi bianchi e gardenie in tinta. Un tempo in cui le favole avevano ancora la consistenza delle speranze. Un tempo in cui i principi erano ancora azzurri e quei loro maledetti ronzini brillavano candidi come la neve alla luce del sole. C’è stato un tempo in cui ho sognato di poter gettare il passato alle spalle, rinchiuderlo in un cassetto, o seppellirlo sul fondo di un armadio. Un tempo in cui, guardando avanti, gli ostacoli erano visibili e ben delineati e non vi erano strani e inquietanti ninja, acquattati dietro a fitte fronde di alberi sui bordi, a nascondere i fossi. C’è stato un tempo in cui le lancette dell’orologio servivano solo per indicare l’ora e non il futuro traditore che fugge insieme alle speranze, rese puttane da circostanze poco fortuite. C’è stato un tempo in cui avrei detto di me altre cose, in cui mi sarei descritta con altri toni, con altre pennellate e colori più tenui, quasi pastello, molto più chiari, dipingendo un quadro quasi idilliaco e perfetto, immerso nella bucolica farsa di uno spot del Mulino Bianco. Quel tempo è finito e “c’era una volta” la principessa buona, racchiusa nella sua torre con a guardia il drago malvagio e salvata dal principe azzurro, è diventata la menzogna del secolo. Lei si è rivelata essere la prostituta che chiunque potrebbe avere con pochi denari; il drago, in realtà, è in via di estinzione, viene tutelato dal WWF e gli ultimi esemplari languono dietro alle sbarre di qualche zoo; e il principe è stato condannato in contumacia ed è latitante, per essere scappato con la cassa del Mezzogiorno e l’ultima volta che se n’è avuta notizia, lo hanno visto su una spiaggia domenicana, mentre beveva batida de coco con rum invecchiato, in compagnia di mulatte da quattro soldi, pronte a soddisfare ogni sua voglia. Riaprire gli occhi sulla realtà, uscendo a fatica dal sogno, in verità diventa la salvezza dell’anima, soprattutto dopo che il sogno si è trasformato in un incubo e promette di divenire anche peggio. E se chiudo gli occhi, pensando al mio sogno… ciò che mi passa per la mente è fortemente censurabile e soprattutto considerato blasfemo. Non sogno più. Vivo la mia realtà guardando avanti, tralasciando qualsiasi tentazione onirica. La sostanza è in ciò che posso toccare, vedere e sentire, tutto il resto è solo illusione… e per quanto si possano prendere tutte le precauzioni del caso, l’illusione può anche uccidere. E lo fa partendo proprio dai sogni, mandandoli a sbattere contro il muro a velocità supersonica, polverizzandoli con un urto tale da rendere i crash test del tutto inutili. Indosso la mia corazza, lucidata per l’occasione e mi preparo, il tempo dei sogni è finito, ora si va in battaglia. Gabriele Palumbo Sogni d’oro Sogni d’oro…perché non si dice sogni di plastica o sogni di catrame o sogni di merda…non sono pur sempre sogni? Non è pur sempre un distacco, seppur momentaneo, dalla realtà? A me bastava questo, distaccarmi dalla realtà…da piccolo non lo capivo, facevo sempre incubi e mi svegliavo impaurito e col timore di sognare di nuovo…avevo vissuto ancora troppo poco per capire che erano meglio quegli incubi, fatti di pensieri sparsi e incomprensibili, rispetto agli incubi fatti di realtà concrete…Ora invece ogni volta che vado a dormire spero sempre di sognare, succede raramente ormai, non so perché, ma quando succede sono felice, felice di vivere nella mia incomprensibile mente…felice di avventurarmi nei sentieri districati forgiati da 21 anni di gioie e dolori, sotto forme oscure che solo a occhi chiusi posso vivere con serenità…spero sempre di sognare, ma spero che un giorno mi succeda anche a occhi aperti… Andrea Borrelli Sogno Rinchiuso nelle tue parole mi metto a giocare con il tuo tempo e specchio nelle tue palpebre. L’aver avuto vergogna riporta a quel mito passato. Decidi adesso cosa puoi fare. Te stesso ti indica la strada e puoi non scegliere di ricordare, cullare ogni infinito attimo vegliare il presente e accontentare il futuro. Aspetta e aspettami di nuovo. Di fronte al mio viso, socchiudi gli occhi e raccontami i miei. Gli ulivi In mezzo alla campagna c’è un pastore seduto su di una grossa pietra a osservare le sue pecore. Questa mattina quando si è svegliato non aveva nessuna voglia di portarle a pascolare; sapeva , già, che sarebbe stata un’altra giornata noiosa. Ma si è preparato un piccolo sacchetto di semi di albero d’ulivo. A lui non interessa altro che un modo per poter passare in fretta la giornata e non morire di solitudine. Gettò tutti i semi in una piccola zona d’ombra vicino la pietra dove era seduto. E pensò se mai qualcuno fiorirà vicino a questa pietra avrò un po’ di ombra e un po’ di compagnia potrà avere. La solitudine è una cosa tremenda, diventa una prigione. Poi il pastore cominciò ad avere un motivo in più per alzarsi, ogni mattina, portare con gioia le pecore a pascolare e controllare se qualche germoglio fosse uscito. Passarono i giorni e affianco alla pietra spuntarono due piccoli fusti, uno vicino all’altro. Perfettamente identici e paralleli come fossero nati nello stesso momento e come se crescessero nello stesso istante. Anche lo stesso pastore rimase stupito, con quanta velocità fossero cresciuti quegli alberelli e quanto crescevano. Come se il suo desiderio fosse stato esaudito e quanto più lo desiderava e più quelli crescevano. “ Ma vedi ”, pensò il pastore, “che bella coppia!” ridendo fragorosamente sotto la sua barba nera e il cappellino bucato. Allora li crescerò bene e nello stesso modo, continuò, sono entrambi figli di questo lurido mondo e riceveranno lo stesso amore. L’uomo non aveva famiglia, solo le sue pecore e adesso i suoi piccoli alberelli di ulivo. Le giornate divennero sempre più calde, e poi più fresche fino a diventare fredde, ghiacciate. E poi di nuovo. Il pastore diventava sempre più stanco e vecchio, ma con gli anni aveva trovato serenità e tranquillità all’ombra dei due alberi d’estate ne aveva apprezzato il fresco, e in inverno un muro dietro cui ripararsi. E poi ancora. Ogni giorno gli ulivi diventavano più grandi ed alti e lui sempre più fiero di loro. Intere giornate, incominciò a chiacchierare con loro o forse con se stesso, compiacendosi. Poi cominciò lo sfogo e i segreti di una vita che non avrebbe mai voluto fare, ma l’amarezza di non saper dire di no alla sua famiglia, poi scomparsa. E proprio per il peso di quel ricordo continuare a vivere così, o forse per la troppa pigrizia. L’ unica scusa a cui sapersi attaccare per continuare. Amore di quelle bestie che lo aveva portato a vivere solo e lo aveva fatto invecchiare prima del tempo. Come i due alberi, cresciuti prima del tempo. Nei due alberi aveva trovato pace nella solitudine e a loro stava vendendo la sua ultima parte di vita. Una notte si svegliò prima che fosse ora e come un sospetto volle andare a controllare i due alberi. E successe che finalmente diventò tutto più strano. Su di un albero era cresciuto a dismisura un ramo che crescendo di fronte a quell’altro lo andava a toccare, come volesse accarezzarlo. Hanno bisogno di toccarsi il pastore “impazzito” ripeteva. E nei giorni successivi il ramo cresceva sempre di più, e andava a toccare quell’altro. E poi i due si toccavano finalmente ma il ramo non si fermò e cominciò a spaccare la corteccia. Dovrei tagliare quel ramo si ripeté il pastore, ma non posso fargli del male, con tono vaneggiante e si tormentava. Non sapendo come riuscire a risolvere il problema il senso di colpa lo costrinse a letto. Si ammalò e per più di una settimana non poté alzarsi e non volle curarsi. Quando si sentì meglio per alzarsi, tornò vicino la pietra. Ormai i due alberi sembravano completamente attaccati, l’uomo si spaventò e corse in casa a cercare qualcosa per tagliare il ramo. Ma i postumi della malattia gli impedirono di avere la forza di tagliare, era ormai troppo forte e sembrava ribellarsi con decisione e forza ai colpi dell’ascia. Provò ad aspettare e a riposarsi. Le condizioni dell’uomo cominciavano a peggiorare di giorno in giorno mentre il ramo divenne parte di entrambi. Ormai era passato qualche tempo da quando aveva piantato. Era vecchio e non riusciva neanche ad alzarsi dal letto. Un giorno chiamò in città e fece portare via tutte le sue pecore, non poteva più prendersi cura di loro. Quindi si rese conto che presto se ne sarebbe andato e uno dei suoi ultimi desideri era quello di passare una giornata sotto i suoi alberi. Si tirò su e camminò fuori a passo lento, reggendosi su di un vecchio ramo. Si posò lentamente sul masso ad osservare a lungo. Anche gli alberi erano invecchiati, almeno quanto il pastore; cominciavano a perdere tutte le foglie e pareva che seccassero rapidamente. L’uomo all’inizio fu turbato nel vedere le sue piante in quello stato, l’una dentro l’altra come una unica cosa e come se si facessero male a vicenda adesso. Ad un tratto la sua espressione cambiò e si rese conto di non essere più solo in quel momento, i suoi cari lo stavano accompagnando. Sorrise, sfiorò la corteccia con le mani e le poggiò una sopra l’altra sul bastone. La mente fu sgombra da qualsiasi pensiero, non sentiva caldo o freddo; un vento leggero accompagnava silenziosamente il sole al tramonto. E il pastore vide per la prima volta calare il sole davanti ai suoi occhi. Su quella pietra e non dietro alle sue spalle come quando tornava a casa, per far rientrare le pecore prima di sera. Vide l’ombra degli alberi scomparire insieme alla luce ed attaccarsi alla sera. Sorrise ancora una volta, quell’ombra non sarebbe più tornata e gli alberi stavano morendo. Sorrise e si rese conto che era finito, cercò di ricordare il più possibile così come dicono, tutta la vita davanti agli occhi. Quella sera venuta a regalargli l’ultimo ricordo. L’immagine di sé e di quello che era stato. I due alberi non morirono, continuarono a crescere uno dentro l’altro: uno con l’altro erano riusciti a sopravvivere. In quel posto non arrivò più nessun altro a sedersi sulla pietra, nessuno poté rinfrescarsi più di quell’ombra e compiacersi della loro compagnia. Nessuno ha mai visto due alberi crescere uno dentro l’altro, nessuno conosce quel luogo eppure i due alberi di ulivo sono esistiti e continuano a crescere insieme. A volte seccano a volte crescono più rigogliosi di prima ma non muoiono mai. Ognuno è parte dell’altro e cresce più forte se l’altra parte si indebolisce perché si compensino. Ma poi il sogno finisce come questa storia. Nadia Lattanzi Sogno di un’adulta… L’ultima volta che ho acceso un sogno ero una bambina..innamorata di non mi ricordo neanche più chi..il complesso di Edipo uno straniero per me, ma Elettra io me la ricordo bene. Scombinata da sempre, forse il sogno di adesso sarebbe poter ritrovare i pezzi di un puzzle mai finito. Forse il sogno sarebbe quello di una bambina che ancora cerca la mamma. Desaparecidos, scomparsa, non pervenuta, assente ingiustificata o in altre faccende affaccendata. Il sogno è questo…sapere che una figlia va bene lo stesso chiunque ella sia, per qualsiasi ragione ella sia. Alessia Cutrufo Sogno di una notte senza luna Mi ritrovai senza sapere come, in una radura nel bosco, vicino a quei castagni che avevano celato i miei desideri, i miei sogni e le mie paure. Danzavo, accompagnata dalle note del vento tra le foglie degli alberi, il mio abito intessuto con raggi di una luna ormai spenta brillava illuminando le fronde, che si muovevano seguendo il mio corpo. La mia pelle appariva e scompariva nella notte, sfiorata dagli occhi di un osservatore nascosto. Li vidi, si incrociarono con i miei e una scintilla lucente sembrò vibrare nell’aria. Il buio celò quel momento, quel contatto energetico che sembrava unire i nostri corpi senza farli toccare. Evanescente la sua figura si muoveva intorno a me, cambiava volto, si scomponeva e ricomponeva per confondere la mia mente. Tutto intorno girava, mutando di colpo da oscurità a luce e da luce a tenebra… Le ombre intorno al fuoco erano prese dal vortice di scintille e sembravano fare da cornice a quel noi che si stava componendo lontano. Ci sfioravamo la pelle nella danza intorno alle fiamme che divampavano alte, rischiarando una notte senza luna. La radura si tinse dei colori del tramonto, il rosso e l’oro si fusero per dare vita al miracolo della vita, che nella magia ogni notte si ricompone, donando a me la gioia dell’incontro e a te, che lontano sogni di me, la sensazione di non esserci mai divisi… Angelo Francesco Anfuso Ti ho sognato in un sogno Avevo camminato tutto il giorno, irrequieto, senza pace, senza meta, solo con una cognizione di causa: quella di rivederti. Ero stanco, non avevo forza, le mie gambe tremavano dal dolore zoppicavo, mi trascinavo a stento come un mendicante. Il cielo era cupo, privo di luce, mancava qualcosa in quel luogo: anche l’odore della zagara era svanito, la sua profumata essenza fu celata da un aroma triste e senza sapore. Mi addormentai nei pressi del grande ulivo, in quel meraviglioso luogo in cui anni or sono, il tuo sorriso mi sfiorò il cuore. Mi afferrò un docile abbraccio, ed un tenero pianto mi sussultò all’orecchio come il miagolio di un cucciolo felino. Iniziai a sognare! Ti ho sognato, ti ho sognato mentre sognavo. Ti ho visto: eri seduto d’innanzi a me con il capo poco chino e dal volto infermo. Silenzioso, nessun verbo, solo un tremulo respiro ad occhi serrati, forzati da preziose lacrime, rare perle alla mia misera vista. Dinnanzi alla tua sofferenza il mio cuore si rattristava, e mi chiedevo il perché di tanta tristezza, del tuo sofferente gemito. Riflettevo sulla nostra vita, su tutto quello che abbiamo condiviso e cercavo di comprendere come un dannato, dove mai sono venuto mancare al tuo ausilio. Come potrei mai riavere quel sorriso che Tu mi donasti, quella tua tenerezza immensa, quel Tuo Amore, unico in ogni suo genere, in ogni sua forma. Ho condiviso tutto con te, ho gustato le tue amare lacrime. Adesso mi sento un fallito, un misero privo di forza e di coraggio. Io, mi abbandono nei tuoi occhi tristi, umidi, e… Adesso non più, non più lacrime: adesso basta! Ti stringo tra le mie braccia. Confida sempre, affinché il mio cuore sarà la culla della tua anima, e il mio calore sarà balsamo per le tue ferite. Nel tremante pianto del sonno mi svegliai di colpo. Mi sentii soffocato da una presenza: ho aperto gli occhi, ed eri tu che mi abbracciavi. Il tuo volto era ancora umido di lacrime, ma dalle tue labbra scorgeva quel sorriso unico, quel sorriso che cambiò la nostra vita, e che ora la cambiò di nuovo. Si aprirono i tuoi occhi e fissando gli occhi al cielo ti sollevasti dalla mia miseria umana; e come un angelo varcasti la soglia dell’eterna luce. In un sogno sono nato, ed in un sogno sono morto. Il mio sorriso si rifletterà nel tuo, ed il tuo nel mio. Adesso, per sempre o forse continuerò a sognare! La parte oscura di noi Tornando a noi, nei prossimi 7 giorni vi vedremo assorbiti da La parte oscura di noi, il nuovo argomento scelto dagli autori del gruppo Il Mondo dello Scrittore. Il tema proposto non è sicuramente fra i più semplici e tenderà a mettere in evidenza la parte del nostro animo che, forse, vorremmo restasse più nascosta. Tuttavia, penso che anche nell’oscurità vi possa crescere una bellezza non scontata, se non altro lo sarà di certo per ciò che riuscirete a tirare fuori dalla vostra fantasia, dimostrandoci, ancora una volta, che la classe non è acqua. Ovviamente, è lecito supporre che, essendo ormai vicino il periodo vacanziero, non saranno in molti coloro che avranno tempo e voglia di cimentarsi in questa nuova avventura, ma confido nel fatto che esiste la possibilità di collegarsi anche stando beatamente sdraiati su una spiaggia, magari in buonissima compagnia. Quindi buon divertimento a tutti! Monica Pasero Anima Gemella Vivere di sensazioni, nutrirmi di te, dei tuoi pensieri, dei tuoi battiti di cuore che danzano con i miei, percepire i tuoi respiri lontani, respirare il tuo vivere, immaginandolo mio. Vivere d’essenze separate, di sogni irraggiungibili, di flebili speranze, ma continuare a crederci . Viaggiare con il cuore, oltre la ragione. oltre tutto ciò che un senso non ha, oltre l’umano, oltre i confini, dove solo lì mi ricongiungerò a te, mia anima gemella… La parte oscura di noi Si cela nell’animo umano tra ragione e cuore, dove s’insinua la nostra parte oscura, quella parte di noi non sempre accettata, spesso declassata, rinchiusa dietro le sbarre della nostra esistenza, dove a volte è meglio soffrire che provare realmente a vivere. Soffocata, trattenuta, imprigionata dentro la nostra coscienza la quale doma ogni nostra sensazione, riportandoci al perbenismo dei nostri giorni, alle regole scritte, alla coerenza, alla legge del giusto, ma nel nostro più profondo sotto la brace dei dubbi e delle incertezze, si cela lei che urla la sua disperazione e libra verso l’alto il suo desiderio di evadere, uscir fuori, vivere anche lei la sua realtà, urlando al mondo la sua natura. La parte oscura di noi spaventa, terrorizza, perché il desiderio, la trasgressione che emana ci ricorda che il cambiamento è in noi repentino e forte. Non bastano le nostre certezze, la nostra razionalità a frenare ciò che in noi tumultuoso tenta la sua fuga, così come un vulcano in eruzione, la lava dei nostri pensieri mai detti, ricopre tutto riversandosi sulla nostra vita, sulle nostre certezze, sul vissuto, mettendo in discussione tutto ciò che fino a un istante prima dell’eruzione è stato il nostro mondo. La parte oscura di noi, anche se detta così può far paura, è la parte migliore, quella che ci vede come individui unici, che ci dà la possibilità d’essere davvero ciò che siamo, senza inibizioni, paure, inquietudini, solamente noi i stessi, unici nel nostro genere, liberi di farci emergere da sotto le ceneri di una vita spesso non nostra. Se solo riuscissimo ad accettarla e amarla come la vera essenza di noi forse non ci farebbe più così paura e sarebbe una via sicura in cui camminare verso il nostro destino, perché in lei si cela il nostro vero io, la nostra indole, la nostra unicità. E’ lì che la vera felicità sfocerà libera da ogni costrizione che la follia umana, nei suo schemi definiti, ci impone. Lettera ad un amico Caro amico, ricevo ora la tua lettera, che strano effetto mi fà a tenerla tra le mani, è tanto, forse troppo, che non ne apro una. Su questo foglio bianco la mia mano trema, emozionata e confusa nel rispondere ai tuoi pensieri cosi intimi e cosi condivisibili. Tutto tace qui intorno a me, i mie figli dormono ancora e, immersa nel silenzio della mia cucina, leggo con piacere le tue parole intrinseche di dolcezza e piene di verità, anche qui gli alberi stamani oscillano e osservandoli fantastico che mi stiano salutando, sono anni che ci scrutiamo a vicenda ogni giorno, mi conoscono bene ed io loro: innevati, fioriti, con le fronde al vento, verdeggianti hanno trascorso gran parte del la loro esistenza, accanto a me. Le mie stagioni sono passate insieme alle loro. Senza alcun dubbio loro saprebbero rispondere alle mie mille domande che ogni giorno attanagliano la mia mente, ai mille perché sulla mia e nostra esistenza, al perché io mi senta cosi diversa dalla maggior parte delle persone, e anche se la mia vita è uguale a milioni di altre vite, nel ruolo in cui ho scelto di moglie e madre, io sento qualcosa dentro di me, si qualcosa nel intimo mio più profondo, che sta cercando di nascere. Ci sta provando con tutte le sue forze. La mia vita non vuole fermarsi a questo, vuole avere uno scopo ben preciso, ognuno ha il suo in questa vita, ed il mio sta spingendo impetuoso, dividendomi a metà tra realtà e fantasia, ma il sogno prevale sulle due, e come ogni buona sognatrice spero che la gestazione sia a termine e che presto nasca quel bisogno di esprimermi che tanto sto cercando, come un viaggiatore cerca la sua oasi nel deserto. Ecco se loro parlassero amico mio, loro potrebbero dirmi che devo fare, per non sentire questo senso d’inadeguatezza che mi tormenta, questa voglia di emergere, non essere solo un numero tra tanti, ma avere anch’io accanto a te un posto nel mondo. Il vento stamattina non soffia più la quiete regna, anche i grandi abeti riposano sereni godendosi un caldo sole estivo, la calma che provano, calma anche i miei pensieri, vederli cosi imponenti nel paesaggio eppure nello stesso tempo fragili e senza difese, arrendevoli al loro destino, mi da un senso di pace. Il loro spirito vive col mio, hanno sentito le mie lacrime, le mie risate, le mie canzoni stonate e anche le mie urla d’aiuto. Conoscono un parte di me che forse nessun’ altro sà, quella parte che vorrebbe volare libera e posarsi magari proprio su quelle nuvole bianche, che amico mio vedi anche tu dalla tua finestra, si quelle nuvole che attraversano il paese senza metà certa, viaggiando per il puro piacere di farlo, un po’ come noi viaggiano con una penna in mano e gli occhi chiusi, vagabondando lontano in cerca di un mondo tutto nostro. Si, amico mio in quel mondo irreale, fantastico, quel mondo dove vivono i sognatori quello che come noi credono. Si, ci credono sempre, e si rifugiano lì, nei meandri della loro mente per nascondersi da una realtà troppo brutta per i loro animi sensibili tentando di riscriverla a modo loro. Vedi amico mio Si perché in questo mondo fatto solo di opportunismo e false verità, non c’è più il tempo per sognare, il tempo per allungare una mano per sentirsi ancora fratelli come Il buon Dio milioni migliaia di anni fa aveva scritto, in questo mondo quelli come noi vengono definiti folli, poveri illusi, persone senza concretezza, perché sognare spaventa, si amico mio spaventa quelli, in cui dalla vita cercano solo il lato materiale, la concretezza e il possedere, ma noi come ogni poeta o scriba di questo secolo andiamo oltre, noialtri possediamo qualcosa d’immenso qualcosa di eterno e che rimarrà con noi sempre, possediamo l’amore, la passione della comunicazione, quella vera all’antica, quella scritta; si, le nostre sillabe unite pian piano costruiscono emozioni, castelli di sensazioni provate solo da chi sa arrivare a noi, con sensibilità e comprensione. Lasciati Trasportare dai tuoi sensi, da ciò che il tuo cuore dice, navigando con lui presto troverai la strada e ti liberai di questo tormento, non ci capiranno mai, forse pochi lo faranno, ma quei pochi conosceranno una realtà diversa dove la vita cambia forma, dove la vera essenza è trasmettere amore. Godi il tuo dono, urla la tua gioia a discapito di critiche e incomprensioni: Dio ti ha dato qualcosa che solo gli eletti hanno, ti ha dato il dono della comunicazione e tramite le tue parole puoi donare un infinita di sensazioni a chi saprà coglierle . Oggi sono stranamente felice, forse sarà il sole che fa capolino dopo giorni di pioggia che in questa mattinata di fine luglio ha riscaldato pure me. Oppure sarà la tua inaspettata lettera e il piacere immenso che ho provato nel risponderti, sperando che il mio pensiero arrivi fin dentro di te ti abbraccio. Monica Voglia di rinascita Sentirsi inadeguata sia come donna sia come persona… ebbene io lo ero. La mia vita scorreva tra casa, figli e problemi quotidiani, non avevo un mio posto. Le mie uniche occupazioni erano badare ai miei due ragazzi o prenotare nuove viste specialistiche. Combattere con il centralino sperando che quel maledetto numero diventasse libero, passare le giornate nelle sale d’aspetto della neuropsichiatria in attesa che anche quella giornata finisse. In quegli anni, non so chi mi diede la forza per fare ciò che ho fatto, ma credo che ogni madre l’avrebbe trovata nelle mie circostanze. Tutto mi sembrava perduto e io, come madre fallita, non avendo avuto due figli sani, mi sentivo un vero fallimento, mi sentivo inetta, non in grado di procreare un bambino sano, figuriamoci se potevo avere stima di me stessa. Poi, un giorno, il mio lato oscuro, la parte che tanto ho represso, ha bussato alla porta della ragione, anzi l’ha sfondata a calci ed è entrata prepotentemente nella mia vita la mia “parte egoistica” che c’era in me, dopo 15 anni ha fatto la sua entrata in scena, follemente, prepotentemente mi ha catturato e mi ha reso una donna libera. Il mio lato oscuro ha detto: adesso basta. Ha urlato voglio vivere, voglio fare di me qualcosa d’importante, voglio riprendere indietro un po’ di tempo per me stessa, voglio iniziare a curarmi e a sentirmi di nuovo donna, voglio credere che a quasi 40 anni posso ancora sorridermi allo specchio; così, con forza, ho ridato un senso ai miei giorni. Andrea Borrelli Animal watching Che bello e bella la natura Tanto diversa Da farmi soffermare sempre A guardare Quanti animali E così strani. Mi fermo stupito a vedere Allora quegli esserini Che poi tanto piccoli non sono Anzi di più Anche di me sembrano ostentare grandezza. Sul cavallo rombante Sfrecciare e far scie nere sulla strada A richiamar l’ attenzione In versi fuggiaschi A difesa delle loro paure. Poi infine Vederli con le lenti oscure sugli occhi Quello di dietro Saper addirittura bere a una bottiglia Come noi in un sol colpo Forse per la troppa arsura finirla. Con la semplicità Di un escremento fumante appena Uscito da quel buco Lanciarla in aria e cader sull’ asfalto. Poi tornare di nuovo Ai loro incomprensibili versi Urla di gioia a far intendere Molto dolore da nascondere. Dentro vivo (da doppia personalità) Chi conto? Me, così siamo in tre Io, l’altro e tu Che non ti conosco Tu Almeno il meglio E al meno il peggio Viceversa Senza versi potrei Esser vero di tre Due, uno, zero. Luce di lampioni (quella fioca, che lascia quasi oscura la strada) Era steso sul letto ancora a pensare. Fu spaventato da un tristissimo rumore di aspirapolvere, assordante e si alzò a malincuore. Si sentiva strano, quella cosa non che fosse tanto buona, e non ricordava più ciò a cui stava pensando prima sul letto. E non gli tornava proprio in mente e pensava di essere pazzo a torturarsi così. La sua paura era di non ricordarsi più niente. E più si sforzava di ricordare e più dimenticava. Pensò di continuare a dormire ma la paura di non riuscirci e lo sforzo perverso dei suoi pensieri, gli permisero un salto d’orgoglio e di avvicinarsi al frigorifero. Ebbe come un sussulto, quasi per svenire, accorgendosi che il latte era finito e sarebbe dovuto uscire per andare a comprarlo. Sembrava che le sue ossa fossero state ridotte in piccolissimi pezzi. In effetti ieri sera, pensava, ho esagerato con quella roba: “Ne ho presa troppa, basta devo smettere, mai più, mai più Zio”. E continuava con le sue paranoie. Si sarebbe dovuto vestire, ormai non ce la faceva più, la testa sembrava scoppiarli. Sarebbe diventato un pezzettino infinitesimale di mondo, non erano il caos e il traffico a spaventarlo, ma doversi confrontare e reagire alla gente. Combinarsi con le ombre sulla strada, e la sua, interagire e proprio non ce la faceva. Era davvero troppo per la psicosi di quel freddo e inutile giorno. Non pensava di poter risolvere il problema ma fu spaventato dall’idea di non trovare la forza per scendere e di rimanere in casa a pensare. I suoi occhi continuavano a fissare il letto vuoto. Si rese presto conto di quanta luce potessero fare le pupille dilatate nel buio e vinta la paura di non essere pigro, quello fu l’ultimo pensiero prima di uscire di casa. Decise bene di farsi un bicchiere di qualunque cosa avesse trovato in casa, così per darsi meglio coraggio. Cominciò allora a pensare di essere fatto di nuovo e fu subito tranquillo. Arrivato in strada sembrava che levitasse da terra direttamente verso il supermercato, continuava a ruotare la testa e sorridere. La compagnia in strada lo divertiva, e l’aria sembrava andargli contro in cenno di sfida, arrossandogli le guance. Per un attimo perse anche il senso dell’orientamento, e irrigidendo lo sguardo verso uno squarcio nel cielo provocato da un lampo di luce dietro una nuvola viola, si fermò. L’immagine che aveva nella sua testa era un tripudio di colori, affiancati ad emozioni ancora più dense e la mente associò tutto ad un bellissimo quadro. Sorpreso vedeva la gente passare e non accorgersi di tanta bellezza e ne rimaneva scioccato. Nel ventre della sua ragione allora cominciò a discutere con l’artista. Cominciò a credere a quello che i suoi pensieri tentavano di alludere ma andò avanti. La felicità dell’osservatore dietro quell’atmosfera fredda del raggio di sole aveva dato corposità a qualcosa di impalpabile così come il pittore cerca sulla sua tela. Adesso non c’era più nessuna differenza. Nella sua testa rimbombava la voce di una follia presto imminente se non avesse smesso, ora. Correva lungo il marciapiede e dimenticò di essere uscito per ben altri motivi. Per recuperare il tempo perduto decise di accelerare il passo spento ormai dalle troppe sigarette accese. La voce continuava a perseguitarlo per le vie marmorizzate dai vari spot pubblicitari sparsi ovunque. Sentiva le urla delle persone e i canti dei commercianti d’amore, così vedeva i proprietari dei negozi sulla strada, poveri di clienti. E si sentiva come dentro a una grande commedia, dove il buffone impaurito cerca di correre via dal palco, agitando frettolosamente le gambe sulla strada … ma prima un inchino verso il pubblico e un cenno di resa con la consapevolezza di non essere stato capito. Considerava la realtà attorno a sé tutta finta, e lui poco attore finitoci dentro per caso. Via d’uscita, l’entrata del negozio, fuori il mondo come un teatro. I sorrisi melanconici lasciati alle spalle. E pensava a tutti quelli che riversano i propri mali negli altrui per allontanarsi dalla propria tristezza. Nel finale sembrava solo annuire al pubblico e dare il consenso alle sue risa. Le abitudini, era di quello che si trattava. Non facevano per lui e lui era esattamente quello che stava facendo in questo momento. Scendere di casa e andare a fare la spesa, riempire le buste di plastica e pagare la cassiera, per poi tornare a casa e conservare lo scontrino nella lista spese. Allora stette al gioco di ciò che la sua mente gli suggeriva. Divenne partecipe di un’ opera qualunque, ma solo come osservatore non protagonista. Come se fosse semplice soffrire come facevano i protagonisti delle storie che andavano in scena fra un bancone di frutta e dietro una cassa di pesce fresco. Non conosceva nessuna di quelle persone, come faceva a sapere quali potessero essere i loro mali. Uscì dal negozio e decise ancora di smettere di pensare e tornare di corsa a casa. Ma ricominciò a passo lento, così da essere superato da tanta di quella gente che ormai aveva perso il conto. Allora decise di guardarli tutti negli occhi, per capire e conoscere le loro sofferenze, dove c’erano. I loro comportamenti, lo stile di vita o cosa provassero in quel momento alla fine interessava poco. Li guardava per guarire se stesso e non se accorgeva. Il dolore come gran varietà la sera in televisione che blocca davanti allo schermo milioni di persone. Era così che la gente normale guariva. Allora continuò a camminare , percorrendo il bordo del marciapiede a curare la realtà come finzione. E proprio in quel momento successe ancora. Stava rientrando ma la luce fioca dei lampioni lo colpì nuovamente come poco prima. Ancora un attimo di piacere e ancora risa. In ogni modo era contento. Gabriele Palumbo Conversazione sepolta “Ti arrabbi troppo facilmente” mi disse all’improvviso Ruby con tono d’accusa…io ero appoggiato alla mia vecchia poltrona in pelle, erano le 8 del mattino e non avevo chiuso occhio, non mi andava proprio di cominciare una conversazione, così mugugnai e socchiusi gli occhi…”perché non rispondi Mark?! Forse perché sai che è vero quello che ti ho detto? Rispondimi ogni tanto!”… Cominciai ad innervosirmi e decisi di risponderle per finire al più presto questa rottura: “hai perfettamente ragione, mi arrabbio facilmente, e vuoi sapere perché? Perché in passato ho sempre evitato di arrabbiarmi, ho sempre evitato di alzare la voce e di alzare le mani, ho sempre voluto farmi i cazzi miei…e ora invece non riesco a sopportare neanche una ragazza fastidiosa come te… vedi a che punto sono arrivato?!”…Ruby si tranquillizzò, sembrava compiaciuta da quella situazione: “ti vado a prendere una birra” mi disse…”non mi va una birra!…Sono quasi tre settimane che stiamo insieme e ancora non mi conosci!…Portamene due…” Ombre rinchiuse Ogni tanto mi capita, anche troppo spesso ormai…vedo, sento, qualcosa di oscuro uscirmi da dentro…è sempre più grande, è sempre più forte, ogni volta che sta per uscire e lo ributto dentro nei meandri bui del mio corpo, ogni volta che ritenta di balzare fuori, è sempre più difficile tenerlo a bada…diventa sempre più forte ed io sempre più debole, mi fa paura, il pensiero che un giorno non sarò più capace di richiudere la serratura, fragile e arrugginita, del mio lato oscuro…un lato pieno di cattiveria, di frustrazione, di odio e di perversione…un lato magnifico…ma troppo pericoloso… perché incompreso e imprevedibile…resta ancora lì immerso nell’oscurità da cui è nato, mentre il lato buono ha la meglio, il lato gentile e comprensivo, paziente e onesto, sincero e educato…ma le sbarre della prigione sono sempre più deboli…quindi non cercate di vedere cosa rinchiudono, non sfidate la sorte provando a smuoverle, perché anche dove la luce è più forte c’è sempre una zona d’ombra, e quest’ombra avvolgerà tutto…spero che ciò non accada mai, spero che la mia parte oscura rimanga lì dov’è, costretta solo ad osservare, costretta solo a salire in superficie per prendere un po’ d’aria…la mia parte oscura, la mia parte migliore… Andrea Leonelli Il mostro che ti vive dentro (tratto da “La Selezione Colpevole”) Mi hai guardato con la stessa espressione con cui avresti fissato un sacchetto della spazzatura altrui in un cassonetto. Mi hai degnato dello stesso sguardo schifato di chi vede un profilattico usato abbandonato per strada. Mi hai buttato come un calzino sporco e bucato. Ti disgusto? Forse perché in me vedi i riflessi del tuo sporco interiore. L’orrore che sai che hai dentro ma che hai paura di guardare anche solo per un attimo. E’ il mostro che si annida dentro di te ma è anche la tua parte antica quella che ti permette di sopravvivere alle battaglie che devi combattere ogni giorno Che ti permette di subire e restituire i soprusi della vita quotidiana Non aver schifo di me, Comincia ad apprezzare il marcio che hai dentro. Perché ti hanno detto che è marcio ma è anche la forza vitale, animale la rabbia che ti fa distruggere l’ostacolo. Non aver paura di me. Sono il mostro che ti vive dentro. Inutilmente crudele Inutilmente crudele Mostrare facce diverse Istinto di conservazione Vivo e non muoio Adattandomi Camaleontico Sono l’ombra nell’ombra Il dietro dello specchio Esattamente alle tue spalle Temimi perché colpirò Non so nemmeno io quando Prenderò per divertirmi I tuoi sorrisi E l’infangherò Della mia meschina codardia Farò di te una larva E stritolandoti gioirò Ridendo della tua annichilazione La bestia nell’abisso (tratto da “La Selezione Colpevole”) Sono sul fondo dell’abisso vivo qua dalle profondità della mia casa vedo voi che v’affacciate vedete in me il vostro bruto interiore lo cercate da me per essere sicuri che non sia dentro di voi ma non sentite i morsi che vi da nell’anima? Vedo da qua i vostri pensieri neri l’ipocrisia della convivenza civile vi mangereste l’un l’altro. Poi chiamate me Mostro Ma io son la vittima delle convenzioni che Voi avete deciso e stabilito. Io ho subito il vostro giudizio sommario la vostra giustizia approssimativa e son sopravvissuto cosicché abbiate a vergognarvi e a continuare a mentirvi senza capire Urlami lo schifo Urlami lo schifo Sputa i tuoi insulti Vomita la rabbia Non starò fermo A guardarti Colpire quel che di me Hai già spezzato Ogni giorno Coprendomi d’altre cose Sbiadendomi con doveri Che ti sei imposta Non voglio più Vedere tutto che passa avanti E io che resto li Quanto ho dovuto chiedere Che non mi offrivi Che mi pesava chiedere Che non volevo dirti Che non confessavo Per una passata illusione Di un noi sbiadito Non sei sta tu Fare il cane Che vuole la carezza Per anni Ma io E mi son preso i pesi Di inadeguatezze E incapacità E continuavo a cercarti E a sorridere Finché il sorriso Non s’é fatto Di plastica Usa e getta Come ciò che sentivo Io E stavo solo Anche con voi Ancora una volta L’ultima Ti offro le mie Insincere scuse E un altro sorriso Amaro come fiele Vuoi di me Vuoi di me The darkest side Il mio buio Il vuoto Colmo di rabbia Rancori e colpe Mi hai accettato In my darkest hour In the worst moment E mi hai abbracciato Hai accolto con amore Il mio ringhiare Rabbioso E le incongruenti contraddizioni Il mio essere tormento Metti un mano In this empty space Feel my iced soul Rabbrividisci E pensa che può esser luce Per te Vita Amore Tanto sottrae E tanto può dare A te che lo vuoi. Irma Panova Maino La Tenebra Quanto può un animo buono scendere nell’oscurità, senza rimanerne avvinto? Quanto può immergersi nella melma, senza subire il peso del fango? E quanto a lungo resiste, restando fuori dal proprio elemento naturale? Vi sono momenti nella vita in cui l’Essere si ribella, in cui l’oppressione diviene tale, da costringere un’anima pura a cedere alle tenebre, lasciando che prendano il sopravvento su tutto ciò che ci circonda. Attimi in cui l’universo si capovolge e ciò che pareva lecito diviene aberrante e ciò che rasentava l’assurdità, appare improvvisamente logico. Situazioni che vengono stravolte e centrifugate in enormi frullatori, i quali spremono fuori anche gli ultimi residui di un’umanità perduta. Ed è allora che si odono le grida dello scontro e il clangore delle armi; il sopravvivere non è più un effimero ideale, ma una concreta realtà, peraltro traballante e incerta. Come superare la notte, se non vi è altra alternativa che viverla fino in fondo? Come arrivare fino all’alba, se le sinapsi non rimandano altro che impulsi rabbiosi? Non vi è ripensamento né tempo per il rimorso. La perfidia e l’intolleranza ci spingono avanti e avanti ancora, incuranti di quanto stiamo calpestando e di ciò che giace ai nostri piedi. I caduti e i feriti non si contano, non hanno importanza alcuna e non servono nemmeno per riempire i vuoti, ciò che conta è il momento, quell’istante che porta a volgere la palma del vincitore all’uno o all’altro, l’istante in cui si decreta chi salirà sul più alto gradino del podio. Dunque cosa resta? Se non il biancheggiare delle ossa che cospargono i campi di battaglia, riportando solo l’odore della morte e i lamenti dei feriti? Il putridume delle viscere sparse e gli arti spezzati, insieme ai sogni spazzati via, nel letargico disinteresse comune? Cosa, se non la certezza che in guerra nessuno esce vincitore e nessuno può realmente cantare vittoria? La libertà ha un prezzo e il fio si paga, anche con il sangue. Non esiste compromesso e non vi sono patteggiamenti che possano durare nel tempo. Esiste solo la tenebra più cupa. L’oscurità che assorbe ogni minima luce, beffandosi di qualsiasi tentativo di resa. Or dunque cantiamo l’inno alla gloria dell’inferno mentre, con le armi in pugno, portiamo noi stessi alla distruzione. Che senta il nemico il coro e l’assolo della voce del drago, mentre questi sputa fiamme infernali e l’odore del zolfo appesta l’aria, togliendo il respiro. Che le orde si riversino nella piana, lasciando dietro di sé solo tizzoni ardenti e la desolazione di un tempo annientato. Nel passato resta racchiusa la chiave del futuro. E le cicatrici resteranno, come mute testimoni di una tenebra annunciata. Lame È tramontato il sole dietro le mie iridi chiuse Nebbia e gelo imperversano nel mio animo lasciando che siano I pensieri le lame che affondano Lame… Gli ultimi bagliori si riflettono sull’acciaio del carattere forgiato nel fuoco Lascia che cali la notte Lascia che sia il buio ad ammantare le mie mani Lascia che il sangue diventi nero alla luna. Nadia Milone Io sono così La maggior parte delle persone pensa che io sia una persona buona, tranquilla, generosa… Forse un po’ lo sono, ma loro non sanno cos’ho dentro. Quasi nessuno sa cosa si prova quando ti assale quell’inquietante senso di angoscia che ti blocca, il sentirsi inadatta a qualsiasi cosa, sempre fuori posto, come un soprammobile ingombrante che non serve a nient’altro che catturare polvere. Cosa significhi aprire il frigorifero a metà della notte solo perché non si riesce a dormire e ingoiare qualsiasi cosa ci sia a portata di mano, illudendosi, poi, di stare meglio. Essere come una bambina viziata davanti ad un barattolo di nutella, ingozzarmi e finirlo in dieci minuti, poi guardarmi allo specchio e piangere, piangere finché non mi fanno male gli occhi, perché quella che vedo riflessa non sono io, è solo un corpo senz’anima, ormai. Non riesco ad accontentarmi di ciò che ho. Odio la mia vita, non mi piace, non mi soddisfa, allora esploro il mondo fuori e scopro cose che mai mi sarei aspettata di trovare. Un clic ed entro nel web, una connessione che mi salva la vita, un appiglio che non mi fa cadere nell’abisso. E lì ci sono i miei amici, le mie soddisfazioni e tutto ciò che, per qualche ora, mi rende felice. divento un’altra persona perché riesco ad esprimere me stessa, in qualche modo. E poi c’é quella persona, in particolare, che mi sa comprendere più di quanto lo abbiano fatto tutti gli altri nel corso della mia vita. Quell’angelo speciale che mi sa regalare attimi di spensieratezza, follia e felicità, che sa farmi sentire bella, anche se non lo sono, che riesce a farmi sentire appagata anche senza montagne di cioccolato davanti agli occhi e che da un semplice messaggio riesce a capire se io sia triste o felice, davvero non so come faccia… E allora mi lascio andare, parlo, piango e sorrido da dietro al monitor, sapendo che lui farà lo stesso, dall’altra parte. Forse sarà sbagliato, non lo so… Forse mi dovrei sentire sporca e in colpa per questo, ma proprio non ci riesco. No, non voglio, perché se per qualche ora riesco ad essere la donna che vorrei vedere riflessa in quello specchio, allora vale la pena rischiare. ma poi il pc si spegne ed io ritorno quell’essere insignificante e privo di importanza che fa da sfondo alla vita di tutti gli altri, ma almeno il mio pensiero non è lì, soffocato dalla polvere delle mie giornate, ma è insieme a chi è riuscito a farmi riemergere dal fondo. Alessia Cutrufo L’altra me Quella strana sensazione di non percepire più il proprio corpo, di riuscire a venderlo semplicemente perché non lo si riconosce più come proprio. Inizia a capitare quando guardandoti allo specchio, mentre ti vesti, è come se guardassi una tua amica farlo…. e ciò che pensi è solo…..io non sono così…. Si, forse è quello il momento in cui capisci che è arrivato il momento di arrendersi alla realtà. Una prigione…ecco cosa diventa il corpo e l’unica cosa che ti interessa è creare degli sfregi su quell’involucro…per dimostrare a te stessa che l’esterno non può più ferirti…. Dopotutto per quanto si impegnino possono ferire solo quella specie di scatola che mostri all’esterno. Vedi gli occhi degli altri posarsi su quel corpo, desideri solo che se lo prendano, che vogliano solo lui e non ciò che c’è dentro. E cerchi la loro mano, la loro voglia, perché in quel modo non devi mostrarti…. Mostri quella parte di te che loro desiderano…. li rendi felici, non ti chiedono altro e tu non potresti nemmeno darglielo….o forse non vuoi darglielo…chissà. E mentre per un secondo ti giudichi per ciò che hai fatto, comprendi che è stato solo un modo per dimostrare a te stessa che potevi farlo, che quell’involucro poteva proteggerti, che donando (o vendendo) lui, tu eri salva. Salva da quella te che esce quando qualcuno vuole entrare, quando qualcuno ti chiede come stai. Perché non tacete? È un corpo che volete no? Tenete, prendetelo…. non è più mio e forse non lo è mai stato…. Godete di quel corpo alla vostra mercé, mostrate le vostre debolezze, io non ne ho….o almeno….quello che vedete e volete non ne ha. Potete toccare la pelle, anche ferirla, ma le lacrime non usciranno perché ciò che vi do non sono io. Questo è ciò che pensi quando ti fermi e davanti allo specchio vedi te stessa…. L’alternarsi di te e di lei…quel tuo non riconoscerti più, quel tuo cercarti in quei pochi occhi che non si fermano, che cercano di scavare anche se spesso sei tu a bloccarli… Realtà svelate L’ostinato disperdersi delle molecole del mio corpo, nella speranza che un lieve alito di vento possa portarlo lontano da quella prigione di diamante nella quale la mia anima si infligge torture con catene dorate. Su quel piccolo frammento di specchio, ultimo superstite dei miei sogni di ragazza, si riflette un corpo non mio…. un viso segnato che è solo il residuo di una natura che si svelava. Quel viso mai sfiorato da mani amiche, quel corpo concesso a cercatori di tesori intenti a scavare la carne per portare via brevi istanti di piacere. Alla ricerca di quegli avventurieri che non cercano altro che passione, uomini ai quali puoi nascondere il tuo viso, che non lo conosceranno mai, che non lo cercheranno mai. Uomini che possono ferire la carne di quel corpo ormai distante da me, ma che mai scalfiranno quelle pareti di ghiaccio che celano il segreto. Il calore della notte scalda quei brandelli di pelle rimasti illesi da giornate di sfrenata passione, e nel calore della notte, su un letto disfatto, trovo la forza di liberarmi di quella maschera di donna per tornare bambina tra le braccia di Morfeo... Anna Cibotti L’Io… Nascosto C’è in me qualcosa di oscuro che non trovo. Lo cerco nei ricordi sbiaditi dei miei anni già consumati Tra le pieghe dei miei sentimenti feriti Nel mio odio per gli uomini ignoranti Nella mia impazienza Nella mia superbia Ma trovo solo peccati Resi leggeri dalla mia trasparenza. Lascio l’oscuro dov’è Se c’è Quieto nel suo sonno di morte Nel suo profondo buio Io Amo la luce. Angelo Francesco Anfuso La parte più celata (…) Avevo circa ventuno anni, quando quella grigia mattina, mi recavo come al solito all’Università. Giorno grigio, avvolto dalla densa nebbia novembrina che avvolgeva come un candido manto gli aranceti della vasta pianura, sfiorando a malapena le pendici dei Monti Iblei. Ricordo il viaggio in pullman, l’odore della tappezzeria dei sedili, un po’ scomodi ma sempre meglio di quei treni maleodoranti, dall’odore agre, e dai sedili in pelle che trasudavano aromi sconcertanti. Tra una musicassetta e un libro, finalmente arrivo in Facoltà e subito mi precipitai nell’aula dove mi aspettava una meritevole lezione di Filosofia Medievale. Beh! Che dire, non bastava il giorno grigio, anche la lezione sui trascendentali dell’Essere in Tommaso d’Aquino. “Oh, no! Iniziamo bene!” Pensai. “Ma proprio oggi, noooo!” Non feci nemmeno in tempo di sistemarmi che mi sentii leggermente osservato da due matricole, che con molto garbo mi puntarono gli occhi come se fossi un Trascendentale fatto carne. In effetti, non avevano torto, visto che io nel mio modo di vestire ho sempre cercato di essere unico nel mio genere, GLAMOUR per eccellenza e andare a passo con la moda e sinceramente parlando non tutti all’epoca erano in grado di andare a passo con le tendenze: anzi, molto molto … Dopo la lezione, come da rito, mi precipitai al bar della Facoltà, c’era freddo, e come al solito latte caldo macchiato e biscotti. Mi sedetti al solito tavolo, vicino la finestra che dava sul chiostro, si proprio chiostro perché la Facoltà sorge all’interno di un ex Monastero: che bellezza! Ero un po’ assopito dai miei appunti, in effetti mi ero destato dal sonno alle cinque del mattino, e mi ritrovai davanti un ragazzo che mi fissava con meritevole devozione. In quel momento non feci caso più di tanto a chi entrava o usciva dal bar, poi le mie palpebre si cullavano tra una pagina e l’altra, tanta era la stanchezza che figuriamoci non avevo visto il ragazzo che mi piantonava. Mi sorrise e mi disse: “ciao, come stai?” ed io dissi a me stesso “ ma che vuole sto’ tipo” E lui: “ci siamo conosciuti quando abbiamo fatto l’esame di Antropologia Filosofica, ricordi?” In quel momento restai attonito, sorpreso dalla sua affermazione. Cercai di ricordarmelo, ma sinceramente non mi ricordava nulla. “Boh!” esclamai. Da buon galante lo invitai a sedersi e a consumare qualcosa, e lui accettò, senza farselo dire due volte. Iniziammo a parlare del più e del meno, in un certo senso mi piaceva il suo modo di parlare, molto fine, raffinato, lui tra l’altro era di bell’aspetto, una statua di Fidia vagante Mi lasciai trasportare dalla sua voce e dai suoi occhi, ovviamente con dovuto rispetto, ma non so’ cosa mi sia successo, ad un certo punto iniziai a vagare con la mia mente verso luoghi e parti del suo corpo a dir poco proibiti. Ahimè, che fatidico desiderio è il mio! Avrei fatto di tutto, per concedermi alle sue braccia, per avvolgermi a lui come il serpente genesiaco. Lo desideravo più di ogni altra cosa, in me si era innescata una voglia, una brama di lussuria così ardente, che la fiamma ossidrica dell’accendino a confronto era un misero raggio di luce. Mi sarei venduto l’anima al diavolo, tanto era quel nobile piacere che mi aveva fatto scaturire, dalla parte più intima, tanto oscura ma preziosa della mia persona. Ad un certo punto, la mia trascendenza svanì nel nulla, interrotta da uno sconosciuto che troncò quell’elevazione paradisiaca per una misera sigaretta. “Ma vaffanculo, vedi questo stronzo” dissi in cuor mio, “non poteva andare da un altro?” Finita l’estasi, il mio desiderato sconosciuto si alzò dalla sedia, dicendomi che doveva andare in bagno e poi nel chiesto per fumarsi una sigaretta. Gli diedi solo il tempo materiale di varcare la porta del bar che subito mi precipitai come un segugio sulle sue orme. Arrivai nel chiostro, era lì, non c’era nessuno. Stava fumando, disteso sul prato, come se fosse casa sua, ed io con molta indifferenza mi avvicinai. Ero troppo preso dal desiderio, avevo troppa voglia, mi sdraiai e mi abbandonai a lui. “Afferrami” gli gridavo all’orecchio, con voce prepotente e tremante, magari per la paura di essere scoperti. Mi sentivo Ganimede tra gli artigli di Zeus, pronto a gustare il prezioso nettare divino. Furono attimi infiniti, ma effimeri nello stesso tempo. Restammo ancora un po’ distesi sull’erba come se non fosse successo nulla. Dopo aver toccato l’apice del piacere, uscii e mi recai in bagno. Mi specchiavo, ma non mi riconoscevo in quel riflesso, “che meschino che sono” dissi ad altra voce. Solo dopo che uscii dalla Facoltà, ritornai veramente in me stesso, cercando di celare quella parte oscura (anche se mi sentivo felicemente soddisfatto). Però! (…) Nadia Lattanzi Marta Le mollò un ceffone che la fece cadere dalla sedia. E con un rumore secco si alzò dalla sua..la prese per i capelli,la schiaffeggiò ripetutamente e cominciò ad inveire con parolacce e minacce <<Devi stare zitta! Sono io che comando qui! Io sono più forte e tu farai solo quello che dico io..>> le urlò così forte nelle orecchie che lei deve essersi sentita i timpani andare in frantumi. Di peso la sollevò e trascinandola in camera da letto,continuò ad urlare la sua rabbia. Sapeva già come sarebbe andata a finire e decise che tapparsi le orecchie stavolta non sarebbe bastato.. le urla l’avrebbero perseguitata ancora la notte e lei non riusciva più a distinguere gli incubi dalla realtà. Si alzò dal letto e si mise dietro la porta, sperando che il cattivo si accontentasse di aver interrotto la cena. Origliò, qualche minuto di silenzio e sobbalzò all’urlo di lui << Puttana!… non sei capace di fare la cena vediamo se riesci a farmi godere!>> ormai s’era spinta oltre,stava spiando attraverso la porta socchiusa. Lui la prese per i capelli e sbottonandosi i pantaloni la costrinse ad aprire la bocca.. Incurante delle lacrime di lei continuò a martellarle la gola. Quando ne ebbe abbastanza le strappò i pochi vestiti di dosso ed entrò in lei come una furia continuando a dirle << sono io che comando.. tu sei mia.. sei mia>>. Fino che non diventò un flebile sussurro. Poi finì. Cadde nel sonno. Lei se lo scrollò di dosso,aveva finito le lacrime. Si diresse in bagno e si lavò di dosso quello schifo.. Tania portò la sua Barby e la sua bambina fuori dalla casa delle bambole e disse loro << state tranquilli tesori miei ,vi porto via da Ken..è cattivo proprio come il mio papà quando beve!>> Marta guardò sua figlia dalla fessura della sua cameretta..la guardò mettere in scena la sua vita e si disse che no,non dormiva Tania quando succedeva questo. Andrea Mazzolini Moon River Non avevo neppure quattordici anni ma già avevo le idee molto chiare sul mio futuro, forse anche troppo. Da grande sarei diventato un ingegnere. Il problema è che non sapevo bene cosa facesse un ingegnere. Non conoscevo nessuno con quella qualifica. Nessuno in famiglia aveva mai fatto studi universitari e tutta la parentela considerava uno dei miei cugini praticamente un genio perché si era diplomato in ragioneria. Ma avevo sentito dire che fare l’ingegnere era un mestiere prestigioso e che si guadagnava bene. Ecco il modo giusto per ricompensare i sacrifici dei miei genitori. Tanto la matematica non mi creava nessuna difficoltà, anzi. Gli esercizi e i problemi che mi davano a scuola mi sembravano terribilmente semplici, come fossero dei giochetti banali e insignificanti. Certo, suonare mi piaceva molto di più della matematica ma non c’erano soldi per frequentare una scuola di musica. Pazienza. Sarei diventato un ingegnere, un grande ingegnere e allora finalmente mi sarei comprato un pianoforte. Passarono gli anni, anche troppo in fretta. Il liceo prima e la facoltà di ingegneria poi, sempre più tempo sulle dispense da studiare e sempre meno tempo per la musica, per leggere i miei amati libri e per gli amici. Una brillante laurea con lode e via a lavorare. E cosa vorrai fare dopo che ti sei laureato e hai appena iniziato a lavorare? Mica vorrai riprendere in mano le vecchie passioni, sarà pure arrivato il momento di diventare grandi, di sposarsi e avere dei figli? E mica vorrai fare il semplice impiegato ora che sei laureato? Dovrai pure darti da fare, girare per il mondo, farti una carriera. Ed io lì, sempre a fare quello che piaceva agli altri o quello che gli altri pensavano mi dovesse piacere per forza. Mica potevo dire: fermi tutti, fermate il mondo, lo so, bisogna guadagnarsi da vivere ma io non sono realizzato in questo modo. Volevo altro ma quello che volevo era stato nascosto dietro felici apparenze. Conoscevo il mio lato oscuro ma facevo finta che non esistesse. Facevo finta di essere felice. Ora l’ho capito, ho buttato via molti anni a fare quello che gli altri si aspettavano da me e non quello che veramente desiderato. Ed eccomi qui, molti anni dopo, un matrimonio alle spalle e un lavoro che non ha dato le soddisfazioni sperate. Dovrei essere triste per tutto questo, tremendamente triste, e a volte lo sono. Invece sono sostanzialmente sereno. Godo di buona salute, ho i miei figli e non è poco. Non ho ancora un pianoforte per me, mi devo ancora comprare casa e alla mia età non riuscirò più a suonare il volo del calabrone. Ma piano piano ho scoperto nuove passioni. Ballare, scrivere sciocche storie d’amore, qualche sonetto, fare nuove amicizie, sognare. Che cosa sogno? Avete presente Colazione da Tiffany, quando Holly suona la chitarra e canta Moon River sotto gli occhi stupiti dell’amico Paul? Ecco, il dreammaker sono io. Se conoscete Holly ed è abbastanza folle, vi prego, dategli il mio indirizzo. Rossana Roxie Lozzio Nemica carissima Sei quanto di peggio potesse capitare e sei piombata nel momento più esaltante della mia vita, quasi a ricordarmi che la perfezione non è di questa Terra. Ti sei presentata e oggi so che lo fai sempre, sotto mentite spoglie, come amica… millantando di angeli, di sofferenza, di persone volate in cielo e del vuoto incolmabile che avremmo potuto condividere. Così, come la passione per uno stesso artista e per la sua umanità, tanto cara a te, per come ti mostravi. E’ bastato un cambiamento, in quello che non era certo il tuo piano… sono bastate parole di stima nei miei confronti e un’attenzione palesata verso di me per farti cambiare direzione. Hai gettato la maschera, anche se hai fatto del tuo meglio per continuare ad indossarla e mi hai mostrato la tua vera natura, la miseria del tuo immenso vuoto interiore. Nascondi la natura che proviene dagli inferi, con parole di cui ti sai vestire, con sorrisi angelici che dispensi a chi li vuole e soprattutto, con meravigliosi abiti e accessori di cui ti vesti per il piacere di sbatterli in faccia a coloro che consideri NIENTE. Mentre il niente sei tu, cara nemica che colpisce alle spalle… e non vale nemmeno la pena odiarti, perché TU non vali la pena! C’è una parte di me che vorrebbe rovesciarti addosso il tuo stesso veleno e ricoprirtene, facendo in modo di levarti quel sorriso dalle labbra giusto per il tempo di svelare chi sei a chi ancora ti crede… c’è una parte di me che vorrebbe vederti soffrire e che amerebbe saperti relegata nell’angolo in cui stai tentando da tempo di infilarmi ma riesco ancora a contenerla e mi limito ad attendere. Aspetto che sia tu a rovinarti, con la cattiveria che ti alberga dentro e che, un giorno o l’altro, ti tornerà indietro. E a ridere, per una volta, sarò io, cara nemica codarda… a ridere sarò la sola e la parte oscura di me, che non conosci, godrà silente, mantenendo ogni epiteto in fondo alla gola e permettendo alle corde della mia anima di fare una ola! Elisabetta Bagli Tortura Nuda, umiliata, martoriata, supina sull’asfalto del mio tunnel, aspetto. La sua oscurità mi avvolge, voglio liberare la mia esistenza con pneumatici pietosi oscillanti sul mio corpo, macellare la mia carne, polverizzare le mie ossa. Speranza incompiuta. Sei arrivato tu. Suadente voce non mi hai permesso di andare. Mi hai preso per mano, portandomi dentro te nel tunnel buio della tua anima costellata di stelle velate che vuoi scoprire con me. Pizzichi la mia fantasia come le corde di quel violino che non vibrano senza te. I tuoi ritmi sono dolci e irruenti come le tue parole, leggeri aliti di vento sul mio collo, come il tuo vegliare su di me mentre annusi la mia essenza. Mia lenta, inesorabile tortura. Il viaggio L’avvicinarsi di agosto rende tutti un po’ più languidi e rilassati, chi è già partito per le vacanze, chi ancora deve preparare i bagagli, ma in ogni caso l’aria festiva aleggia nell’aria, preparando gli animi a lasciare i nidi e a spiccare il volo verso nuove avventure ed ecco il perché del tema di questi 7 giorni di follie. Contrariamente al solito, questo articolo inizia dal tema odierno e non da quello precedente, proprio per sottolineare lo spirito con cui, spero, verrà affrontato questo argomento. Il viaggio, inteso come percorso interiore, piuttosto che come destinazione vera e propria. Viaggiare con la mente e con i pensieri, oppure materialmente, affrontando un’esperienza che poi sarà piacevole condividere con il resto di noi. Viaggio come sogno e speranza, verso tutto ciò che vorremmo realizzare e vedere concretizzarsi nel nostro quotidiano. Ma anche viaggio in un passato che potremmo esserci lasciati finalmente alle spalle, salutandolo per un’ultima volta. Decideranno le nostre meravigliose Penne, in quale modo esprimere la propria creatività che, come sempre, regalerà, a chiunque approderà su questo blog, stralci di un’arte ancora perfettamente vitale e prolifica. Monica Pasero Cercatori di Felicità E poi ti accorgi che la vita ogni giorno ti mette davanti a delle scelte, dalle più banali alle più importanti. Ogni mattino quando apri gli occhi, non sei più la donna che si è addormentata la sera prima, ma con il sole rinasci, con nuovi pensieri, nuovi desideri e ogni giorno senti che qualcosa in te sta cambiando. Tutto ciò ti spaventa e nel contempo ti piace, perché il cambiamento fa parte della vita di ognuno di noi, ma credi sempre che a cambiare siano gli altri, perché loro hanno coraggio, loro c’è la faranno ad emergere dal nulla. Tu non sei cosi, tu non sei forte, a te non può accadere, ma poi ti accorgi che questa volta la vita ha deciso per te, la tua crescita è imminente .”Questa volta tocca a te!” urla il destino . Questa volta sei tu che ti stai trasformando. Tu racchiusa nel tuo nel bozzolo, dove sei cresciuta protetta stando in disparte, non mettendoti mai in gioco, difendendoti così dal mondo, chiudendo gli occhi all’amore, alle delusioni a tutto ciò che in quei anni ti ha fatto soffrire così tanto da non voler più provare emozioni, non voler più aprire il cuore, forse troppo disilluso per crederci ancora. Ora però, quel bozzolo che ti piaccia o no si sta aprendo delicatamente come i tuoi pensieri, che ogni giorno sono più nitidi, ogni giorno meno confusi e indicano il tuo sentiero, la strada che dovrai seguire per ricercare la tua felicità. Siamo tutti cercatori, alla ricerca di quella vita che tanto sogniamo, non tutti riusciremo a trovarla, molti di noi si fermeranno per paura di cadere, altri perché non saranno in grado di affrontare la sofferenza che le scelte impongono, altri ancora rinunceranno per il bene di qualcun altro. Alcuni invece la troveranno, lottando contro il mondo intero, usciranno da loro bozzolo e conquisteranno una parte dell’universo che Dio gli ha donato alla nascita. Per farlo però, occorrerà saper volare, si volare con il cuore libero e limpido, aprire le ali, quelle ali magiche che solo chi davvero ci crede, avrà il potere di usare. Il bozzolo si schiuderà e l’anima farfalla che c’è in noi prenderà il volo. Il viaggio sarà lungo e pieno d’ostacoli, ma in quel percorso comprenderai il perché tutto ciò sia accaduto e tra lacrime e nuove emozioni planerai oltre i confini delle tue paure e solo lì, tra quegli spazi lontani, solo lì troverai le risposte che ora disperatamente cerchi. Siamo tutti cercatori, alla disperata ricerca della felicità del sogno, del desiderio, di una vita cullata dalle emozioni più vere. Buon Viaggio Cercatori. Il viaggio Con lo zaino carico di pensieri parto per il mio cammino, la strada è in salita, c’è nebbia sul pendio dei miei sogni, fatico a risalire, sono stanca, sono caduta troppe volte, le mie ginocchia sono doloranti e sbucciate da troppe delusioni, ma oggi sul pendio, la nebbia si dirada, una luce apre nuovi orizzonti, il mio cammino riparte . Vedo nuove frontiere oltre la valle della mia esistenza, energie sconfinate mi attendono, sogni bramano il mio arrivo, le mie ginocchia non fanno più male, hanno riacquistato vigore, il cuore palpita più forte, la vita rianima il mio istinto. Ci sono! Il mio viaggio è in ascesa, il pendio sempre più vicino a breve sarò in cima, sento la vita che mi cerca. Il desiderio di rinascita troppo forte spinge calpestando tutte le mie paure. Giungo in vetta, da lì la valle della mia esistenza è più vicina. Il viaggio è ancora lungo, ma il sentiero più arduo è superato, con nuovo vigore percorrerò passo dopo passo il mio viaggio, consapevole di aver tracciato un percorso fino ad ora mai battuto, quello delle mie insicurezze. Andrea Mazzolini Euronight 234 Vita e sogni sono fogli di uno stesso libro: leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare. Arthur Schopenhauer Per un certo periodo di tempo mi è capitato di viaggiare molto tra Firenze e Roma per lavoro. Andavo a Roma al mattino presto e tornavo a casa la sera. Salvo un paio di eccezioni ho sempre utilizzato il treno. Sì, è vero, l’automobile ti svincola da rispettare orari precisi, ma per tutto il resto ho sempre preferito fare quella tratta in treno, è molto più riposante. Ti metti a sedere e ti rilassi, al mattino magari sfogli un quotidiano, alla sera leggi un libro, ascolti un po’ di musica con le cuffie, guardi il paesaggio, fai due chiacchiere oppure semplicemente chiudi gli occhi e stai tranquillo. Senza contare che arrivi diretto nel cuore di Roma (prima dell’invenzione dei navigatori satellitari mi era successo di smarrirmi nel traffico chiassoso della città eterna). Esistono differenti tipologie di treni che percorrono la linea Firenze-Roma. I più veloci sono i treni ad alta velocità, in genere sono puntuali, le toilette funzionano, ma sono anche decisamente più cari e li devi prenotare. In ogni modo io tornavo a Firenze sempre con un treno economico, un cosiddetto euronight, partenza Roma Termini, destinazione Monaco di Baviera, un convoglio che parte dalla capitale in serata, viaggia tutta la notte e arriva a destinazione all’alba del giorno dopo. Per questo motivo la maggior parte delle carrozze è costituita da vagoni letto. Al centro del treno si trova un vagone ristorante e ci sono infine un paio di carrozze normali, divise in scompartimenti da sei posti, situate una in testa e una in coda al convoglio. Era mia abitudine prendere posto sempre nella carrozza di testa. Dev’essere stato un giorno di giugno, quando il sole tramonta molto tardi e il crepuscolo sembra interminabile. Il vagone era quasi vuoto, evidentemente non c’erano tanti tedeschi che tornavano a Monaco in quella stagione. Molti italiani non sanno neppure che possono utilizzare questo euronight per andare a Firenze o in altre stazioni. Mi ero sistemato in uno scompartimento vuoto, nel posto centrale, con la schiena rivolta alla direzione di marcia del treno, ho sempre preferito viaggiare all’indietro. Poco prima che la locomotiva si mettesse in movimento si affacciò una giovane donna dall’aspetto bellissimo dicendo qualcosa in tedesco. Si sa, non capisco un’acca di quella lingua e in quella circostanza, di fronte ad una donna tanto bella, mi pentii di non aver frequentato almeno un paio di lezioni. Più delle sue parole comunque furono eloquenti i suoi gesti, voleva sapere se quei posti erano occupati o se si poteva sedere. Risposi con un sorriso, indicando che si poteva sistemare dove preferiva. La aiutai a collocare il pesante bagaglio negli appositi spazi in alto sopra le teste, mi ringraziò gentilmente con un danke e con un sorriso e si mise a sedere davanti a me, a sinistra, accanto al finestrino; a differenza mia lei era rivolta nella direzione di marcia del treno: la cosa non mi dispiacque, così avrei di tanto in tanto potuto ammirarla. Si chiamava Irene, l’avevo letto sul suo bagaglio. Il cognome era impronunciabile, abitava in una qualche strasse a München. Mi chiesi come mai non avesse preso un posto nel vagone letto, una così bella ragazza, viaggiare di notte tutta sola… Il nome Irene era un nome tedesco? Non ne avevo idea, pensavo fosse comune solo in Italia o nei paesi ispanici. Come si chiamano le tedesche? Heidi, Angela, Isolde, Karin: su due piedi non mi venivano in mente altri nomi. Ma sì, forse il nome Irene era comune anche in Germania. E comunque il suo aspetto non aveva niente di teutonico. Sembrava italiana, mediterranea. Iniziò ad armeggiare con il suo telefono cellulare, immagino a scrivere e ricevere dei messaggi, ancor prima che il treno si decidesse a muoversi. Io invece non avevo nessuno a cui scrivere un sms; ero molto stanco, la giornata lavorativa era stata pesante e mi assopii con i primi movimenti della locomotiva. Devo essermi svegliato dopo la stazione di Chiusi-Chianciano Terme, il paesaggio mi era così familiare, le mie amate colline toscane, disegnate da Dio e plasmate dall’uomo, gli olivi, le viti, i cipressi. Ho sempre pensato che non è certo un caso che il Rinascimento sia nato in questi luoghi. Brunelleschi, Masaccio, Donatello, Leonardo da Vinci, Botticelli, Michelangelo, tutti loro non avevano fatto altro con il loro genio e con le loro opere che rendere eterna la bellezza ispirata da queste terre. Ma un’altra forma d’arte, ben più stupefacente di tutto il Rinascimento messo assieme era davanti a me. Irene, sei talmente bella che nemmeno Botticelli o Raffaello avrebbero potuto disegnarti così. Osservo i tuoi lineamenti gentili mentre muovi leggermente le labbra canticchiando la musica che ascolti nelle cuffie. I tuoi occhi che riflettono questi paesaggi, i tuoi capelli mossi dal vento del finestrino, le forme perfette del tuo seno sotto la camicetta. Irene, fammelo dire, tu non sei semplicemente una donna, tu sei un prodigio, un miracolo che canta, ti ascolto e rimango senza fiato. Tu sei un sentiero segreto alla fine del quale si trova inaspettato il mare. Irene, tu sei queste colline, sei l’aurora, sei l’universo svelato. Tu sei le nuvole che disegnano il cielo, le stelle che guidano il mondo; tu sei l’oceano che culla la terra, la notte che addormenta il giorno. Irene, tu sei la brezza fresca dell’alba, il sole rosso del tramonto; tu sei il profumo degli aranci, i colori riflessi di un lago alpino. Irene, tu sei il volo elegante degli aironi, la danza giocosa dei delfini, la corsa libera delle gazzelle; tu sei una distesa di girasoli, un prato di gerbere, un giardino di rose. Irene tu sei gioia sublime, tu sei tutto per me. Ti osservo Irene, ma perché hai smesso di cantare? Cosa ti rattrista? Irene, perché un rigo di pianto solca il tuo viso? Irene, posso asciugare queste lacrime? Irene, cosa c’è che non va nella tua vita? Irene, io non ho molto da offrirti ma ti darei tutto quello che sono. Irene perché non andiamo a vivere insieme su queste colline di sole e di vento? Irene, Irene… Il treno si fermò di colpo, per fortuna mi svegliai altrimenti sarei finito a Bologna, Verona o chi sa dove. Eravamo in Santa Maria Novella. Era stato tutto un sogno. Irene dormiva. Mi stropicciai gli occhi, presi la mia borsa per scendere. Mi voltai. Auf Wiedersehen Irene, addio mio sogno, le sussurrai mandandole un ultimo bacio. Elisabetta Bagli Il tuo treno Sono salita sul tuo treno. Breve attimo percorso lungo il tuo stesso binario. Ho viaggiato attraverso il denso bosco della mia anima per cadere nella luce che ci ha inventati cancellando i nostri confini. Breve attimo della mia vita percorso insieme a te esplorando la mia dimensione di donna, immersa nella luce che, infallibilmente, ci ha fuso, rivelandoci in un mondo senza spazio, senza tempo, alla continua ricerca delle sue vibrazioni. Sono scesa dal tuo treno. Fermata obbligatoria del passaggio ricevuto. La nostra luce, ora, rende più netti quei confini. La nostra luce, ora, Illumina quel treno che ci ha allontanati. Gabriele Palumbo In cerca di una meta Zaino in spalla, pantaloni corti e scarpe da ginnastica, bastava questo, questo e un posto da vedere, da vivere…avevo sempre sognato di trovarmi in un posto del genere…un sentiero di terra battuta immerso nel verde, cielo in tempesta e l’oceano in lontananza…era l’estasi, il sublime, non esisteva nessuna altro posto al mondo in cui sarei voluto essere, volevo rimanere lì per sempre… camminavo, niente stanchezza, niente noia, camminavo e vivevo quel dono della natura al pieno… poi un rumore…ero seduto, il treno era entrato in una galleria, nel vagone non c’era luce, poi ricominciò a vedersi qualcosa, vagone pieno, io ero vicino al finestrino, di fronte a me una coppia di anziani e alla mia sinistra due stranieri, forse tedeschi…per fortuna il viaggio era quasi finito, cominciava a mancarmi l’aria e cominciavo a sentirmi sporco, la puzza insopportabile delle fabbriche si faceva sentire, ero a casa…scesi dal treno e quel primo attimo di sollievo per aver finalmente finito quel viaggio soffocante di 7 ore si fece subito da parte, lasciando il posto alla tristezza per l’essere di nuovo a casa…che rottura di coglioni il viaggio, soprattutto se sai che ciò che vedrai arrivato a destinazione saranno le solite cose di sempre…facce da culo e poi boh…altre facce da culo…avevo visto molti posti, ma il luogo del sogno non ancora…speravo di poterlo vedere un giorno, di affrontare un viaggio con la consapevolezza che stessi andando in paradiso, forse un giorno, ma non ancora… Nadia Milone In viaggio con la fantasia Vorrei tanto buttare due cose in valigia, solo il minimo indispensabile e partire… Solo io, prendere un traghetto e attraversare questo immenso mare che ci divide. Oppure prendere un aereo… sì, un aereo. E’ più veloce e impiegherei meno tempo. Arrivare nella tua terra, dove il sole scalda e colora le giornate e il mare è talmente azzurro da sembrare dipinto. Vorrei visitare quei luoghi così affascinanti e rilassarmi su una spiaggia da favola, sdraiata sulla sabbia accanto a te. E non mi interesserebbe nulla, credimi, non cercherei nemmeno un albergo, no… Una piccola, minuscola stanza mi basterebbe se tu fossi con me. Forse mi piacerebbe addirittura dormire sotto le stelle. Ma tu sei così lontano, troppi chilometri ci separano… Con la fantasia sto volando da te anzi, sono già lì e nella mia mente prende forma il più bel viaggio della mia vita. Quante cose potremmo fare insieme, quante notti passeremmo stretti l’uno all’altra per dar sfogo a tutta quella passione che stiamo soffocando dentro. Com’è strana la vita… Io nella tua terra ci sono stata, sai? E quella volta ho pianto tanto. E’ stata la vacanza peggiore della mia vita e giurai a me stessa che mai più sarei tornata in quei luoghi che credevo mi avrebbero ricordato per sempre cose spiacevoli e dolorose. Ma ora… ora è diverso. Adesso non vorrei essere da nessun’altra parte e il non poterci venire mi fa impazzire! Io continuo a sognare questo viaggio da favola, continuo a sperare di potermi immergere insieme a te in quelle acque cristalline e poi chissà… magari, un giorno o l’altro, il mio sogno si avvererà. A volte le persone sognano di viaggiare in paesi lontani e sconosciuti, terre esotiche con spettacolari paesaggi e la cosa buffa è che molti di loro riescono pure ad andarci. Io, invece, nonostante stia sognando un viaggio che la maggior parte della gente fa abitualmente, nemmeno in un luogo troppo distante per la verità, probabilmente dovrò accontentarmi di sognare ad occhi aperti. Ma la speranza è l’ultima a morire, si dice, e quindi io non voglio smettere di sperare. Rossana Roxie Lozzio L’ultimo viaggio, fermata intermedia… (Estratto da “Le ali di un angelo”) Nessuno ti spiega cosa succederà, una volta superata la dimensione terrena… nessuno ti prepara, sebbene ci provino le religioni, ad affrontare quel salto nella dimensione che separa la tua anima dal corpo! Giulia continuava a pensare che avrebbe dovuto vedere la luce e che, per quanto stesse provando a raggiungerla, non le accadeva. Stava male… male perché ricordava di essersene andata dalla dimensione terrena con un sorriso dipinto sulle labbra, dopo avergli parlato al telefono e adesso, lo osservava da dove si trovava, seguendolo ovunque e sentendosi prigioniera di qualcosa che le impediva di provare a confortarlo. Lo vedeva, assorbendo tutta la sua disperazione e la sua solitudine e cercava inutilmente di trasmettergli quello che sentiva e quello che voleva per lui… “devi smettere di pensare a me, devi lasciarmi andare!”, provava spesso a comunicargli dal luogo sospeso nel quale gravitava dal giorno della sua morte. Ma poteva considerare “morte” lo stato in cui versava da allora? Giulia sarebbe stata così felice di attraversare quella luce che cercava con forza da quando aveva smesso di respirare e di vivere all’interno del suo corpo… mentre invece doveva restare, impotente, ad assistere al dolore che colmava il cuore dell’uomo che aveva amato con tutta se stessa e che avrebbe amato per l’eternità. Se solo avesse potuto fargli sentire che il loro amore non sarebbe mai finito e che, continuare a vivere intensamente, non sarebbe stato irrispettoso verso la sua memoria ma che, anzi, sarebbe stato l’unico modo per permetterle di passare oltre! Lo guardò, prepararsi per andare a provare per il concerto che aveva tanto atteso… quello che lo avrebbe visto conquistare nuovamente la città in cui era nato e vissuto per oltre vent’anni e che gli avrebbe restituito parte della sua identità. Alessio aveva un’espressione incerta dipinta sul volto smagrito, niente di tutto ciò che l’aveva fatta innamorare dal primo momento si sarebbe potuto riconoscere in lui, in quel momento… Giulia riprovò a concentrarsi per tentare di fargli sentire la sua presenza e tutto il suo amore. Se avesse potuto piangere ancora, lo avrebbe fatto, scorgendolo sfiorare quelle ali che gli aveva regalato poco dopo il loro incontro sulla Terra e mettersele in spalla, per dirigersi fuori dalla stanza che occupava in albergo. Improvvisamente, si sentì trascinare verso un altro punto della piccola città lacustre e si accorse di stare di fronte ad una villetta, nella quale scorse una giovane donna, intenta a conversare al telefono. La osservò, rimanendo ad ascoltarla e si rese subito conto di quanto somigliasse a ciò che era stata nel suo passaggio terreno… aveva lunghi capelli rossi, simili a quelli che aveva avuto, occhi profondi e soprattutto, un atteggiamento che avrebbe indotto Alessio a sorridere dolcemente, proprio come aveva fatto spesso con lei, durante la loro relazione sentimentale. Forse, era arrivato il suggerimento che aveva lungamente atteso, concluse. Forse, essersi ritrovata lì, in quel preciso istante, non era affatto una coincidenza… e per Giulia, stava arrivando il mezzo fisico da utilizzare per consentire ad Alessio di staccarsi da lei quel tanto che le sarebbe bastato per riuscire a vedere la luce e per oltrepassarla, come desiderava e doveva assolutamente fare. Solo allora, avrebbe dato un senso a tutta la sua vita e avrebbe compreso che morire non era stato ingiusto e inutile. Viaggi con la mente Viaggio per raggiungere un amico, viaggio accompagnata da un’amica, viaggio e incontro nuove persone, chissà, potenzialmente, nuovi amici… viaggio, poi arrivo a destinazione e rifletto sul significato del termine, amicizia. Eccomi, a viaggiare di nuovo ma questa volta, con la mente… raggiungo alte vette, m’illumino di tutta la luce che vorrei, ti sto pensando e ti vedo! Ti vedo nel verde delle splendide montagne che ho di fronte, ti vedo riflesso nelle lenti scure degli occhiali da sole che incontro, ti vedo al mio fianco e mi rallegro… e per un attimo, persino, dimentico. Dimentico la cattiveria gratuita, dimentico che non mi sento a mio agio… dimentico che sono attorniata da una folla ma mi sento sola e ti ringrazio, per essere sempre nei miei pensieri, perché so che finché sarò capace di evocarti nei miei viaggi con la mente anche durante il viaggio peggiore, anche se intorno a me sarà più odio che amore, troverò la forza per reagire e l’energia per sopravvivere. Viaggio Un viaggio che mi attrae da sempre ma che so che non potrò mai fare… per timidezza, per timore, per rispetto e per pudore, anche se avrei vette da raggiungere e discese audaci da percorrere, anche se sarebbe meraviglioso perdermi e per ritrovarmi, avrei necessità di svegliarti. E’ il viaggio in fondo ai tuoi occhi. Angelo Francesco Anfuso Viaggio con i miei sensi Su questi possenti scogli sono seduto a contemplarti, tra le docili onde del mare su cui si adagia la candida brezza. Ti vedo, ti osservo, ti scruto. Riflette sul tuo corpo il misero raggio crepuscolare, sfiorandoti come morbida seta. Trascorre il tempo, veloce come il vento. Siamo soli, poco distanti, la mia vista ti segue, cerca di afferrarti. Chiudo gli occhi abbandonandomi a te. Inizio a viaggiare con la mia mente. Voglio raggiungerti, farti mio. Nessun uomo, nessuna creatura potrà mai comprendere il mio faticoso viaggio. Meta tanto desiderata o forse tanto ambita. La bellezza del tuo corpo sarà il mio porto, i tuoi occhi il mio faro e il tuo corpo la mia àncora d’approdo. Viaggio con la mente, ma non sono solo. I sensi mi accompagnano, mi sorreggono, sono il mio ausilio nascosto. Mi avvicino sempre di più, ti afferro: sarai mio! Ancora un solo passo e sento la tua voce. Il mio udito si intenerisce alla voce del tuo silenzio. Docile note il tuo respiro, sensuali sospiri di passione accesa. Divampa il mio udito, sono solo sordo. Sento solo il tuo respiro. Mi stringo dolcemente al tuo corpo statuario. Forte e possente come statua ellenica, perfetta in ogni sua parte. In te rifulge l’umana bellezza. In te risplende ogni forma. Il mio corpo e le mie mani sfiorano il tuo calore, lo plasmano secondo il mio desiderio. Sarai mio, sarai la mia creatura. Viaggio con le mi mani, con il mio corpo, il mio toccarti è una fedele guida. Ti modellerò come quando un vasaio modella la suo opera, o come il poeta modella i suoi versi Mi avvicino sempre di più, il viaggio è ancora lungo. Ti afferro: sarai mio! Scende la sera. Non sarà l’oscura notte a sviare il mio viaggio. Sento il tuo profumo il mio odorato non smentisce. L’odore del tuo corpo si confonde con quello del mare. Mi sale dalle narici, si fonde nella mia mente. Prezioso aroma è il tuo profumo, inebriante per il mio senso e appagante per il mio desiderio. Ancora, ancora una volta voglio sentirti. Il profumo del tuo corpo mi ha reso folle Mi avvicino sempre di più, il viaggio è ancora lungo. Ti afferro: sarai mio! O dannata distanza. I miei occhi sono stanchi, le mie mani sono deboli, il mio odorato inebriato. Ti afferro con le mie labbra. Gusto la tua presenza, le mie labbra sfiorano la tua pelle, si assaporiscono del tuo corpo. Il tuo sapore soddisfa la mia fame, disseta la mia arsura. Ti faccio mio, sei parte di me. Ti ho afferrato finalmente. Sei mio! Il viaggio è fatto. Si è concluso, sono arrivato. È notte. Apro gli occhi e guardo verso gli scogli. Solo un raggio di luna riflette su di essi ed io mi allontano con la mia barca. Inizio a navigare. Il viaggio deve ancora iniziare. È tardi ormai! La luna mi guiderà: sono certo! Sono solo, in questo viaggio. Nadia Lattanzi Viaggio con me Ho fatto il primo passo, sono entrata in me in punta di piedi. Mi sono cercata e ho guardato, con occhi da turista, gli scalcinati monumenti eretti in onore di avi ormai scomparsi. Ho respirato quell’aria di salotto buono con cui sono cresciuta sperando mi restasse nel naso come il profumo di zucchero filato alle feste di paese. Ho attraversato lunghi corridoi ad ammirare quadri colorati e coloriti di ricordi di bambina, fino a giungere davanti alla porta del caveau dove posso finalmente trovare me! Anna Cibotti Viaggio virtuale Vorresti partire o mente verso mete lontane e sconosciute. Esplorare e conoscere il mondo ignoto sulla cui barriera rimbalzano i tuoi gretti pensieri. Ma resti lì immobile nel tempo e nello spazio angusto dei soliti luoghi Non avrai la gioia del ritorno se non cominci il viaggio. Come vorrei essere Ci sono momenti nella vita in cui, benché soddisfatti di noi stessi, vorremmo poter, almeno per qualche breve istante, essere qualcosa d’altro. E questo nel migliore dei casi. Nel peggiore, ovviamente, vorremmo poter dare un’immagine di noi totalmente diversa e non solo per quel che riguarda un fisico, che magari non ci soddisfa, ma anche per poter presentare al mondo una personalità diversa, così agli antipodi dalla nostra, da non poter essere credibile. Tuttavia, Come vorrei essere non è solo un modo per esternare un desiderio, più o meno inconscio, di come vorremmo apparire, ma è anche un modo per poter esprimere una speranza, dare sostanza e concretezza a un percorso interiore, il quale può realmente portare a un cambiamento radicale. Dunque, per chi non lo avesse compreso, l’argomento che le nostre Penne stanno affrontando è proprio Come vorrei essere. Nadia Milone Come vorrei essere Fin da bambina, non mi sono mai piaciuta. Guardavo le altre bambine, le mie compagne di classe e le paragonavo a me, sempre. E loro erano regolarmente più belle, più magre, più intelligenti, più… più tutto, ecco! Queste idee mi hanno perseguitata nel corso della mia infanzia prima e della mia adolescenza, poi. Fondamentalmente, credo di aver sempre avuto una forma di insicurezza piuttosto accentuata, che mi ha portata a cercare di isolarmi dagli altri, a star sola. Io credo che, in realtà, mi vergognassi a rapportarmi con gli altri perché mi vergognavo di me stessa. Non sono mai stata una di quelle persone che si butta nella mischia, anzi, piuttosto direi una di quelle che si sotterrerebbe pur di non essere notata. Non ho mai pensato di poter ottenere dalla vita ciò che sognavo, anzi, ho sempre creduto che per essere felice mi sarebbe bastato accontentarmi di ciò che avevo. Purtroppo, con il tempo, ho capito che non era così, ma ormai è troppo tardi per cambiare la mia vita. Però ogni tanto mi fermo a pensare come sarebbe stata diversa la mia vita se io avessi provato anche soltanto una volta a credere in me stessa, se avessi preteso per me ciò che volevo e non mi fossi accontentata. Io vorrei aver avuto più rispetto per me stessa, per il mio corpo e per la mia anima. Avrei voluto essere una di quelle persone che si cura, che si pettina e che si trucca. Una di quelle donne che non esce mai con un capello fuori posto e che si guarda allo specchio e sorride, ma soprattutto, avrei tanto voluto essere una donna diversa interiormente. Avrei voluto innamorarmi di qualcuno, fare pazzie per amore, ridere e piangere ma, soprattutto, essere in grado di donare tutta me stessa ad un uomo prima di decidere di passarci insieme tutto il resto della mia vita. Invece, nemmeno questo sono riuscita a fare. Credo di essermi sposata per paura di rimanere sola, oltre al fatto di voler venir via da una casa in cui mi mancava l’aria. Non lo so, forse io non sono capace di amare e non merito di essere amata. Un anno fa ho creduto di essermi innamorata, nonostante mille difficoltà, ma è finita male. D’altronde, essendo io sposata non avrebbe potuto andare diversamente e la colpa non è nemmeno tutta sua. No, è mia, perché volevo e continuo a volere l’impossibile, l’irrealizzabile… Se potessi esprimere un desiderio, se stanotte vedessi cadere una stella, io chiederei di poter tornare indietro nel tempo, chiederei di incontrare un uomo del quale possa riuscire ad innamorarmi, forse eviterei di sposarmi… non lo so, forse chiederei di essere una persona completamente diversa, esteticamente e moralmente. In altre parole, se io dovessi riassumere ciò che ho scritto finora, vorrei avere la possibilità di essere felice. Da oggi sarò così Stamattina mi sono alzata dal letto a fatica, reduce da una notte insonne, trascorsa a pensare a cosa c’è che non va in me. Ho sempre cercato di essere una persona gentile, buona, per quanto questa vita possa concederlo, disponibile… Ho sempre creduto che la gente apprezzasse queste mie caratteristiche, invece mi accorgo, per l’ennesima volta, che non servono ad altro che a farmi calpestare ulteriormente. La vita ti prende a calci e pugni in faccia, non ti risparmia umiliazioni e più credi di fare il buono, più vieni travolto e schiacciato. Ma io credo sia ora di dire basta. basta calci e schiaffi morali adesso, ne ho avuti abbastanza. ho cercato di uscire dal mio guscio, ma ho fatto male, perché là fuori c’era un bastone pronto a colpirmi. Voglio tornare nella mia corazza, mi ci chiuderò dentro e questa volta butterò via la chiave. Voglio diventare un po’ più fredda, cinica e calcolatrice come lo sono gli altri. Non cattiva, non credo che ne sarei capace, ma devo riuscire a tirare fuori quel pizzico di durezza che serve per non lasciarmi più ferire. E’ brutto a dirsi, ma le persone se ne approfittano della bontà altrui e si divertono a vedermi strisciare. ma io non voglio più essere il verme di turno, basta. Sono già stata trattata come uno zerbino e ho giurato a me stessa che non avrei più permesso a nessuno di farmi sentire così. Da oggi si cambia registro, lo devo a me stessa come persona e come donna. da oggi io non sarò più quella che dice sempre sì, imparerò anche a dire no. In fondo, se gli altri lo dicono a me, per quale motivo non posso farlo anch’io? Imparerò ad anteporre le mie esigenze a quelle degli altri, credetemi, non è cattiveria, solo istinto di sopravvivenza in un mondo che mi vorrebbe vedere sottoterra e, forse, ancora non basterebbe. Stanotte è morto l’angelo che tutti vedevate in me, è lui che è stato sotterrato, è lui che si è arreso, non io. Io oggi sono più forte e, forse, più stronza che mai. Mi scuso con chi non ha colpe, ma devo prendere in mano la mia vita, è ora. L’angelo è morto, non c’è più e non resusciterà. Per chi merita avrò rispetto, per chi non merita, la porta del mio cuore rimarrà blindata. Io sono ancora qui, in bilico ma non a terra, chi mi vuole bene davvero troverà sempre un’amica sincera in me, ma chi ha intenzione di approfittarsene, da oggi in poi, farà bene a guardarsi le spalle. Regina Re Esserci “Come vorrei essere” è ciò che non sei e ciò che non sei forse non lo sarai mai, perché tu sei proprio ciò che non vuoi essere. Accetta ciò che sei e sarai proprio come vorresti essere. Questa è la voce che risuona, le parole giuste, quelle che fanno bene perché il bene serve sempre. Ma il bene non è mai per se stessi, è sempre per qualcun altro pertanto…perché amare se stessi se si ama sempre di più qualcun altro? “Come vorrei essere” è ciò che mi hanno detto che dovrei o ciò che vorrei veramente? Che cosa voglio? Odio questo tipo di domande soprattutto quando sai che risponderai la cosa che ti farà acquistare quei mille punti e un bonus con i tuoi che ci tengono tanto… Ma dai… che ci guadagni? Molto direi visto che me la sono sempre cavata così e so cosa sono, lo so bene e va bene, va bene perché mi sta bene. E poi c’è quel condizionale che non mi fa respirare, preferisco il presente che mi libera la mente. Come vorrei essere è quella domanda così scontata e oggi si sconta tutto nella vita, anche se la tua vita tu l’hai già pagata e qualcuno te l’ha già contata. Dunque io voglio e, se voglio, voglio ora e non domani e neanche tra un anno. Io voglio perché ci sono e, se ci sono, io sono. Monica Pasero Il mio specchio, lo sa Mi guardo allo specchio, nel vecchio specchio appeso da vent’anni alla stessa parete, quanto tempo, quante immagini ha riflesso. Rivedo ancora l’abito da sposa che si sfilava lentamente la prima notte dei mie 19 anni. Rivedo il pancione che cresceva in me inconsapevolmente ora madre. Rivedo una ragazza, ora non più tale, osservo quell’immagine ogni giorno, simile, ma mai la stessa. Osservo i miei lineamenti, il mio corpo non perfetto, mi guardo, mi studio, mi giudico, mi arrabbio. Fisso quel immagine che mi accompagna in questa vita, la guardo, non mi piace, la odio, la vorrei cambiare, le urlo contro la mia rabbia. Io imprigionata in un corpo mai voluto eccomi qui, arresa all’evidenza di non essere perfetta, ma in fondo nell’imperfezione vivo e cresco. Mi scruto, sbircio i mie occhi persi come sempre del resto, persi nel loro mondo, tra sogno e poca realtà, indiscutibilmente strani per una quarantenne, ma sono i mie occhi di un blu profondo forse un po’ troppo blu per un esistenza grigia… Lo specchio mi conosce ha visto le mie lacrime, la mia rabbia, la voglia di romperlo di frantumare quell’immagine, la mia immagine, ma non solo per la poca fisicità, ma per la poca fiducia che ho di me stessa, la poca stima. Il bisogno disperato d’essere compresa quel bisogno di voler essere diversa, di saper vivere di saper ancora volare, di provare si provare a vivere veramente non solo sognare di farlo. Ecco, se il mio specchio potesse parlare, lui ve lo direbbe chi sono, lui lo sa. Irma Panova Maino Io sono Nella penombra della luce azzurrina dello schermo, che proietta le sue immagini sul mio volto, accendo l’ennesima sigaretta, ascoltando il solitario ticchettare delle unghie sulla tastiera. Le parole volano, scorrono fluide sulle pagine virtuali, riempiendo righe su righe, senza dire alla fine nulla. Mi soffermo. La brace occhieggia fra le ombre e mentre aspiro il fumo, che scende caldo nei polmoni, penso alle storie che ho già scritto, ai personaggi a cui ho dato vita, ai drammi, le commedie, le trame intricate e complesse… tutto continua a scorrere, consumandosi nella cenere di questa sigaretta. E allora mi chiedo perché. Perché scrivo ancora? Perché cerco altre storie, altri personaggi, altre location… ? Perché sono colei che scrive. Sono colei che riempie le pagine con parole e locuzioni e aggettivi e verbi, cercando le imperfezioni, i sinonimi, le correzioni. Sono colei che ha scritto e scriverà ancora, continuando a bruciare la foglia sottile della carta che avvolge il tabacco, ticchettando con le unghie sulla tastiera, senza smettere mai. Le mie emozioni sono lì, nero su bianco, evidenti, pubbliche, condivise con chiunque legga. I miei pensieri affiorano insieme a sentimenti, stati d’animo, rabbia, confusione, gioia, amore… non sono solo parole. Esiste un significato dietro ogni singolo scritto, dietro ogni concetto espresso. Persino il modo con cui vengono accostati i soggetti con gli aggettivi e la scelta delle preposizioni o degli avverbi. Tutto ha uno scopo, tutto si trasforma in quel vettore che descrive me, che porta la mia anima nei circuiti stampati del mio pc, intrappolandola fra resistenze e condensatori. Dunque non semplici predicati verbali e coniugazioni. Ogni lettera, ogni virgola, ogni simbolo impresso rappresenta qualcosa di me, un pezzo del mio essere, del mio modo di vivere, di esistere. Ogni parola sono Io e ogni parola mi rende libera. Io, la tempesta Vorrei essere come te. Vorrei essere quell’ancora che, in mezzo a una tempesta, resta ferma e immobile al suo posto, dando quelle certezze che la mia follia non può garantire. Vorrei essere come te. Vorrei essere la montagna salda e immota nel tempo, colei che, con la propria sagoma, rende riconoscibile il paesaggio, riportandomi verso quella casa che ancora mi manca. Vorrei essere come te. Come quella cometa che indica la via, illuminando quel sentiero che avrei altrimenti smarrito, ritrovandomi, nella selva oscura, a contendermi le ossa con le altre belve. Ma non sono come te, sono la tempesta che spazza via i punti fermi e sono il vento che soffia implacabile fra le valli montane. E ancora, sono la pioggia di meteoriti che punteggiano il suolo con i loro crateri. Sono l’onda che cancella i “ti amo” dalla sabbia e demolisce i castelli innalzati in riva al mare. Sono il tempo che scorre nello strozzo della clessidra, segnando lo scandire dei minuti, delle ore, dei giorni… Eppure, tuttavia, tu domi il vento e la tempesta. Tu argini l’onda e ripari la diga. Tu sei la stella che brilla nel mio cielo notturno, ricoprendolo di lucciole e piccole lanterne magiche. Sei la penna del destino, che scrive di nuovo ti amo sull’arenile. Andrea Leonelli Io, la fortezza Vorrei essere come te. Vorrei essere quel cappello che vola via nel vento, libero di seguire le correnti e andare chissà dove, senza preoccuparsi della destinazione, dando quella libertà che la concretezza non può dare. Vorrei essere come te. Vorrei essere il volo infinito del tempo che scorre inesorabile cambiando il paesaggio attorno, portandomi sempre in posti nuovi e diversi, rendendo casa tutto il mondo. Vorrei essere come te. Vorrei essere la luce che illumina tutto, rendendo visibili le gabbie delle convinzioni in cui sarei rimasto imprigionato ad elemosinare attenzioni, ringraziando anche delle botte. Ma non sono come te. Sono il faro che indica il porto sicuro. Sono il rifugio in cui ripararsi e riposarsi. Sono la monotona stabilità dell’ordinario e del quotidiano. Sono la pietra sui cui i ti amo incisi restano. Sono l’abisso che mai si riempirà. Sono la pietra d’angolo su cui costruire fortezze inespugnabili. Eppure, tuttavia, tu colori il grigio e scompigli i miei pensieri ordinati, usandoli per farne composizioni nuove e fantasiose. Insaporisci i miei piatti insipidi. Sei la lente che mostra cosa c’è oltre le parole, e giochi con le lettere dando nuovi significati e profondità ai ti amo che scrivo quotidianamente. Lasciando i segni tracciati e cambiando inchiostro e carta. Lasciando le anime e cambiando i contesti. Siamo l’equilibrio fra stabilità e follia Gabriele Palumbo Mostrami il mio essere Forse vorrei essere come sono, forse vorrei essere come sono sempre stato, forse vorrei essere come sarò…forse… è il “forse” che mi frega sempre… se non fosse per la mia insicurezza sarebbe tutto più facile, se non pensassi al cosa potrebbe succedere dopo vivrei meglio, ma la mia insicurezza è stata forgiata dal mio essere poco disposto a mostrarmi agli altri… dico spesso di essere bello, ma perché allora cammino a testa bassa… dico spesso di essere forte, ma perché non riesco a guardare le persone negli occhi… dico spesso di essere intelligente, ma perché faccio di tutto per complicarmi le cose… vorrei solo avere la capacità di mostrare più facilmente come sono, vorrei solo fidarmi più degli altri e di me stesso… gli altri amano il mio essere come sono, chi mi conosce bene, i pochi fortunati, lodano il mio “io“… per gli altri sono perfetto così, ma forse non lo sono per me… forse… Andrea Mazzolini Stealing Beauty Vorrei essere un ladro, un ladro di parole, di sogni, di bellezza. Rubare uno scorcio di cielo stellato, il fragore tremendo delle onde sugli scogli, il vento che pettina le morbide cime degli alberi. Saccheggiare la quiete profonda di un giorno sahariano e carpire la luce di un tramonto boreale. Spogliare l’aria odorosa di vite e d’olivo delle nostre colline, carpire la segreta saggezza celata negli antichi libri. Scoprire i disegni e le danze delle rondini alla sera. Vorrei sostare ai piedi dei tigli, ricamando poesia e disegnando canzoni. Frullare le parole e dar loro un’anima e un corpo. Vorrei sfiorare i colori delle rose, i profumi degli orti e ascoltare le foglie che cadono lievi. Vorrei riscoprire la bellezza delle piccole cose, delle cose di ogni giorno. Un caffè, una risata, uno scherzo, un abbraccio, un bacio. Tutta la bellezza che ci passa accanto e non sappiamo cogliere. Vorrei capire quanto è fragile e forte la vita e quanto può essere bella e terribile una vita. E quando avrò rubato tutto questo vorrei venire da te e accorgermi di nuovo che nei tuoi occhi c’è molto, molto di più. Andrea Borrelli Un sasso nello stagno Vorrei scrivere come essere Ma non ci riesco Meglio di me stesso? Non proprio quello Che ho pensato spesso Forse più facile pensare A chi assomigliare Se non avessi fatto questo Se mi fossi tirato indietro Oppure buttato avanti Ricordando l’ altra volta L’ una e ancora molta Voglia di cominciare Come quella prima Quando ho buttato un sasso Nell’acqua e l’ ho vista Volteggiare, io a contare I cerchi che si formavano Per poi sparire Io quel sasso E l’ acqua mio divenire. Rossana Roxie Lozzio Vorrei essere (come) lei Vorrei essere la donna che ami… vorrei essere come lei, capace di rapire il tuo cuore e di accendere i tuoi sensi. Vorrei saperti calmare quando ti alteri, vorrei essere in grado di farti sorridere in quel modo maledettamente speciale! Vorrei essere la donna che ti vive accanto e quella che ti aspetta quando voli via… vorrei essere lei ma non so come sia ignoro cosa abbia potuto fare o dire per catturare il tuo cuore ma se solo avessi avuto la sua fortuna so che non vorrei cambiare e non starei a sprecare un solo minuto domandandomi chi sono e chi vorrei essere perché finirei per sottrarlo al nostro tempo insieme e nulla sarebbe più importante, per me, che continuare ad essere degna di te. Angelo Francesco Anfuso Vorrei essere come il Tuo Angelo Vorrei essere come il tuo angelo. Un angelo per poter vegliare su ogni tuo passo, prenderti per mano e stringerti al mio petto e farti comprendere che non sei solo. Vorrei essere come il tuo angelo, per farti sentire la mia voce, ascoltare il tuo silenzio e trasformare il tuo pianto in docili note. Vorrei donarti quell’abbraccio che ti hanno sempre negato, o quel sorriso che ti è stato strappato, o forse che non hai mai ricevuto. Poter lenire le tue lacrime, condividerle, asciugarle e gustarle nel buio del tuo silenzio, abbracciarti e sussurrarti dolcemente che il tuo giogo non è pesante. Caricarmi della tua agonia, soffocante sorellastra di questa amara vita, rallegrarti con la mia presenza e non dar spazio all’immeritata solitudine. Vorrei essere come il tuo angelo, sollevarti da questa misera vita e portarti sulle mie ali e condividere l’amaro tormento di una pena che assai ti affligge. Vorrei essere come il tuo angelo per dar luce ai tuoi ricordi oscuri, infliggerti coraggio per affrontare la tua lucente vita. Vorrei rialzarti dalla caduta, accarezzarti mentre dormi sussurrarti con insistenza che sei solo un uomo… e dirti che ti Amo. Vorrei essere il tuo angelo per avere il coraggio di donarmi pienamente a te e di non aver paura di dirti ciò che penso o di ciò che provo. Vorrei essere il tuo angelo per cantarti le mie emozioni e per sempre volare su quel’ limpido cielo in cui tutto l’amor ormai risplende. Nessun giudizio umano, nessuna condanna o disprezzo d’ignoranza fatta carne. Ora! Non più paura, non più miseria, voglio essere come il tuo angelo per sentire il tuo calore umano, il tuo profumo, così come sono. Forse… Sono un uomo non sono un angelo. Sono un niente… Un uomo non è uomo se non ama. Voglio essere come il tuo angelo… Anna Cibotti Vorrei essere… Vorrei essere un albero per vedere il mondo dall’alto. Per tenere tra i rami nidi e la vita che che contengono. Per sentire gli uccelli raccontare come tutto è cambiato. Negli anni a venire Nell’incerto futuro dell’uomo e della natura che ha ignorato. Vorrei fare ombra a coloro che la cercano invano. Vorrei che la mia linfa vitale non mi facesse invecchiare mai Per vedere e sapere. Ancora Prima che che il gesto di un folle bruci le mie radici. Prima che la pioggia non cessi di cadere. Per quanto riguarda ora….. Un granello di sabbia non sarà mai tutta la spiaggia. Io sono quel granello e resto tale. La solitudine Ed ora passiamo a quello che è il tema dei prossimi 7 giorni di follie: La solitudine. Premetto che, nel momento stesso in cui è stata posta fra gli argomenti da votare, La solitudine ha ricevuto, fin da subito, una certa preferenza, arrivando a ottenere un distacco di ben dieci voti rispetto al secondo tema posto in lista. Nella maggior parte dei casi, che abbiamo avuto nelle settimane precedenti, si era quasi sempre verificato un testa a testa fra due preferenze e arrivavamo a venerdì sera senza avere ancora alcuna certezza sull’argomento che avrebbe prevalso. In questo caso, è risultato abbastanza chiaro che le nostre Penne avevano molto da dire sulla solitudine. A parte la nostra meravigliosa Roxie, la quale aveva minacciato, fin dalle prime battute, che se avesse vinto questo tema, avrebbe inondato i nostri gruppi con la omonima canzone di Laura Pausini… ed è esattamente quello che ha fatto! Ma a parte la giocosità del momento, il gruppo di Riflessi già abbonda di testi, uno più bello dell’altro, ma tutti con una caratteristica comune: le persone si sentono sole. In un modo o nell’altro, vi è un vuoto interiore che comunque spinge l’essere umano a trovare la compagnia dei propri simili e a volte, pur di restare in tale situazione, i compromessi che si raggiungono, sono davvero massacranti. Signore Penne, tanto di cappello al vostro coraggio e alla vostra voglia di comunicare. La maestria con cui ci gratificate ogni settimana, rende il nostro lavoro meraviglioso. Grazie! Gabriele Palumbo (As)solo Ero immerso in un atmosfera surreale…la mia mano era fredda e stanca, faticava a reggere la penna…l’unica luce era data da una lampada da tavolo alla mia destra che rifletteva la mia ombra sul foglio: “perché cazzo mettono sempre le lampade a destra” mi domandai…alla radio davano una vecchia canzone di David Bowie…ero solo nella stanza immerso in questa penombra, ero particolarmente sereno: “forse mi stava salendo la febbre” pensai…ero solo nella stanza…io e David Bowie… Falsa compagnia In discoteca solo corpi, coi telefoni solo parole, su internet non c’era niente…ormai la bellezza dello stare insieme era secondaria, l’impegno per socializzare non esisteva più…era diventato tutto superficiale, tutto una finzione, e alla gente andava bene, non comunicava più con tutti i sensi, gli bastava la sicurezza del non essere soli, la sicurezza del sentirsi riconosciuti…tutto veniva fatto a distanza…distanza fisica, distanza mentale…aveva perso la vera essenza della compagnia…non si sentiva più sola senza sapere che poteva esserlo anche in mezzo a tanta gente… Saper stare soli Non uscii per qualche giorno…decisi di restare per un po’ lontano dagli amici, veri o presunti che fossero…mi chiesero spesso il motivo della mia assenza, non sapevo cosa rispondere, non potevo di certo dirgli il motivo che io a malapena sapevo…un po’ mi dispiaceva, sapevo che tenevano a me, ma sapevo anche che non gli sarei mancato come sarebbero mancati loro a me se i ruoli fossero invertiti…sarà stato per riposare gli occhi, per riposare lo spirito…ma l’unica cosa che riposavo davvero era la mia schiena stesa sul letto…nient’altro…ma forse mi serviva stare un po’ tra me e me…era sempre meglio essere soli piuttosto che sentirsi soli… Solo con me In piedi davanti alla finestra…il cielo era grigio, solo un raggio di luce riusciva a passare attraverso le nuvole, un lago calmo e isolato in mezzo al verde, e dietro, montagne…tutto ciò ti faceva sentire inutile, insignificante…in piedi davanti alla finestra…il mio umore era grigio, il suono del silenzio sussurrava cose incomprensibili, cose che preferivo non capire…una rondine volò ad un passo da me e scomparve, così elegante e libera, mi passò davanti in un attimo, così come passava il tempo senza che me ne accorgessi…i giorni passavano lenti, gli anni passavano veloci…un brivido mi attraversò il corpo e mi lasciò lì…ancora per una attimo…a sperare in qualcosa, a sperare di rivedere quella rondine…sapevo che non sarebbe più tornata Una giornata per pensare Era una bella giornata, ne volevo approfittare…il cielo era così azzurro da sembrare dipinto, l’aria fresca sulla pelle ti dava una sensazione di serenità…ma sarebbe durato ancora poco…era inverno e il Sole stava già scomparendo dietro le montagne…decisi di salire più in alto come a voler ritardare il più possibile il momento in cui sarebbe sparito del tutto…mentre camminavo mi guardavo intorno…ciò che vedevo era così bello da non farmi sentire la fatica…la mia mente era altrove e sapeva che ne sarebbe valsa la pena…arrivai al punto più alto, da lì la vista era stupenda…il mio unico rammarico era che non potessi condividere ciò che guardavo con qualcun altro, qualcuno che godesse di quel paesaggio rimanendo in silenzio a osservare e immaginare…arrivò il momento in cui anche da lì il Sole cominciò a non vedersi più…la strada del ritorno era meno faticosa ma era più difficile da percorrere perché pensavo a ciò che mi stavo lasciando dietro…volevo trarre il meglio da quella giornata e sapevo di avere fatto il possibile… Andrea Mazzolini Anima sola Sola vaga l’anima mia a brandelli, posto lasciò l’Amor solo a macerie. Vaga sola l’anima mia in rovina e tutto è freddo e grigio e tutto è niente. Stanca vaga l’anima mia inerte, non crede più ai sogni, alle parole: si spengano le stelle su nel cielo, tanto i suoi versi resteranno muti. Andrea Leonelli Chimere col tuo volto Dall’illusione trarrò la forza per scavalcare i miei vaneggiamenti. Tornerò ad appiattire la mia esistenza riportandola su di un piano inclinato e instabile e scommetterò con me stesso da quale parte cadrò. Con soltanto la mia follia come compagna in steppe desolate e sconosciute inseguirò nuove chimere e chissà quante avranno il tuo volto. Quante si volteranno beffarde a guardarmi mentre cado sotto i colpi delle mie stesse creazioni. Abbandonato nel mio stesso deserto soccomberò allo sconvolgimento della mia personalità cristallizzata e incrinata. Crepe sul vetro Pensieri s’inseguono come crepe sul vetro il cuore in briciole come uno specchio caduto riflette frammenti di noi dalla mia memoria. Involucro vuoto Quante maschere devo indossare? Una per ogni persona una per ogni luogo. E dietro tutte queste maschere alla fine chi c'è? O non esisto senza maschera? Tolta l’ultima di me cosa rimane? Un involucro vuoto con dentro un niente sempre più grande che cresce maschera dopo maschera. Nebbia accoglimi Nebbia accoglimi incarno la tua essenza un sentimento sfumato un rapporto non definito un’esistenza pallida un essere intangibile. Nebbia accoglimi e dimenticati di me diveniamo tutt’uno e scompariremo come non ci fossimo mai stati. Rifratta in toni di verde Si riflette in me come sui vetri, cocci di una bottiglia rotta, questa luce rifratta in toni di verde. Qualsiasi sia la luce tutto si trasforma come la tua immagine filtrata nello spettro della solitudine. Vestito di rovi Vestito di rovi sanguino in giro lascio gocce di me tracce così saprete dove ritrovarmi ma non cercatemi non ci sono non vi voglio intorno a guardarmi dissanguare sarò un sacco vuoto vestito della mia pelle mi maschererò da me stesso ma solo per voi non ho bisogno di me sono altrove a spellarmi l’anima. Irma Panova Maino La benedizione dell’essere soli In verità, a parte tutte le considerazioni che si possono fare sulla solitudine, non è sempre un fattore negativo restare da soli con sé stessi. Il più delle volte, passati i primi momenti di panico, si scopre un nuovo modo di concepire gli spazi e soprattutto il tempo. Il solo fatto di potersi mettere le dita nel naso o grattarsi una natica, senza il timore di essere beccati da qualcuno nel momento clou, dovrebbe poter far riflettere. E che dire del fatto che il preparare una cena o un pranzo non rappresenta più un’ossessione, ma un piacevole intermezzo fra una bella padellata di fatti propri e una casseruola di affaracci miei? Nessuno che attenta al tuo legittimo diritto al possesso del telecomando; nessuno che sbuffa per l’ennesimo documentario sull’accoppiamento dei lemuri; nessuno che pretende di vedere tutti i cataclismi naturali, che si sono abbattuti vicino a casa nell’ultimo millennio; nessuno che corre a impossessarsi della tua comoda conca, formata così diligentemente nel cuscino del divano; nessuno che pretende le “coccole” quando sei nel bel mezzo del tuo ciclo mestruale e l’unica cosa che vorresti fare, è addentare con ferocia gli imbecilli che si sono inventati, nelle varie pubblicità, che le donne “in quei giorni” debbano andarsene in giro vestite di bianco e debba venire loro la malsana idea, proprio in quelle condizioni, di buttarsi giù da un aereo. Per non parlare poi delle tracce di dentifricio nel lavandino o dell’asse perennemente sollevata o ancora dell’asciugamano umidiccio… Tutto ciò che lascerete in un determinato stato, così lo troverete, senza dover aprire ogni volta una caccia al tesoro, seguendo le indicazioni “enigmistiche” del Bartezzaghi di turno. Ah… finalmente soli! E come nelle più celebrate commedie americane, eccovi scorrazzare in modo indecoroso per casa, con la musica a tutto volume, mentre tentate di produrre un accordo smanettando furiosamente la Tonkita. Ebbene, se avete la fortuna di potervi godere una situazione simile, nel momento stesso in cui varcate la soglia di casa e sentite solo un piacevole silenzio, non fatevi prendere da qualche paranoia o da qualche pensiero straziante del tipo: “Oh me misera e me tapina! Come sarebbe bello avere qualcuno ad accoglierti!” Se questo “qualcuno” consistesse in una famiglia di dodici elementi, molti dei quali al di sotto dei quindici anni, vi sentireste ancora così derelitte? Se invece del caldo abbraccio di un amante, pronto a soddisfare qualunque vostro sogno erotico, vi accogliesse la pallonata in faccia del figlio discolo, vi sentireste così sfortunate? E se invece delle confortevoli pantofoline, tanto agognate dopo aver passato tutto il giorno in un paio di scarpe scomode, vi venisse incontro il “cucciolo” quadrupede di casa, mentre ancora sta facendo a pezzi l’ultimo paio di De Fonseca, vi sentireste ancora così disgraziate? Ovviamente questa vuole essere una provocazione, tuttavia è bene considerare il lato positivo di ogni situazione, quelli negativi sono sempre fin troppo evidenti e non sempre ciò che pare penoso, lo è realmente. La stanza Eppure avrei dovuto essere sola. Non avrei dovuto avere compagnie di alcun genere e la scommessa avrebbe dovuto pormi in questa stanza, al buio, con me stessa come unica persona presente, resistendo nell’oscurità per 48 ore filate. Allora perché sento il respiro? Quel lieve ansimare che fa drizzare i peli sul collo e m’increspa la pelle? Ho chiamato, allungato le mani nel tentativo di afferrare quel qualcosa che ho sentito sempre alle mie spalle. Ho cercato e supplicato, ma l’unica cosa che continuo ancora a percepire, è quel respiro che non mi da tregua. E pare sollecitarmi a rispondere, a comprendere la sua esistenza. Tuttavia non so come fare, non so come avere quel minimo di luce che mi permetterebbe di vedere, di dare una forma a questa sorta di inquietudine. Non saprei nemmeno dire se mi spaventa o se semplicemente mi preoccupa, ma vero è che non dovrebbe esserci. In un primo momento avevo pensato a uno spiffero, un refolo d’aria che penetrava attraverso qualche spiraglio che non era stato sigillato a dovere, ma non ho trovato nulla che potesse avvalorare la mia tesi. Sicuramente, non è una corrente. Il mio istinto lo sa. Intuisce che qualcosa continua a muoversi alle mie spalle, respirando su di esse, lasciando che le mie orecchie colgano quel rumore, così lieve, da essere a malapena percepito. Il mio istinto mi ammonisce, m’intima di non voltarmi, di non cercare la fonte e l’origine del respiro. In alcune culture, avvertire una presenza alle spalle, rappresenta la consistenza della Morte che annuncia la tua ora ed essa diviene concreta nel momento in cui ti volgi per soddisfare la curiosità. Così come la moglie di Lot, che venne trasformata in una statua di sale, nel momento in cui volle vedere che cosa stava capitando alla sua amata Sodoma, così avverto la necessità di non indagare troppo a fondo. Eppure questa cosa respira e respira ancora. *** “Accidenti, ma come diavolo è morta? I produttori mi avevano assicurato che non c’era pericolo!” L’uomo, responsabile di quell’insolito reality, si volse verso l’assistente, picchiettando con decisione un dito sul monitor, il quale trasmetteva l’immagine di una stanza completamente illuminata, che aveva ospitato la protagonista dello show fino alla sua improvvisa dipartita. “Com’è morta? Che cazzo ne so! Ma ha smesso di respirare!” Ritorno a casa (tratto da “Il peccato di Rennahel”) Ren scrollò con decisione il trench di pelle, levandosi di dosso i fiocchi di neve che lo avevano ricoperto. Gettò l’indumento sullo schienale del divano, con la stessa imperturbabile noncuranza con cui si sbarazzava di qualsiasi cosa che ultimamente gli creava qualche fastidio. Da quando anche Tellera era uscita dal suo universo triste e depresso, lui si era totalmente rinchiuso nel proprio regno tetro ed aveva evitato qualsiasi contatto con i propri simili. D’altra parte non aveva nulla da condividere con nessuno di loro. Non con quelli appartenenti alla sua stessa casta. Cosa doveva esprimere? Il tumulto che gli scuoteva l’anima? Le emozioni che tracimavano costantemente da ogni gesto, ogni parola? Non era più in grado di controllarsi e nemmeno lo voleva. E proprio a causa di questo, anche la rabbia era diventata evidente, l’ira con cui reagiva a qualsiasi sollecitazione, a qualsiasi frase equivoca o gesto male interpretato. Persino quel paio di richiami che aveva ricevuto da Sidel, alla fine lo avevano fatto sbottare, arrivando a minacciare apertamente il Ministro, rivolgendogli delle frasi che un altro, al posto suo, non si sarebbe mai sognato di pronunciare. Ed era un vero miracolo se nessuno aveva ancora pensato di prendere dei provvedimenti nei suoi confronti. Gettò il trench sopra la spalliera del divano e sorrise amaramente a se stesso. Il nome degli Unviel ancora una volta lo proteggeva dal proprio carattere irascibile. L’infinito potere della sua casata aveva ancora un peso notevole sulle menti contorte dei suoi simili. Si diresse a passi decisi verso lo studio e proprio prima di varcare la soglia si bloccò improvvisamente. Colse un odore anomalo nell’aria. Un sentore che troppo spesso aveva sognato di avvertire entrando in casa. Scosse la testa con decisione. Le sue illusioni gli giocavano scherzi crudeli. Giocavano con i suoi sensi, creandogli delle speranze inutili. Fece un altro passo in avanti e si bloccò di nuovo. Eppure questo era reale. Troppo reale. Si guardò intorno, cercando di capire se ci fosse qualcosa fuori posto, qualcosa che potesse segnalare un’intrusione. Ed il fatto che non vide nulla lo fece imprecare fra i denti. Doveva smetterla. Non poteva continuare in quel modo, si stava facendo del male e torturare in questo modo l’anima rendeva ancora più cupo l’umore. Il Monitor… Si volse di scatto verso il monitor. Era acceso. Impossibile. Benché il computer fosse rimasto attivo, doveva già essere entrato in modalità stand-by da un pezzo ed il fatto che adesso il monitor proiettasse delle immagini, poteva solo voler dire che il mouse era stato mosso di recente. Scrollò il capo ed inspirò scacciando la propria stupida speranza. Tuttavia i suoi piedi lo portarono in un’altra direzione. Istintivamente si mosse verso il corridoio dove aveva posto le proprie stanze. Da quando Tellera era uscita dalla sua vita, aveva trasferito tutti i propri effetti nella zona che aveva ospitato Siria, cercando in questo modo di mantenere l’illusione di lei. Almeno di notte, quando spegneva la luce e si ritirava sotto le coperte, le quali erano state usate in precedenza da lei, poteva cercare d’immaginarla vicino a sé, da qualche parte in quel grande letto. La sua vampira… Sorrise a quell’idea assurda. La sua vampira. Già, la sua vampira! Il possesso con cui ripensò alla frase gli diede la giusta idea di quello che provava. Arrivò davanti alla porta del salottino e sbirciò oltre, cercando di vedere uno scorcio della camera da letto. L’odore di lei aleggiava nell’aria, fresco come la neve che aveva lasciato fuori dalla porta di casa. Intenso come lo ricordava. Lei era lì. Non era possibile altrimenti. Non poteva cogliere un effluvio così carico se non fosse stato lasciato di recente. Forse era già andata via. Ren rimase fermo sulla soglia del salotto per un tempo che parve interminabile. La sua speranza era quella di trovarla nuovamente su quel letto, come la prima notte che l’aveva vista distesa sotto le lenzuola candide. E l’idea di disilludere quella speranza lo rendeva indeciso, gli straziava l’anima. Entrare e scoprire che aveva nuovamente sognato, era quasi peggio che rimanere là fermo, proiettando la mente verso un’ipotesi dolorosa, ma meravigliosa allo stesso tempo. Alla fine si decise. Varcò la soglia e si diresse verso la camera. Sola Sola nel silenzio della mia anima sconfitta nel candore della distesa artica in cui il mio cuore alberga Sola nel caotico rumoreggiare di un mondo che non ascolta e arranca stanco verso mete lontane Sola rapita da fantasmi costruiti su misura pronti a rodere gli armadi come i tarli della mente Sola negli anni che passano portandosi via speranze e sogni racchiusi nei bite di un ultimo invio. Rossana Roxie Lozzio Dopo ogni incontro Non c’è momento in cui mi senta più sola di quello che segue al termine di un nostro incontro. Accade raramente che tu esca dai miei numerosissimi sogni ad occhi aperti e ti materializzi, manifestando di esistere e quando succede, non c’è persona o situazione che mi possano distogliere dalla meraviglia di esserti di fronte, di respirare la tua stessa aria e di godere da vicino di quel sorriso che incanta. Niente di peggio e ormai lo so, potrebbe accadermi, del vuoto che s’impadronisce di me quando devo lasciarti e tu ritorni ad essere il protagonista prediletto dei miei sogni. Mi allontano, ascolto il rumore che ho intorno, le voci degli amici o degli sconosciuti che ridono e gioiscono di quanto è appena accaduto ma dentro, è la solitudine assoluta, quella che devasta e che mi accompagnerà per giorni e giorni ancora e tutto diviene silenzio, assordante, impregnato di te e della tua prepotente avvenenza. So che ti ho dato appuntamento ad una prossima volta, solo che ignoro quando e dove sarà, perché non dipende da me ma dal destino e quel destino è spesso poco magnanimo nei miei confronti. Rimango avvolta dal gelo dell’attesa e dai ricordi che da buoni si trasformano in crudeli e mi faranno stare male… è un rito che conosco e al quale non sono in grado di rinunciare, nonostante tutto. Non c’è solitudine più grande e più affettuosa di quella che m’investe, occupando il tuo posto, nell’attimo preciso in cui le luci si spengono, ti guardo allontanarti e prendo atto, mentre torni ad essere quell’ombra che cammina al mio fianco, di dover ricominciare ad aspettarti. L’abbraccio della solitudine Mi sono sempre sentita sola… da bambina, capitava a scuola, in cortile, nel mezzo di un gioco di gruppo, come fossi circondata da una campana di vetro che m’isolava dal resto del mondo. E’ così, credo di essere sempre stata sola, la migliore amica e la peggior nemica di me stessa… una bambina riservata, prima e poi, una donna complicata, preda delle sue stesse paure e colma del desiderio di sentirsi amata. Ho capito da poco che ognuno ha il suo destino e che il mio, che ti aspetto da sempre anche se so che non arriverai mai, è di rimanere sola… perché è così, durante questa lunga attesa, cominciata con il mio arrivo su questa Terra, ho preso atto che si nasce soli e che si muore soli. Prima ci arrendiamo a questo dato di fatto e meglio sarà per noi, che c’illudiamo di trovare amici per sempre e li perdiamo durante il cammino e che sprechiamo energia – e giorni e mesi e anni di questo dono prezioso che è la vita – innamorandoci di qualcuno che, prima o poi, è solo questione di tempo, ci costringerà a domandarci se non sarebbe stato meglio rimanere da soli! Mi sento sola, anche in mezzo ad una folla, in cerca di sguardi e di parole, di abbracci sinceri e di spazi da riempire, là dove resta il vuoto incolmabile rappresentato dalla tua assenza. Impotente, non contro questa solitudine che mi abbraccia, che non voglio combattere e mi fa più sorridere che soffrire… ma contro coloro che non intendono comprendere che è la mia più dolce compagna di vita, lei che si è accaparrata il tuo posto e che resta al mio fianco, silenziosa e assordante, per ricordarmi che non devo e che non voglio accontentarmi di nient’altro. Solitudine Solitudine è l’assoluta certezza… non ci sei. E’ la desolazione di mille pomeriggi spesi a pensare. Il desiderio di sentire attorno il suono di una voce familiare. La cieca, disperata ricerca di una madre che non potrà più tornare e ancora, è odiarsi nell’istante in cui cedo il passo al pianto, l’assurdo ripetersi “non ne vale la pena, tanto…”. Già, solitudine è qualcosa che non dovrai mai provare… è tutto ciò che non ti potrei augurare. Solitudine è guardarsi attorno e poi capire che non ci sarai MAI. Vestita della tua assenza Vestita della tua assenza, sono sola ma senza questo abito che indosso da quando ho posato gli occhi su di te sarei definitivamente persa Marina Isceri La solitudine Mai temuta ma cercata e voluta disperatamente come fosse la mia unica ispirazione, candida e leggera come una piuma compagna di pensieri visibili attraverso specchi senza riflessi. Mi accarezza, coi suoi confortevoli silenzi dai quali attendo di essere travolta per poi perdermi intensamente attraverso la voce della mia anima. Follemente amo divenire sua prigioniera distaccarmi dal mondo spegnere per pochi attimi l’universo che mi circonda e accendere i riflettori su ciò che amo svelare in silenzio, tra le sue braccia. Nadia Lattanzi Me… E poi Io Sono sola da sei mesi, la mia storia d’amore è finita. Una situazione come tante, una storia come milioni al mondo. Mi sono sentita sola, ho tremato davanti a me senza niente intorno. Ho pianto dentro e fuori me. Mi sono sentita infinitamente sola anche perché non “guidata” ne “aiutata” dalla famiglia. Ora sono io..non più me. Ora sono io ancora sola, ma più forte. Determinata a non perdermi più..e se dovesse accadere di nuovo, posso dire che la solitudine non mi farà più paura. Cristiana Verazzo Niente Ed è proprio quando mi volto attorno, dopo che ho combattuto le mie odierne battaglie, dopo aver messo a posto chi di dovere, dopo aver lottato coi denti per ottenere quello che mi spetta, che mi accorgo di aver lasciato tutto indietro. Con me non c’è nessuno. Ed è così che mi ritrovo sola Viky Hachiko Lancione Riflessione sulla solitudine Spiegare in poche parole l’immenso mondo che ho dentro, il vortice che dimora nel mio petto e tutto in me. La solitudine è forse uno dei mali peggiori del nostro tempo. Un male attanagliante che si attacca addosso come un cancro. Essere circondati da un’immensità di gente e sentirsi più soli che mai. La solitudine non è solo stare soli fisicamente ma anche e soprattutto sentirsi soli nell’anima. Quante volte stando insieme a persone che amiamo ci sentiamo invasi da quel senso di vuoto, di occlusione? La solitudine è anche non essere capiti, vivere in una realtà in cui nessuno riesce o prova a capire come ti senti, quali sono le tue emozioni, i tuoi sentimenti, i tuoi perché. E tu sprofondi… Sprofondi… Angelo Francesco Anfuso Sento la voce della mia solitudine Un tenero profumo di pioggia inonda la mia abitazione. Soave fragranza per le mie narici. La pioggia è cessata, e il tempo del risveglio è iniziato. Mi affaccio dalla bifora della stanza accanto, un debole cinguettio di rondinelle si ode nella piccola vallata, ed io, volgo il mio sguardo al cielo e sento la tua voce. Il vecchio ulivo ormai bagnato dimora sempre al suo posto, con le sue meravigliose fronde che sovrastano sovrane su quanti in lui hanno trovato riparo. Vedo, su nel cielo un arco colorato, che da oriente si eleva come una Turris Eburnea al cielo. Lo stesso profumo, la stessa torre, lo stesso riparo, lo stesso ulivo, di quel meraviglioso giorno, ma tu non ci sei nemmeno oggi. Lacrime sono mio pane giorno e notte, mi chiedo : “dove sei? O mio amore e mio tutto” Trascorre il tempo, l’arco svanisce e la natura inizia ad intonare il suo canto notturno: scende la sera e tace il creato. Mi assale la nostalgia, mi chino il capo tra le mie braccia e spero che tu possa ritornare. Quante volte ho pianto e Tu ero lì, pronto a tergermi le amare lacrime, o quante volte ho gridato al cielo perché mi ascoltasse, e tu ero lì a sentire la mia inconfondibile voce. Mi nutrivo della tua parola, assaporavo il tuo verbo, il tuo respiro per me era nutrimento e il tuo calore mi dava vita, Tu eri la mia forza, la mia unica forza, la mia unica ragione, il mio unico baluardo. Adesso, imploro il cielo affinché ascolti la mia orazione o forse il mio lamento, e spero che questo sia solo un brutto sogno. Voglio cantare al calar di questo giorno, la mia crudele sorte. Sono solo! Sento ancora la tua voce infelice, ormai la mia vita ha cessato il suo percorso. Abbracciami ancora una volta, non lasciarmi ancora nella pazza solitudine di questo mondo assai crudele, e non permettere al destino di farmi preda di questa atroce vita. Tendimi la mano dall’alto, dove oramai Tu risiedi. Ascoltami ancora una volta, da te voglio volare. Doppiamente crudele è stata per me la vita. Mi ha ucciso strappandoti alle mie braccia e ora continua il suo demoniaco gioco, trovando gusto a farmi sentire solo. Che vita è la mia senza di te, ora in questo giorno in cui tempi or sono, sotto le fronde di quel benedetto ulivo io ti amai, e in te mi abbandonai. Mio Dio, prendimi! Ricongiungimi al mio amato. Io sento il suo pianto, mi è vicino sempre. Andrea Borelli Sfiorati Come ti sei vestita sera? Col bianco hai cercato di ingannare il giorno e l’ hai seguito tutta la notte. L’ hai perso. Ma di buon grado sei riuscita a regalargli il sole. Sei tornata di nuovo mi hai detto quanto ti è mancato ancora. Quel secondo ancora. Dove siete riusciti a toccarvi. Baciarvi. Lasciarvi. Ancora. Sera torni e vai via, al giorno non devi nulla di più. Sola La montagna dei nevai si sente scivolare lentamente, d’estate si sono sciolti al sole e l’hanno abbandonata. Creda ancora di essere bianca la sua cima più alta. I prati negli inverni più freddi dei fiori sono stati sradicati e lavati, perché il ghiaccio potesse loro gelare meglio il cuore e dividerli. Gli alberi dei rami in autunno sono stati spogliati e lasciati da soli a sperare che qualche altra foglia, non cada e possa ancora fargli compagnia. La primavera siede stanca, non sente male alcuno nessuna delle bellezze che l’accompagna e di questo più degli altri sente la mancanza. Elisabetta Bagli Soli Soli. Ti guardo, ti chiedo, ti osservo. I miei occhi sorpresi assistono allo scuotersi deciso del tuo capo. Ho capito. Avrei voluto stringerti a me, alleviare il tuo dolore, diventato mio. Ridi nervoso, rassegnato. Le tue labbra, la tua voce, il tuo corpo rifiutano ciò che hai. Il tuo cuore? Lo sai, ma hai paura, lasci che sia il tempo a decidere per te. Un colpo sordo rompe la mia anima. Il tuo sorriso contrasta con il velo dei tuoi occhi. Ferito, hai virato la tua barca. Smarrito, vuoi arginare il tuo mare. Impotente spettatrice, silenziosa amica siedo al tuo fianco. Respiro la tua solitudine. Solitudine (estratto da “Voce”) Lenzuola vuote, spente. Sono sola. Mi abbraccio, mi desidero. Giaci accanto a me. Siamo soli. Ricordi di vite, di caldi abbracci irrimediabilmente sfumati. Soli viviamo un presente che ormai ci appartiene. Anna Cibotti Solitudine Dolce compagna discreta il tuo silenzio è pieno di note struggenti che sono parole e musica insieme. Amo la tua compagnia perché ci sei quando ti voglio e te ne vai al primo rumore. Sei come l’amore. Sei solo nella mente. Ma c’è chi ti sente addosso come una cappa grigia. E’ l’uomo che lotta per la vita contro l’ ingiusta malattia. Non andare mai da lui Resta con me. Barbara Villa Mastropierro Solitudine Quando due occhi diventano vuoti. Il viso spento. Il cuore freddo. Le braccia non stringono. E le mani non accarezzano più. Si sono persi i colori. Ed è sempre buio. Ti guardo. Non ti vedo. Ci sei. Sei sempre più distante. Sono rimasta qui, per anni, in attesa di un tuo ritorno. Non c’è stato. Quanta solitudine in quel silenzio. In quell’attesa. Lacrime. Tante. Versate inutilmente. Un addio che era già scritto. Si respirava nell’aria. Da sempre. Maurizio Donte Solitudine Nel silenzio che cala la notte quando solo resto tra i rami nascosto, silente nell’intrico bosco di tristi pensieri latenti… Mia Luce che sola, risplendi là in alto …e rischiari la sera mia buia, di te che amavo ‘si tanto vorrei parlare alla tiepida luna che calma serena e senziente, m’accoglie come tenera madre …tra le sue braccia suadente, mi bacia, m’accoglie e mi dice: dimentica, dimentica sempre… Monica Pasero Solitudine Solitudine che copri i miei giorni, accompagnandomi da sempre, da quando piccina cercavo un abbraccio nel cuscino bagnato. Solitudine che avvolgi ogni mio desiderio e lo racchiudi nelle tue prigioni, dove la felicità fugge lontana e resta il sogno, la chimera, di un’esistenza non vissuta. Solitudine amante di una vita, ombra del mio esistere, mi abbandono a te che dolcemente mi avvolgi nel tuo malinconico navigare, tra i mie sogni e le mie emozioni, i mie bisogni reconditi ormai disillusi dalla realtà. Sola tra le risate di un casa in festa, tra le braccia di un uomo, sola in un mondo non mio, sola con te, mio tormento e unica sicurezza. Ombra sul mio sentiero, nuvola che oscura il sole, mura senza uscita. Ecco io Monica, nata con un nome che significa appunto “solitudine”, destinata a sentirmene parte integrante, fuggo da lei sempre, ma lei mi riporta nel suo mondo, così soffocata ricado giù, negli abissi del mio silenzio e mi addormento sotto un nuova luna, agognando il giorno a venire. Sperando che la luce della speranza torni sul mio sentiero, colorandolo di vita, spazzando per sempre l’ombra, che da troppo tempo, vive in me. Solitudine di un amore Solitudine dei miei giorni senza la sua ombra accanto alla mia Solitudine del mio corpo senza il suo Solitudine dei suoi battiti lontani dai miei Solitudine Dei suoi occhi troppo distanti, per veder ciò che si cela nel mio azzurro infinito Solitudine dei mie pensieri che urlano il suo nome Solitudine Della mia anima che disperata, eternamente lo cerca Solitudine del mio sogno che invano attende Solitudine Solitudine non significa essere soli, bensì sentirsi soli, che a mio parere è molto diverso. Ci si può avere accanto un mare di gente, ma sentire ugualmente dentro di noi un vuoto incolmabile perché manca quell’unica persona in grado di farci star bene. A volte si parla, si ride, si scherza con tutti, si finge di star bene, ma sono inutili e sterili parole che porta via il vento. C’è sempre quel vuoto nello stomaco, che si può colmare anche solo con un semplice ciao detto dalla persona giusta. Sembra impossibile ma è così. E la felicità di quei momenti, brevi istanti rubati alla vita, nascosti come ladri nell’ombra cercando di annullare le nostre fragilità, svanisce in un attimo e ogni volta diventa più difficile accettare di essere lontani, ogni volta mi rendo conto di quanto sia pesante la solitudine che sento. In quei momenti penso a quanto sarebbe bello poter fermare il tempo e stare insieme per ridere, giocare e sognare. La mia voragine interiore aumenta, perché in quel preciso istante mi rendo conto di essere di nuovo sola. Sola con me stessa, a combattere i miei demoni e le mie battaglie perse in partenza, a combattere contro una vita assurda e inutile, sapendo di non avere soluzione alcuna. Ma vado avanti come sempre, questo è il mio destino… Tuttavia credo che non sia sempre negativa la solitudine, perché permette di pensare, riflettere e capire cosa abbiamo dentro. Purtroppo, a volte, è fin troppo facile lasciarsi convincere dalle opinioni altrui, confondendo così persino il nostro stesso istinto. E invece, proprio in quei momenti di solitudine, dopo aver assaporato felicità e serenità, incomincio a pensare e a farmi delle domande, riesco a conoscere meglio me stessa. Ho capito di non essere quella fragile bambola di porcellana che tutti vedevano in me, ho trovato il mio lato nascosto e l’ho portato alla luce. Forse oggi sarò sola, probabilmente anche domani e dopodomani, ma ho capito che non importa, perché se chiudo gli occhi trovo parole, sguardi e sorrisi a tenermi compagnia. Ronni Corbari Solitudine Otto maledette ore passate a ribollire in fabbrica come un broccolo in pentola. L’automobile in tutto e per tutto simile a un microonde e via sulla statale, direzione casa. Badate alle facce che incrociate sulle strade, se non andate a duecento all’ora ovviamente. Gli occhi spenti e i nervi tirati. Facce da buttare. Zombi o mummie, fate voi. Fronti sudate e lucide, rughe fonde come tagli. Il mondo sta andando nella direzione opposta rispetto a quella giusta. Arrivato a casa il solito rituale obbligato. Cibo e doccia. E poi più nulla. Computer in camera, ogni tanto lo stereo con vecchi cd a ricordarmi gli anni passati. Non sono vecchio, lo so, ma qualche anno è passato comunque da quando appena tornato dal lavoro, all’epoca non facevo i turni, volavo letteralmente dagli amici, quando c’era ancora la “vecchia compagnia”. Pelle d’oca a ricordare certe scene. Ora basta. Finito. Siamo diventati grandi, sposati, fidanzati, rincoglioniti. Ora basta ridere e scherzare, ora solo casa e lavoro, poi più niente. I pomeriggi d’estate poi, da creparci dalla noia, da lasciarsi cuocere dal sole e in fine evaporare via. E dicono che la morte in vita appartenga solo ai vampiri, alla faccia! Ogni tanto mi metto a scrivere, meno male che ho scoperto questa cosa, anzi, meno male che è cresciuto questo bisogno in me. Unica cosa che insieme alla lettura mi salva il culo da certe giornate apatiche e inutili. Tempo perso a cercare gente in giro, le voce quasi rimbomba per strada, meglio starsene zitti. A volte nemmeno gli uccellini volano divertiti come fanno di solito, quelle sono le giornate peggiori. Basta ridere, basta con la vecchia compagnia. E girovagare per i paesi vicini in cerca di ragazze? Follia pura! Siamo diventati grandi, grandi coglioni. A volte mi sento come chiuso in una scatola piena di ovatta, vorrei gridare ma non ci riesco, vorrei respirare, almeno, ma è fatica anche quello. Le serate le passo quasi sempre in solitaria. All’inizio non è una gran cosa, ovvio, ma poi mi sono abituato a certe cose. Per prima cosa credo di conoscere tutti i gestori di pub e baristi della provincia, perché quando giri solo è fondamentale conoscere quelli a cui devi i soldi e chi ti da da bere. Seconda cosa ho imparato a osservare le persone. Mi metto tranquillamente su un qualche sgabello al bancone di un qualche pub e ordino qualcosa, due chiacchiere col “capo”, una sbirciatina al culo della cameriera, quasi sempre molto carine quelle ragazze, poi con la coda dell’occhio comincio a scrutare la clientela. Quando individuo qualcuno lo osservo, sento cosa dice, a volte mi metto a ridere mentre altre volte vorrei alzarmi e andarmene. La gente è davvero spaventosa a volte, in altre occasioni si sentono cose interessanti invece. Poi come si muove quella ragazza, che voce ha, le gambe sotto il tavolo. Tutte cose che nel tempo mi hanno tenuto compagnia, e lo fanno ancora. La solitudine non la devi combattere, devi fartela amica, conviverci. E pensare che dopo essermi abituato a questa situazione certe volte quando sono con qualcuno mi pento di non essermela svignata da solo. La solitudine non mi fa paura, no. Con la solitudine ci ballo un valzer, la bacio sul collo e lascio andare a dormire quando ne ha bisogno. La solitudine fa paura solo a chi non ha il coraggio di vivere. Ci vuole consapevolezza di sé per farsela amica. Non è come una donna che la devi corteggiare, lei è lì, aspetta solo che tu la guardi e la inviti vicino a te. E’ bella, elegante, educata. Ci sei tu nella solitudine e lei è in te. Regina Re Il potere Solitudine e nulla di negativo è in essa, se la si apprezza…cogli il genio con cui questa sposa ti veste quando il tocco della sua mano ti lacera la pelle…non puoi nasconderti quando nessuno ti può vedere e puoi toglierti da quella posa scomoda, che ti si addice molto ma ti rende così monotona… toni di luce sul tuo viso quando apprezzi la mancanza di qualcosa che da te si snoda e ti abbandona… Sei sola e sei vuota e del nulla sei padrona. Le amicizie virtuali Quante amicizie virtuali nascono attraverso il web? Quante di queste sono destinate a essere approfondite e a durare nel tempo? La nuova frontiera del vivere umano comprende anche questa dimensione, questo modo di comunicare, criticato da molti e utilizzato da tutti. Che siano i Social Network, piuttosto che lo scambio epistolare via e-mail, non vi è dubbio che internet ha decisamente cambiato il modo di porsi e di approcciarsi al mondo esterno. Vero è che non bisognerebbe mai scordare quanto in realtà sia importante il contatto umano, la possibilità di avere a che fare con le persone, in carne e ossa, in un’interazione effettiva. Tuttavia l’universo virtuale esiste e sempre più spesso risulta essere uno dei pochi mezzi con cui è possibile esprimersi liberamente, con cui è possibile comunicare con gli altri e con il quale, restare in contatto giornaliero, con persone lontane centinaia di chilometri, non è più una chimera. Nadia Lattanzi A tratti…amore (storia breve di un “amore” virtuale) Una chat. Parole. Conosciamoci, giochiamo. Tu e io poeti. Amici e amanti. Distanti. Ho bisogno di te. Telefonate notturne. Mi manchi. Abbiamo sbagliato tempo, luogo. Amore? Il cuore che batte con la tua voce al di la di me. Vediamoci. Speranza, attesa. Delusione. Ti conosco ora. Non sei mai stato mio. Rossana Roxie Lozzio Amicizia Una volta, si chiamavano “amici di penna” ed erano le persone con le quali ti rapportavi via lettera… ricordate? Quei fogli bianchi, sporcati di inchiostro blu, nero, a volte, rosso… e sui quali scrivevamo di noi, della nostra famiglia, di cosa ci appassionava e di ciò che avevamo fatto durante la settimana, per poi piegarli, inserirli in buste dello stesso colore e spedirli a qualcuno che si sarebbe entusiasmato all’arrivo del portalettere, quando gli sarebbero stati consegnati e che poi, a distanza di chissà quanti giorni – dipendeva dalla distanza fra le due città di residenza…- ci rispondeva e questo, poteva durare per anni o più fortunatamente, anche tutta la vita! L’emozione grandissima era quella di riuscire ad incontrarsi, magari, con la scusa di un con certo al quale partecipare insieme o per una gita da effettuare in qualche posto a metà strada oppure ancora, per una visita direttamente fino a casa! Oggi che è tutto cambiato e in parte migliorato, grazie alla tecnologia, si chiamano “amici virtuali” ma secondo me, sono la stessa cosa: potenziali amici, non aggiungerei altro. Ci si “incontra” per motivi diversi ma quasi sempre, accomunati da una passione per qualcosa… per un artista, per un animale, per un programma televisivo, per uno sport! Così, ci si comincia a frequentare, anche se virtualmente e a volte, succede anche tutti i giorni! Ci scambiamo parole, pareri, immagini, persino dei video… e tutto diventa condivisione, ci unisce oppure ci separa, con la possibilità di comprendere piuttosto in fretta se siamo davvero compatibili. Io credo nell’amicizia virtuale e sapete perché? Perché credo che sia soltanto amicizia… non è necessario frequentarsi spesso, quando ci si vuole bene e se ci si vuole veramente bene, lo si avverte. Con il tempo, con lo scambio quotidiano di commenti, di parole anche non necessariamente affettuose ma sincere… proprio come nella vita “reale”, solo così possiamo accorgerci se andiamo d’accordo e sentire il bisogno di sapere come stiamo o di soffrire se non stiamo bene. Non ho mai compreso chi sostiene che “la rete” e le “comunità virtuali” siano pericolose o fredde… ho sempre sostenuto e lo credo fermamente, che “la rete” rispecchi la vita per quello che è. Ci sono persone buone o meno buone, ci sono persone con le quali possiamo sentirci a nostro agio e persone che non ci regalano alcun che e questo, al di là dell’ambiente in cui il destino ce le fa incontrare. Siamo noi a dover mantenere orecchie, occhi e anima aperti… siamo noi, sempre e comunque, a dover fare attenzione e poi, ad avere fortuna ma gli amici, da qualunque posto arrivino e in qualunque modo possano restare in contatto con noi, siano sempre i benvenuti. Come un dono dal cielo. Per sempre. Angelo Francesco Anfuso Amicizia: dal mondo virtuale al mondo reale Premessa Sin dai tempi più remoti, il concetto di Amicizia si è mantenuto sempre puro nel suo intimo significato, nella sua Essenza. Molti saggi luminari, filosofi, scrittori, letterati, hanno sempre avuto almeno un argomento inerente al valore della virtù dell’amicizia. La natura, la sue essenza è immutata nel tempo, ma sono mutate le diverse modalità con la quale essa fiorisce. Dall’Ethica Nichomachea di Aristotele, alle Lettere a Lucillo di Seneca, ecc., in cui l’amicizia viene equiparata ad una nobile virtù. Una virtù fondamentale per l’uomo, poiché nessun uomo amerebbe essere da solo, anche se avesse qualsiasi forma di ogni bene. L’amicizia è un bene per l’uomo, e buono deve essere l’amico, capace di condividere ogni pensiero. Vi sono diversi tipi di amicizie, ma ci sono diversi modi per far si che questa virtù venga, come ha sostenuto il dotto filosofo, indispensabile per il bene e la felicità dell’uomo. Oggi, nel XX secolo, una modalità di avere amici è la ricerca tramite il web, che da per una causalità si arriva a qualcosa che va ben oltre la semplice virtualità. Questo è il mio punto di partenza, per esporre il mio piccolo racconto sull’Amicizia in rete. Anche se sono trascorsi centinaia di anni, il pensiero dei nostri luminari saggi è sempre presente, poiché sin dall’antichità, hanno fatto si che le generazioni future fossero preparate. Adesso vi racconto: correva l’anno 2000, anno in cui per la mia prima volta ho ricevuto un personal computer come regalo. Non avevo molta esperienza sull’utilizzo di tale strumento, tanto meno la conoscenza del web Una sera, trovandomi a casa di un amico, ho visto che utilizzava internet, il quale gli permetteva di conoscere gente e dialogare. Fui molto incuriosito, e, non pensandoci più due volte, la sera successiva iniziai a navigare per il web e cercare dei siti che mi permettevano di dialogare nella massima libertà. All’interno di un portale internet trovai una chat suddivisa in diverse stanze. Ad ogni stanza corrispondeva una regione. Sinceramente non mi aspettavo nulla, visto che era un mondo tutto virtuale, ma a distanza di pochissimi giorni venni contattato da un nickname che non era della mia regione (Sicilia) ma bensì dalla Toscana Nemmeno dieci minuti, e mi contatta in privato. Iniziamo a parlare, a conoscerci, quello che facevamo nella vita, i nostri studi, le nostre passioni, insomma, parlavamo come se fossimo amici di lunga data, ma in effetti ci eravamo conosciuti solo pochi minuti prima. Si è venuto a creare un certo feeling, era piacevole conversare con lui, infatti restavamo a parlare ore e ore, senza mai guardare l’orologio. Ogni giorno era un appuntamento fisso, talmente forte era la voglia di parlare che per un bel periodo ci siamo completamente alienati un po’ dai nostri amici reali. Il nostro incontro virtuale inizia a diventare sempre più forte, come se prendesse forma, immagine, come se si incarnasse un qualcosa di veramente sublime, ossia il concetto di Empatia, molto amato e discusso dalla cara Edith Stein (la mia filosofa preferita). “L’essenza dell’atto che sta alla base di tutte le forme attraverso le quali ci accostiamo a un altro”. In un certo senso, è identificabile con la partecipazione emotiva, la condivisione di un affetto vero e proprio. Siamo entrati in perfetta sintonia fin dal primo momento, incarnando su noi stessi i sentimenti l’uno dell’altro, di amore, odio, compassione, nostalgia ecc. Insomma, ognuno era il riflesso dell’altro in tutta la sua Natura ed Essenza. Il tutto era interessante, ma la cosa più bella e che a distanza di sei mesi circa, abbiamo deciso di incontrarci. Finalmente è arrivato il grande giorno, mi trovavo in Toscana da parenti, e, in quella circostanza ci siamo conosciuti dal vivo. È stata un’esperienza unica nel suo genere, ricca di molteplici emozioni ma soprattutto piena di gioia. È la genesi di una grande amicizia in cui man mano si solidifica nel tempo, sempre più forte, in cui maturano soddisfazioni uniche nel suo genere. Ovviamente ci vedevamo sempre in chat, continuavamo a conversare, raccontarci sempre ciò che facevamo, ci rendevamo sempre partecipe di tutto, entrando anche nelle nostre intimità più nascoste, che magari a molti amici d’infanzia non avevo detto, magari per timore di chi o di che cosa… Non c’era nessuna censura nei nostri discorsi, anzi, ci aiutavamo e ci consigliavamo a vicenda. Sono trascorsi quindici anni da quell’incontro virtuale, ma oggi, siamo più uniti che mai. Non ci facciamo sfuggire nessuna occasione per vederci, anzi appena uno dei due è libero si precipita subito dall’altro come un fulmine. Non si può comprendere quello che abbiamo vissuto e che continuiamo a vivere, perché la nostra amicizia è nata nella purezza di una notte, nella bontà di due cuori, all’interno di una piazza virtuale: il web. Ci siamo ritrovati in tutto, nonostante i nostri difetti, ma quello che ci ha unito è stato il desiderio di conoscenza. Forse un po’ di curiosità, Molti pensano che il mondo virtuale è un mondo fatto di molta gente falsa, in cui le maschere pirandelliane vanno di moda. Ma noi, siam del parere, che non tutti lo sono. Ci sono tante persone, che come noi, hanno conosciuto gente garbata, con i quali hanno iniziato a vivere un pezzo della loro vita, della loro storia. La nostra amicizia inizia virtualmente, e man mano si è incarnata nella realtà. Oggi siamo inseparabili, dire che ci amiamo è ben poco. Concludo con una celebre frase dello Stagirita: “Cos’è un amico? Una singola anima che vive in due corpi”. Gabriele Palumbo Amico di un momento Era più facile raccontare se stessi a chi non si conosceva…era più facile raccontare le proprie emozioni a un passante incontrato per strada piuttosto che a chi conoscevi bene…parlavi di te, dicevi come la pensavi e lui ti ascoltava, diceva la sua e quasi sempre anche lui ti sputtanava la sua storia …succede spesso…e dopo ti senti anche meglio…”perché?” mi chiedevo…quando parli con uno sconosciuto non hai vincoli mentali, non hai paura di esprimerti, non hai paura di essere giudicato e soprattutto non hai paura che ciò che esterni ti ritornerà nella testa, magari con più casini di prima, ti liberi semplicemente…si creava un’empatia momentanea, una condivisione del proprio io…ti sentivi meglio e anche lui…ma come era uno sconosciuto prima lo rimane anche dopo, così come vi siete incontrati vi dividete, ognuno a continuare la propria storia, non rimaneva niente… con chi conoscevi non era così facile, con un amico, un parente…sarebbe bello sfogarsi o esprimersi con tutto se stesso ma non ci riuscivi…ma forse non serviva, forse con chi hai un legame forte anche in silenzio ti esprimi, con chi hai vissuto tante esperienze non sempre servono parole… quasi sempre bastano gli occhi a dire più di quanto tu possa fare… Barbara Villa Mastropierro C’è chi va, c’è chi resta Tasti che prendono fuoco. Giorni, ore, minuti a digitare parole per accorciare le distanze. Nick, nomi, pseudonimi, conoscenti che diventeranno amici. Qualcuno resterà, qualche altro andrà via, così come è arrivato: con un click, un “mi piace”, un condividi. Un vortice di sensazioni che ti prendono e non ti lasciano più. Pensieri, emozioni, risate e confidenze. Amicizie e fratellanze nate e morte in un attimo, per un mi piace di meno, una telefonata non arrivata e si diventa il mostro da buttare in prima pagina. Amicizie virtuali a cui fare attenzione, a volte dolcissime, intense e profonde altre superficiali e pericolose. A rischio c’è il cuore. Ti cancello. Bloccato. Pazienza. E poi avanti un altro. E tutto ricomincia. Amici che diventano anonimi e dietro a falsi nick ti controllano, ti osservano e poi sferrano l’attacco, per loro mortale, ma tu constati, sorridi e sei già avanti. E’ un altro giorno. Un’altra storia. Irma Panova Maino Cosa c’è dietro al monitor? Il tema di questa settimana lascia aperte le porte per molte considerazioni diverse. Le amicizie virtuali nascono davvero sul web? E quanto sono reali? Personalmente credo che vi sia stata un’inversione di tendenza rispetto a cinque/sei anni fa e le persone tendono a essere sempre più vere e meno inventate. D’altra parte, pensate a questo: quante sono le costrizioni a cui siamo giornalmente sottoposti nel mondo reale, rispetto alla libertà di espressione che internet permette? In poche parole, ho avuto modo di conoscere persone estremamente reali sul web, vere nel loro intimo modo di essere, proprio attraverso la virtualità del sistema stesso. Il monitor e la tastiera permettono, a colui che si cela dietro di essi, di poter davvero essere se stesso e non più il personaggio fantasioso inventato appositamente per accalappiare “polli” creduloni e “galline” ingenue. Sicuramente esiste ancora una larga fascia di coloro che utilizzano internet per creare false identità e falsi profili, tendenti più che altro a suscitare l’interesse di coloro che vogliono accalappiare; tuttavia, nella stra grande maggioranza dei casi, le persone sono esattamente ciò che dicono di essere. Questo a prescindere dal fatto che siano delle casalinghe che si spacciano per mangiatrici d’uomini o affermati e seri professionisti che tornano a essere dei gioviali giocherelloni. Internet da modo di poter esprimere l’IO, quella parte che nel quotidiano non può essere esposta liberamente e che, spesso, viene tenuta a freno per false convenzioni e altrettanto falsi moralismi. Da modo, a chi si sente incompreso e solo, di poter trovare altre persone che possono capirlo e renderlo partecipe di una comunità. Da modo, a chi nella vita ha difficoltà a instaurare rapporti, magari per timidezza, di incontrare altri “naviganti”, lasciandosi alle spalle ogni possibile frustrazione o preconcetto. Dunque, perché condannare questo mondo? Perché bollarlo come finto, solo perché passa attraverso i circuiti stampati? Senza un mondo come facebook, molte persone non le avrei conosciute, anime con un cuore e un volto, per me diventate estremamente importanti. Senza internet, non potrei rimanere in comunicazione con amici vecchi e nuovi, non potrei raffrontarmi con loro e non potrei mantenere viva quella fiamma che mi riscalda, a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Quindi grazie ADSL che mi permetti di collegarmi ogni giorno e che mi permetti di poter avere notizie dalle persone che per me contano. Grazie soprattutto a voi, “amici virtuali” che esistete e non solo come profilo generico di un social network. A tutti voi, un sentito e affettuoso GRAZIE. Marina Isceri I miei amici virtuali Osano arrivare dove in realtà quelle vicine si rifugiano altrove,lontane dai tuoi passi. Animi, inaspettati che mai avrei immaginato di incontrare animi, sensibili, gentili, profondi, amici viaggiatori, e sognatori di questo nostro fantastico mondo virtuale. Amici che ti sfiorano restando attaccati ad uno schermo, sanno allontanare giorni grigi donandoti l’arcobaleno che ti segue anche quando ti allontani dal monitor. Ora si, posso confermare di non affidare al vento i miei pensieri, le mie parole, ora si, posso dire grazie a questo magico mondo virtuale dove non serve urlare no, non serve richiamare attenzioni, perché loro sanno come e quando apparire, e li ritrovi sempre lì ad aspettare, ad aspettarti. Andrea Borrelli La ballata dei clic Pulsa il battito del tasto dal cuore intatto pensa sempre in interrotta mente che veloce possiede l’ attimo sente il desiderio cosciente non lo vede immagina davvero di vero lumi bianchi solo credo. Elena Grifoni La distanza che c’è fra quello che vorrei e quello che non accadrà mai Eccolo che ritorna, quello struggimento interiore, quella sensazione che ti prende allo stomaco all’idea di poter essere, per lui, qualcosa di più. Quel desiderio che sai non si avvererà mai, per quante stelle cadenti tu possa contare, ma che non si decide a dar tregua al tuo cuore, lasciando brillare quel barlume di speranza che pian piano, però, si affievolisce. Poi eccolo di nuovo: lui ti parla, ti sorride e in te la fantasia torna a vivere, offuscata però da qualche accenno alla sua vita di tutti i giorni in cui capisci che, talvolta, lui ti racconta solo delle mezze verità, e altre cose con te proprio non le condivide. Magari non per malizia, ma solo per riservatezza… e poi, chi sei tu per entrare nell’intimo della sua vita? Sì, siete amici, ma solo di contingenza. La vostra complicità e il dialogo iniziano e finiscono nel breve tempo di una serata di lavoro in cui indugi, a volte, con lo sguardo, nella sua direzione per poi distoglierlo se si incrocia con il suo. Ti scopri invidiosa della collega che si dilunga a parlare con lui, essendo la sua postazione più vicina della tua o essendo lei solo più intraprendente. Ed eccole di nuovo a svolazzare, quelle farfalle nello stomaco, quel desiderio inespresso che vorrebbe uscire allo scoperto, quella voglia di approfondire un’amicizia che vorresti solo per te. Ti corrode piano la gelosia quando lo vedi parlare a lungo al telefono, con il sorriso e gli occhi allegri; con chi sta parlando? E pesa come un macigno la consapevolezza della presenza nella sua vita di qualcuno che gli è più vicino di te e che e può godere della sua compagnia. Ti ritrovi a immaginare e fantasticare su quello che potrebbe essere il vostro rapporto, se solo tu avessi più tempo da passere con lui. Crei dialoghi infiniti nella tua mente che però mai rispecchieranno la realtà, perché sono solo la proiezione di quello che tu vorresti che lui ti dicesse. Poi tutto tace. Lui è sparito di nuovo, come spesso accade. Il tuo cuore si placa per un po’. Tutto torna nella normalità. Ma ti basta uno scambio divertente di messaggi e ti ritrovi ad aspettare con ansia l’incontro successivo. Una telefonata inaspettata, la richiesta di un consiglio, poi di nuovo a parlare. Ti richiama per sfogarsi, per avere il tuo sostegno, tu che lo capisci bene perché siete sulla stessa barca. È forse la sola cosa che avete in comune… o magari no, ma non lo sai, non lo conosci così bene come vorresti. Il cuore riprende la sua corsa mentre la testa lo frena. Ti sciogli i capelli, ma leghi le emozioni; la tua è una regola ferrea: mai possono trasparire. Non siete mai soli, ma è meglio così. Ti confonde un po’ stare a tu per tu con lui… non sai mai che cosa dire o fare e spesso ti imbarazza guardarlo negli occhi… hai paura che lui sappia leggerci dentro. E allora orienti le discussioni sulle solite banalità e sui luoghi comuni per non rischiare far trapelare quello che senti. Ti vuoi convincere che non funzionerebbe per non rimanere delusa; ti vuoi convincere che sei tu a non volerlo perché sei sicura che sia lui a non volerti. Tante allusioni sono state fatte in passato e le battute si sono sprecate. A lungo tu sei stata un libro aperto su cui si poteva benissimo leggere, se non l’interesse, quantomeno la tua non indifferenza. Eppure niente è successo, niente è stato detto o fatto perché qualcosa nascesse. Ed eccolo qui, di nuovo, questo sentimento di attesa e speranza, che ti attanaglia lo stomaco e ti toglie a tratti il respiro, per qualcosa che intensamente vorresti ma che sai non accadrà mai. Il tuo sguardo ancora indugia verso di lui; lo guardi parlare, lo guardi muoversi, e si abbassa quando anche i suoi occhi incrociano i tuoi. Regina Re Le ali della virtù Inseguire un sogno e volarci intorno, caderci dentro come fosse un pozzo La bellezza di una foto ritoccata insieme ai versi di una bella frase stilizzata Hai sete di gente perbene e credi che il bene si misuri in preghiere Appelli, cuori rossi e cuori neri, saluti e codici incorniciano sorrisi e bronci In una notte di cielo stellato che ti addormenta con un saluto abbreviato “Amare è” mille risposte, scegli quella giusta che ti consola e dagli abissi la tua stima riaffiora… è il posto giusto per erigere il tuo busto, di pietra o plastica non fa differenza perché dalla parola ne deriva l’altezza Invii e ricevi e attendi, cambi volto più del vestito e ti ammiri in questo specchio infinito: “Mi piace” “Sì ti piace… ma quanto? Ti piace tutto uguale o c’è qualcosa che ti piace in particolare?” “Mi piaci” “No, questa opzione non c’è, non è un’agenzia matrimoniale, mi dispiace, hai sbagliato portale…se vuoi puoi chiedermi l’amicizia.” “Perché te non chiedi mai? Accetti, chiedi ma che dai?” “Ma io sono un poeta!” “Ah… non me ne ero accorta, allora cambiamo zona che di solo gossip sono colta…e non leggo e non scrivo ma ho un blog super figo e se vuoi… puoi farci un giro!“ “Ennò, io il mio talento lo regalo soltanto al popolo eletto, al mattino di soli versi mi rivesto e me li ripeto sino a quando nudo mi addormento.” “Essì, io il mio talento lo regalo come se mio proprio non fosse, al mattino provo a rivestirmi ma quei piccoli versi non mi calzano affatto e allora, in giro, mezza nuda me ne vado!” “Di quale talento parli? Con il talento si nasce, si cresce e ci si muore!” “Ecco, la terza che hai detto, per questo non scrivo e non leggo…” “Mi dispiace, la mia gente è di un altro pianeta, della terra è assai stufa e di solo intelletto va fiera!” “Ma io penso con frasi celebri, film o canzoni…eddai, condividi le mie emozioni!” “Le emozioni hanno le ali e le tue purtroppo sono di carta!” “Guarda che ce le ho tatuate proprio qui, sulla mia spalla!” “Mi dispiace ma ti blocco.” “Mavaffanculo stronzo!” Chi dei due sia più vero ora proprio non saprei dire, che tra i due mondi decisamente labile è il confine Un tempo ci si odiava, spesso, prima di amarsi e ci si amava, a volte, prima di odiarsi… Oggi ci si ama o ci si odia senza dare altre possibilità, ti svegli, ti alzi e il buongiorno è per tutti anche se per te non è poi così buono ma rispecchia il tuo profilo, la tua foto, il tuo ruolo… Ne hai tanti qui da scegliere alla giornata e pochi che invece non hanno un profilo, una foto, un libro, un film preferito Quelli sanno davvero che faccia hai di prima mattina quando lo specchio ti addita per come cavolo ti sei vestita L’acqua lava via i ricordi della notte e scivola sul tuo volto, cancellando dalla mente i frammenti di quel sogno Sei sveglia ora e guardi in fondo al pozzo Sorridi, puoi essere fiera della tua bacheca… è soltanto la realtà, a volte, che ti frega. Anna Cibotti Mi piace Un “mi piace” fa piacere a tutti. Quando guardi le notifiche e lo vedi non ti chiedi quanto sia sincero. Ti fa piacere e basta. Questi rapporti d’amicizia virtuali non si discostano di tanto dalla vita reale. Ci facciamo più belli agli occhi degli altri e vogliamo sembrare chi non siamo, ma migliori?: chi mai nella vita di tutti i giorni, non cerca nelle relazioni sociale di apparire al meglio? Attraverso ciò che scrivono gli amici si può capire tanto di loro. Infatti fra tanti, si tende sempre a preferirne alcuni. Il motivo è che si crea un’affinità che ce li fa scegliere. Gli amici reali ti parlano e quelli virtuali ti scrivono. Nei tempi che furono si tenevano relazioni d’amore e d’amicizia quasi esclusivamente scrivendo lunghe lettere, anche ogni giorno. Relazioni virtuali anche allora che avevano una grande importanza per chi le viveva. Le amicizie possono nascere anche se non conosci le persone materialmente. Io gli amici li ho trovati…. Il motivo? Mi piace quello che scrivono e mi fanno compagnia quando li leggo. Cosa c’è di più bello della lettura? Se poi sono belli, grassi, bassi o brutti, non me ne importa nulla. Sono sinceri? Non me lo chiedo mai. Io sono sincera con loro e credo che la cosa sia reciproca. Puoi scegliere su una vasta gamma di personaggi ……..nella vita reale è così? No: ti accontenti di quello che passa il convento! Grazie amici! Ronni Corbari Non cambia niente (per via delle amicizie virtuali) Anno di grazia duemiladodici. I link parlano al posto degli umani, ma essendo fatti da umani fanno trasparire una certa schifezza, la solita ipocrisia e il solito vomitevole tentativo di sembrare quello che non si è. Badate a quelli che vivono di link, loro vogliono essere i migliori, loro vi odieranno quando avrete il coraggio di scrivere qualcosa usando la vostra testa, vi accuseranno di essere inadeguati al mondo virtuale e alle sue regole. Io non sono così, e a molti sto sulle palle. Meglio. Ma ci sono ancora umani pensanti che dicono e scrivono per quello che sono. Stupidi, simpatici, intelligenti, più o meno colti o ritardati, ma sono loro stessi e va bene. Tanto non cambia niente, siamo sempre sulla stessa barca, destinati alla pazzia e poi alla morte. Si stringono amicizie, quello sì, ma non difenderò mai e poi mai i rapporti virtuali rispetto a quelli veri. Diversamente apprezzo il “mezzo” virtuale per portare a conoscenze “vere”, fisiche. Per poco non mi rimediavo una donna con questa cosa, già, per poco, se non fossi così irrimediabilmente debole, testa di cazzo, egoista, me stesso. Ma le cose vanno e vengono, sempre, passano come i rifiuti nel fiume verso altri posti forse migliori o forse peggiori. La vita è questa e non cambierà mai. Con certe persone comunichi di più, impari a “leggerle” tentando di capire come siano nella vita vera, che tipo di voce abbiano e a volte mentre gli scrivi provi a immaginare la loro risposta. Sono come libricini piccoli come le loro foto dei profili che sfogli piano piano. Sai che per lo più ti risponderanno, se non lo facessero dentro di te si insinuerebbe il dubbio di non essere ascoltato, di non contare nulla. Solita triste paura dell’uomo: essere nessuno. Chi pensa di trovare felicità nel virtuale sbaglia, si possono trovare porno di discreta qualità, quelli sì, la felicità non si trova grazie agli altri ma solo dentro se stessi. Ognuno di noi ha una buona dose di felicità in dotazione dalla nascita. Però abbiamo anche l’inferno nascosto nelle viscere, tutti l’abbiamo, anche se diciamo di no. Dipende da noi annaffiare questa o quella pianta, dipende sempre e solo da noi. Accendere il computer non è molto diverso da entrare in un locale al sabato sera, vedi tanta gente tutta indaffarata a fingersi qualcosa di diverso da quello che è. La speranza è sempre quella di trovare la voce fuori dal coro, e con un po’ di culo la puoi trovare. E’ così nel virtuale come nella vita vera, sei amato, odiato, ti sputtanano facendoti un sorriso, c’è ti vorrebbe abbracciare ma non ne ha il coraggio, chi ti vorrebbe vedere bruciato vivo, chi ti si inculerebbe solo per divertimento, siamo sempre umani, questo non cambierà mai. Monica Pasero Parole… Profuma di carta il nostro sentiero Tra quelle siepi germogliano le mie e tue emozioni lettere e sillabe fanno capolino tra i lillà dei nostri sogni comuni il sentiero ghiaioso è ancor ricoperto da parole confuse I grandi abeti mossi dal vento spazzano via il disordine del non comprendersi. Riportando fluidità nelle espressioni, nei nostri volevo dirti Luce diafana veste il sentiero illuminando il nostro scriverci Ombre vicine ora si tengono per mano non servono più parole adesso Un clic e tutto vive… Dita tremanti attendono un suo gesto Attimi quasi eterni, bramano una sua parola una sola sillaba, che le permetta di respirare nuovamente l’attesa vibra in lei. Forte e smaniosa, attende. Una dolce missiva attraversa i cavi di quell’ universo parallelo, insinuandosi nel suo cuore sentimenti che s’incontrano da posti lontani lacrime calde s’uniscono, sfiorandosi il cuore per un attimo eterno in quel istante dove reale e virtuale si fondono ritrovandosi in un solo clic dove, tutto vive… Elisabetta Bagli Un istante rubato Tic tac, tic tac… i tasti sotto le mie dita. Parole non dette, non scritte riempiono la stanza mentre mi osservi, apparentemente distante. Il respiro dei tuoi occhi è su di me. Un bisbiglio, un invito. Ti abbandoni a me, alla mia mente, alle mie dita. Sì, decido io. Sì, scrivo io. Non resisti, ti avvicini. Le tue mani si ammorbidiscono, lentamente scivolano sugli stessi miei tasti, sfiorano la mia pelle. Sorrido e tu sorridi. Sorrido e indovino i tuoi pensieri. Sorridi e vedi la mia vita. Ti sento entrare. Ora conosci i miei movimenti, mentre rifletto. Ora sai come sono mentre scrivo, lontano da te, per te. Un istante rubato e oggi la mia immagine evocata è realtà davanti a te. Un istante rubato e scolpisci il mio volto fisso sullo schermo, nella tua anima. Mi leggerai. Ricorderai me, seduta accanto a te. Ricorderai me nell’istante che, insieme, abbiamo rubato alla vita. Cristiana Verazzo Virtualmente Facile. Troppo facile star qui a sparare a zero su se stessi, a commiserarsi nella meschinità quotidiana della vita. E arrivati al primo giro di boa, tenti di fare una strambata come non ne capitano mai, di quelle che ti consentono di vincere un mondiale a pochi metri dal traguardo con orgoglio e soddisfazione. Allora t’inventi di tutto: palestra estrema, anche se non hai mai sollevato nulla di più pesante di un sacchetto della spesa in vita tua; nuovo look, nella speranza di rinverdire quello che una volta era un giardino sempre in fiore; infine impari ad usare un computer. E pian piano passi da un triste indice a battere con almeno entrambi, aggiungendo di tanto in tanto un medio… Al passo successivo t’iscrivi a un social network: chatti, chiacchieri in gruppi, aderisci a fan club del tuo cantante preferito e fai conoscenza. Lo ammetto, molti son stronzi, ma con la STR maiuscola. Per tanti idioti però ce ne sono altrettanti davvero in gamba e cui quali condividi pensieri, desideri, sogni… e se solo una persona così è riuscita ad incrociare il mio cammino, mi ritengo ben più che fortunata, perché dietro uno schermo nessuno sa chi sei e se instauri un rapporto dove ci si dice tanto, ma tanto di più, allora è quasi certamente sincero. Io almeno adoro credere che sia così: una grande famiglia di amici…e il tutto virtualmente. Dedicato alla mia Musa….tu sai che ce l’ho con te ♥ Catene Spesso siamo costretti a dover rispettare le convenzioni e le nostre catene derivano dall’educazione ricevuta, dalla società, da chi ci circonda. Dunque Catene, questo è il nuovo argomento per 7 giorni. Catene mentali, fisiche, immaginarie… qualsiasi tipo di costrizione rientra in questo argomento e diventa inevitabilmente lo specchio delle nostre frustrazioni: vorremmo essere liberi, sempre, di poter esprimere adeguatamente l’IO, senza dover sempre fare i conti con realtà spesso scomode. Se non altro, almeno per una volta, i nostri autori avranno modo di liberarsi da bavagli e legami, lasciando completamente andare desideri e fantasie, provando, almeno per pochi istanti, la soddisfazione di aver potuto dare sfogo alla propria personalità. Irma Panova Maino Breve La catena non ha solo un capo, solitamente ne ha due. Ode alla catenella Tu che scoli l’umana miseria portando nei flutti le scorie del vivere Tu che vieni sfiorata solo quando di necessità si fa virtù Tu che resti isolata e denigrata come un accessorio inutile Tu che pendi inerte e afflitta lungo i muri dei nostri giorni Tu piccola catenella del mio wc mi auguro di non doverti riparare mai. Pesi e misure Spesso le catene sono mentali, ma questo non le rende meno vere, meno reali e meno difficili da sopportare. Senso del dovere, stanchezza fisica e cerebrale, ossessioni impossibili da risolvere, incapacità momentanea di riuscire a vedere le possibilità offerte, molte sono le componenti che ci rendono schiavi di una particolare situazione o di un rapporto, ma tutte hanno in comune una cosa: la nostra mancata reattività. Tuttavia non è una colpa. Sapere di essere la causa dei propri mali, non facilita di certo la soluzione degli stessi e spesso sono altri i fattori collaterali che contribuiscono a rendere la liberazione una meta effimera e irraggiungibile. Eppure, ciò che ci salva dall’annientamento totale e dalla rassegnazione più cupa è la speranza. L’idea che, al di là del tunnel, esista la luce e il sole, l’aria pura e l’ossigeno necessario ai nostri polmoni. E per raggiungere questo stato di grazia ci vuole un pizzico di follia, tanta buona volontà e la consapevolezza che la libertà ha il suo prezzo e questo non è mai un misero “gettone di presenza”, ma purtroppo spesso richiede molto del nostro sangue. Per noi donne, spesso sono i figli a “pesare” sulle nostre decisioni e non tanto perché essi siano d’impiccio o effettivamente di peso, ma il solo fatto di averli messi al mondo, ci rende automaticamente responsabili della loro sorte e del loro benessere psico-fisico, diventando, purtroppo, un altro anello della catena che ci lega alla piattaforma di cemento, che abbiamo comunque contribuito a creare. La causa non risiede mai in un solo colpevole, ognuno di noi ha dato del suo per far sì che le situazioni non funzionassero e benché sia totalmente inutile cercare di pareggiare i conti, scagliandosi addosso accuse assurde, è anche vero che ognuno dovrebbe fare la sua parte, nel riconoscere i torti e le mancanze. La consapevolezza aiuta il più forte ed è solitamente il più forte che decide di arrendersi e di non combattere più per qualcosa che si è perduto nel tempo. E non uso impropriamente il termine “combattere”, poiché è proprio la lotta e la conquista che portano alle catene e a quelle costrizioni mentali che ci impongono un certo tipo di comportamento e coerenza. Tuttavia, quando arriva il momento, è bene coglierlo al volo, saper sfruttare l’occasione giusta e lasciare che le maglie ci scivolino addosso, diventando immuni al dolore, al rimorso e al rancore. Mentre gli anelli scivolano via dalla pelle, lasciando segni di abrasioni e tracce di ruggine, nulla potrà impedire ai polmoni di espandersi, alla ricerca di quell’aria che spesso è venuta a mancare. E con i piedi ben saldi sul terreno, imparare di nuovo a camminare con i propri arti, calpestando il suolo con decisione, diventa l’unico mezzo possibile per raggiungere la meta. Anna Cibotti Catene Amai l’idea dell’amore e i suoi lacci. Li volli stretti come nodi da non sciogliere mai. Ogni giorno più stretti nella mente, nei gesti, nel cuore. Ma il tempo va. Non puoi correre con lui incatenata a un’illusione. Ora che gli occhi sono stanchi di vedere il niente, strappo le mie catene di carta ormai consumate. Elisabetta Bagli Catene Voglio vivere l’amore, voglio essere felice. Cammino per la vita, l’ascolto, l’osservo. Nulla è per me. All’improvviso un sorriso, come un’onda entra in me. Penso sia amore, voglio viverlo. Me lo impongo. Me lo impongono. Me lo impone il mio bisogno di sentirmi amato, di sentirmi importante, io, un punto nell’immensità. Me lo impone il mio desiderio di veder continuare il mio sangue, la mia linfa vitale in questo mondo. Catene indesiderate mi fanno prigioniero. Catene stringate impediscono il mio grido di libertà, premono la mia sofferenza. Catene senza amore, effimere mi consolano. Immaginare l’amore che libera Si è risvegliata in me la primavera ma non sono impazzita. Sono conscia che le mie catene dovranno spezzarsi prima o poi. I miei palpiti assopiti e desiderosi di scoprire una nuova me stanno scoppiando dentro la mia carne, vibrano e tremano alla ricerca della felicità. Voglio vedere le stelle che non ho mai visto, voglio che brillino per me, solo per me. Voglio assaporare il mirto da nuovi rami, quelli nascosti tra le parole che mi dici senza capire che mi ami e che puoi dirmelo. So che non sono per te, so che tu non sei per me, ma dimmelo, amore mio. Mi stai liberando, mi stai aiutando a spezzare queste catene che mi hanno tenuta prigioniera per tanto tempo. Libera io in te e tu in me. Se le primule sono nate di nuovo nel mio animo è perché ci sei tu. Tu il cammino che ho deciso di intraprendere, tu presenza costante ma invisibile che ha illuminato la mia vita, tu che con i tuoi baci hai reso di nuovo azzurro il mio cielo. Ma non sono altro che tenebre, nascosta dietro le ombre delle catene che sono costretta a indossare finché dovrò. Ritorno silenziosa così come son venuta, mi inabisso nell’oscurità e nell’anonimato di ciò che non potrà mai essere. Eppure so che un giorno sarà. Scrivo e immagino. Sono la parola scritta in un momento di rabbia, il sogno vissuto quando non c’è più vita, un bisbiglio serrato tra le sbarre della gabbia dorata dove ancora ti osservo, lontana e silenziosa in attesa di quel giorno in cui mi dirai “ti amo”. Le catene d’amore son pur sempre catene Quanti tipi di catene esistono in questa vita? Molteplici e di molteplici metalli. Quelle che ci vengono imposte e che accettiamo senza batter ciglio o che, dopo estenuanti battaglie, siamo costretti ad accettare. Quelle che non possiamo evitare per via del senso comune e del quieto vivere, dettate dalla spietata legge della società in cui viviamo. E quelle che, viceversa, ci imponiamo noi. Alcune catene sono talmente invisibili che quasi non ci rendiamo conto di avere polsi e piedi legati a ganci spuntati dal nulla con l’unico scopo di trattenerci ancorati ai doveri. Le catene affettive, che poi incatenano tutto il nostro essere, dall’anima, alla mente e al cuore sono le peggiori. Gli insegnamenti di una famiglia, teoricamente “libera” nella quale non esistono confini tra ciò che è tuo e ciò che è mio, fra ciò che tu pensi e quel che penso io, non servono ad altro che a farti crescere senza aver rispetto per la persona che sei, incatenata a un’idea in cui non esiste l’IO ma esiste solo il NOI e nessun tipo di realizzazione personale è ammessa se non vagliata da altri, se non decisa e analizzata in dettaglio per il bene della Comunità, un bene travestito da AMORE per te. Una vita così non è tua. Sei incatenata a un’esistenza che non ti appartiene e, purtroppo, quando te ne accorgi è troppo tardi. Per poter cambiare tutto, fuggire da una vita misera, piena di rimorsi e di rimpianti, dettati dalla morale, scappi e accetti altre catene, quelle che pensavi ti permettessero la “vera” libertà, vai verso il cosiddetto specchietto per le allodole. Spinta dalla disperazione, dal tuo desiderio di rivalsa, di dire qualcosa in questo mondo, di far vedere che ci sei e che, se ci sei, devi poter vivere, le abbracci e vuoi che ti leghino e siano per te per tutta la vita. E non è così. La quotidianità ti fa comprendere che essere fuggita ti ha aiutato solo a renderti infelice. In realtà, le nuove esperienze ti hanno formato e ti hanno liberato da quelle catene che nell’infanzia e nell’adolescenza ti hanno fatto vivere nella bambagia, attraverso le finestre di quelle quattro mura della tua stanza. Ma lontana hai adottato un transfert psicologico e sei diventata di nuovo una “dipendente affettiva”, incastrata nel meccanismo che situazioni malate hanno inculcato nella tua testa, nel tuo modo di pensare e di ragionare. In ogni caso, sei maturata ed è stato positivo essere diventata adulta lontano dalle catene che ti stringevano, ma sono aumentate le responsabilità e le redini della tua vita che per un attimo pensavi di aver imbrigliato nelle tue mani, ti sfuggono nuovamente, perché, in realtà la vita non è mai stata tua, neanche fuggire è servito. La tua vita è sempre stata pensata in funzione degli altri. Mai che nessuno ti abbia chiesto: “che vuoi dalla vita?”. Neanche tu, presa dal turbine degli eventi, hai avuto mai tempo per soffermarti a porti questa domanda: “cosa voglio?” All’improvviso ti rendi conto che devi cambiare, ti sei stufata di amare, amare e ancora amare. Senti che vuoi essere ricambiata, senti che devi essere amata anche tu. Ma sai che la prima catena mentale che devi spezzare per poterti porre in modo diverso agli occhi del mondo e per poter essere amata per quello che sei, è amarti tu. Comprendi che forse puoi riuscirci. Comprendi che forse è arrivato il momento, che puoi realizzare i tuoi sogni, i tuoi desideri di vita e di donna. Ma non puoi farlo da sola. Interviene un input esterno che ti aiuta a fare introspezione e senti che così, finalmente, puoi gridare la tua vita, la puoi far esplodere, la puoi mordere come desideri e assaporarla in ogni suo gusto e piacere. Vuoi liberarti dalle catene, quelle che pensavi fossero d’oro zecchino e che, invece, si erano solo bagnate nell’oro. Ci provi, e ti trasformi in ladra. Gli attimi rubati alla vita e al mondo, tra un allentarsi e uno stringersi delle catene placcate d’oro, sono attimi di felicità estrema, mai provata, così intensa e benefica che vorresti continuassero all’infinito. Gli attimi che hai rubato sono privi di convenzioni, privi di catene e ti liberi, finalmente sei libera in anima e corpo e vivi e mordi il presente, vivi e uccidi il passato che ti ha fatto soffrire. Ma tutto dura un attimo, tutto è così breve da non sembrare vero. Torni a indossare le catene placcate d’oro e rifletti sulla tua vita che per alcuni attimi rubati è stata TUA. Rifletti e senti che, mentre tenti di rubare ancora, ti si creano altre catene, altri vincoli, l’addizione al bello, al positivo, al piacere, al sentirti amata, al godere nel sentirti dire “sei bellissima”. Piangi e ridi, confusa vuoi che queste nuove catene ti stringano ancora, vuoi che ti amino di nuovo, che ti stritolino fino a farti male, solo per poterle sentire ancora su di te. E ti rendi conto che sono effimere anche quelle frasi, quegli occhi, quelle carezze anelate e desiderate e all’improvviso materializzate, effimere perché non sono per te. Ti danno la libertà di essere te stessa, ma non sono per te. Sono solo il gioco perverso di una mente che non vuole lasciarti andar via, sono catene senza amore e senza odio, aggrovigliate al tuo corpo e alla tua anima dalle quali non vuoi fuggire. E allora perché continuare? Perché ormai sei incatenata a doppio filo a questo qualcosa che non esiste ma che sai che con le sue catene ti rende libera. Hai il sapore della libertà nella tua bocca e vuoi continuare ad assaporarlo per lungo tempo ancora. Ora sono due le catene che hai al collo e che stringono con la stessa intensità sebbene gli scopi nel farlo siano diversi. Una, scelta da te, è quella che non ti fa volare, che non ti fa vivere. Mentre l’altra, scelta sempre da te, è quella che ti dà piacere e libertà giusto il tempo di pochi attimi rubati. Le spezzerai entrambe. Monica Pasero Catene Catene trattengono i miei giorni Irrobustite dal tempo passato dalla mia indolente ribellione arrestano la mia essenza la mia identità sfiorisce , incatenata ad una vita non sua …. Catene di realtà bloccano i miei sogni Frenano i miei istinti Soffocano i miei giorni Avvolgono il mio esistere imprigionandomi nell’ipocrisia del Giusto Agonizza il mio intimo in cerca d’evasione Si ribella il cuore al già vissuto Urla la mia anima al fato non atteso Catene trattengono i miei giorni Ma l’amore vero le spezzerà Un frastuono di vita Libererà il mio cuore riportandolo sognante nel suo vivere… Barbara Villa Mastropierro Catene… Spezzate Mi avevano incatenata. Gli avevo lasciati fare. Mi dicevano: “la strada è ormai tracciata e non puoi più cambiare rotta.” Ho creduto alle loro parole. Ho dato loro modo di tenermi ancora più stretta. Partivo e loro pensavano: “tanto sempre qui deve tornare”. Orgoglio e dignità hanno detto basta al posto mio. E non sono tornata. La vita è una sola ed è mia, decido io cosa farne. Ho lasciato il buio per la luce. Ho abbandonato il bianco e il nero per ritrovare i miei amati colori. Ho rimesso le ali al cuore e sono tornata a volare. Nadia Lattanzi Chiusa fuori Sono chiusa fuori, non riesco ad entrare…legata stretta al palo delle menzogne, illusioni familiari Ancorata nel fondo di parole buone..mai a galla, mai a respirare. Per poi accorgersi..che non c’è nessuna catena se non nella mia mente. Per poi capire che basta muovere il primo passo e tutti gli altri dietro.. Per poi sperimentare quel piccolo, innocuo senso di libertà..e rientrare, finalmente rientrare dentro di me. Poche storie. La porta era socchiusa e solo la paura me la dipingeva sbarrata. Nadia Milone Le catene di un sogno Succede, a volte (forse troppo spesso), che quando ci sentiamo a disagio o la nostra vita ci appare troppo stretta, ci rifugiamo in un sogno. I sogni sono belli, ci fanno volare, ci fanno credere di vivere in una realtà diversa, quasi in una favola. E anche se, razionalmente, sappiamo che presto o tardi questo sogno finirà, anche se sappiamo di dover stare con i piedi per terra, alla fine non ci riusciamo e ci lasciamo trasportare dall’onda delle emozioni del momento. Ci illudiamo di essere liberi, di poter volare, ma in realtà ci stiamo soltanto incatenando ad un’illusione. Sono catene diverse da quelle di cui siamo soliti parlare, perché quello che ci tiene legati ad un marito, ai figli, alla famiglia è abitudine, a volte anche necessità vera e propria, sono catene costruite nel tempo, invece quelle che ci legano ad un sogno sono più difficili da riconoscere, forse perché all’inizio non ci sentiamo legati ma liberi, ma piano piano ci rendiamo conto che non riusciamo più a fare a meno di quel sogno, di quella speranza e più la vediamo allontanarsi da noi, più ci rendiamo conto di quanto sia forte la catena che ci costringe a rimanere attaccati alla realtà. E fa male, molto male… Io credo che sia peggio di tutto il resto. Ma quando realizzi che il tuo sogno sta finendo, quando ti rendi conto che sta andando in frantumi e tu rimani lì, ancora attaccata a lui, ad osservarlo svanire senza poter far nulla per impedirlo, chiedendoti perché fino al giorno prima eri felice e il giorno dopo, invece, ti assale un senso di panico che quasi ti strozza, allora proprio in quel momento ti ricordi che non stai vivendo la realtà e senti il nodo stringersi ancora più forte, fa male, quasi un male fisico. Capisci che devi scioglierlo, sai che è necessario ma è difficilissimo. Svegliarsi da un sogno è bruttissimo, ma viverlo e poi doverci rinunciare è ancora peggio. Sentirsi legati ad esso a doppio nodo e sapere di doversi staccare è lacerante, ma nessuno può farlo per noi, nessuno slegherà quel nodo al posto nostro. L’unica soluzione è prendere in mano le redini della nostra vita e rendersi conto, benché costi tantissimo, che è ora di lasciarlo libero perché il nostro sogno vuole così. Sarà il sogno di qualcun altro, forse, in futuro. Magari qualcuno riuscirà ad afferrarlo e realizzarlo. L’unico modo per liberarsi dalle catene di un sogno, è quello di lasciarlo andare, di liberarlo da noi e dopo, forse, anche noi ci sentiremo di nuovo pronti a volare. Rinchiusa Mi guardo intorno. Vecchi soprammobili polverosi e fotografie mi ricordano la mia vita. Eppure una volta ero felice! In quelle foto ridevo. Ma forse era solo un’illusione. Ho scelto come vivere la mia vita, nessuno me l’ha imposto, allora perché ora mi sembra di essere in una gabbia? Legata e rinchiusa in un mondo troppo piccolo per me. Vorrei trovare la chiave. Dov’è la chiave? Chi me l’ha rubata? Niente, non ho scampo, non ci sono vie di fuga. Devo rimanere qui, incatenata a ricordi e rimpianti di una vita mai vissuta, sperando in un futuro che non esiste, se non nella mia mente e nei miei sogni. E proprio in quei sogni trovo la pace. Quando finalmente chiudo gli occhi riesco a liberarmi da queste pesanti catene, divento leggera, forse posso anche volare. Volare laggiù, dove troverei la mia pace, dove le mie domande avrebbero risposta, forse. E in quel mondo sarei felice? Chi lo sa, forse sì… Ma al risveglio, sento addosso il dolore, quasi fisico ormai, atroce e lancinante, ma per quanto io tenti di divincolarmi, non riesco a muovere un passo, non riesco a scappare e correre laggiù… Regina Re Legame “…e proprio non mi riesce di essere seria, neanche quando lo sono e quanto più sono vera, tanto meno ce l’ho scritto sul mio volto contraddizioni di fondo travestite da perfetta coerenza ed ogni gabbia dipingo di rosa in fondo alla mia testa e non sento leggi e non ho padri né padroni ma se mi guardi schiava sono dei tuoi occhi un tempo veneravo tutto ciò che c’era di più grande ed ora ogni cosa così piccola al tuo cospetto appare un punto senza forma che fluttua in un buco nero un punto bianco che solo risplende nel mio cielo plasmato nella forma pian piano hai preso vita e subito con uno sguardo ti sei preso quella mia un’anima dentro un’altra non è mai stretta se tra le due aleggia una sintonia perfetta non penso sia possibile pensare senza pensarti che l’unica cosa che mi viene è solo di amarti quello che mancava e ora non manca più era dentro me e con me c’eri soltanto tu ti ho detto i nomi delle cose per poterci parlare ma ora quando mi parli vorrei sentirti strillare zitto, ascoltami e fai finta di non capirmi tutto è lecito se dietro me ti incammini conto i tuoi passi e tu ora il tempo rincorri dove un tempo vivevano solo i miei mostri ti ho detto di crescere ma non sembrare grande il pensiero mi fa sorridere e piangere all’istante la paura non ti sfiora e ne vado fiera sei tu l’unica catena che ora mi frena e non fai mai male, non sei stretta e in questo vortice mi tieni ferma l’unica catena che mai vorrei spezzare che mi lega le mani per lasciarti volare…” a mio figlio Angelo Francesco Anfuso Libero dalle catene delle mia vita Rigide catene si legano al destino della mia Vita, un soffocante tormento come anello mi stringe alla gola. Con docile grazia si avvolge sul mio corpo, un’ingannante seta pura di una larva di baco ormai spento su quel gelso privo di linfa. Mi stringe, mi corrode le membra rendendomi schiavo della mia stessa vita, della mia stessa condizione. Sospiri! Solo sospiri disperati son le mie consolazioni che al par di quel giovane Prometeo sono urla strazianti senza eco. Condannato e incatenato su questo monte: questa è la mia sorte. Ormai, il mio tempo è segnato, impresso come un sigillo sul mio capo. Di queste dure catene vorrei esser libero. Libertà! Ecco, ciò che desidero. Non ci sono parole, non ci sono emozioni, non ci sono passioni, solo la solitudine mi sussurra conforto. il deserto mi è fedele compagni: Silenzio è il suo nome. Nessuna creatura si accorge della mia presenza, la mia miseria li rende ciechi, il mio peccato è un giogo assai pesante per essere sopportato. Anche le foglie secche al vento, raggrinzite e imbrunite mi schifano al loro passaggio. Sono incatenato come un ladro, ma non ho rubato, la vita era mia mi è stata donata, mi appartiene. Aiutatemi a spezzare queste catene, io non chiedo nulla se non un solo misero ausilio. Non siate ciechi e sordi, non lasciatemi ancora appeso, Voglio essere libero e dissetarmi! non più con le mie amare lacrime, ma attingere con speranza alla fonte di quell’eterna gioia. Alzo gli occhi verso l’alto, sono stanco e rassegnato. Una luce filtra da quel nefasto cielo, mi raggiunge e non mi tocca, mi sfiora dolcemente. Innalzo le mani verso i cieli e mi elevo verso l’infinito. Volgo il mio sguardo verso il basso, sono libero! Vedo le mia catene ormai disciolte in se stesse. La mia schiavitù è solo un passato, è sepolta sulla nuda terra. Fiorisce il deserto ed esaltano le voci. C’è tanta gente che mi accoglie, mi vengono incontro. Le mia catene, una vita che ormai non è più mia. Sono libero, non più schiavo. Ero morto, adesso io vivo! Gabriele Palumbo Libertà tra le catene Pensavo di essere come un prigioniero che dopo anni di reclusione si accorge di avere sempre avuto in tasca la chiave per uscire, ma decide di non usarla perché ormai abituato a quella vita rinchiusa… ma mi accorsi ben presto che la situazione era un’altra…era la troppa libertà ad avermi ridotto alle catene…non ero io ad essere in prigione, era la prigione ad essere in me…avevo la voglia, la possibilità di fare ogni cosa, ma ogni volta la speranza si spegneva sul nascere, al primo passo non ne seguiva mai un altro…la catena era sempre più corta…più la mia libertà aumentava più le mie possibilità di movimento diminuivano…i muri si facevano più alti e intanto nella mia prigione interna l’aria cominciava a mancare…questa volta in tasca non c’era nessuna chiave…sarà stata di sicuro in mezzo a qualche cumulo di merda e io non ci avrei mai messo le mani per recuperarla… molto probabilmente non c’era neanche una serratura… Rossana Roxie Lozzio Schiava senza catene Amo la libertà, non posso più farne a meno, posso essere me stessa in ogni momento e non rimpiango di non essermi lasciata incastrare in una convivenza, sono certa che sarei stata infelice. Non voglio sentirmi imprigionata da nient’altro che da questo sentimento… qualcosa che mi punisce per la forza con cui voglio sentirmi libera, giorno dopo giorno, da anni e che mi mette in catene, senza che possa scegliere diversamente, accompagnandomi da quando ho incontrato il tuo sguardo. Non saprei sganciarmi da questo incantesimo ma d’altra parte, rappresenti tutto quanto di meglio possa desiderare e resti desiderio, passione, trasformandoti da Paradiso ad Inferno, a seconda delle occasioni! Catene nell’anima, quelle che mi hanno catturato e delle quali non ho modo né voglia di liberarmi, per le quali e nessuno può comprendere, ti ringrazio. Resto libera di andare e di decidere la meta… rendo conto a me stessa e decido cosa fare di me, se bere o meno troppo caffè, se alzare un po’ il volume della musica – che scelgo io… – se continuare ad aspettarti, anche se so che non arriverai. Schiava senza catene… libera di girare per il mondo, mentre il mondo gira intorno al tuo universo. Ronni Corbari Senza via d’uscita Da settimane era ridotto così. I posa ceneri sparsi per casa stracolmi di mozziconi puzza di sudore e sporcizia. Lei non era più sua lui invece sì. Lo aveva cambiato, migliorato, forse e abbandonato, poi. Lei non era più sua. Vino scadente, acido come il suo alito aspro come il suo sangue. La morte doveva essere migliore. Lui era ancora suo. Da settimane non mangiava non si lavava beveva e basta senza riuscire a ubriacarsi. La condanna delle condanne! Lei non era più sua, lui invece sì. La debolezza: tema libero Il titolo vi parrà strano e ancora più strana la spiegazione, ma vi è una logica a tutto, anche a questa anomalia. Questa settimana i nostri autori hanno sì votato per il tema Debolezza, ma alla fine, quando questo ha vinto, si sono chiesti che cosa potevano scrivere per non sbordare dal tema stesso e così, vuoi per mancanza di idee, vuoi per dare un più ampio respiro a tutti, mi sono lasciata cogliere dalla mia Debolezza e ho cercato di accontentare tutti, fornendo loro un jolly: il tema libero. Dunque, per questa settimana, e solo per questa settimana, ognuno potrà scrivere quello che vuole, mettendoci tutta la fantasia che è in grado di far scaturire dalle meningi. Anna Cibotti A chi non la conosce Elegante e sobria fine e ammiccante, lei riempie le parole di contenuta allegria. Quel pungere sottile che è appena un tocco, apre labbra stirate e visi scuri. Aiuta a vivere le pene se la possiedi. Non è appariscente. Né scurrile e ignorante. E’ una distinta signora spesso incompresa. Il suo nome è ironia. Monica Pasero Brano tratto da “E come diceva sempre mia nonna” Caro diario, finalmente posso scriverti. Anche oggi davanti alla lavagna mi sono bloccata, quasi pietrificata di fronte allo sguardo della maestra, e non sono riuscita a spiccicare parola. Anche le cose più semplici si sono confuse in un turbine di nozioni e il mio cervello è andato in tilt. Ti è mai successo? Beh, a me capita spesso. E poi quelle fastidiose risatine simili a piccole punture di zanzare, hai presente? Nel mio caso vengono fuori dalla bocca di chi ha tutto dalla vita e pensa che, essendo nata in una condizione economica agiata, nel pacco dono ha l’intelligenza compresa e inculcato nel cervello il “so-tutto-io”: un morbo che colpisce soprattutto i ceti alti della nostra società che, potendosi comprare quasi tutto, pensano che anche il sapere sia inserito nella carta di credito. Etcì! Il morbo del “so-tutto-io”! Da quanto tempo è che non lo sentivo nominare! Lo avevo inventato per appiopparlo a persone con la puzza sotto il naso e incapaci di amare. Chi è che nella propria vita non ha conosciuto qualcuno colpito da questo morbo e meritevole di diventare un ottimo bersaglio da prendere a torte in faccia? Beh, io la conoscevo una così: era una mia compagna di scuola e si chiamava Amanda. Caro diario, Amanda è insopportabile. Il suo nome è già sulla lista delle cocche della maestra. Poi, come se non bastasse, lei ha tutto, ma proprio tutto: i boccoli più biondi, il nasino più all’insù, i due più grandi e bei occhi verdi che io abbia mai visto. Anche Luigi, quando la vede, resta incantato e diventa tutto rosso: mi sa che anche lui è innamorato, ma non di me. La verità a volte fa male, ma lei è proprio bellissima a vedersi. Veste sempre secondo la moda e ogni giorno ha con sé una Barbie diversa da abbinare ai vestiti, alle calze, alle scarpe, alle felpe e ai jeans, tutti rigorosamente firmati Barbie. Vidi dal baule spuntare la mia vecchia Barbie. Sorridendo mi ricordai che a quel tempo ero quasi certa che Amanda avesse stipulato un contratto con la Mattel a scopo pubblicitario. Caro diario, a me piacerebbe avere una Barbie, ma costa troppo; però ho una sua sosia, quasi bella come quella vera. Nonna mi cuce i vestitini e io e Giorgia la facciamo sfilare e immaginiamo come saremo da grandi. Strinsi quel tesoro ritrovato al petto e una risata mi riportò indietro nel tempo: mi rividi giocare con Giorgia. Certo la natura non era stata tanto buona con noi! Eh sì, è proprio così: noi eravamo già sfigate in partenza e ora sono sicura che le modelle non avremo potuto proprio farle. Non eravamo certo due fuscelli: al massimo due fustini formato famiglia! Valentino e Armani non ci avrebbero mai preso in considerazione! Forse una Elena Mirò… ma comunque avremmo avuto molte più possibilità di vincere alla lotteria! Mi sa, caro diario, che non faremo mai le modelle: ad ogni modo non bisogna mai abbattersi ma, al contrario, si deve guardare avanti! Come Amanda che, a furia di guardare avanti con il suo bel nasino all’insù, un bel giorno inciampò e quel suo delizioso naso si ruppe. Non bisogna mai, e dico mai, gioire sulle disgrazie altrui, chiaro? Almeno è quello che ripeto sempre ai miei figli, ma a quel tempo ricordo che mi feci delle grasse risate per la sventura della mia compagna. Comunque, amico diario, la sua linguaccia continuò a funzionare perfettamente e a sputare veleno su di me, sul mio aspetto, come dire, poco in e molto out. Amanda non sapeva che la vera bellezza fosse nell’anima, almeno così diceva don Mario. Poi nonna a questo proposito aggiungeva sempre: ‘Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace!’ Quante volte me lo ha detto e ripetuto! Anche perché non è sempre facile accettarsi e non lo è nemmeno adesso. Eh, l’aspetto fisico non è tutto nella vita, ma se ti manca sei fregata, e questo è un dato di fatto! Allora bisogna correre ai ripari con la dieta! Niente cioccolato, niente pizza, niente patatine, niente di niente. Ah! La mia prima dieta l’ho sperimentata in V elementare, quando la mia dolce maestra è andata in pensione e al suo posto è arrivato una specie di “colonnello dell’esercito”, senz’altro cresciuto in caserma. Capii che era una maestra dalla sua gonna a scacchi rossi e blu, perché il resto della sua persona rendeva ambigua la sua identità. Mi ricordo che tutte le mattine, se nelle altre classi era buona regola fare l’appello e recitare la preghiera, nella mia vigeva l’ispezione mattutina. Tutta la classe era sugli attenti e un «Buongiorno, signora maestra!» usciva in coro tutto di un fiato. Allora si procedeva con l’ispezione. Lei passava tra i banchi e nella mia testa si accavallavano mille pensieri: ‘Mi sarò lavata bene i denti? Le unghie saranno ben pulite? Oh mamma! I capelli saranno abbastanza in ordine?’ Ma le mie preoccupazioni erano immotivate perché l’unica cosa che lei notava erano i miei chili di troppo e da allora i miei sacchetti di patatine al formaggio venivano regolarmente sequestrati dal “colonnello” con la frase di circostanza che sentenziava: «È per il tuo bene.» Io credo che lei lo facesse sul serio per il mio bene, ma solo ora che sequestro le patatine a mio figlio lo capisco. Come mai le cose fatte per il proprio bene si comprendono solo quando le dobbiamo fare per qualcun altro? In ogni modo mi ricordo che le patatine sparivano magicamente nella sua borsa nell’ora dell’intervallo. Chissà se la maestra sapeva che l’abuso di potere e l’abuso di patatine possono provocarti sia problemi legali che alle arterie? Questa fu la mia prima dieta fallita, anche perché a casa non c’era nessuno che mi dicesse: «È per il tuo bene.» Caro diario, da quando quell’antipatica della maestra mi ruba le patatine ho iniziato a sognarla. Anche nei miei sogni si è andata a impicciare. I miei principi, le regine, i capitani e i folletti hanno sempre lo stesso volto: quello della mia maestra che mi ruba qualunque cosa mi avvicino alla bocca. Per mia fortuna la fine della V elementare è vicina. La vecchia sedia scricchiolò e sgranchirmi le gambe mi sembrò un’ottima idea;… e… Caro Dio… Caro Dio, stanotte non ho chiuso occhio e oggi per la prima volta da quando esisto, ho deciso di scriverti una lettera un po’ stupida la cosa vero ? anche perché già tu conosci il contenuto e poi non saprei dove spedirtela, diciamo che sul tuo indirizzo sei stato sempre un po’ troppo vago. Comunque sai già, perché sono arrabbiata,mi conosci mi hai creata tu ,e se sono anche così cocciuta e anche merito tuo. Io e te parliamo spesso insieme,anzi a dir la verità sono io che ti parlo e mi lamento e a volte ti rompo tanto le scatole che se fossi umano mi avresti già mandato a quel paese, ma tu non lo faresti mai e questo mi dà la certezza per continuare a rompertele ancora e ancora finché tu mi darai vita per farlo e non è detto che non te le rompa anche personalmente un giorno. Anche stanotte ne abbiamo parlato e ti ho chiesto il perché mi hai donato un cervello pensante e un cuore ricco d’amore se poi avere queste due doti dà così tanto fastidio a chi ti adora molto di più di me. Ecco, Dio me la devi davvero spiegare questa cosa ,lo sai io e te abbiamo un rapporto speciale io mi arrabbio, ti parlo , seguo in parte ciò che tu mi hai insegnato mi sei sempre stata vicino. Ricordi Abele ?La sua prima risonanza io e te in quella sala d’aspetto un ora a sperare che non ci fosse nulla, non mi hai mai mollata e io non mollerò te ,anche io sono stata al catechismo e alla messa alla domenica per anni e anni, sono cresciuta in una famiglia atea, ma con una nonna cattolica che mi ha insegnato quanto tu sia meraviglioso e anche io ho fatto un percorso cattolico, poi però maturando ci sono cose che non mi sono piaciute e la mia libertà di pensiero si è ribellata a quegli schemi innaturali per me. E così ho voluto seguirti a modo mio nel modo migliore che io conosca “amandoti” Io amo te e non il contorno e vedo davvero tanta ipocrisia e falsità nelle persone che per apparenza seguono il tuo culto e quando escono dalla tua casa hanno un amnesia per una settima su ciò che compete amare il prossimo e vivere nel tuo nome Ecco io preferisco essere me stessa, folle forse, ma tu mi hai fatta così,un po’ fuori dagli schemi e questa mia diversità a me piace un sacco, sai bene perché sono arrabbiata, perché la diversità di pensiero spaventa. I diversi spaventano, la massa unita si sente forte, ma se uno decide che forse per la sua indole non ne vuol far parte ? Ecco il rispetto deve esserci per ogni Dio collega chiamiamoli cosi . Io Dio credo che tu voglia il bene di ogni essere umano che sia esso Buddista, Mussulmano, Induista, Evangelico o Cattolico oppure etero, omosessuale, lesbo… Io credo che tu sia il Dio dell’amore universale che oltre a voler essere adorato vuoi veder amato il tuo popolo, per questo Dio prima o poi dovrai dirmi perché non viene rispettata la mia diversità e quella di molti altri ? Ora stamperò questa lettera la metterò in una busta chiusa e la donerò al vento, dato che tu non ti decidi a mettere la posta elettronica che dopo 2000 anni e passa un aggiornamento lo dovresti pur fare .Comunque so, che mi hai compresa ,sei l’ unico che può farlo Ti abbraccio Dio, stammi vicino, tu che ami la mia folle diversità. Tua Monica Semplicemente Ciao Ciao, io e te non ci incontreremo mai o forse un giorno ci vedremo per strada e tu eviterai il mio sguardo abbassando la testa, oppure giocherellando con il cellulare o l ‘orologio farai finta di fare qualcos’altro di molto importante, ma non mi guarderai negli occhi, forse mi darai una breve occhiata per curiosità,soffermandoti a pensare quanto sei fortunato a non essere come me, può darsi pure che dopo scuoterai la testa impietosendoti e farai un sorriso di circostanza a mia madre accanto a me come per dire “Le sono vicino!”. Proseguirai per la tua strada preso nei tuoi mille impegni , il mio ricordo svanirà prima che giri l’angolo,di me non ti resterà più nulla, solo quella spiacevole sensazione che si sente quando per sfortuna o per caso ci s’imbatte nella realtà dei diversi. Per me sarà diverso, fermerò il mio cammino e tirando la camicia di mia madre chiederò chi sei?. Lei mi dirà che non lo sa, che sei un signore che passava da quella strada ,ma io non mi accontenterò e nella mia ossessione lo chiederò almeno altre 50 volte chi sei, fino a che, mia madre esasperatati darà un nome,ma poi vorrò sapere dove andavi e perché mi hai guardato se poi non mi hai nemmeno salutato? Così insisterò per la prossima ora con mia madre, chiedendo il perché tu avessi agito così. Alla fine mia madre mi dirà che eri di fretta e che la prossima volta mi saluterai. Tornerò a casa con te in testa, pensando, ma dove doveva andare così di fretta per non potermi fare un saluto? Io in fondo ho mosso per ben due volte la testa nella sua direzione ,io lo salutato! Certo non ho detto “Ciao” perché quello lo dico solo a chi conosco bene come a mia sorella che saluto ogni volta che mi passa davanti o mia mamma o mio papà li saluto sempre, a volte s’arrabbiano perché dicono che basta una volta. Macché significa solo una volta? Appena li vedo davanti li saluto, li conosco e li saluto,ma saluto anche gli estranei a mio modo, non sono maleducato, mamma me l’ha insegnato da piccolo che si deve sempre salutare per educazione. Finalmente arrivo a casa prendo il mio quaderno a quadretti e la mia penna nera,oggi farò un elenco di nomi dei mie compagni di scuola, mi piace fare gli elenchi mi rilassa, mi mette in ordine le cose che si accumulano nella mia testa, ho bisogno di ordine per stare bene. Scrivo tutti i nomi dei miei compagni poi i miei professori poi mamma, papà, mia sorella ed io ed infine nella lista metto Davide così si chiamava quel signore incontrato in quella strada stamani. Mi rilasso, sorrido, ora posso proseguire la mia giornata. Penso che mi trasformerò,mi piace tanto mascherami, nel mio armadio ho una scatola piena di costumi fin da quando ero piccolo, mamma li vuole buttare, ma io non voglio e li tengo tutti nella scatola. Ogni giorno recito una parte, oggi mi vestirò da Davide si dico sorridendo poi indosso la camicia quella della festa, poi prendo in prestito la giacca di papà tanto lui non la usa mai. i jeans già c’è l’ho. Davide li aveva più scuri, ma andranno bene pure questi credo. Disegno un paio di baffi con il pennarello, mi guardo allo specchio sono soddisfatto, Beh ! ho gli occhi nocciola io i suoi erano verdi, ma non posso colare gli occhi dico a me stesso. Prendo il cellulare di mamma in mano, sono davvero uguale a Davide penso. Ora recito nella mia stanza con i miei pupazzi che si trasformano in me e in mamma che passeggiamo in centro come stamani. Io sono Davide mi fermo e sorrido al pupazzo che impersona me, il pupazzo scuote la testa, mi sta salutando io dico “Ciao Abele!” il pupazzo mi risponde: “Ciao Davide!” L’abbandono (estratto dal libro) CAPITOLO PRIMO Le scelte cambiano la tua vita e condizionano quella altrui. A fatica il vecchio montò l’ultimo scalino in pietra. “Sophie, sono io!” disse spalancando la porta del piccolo alloggio che si apriva su un modesto cucinino. Come di consuetudine, ogni mattina l’uomo scendeva in paese dalla piccola frazione sita a pochi chilometri di distanza, per fare alcuni acquisti, e non mancava giorno che non andasse a portare alla piccola nipotina il latte fresco appena munto dalla sua vacca migliore. Ormai era quasi passato un anno da quando suo figlio se n’era andato… Giovanni era felicissimo di quella creatura, che aveva dato al vecchio una nuova energia, spenta ormai da tempo dopo la prematura morte della moglie. La bambina aveva riportato all’uomo la gioia di vivere, ma poi un giorno le cose erano cambiate e un’amara sorpresa aveva colto impreparato il vecchio: Mario, il suo unico figlio, era fuggito, abbandonando moglie e figlia al proprio destino. Aveva cercato di rintracciarlo, ma Mario, dal giorno della sparizione, non aveva più dato notizie: né una lettera, né una telefonata. Così, disperato, spendeva le ultime energie per stare accanto alla nuora e alla sua piccola. La prima volta che il figlio gli portò in casa la giovane, d’origini francesi, lui si era subito intenerito. Era ancora una bambina. “È troppo giovane per te!” gli aveva detto in confidenza, ma il figlio, innamorato perso di quella ragazza dai lineamenti delicati e dai grandi occhi scuri che spiccavano sul viso quasi etereo, non aveva voluto sentire ragioni e poco tempo dopo la passione fra i due giovani era sbocciata forte ed impetuosa portando a germogliare nel grembo di lei una nuova vita: una figlia. Si preparò il matrimonio il più velocemente possibile per evitare le malelingue, che a quell’epoca erano molto più presenti che oggi. Allora una donna all’altare doveva essere pura come il suo abito, ma Sophie quel giorno tra le pieghe dell’abito bianco celava un cuoricino che pulsava in attesa della vita fuori dal suo grembo. Sophie e Mario presero in affitto un piccolo alloggio. Era molto modesto, ma era il loro nido d’amore e lui immaginava già di poterlo negli anni migliorare e forse un giorno avrebbero avuto una casa tutta loro. All’inizio le emozioni furono tante. La letizia dell’unione e la nascita della piccola furono motivo di grande gioia, che purtroppo durò poco, andando a calare quando i primi problemi iniziarono imponenti a sovrastare l’amore fra i due sposi. Mario perse il lavoro al cantiere, i soldi erano sempre meno e le responsabilità sempre di più. Il giovane cadde in una forma di depressione, sconfitto dalle porte in faccia che ogni giorno riceveva, dalle bollette non pagate che si accatastavano sul comò. La disperazione del futuro e la pesantezza della responsabilità ebbero il sopravvento sull’uomo, che, debole, trovò la strada più facile: si diede alla fuga. Un mattino, senza una parola, se ne andò, lasciando sul tavolo della cucina gli ultimi soldi, procurati attraverso la vendita dell’unico cimelio di famiglia che possedeva. Giovanni aveva tentato di aiutarlo e in più di un’occasione gli aveva proposto di lavorare la terra insieme con lui; ma lui, ragazzo orgoglioso, non aveva voluto arrendersi all’evidenza di non essere in grado di mantenere la propria famiglia e per non dover vivere ogni giorno con quel senso d’inadeguatezza li aveva abbandonati, con una scelta amara. Nei paesi piccoli le voci correvano e in breve tempo la giovane sposa fu tempestata da sguardi maliziosi. La gente l’osservava come se fosse stata lei a far fuggire il marito, la guardava male, come una donna incapace di tenere il proprio uomo. Solo Giovanni comprendeva il dolore di Sophie e la difendeva contro tutti a spada tratta ogni qualvolta che qualche stolto sputava sentenze su di lei. Sophie era grata al vecchio. L’amore per Mario era andato oltre e tutto ciò che credeva di costruire con lui era sciolto come neve al sole. I suoi sogni di una vita normale, con un marito e una famiglia, erano scomparsi e gli incubi avevano preso il loro posto. Osservava la piccola Laura addormentata nel suo lettino e rifletteva, rifletteva e più pensava, più i suoi pensieri diventavano demoni. La sua mente non era lucida, l’abbandono dell’uomo che amava l’aveva portata all’esasperazione e, dopo mesi in cui aveva indossato una maschera per cercare di ritrovare un briciolo di serenità, dentro di lei radici di rancore e di rabbia germogliavano, come gramigna in un campo coltivato. Più la piccola cresceva, più nei suoi occhi rivedeva quelli dell’uomo che l’aveva illusa promettendole amore eterno e alla prima difficoltà l’aveva abbandonata. Tutti quei pensieri e quei risentimenti s’impadronirono di lei e una sorta di follia prevaricò sulla ragione. Più il tempo passava, più lei si convinceva della sua incapacità di essere una brava madre. Quei pensieri presero sempre più piede nelle sue convinzioni e pian piano si insidiarono in lei come radici; fino a che, dopo un’altra nottata d’incubi, la donna, spinta dalla follia, decise di abbandonare la bambina. Laura si agitava nel lettino in legno, scalciava e tentava di uscire. La donna guardò ancora una volta la sua piccola e le pose accanto una cartolina con scritto il perché del suo abbandono. Nadia Lattanzi Debolezza La debolezza più grande è quella di non saper ammettere i propri errori..senza i quali una storia non sarebbe andata a puttane. Luigi Bonzanini L’attesa Ogni mattina mi sveglio e guardo questo cielo ardente e immutabile. Ce ne stiamo qui, perduti su questa spiaggia remota del tempo, in perenne attesa d’un qualche mutamento che non arriva mai. Gli anni fuggono veloci come sabbia fra le dita , ma la redenzione non viene. Un battito di ciglia fra nascita e morte, e poi il grande nulla ci divora. Nel frattempo, il silenzio ci sfianca. Angelo Francesco Anfuso La debolezza dei sensi Sfiorano le mie mani il Tuo corpo ormai unto di quel piacere che man mano scivola come docile bava di un orgasmo assai precoce. Le mie mani sfiorano il tuo calore, due misere foglie al vento che vorrebbero afferrarti. Non possono, sono atrofizzate, gelide e contorte. Il desiderio è forte, si rende vano, impazzisce. Svanisce nel tempo, come nube al vento. Sento il tuo profumo mi stordisce solo l’idea. Annuso, annuso, annuso, ancora, sempre di più. Ubriaco d’aroma, la tua pelle è soave fragranza, inebriante essenza per le mie narici. Mi turba l’animo, e Si indebolisce il mio odorato. Sento la Tua brama, piccolo eco che si dilegua all’orizzonte. Armonia di sensi, flebili vibrazioni di sospiri e affanni di un godimento che non ha uguali. La tua bocca, le tue labbra, un ristoro per il mio canto. Vorrei farla ancora mia e vedere nei tuoi occhi l’eterno tormento di quel desiderio che si cela e che fa fatica ad appagarsi. La debolezza ci assale, non si può sfuggire da essa: ci appartiene, vive in noi. Affannati e stanchi, fissiamo l’orizzonte in cui si disperde la nostra debolezza. Irma Panova Maino La forza delle donne deboli Debolezza non è automaticamente sinonimo di inettitudine, di goffaggine o incapacità di affrontare la vita, al contrario, l’essere deboli è spesso sintomo di forza e di carattere, per quanto questo possa sembrare contraddittorio. In cosa consiste questa debolezza? Nell’essere sensibili e vulnerabili? Nel sentire tutto il peso del mondo e non riuscire a sfoderare degli artigli degni di Wolverine? Ebbene, care le mie signore, il sesso forte siamo noi e non, come normalmente viene definito, quello maschile. Noi non dobbiamo dimostrare niente, non dobbiamo essere i “galli del pollaio”, non dobbiamo essere virili e soprattutto non dobbiamo dare alcuna prova della nostra “mascolinità”. Siamo donne. A noi è permesso piangere davanti a una scena commovente della commedia romantica di turno, noi possiamo lasciarci andare in esternazioni isteriche, anche al momento più inopportuno, noi possiamo passare ore a cercare di scegliere una maglietta rossa piuttosto che bianca. E il tutto, quando proprio dobbiamo ricorrere a scusanti logiche, condendolo con la scusa del ciclo… Possiamo dire “no” pensando invece a un sì e possiamo dire forse, quando in realtà abbiamo ben chiaro quello che vogliamo. Esistono sicuramente situazioni in cui la vera debolezza sta solo nel fisico, sicuramente non nella mente, un uomo è più forte di noi per una questione evolutiva, ma l’avere un cervello e saperlo fare funzionare, può sopperire alla scarsità muscolare, sempre che non decidiate di partecipare a Miss Universo, in versione femminile. Tuttavia, devo mettervi sull’avviso per quel che riguarda tutta quella muscolatura “gonfiata”, per ottenere un simile ammasso è spesso necessario “pomparlo” chimicamente, con il risultato che, dopo una certa età, il fisico crolla, sbordando in ogni dove. Dunque lasciatevi andare alle lacrime, ai piagnistei e all’autocommiserazione, non vi è alcuna vergogna in codesto sfogo, e dopo aver pianto le cascate del Niagara, pensate a tutto quello che fate giornalmente, a tutte le incombenze che pendono sulle vostre spalle e a tutte le responsabilità che, normalmente, siete costrette ad accollarvi, perché femmine, e dopo che ne avrete fatto un lungo elenco, rendetevi davvero conto di chi è l’elemento forte in una coppia. Ultimo esempio, che vale per tutto, noi mettiamo al mondo i figli e per quanto si possa essere fortunate e aver partorito in quattro e quattr’otto, noi ci prendiamo l’onere di portarli per nove mesi, con tutti i disagi che ne conseguono e di farli uscire da quel misero pertugio che, incredibilmente, è in grado di produrre il miracolo. Allora siate donne, siate femmine deboli e fragili fino in fondo e fate di questo la vostra forza! Gabriele Palumbo La resa Mi sento stanco, dentro e fuori, la debolezza mi pervade…le gambe cedono, il fiato è corto, il cuore batte lento e la testa è offuscata da mille dubbi e tristi pensieri…la testa, la mente, credo sia questa l’origine della mia situazione, è tutta una questione psicologica…la mia reale debolezza è solo lì… la mia forza esteriore è solo apparenza, la mia forza interiore è solo un’impressione…ma in realtà non ho neanche più la forza di reggermi in piedi, la forza o la voglia…la voglia di andare avanti, di guardare avanti…sono debole nel mio essere forte, debole nell’aspettarmi dagli altri ciò che io farei per loro, debole nello sperare ancora in qualcosa o in qualcuno…tutto parte dalla testa e da lì si dirige verso il basso passando per ogni parte del mio essere, se si pensa che non valga la pena di fare niente allora anche la persona più forte può cedere con un leggero soffio di vento…e il mio spirito stanco quando scende dal letto la mattina è già privo di energie…non ha più fiducia nel futuro e attende quel soffio di vento…come ogni giorno, sperando che non lo faccia cedere…come ogni giorno… Rossana Roxie Lozzio La tua bellezza “Bello come il sole”, si usa dire quando non si è in grado di definire nel dettaglio l’incanto della perfezione… “Brilla di luce propria”, usiamo dire quando non ci riesce di definire la meraviglia suscitata da un sorriso ammaliatore o dal suono di una voce suadente… Tu, per me, sei questo e altro, tu sei oltre le parole più comuni e le banalità di questo mondo… per esempio, potrei dire che sei il sole al tramonto, con i colori accesi e lo stupore dei colori trasparenti di un arcobaleno dopo un temporale. Potrei dire che sei la pioggia timida di una giornata uggiosa e lo schianto di un tuono, la forza prepotente di una grandinata che ti sorprende durante una gita all’aperto, l’allegria di una maestosa festa di compleanno e la malinconia che ti aggredisce quando finisce! Ma tu sei veramente quanto di più simile alla perfezione conosca… sei il termine di paragone con coloro che incontro e sei colui che vince tutti i confronti, ignaro di averli sostenuti, sei colui con cui nessuno vorrebbe mai competere! Insomma, non c’è termine che possa utilizzare per renderti abbastanza onore, non c’è testo di canzone, poesia, aforisma… per quante ne potrei trovare, per quanto mi possa sbizzarrire, resti un mondo e un universo da esplorare, vicino al mio cuore eppure tanto lontano. Possa quel Dio che ti ha creato, dipingendoti con rara maestria e immensa generosità, accompagnarti lungo il tuo cammino scapestrato e regalarmi la fortuna di poter continuare a godere di te e la capacità di tenerti dentro l’anima per tutto il mio percorso terreno. Sei un Luna Park Amarti, è proprio come vivere all’interno di un Luna Park, giorno dopo giorno… ostinatamente, perché potrei farne a meno e scegliere di farlo in qualsiasi momento, considerando che non fai parte della mia vita e mai ne farai parte, se non perché ti sei insinuato nell’anima e lì, pari destinato a rimanere per sempre. Invece, scelgo di frequentare questo bellissimo e amaro parco di divertimenti e di usufruire di ogni tipo di attrazione, siano gratuite o a pagamento e sono libera di continuare a strappare quel biglietto che mi consentirà di accedervi, perché dipende solo da me. E’ come stare sulle MONTAGNE RUSSE… sfreccio a grande velocità, scendendo e risalendo di continuo, preda delle vertigini di cui sono preda sin da bambina e non sorrido, perché ne ho paura ma devo superarla, se voglio continuare a tenerti radicato dentro, come sembra sia destino. Eccomi sulla grande RUOTA PANORAMICA… il magnifico panorama sei tu, quando posso godere della tua bellezza e respirare la stessa aria che consumi mentre sorridi, parli, canti e racconti di te ed io, non vorrei mai scendere ma piuttosto bloccarla e fare in modo di restare sospesa, così come mi sento in quei preziosi momenti, godendo dell’incanto che rappresenti, accarezzata solo dal leggero movimento del sedile, al quale resterei ancorata e dell’inconfondibile suono della tua voce. Dimenticavo, l’AUTOSCONTRO… quel circuito ristretto nel quale tante piccole autovetture si rincorrono e tentano di togliersi di mezzo, scontrandosi e tamponandosi! Ecco, mi vedo in una situazione simile, ogni singola volta nella quale t’immagino con una donna… m’immedesimo in una di quelle piccole macchine e provo a pensare a quanto sarebbe bello se riuscissi a mettermi in competizione e a farle fuori, una dopo l’altra, fino a restare l’unica nel circuito della tua esistenza, anche se significherebbe dovermi palesare. Oddio, se intendessi esagerare, ci sarebbe un’altra attrazione, di questo incredibile Luna Park che rappresenti, il TIRO A SEGNO… ma lì, ci sarebbero fucili ad aria compressa e addirittura bersagli da colpire e da abbattere, per riuscire ad ottenere il premio in palio, che potresti essere tu, anche se sono certa non ti piacerebbe essere considerato tale! Posso fare a meno di citare la CASA DEGLI SPECCHI? Quel labirinto composto da specchi deformanti, nei quali sei costretto a passeggiare, fra un corridoio e l’altro e a vederti come non t’immagineresti nemmeno nei deliri dovuti agli stati febbrili più devastanti… ma è un paragone molto azzeccato per il mondo nel quale mi fai vivere, da quando mi hai strappato il cuore. Non c’è giorno uguale ad un altro, in cui mi veda nello stesso modo o più probabilmente, come sono, se ti penso. La mia immagine è costantemente diversa, da esile si ingrandisce per poi ribaltarsi e mostrare tutte le parti di me, dell’anima che mi appartiene ma che non sono quasi capace di riconoscere… dopo tutto, ci sei tu, lì dentro ed io, non sarò mai capace di vedermi per quella che sono, fino a quando mi sentirò incompleta, nella tua costante assenza! Insomma, mio paradisiaco e meravigliosamente infernale, PARCO DI DIVERTIMENTI… amare te, è come salire e scendere da ogni tipo di giostra e vivere tutte le emozioni che hanno il sopravvento quando decidi di utilizzarle. Sei divertimento puro, ansia, paura, certezza che non ci sarà futuro, mentre sei decisamente parte del mio passato e tutto il mio presente. Sei luce e rumore, sei voglia di sorridere e di piangere, sei smania di arrivarci e dispiacere di andarsene. Qualcosa difficile da spiegare, improbabile da credere, impossibile persino da immaginare… per gli altri, che non comprendono cosa significhi per me. Unico segreto che non so tenere dentro, svelato in ogni singola occasione, perché non vale la pena fingere di essere diversa da come hai contribuito a rendermi… una donna equilibrata in tutto ciò che vive, con tanti alti e bassi ma il più possibile coerente, tranne che per questo smisurato sentimento che la lega all’incredibile uomo… del Luna Park! Nadia Milone Occhi Lei osserva i suoi occhi in quella fotografia. Quello sguardo la cattura e la ipnotizza. Starebbe ore ad osservare quell’aria malinconica dipinta sul suo volto, quell’espressione da cucciolo un po’ triste che vorrebbe solo riuscire a coccolare e consolare. Non può fare a meno di pensare a quello sguardo su di lei, che la cerca e che la vuole. Non ce la fa, proprio non riesce a resistergli. Forse non dovrebbe, eppure non può fare a meno di lui. Lei dovrebbe essere forte e resistere a questa sua debolezza, ma cede ogni volta e le piace. Quegli occhi parlano, santo cielo! Ogni volta che li guarda, ne rimane incantata. Non esistono più né i minuti né le ore, stregata da quello sguardo ammaliatore che la rapisce e la porta in un’altra dimensione. Lui è la sua debolezza e il suo peccato, quel confine che mai si dovrebbe superare, perché una volta oltrepassato non si può più tornare indietro. Non riesce a controllarsi o ad essere indifferente, se lui cade, lei cade con lui, quando percepisce la sua paura, anche lei ha paura. Riemergono ansie e sicurezze dal passato che si placano soltanto con le sue parole. Lei è debole, come una bambina, farebbe di tutto per averlo! Non c’è logica in questo, non esiste più equilibrio nella sua mente. Forse qualcuno potrebbe definirla follia, invece no, è soltanto una stupenda occasione della vita, un fiore da cogliere prima che appassisca. Ma lui è il più forte. Lei cede, lei lo cerca, lei lo vuole… Non ascolta niente e nessuno, dovrebbe farsi desiderare, forse, corteggiare, ma non ce la fa ad aspettare, non gli resiste… L’istinto prevale sulla ragione. Ma questa sua debolezza la rende più forte nei confronti della vita, lei cede davanti a lui ma si sente più sicura nell’affrontare il mondo che la circonda, vedendolo con occhi diversi, guardandolo attraverso i suoi occhi. Una favola Di solito le favole cominciano con “c’era una volta…” e finiscono con “e vissero tutti felici e contenti”, i ranocchi si trasformano in principi e i brutti anatroccoli si trasformano in cigni. Ma la favola che vorrei raccontare ora è un po’ diversa. Non “c’era una volta” ma “c’è” una persona stupenda che vive in un mondo sbagliato, un mondo fatto di tristezza e di paura, dove l’unico castello di cristallo è situato in un luogo lontano e inaccessibile. In quel castello vive una principessa che nient’altro vorrebbe se non vederlo sorridere. Ma non può, la sua magia scompare davanti alla sua debolezza. Con ogni mezzo prova ad avvicinarlo, con ogni scusa a consolarlo, ma più lei prova ad avvicinarsi, più lui si allontana. Lei vorrebbe essere in grado di colmare quel vuoto, quella sua voragine interiore, ma il pensiero che proprio cercando di aiutarlo, forse, lo sta spingendo ancor più nell’abisso la sconvolge. Non riesce a tirarlo fuori, non può… forse non è lei la principessa che lui vuole, non è da lei che vuole essere aiutato. L’incantesimo funziona solo se anche il ranocchio vuole essere baciato. Solo con la volontà potrà trasformarsi in principe. Se lui non vuole, a niente servirà rincorrerlo, mai funzioneranno i baci della principessa su di lui. La verità è che la vita non è una favola e quella principessa è solo una persona egoista. Rincorre un sogno, vorrebbe baciare il suo principe e, pur rendendosi conto che forse gli sta facendo più male che bene, non riesce a lasciarlo andare. Forse lui lo vorrebbe, forse sarebbe più felice, forse no… Forse, più semplicemente, lui vuole continuare ad essere un ranocchio e il pensiero di trasformarsi lo spaventa e lo blocca. Chi non ha paura davanti ad un cambiamento? La principessa lo deve accettare, perché la realtà, purtroppo, è molto diversa dalla fantasia e la favola della vita non può sempre finire con un “e vissero felici e contenti”, anzi, nel migliore dei casi finisce con “e riuscirono a sopravvivere…”. Ma questa principessa è cocciuta e testarda e non rinuncerà tanto facilmente. Cercherà con ogni mezzo di far uscire il suo ranocchio dallo stagno, anche se lui cercherà di nascondersi e lo lascerà andare solo quando lui le dirà chiaramente che preferisce l’acqua stagnante alla sua invadente presenza. A pensarci bene, questa è una favola al contrario, perché non è il ranocchio ad aver bisogno della principessa per trasformarsi, ma è la principessa ad approfittare di ciò che il ranocchio le può dare. Come finisce questa favola? Nel modo in cui finiscono le storie nella vita reale, la principessa continuerà ad aspettare il suo principe che, forse, non arriverà mai e il ranocchio… beh, il ranocchio prima o poi troverà la principessa giusta da cui farsi baciare, no? In fondo è un gran bel ranocchio e riuscirà, prima o poi, a trasformarsi in un bellissimo principe. Regina Re Questione di punti Il punto è quel piccolo essere che puntualizza, da solo può significare soltanto se stesso, vuole dire che c’è qualcosa che esiste, magari puoi vederlo meglio con una lente di ingrandimento e scoprire che ci sono miliardi di esseri in quel minuscolo contesto. Il punto è anche la fine e il nulla dopo la fine o la fine del nulla e l’inizio di tutto, il punto è un neo che ti caratterizza anche se non fa parte del tuo carattere. Il punto e i suoi simili insieme sono fiato sospeso, sono spazio all’immaginazione, ti lasciano la piena libertà di continuare a respirare e la possibilità di sognare per un istante…sino a quando le parole si impongono a riportarti alla vita reale. I punti non mi amano ed io li snobbo ma sono proprio le cose che non amo ad affascinarmi più delle altre. Troppo facile capire chi ti capisce…non hai proprio tanto da capire. I punti di vista sono quelli più gettonati, ognuno reclama il suo perché con un microfono in mano si ricorda che sa pensare e le luci puntate danno coraggio e, per un istante, c’è un momento da star per tutti noi: “Vai, è il tuo momento, colpisci con il tuo talento!”. Se hai cinque minuti di tempo per descrivere te stesso è come se avessi una pistola puntata alla tempia, è una questione di vita o di morte, no…non puoi sbagliare altrimenti quei mille punti che ti sei guadagnato con la tua voce studiata allo specchio e il tuo sguardo ammiccato…ahimè cadranno miseramente come il tuo bel pantalone sopra quel calzino bianco. Ma quando le luci si spengono il nero che circonda appare come una macchia infinita di incalcolabili punti. E’ li che mi piace strisciare, nel silenzio dei presenti troppo presi ad ascoltare, tra i loro calzini nascosti sotto i pantaloni, tra i completi intimi assolutamente fuori moda, tra fiori e righe che ti farebbero inorridire… Ma oggi chi si cura del tono? Ci si dà un tono ma i colori si lasciano al caso. E’ un caso la moda perché anche se ne sei fuori ci rientri prima o poi, non buttare e non gettarti perché anche il vecchio è sul mercato e qualcuno prima o poi può ripescarti. Eccola lì, me la ricordo quella tipa in un’aula, quel giorno di prova davanti la telecamera. Vendersi in cinque minuti, impresa assai ardua, c’è chi si prepara una vita e chi invece la vita se la prepara in cinque miseri minuti. Ciò che disse passò inosservato ma è ciò che fece che lasciò di sasso. Il sasso è un punto forte che ti lascia un segno, sei stato colpito ma quando il tuo segno è sparito arriva il momento di dare il benservito. Ciò che fece quella tipa fu tutto ciò che non si doveva fare ma lo fece talmente bene che passò quell’esame… Un’opportunità all’orizzonte appare un sogno di fronte alle tante minacce , tra te e il sogno un insieme di punti, alcuni li vedi perché sono forti, gli altri restano nell’ombra, silenziosi….nascosti… La tua forza si misura in punti che nessuno ti dà alla cassa quando paghi…striscia dentro te stesso e, alla fine, ti venderai. Andrea Borrelli Venticello So‘ andato nel vento sondato il piacere che provo se detto che bello son debole al piacere che tira forte quello. Di contro al fianco poi fiacco lo incontro so più potente io che taglio lo spazio intorno e giusto al gusto rimango solo. Cattiva è la brezza che vien di tanto in poco a farmi compagnia la scia dagli alti cieli ai bassi di mente mia. Buio e Luce Dopo aver divagato la settimana scorsa con la Debolezza e aver espresso dei temi, più o meno liberi, questa settimana siamo tornati alla normalità e l’argomento più votato è stato Buio e Luce. Suppongo che questo tema ispiri i nostri autori perché li porta verso un grado di introspezione, che implica anche un pizzico di misticismo e soprattutto una buona dose di “illuminazione” mentale. Molti stanno affrontando la questione nel suo dualismo, ponendo i due aspetti a confronto e dando a ogni parte il suo giusto peso. Tuttavia, vi saranno delle sorprese e delle interpretazioni del tutto diverse dal solito. Nadia Milone Avrei voluto essere luce Io non so se a qualcuno sia mai capitato di trovarsi al buio. Completamente soli in una stanza vuota e buia. Io ci ho provato, volevo capire cosa si provasse. Mi chiederete perché, forse. La risposta è semplice, una stanza buia e vuota non è molto diversa da un’anima tormentata. Dopo un po’ ci si abitua, si dice, perché ci si abitua sempre a tutto, ma non è così. Al buio ti prende il panico e l’angoscia. Il fatto di essere solo ti destabilizza, perdi ogni punto di riferimento. Pagheresti per una misera candela consumata. Perché il buio, a lungo andare, fa male, stanca gli occhi, che cercano di vedere oltre, ma anche il cuore, che fatica a rassegnarsi a quella misera condizione. Ed è così che ho capito cosa si prova. Non che di buio io non ne abbia visto, nella mia vita, non che non abbia sofferto, ma so che c’è qualcuno che soffre come o, forse, più di me. E per quel qualcuno avrei voluto essere una piccola luce, anche solo una debole fiammella che illuminasse un po’ le sue giornate e tornasse a fargli risplendere sul volto un meraviglioso sorriso. Mi sono illusa di poter essere la sua luce, anche solo per un momento, ho davvero creduto di potergli far capire che, alla fine di ogni tempesta, arriva sempre un raggio di sole, pensavo di esserci riuscita. Invece no, a nulla sono serviti i miei sforzi, a niente sono serviti amore e dolcezza. Amore, sì, lo dico. In fondo, che male c’è? Non è forse l’amicizia, la più alta forma d’amore? E io volevo esserci, volevo fargli sentire la mia presenza e il mio affetto. Volevo che vedesse la stessa luce che incominciavo ad intravedere anch’io, quella minuscola speranza di poter essere felice nonostante tutto. Ma ahimè, temo di non avercela fatta… mi sono illusa, ma la realtà ci sbatte in faccia le verità più crude senza curarsi di far del male. Ed eccomi qui, a fare i conti con il presente e con quello che rimane dei miei vani tentativi. Ho davvero sbagliato tutto? Forse gli ho fatto del male, invece che aiutarlo, ora non lo so. Sono confusa e triste. Non c’è più tempo per le parole, non c’è più tempo per i rimpianti, ormai… Il buio è tornato ad avvolgere il suo mondo, spegnendo definitivamente quella piccola fiammella che avevo tentato di accendere. Le tenebre lo stanno portando via e io non posso far niente per impedirlo. Non vuole più la mia luce, vuole rimanere chiuso nel suo mondo fatto di dolore e rabbia. E così si spegnerà nuovamente anche la mia, di luce. Sarò anch’io di nuovo al buio. Chiuderò le finestre, non entrerà più nemmeno un raggio di sole, qui. La mia luce se ne andrà insieme alla sua, imprigionati in un mondo oscuro e tenebroso. Ci sono volte, nella vita, nelle quali non si può far altro che arrendersi all’evidenza. Combatti, piangi, stringi i denti, ma poi ti fermi e capisci che non serve a niente, capisci che è finita la battaglia. Temo di aver perso… avrei voluto essere luce ma mi dovrò arrendere, e ritornare, da sola, in un angolo nella mia stanza buia. La mia stella Il buio e la luce combattono costantemente tra di loro. Sono opposti ma l’uno non può fare a meno dell’altra. Si rincorrono e si completano continuamente. Alla fine di ogni giorno, il sole viene sostituito dall’oscurità della notte, ma anche quest’oscurità è rischiarata dalla luce delle stelle. Non esiste buio senza luce ed io, anche se prigioniera della più oscura paura, cercando come posso di scappare da ciò che mi tormenta, riesco ancora a scorgere una stella. La mia piccola stella che brilla laggiù, lontana eppur vicina. Tutto intorno a me è buio e sono tentata di inseguire quella luce. Forse sarà un sogno, un’illusione, forse domani non avrò più quella stella a rischiararmi la via, forse la sua luce illuminerà la vita di qualcun altro, oppure arriverà il momento in cui anche il cielo, ormai rassegnato, spegnerà tutte le stelle. Ma io continuerò ostinatamente a cercare la mia, anche quando se ne sarà andata, anche quando sarà spenta. Io ho paura del buio, mi ha intrappolata per troppo tempo. Però so che quella non è la mia stella e, probabilmente, sta illuminando altre strade oltre alla mia. Il cielo è di tutti e le stelle sono un dono per coloro che hanno bisogno di luce, forse… E così, un giorno, anche la mia stella mi lascerà sola, ma per il momento non ce la faccio a rinunciarci, anche se un po’ mi fa male pensare che illumina altre vite, mentre illumina la mia, mi dispiace pensare che non sia soltanto la mia stella. Ma così è la vita, per ora mi voglio godere la sua luce, voglio che riempia le mie giornate, i miei pensieri e i miei sogni, non sono ancora pronta a tornare al buio… Nadia Lattanzi Buio e luce Il buio un abbraccio mancato, uno perso, qualcuno dimenticato..per poi sperare di ritrovare la luce, almeno di se stessi e per sempre. Senza alti e bassi…senza sbalzi di tensione..senza continuamente credere che quel buio non finirà mai. Accendere dentro se stessi la luce della speranza. Di un domani diverso, di un giorno con due nuove braccia intorno..di un passato che è passato e che non passa per sempre. Andrea Leonelli Cercando vago nella luce alla ricerca di un buio meno abbagliante ma rivelatore vago nel buio alla ricerca di una luce che mi dia direzione qualsiasi ma precisa comunque vago vagamente disperso sapendo ciò che cerco trovando ciò che penso sentendo quel che amo vagando nel tempo che passa che scorre solo avanti da luce a buio da buio a luce spaziando in penombre in cui trovarsi Irma Panova Maino Scintillii di luce e ombre sulle lame Molte sono le lame che baluginano nel buio. Alcune sono acuminate e fredde come rasoi, squarciano le tenebre e raggiungono l’obbiettivo senza alcun preavviso, producendo ferite che diventano subito infette. Altre ancora sono bisturi che spazzavano via il superfluo, lasciando la pelle liscia e morbida, portando via tutto ciò che è inutile e futile, tutto ciò di cui potremmo fare volentieri a meno. Tuttavia, quelle che lasciano i solchi più profondi, sono quelle che vengono impugnate da chi ci è più vicino e poco importa se vengono usate a fin di bene e se chi le usa pensa di offrire un servizio. In realtà fanno male, tanto e più dei coltelli estranei e dei pugnali professionali, esibiti da chi, giornalmente, ne fa uso. Quella luce, che fa scintillare le lame, diventa ancora più inquietante se prodotta da una mano amica, ancora più sinistra se fatta lampeggiare da una persona che normalmente ci sta alle spalle, perché degna della fiducia di occupare tale posto. Ebbene, a chi non è mai successo di impugnare tale lama? Di infliggere involontariamente quel dolore che, nella carne spezzata, diventa subito putrescente e maleodorante? Chi non si è mai trovato dalla parte dell’aguzzino, suo malgrado, diventando il carnefice delle speranze e dei sogni altrui? E nonostante questo, quella stessa lama che s’insinua nella carne amata, non fa dolere anche noi? Non rende sanguinanti anche i nostri cuori? Siamo vittime del nostro altruismo, dell’ingenuità o della stupidità di un momento. Ma essere altrettanto vittime, ci rende meno colpevoli? Regina Re Click Paura e sicurezza, paura della sicurezza, la sicurezza di aver paura Alternanza di luci e ombre, click, sbattere ciglia, click, fotografia Immagini impresse , luce e contorni scavati nel buio Camera oscura, nuda, lasciati andare Scatola chiusa, lasciami entrare perché io rovesci il mondo, fuoco sei occhio la distanza non conta e fisso su di te le mie mani e ti imprimo perché tu possa ammirarti e il tuo ricordo ritrovarsi nei miei sguardi Gabriele Palumbo Come Luce Quando ho visto i tuoi occhi, sempre così luminosi, diventare tristi e spenti mi è sembrato come quando uno spiffero d’aria spegne la fiamma di una candela, lasciando il posto ad una grigia scia di fumo…mi è sembrato come quando finisce la legna nel camino e il fuoco smette di ardere lasciando la stanza fredda e buia…quando ho visto il tuo sorriso, sempre così brillante, diventare spento e triste mi è sembrato come quando un bambino rimane nei suoi immaginari incubi creati dalle tenebre quando la madre spegne la luce della sua cameretta…mi è sembrato come quando alla luce abbagliante di un fulmine segue il buio più totale, rendendo desolata anche la strada più viva…io amo vivere di giorno, ma amo anche la quiete dell’oscurità…così come amo viverti nei tuoi momenti di luce, ma anche in quelli in cui la tua luce è più offuscata… Maurizio Donte Della fiamma, dell’amore Conosci la fiamma? Puoi dire di cosa è fatta? Qual è la sua natura? …Arde, scalda, risplende… si consuma…si spegne, muore in un sottile filo di fumo serpentino, dal noto profumo di chiesa. Mi abbaglia quella fiamma, mi ipnotizza il suo sinuoso muoversi nell’aria. S’agita, come la flebile speranza; trema, dinanzi all’ignota risposta che verrà… -risposta che già conosco.Ti vedo amore, mentre la sera si consuma lenta, come la candela spenta profumata di viola, che hai davanti. Ti vedo in trasparenza: notturna farfalla che voli e posi di lume in lume. T’avvolge la fiamma e risplendi, nel tuo perpetuo dire. Solo il mio pensare ha sfiorato la tua pelle. Ti ascolto, inebriato dall’odore fresco della notte, illuminata da fiaccole ardenti, dai miei desideri frementi… inespressi, come sempre, è con te il mio non dire. Si alza il vento e più veloce arde il tempo e la candela: misuro ogni tuo passo, assecondo i tuoi gesti, centellino gli attimi, i secondi che nella mente mi regali… Sgocciola la cera dal vetro diafano ed io raduno parole sulla mano da offrirti, parole lontane, che vengono da luoghi remoti della mia coscienza. Sogno, quando si tratta di te, lo so, non sono in me… ma cavalco in luoghi splendenti nelle luci ardenti che generi, nel mio sentire. Ma non so cos’è l’intima essenza dell’inafferrabile fiamma che arde dentro di me quella luce che temo di toccare, allungando le dita. Vedo, attraverso il loro tremare caldo, te con un uomo, e poi con molti altri… E in questo sogno che è realtà mi dibatto… m’intrappolano le ragnatele delle mie ragioni, che nelle soffitte dell’anima occupano gli angoli bui, nascosti alla luce, alla verità che mi renderebbe vero. Ti vedo, in un tremare di fiamme, al di là del vento e del male che sento: capelli rossi, che incorniciano il tuo viso, e rossi coralli dischiusi, sono le tue labbra, donna! Sorridi e s’increspano i pensieri, in onde marine, dal profumo d’estate. Note infrante sugli scogli della riva. Ma tu non vedi, oltre il calore, rimani fredda, determinata, nei tuoi chiusi pensieri, dominati dai no di ieri, pensando ad un avvenire ripiegato sul passato. Fermo e a me negato. Mi sfugge di questa fiamma, il significato e il senso dell’amore. Quando l’autunno Quando l’autunno bussa alle porte ritira le foglie dagli alberi freddi. Morti passi fruscianti sul rosso tappeto, sfioriscono in mari di nebbia. Dissolvi il pensiero doloroso e muto, scende l’amore nella sua terra buia. Svanisce il pensiero di te, poi torna e bussa alla porta. Non ho cuore di lasciarlo solo d’inverno. Rossana Roxie Lozzio Estratto da “L’angolo delle fragole” “Abbiamo dovuto indurre un coma farmacologico, signora Monti…”. Doveva essere uno di quei medici che gli gravitavano intorno a stare parlando, mentre cercava di capire come fosse possibile sentirsi in quello stato. Era come se stesse fluttuando nell’aria e avere l’intera visuale della stanza dove si trovavano sembrava così semplice… e poi, si sentiva così straordinariamente in pace con se stesso e con il resto del mondo! Così sereno, da non provare la benché minima paura, sentendo quei medici annunciare alle sue sorelle che il trauma cranico li aveva costretti a causargli farmacologicamente quello che definivano coma e che a lui sembrava uno stato meraviglioso composto di sole sensazioni benefiche e meravigliose. Desiderò non ascoltare più nulla ma fu attratto dalle espressioni affrante dipinte sui volti delle due sorelle, che invece stavano ascoltando il medico con trepidazione e si dispiacque per loro. Avrebbe voluto poter comunicare a tutti che stava bene e che preoccuparsi per lui, in quel momento, sarebbe stato inutile e sciocco… ma non riusciva a convogliare niente di quanto stava pensando alle labbra che rimasero ostinatamente chiuse. Si osservò dalla posizione in cui stava, senza capire dove fosse esattamente e cosa fosse a guardare il suo corpo e tutto quanto fosse in quella stanza. in sostituzione ai suoi occhi… altrettanto chiusi. Comprese che costava troppa fatica costringersi ad usare il corpo e fluttuando nuovamente nell’aria, fu attratto da una luce abbagliante… una luce della quale doveva aver sentito parlare spesso, durante il suo percorso terreno ma che lo attrasse più del desiderio di rientrare nel corpo. L’attraversò, completamente a suo agio, fino a quando non gli parve di scorgere la figura di una persona venirgli incontro e fargli cenno di non continuare. Non aveva voglia di fermarsi e non lo fece, fino a quando quella figura si delineò e si tramutò nell’immagine di quello che era stato il corpo terreno di Giulia. La sua Giulia… non ebbe alcun dubbio. Gli fece nuovamente cenno di non proseguire e questa volta, le diede ascolto, ritrovandosela di fronte. Impalpabile ma bella… esattamente come la ricordava. “Non sei qui per questo, hai ancora molto da fare laggiù…”. Gli comunicò, in quella sorta di ambiente ovattato e privo di qualsiasi rumore fastidioso, di dolore, di sensazioni sgradevoli. “Stai commettendo un errore dietro l’altro, Alessio… non ti si può lasciare solo!”. Aggiunse, in un amorevole rimprovero. “Ma è così che mi sento, da quando ti ho perso… solo”. Sentenziò, abbandonandosi alla gioia che stava provando nel trovarsi in quel luogo, colmo solo della sua presenza. “Devi tornare in quel letto e quando ti sveglieranno, dovrai tornare a combattere…”. Gli suggerì, con un’espressione soave. “Hai molto per cui continuare a vivere, una donna che ti ama quanto me, forse, di più… che ti accompagnerà fino al giorno in cui potrai varcare questa soglia e la figlia che ti ha dato, una bambina fantastica, che vi darà enormi soddisfazioni”. “Non credo di volerlo”. Alessio sentiva che sarebbe stato tutto ciò che in quel momento non desiderava… che sarebbe stato doloroso, soprattutto, dopo averla ritrovata. “Ma non dipende da te”. Gli rivelò, rincuorandolo con un sorriso che gli rammentò quanto gli fosse mancato insieme a tutte le cose vissute insieme. “Sappi che sono orgogliosa di quello che stai facendo con la tua musica ma che vorrei esserlo altrettanto, di te come persona… vorrei che fossi felice come meriti e che aprissi il tuo cuore a quella donna meravigliosa che hai fatto soffrire abbastanza. Non rendere vana la mia scomparsa… non mi deludere”. “Non voglio deluderti, voglio restare qui con te”. Alessio si accorse che qualcosa stava mutando, in quella stranissima situazione e comprese immediatamente che si avviava verso la strada del ritorno, nonostante non lo desiderasse. “Giulia, non so più vivere…”. “Devi vivere e prova a farlo, anche per me”. Sorrise, mentre l’immagine del suo volto ricominciava a sfumare e si allontanava, per rientrare a fare parte del mondo magnifico dal quale si era affacciata per tentare di aiutarlo ad affrontare quello che lo aspettava. “Dille che si sbaglia, se crede di non essere arrivata al tuo cuore… dille che soffrivi e che non sei riuscito a proteggerla dalle paure che ti toglievano il fiato! Amala senza riserve… e non avere paura”. Non avere paura…, quelle ultime parole lo accompagnarono, mentre rientrava in quel corpo disteso nel letto da cui aveva creduto di staccarsi per sempre e quando comprese di non essersi mai veramente andato dalla stanza, fu attratto da qualcuno che non era stato presente qualche istante prima. Accanto alle sue sorelle, al posto dei medici che aveva sentito discutere del suo coma, al di là dello stesso vetro che li separava dal letto nel quale giaceva, riconobbe Javier Miguel. Aveva un’espressione contrita dipinta sul viso e le mani ancora sporche del sangue che aveva perso quando aveva sbattuto la testa sulla ringhiera in fondo a quelle scale, in albergo, dato che lo aveva soccorso per primo. Appariva sconvolto e gli fece compassione, mentre avvertiva le angosce dalle quali aveva creduto di potersi allontanare tornare a riappropriarsi di lui e desiderò di nuovo raggiungere la luce dalla quale Giulia, con il suo meraviglioso sorriso, lo aveva fatto uscire troppo in fretta. “Andate a rifocillarvi, resto io…”. Javier Miguel si rivolse alle sorelle di Alessio, impietrite, dietro al vetro che li separava dalla camera sterile nella quale era stato portato il fratello, dopo le prime cure alla lesione riportata nel punto della testa che aveva picchiato durante la caduta. “Vi avviso subito, in caso di novità”. Loro si guardarono, prima di guardare lui, smarrite. “Non partirò, per ora”. Aggiunse, indicando loro il poliziotto che li aveva raggiunti in ospedale, al quale aveva raccontato come si erano svolti i fatti. “Avete sentito com’è andata, voglio sperare che mi crediate, è stato un incidente…”. “Gli avrò detto mille volte di indossare scarpe più sicure…”. Mormorò, una di loro, emettendo un sospiro sonoro. “Saranno anche moderne ma sono pericolose…”. M’illumino di te E’ buio, tutto intorno e spesso accade all’improvviso, come si spegnesse l’universo intero. Mi sembra che tutto scorra e probabilmente, è così ma scende comunque il buio ed è come se i miei occhi si chiudessero, per rifiutare una realtà che conosco e che non so se sto riuscendo a combattere né se abbia mai avuto voglia di farlo. E’ buio, perché ho sogni e desideri convogliati in una direzione e sono in viaggio da tempo, molto, forse, troppo… e mai raggiungo quell’agognata meta che mi fa paura. Non è l’ignoto ad indurmi a tremare, piuttosto la certezza di quanto troverei, una volta giunta a destinazione. Un gesto, una parola, un atteggiamento che potrebbero tramutarsi in delusione. Un rifiuto fermo e gentile, magari, disegnato sulle labbra perfette di quel volto che rifletto su quelli degli uomini che incontro ma che dovrebbe cortesemente porre la parola fine ad un film che mi accompagna da quando è iniziato il viaggio. E’ buio fino a quando ti raggiungo e sono indotta a riaprire gli occhi per fermarmi ad una tappa, lungo la strada infinita, che mi regalerà la magica visione di te, della tua essenza, di quel corpo magnifico che contiene un’anima contorta… ed ogni volta, è come ricaricare le batterie, come sentire la musica che compongono le dita delle tue mani ipoteticamente posate sui tasti di tutti i miei sensi, come recuperare l’energia per ritrovarmi pronta a partire. Stessa destinazione, stesso timore, stessa maledetta speranza che possa imbattermi in un finale diverso… ma intanto, mentre mi ritrovo di fronte a te, mi accorgo che il buio è scomparso e che tutto intorno, è luce abbagliante. La sconfinata notte che mi inghiotte spesso, nonostante sia giorno, termina in quel preciso istante… quasi come fossi il faro che mi orienta, che anche da lontano e nelle acque più cupe ed agitate, mi indica di aver raggiunto la meta e che m’impone di fermarmi. Ti sto di fronte, mio immenso passato, mio straordinario presente, mio incredibile futuro… ed è gioia pura, è sentire di essere completa, è il desiderio di godere della vita, è entrare in una vasta dimensione che mi regala magia senza cancellare il disincanto e mentre mi domando per quanto durerà, comprendo che non importa e m’illumino di te. Riemergo dal tunnel Disorientata da tanta luce, mi domando se non sarebbe più prudente continuare a camminare nel buio che mi appartiene e che mi avvolge nella quotidianità… ma conosco la risposta alla domanda che mi sono posta tutte le volte che ho dovuto chiudere la breve parentesi in cui mi ci sono ritrovata immersa, per ritornare ad essere inghiottita dal lungo tunnel denominato “vita orfana di te”. Ciò nonostante, preferisco sbandare per pochi istanti, quasi accecata da quel magnifico bagliore che rappresenti, piuttosto che ignorare la miriade di sensazioni che mi regali. Tutto avrebbe un sapore differente, infatti, se non potessi attendere di catapultarmi in quelle rare e luccicanti parentesi, per smettere di fingere di essere la donna che non sono e che riemerge solo quando ti riesco a respirare… la donna che si sente completa e presente totalmente a se stessa, sebbene confusa da una luce intensa a cui non giunge mai abbastanza preparata, che fuori esce dal rumore assordante della tua assenza fosca e tormentosa e finalmente, ride di cuore, dimentica il dolore, si lascia andare! E’ un tunnel apparentemente interminabile e buio, quello che attraverso da anni, che mi culla e mi avvolge, al quale ho fatto l’abitudine e vale la pena vagarci, perché so che esisti, sei da qualche parte, là dove intravvedo uno scorcio luminoso che mi indicherà l’uscita per l’inedita parentesi che rivivrò al tuo cospetto, confusa e sorridente… come quando ero bambina. Federico Cervigni Il pianista che non suonava i tasti neri Era un pianista d’eccezione ma non aveva un cuor di leone. Nell'auditorium erano tutti stanchi: “perché suoni solo i tasti bianchi?” “La notte porta brutti pensieri, non voglio toccarli i tasti neri! La notte è brutta, fa paura, suono senza parte scura!” Un Maestro, lì tra la gente, lo trovò molto divertente: “che paura vuoi che abbia un artista? o suoni tutti i tasti o non sei un pianista.” Ed un altro spazientito gli puntò contro il suo dito: “se ne vada per piacere questo qui non è suonare!” E fu allora che sul palco un altro pianista si fiondò come un falco. “caro collega, di qui si sposti, io si che suono tutti i tasti”. Fu un tripudio, un’ovazione, bella musica e tanta emozione. Mentre il pianista che del buio aveva paura messo da parte, imparò una lezione dura: “non ho nemmeno finito il saggio per la mia mancanza di coraggio”. E solo allora capì in modo atroce, che senza il buio no, non c’è la luce. Andrea Borrelli In altro modo Seduta stante nella mente di colpo assente. Sete sente e siete stessi i sessi siate certi sempre persi. Nelle teste si veste Dio senza feste. Alle luci spente di stelle che vagano da il sole lontano dalla sera: “Non ha senso il bagliore se non esiste la notte”. Mezzanotte Il buio ora lo vedo mentre di nuovo la luce mi acceca e nel vecchio non sento più niente. Ascolto l’ oscurità mi è ancora amica un’ altra ora passerò non stanco mai insieme a lei. Che mi guidi finalmente dentro un tempo mi assicuri sempre il colore scuro di notte perché non ho sonno. Barbara Villa Mastropierro Io ho paura del buio Il buio mi ha sempre fatto paura. Da bambina, per esempio: mi portavano a letto e dopo la favola e i baci della buonanotte, cadevano copiose come carezze, le raccomandazioni di dormire serena e fare tanti bei sogni. Nel momento in cui calava il buio, restavo immobile per un tempo indefinito, a fissare il soffitto. Sotto di me, qualcosa però si muoveva: rumori sordi e ombre inquietanti. Venivano fuori animali spaventosi. Non solo. Dalla finestra ai piedi del letto, s’affacciava il volto crespo di rughe e sdentato della vecchina del piano di sotto, che mi terrorizzava ogni volta che attraversavo le scale per rientrare a casa. Il buio nascondeva, nasconde. Nel buio avevo sempre la sensazione che potesse succedermi qualcosa di brutto. Dal buio uscivano due mani che mi afferravano e mi portavano all’interno di quel buco nero che odiavo tanto. Il buio non mi piace. Non mi racconta di lunghi viaggi o di amori segreti. Non mi fa vedere i colori dell’arcobaleno e dei fiori. Ho la sensazione che spenga il mondo. Mi lascia nel dubbio di non sapere cosa sta per accadere e solitamente i miei pensieri arrivano a pensare alle cose più brutte. Il buio, in quel vicolo, ha creato e coperto mostri che hanno spento i sorrisi di ragazze bellissime, distrutto l’innocenza dei bambini e organizzato rapine,omicidi [….] E’ proprio cosi: Il buio spegne il mondo. Elena Grifoni La Musicista La sala era gremita. Il teatro era di quelli vecchio stile, con un’ampia platea e dove i palchi, finemente decorati in rosso e oro, giravano su due piani tutto intorno al palcoscenico. I biglietti per quel concerto erano esauriti già da tempo, ma una piccola folla, ordinata in fila indiana, aspettava pazientemente davanti alla biglietteria nel caso qualcuno non si fosse presentato o nella speranza che, facendo uno strappo alla regola, la direzione ammettesse anche posti in piedi. In città non si era mai visto niente di simile: persone di tutte le età, dai bambini agli anziani, venuti da ogni dove per ascoltare lei, e solo lei, vera stella di quell’evento. Dietro le quinte il presentatore nervoso percorreva avanti e indietro a grandi passi il palco in tutta la sua lunghezza aprendo, di tanto in tanto, piccoli spiragli nel sipario da dove spiava gruppi sempre più numerosi di persone prendere posto in platea e sistemarsi nei palchi già tutti occupati, eccezion fatta per quello d’onore, riservato alle autorità, che a loro volta si riservavano il diritto di arrivare all’ultimo minuto. Il povero presentatore aveva anche un altro motivo per essere nervoso: la star della serata non era ancora arrivata. Dietro le quinte fervevano gli ultimi preparativi. Ogni solista accordava o provava il proprio strumento e la piccola orchestra, sistemata sopra un palco rialzato sul lato sinistro del palcoscenico, rivedeva per l’ennesima volta la scaletta dei brani in programma. Poi, finalmente, lei arrivò. Sembrava ancora più minuta, infagottata nel cappotto che le arrivava fino ai piedi mentre un berretto di lana copriva i capelli biondo rame. Era accompagnata come sempre dalla sorella, che oltre ad essere sua manager era anche la sua migliore amica e confidente. Quando entrò nei camerini il suo ingresso fu seguito da un attimo di silenzio, poi l’intero gruppo di artisti la accolse con un collettivo respiro di sollievo e qualche risatina nervosa. Il tempo stringeva e l’ora di inizio dello spettacolo era ormai passata da un pezzo, ma visto che gli spettatori erano ancora intenti a sistemarsi all’interno del teatro nessuno fece caso a quel ritardo. Il presentatore sbirciò ancora una volta la sala dal sipario chiuso; tutti erano seduti ai loro posti e il teatro risuonava di quel brusio tipico dei posti affollati fatto di cappotti che si piegano, scarpe che strusciano sul pavimento, voci che si rincorrono e mani che rovistano nelle borsette. Le luci si affievolirono, poi si spensero per tre volte annunciando l’inizio imminente dello spettacolo. Il brusio si attenuò. Poi il buio. E insieme al buio calò anche il silenzio. In quell’interminabile minuto che impiegò il sipario ad alzarsi, la sala rimase immersa nell’oscurità rischiarata solamente dalle lucine poste in terra lungo il corridoio e dalle luci verde sbiadito delle uscite di sicurezza. Poi, un occhio di bue la illuminò: ed eccola lì, quella bambina prodigio di soli dieci anni, in piedi compita al centro del palco, con in mano il suo strumento, un fiocco blu a scostare dal volto i lunghi capelli e un vestito bianco che sembrava una nuvola vaporosa. Il presentatore non fece alcun annuncio, lei non aveva bisogno di presentazioni; la sua musica, il suo talento e la sua giovane età l’avevano resa famosa in tutto il mondo. Fece un piccolo inchino al suo pubblico, si girò verso l’orchestra e con un cenno lieve del capo diede il segnale d’inizio. Gli orchestrali intonarono le note della sinfonia da lei stessa composta; alla quarta battuta la piccola sollevò il suo flauto traverso e iniziò anche lei a suonare. La melodia pervase la sala come una lieve brezza di primavera e come per magia sembrò risvegliare, in ognuno dei presenti, ricordi di giorni spensierati, echi di sogni mai abbandonati e speranze sopite. Era quello il vero segreto della sua musica. Per qualche strana ragione era come se quei dolci suoni, quel rincorrersi di note e pause e quegli accordi parlassero ai cuori di chi li ascoltava risvegliando emozioni, riaccendendo speranze e ridonando la voglia di vivere. Quella bambina, immersa nel cono di luce dell’occhio di bue, irradiava e illuminava con la luce della sua musica l’anima dei suoi ascoltatori. Poi, dolcemente come era iniziata la melodia terminò e quella lieve brezza cessò si soffiare sulla sala. Lei abbassò il suo flauto e volse lo sguardo all’orchestra mentre questa finiva di suonare gli accordi conclusivi della sinfonia. Poi, di nuovo, il silenzio. La piccola musicista, seria e compita, fece un inchino al suo pubblico; la luce si spense, la sala rimase al buio e in silenzio per qualche secondo; silenzio che fu infranto da un fragoroso e interminabile applauso. Elisabetta Bagli Le tue labbra Ruberò le tue labbra ogni notte. Scenderà il buio e mi avvicinerò a te per strapparti il brivido sulla schiena, per vivere e morire su di te. Mi arrenderò al tuo fuoco ogni notte. Come oro mi fonderò su di te, sulle tue labbra, luce e destino delle mie, stazione finale della mia voglia di te. Monica Pasero Luce Luce l’ incanto dei sensi Luce che sai aprire le menti Luce che illumini il falso dal vero Luce che guidi solo il sincero Luce che accogli amori lontani Luce che stringi sentieri di mani Luce che uccidi la paura e la morte Luce che guidi l’amor e la sorte. Ti dipinsi nel quadro della mia vita Ti dipinsi nel quadro della mia vita Utilizzai colori tenui come la tua anima accennai il verde dei tuoi occhi per non scordar mai ,come tu mi guardi di rosso tinsi il tuo cuore,come la passione che si cela nel mio nome azzurra la tua luce che si specchia nei miei occhi dipinsi gocce di colore, che fluide scivolarono sula tela creando l’uomo che sei nella sua incredibile imperfezione unico immenso e vitale affiori in questo tingersi d’emozioni rendendo questo quadro vita per i mie occhi Massimiliano Cara Luce nel calore Sono la luce e sono la tenebra. Posso portare la gioia ma anche seminare il sentore della putrefazione. Sono in grado di far scorrere sangue caldo nelle tue vene inaridite. Ma devi anche sapere che posso tagliarti la gola e sorriderti mentre quello stesso sangue si gela e si perde per sempre. Passo possente al tuo cospetto che sei testa di scopa. La mia essenza è luce nel calore. La mia essenza è una turbe fredda dove la mancanza di luce nutre l’arcano oscuro desiderio dell’immortalità. Anna Cibotti Senza penombra E’ buio intorno alle facce indifferenti della massa informe di uomini randagi come cani senza fame in cerca di prede da sbranare per puro istinto. La notte senza luna accoglie nel suo nero infinito, le loro anime erranti e i ciechi cervelli. Nessun spiraglio aperto per chi vederlo, non vuole e non crede ci sia. Amano l’oscurità che nasconde i loro peccati. Il loro essere niente e soli. Uomini senza ombra. perché senza sole. Ma dopo ogni notte l’alba. Luce che fende la nebbia. Faro delle umane speranze. Tommaso Occhiogrosso Tra buio e luce, preferisco gli infrarossi! Tutto a un tratto, mi ritrovo a fare i conti col futuro: è di quelle occasioni nelle quali sollevi sempre un po’ la testa, cercando più in alto delle tue possibilità, una risposta per una domanda nemmeno tanto ben definita. Chissà per quale strana associazione di idee, ripenso ai miei anni in seminario. Erano giorni quelli, nei quali “farò”, “sarò”, “diventerò”, erano tempi talmente presenti nelle volontà, che ci scordavamo persino che giorno fosse quello che stavamo vivendo. Nelle chiacchierate con gli amici, sognavamo uno spazio ipotetico nel quale realizzare forme future a nostra immagine e desiderio, come accendere una lampadina. Ciascuno coccolava il suo tempo futuro migliore, a suon di carezze. Stringendo forte un cuscino. Era di notte che i nostri sogni crescevano, nelle notti d’inverno , quando il calore di radiatori datati, emanava un intenso odore di caldo: lo annusavi per davvero e quasi quasi, ne eri assuefatto. Solo di notte potevamo confidarci: al sorgere del sole, c’era da allestire le faccende quotidiane con gli abiti che meglio riuscivamo ad indossare. Impegni. Doveri. Responsabilità. Vivere in gruppo, in quegli anni, mi ha fatto comprendere per esempio quante paia di scarpe possano calpestare una superficie di tre metri quadrati, contemporaneamente. E come evitare di calpestar piedi. Il rispetto. Sgomitare per farsi posto, non è stata mai una disciplina per la quale ho prestato le forze: volentieri giravo i tacchi e mi isolavo. A furia di girar tacchi, ho consumato le suole e son rimasto a piedi nudi. Trovato sollievo sotto le lenzuola. Calore per piante di sagome calpestate. I miei passi erano la somma di battute di arresto e sospensioni in punta di piedi. Bisognava che trovassi rimedio, altrimenti restavo indietro. Dovevo trovare il modo per curarmi, perché spesso ero battuto. Precisamente, schiaffeggiato. Al buio, mi riscaldavo, curavo le ferite e a volte, segnavo le guance di lacrime. Sono stato educato dai miei, a temere la luce, perché ciò che riuscivo a vedere chiaramente, era solo ciò che volevano mostrarmi. «Non è dei morti che devi aver paura. Dei vivi, piuttosto. Quelli sì, sono cattivi!». Ricordo il primo tentennamento nella cappella buia di un cimitero. Mio padre mi teneva per mano ed io, opponevo resistenza. Piantavo i piedi. “Avanti. Stanno solo dormendo … anzi, non far troppo rumore!”. L’idea di defunti che dormivano, acquietò i timori. Anche perché compresi che il buio era un fatto oggettivo. Il male, la cattiveria invece, soggettivo. E di argomenti del genere, solo gli umani ‘viventi’, ne potevano esser capaci. Il buio, dunque, era fatto per il riposo. Il giorno per l’azione. E per la difesa. Soluzioni temporanee dell’agire, hanno garantito giorni di sole di legittima difesa. E notti di sogni e coccole. Un buio grazie al quale, ho imparato ad aprir la mente, a vivere di sogni e respingere ogni offesa con le unghie e i salti pindarici della fantasia. Ha agevolato anche le mie espressioni. E impressioni. A reagire, persino a dolorosi schiaffoni. Nel buio rallento il tempo e analizzo l’uomo: lo vedo immerso nelle tenebre e palpeggiare pareti, in preda a smarrimento. Perché al buio, si è sempre se stessi, non si indossano abiti e maschere e non si finge nemmeno alla propria coscienza: come guardare attraverso gli infrarossi. Come cercare nel cuor della notte di non svegliare la casa, col passo delicato. È l’immagine che preferisco, il compromesso perfetto: rispetto per il prossimo, ricerca decisa della propria sete. Angelo Francesco Anfuso Una luce nel buio Mi ritrovo in questo luogo come quel viandante errante senza tetto né dimora, avvolto dal silenzio di una natura ormai piegata. Un mondo di duplice identità, in cui luce e buio si prostrano d’innanzi a me come due ali di rapace reale. La mia mente prende il volo, si innalza verso il cielo e volge lo sguardo sulla terra. Vedo due vie separate e parallele, una illuminata e l’altra buia, e su di esse dimorano la verità e la menzogna, la ragione e la follia, la musica e il rumore, il principio e la fine di ogni nostra sorte. E tu dimmi: dove sei? Perché non ti vedo? Come per assurdo mi precipito tra le due vie cercando in lungo e largo la tua vera essenza, per gustare la tua dolcezza, di quel tempo ormai svanito. Il giorno è stanco, la luce si indebolisce, calano le tenebre e il buio prende il sopravvento ed io ti cerco come l’aurora. Sento nell’aria il tuo profumo, la tua tenerezza immensa che un giorno mi donasti con un semplice sorriso, incidendo sul mio cuore la voglia di averti fra le mie misere braccia e farti partecipe di quel desiderio tanto bramato. La luce si indebolisce come una misera fiamma all’orizzonte: soffusa, debole, incoraggiante per la mia anima. Il buio rallenta i miei passi, ma la speranza di riaverti è talmente forte che non c’è spazio per la fatica. È impossibile prenderti, sei diventato inafferrabile. Una sola cosa ti chiedo: permettimi di sfiorarti ancora una volta. Tendimi la tua mano, i tuoi pensieri, la tua forza, le tue fatiche, il tuo respiro, la tua anima. Tendimi tutto te stesso. Riportami in quel tempo in cui gettammo quel misero seme d’amore tra i solchi dell’ubertosa terra, ormai arida e priva di nutrimento. Sento il calore delle tue labbra, le tue mani che mi sfiorano, la luce si fa sempre più forte. Ferma il tempo, riprendiamo a volare, solcando le alte vette dei monti verso quella meta tanto attesa. Più ti stringo e più la luce si affievolisce nel buio, si allontana sempre di più come un astro irraggiungibile, soffocandomi nella solitudine di questa vita. Non mi hai dato l’unica ragione che io non potrei ascoltare: che non mi hai mai amato, o forse che non ti sono mai piaciuto, o forse, chissà! Svaniscono le due vie e si cala il sipario sulla mia vita: si cela il mio respiro. Solo il buio dimora in me, non c’è spazio per quella luce. Tanti perché, ma nessuna risposta: è svanita tra le onde. Il chiodo fisso Manie, follie, ossessioni, frenesie e fissazioni producono tutto quello che diviene alla fine un chiodo fisso, un’idea acuta e penetrante che s’imprime nella mente portandoci all’euforia o alla depressione, ma qualunque sia il caso, nulla riuscirà a distogliere il pensiero da ciò che ci perseguita. Quindi qual è Il chiodo fisso dei nostri autori? Quale l’idea ossessiva che li spinge a tornare e ritornare su un determinato argomento? Amore, odio, possesso… cosa in realtà li spinge costantemente verso una meta che potrebbe anche essere irraggiungibile? Questo è il dilemma che cercheranno di dipanare le nostre Penne in questi 7 giorni di follie, raccontando e inventando se stessi in questo nuovo argomento. Regina Re Chi odo? Sento soltanto rumori ovattati e vociare di sottofondo, a volte un interminabile silenzio che viene squarciato dallo sbattere di una porta che si chiude, o si apre…non so Mi hanno detto che ero nato per fare qualcosa di grande, che ero stato forgiato per durare in eterno, la mia forza e la mia resistenza sarebbero state le mie carte vincenti, la bellezza non avrebbe contato nulla Ho atteso con ansia il giorno in cui mi avrebbero testato e mi ero lucidato per quell’appuntamento e proprio per la sicurezza che avevo comunicato fui scelto Ero orgoglioso di quel ruolo, quando si è fatti in serie di solito vieni comperato in un pacchetto e chiunque può essere scelto Nonostante la mia inesperienza e la mia paura di non essere all’altezza giusta in quella parete immacolata, avevo detto a me stesso che ce l’avrei fatta Ho fatto tutto, tutto ciò che un chiodo può fare La situazione dentro è statica, un chiodo è fermo nel suo muro Il problema è la sua testa che ascolta un chiodo pensa e pensa che la giornata non è mai finita La sua giornata è resistere al quadro, alla cornice, ad altro L’altro è lo sguardo ti chi ti tiene sott’occhio Se il quadro cade non è colpa del muro E’ colpa del chiodo che non è nessuno Io sono un chiodo anomalo e vivo nel muro del silenzio Chi odo mi osserva perché non sono ancora caduto Attento tu con il martello, pronto a sferrare l’ennesimo colpo Prima o poi sbaglierai il tuo tiro E oltre a crepare il muro Ti creperai pure il dito Andrea Borrelli Chiodi Ho visto appendere il nostro quadro fra tutta quella gente che vedevo c’era una piccola foglia di fico non ci avrei mai fatto caso Sono sceso per andare a prendere dei chiodi ed ho cercato di fissarlo bene al muro non avrei mai forzato troppo sono stato bravo Ho appeso un quadro al muro prima un chiodo poi ho messo l’ altro. Elisabetta Bagli Ci siamo persi Ci siamo persi. Nel nostro andar i palpiti son morti. A mani nude hai strappato le nostre stelle dal firmamento, scaraventandole come chiodi nel fiume della discordia, spegnendo il nostro amore all’improvviso. Una sola notte abbiam brillato, una sola notte e la vittoria ha illuso i nostri cuori. Non brilleremo più, non ci ameremo più. Moriremo nel nostro segreto che ogni notte cingeva la luna di muschio e miele. L’anima mia, ferita, vaga ancor tra le tue reti. L’anima mia ancora spera nel tuo canto nuovo La Dama Nera Sei tu, Signora, il mio chiodo fisso e brindo a te con fiumi di champagne. Ti rendo omaggio con orchidee e rose, con la mia pelle nuda che brama te. A braccia aperte attendo il tuo bacio, a labbra schiuse voglio il tuo gelo. Giungi felina da orizzonti di pietra; incedi verso me dall’eterno silenzio La tua nuova amante è qui, non ti temo. Vieni e spegni il mio sorriso Vieni e segui le mie lacrime, stalattiti dai miei occhi spezzati dalla vita. Schiava tua sarò alla fine del cammino ammantato dal più nero oblio; rassegnata seguo il mio destino. La nebbia avvolge le ombre che come corde stringono la mia gola. Vengo a te, oh, mia Signora. Vengo a te, mia Dama Nera Oggi Proibite mi saran le labbra tue Proibito il cuore tuo all’amor mio. Rami spogli mi sommergono, giaciglio eterno ove taccion le mie membra scolpite dal fuoco delle tue. L’estate è andata via e tu con lei. Morto il tuo desío per la mia carne. Morta son oggi io con tutti i sogni miei. Fiero li hai rubati e gettati ai rovi. Fiero mi hai lacerato il seno col chiodo tuo, intriso di veleno, tingendoti del sangue mio le vene. Andrea Mazzolini Cupido Voi lo sapete che c’ho un chiodo fisso, che d’una donna sono innamorato, occhi da Dea (ma il nome non vi scrivo). Mi ha spinto in cielo e dopo in un abisso perché da lei non son contraccambiato (e m’ha spezzato in tre come un grissino). Se becco quello stronzo di Cupido gli rubo la faretra con i dardi, scendo in piazza, vedrete che combino! Ora la pianto ché s’è fatto tardi. Anna Cibotti Fachiro disturbato Ho chiesto ad un fachiro di farmi fare un giro sull’irto suo giaciglio Lo vuoi da me un consiglio? mi ha detto, ridacchiando, anch’io sto rinunciando ho un chiodo, che sventura, in testa e mi tortura. Sugli altri sto seduto ma quello sconosciuto mi logora il cervello e non sarebbe bello stare in tua compagnia mentre tento invano di cacciarlo via! Malefico chiodo C’è un chiodo arrugginito che mi ha ferito un dito invano l’ho schiodato e allor ci ho rinunciato Dov’era lui è rimasto scuro, fisso e nefasto. Nefasto sai perché? lui ferirà anche te. Immaginario o reale è un chiodo che fa male! Monica Pasero Gocce Gocce di vita cadono lente sul mio cuore Sensazioni che scivolano dentro di me. Nei tuoi momenti vive il mio profondo I tuoi respiri stillano gocce di speranza che nutrono la mia anima il mio corpo ricerca la tua essenza il mio cuore reclama la tua appartenenza Il mio chiodo fisso è non sentirmi all’altezza Questo è il mio chiodo fisso, lo è sempre stato, in ogni situazione io mi trova mi sento inferiore, non mi sento mai adeguata ,se qualcuno mi osserva nella mia testa si seguono le ansie e dentro di me mi pongo mille domande, partendo dal mio aspetto con cui sono in lotta da una vita, quei maledetti chili di troppo che mi rendono cosi fragile al mondo ed impotente nell’esprimermi al meglio. Nella mia testa si accavallano le ipotesi più disparate su come e perché questa persona mi stia osservando o sorrida e dopo aver esaminato il tutto, giungo sempre alla stessa conclusione “sta ridendo di me!” Queste sono paure che mi porto da sempre, partono dalla mia infanzia dove nessuno oltre mia nonna mi ha mai spronato più di tanto valorizzando le mie doti. La mia famosa terza media il fatto di non aver potuto proseguire gli studi l’ho sempre vissuta come fonte d’inferiorità in questa società. Diventata cosi adulta senza avere una mia identità prima figlia di… Poi moglie di… Oggi mi ritrovo a riscoprire il mio valore e questo chiodo fisso si sta leggermente (se si può dire svitando), ma la strada è davvero lunga, ogni qual volta che devo interagire con un’altra persona le mie mille paure mi assalgono, partendo dal mio aspetto per poi proseguire alla mia intelligenza, non sò se mai mi libererò di questo chiodo fisso. Il mio sogno è trovare la mia identità, non voglio più essere né figlia, né moglie di qualcuno, ma solamente io Monica, me stessa. Solo tu Nella mente solo tu ogni pensiero, respiro, battito è tuo ogni sensazione mi riconduce dove la mia mente invano cerca di fuggire in quell’oasi di vita ancor da scoprire. Una parola, un gesto un sol respiro, mi riporta da te dove ormai io vivo. Non c’è giorno, non c’è ora, né minuto che il mio cuor non implori il tuo aiuto per questo mio bisogno così forte di averti con me, ora e sempre fino alla morte. Voli… Voli lontani che faticano a planare Ali spezzate dal troppo pensare l’ ignoto spaventa ribelle rallenta il mio volo si ferma e tremante conduce nel mio eterno cercar la mia vera luce il bisogno s’arrende dal timore del poi… Il mio cuore si spegne nel nome di Noi ma la vita è attesa e volo continuo e le mie ali attendon il loro destino Nadia Milone Il mio chiodo fisso Ci sono volte in cui vorrei essere arrabbiata e mi sforzo di mantenere un atteggiamento duro, ma come diavolo faccio, io, ad essere arrabbiata? Non ho ancora imparato e mai imparerò, mi sa… Lo guardo e intanto quegli occhi mi fregano ogni volta. E’ nei miei pensieri sempre, alla mattina quando mi sveglio, quando mi preparo il caffè, quando esco a far la spesa (e, ovviamente dimentico mezza la roba)… E’ il mio chiodo fisso fin quando, alla sera, me ne torno a dormire. E poi dormi, finalmente, direte voi… Ehhhhh, dormo, dormo, ma il chiodo è sempre lì, anche la notte. Ma come si è piantato bene questo chiodo! Qualcuno ora mi dirà che il chiodo, dopo un po’, si arrugginisce, vero? Eh già, lo so. Pazienza, vorrà dire che correrò il rischio… ma i chiodi durano tanto, io ne ho alcuni, in casa, che sono piantati nello stesso punto da un sacco di tempo. E’ preoccupante, la cosa, a pensarci bene, però… Ma i chiodi sono così, una volta piantati, non si schiodano più e io lo so bene, con tutti i chiodi fissi che ho avuto nella vita, ci potrei aprire una ferramenta… bé, forse una ferramenta è un tantino esagerato, ma una piccola bottega forse sì. Comunque tenterò di non preoccuparmi troppo per questo chiodo che non si schioda, tanto è inutile, più provo ad arrabbiarmi e far la dura, più mi vien da ridere. Non sarei credibile nemmeno al circo, che frana che sono! E allora che fare? Una soluzione? Lasciamo il chiodo al suo posto, lasciamo che continui a reggermi e sopportarmi, e poi si vedrà… La morte E’ da un po’ che ci penso. Da quando quel giorno, con la macchina, ho rischiato di finire contro un camion. Tranquillamente stavo percorrendo la solita strada di sempre, quella che facevo ogni mercoledì per portare mia figlia in piscina. Forse ero sovrappensiero, forse ero stanca oppure semplicemente distratta dalle continue chiacchiere di mia figlia, non lo so, ma ho sorpassato un trattore senza prestare troppa attenzione, evidentemente. Eppure avevo guardato, guardo sempre… ma non l’ho visto, non ho assolutamente notato quel camion che stava venendo verso di me nella corsia opposta. E’ stata una frazione di secondo, se ci penso mi viene ancora il batticuore. Me lo sono trovato davanti e ho avuto un attimo di panico. Il camionista ha inchiodato, io ho accelerato e mi sono infilata nuovamente nella mia corsia. Ce l’ho fatta, ma io e mia figlia siamo scampate per miracolo. Da quel giorno, non faccio che pensare a cosa sarebbe successo se fossi finita sotto quel camion. Saremmo morte entrambe, forse… io non riesco più a togliermelo dalla testa. Ci penso continuamente e questo mi ha portata a fare alcune riflessioni. Io ho sempre avuto timore della morte, ma più di tutto non mi perdonerei mai se succedesse qualcosa a uno dei miei figli per colpa mia. Se mi soffermo a pensare, la mia non è vera e propria paura di morire, perché forse la morte non è il peggiore dei mali. Ma da quel giorno, ho iniziato a pensare alla morte come ad una vera e propria realtà, una cosa a cui non si pensa quasi mai ma che può capitare in qualunque momento, senza preavviso e senza possibilità di scampo. E se da una parte questo mi fa paura, dall’altra penso che potrebbe essere considerata come una liberazione da tutte le cose negative. Ma non si può pensare alla morte come liberazione, sarebbe una sconfitta, un arrendersi davanti alle difficoltà, un far soffrire qualcuno, forse, pur di non soffrire più io. Egoismo allo stato puro. Ma non posso negare di averci pensato, a volte, nei momenti più bui. Ma da quel giorno, è diventato un vero e proprio chiodo fisso. Come sarà? Come succederà? Mancherei a qualcuno? Ma penso anche:” Avrei davvero il fegato di farlo?”. Io credo di no, sono una fifona e sono convinta che non ce la farei mai. Comunque preferisco tentare di non pensarci troppo, ma è davvero difficile, è un tarlo che mi accompagna ogni giorno, anche se, per fortuna, ultimamente vivo la vita un po’ più serenamente e questo, forse, mi aiuta a non fossilizzarmi sulle mie paure . Ma è un pensiero che mi accompagna, che è dentro di me ed io tento di respingerlo come posso, ma torna sempre a galla e, con lui, riemergono tutte le mie ansie. Ecco perché, da oggi in poi, vivrò la vita come viene, giorno per giorno, godendomi ogni singolo istante di felicità, perché oggi so che posso farlo, domani chissà… Barbara Villa Mastropierro e Tommaso Occhiogrosso Il quadro perfetto Di due parti che si incontrano, c’è sempre un limite esterno che deve combaciare. O al massimo, occorre la mano maldestra di un buon artigiano. E questo sono io che provo a raccontarvi la storia di Tito e Morgana. Morgana aveva perso la sua fermata, troppo incantata a guardare la copertina di quel libro: Poesie d’amore e di vita – Pablo Neruda. E non solo. Dalla copertina era salita con lo sguardo. Le mani, le spalle e poi quel viso, perso tra quelle pagine. Era rimasta folgorata. Letteralmente folgorata. Ormai aveva perso il tempo di sgattaiolare oltre la calca di impiegati e tuffarsi nella sua giornata di lavoro, ormai il ritardo era conclamato. Aveva deciso , in quell’istante, che quel giorno in ufficio non si sarebbe presentata. Aveva altro da fare, pensò tra sé e sorrise. L’autobus dopo poco piantò le ruote e scosse come una ola involontaria tutti quegli impiegati appesi in cravatta e sospesi alle maniglie rosse. Il giovane lettore scese e Morgana lo seguì. Aveva deciso di incollarsi a quegli abiti e immobilizzarli: voleva sapere chi era quel tipo che li vestiva. Morgana non era donna che perdeva tempo: quando voleva qualcosa se la prendeva. Quel giorno voleva sapere chi fosse quel tipo. Per ora era l’uomo affascinante e misterioso, ma ben presto avrebbe saputo molto di più, anzi tutto. «Tito!». Una voce dall’altra parte della strada, richiamò l’attenzione del giovane. «Non girarti!» pregò Morgana «non puoi avere un nome così orrendo!». «Ehi, Momo!». “Meglio Tito, santa miseria!” pensò Morgana. «Tito, ma che razza di nome è Momo?!». «Dici a me?!». Tito si voltò e vide, nella confusione dei passanti, una brunetta niente male, che gli stava addosso. «Eh, certo: vedi qualcun altro su questa strada che si chiama come te e urla il nome del tuo amico?!». Tito entrò in confusione. «Ah, già … certo … chi altrimenti! Dunque, lui è Momo, ma non si chiama Momo, lo chiamo io così perché è un idiota e Momo mi da’ tanto di idiota … a te, non da’ di idiota?!». «Dovrebbe!?» rispose Morgana quasi seccata. «Beh, sì! È una mia invenzione …». «… da idiota!». «Certo, non nego che potrebbe sembrare alquanto strano, perché è un nome così infantile che a sentirlo pronunciare uno penserebbe a un cartone animato, una scatola di giochi, quelle plastiline con cui ci si impiastricciava da piccoli e … Ma scusa un attimo … tu chi sei?!». Morgana tirò un sospiro. «Pfui! Woo! E che diamine! Ce l’hai fatta a dire una cosa sensata … non mi sembrava possibile che parlassi sul serio!». Tito si distrasse un attimo. Aveva perso il segno dell’orecchio nel libro di Neruda e cercava di recuperarlo in qualche modo. «Ma mi ascolti?!». «Sì certo … scusa … è che se non trovo il segno dell’orecchio, mi tocca ricominciare a leggere tutto da capo! Dicevi ?!». «Oh mio dio! Non è possibile?! Ma sei davvero così per tutto il resto della giornata?!». Tito abbassò la testa e lanciò uno sguardo nel vuoto. «No. Solo quando mi piace una ragazza …». Morgana restò di stucco. Poi un po’ sorrise. «Cioè, se dico che mi piace, intendo mipiacemipiacemipiace …». Morgana gli tappò la bocca e schioccò un bacio sul dorso della sua mano incollata alle sue labbra. «Piacere, Morgana!». Questo l’inizio. Tre mesi fa. Ora, le due parti combaciano, sono vicine. Ma anche labili. Adesso per esempio, sono talmente vicine, da sovrapporsi. Una sull’altra, e la convivenza evidenzia i limiti: quei contorni di ciascuno che non combaceranno mai. Come insenature frastagliate. Si è dimenticato. Lo sento, lo sento. Doveva essere qui per le 21, dovevamo cenare insieme, avremmo dovuto discutere di quella faccenda importante. Ma che parlo a fare! Avrà avuto di meglio da fare. C’è sempre qualcosa di più importante … più importante di me. «Oh finalmente ti sei degnato di tornare a casa. Dove sei stato? Con chi eri?». «A scuola. C’era una riunione straordinaria». «Sì certo, e io sulla fronte ci ho scritto Sali e Tabacchi». «Io non lo so cosa hai sulla fronte. E tra l’altro non ci starebbe nemmeno una scritta così lunga sulla tua fronte! Però, so solo che sei fissata. Sono settimane che ormai non fai altro che dubitare di me, di pensare che ho un’altra e follie simili. Dimmi che ti succede?». Prima o poi sarebbero arrivati a questo. Un punto fisso. «Succede che non ci sei mai. Succede che la mattina faccio colazione sola, che il bacio del buongiorno me lo do da sola. E succede anche che io domani parto per Parigi. Ecco cosa succede». A bocca aperta. «Cosa? Perché? Con chi?». «Ma che domande stupide. Da sola ovvio. Mi hanno organizzato una mostra a Parigi e non posso non andare. E’ il mio sogno da sempre. Ci saranno esposti i miei quadri». Silenzio. «Tu mi nascondi qualcosa. Chi ti aspetta a Parigi?». «Tu sei pazzo. Tu hai occhi solo per le tue poesie, i tuoi poeti maledetti, le tue allieve! E poi sono io a nascondere qualcosa?». Morgana si allontanò a passo svelto, sparì nel buio del corridoio e rientrò con una tela coperta. L’appoggiò sul cavalletto e fece scivolare il lenzuolo. Una bella immagine comparve agli occhi Tito. Lui, l’allieva carina e i loro corpi nudi. In un attimo scese il gelo. Un silenzio irreale. «E adesso non parli più? Ho le fisse e sono paranoica vero?». «No, tu sei pazza. Ci hai dipinti senza chiederci il permesso. Non sai che c’è la privacy?». «La …. cosa?!! Ma che dici? Tu mi hai tradito e io dovrei preoccuparmi della privacy?». «E tu sei stata tutto il tempo a guardarci? E ti sembra normale?». «Avrei dovuto uccidervi? Subito? No.. troppo facile, troppo stupido». Tito nascose il silenzio sotto il lenzuolo della vergogna. Chi aveva perdonato cosa, non era importante. L’essenziale era impastato tra quei colori. Una leggerezza dei primi giorni, quando una storia è solo alle prime pagine. Quando soprattutto una vecchia, non trova mai il capitolo finale. «Voi mi regalerete il successo. E sarete visti da tutti, da tutto il mondo. Voi sarete il mio quadro perfetto». «Il chiodo fisso del tradimento non te lo sai mai tolto, vero?! Te lo sei piantato nella testa e in quelle mani: Tito tradisce sempre e comunque; Tito è uno sbadato; Tito ha sempre la testa fra le nuvole e tra le gambe delle allieve. Questa è la migliore immagine che porterai dipinta di me?!». Strappò la tela dalle mani di Morgana e l’appese nel “l’angolo delle meraviglie”, una nicchia ricavata in una zona morta della casa, un’edicola alta due metri e coronata da pietra viva e illuminata da un faro piantato nel soffitto. Campeggiava al centro un affilato chiodo grezzo. Morgana l’ammirò stupita, quasi non fosse opera sua. «Non trovi che sia perfetto? Il punto di vista, la luce, gli sguardi appena abbozzati. Il desiderio infame. Un titolo che ci sta tutto!». «È la tua opera migliore, vero!?». Morgana lo trafisse per la prima volta con gli occhi. «Che vuoi dire?!». «Cosa ti riempie di follia?! Il dipinto o il soggetto. L’arte o il peccato?». «Entrambi. È la convivenza che si mescola. È il confondersi di pennelli e carni». Tito sparì in cucina. Aveva fame. Morgana lo biasimò non poco. Tutta quella discussione, tutte quelle provocazioni e un nulla di fatto. Avrebbe voluto una reazione, uno scontro, una lite furibonda per stanare le paure. Le sue. E per ritornare ad accettare e amare quell’essere che abitava non solo la sua casa, ma una parte intima di sé. Si accasciò sul divano, sfatta. Era stanca: tanta fatica per nulla. Nel silenzio, un fendente recise la follia. L’arte e il peccato. Il desiderio infame. «Maledetto quadro!!!». La mano violenta di Tito, colpì a più riprese la tela. La squarciò nei punti nevralgici, negli incroci peccaminosi, nelle sfumature definite dalla libidine. Si riempì di stracci, quell’impasto di colori e desiderio. «Idiota! Che fai??!». Morgana si scaraventò contro Tito. Nella foga della disperazione, la tela cadde al suolo, come vittima sacrificale, come un cadavere ormai privo di vita. Tito la calpestò, tenendo ben salde le mani di Morgana che si dimenavano. Avrebbe voluto dipingergli sul volto una maschera di sangue, assalirlo con la rabbia e sputargli in faccia il suo disprezzo. «Tu sei pazza!». L’estremo tentativo di Morgana, andò a segno. E lo trafisse per la seconda volta. E trafisse anche sé. Quanto primeggiava quel chiodo! Al centro della nicchia, come un aculeo spesso, lungo cinque centimetri, nero. Un chiodo d’altri tempi, una breve bellezza in ferro grezzo. Il centro della gravità, l’ancora perfetta per i dipinti di Morgana. E vide le loro mani affondare. Sentì le loro carni lacerarsi. Nell’impatto violento, due urla tacquero l’odio. Ora sono vicini, sento il loro respiro. I loro corpi sudano veleno e odio. Scivola sangue. Sapevo che sarebbero arrivati a questo punto, in questa zona, in quest’angolo delle meraviglie dove tutto è così bello perché nasconde un segreto. Ed io lo mostro, lo sostengo, ne reggo i limiti. Tante pareti, immensi spazi colorati, strutture ben illuminate. Ma senza un appoggio, sarebbero zone morte. Mura e angoli prendono vita così. Basta un chiodo: una base incastrata nel cuore del cemento che mantenga il gioco. Equilibri nascosti, parti che non devono coincidere, ma affondare. Tito e Morgana combattono per un pezzo di vita frastagliata. Se non entreranno nei loro limiti, cadranno a terra, come quella tela. E spero che accada un miracolo. Un chiodo fisso: il tradimento. Morgana Un altro chiodo fisso: il perdono mancato, per se stessi. Tito. E poi ci sono io: il vero chiodo che ha visto ogni cosa, ha sorretto arte e peccato, Tito e Morgana. Restare sospesi garantisce inevitabilmente un panorama pericoloso: cadere o aggrapparsi. Ho trafitto le mani di entrambi, quasi per gioco. Quasi per destino. Di due parti che si incontrano, c’è sempre un limite esterno che deve combaciare. O al massimo, occorrono le mani. Toccarsi per riconoscersi. Mani trapassate allo stesso istante, dallo stesso dolore, vedono la vita nello stesso modo. E cercano la stessa via d’uscita. Magari è l’occasione giusta. Magari questo, è il quadro perfetto. Maurizio Donte Lento soffio Lento soffiar del vento, sinuoso danza con il tuo pareo s’alza, s’abbassa il velo… innanzi agli occhi si staglia il cielo splende il sol e disegna l’ombra netta sull’andar dell’onda… ritorni, sempre ritorni, odiato amor, che m’hai inchiodato il cuore. Spezza quel nodo! Anima mia ribelle… da questa croce dove il destino m’ha trafitto…danza e ritorna l’ombra e il sol sul tuo bel viso nulla vale, chiodo fisso è il tuo falso sorriso. Rossana Roxie Lozzio Piantato nell’anima Ma quanto sarebbe bello, sto pensando, che i ruoli si ribaltassero ed io potessi diventare il TUO chiodo fisso… e mi ritrovo a sorridere, pensando che non solo è impossibile ma non saprei nemmeno quale atteggiamento adottare, considerando che non sarei capace di lasciarmi desiderare dall’unico uomo che mi trafigge anima, pensieri, mente e cuore da quando ho compreso cosa significava amare incondizionatamente un uomo che non fosse mio padre. Continuo a immaginare e a sorridere, mentre mi vedo attraversarti la mente e accompagnarti in forma immateriale da quando ti svegli, insieme al primo caffè che bevi, fino all’ultimo dei riti che compi prima di andare a dormire, mentre giri per casa e controlli che tutto sia in ordine, domandandoti che cosa potrei mai stare facendo, dove e insieme a chi. Ah, quanto sarebbe bello che fossi il chiodo fisso piantato nella tua anima… sospiro, immaginando di ispirarti testi di canzoni, pensieri sconvolgenti e di essere la musa che ti esorta a cantare nei momenti più disparati, magari, in macchina o mentre fai la doccia e di costringerti a prendere atto che niente e nessuno al mondo potrebbe interessarti più di ciò che rappresento! Ma ahimé, il chiodo fisso sei tu e sei piantato così radicalmente e nel profondo della mia anima, da che ho memoria di aver scoperto che esistono i sentimenti… il cuore sanguina ma la ferita resta aperta e non saprei come estirparti, senza causargli un’emorragia che mi condurrebbe a morte certa. Sono viva, so di esserlo, mi rendo conto di esistere perché ci sei… e non potrei immaginarmi in alcun luogo, su questa Terra e altrove, se così non fosse. Adrena Sclerando per lei Avrei voluto essere al posto suo per sentirmi desiderata così, avrei voluto riscontrare la stessa smania di possesso e quel desiderio irrefrenabile di prenderla tra le mani che con veemenza mi esprimevi. Preferivi “la bionda.” Io, invece, ero bruna e me ne vantavo. Adoravo la mia pelle più scura, quella carnagione che le mie origini cubane mi avevano donato, e non avrei rinunciato a quel che ero per soddisfare i tuoi capricci di uomo. Sanguigna e caliente io, sciapita lei. Non mi sapevano di niente quelle pelli diafane quasi porcellanate; bambole di pezza, oche che starnazzavano senza utilizzare il cervello. Mi limitai, invece, ad immaginarti mentre accarezzavi il suo corpo snello racchiuso dall’abito bianco quando con bramosia la portavi a te, tra le tue labbra. E immaginai lei bruciare lentamente e, consumandosi, entrare dentro te. “Non ce la faccio più- dicesti- sto sclerando!” Avresti voluto che io corressi da te per acquietare la frenesia del momento, ma preferii rigirarmi nel letto e tornare a dormire. Ferita nel mio orgoglio di donna mi resi conto che non avevi bisogno del mio aiuto, non era me che desideravi ma, una stupida, inutile, e insignificante, sigaretta. Angelo Francesco Anfuso Una dolce sofferenza Solamente un’ora, un giorno, e la vita ti prende tutto quello che hai. Sono certo, c’è tanta intesa da entrambi le parti. Allora mi chiedo: “perché non viverla? Perché privarsene?” Forse lui è troppo impegnato, assopito dai suoi pensieri, distratto dalla lontananza, o forse non ha tempo. Il suo essere impegnato mi soffoca: non c’è spazio, non c’è tempo, non c’è nemmeno uno sguardo: solo un misero dialogo. Cosa posso fare mai? Non è facile, la mia fatica diventa sempre più forte mi indebolisce, ma sono contento che esiste, che solo una volta, anche se per poco mi ha degnato del suo sorriso. Alla fine c’è, esiste, ma è inafferrabile, un po’ come l’aurora. Sempre la stessa storia, quando trovi una persona per cui il cuore inizia a palpitare, ci sono sempre i capricci della vita che si divertono a giocare con i sentimenti: che immaturi. Le sue parole esprimono magia e la sua voce incanta chi gli sta d’innanzi. Eravamo tutti e due incantati di noi stessi, ognuno era il chiodo fisso dell’altro. Sarà un docile tormento un tormento che rende il sorriso sulle labbra solo al pensiero. Per questa nobile causa, l’abbiamo battezzato con il nome di: Dolce Sofferenza. Un tesoro in un forziere, ma senza chiave per aprirlo. Tutta l’esperienza è stata bella ed è ben custodita nel mio cuore, lì dove si custodiscono i ricordi e sentimenti più nobili Il nostro cuore è un forziere unico nel suo genere, ma per aprirlo occorrono le due chiavi della vita: la mia e la tua. Solo a noi due è stata fata la facoltà di poterlo aprire, altrimenti perde il suo valore. L’Amore si cerca, si insegue tutta la vita, lo si sogna e lo si brama, e quando lo si trova può essere così sconvolgente da far paura. Forse! Una paura di perdere se stessi per poter vivere nell’unico Amore. Solo allora ti renderai conto, del perché della tua esistenza, del perché delle cose, del perché di ogni tuo attimo, di ogni tuo respiro. Se questo è Amore, non sarebbe meglio l’Odio? Ma l’Amore è bello solo perché in esso si cela il mistero del vero Amore, che è sofferenza allo stato puro. Solo se è condiviso, il giogo si fa leggero e la sofferenza diventa un misero sospiro elevato al vento. Ecco il mio chiodo fisso! Dov’è la dolcezza se non nel vissuto custodito nel cuore, dove il pensiero riesce a farti vibrare e sentire ciò che non è più, dove il volto si illumina di luce mostrando un sorriso e occhi brillanti di gioia, velati dalla nostalgia del non possedere. La sofferenza dell’amore che può solo essere una dolce sofferenza. Il mio alimento è il ricordo, e il sentire l’odore è il mio rifugiarmi nell’intimo, è lì che trovo alimento. O vita che non vuoi vivere, o pensiero che non vuoi pensare, o vista che non vuoi vedere, o cuore che non vuoi lasciarti andare… Sento ancora sulla mia pelle, quella brezza in cui, ormai il sole al suo divenir sfiorava la mia carne. Docile passione, docile sentimento, o forse, docile tormento. Cosa mai farò ancora per rivivere? Estrai da me questo chiodo fisso ed io leverò il tuo. Insieme saremo liberi da questo e la passione regnerà su di noi, e saremo liberi di amarci. Nell'assenza Cosa accade, nell’animo umano, quando si avverte l’assenza di qualcosa che pare fondamentale per la nostra esistenza? Quando avviene l’allontanamento di una persona, la mancanza di un oggetto, il protrarsi di una situazione frustrante, che ci pone nelle condizioni di avvertire la solitudine? Dunque l’argomento proposto per questi 7 giorni di follie è proprio questo: Nell’assenza… I nostri autori avranno modo di esprimere i vari aspetti del tema, ponendo in luce tutto quello che potrebbe essere a esso correlato. Fede Giovanni Rega Assenza Assenza è non-presenza, assenza è carenza, è privazione, è separazione. Assenza è dolore Per ore e ore.. Paura che quell’assenza pesi più di qualunque altra presente presenza. Siamo mille, milioni, siamo miliardi. Ma l’assenza di uno uno solo su un milione pesa più di quel milione vivo, vicino a te. E così ti senti solo, solo tra la gente, solo in un oceano di folla apparente, perché a te ne manca una una sola. Vale tutto, per te. La sua assenza ti tormenta, t’uccide. Assenza è il nulla, quel vuoto d’aria in cui tutti un giorno sprofonderemo. Nadia Lattanzi Assenza..essenza di te C’è un assenza di una terra in mezzo al mare, di un dialetto diverso, un cielo reso più azzurro dall’ago di una bussola. E allora orecchie tese ad un telefono..mani protese su una tastiera. E l’urgenza di saperti, di conoscere colei che mi accarezza il cuore. Ma tu non sei assenza. Tu sei la “distanza” che riempie le mie ore, la voce che vibra nel mio corpo quando mi accorgo che vorrei le tue mani su di me. E non resta che far volare i miei pensieri, i miei desideri…ancora verso te, mai ancore che m’ impediscono di salpare. Monica Pasero Attese e ritorni… Destino beffardo che dipingi i miei giorni tingendoli tutti di attese e ritorni celi con te passioni mai nate narri di me…in antiche ballate urla mio cuore la sua mancanza cerca di te sol la speranza. Destino beffardo che imprigioni i mie giorni tingendoli tutti di attese e ritorni … In assenza di te Destinata è la tua assenza in questa mia vita. Tu, unico mio bisogno lontano, vivi nel mio cuore scandendo il tempo che inesorabilmente passa. Le stagioni si susseguono, mutano, il caldo spazza i brividi invernali ,la terra arida accoglie le prime foglie autunnali. Il tempo se ne va ,scorre nel suo non ritorno e porta via con sé i miei anni ,i mie occhi ormai segnati da lacrime che li hanno solcati troppe volte, da bisogni ancor da scoprire, da sogni che attendono e attendono ancora , ma l’orologio della mia vita scandisce le ore che mi separano da te ,tutto muta il mio corpo, il mio viso, la mia vita solo la tua assenza perdura Le nostre anime unite dalla notte dei tempi attendono… Ogni giorno che passa è un giorno in meno senza di te quando la luce accoglierà le nostre esistenze ,l’assenza terminerà donandoci il dono atteso da tutta una vita Finalmente uniti, ci riuniremo alle nostre anime che si amano da sempre e senza mai più assenza vivremo nell‘infinito dei nostri giorni. Mi manca… Mi manca il profumo della vita che sa d’essenze preziose, di dolci fragranze che sol la natura possiede. Mi manca quella sensazione che si ha, quando l‘anima s’avvolge d’emozioni, quando la sua luce risplende così forte da illuminarti il viso. E tu ti senti così bella. Mi manca poter ascoltare il mio cuore nel suo ritmo intento a comporre melodie mai musicate. Mi manca il sentirmi ancor donna, ancor bella il bisogno di qualcuno che si ricordi di dirmelo. Mi manca, quella sensazione di pura follia, quando un’aura d’amore invade la tua vita rendendola cosi meravigliosa. Mi manca il desiderio, il bisogno di esser anch’io amata cosi come sono per l’essenza che porto dentro, per ciò che ero e ciò che sono e sarò. Mi manca quella sensazione che avvolge anime e corpi, quel bisogno immenso d’essere la metà di qualcosa o qualcuno, essere io quella parte mancante che inneggia il tuo nome. Pensiero Vivi in me pensiero con ali di farfalla sbatti sul mio cuore tutta la tua passione mista al tuo gran dolore mi travolgi,mi assali, mi rendi inerme senza più forze per lottare stanca, sconfitta dal mio stesso destino vorrei solo interrompere il mio cammino, ma poi il tuo ricordo ritorna vivo in me e la mia vita ancor una volta urla il disperato mio bisogno di te Rami al cielo… Come radici profonde s’ intrecciano le nostre anime che vivono di quel frangente, dove sogno e realtà si confondono Lì, i nostri corpi si ritrovano plasmati in una sola anima desiderosi d’ amarsi innalzano i loro rami terreni al cielo implorando la mano di Dio che plachi la loro preghiera intrecciandoli per l’eternità nelle viscere della loro esistenza Nadia Milone Di notte Odio la notte. Troppo silenzio, troppo tempo per pensare, troppo fredde queste lenzuola. Di giorno c’è la musica, c’è il computer, mille cose da fare e tanti impegni a cui pensare, ma di notte è tutto un altro discorso. Questa notte ero sola con me stessa, a fare i conti con ciò che non ho, ma vorrei vicino a me. L’ho detestata, questa stupida notte, non sopportavo il suo buio, ma non potevo accendere la luce, mi avrebbe riportata troppo bruscamente alla realtà che tanto mi deprime. Allora mi sono alzata, ho preso un pupazzo di peluche e me lo sono portata nel letto. Infantile? Sì, un pochino… ma io sono così. Mi sono accoccolata sotto le coperte stringendolo forte. Poi ho chiuso gli occhi e ho pensato. Piano piano, i pensieri si sono trasformati in sogni e la sua assenza è lentamente svanita, sulle ali di un sogno che è scomparso soltanto quando, questa mattina, mi sono svegliata. Sopravvivere all’assenza Ci sono assenze pesanti come macigni. La lontananza è come una spada piantata nel cuore e pugnala nei momenti peggiori. L’assenza di chi vorrei avere vicino mi tormenta quando, guardando una fotografia, gli sfioro il viso e le dita sentono solo la fredda superficie liscia del monitor. Quanto sarebbe bello potersi parlare, toccare e abbracciare, penso la notte prima di addormentarmi, stringendomi al cuscino. E quando mi sento sola, quando piango e avrei bisogno di un abbraccio, oppure quando sono nervosa e vorrei qualcuno vicino che mi calmasse, magari con un bacio, allora sì, in quei momenti la malinconia mi assale. Ma poi basta poco, un messaggio, due parole e mi torna il sorriso. Certo, non è come stringerlo fra le braccia, ma da quella parole riesco ad estrarre la mia linfa vitale, un nettare prezioso che riesce a risollevarmi anche quando sto sprofondando nel fango. In alcuni momenti, avverto la sua presenza vicino a me e riesco ad essere un po’ più forte, non mi sento più sola come prima, sebbene fisicamente sia lontano chilometri. Ma se chiudo gli occhi, immagino che, magicamente, le distanze vengano eliminate e lo vedo lì, a pochi passi da me. E’ solo un sogno, ma è una speranza che mi aiuta a vivere. Ormai ci sono molti modi per tenersi in contatto, ma assolutamente nulla può sostituire un bacio, il calore di un abbraccio o magari, una folle notte di passione. Toccare la sua pelle, sentire il suo respiro e le sue mani… A volte mi rattristo un po’, ma poi guardo il cielo immaginando che, magari, anche lui lo stia guardando e mi pensi un po’ e allora, in quel momento, lo sento più vicino. Forse è questo il modo per sopravvivere all’assenza. Regina Re Il tutto E la prima lezione fu: “Senza l’amore non ho più nulla”. La seconda cancellò con una croce la prima: “Senza il denaro non ho più nulla”. Ma quando mi trovai a scrivere su quel foglio: “Senza il tutto non ho più nulla…”, allora realizzai che quello era il grande appuntamento, quello che il destino per me aveva scelto. C’era un motivo dietro quel risveglio nell’assenza del tutto e lo stesso motivo si nascondeva dietro il dominio incontrastato di quel nulla. Dovevo soltanto cercare e trovarlo. Ma come si può cercare nel nulla? Ero convinta che in fondo alle banalità che imperavano nel mio cervello avevo di certo sepolto da qualche parte qualcosa di utile da tirare fuori al momento opportuno. Mi resi subito conto di aver nascosto quel qualcosa così bene da non riuscire più a trovarlo. Pensai a quante volte avevo compiuto quel rito e poi avevo dimenticato il luogo segreto. Se non altro quel luogo era rimasto davvero un posto segreto e ciò che avevo nascosto nel tempo era diventato un vero tesoro. Poi però l’avevo dimenticato e quel tesoro era diventato un potenziale tesoro per altri ma non più per me. Poi quel gioco, quello di nascondermi e aspettare che gli altri mi trovassero e ridere mentre la mamma gridava disperata il mio nome da ore cercandomi invano. Allora meglio non uscire, avevo pensato. Mi ero infine addormentata quando in lacrime lei mi aveva trovata. Non dovevo più fare quel gioco e allora smisi di nascondermi, almeno avrei evitato di dimenticarmi da qualche parte! Ma che cosa c’entra con tutto questo? Sto perdendo tempo, tempo, tempo…Tempo? Nella mia nuova condizione non vi era tempo, luogo e causa ma soltanto un effetto che assumeva la forma della mia totale percezione dell’ignoto, del quale purtroppo non riuscivo a delineare neanche l’ombra. Le uniche cose a disposizione erano quel foglio e quella penna, ma dopo i tre puntini vi era soltanto una cosa: “Il nulla”: Avevo ricevuto diverse medaglie e il tempo era stato l’unità di misura dei miei successi e anche dei miei fallimenti. Volevo raggiungere il primo posto, a tutti i costi. Intorno tutti ambivano a salire sul podio e, nella loro corsa, non badavano a giocare sporco. Ma quando la competizione divenne una corsa infinita, una corsa priva di traguardi, fu allora che decisi di tracciare da me quella striscia e per terra la segnai. Volevo riprendermi tutto il mio tempo e spenderlo a mio piacimento. Fu proprio allora che cominciai a perderlo. Avevo forse segnato la fine della mia corsa? Qual’è l’unità di misura del tempo, dov’è il suo valore quando l’assoluta libertà ne annulla lo spessore? Avevo imparato a mettere il punto, la fine di tutto e l’inizio di tutto. Avevo compiuto la mia prima scelta, ma subito dopo mi ero sentita persa. Mi trovavo ad aprire un’agenda vuota, nessun appuntamento, nessun orario, nessun inizio e nessuna fine, ero padrona di tutto ma il tutto assumeva un’unica connotazione, avevo scoperto cosa c’era dietro la ribellione. Bisognava prendere una posizione al più presto, ma decidere cosa vuoi essere e dove vuoi stare divenne per me la cosa più difficile da realizzare. Tutti mi dicevano cosa era bene fare e ciò che non si doveva fare ma nessuno mi diceva come fare e come non fare. Fu allora che incontrai Lui. Lui era Ainigriv e Anigriv da sempre era il contrario, la negazione del tutto e l’affermazione del nulla. Di solito Ainigriv rispondeva No quando si trovava di fronte ad un Sì e rispondeva Sì quando si imbatteva in un No. Lui era sicuro di sé e di ciò che voleva, lui sapeva sempre tutto. Quando ero in difficoltà mi consultavo con lui ma lui non aveva mai pietà di me. Un amico ti consola, lui mi feriva quando ero già ferita. Più volte avevo pensato di abbandonarlo ma più volte ero tornata a cercarlo. C’era qualcosa che mi legava a lui, qualcosa che non riuscivo a capire ma sapevo che c’era. Non sapevo nulla di lui ma lui sembrava conoscere tutto di me. Mi infastidiva il non essere padrona dei miei pensieri e scoprire ogni volta che a lui non potevo mentire, non ero più neanche padrona delle mie bugie. Rideva quando ero furibonda e mi guardava con aria di sfida ma ad ogni mia domanda si voltava e con la mano indicava il cielo e diceva: “Mia cara, perché cercare ciò che si ha? Perché vuoi sapere quante stelle ci sono nel cielo se le puoi semplicemente contemplare?”. Ainigriv mi lasciò il giorno in cui decisi che lui era troppo complicato per me, come al solito non ci fu neanche bisogno di informarlo. Non lo cercai più, non mi curai di chiedere di lui in giro, di sapere se stesse bene e soprattutto di sapere se lui sentisse la mia mancanza. Non volevo sapere che lui probabilmente stava benissimo senza di me. Ma nel luogo senza cielo e senza stelle improvvisamente mi resi conto che avevo l’assoluta necessità di rivederlo, di parlare con lui, di arrabbiarmi con lui, di farmi prendere in giro da lui. Fu allora che cominciai a piangere perché nel luogo senza cielo e senza stelle mi trovavo sola a contemplare i miei ricordi. Ma non appena accennai al suo nome, d’improvviso la sua figura mi apparve. Lo sguardo era lo stesso di allora, uno sguardo pieno di sufficienza e di mille altre cose che non saprei raccontare. Ero sorpresa e lo guardai prima con uno sguardo pieno di stupore e, subito dopo, con uno sguardo intriso di profonda vergogna. La parola “scusa” era lì, strozzata nella mia gola, perché scusarmi significava ammettere tutto ciò che mai avrei voluto dirgli. Ainigriv mi guardava in silenzio e mi fissava dritto negli occhi aspettando, come sempre, i miei soliti slanci di presunzione. Decisi allora di rivolgermi a Lui. Soltanto lui avrebbe potuto darmi una risposta. Ma Ainigriv non aspettò le mie scuse, né aspettò le mie domande. Anigriv aveva già pronta la sua risposta, come sempre, ma stavolta non rispose a parole, prese le uniche cose che si trovavano nel nulla e scrisse sotto la mia frase: “…e quanto tutto c’è nel mio nulla.” Adrena L’assenza di te, tratto dal libro “Una donna come tante” Avrei dovuto comprarti una tutina più grande. E non l’ho fatto. Avrei voluto avvolgerti nella copertina che abbiamo cucito insieme. E non l’ho fatto. Avrei dovuto gridare la mia rabbia e dire a quel medico che un figlio non è un sugo come un altro attaccato al fondo di una pentola. … E non l’ho fatto. Così come non ho trovato il coraggio di toccare la tua mano o darti un bacio, l’unico, per paura di turbare la tua pace e la mia. Chissà se quella donna che passeggia ignara nel corridoio, circondata da parenti premurosi, si rende conto effettivamente del grande dono che stringe tra le sue braccia. E se immagina quanto sia atroce essere privati della gioia di sentire il pianto del proprio bambino, il suo lieve respiro, il profumo della sua pelle. Perché? Perché ci rendiamo conto di quello che abbiamo soltanto quando l’abbiamo perso per sempre? Nonostante la puntura, per evitare la montata lattea, sono costretta a tirarlo via con il tiralatte e fasciare il seno con una benda strettissima. Tuo padre lo butta nel lavandino piangendo. E io con lui. Non so se è stato questo il motivo che ha scatenato una febbre insistente per tre giorni, toccando i quaranta gradi, o il catetere che mi hanno messo, o qualcos’altro che, i medici, non hanno voluto dirmi. Adesso niente ha più grande importanza. Domani tornerò a casa. Nella tua stanza il vuoto rimbomba tra le mura, non ho avuto il coraggio di oltrepassare il riverbero bianco del sole che si riflette sul marmo del pavimento all’entrata, tuo padre ha cancellato i nostri pesci sul muro e ha portato indietro il lettino e il fasciatolo al negoziante che ce l’aveva venduto. Qui, nella nostra casa, troppe emozioni mi parlano di te, i nostri sogni, no, quelli non potranno, mai, essere cancellati. Ti ho immaginato sgattaiolare a carponi per la casa, ho sentito la tua vocina nitida chiamarmi mamma, ti ho visto arrampicare sugli alberi del giardino, ho sentito il profumo di scuola sul candido grembiulino e ho asciugato con i miei baci le prime lacrime d’amore. Sogni ad occhi aperti, i miei, soltanto sogni! Nell’amara realtà tu, bambino mio, sei l’angelo più bello che sinora sia salito in cielo. Dimmi… Lì, dove sei, c’è il tuo adorato mare? –… Vorrei dirti che mi piacerebbe essere lì, vicino a te, se non lo faccio è perché ti sento qui, vicino a me. Tu sei con me sempre; non è bastato tagliare il cordone ombelicale per sradicarti dal mio cuore, tu sei, e sarai sempre, il mio sogno più bello. Quel sogno che mi aiuterà ad andare avanti nel difficile cammino della vita attraverso il quale ti accarezzerò ancora e vivrò di te, con te e per te. Angelo mio, abbiamo molta strada da fare, non lasciarmi qui da sola, aiutami a trovare la forza e il coraggio di andare avanti per affrontare le piccole gioie e i grandi dolori. Aiutami ad aprire gli occhi ogni mattina, a ringraziare Dio di questo nuovo giorno che mi ha regalato, a sorridere ancora nonostante la tempesta che impervia nel mio cuore. Dammi un sogno affinché io possa continuare a lottare per esso, credere, e sentirlo crescere in me sino ad allietare le mie giornate buie. Stammi al fianco in modo da poter godere insieme la gioia della sua realizzazione e affinché sul viso di ogni bambino giunga la mia carezza e la tua. Tieni in me accesa la speranza che quel poco che potrò fare non sarà mai cosa vana, se fatta con amore, e che la fatica e il lavoro che mi occorreranno, prima o poi, saranno resi vani da un sorriso. Porgimi la tua mano, bambino mio, ed io saprò seguirti. Rossana Roxie Lozzio La tua infinita assenza Vivo nella tua assenza da tanto, troppo, inenarrabile tempo e ancora non ho calibrato il rumore del vuoto che ho dentro, perché non sei al mio fianco… ma ogni tanto, mi trovo a domandarmi cosa diventerebbe, questa vita orfana del tuo spazio fisico, se all’improvviso ci entrassi con la prepotenza della luce che emani. Mi abituerei all’incanto del tuo essere? Saprei fare a meno del chiasso che fa, la tua infinita assenza? Nell’assenza La prima vera assenza alla quale ho dovuto fare l’abitudine è stata quella di mio padre… se ne andò una sera, incamminandosi lungo la strada di fronte alla nostra casa, dopo un’ennesima discussione con mamma e portò via con sé una sola valigia, oltre a tutta la mia disperazione di bambina tradita dal primo punto di riferimento maschile. Poi, una decina d’anni dopo, feci i conti con quella che è la vera assenza… se ne andò anche mamma ma questa volta, senza valige, senza discussioni, senza tradimenti. Se ne andò, in quella dimensione sconosciuta contro la quale non avrei mai nemmeno lontanamente pensato di dover andare a sbattere ed è iniziata la lotta quotidiana con il vuoto che ti lascia nel cuore l’assenza di qualcuno che non sai neppure quantificare quanto sei riuscita ad amare. La convivenza, invece, con l’assenza di te… mio amore slegato da tutte le convenzioni esistenti sulla faccia della terra che mai potrei sostituire con alcun sentimento per un uomo diverso, è cominciata nel mezzo tra le due partenze di cui sopra e ancora continua. E’ una specie di abitudine, di battaglia fra la mente ed il cuore, è qualcosa che comincia appena sveglia e che rimane con me fino a quando non arriva il sonno. Solo lui riesce a portarti via da me, per qualche ora… è soltanto mentre dormo, dato che difficilmente ti sogno, che la tua assenza non si fa sentire con la prepotenza di un rumore che si trasforma da sottofondo musicale a chiasso infernale. Vivere nell’assenza… difficile ma non impossibile. A volte, ci capita e dobbiamo solo riuscire a farcene una ragione… a volte, ci rovina addosso, con irruenza e non ci capacitiamo di doverci imparare a convivere ma fa parte della vita, perché è quasi impossibile potere avere tutto ciò che si desidera e se questo non avviene, vivere nell’assenza, diverrà un destino tanto detestabile quanto amabile. Fidatevi di una donna che trascorre il tempo al suo fianco da quando era bambina… Gabriele Palumbo Mancanze Erano passati già tre mesi…tre mesi in cui le mie già pessimistiche aspettative furono di gran lunga superate, ma non volevo andarmene…sarei dovuto partire l’indomani mattina, con l’aria fresca tipica delle prime luci del mattino e con le valigie sempre piene di cose che non avrei mai usato… non volevo andarmene, ogni volta mi abituavo all’assenza degli altri, della compagnia di sempre, dei mie genitori, all’assenza di quelle piccole cose che ti riempiono la giornata, ogni volta mi abituavo…e sicuramente, con più facilità, loro si abituavano alla mia di assenza…non era tanto la mancanza, la nostalgia, come ho già detto purtroppo o per fortuna a queste cose riuscivo ad abituarmi…la vera fregatura era la consapevolezza che con la tua assenza gli altri cambiavano sena di te e tu cambiavi senza di loro, la consapevolezza che ogni volta che te ne andavi perdevi dei pezzi per strada, magari piccoli tasselli, ma fondamentali per incrinare un rapporto, un legame o quant’altro, fondamentali per rendere il tuo ritorno sempre più difficile, a lungo andare sapevo sarebbe diventato anche più difficile della partenza… Elisabetta Bagli Non ci sono rose Non ci sono rose, non ci sono versi, non c’è voce dentro me. Muta come neve d’inverno mentre il mio sangue cerca sentieri per ritornare in te. Muta come la terra mentre il mio corpo brama le tue ali ansimando il tuo dono. Qual solitudine è la mia! Per chi ho coltivato l’anima che ora gode il gusto acre della tua assenza? Il mio dolore è rosso e continua ad ardere sotto le pietre dove hai abbandonato il nostro amore. Marina Isceri Ricorrente orma Una ricorrente armonia intensità al confine in ogni dove lascia impronte. Non si scioglie al sole sopravvive a tempeste, vigorosa e tenace sfama i miei giorni, senza intervallo la tua assenza declama me stessa. Angelo Francesco Anfuso Solo un ricordo In questa notte buia e lacrimosa, elevo il mio grido disperato affinché tu possa sentirmi e comprendere quanto sei stato importante per la mia vita. In realtà, in realtà, non puoi nemmeno immaginarlo. Non sai nulla di me, della mi vita, del mio vissuto del mio tormento, delle mie parole, delle mie gesta, del mio passato e di tutte quelle volte in cui… Solo adesso mi rendo conto di quanto valevi e di quanto eri importante e quanto ho sbagliato. Se solo sapessi di come vivo, di quello che provo in questo istante. Solo bei ricordi riemergono come un fiore nascente che feriscono il mio cuore come lame taglienti. La tua assenza soffoca di giorno respiro e il mattino per me è sempre fausto. Non immagini nemmeno quante lacrime ho versato in ricordo di tutte quelle emozioni che mi hai donato. Il tuo sorriso, le tue carezze, le tue mani che mi afferravano, e insieme peregrinavamo in lungo e largo senza pensieri senza censure. La tua assenza si inabissa nel mio cuore, ormai una ferita aperta: quella ferita che mi avevi sanato con il tuo semplice sorriso, con il tuo tenero calore, unico in tutta la tua natura. Ma adesso, che senso ha tutto questo? Il mio pianto, le mie urla in questa tacita notte, sono solo misere foglie al vento… Mi addormento, sperando che all’alba del nuovo giorno ti ritrovo accanto a me, che mi afferri la mano e mi sollevi da quest’incubo, ripercorrendo quella strada che volge all’orizzonte. Non più solo, non più nell’assenza di te, ma solo alla tua presenza. Andrea Borrelli Un re ligio Per quanto mi riguarda Credo che potrebbe starci dentro Tutto il tempo Per tutto il tempio che sia Non scherza mai Per quanto Esista il figlio del figlio L’ Io d’io Per tutto quello che riguarda Nel tempo Mi auguro Che sia vuoto il tempio. L'attesa Per la settimana in corso il tema è L’attesa, intesa come attesa di qualcosa, qualcuno, di un evento o di un giorno particolare, se vogliamo in stretta relazione col tema precedente, in cui il “soggetto” mancava, qua sappiamo che è in arrivo. Qua aspettiamo che si compia il “qualcosa”. E noi stiamo già aspettando le creazioni della fantasia e delle tastiere degli amici autori, che si stanno prodigando nell’elargire attese a piene mani, speriamo di doverli solo attendere e non segnare fra gli assenti. Monica Pasero Attesa di un esordiente Attendo da sempre qualcuno che credi in me, in ciò che scrivo, qualcuno che mi voglia davvero dare una mano a realizzare il mio sogno, quello di diventare una scrittrice. Attendo una casa editrice degna di portare questo nome. In questi anni con l’ esperienze vissute,ho capito che per molte di loro io come tanti altri di voi ,siamo solo euro tintinnanti per le loro tasche. Di ciò che scriviamo gliene importa davvero poco. Il talento non premia, la passione neppure è triste ma è cosi . Vengono premiati i volti noti della televisione e i portafogli imbottiti. Questo non è giusto, non lo è davvero. Quando mi imbarcai in questo mondo e mi arrivarono le prime proposte mi sentì miracolata, ma allora conoscevo davvero poco l’editoria italiana e pensai di essere davvero brava, se volevano pubblicare il mio libro. Compresi presto che se avessi mandato la lista della spesa insieme ad un assegno avrebbero pubblicato pure quella. Con amarezza continuo ad attendere la casa editrice che farà la differenza, forse solo più una chimera, ma esisterà ancora una casa editrice che pubblica il talento e non il tuo conto in banca? .Tanti gli specchietti per l’ allodole per noi poveri insicuri esordienti, che ci facciamo abbindolare da belle parole sui nostri testi e dal terrore di non trovar di meglio accettiamo per poca sicurezza nelle nostre capacità. Un messaggio è il mio per tutti gli emergenti, parola d’ordine ATTESA! Non facciamoci fregare deve vincere il TALENTO in questo mondo di speculazione un editore serio ci sarà, lo troveremo per cui aspettiamo! In attesa… In attesa da sempre ricerca la sua anima latente La sente così forte da percepire la sua presenza Respirare il suo profumo che sa d’amore e di pazienza Cercarla in ogni sguardo , che incontra nel suo viaggio Illudersi per un attimo che non sia solo miraggio Bramare il suo ritorno Che le restituirà la vita Pregare ogni giorno che l’attesa sia finita L’attesa ritorna… Odi anche tu, questa musica lontana? Ascolta il suo canto che invade la tua anima dolce e melodiosa ricorda, che è il tuo momento. Profezia di note, inneggia il tuo tormento. Speranze risorte dopo anni di torpore risuonano oggi tra Anima e cuore. L’ Attesa ritorna è tempo di ascoltare questa dolce melodia di una vita ancor d’amare. Andrea Borrelli Ciao L’ attesa sa di te tesa all’ attimo che sfugge il tempo ferma come l’ asta di una bandiera al vento lacrima l’ aria calda intorno il vapore alla sorpresa che dissolve in essa ma è ghiaccio rosso l’ interminabile aspettar ancora di una parola detta che muore dietro al suono della tua bocca che maledettamente resta. Nadia Milone Cos’è l’attesa? Cos’è l’attesa? Oggi non mi tolgo dalla testa questa domanda. Una speranza, forse, che tutto ciò che desideriamo si avveri. E allora aspettiamo. Si aspetta e si spera in un miracolo. Ma nel frattempo? Stiamo lì, a sognare ad occhi aperti. E se poi il nostro desiderio non si avvera? E se attendiamo invano qualcosa che non arriva e non arriverà mai? Come gestire, a quel punto, la paura e il vuoto che ci rimane? A volte, si attende qualcosa anche se si sa perfettamente che non lo si potrà avere mai, eppure non si riesce a lasciar andare il sogno. E’ anche questa una forma di masochismo, mi sa… Eppure si sta lì e si aspetta. Ci si rigira nel letto senza prendere sonno, poi ci si alza, si va alla finestra e si insultano persino la luna e le stelle, nemmeno fosse colpa loro se stiamo aspettando qualcosa di irrealizzabile. Ma sono le uniche che ascoltano il nostro sfogo senza replicare, quindi va bene così. Poi si ritorna nel letto e ci si sfoga con il cuscino… Eh sì, proprio una gran bella cosa, l’attesa. Ma come ci si può rassegnare e smettere di aspettare qualcosa che desideriamo da morire? No, non è possibile. A volte, si da volutamente un calcio alla razionalità e si ascolta solo la voce del cuore, non si può fare altrimenti. E nell’attesa si pensa, si sogna, si fantastica e, a volte, si piange ma sempre si spera ed è proprio a questo che bisogna attaccarsi, se non si vuole sprofondare. Non bisogna lasciar andare un sogno soltanto perché difficile da realizzare o, magari, perché c’è troppo da aspettare. Se davanti a noi si presentano degli ostacoli, forse è giusto dimostrare di essere in grado di affrontarli e superarli per raggiungere ciò che vogliamo. E allora non arrendiamoci a sopravvivere, ma lottiamo per vivere e se questo vuol dire aspettare… aspetteremo! In perenne attesa C’è sempre qualcosa di incredibilmente magico, nell’attesa. Sogni, speranze e desideri si fanno spazio nella mente e nel cuore, un turbinio di emozioni che invade tutto il mio essere. E così, mentre attendo un messaggio o una chiamata, la mia mente è già altrove. Sta già pensando a cosa succederà, alle parole, alle emozioni, quasi le stessi vivendo in anticipo. Ammetto di essere una persona un tantino ansiosa, forse la pazienza non è una mia virtù, visto che quando sto aspettando un messaggio importante, friggo letteralmente davanti al telefono o al pc… Avete presente quel momento in cui invii un messaggio e poi, mezzo secondo dopo, inizi a pensare di essere una stupida, mentre controlli tremila volte se ci sia già una risposta, o peggio, quando non lo invii affatto e controlli ugualmente, nella speranza di trovare quella piccola bustina illuminata? Ecco, a me succede quasi tutti i giorni… E aspetto, aspetto che arrivi quell’attimo di felicità che illuminerà la mia giornata. Piccole attese che mi fanno di nuovo sentire viva, ho ricominciato a provare emozioni che si erano spente da tempo, consumate dall’abitudine e dalla monotonia di una vita ormai piatta e scontata. Ma ci sono anche attese che, oltre a far sognare, lasciano un pizzico di amaro in bocca. E sono le attese per le cose che si teme di non riuscire a realizzare, ma che si vorrebbero di più al mondo. Quell’attesa in cui ripongo tutte le mie speranze più nascoste, tutti i miei sogni forse irrealizzabili. L’attesa di quel momento in cui, finalmente, il mio sogno potrebbe diventare realtà. Speranza inutile, forse, ma non voglio smettere di sperare e di aspettare. Perché se si lascia morire anche la speranza, niente vale più la pena di essere vissuto. Ho smesso da tempo di credere alle favole, da quando in passato qualcuno mi ha fatto capire, nel più crudo dei modi, che la vita non è fatta di sogni ad occhi aperti, che le speranze vengono schiacciate dal peso della realtà e che aspettarsi il lieto fine è assurdo e infantile. Forse oggi dovrei persino ringraziare questa persona, perché io tendo sempre a volare con la fantasia e sognare che nella vita ci possa essere anche qualcosa di bello, mentre forse non è poi così sbagliato rimanere un po’ con i piedi per terra. Se cadi, ti fai meno male… Ma nonostante tutto, malgrado le delusioni del passato, io sono sempre io e continuo ad aspettare la mia rivincita. Non voglio smettere di sperare in qualcosa che potrebbe rendermi felice e rinunciare in partenza. No, io preferisco aspettare e sperare e, se la mia dovesse essere solo l’attesa di un sogno, vorrà dire che, quando mi sveglierò, saprò di aver sognato il più bel miracolo della mia vita. Rossana Roxie Lozzio Fra uno show e l’altro Attendo di rivederti… sotto ad un palco che dovrebbe essere anonimo ma che invece, per me, rappresenta un paesaggio primaverile. L’attesa è cominciata molto tempo prima, in realtà… dal momento in cui ho saputo che saresti arrivato. Da lì, è partita la fibrillazione infantile, quella che non ho nemmeno mai vissuto nell’adolescenza, quella che mi fa sentire viva e felice di esserlo, durante la quale mi occupo di procurarmi il biglietto, la compagnia migliore con la quale prendere parte allo show ed incomincio a pianificare il viaggio. Poi, dopo giorni trascorsi ad aspettare, giungono quegli ultimi, interminabili, sessanta minuti… durante cui mi ritrovo seduta in una platea, più o meno elegante, dipende dalla cornice del posto e mi ritrovo a guardarmi intorno, a studiare le facce che mi circondano, a tentare di pensare ad altro che non sia quello che mi accingo a vivere, a sforzarmi di concentrarmi su quanto mi sta dicendo chi mi ha accompagnato e invece, il cuore batte così forte che ho persino timore che lo sentano i vicini di posto! Le luci si spengono, comincia la musica e una voce ti introduce… da quel momento, m’invade uno stato di pura estasi, precisamente quella mai vissuta nell’età in cui, per chi non è abituato a sognare, dovrebbe essere consentita e che mi fa sentire viva e felice di esserlo. Durante il tempo in cui rimani su quel palco, di fronte a me che faccio sempre in modo di ritrovarmi nella posizione centrale, mi estraneo da tutto e da tutti… nella mente non c’è più posto per i problemi quotidiani, per i dolori che mi hanno colpito nel corso della mia esistenza, per tutto quello che è accaduto nella parentesi di tempo fra lo show che lo ha preceduto e quello a cui sto di nuovo assistendo. Non esisto più per quello che sono stata prima, per quello che sono ora e per quello che mi scoprirò ad essere, quando l’incanto sarà terminato. Poi, inevitabile, arriva la fine… sorridi, saluti, ti congedi ma fortunatamente ritorni, per concederti di nuovo al pubblico che ti ama e che ti riconosce per quel magico istrione che sei. Ancora una volta, però, giunge la fine e per davvero. Le luci – sul palco e tutto intorno a me – si spengono e per me, ricomincia l’attesa. Una vita in attesa di te Quanti colori ha l’attesa, quanti sapori, quante emozioni cela in sé… e quanto può durare, un’attesa? Da una manciata di attimi ad ore, da qualche giorno a chissà, persino qualche anno… e in cosa può consistere e cosa ci può regalare, l’attesa? Può essere un abito differente, anche se non ci rendiamo conto di essere solo noi ad attribuirle più o meno importanza e valore e potremmo attraversarla con leggerezza, se soltanto non ci vestissimo di lei portandocela addosso. Si vive di attese, ci si colma di ansia, di domande, di dubbi e intanto si va avanti e la vita c’invecchia, mentre siamo distratti fra l’attesa di qualcosa o di qualcuno. E’ da tutta la vita che ti attendo, da quando mi sono imbattuta nel profondo scuro dei tuoi occhi e da quando la mia anima ha compreso che non si sarebbe potuta accontentare di specchiarsi che nella tua, così celata e a tratti, molto buia ma colma del sole che è fuori e dentro di te! Ricordo attese drammatiche, come quella che mi avrebbe separato dalla partenza terrena dei miei genitori… ricordo di aver atteso invano, molto spesso, risposte non pervenute, contratti mai giunti a destinazione, promesse che non sono state mantenute e ricordo di essere stata ad aspettare notizie esaltanti che mi hanno fatto saltellare per la gioia, ritorni di amici da viaggi che ci avevano tenuto lontani, che iniziassero concerti per i quali sarei entrata in fibrillazione! Ma è da quando è cominciata l’attesa di te, dopo che ho accettato l’idea che sarebbe stato per sempre e che mai saresti arrivato a colmare la mia esistenza, per condividerla al mio fianco… che non è più esistito niente, nessuno, nessun’altra attesa, anche la più emozionante, che mi abbiano elettrizzato quanto quella di rivederti. Tutte le altre attese sono solo parentesi, più o meno lunghe, che ingannano il mio tempo mentre aspetto che ritorni. Marina Isceri L’attesa L’attesa assorbe il tempo un soffio che si perde tra forti venti, l’attesa di un attimo eterna illusione, un pensiero che possa arrivare dove una mano è ormai distante. L’attesa, di uno sguardo sincero possa sciogliere lacrime di neve in fondo all’anima. Arrendersi dinanzi a questo inganno di attendere che niente, è ormai perduto. Regina Re La componente Sfogli le pagine, lentamente, attenta a non saltarne neanche una. Lettura distratta, limitata alle immagini. I particolari saltano fuori e si aggrappano ai tuoi occhi stanchi di sforzarsi a comprendere le parole. Specchi intorno a riflettere un mondo chiuso in una stanza, cerchi qualcosa tra le tante, non sai esattamente come e dove, sai solo che qualcosa può sempre cambiare le altre. Il rumore diventa più forte, a tratti, nessun fastidio se qualcuno entra e si siede accanto a te. Hai un numero che ti dà la precedenza, non corri alcun rischio, hai un posto, un codice, un colore per ora fisso. I colori sono importanti, dai colori dipendono i codici e dipendono tante altre cose. Ma c’è una componente che abita la zona gamma di una parte di te che non ti è molto chiara. Non ci sono raggi ma catene leggere, in questa regione dove un solo clone è abilitato a produrre plasmacellule fatte in serie. E’ l’unica parte di te che non vuoi conoscere troppo bene. La componente è fondamentale, ti dà un tocco di stile, ti differenzia in qualche modo da quelli fuori questo mondo chiuso. Il tipo di componente ti distingue da quelli dentro, seduti accanto a te. Molti hanno maschere, non c’è smog ma la loro aria deve essere comunque filtrata dalle minacce microscopiche nascoste. Il tuo colore non è importante e non è quello della tinta per i capelli. Per una volta ti senti fortunata a non avere un colore importante, a non avere la precedenza. Non sei tu a darla per galanteria, semplicemente spetta ad altri. Quello più simile al colore che hai in testa si sarebbe abbinato di più alla tua mise ma preferisci non essere coordinata, meno intonata, meno controllata. Dal colore dipende l’attesa. Lo stesso colore che al semaforo ti fa scattare in avanti, qui ti tiene fermo per ore. Fermo a pensare quando sarà la tua prossima attesa. Non dipende mai da te, dipende dal caso, dalla lettura di altre pagine, da numeri, da dati che si preferisce restino invariati. La stabilità non riguarda soltanto la mente, il tuo lavoro, il tuo conto in banca, il tuo rapporto. La stabilità sta anche in quell’angolo del tuo salotto dove un mobile è stato posto ed è lì, fermo, ad aspettare che ogni tanto ti ricordi che esiste. Non è un elemento fondamentale, non ti cambia la vita la sua presenza ma occupa uno spazio, un piccolo spazio dove non puoi metterci niente altro. E’ un regalo, è un cimelio di famiglia, di certo non puoi darlo via. Ma se potessi, preferiresti avere quello spazio vuoto, da riempire con niente che non sia strettamente necessario. Necessaria è l’attesa. La stabilità di una componente è inversamente proporzionale alla quantità ma non è mai certezza assoluta, anche se la certezza non la si ha mai di nulla. I tuoi libri sono custoditi, sei scomposta in dati che speri si ripetano a vita invariati, capitoli monotoni che si aggiungono ormai di rado alla tua storia. La creatività non è la benvenuta in questo salotto. Ci si siede e si aspetta, nell’attesa di qualcosa che mai potrebbe arrivare ma che preannuncia continuamente una sua visita a data indefinita. Elisabetta Bagli La stazione Tremi, scrivi, ti muovi, pensi. Guardi l’orologio, sudi. Arriva il treno. La vedi. Scende, Rossa e nera capelli al vento tacchi a spillo, gonna impertinente, labbra da esplorare È lei. Sì, sono io. Un lampo, un bacio, passione negli occhi, nei corpi vividi. L’attesa è svanita. Ancora un bacio, un altro ancora. Mani ansanti, intrecciate come fili di perle di fuoco ardono nel desiderio che ci consumerà una sola volta, nel nostro eterno segreto. Vago sola Vago sola nella notte oscura, le mie gambe senza meta camminano per il tuo sentiero nell’attesa del tuo sguardo, delle tue braccia intrecciate alle mie, delle tue labbra rosse isole sulle quali perdermi e sentire che il mare che mi viene da te è la vita che ho sempre sognato. Voglio vederti ancora, voglio rimanere tra le tue pieghe e godere del tuo amore eterno. Ti aspetterò anche se non arriverai, anche se già so che non sei mio. Nadia Lattanzi Non c’è più attesa Ho smesso di aspettare. Non ne ho più la forza..continuo ad essere in balia di te. Non va più bene e non riconosco più la persona che si è messa in viaggio. L’attesa è l’unica cosa che noi abbiamo in comune. Tu aspetti che io mi disamori di te. Io aspetto che tu torni quella che eri. Vana, inutile e dolorosa. Ho smesso di aspettare. Gabriele Palumbo Senza tempo Nell’attesa riempio la mia testa di musica, nell’attesa alzo lo sguardo al cielo, nell’attesa cammino, incessantemente cammino, nell’attesa penso, penso a ciò che sarà o a ciò che è stato, nell’attesa penso quanto ancora dovrò attendere, nell’attesa spero… Maurizio Donte Speranza Cosa sarà della speranza, quando l’illusione muore… attraverso gli occhi di chi t’ama risplendi e di ciò ti glorii… avvolta in una nube di malcelata superbia, imponi all’altro la tua presenza. Misero è colui che da te dipende, …o tu, creduta Diva! Passeranno i giorni e avvizzirà la tua pelle: fugge bellezza verso il tramontar del sole, nel vespero si perde giovinezza, creduta eterna. Non più soneran suadenti alle tue orecchie lodi, di tua beltade resterà il ricordo solo ed in tua man raccolto, null’altro sarà che solitudine Angelo Francesco Anfuso Un’attesa da sogno In questo lasso di tempo nell’attesa del tuo ritorno chino il mio capo per abbracciare e farmi cullare dalla docile notte affinché il sonno appagasse i miei sensi. Si eleva il mio intelletto come ali d’aquila verso l’orizzonte scrutando le alte vette del tempo in cui come per incanto ripercorre a ritroso le valli del nostro passato, in cui, cielo e terra si sfiorarono in quell’abbraccio stretto duraturo e saldo. Nell’attesa del tuo ritorno rivivo l’emozione di quei teneri ricordi in cui varcammo i limiti della natura. Sfidammo le sue leggi in cui, per grazia o per condanna ci gettammo tra le braccia di quel dio, il quale, oramai, non teme nulla dinnanzi all’onnipotenza di quel sentimento che nel segreto di quella beata notte mi rivelasti. Forse casto, o forse impuro, agli occhi della misera cecità umana, come stella nascente portò alla luce il candore della sua essenza. L’attesa si fa sempre più forte diventa una forte brama per i miei sensi, forse, un desiderio da realizzare fame da saziare ansia da sedare o forse, come un pezzo di pane da sudare o forse… Mi appanna un po’ i sensi, l’attesa, forse non comprendo. Sento il tuo profumo il tuo calore il tuo respiro la mia mano che afferra la tua il tuo corpo tanto lontano ma così vicino. Il tuo brivido aleggia sulla mia carne. le nostre affinità sono sempre più elevate: sensazioni uniche nel suo genere inappagabili nella loro grazia maledetti per la loro natura. L’attesa si quieta svanisce come soffio al vento o come un’ onda vibrante che si espande all’orizzonte. Diventa mansueta in tutto il suo splendore. Come per volere prendo coscienza dell’amore che mi doni in questi momenti di attesa del tuo momento, o mio tutto! Ecco, è giorno ormai! Apro gli occhi e vedo il tuo corpo disteso il tuo capo chino sul mio le tue braccia sul … Tu, luce su ogni cosa tu, calore che mi rischiara tu, ristoro del mio animo tu, attesa che svanisce. Nei miei sogni ti ho atteso e in essi hai preso forma e sostanza assenza e presenza angoscia e sicurezza ansia e calma buio e luce morte e… (adesso respiro) vita! In te si è colmata ogni attesa in cui si limita l’eternità in cui si calcola la distanza del tempo. in cui… tutto è concesso. Solo in questo luogo in cui il mio cuore attende, tra le tue braccia, giungo a verità. L’attesa è svanita o forse, non c’è mai stata… La lussuria Il tema invece per la settimana a venire sarà un po’ più acceso e meno statico, difatti il gruppo ha scelto il preferito fra i sette peccati capitali proposti, ne è uscito La lussuria. Per cui immagino ci troveremo sotto gli occhi pezzi piccanti, bollenti sensuali e peccaminosi. Lasciamo quindi ai nostri autori la libertà di esprimere i propri punti di vista sul mondo della sensualità in ogni sua declinazione, sia lussuria da vivere, vissuta o passata, quello della settimana sarà un argomento su ci confrontarsi con spregiudicatezza e fantasia. Amici del girone dei lussuriosi, state in contatto perché se ne leggeranno delle belle! Glory Accoglimi Nuda innanzi a te priva di ogni vergogna, manchevole di quel pudore che da sempre celava le mie insicurezze Oggi, qui innanzi a te amore mio, non ho maschere, né veli e mi mostro nelle mie fragilità più intime. Accoglimi così, con i miei difetti, con il mio corpo imperfetto, marchiato dal tempo che muta e trasforma il mio involucro, ma la donna che in me vive ancora come un tempo. Le sue passioni segrete ancor attendono d’essere appagate e sotto anni d’annullazione, giace trepidante, bramando di rivivere ancora quel tripudio di sensi che accomuna da sempre un uomo e una donna rendendoli schiavi dei loro istinti. Due corpi nell’estasi del momento in quell’istante eterno, dove sensi e passioni si mescolano dando vita all’unicità dell’essere umano di donar se stesso in quel meraviglioso gioco di carne e anima chiamato Amore. E io qui innanzi a te, in questa notte dove la vita incontra la morte, dove tutto è stato e tutto deve ancora giungere, Io qui bramo il mio bisogno ancor una volta, ricerco la vita nel estasi dell‘amore. Oliviero Angelo Fuina Cunnilingus da: “Vocali in apnea” Pieghe segrete solcherò lieve scivolando nel tuo abbandono sarà piuma d’un angelo perso a squarciarti clitoride veglia sulla lama di un netto confine annegandomi senza ritorno Fra suoni ancestrali di risacca immergerò il mio viso nel mare bevendo del piacere le onde increspando lo sguardo nel sale sui dischiusi petali vermigli - umidi a specchiarsi nel riflesso labbra che fagocitano labbra lingua a demolire resistenza ovattati sussurri d’un nome cosce di cera a serrarmi udito - roco tuo scalfire di parole cercando nell’aria le vocali - e graffierai goffa la notte nel feroce inarcarsi dei fianchi annaspando pelvici sussulti fra smorfie disegnate d’apnea - Nel turgido svettare contro il fiato da: “Vocali in apnea” La tonda vocale del tuo cercarmi già catalizza l’umido mio sguardo è offerta di labbra a solcare vene nel turgido svettare contro il fiato; scorrerò sulle pieghe di papille ancorandoti ai capelli le dita spiegherà la tua mano alla ferita di un banchetto, gocciolando gli ardori. Sei guaina ad ogni spasmo deglutire affermando dislessica col capo corsa finendo nei baci al mio ventre celandomi alla vista la tua brama. Mani a ghermire glutei in contro canto donando del respiro il ritmo al corpo mentre i tuoi seni premono ciliegie coscia che incidi in turgido sfiorare. Monta marea nel lago dei sussurri mentre la lingua peripla la vetta guance scavate a contenere guizzi nell’esplosione calda a dissetarti. Simulando l’impronta del tuo corpo da: “Vocali in apnea” È ancora il tuo biancore immaginato ad arruffare voglia a inturgidire è lento il mio crollare alle carezze raccontando le tue curve alla pelle; inarco il fiato caldo al desiderio simulando l’impronta del tuo corpo stringo scettro in assenza di regina a stirare le mie vene già gonfie; affondo il movimento a denudare la cupola vermiglia dal prepuzio mancanza che travesto di piacere battezzando la mano col tuo nome; nel ritmo si frantumano vocali e monta inarrestabile marea singhiozzo quest’inganno nella notte che orfana riplasmo nei pensieri. - dentro l’apnea di un illuso sussulto - Andrea Borrelli Luce Camminare il lusso di camminare veder le cose bene attento a prendere con calma il bisogno di osservare. Passeggerei per descrivere nella mente. Non cerco correre troppo veloce sobbalzerei i particolari importanti. Stare fermo non mi aiuta. Neanche. Per più di un passo alla volta non andrò veloce ma svelto. Nadia Lattanzi Respiro ….e se respiro poco è solo perché tu sei lontana…quando ero con te l’aria entrava nei polmoni ed io non dovevo guidarla in nessun posto..lei sapeva la strada… …e se non fosse amore si sarebbe persa..avrebbe vagato nel mio corpo senza dare vita al mio respiro… Regina Re Scomponiti E chi non compra un vino per l’etichetta, un paio di scarpe per il tacco ed una donna per il suo culo? E’ un lusso diciamocelo, l’esagerazione concessa all’occhio, una lussazione dell’oggetto, la visione parziale di zone buie illuminate. Il resto è noia e ripetizione, un fritto misto dell’interezza, un corpo scomposto, ad ogni parte un numero. Il più alto al centro. Calamita mi tiri, quattro frecce, ferma la macchina che fai il botto. Non ti specchiare che ti puoi vedere. Non guardarti negli occhi, occhio è confronto che non reggi. E’ un lusso che non ti puoi permettere. Sentiti vivo in questo istante, quando freccia e croce sono simboli di corpi diversi. Una concentrazione di organi. Il sole in un pozzo di gesti e movimenti. E più sei pieno di vuoto e più ti svuoti riempiendo. Vola farfalla, vola e lasciati ammirare Che la polvere si perde in un battito di ali La scala buia che va in cantina Tema prossimo venturo, sempre votato dagli autori del gruppo fra gli altri temi proposti, è “La scala buia che va in cantina“. Tema che può essere inquietante ma non necessariamente deve esserlo. Può anche essere interpretato in modo simbolico e/o onirico. Speranzosi stavolta di raccogliere un maggior numero di composizioni, chissà cosa troveremo su quei gradini e magari, anche nella cantina? Sorprese o timori? Cosa penseremo, spereremo o ricorderemo scendendo? Cosa creeranno con la loro fantasia questi inarrestabili scrittori, lo saprete la prossima settimana, per adesso tutti a leggere (o a scrivere). Monica Pasero La scala dei ricordi Passi lenti i miei, scanditi ad ogni battito di cuore avanzano verso il passato. Con calma innaturale scendo giù per la lunga scala. Quanto tempo è passato penso. Discendo lentamente quei gradini, dimentica del perché io sia qui solo ora. Il buio avvolge ogni mio senso. Tutto intorno a me non ha contorno, il nulla ne fa da padrone anche se è sol mascherato, basterebbe un’imposta aperta, una luce fioca per svelare e far fuggir le mie paure, riportando ogni contorno alla sua realtà. Ora però quel nero tetro ricopre ogni cosa e luce non v’è in questa mia discesa. In fondo nell’oscurità si celano ricordi d’anni lontani, mi abituo al buio ormai dentro e fuori me, l’udito e l’olfatto mi indicano la strada. I gradini scricchiolano al mio passaggio un inquietudine mi vela il cuore, ma profumi dei tempi passati mi trasmettono nuova serenità, riportandomi alla mente quei giorni trascinati via dal tempo che inesorabile non ferma la sua corsa. Profumi di vino, di mosto mi rammentano i giorni di vendemmia, quando la vita s’inebriava di valori e gli occhi dei mie cari s’illuminavano di gioie genuine donate dal duro lavoro. Proseguo, ma sbatto contro qualcosa. Un dolore sordo pulsa sulla mia caviglia, afferro il colpevole di tutto ciò un barattolo si è un barattolo intravedo a malapena il tappo è una vecchia composta, con le mani sento la polvere che lo ricopre e l’odore forte di muffa che lo avvolge. Ripenso a mia nonna nel suo sbucciar con pazienza la frutta e poi il profumo che aleggiava in quelle liete ore, dove ancor bambina vivevo la serenità di quei tempi. La mia discesa volge al termine, presto sarò giù da quella buia scala, potrò cercar l’interruttore che illuminerà ogni mio ricordo, anche l’ultimo gradino è fatto, ecco premo il tasto ed una vecchia lampadina illumina la cantina dei nonni. Quanti ricordi, gli occhi si riempiono di gioie dimenticate. Mi rivedo con i mie codini il buffo abito a fiori e mani che stringono le mie mani rugose e vive più che mai quelle dei mie nonni. Elena Grifoni Le scarpe viola Potrei continuare ancora a cercarle ma, a questo punto, avendo ormai guardato ovunque, non sono affatto sicura di riuscire a trovarle. Ho praticamente messo a soqquadro la mia vecchia cameretta buttando tutto all’aria quando mia madre, forse disturbata dal rumore, si affaccia alla porta e con un tono fra il sorpreso e il seccato esclama: “Ma si può sapere cosa stai combinando?” Emergo da sotto il letto e rispondo “Sto cercando le mie scarpe viola. Sai quelle con il tacco alto e le decorazioni in Swarosky? Quelle del compleanno! È la tradizione!” “Ah quelle… credevo che le avessi portate via quando ti sei trasferita” “Mamma, lo sai benissimo che non è così! Quelle scarpe sono sempre rimaste qui, in questa stanza, e precisamente in una scatola nera sulla mensola dell’armadio; e adesso sono sparite! Tu hai idea di dove siano andate a finire?” “Scatola nera hai detto? Ah, quella… L’ho messa giù in cantina insieme ad altre cianfrusaglie di tuo padre, per fare un po’ di spazio.” “Cavoli mamma! In cantina? Adesso vai e la recuperi!” rispondo seccata. “Ma neanche per idea, se vuoi quelle vecchie scarpe te le vai a cercare!” Detto questo si gira ed esce senza nemmeno aspettare una mia risposta. -Giù in cantina… vale a dire perdute per sempre!- penso mentre cerco di ricordarmi la disposizione degli spazzi nel grande seminterrato. L’estensione è praticamente quella della casa ad eccezione del locale caldaia e della lavanderia che sono separato e da cui si accede da una scala esterna. Alla cantina invece si arriva da una ripida scaletta di legno e da una porticina bianca in corridoio poco distante dalla cucina. Ho sempre odiato quel posto umido e buio, pieno di cianfrusaglie accumulate negli anni, in cui mia madre mi metteva in castigo quando ne combinavo una davvero grossa. Tutti i miei giocattoli, prima o poi, andavano a finire la dentro e, irrimediabilmente, sparivano per sempre. Con gli anni lo spazio si è via via ristretto, invaso da mobili e suppellettili per la casa sostituiti con dei nuovi o più alla moda, ma mai gettati perché “non si sa mai”. Ora anche le mie adorate scarpe viola, quelle che indosso sempre, senza eccezione, in occasione del mio compleanno, sono state fagocitate dalla famigerata cantina. “Eppure lo sapevi che sarei venuta” grido a mia madre dal piano di sopra. “Ti ho chiamato ieri apposta per dirtelo” “Dirmi cosa?” risponde lei da sotto. “Dirti che oggi sarei venuta a prendere le scarpe” “Quali scarpe?” – Ma allora me lo fa apposta! – penso. “Quelle che hai esiliato in cantina!” urlo arrabbiata mentre scendo le scale. Nessuna risposta. “E va bene, vorrà dire che scenderò giù a cercarmele…” “Ecco brava” dice lei passandomi davanti mentre si dirige verso il salotto. “Ma non buttare tutto all’aria anche laggiù!” aggiunge poi con aria seccata. Sto per esplodere, ma riesco, con un respiro profondo, a mantenere un discreto autocontrollo. Mi incammino lungo il corridoio in direzione della cucina. Eccola lì, la porticina bianca tanto temuta. La maniglia oppone un po’ di resistenza, forse a causa del poco uso, e quando riesco finalmente a sbloccarla la porta si apre emettendo quel sinistro cigolio che ho sempre associato a case di fantasmi e film dell’orrore. – Ecco, non avrei dovuto pensarci – mi dico mentre un soffio di aria gelida proveniente dallo spazio buio davanti a me mi fa rabbrividire. Apro totalmente il battente appoggiandola contro il muro del corridoio per avere un po’ di luce mentre scendo quei quattro gradini che mi separano dall’interruttore. Devo stare attenta a dove metto i piedi perché la scala non solo è ripida ma ha anche i gradini belli stretti. Ne scendo un paio, anche questi molto scricchiolanti e cedevoli sotto il mio peso, cercando di posizionare i piedi in diagonale e appoggiandomi al muro con una mano per non perdere l’equilibrio. Mi sto sporgendo per raggiungere l’interruttore quando vedo che il cono di luce proveniente dal corridoio si riduce velocemente fino a che, con un sonoro tonfo, la porticina alle mie spalle si chiude lasciandomi completamente al buio. Un’imprecazione mi esce spontanea solo per perdersi nel vuoto davanti a me dandomi l’illusione di trovarmi in una caverna. Fortunatamente dopo un minuto i miei occhi si abituano un po’ all’oscurità e riesco a scendere, trattenendo il respiro, i due scalini che ancora mi separano dall’interruttore. Individuo al tatto la placca sul muro e torno a respirare. – Ok sono salva – penso mentre spingo il bottone e mi aspetto di vedere la luce. Niente. Per esasperazione più che per convinzione spingo il bottone più volte sperando che così facendo cambi qualcosa. Corto circuito o semplicemente lampadina fulminata che mia madre non si è preoccupata di cambiare? Ok non importa, c’è una torcia elettrica nel cassetto di cucina, salgo a prenderla e magari, già che ci sono, prendo anche una lampadina nuova. Risalgo gli scalini inciampando evitando per un pelo la caduta schiacciandomi contro il muro, ma una volta arrivata alla porta mi accorgo che manca la maniglia. “Hai tolto la maniglia?! Ma sei impazzita?” grido a mia madre sperando che mi senta. “Mamma! Non posso uscire” grido ancora battendo sulla porta per attirare la sua attenzione. Poi accosto l’orecchio per sentire eventuali rumori. Niente. Silenzio totale. – Quando esco da qui giuro che la uccido! – Cerco di calmarmi, devo trovare una soluzione. Esploro al buio la porta con le mani e mi accorgo che c’è una serratura vecchio stile; allora mi ricordo che in fondo alle scale c’è una bacheca con attaccate ed etichettate le chiavi di tutte le porte di casa! E di sicuro c’è anche quella della cantina, e nel cassettone poco distante c’è una scorta di candele. – Per fortuna ho sempre con me il mio fidato accendino… – Faccio un respiro profondo e l’aria umida di muffa mi pizzica il naso facendomi venir voglia di starnutire. Lancio un altro colpo alla porta più per rabbia che per altro e poi di nuovo giù, un passo alla volta, appoggiandomi al muro, cercando a ogni passo di far aderire bene il tallone alla parte posteriore dello scalino per non rischiare di scivolare e farmela tutta a rotoloni. A ogni gradino la scala scricchiola sempre più sonoramente. – Me la ricordavo più corta, adesso sembra senza fine… – non so proprio come orientarmi immersa nel buio e nel silenzio, rotto solo dai gemiti del legno e dallo strusciare della mia mano sul muro; non riesco a capire quanto ho già percorso né quanto manca alla fine. Man mano che scendo la parete si fa più fredda e ruvida. Poi il piede incontra una superficie più solida, ecco il pavimento; sono arrivata in fondo alla scala, finalmente! Mi sento la brutta copia di un mimo mentre con entrambe le mani appoggiate al muro lo percorro a tentoni in cerca della famosa bacheca. La trovo, tocco le chiavi appese e realizzo che al buio non potrò mai riconoscere quella della cantina. Continuo allora il mio percorso verso il fondo della stanza in cerca del cassettone e delle candele. Dopo qualche passo sbatto contro una libreria che ostruisce il mio cammino; cerco allora di camminare scostata dal muro. Adesso sì che sono disorientata… mi sembra di fluttuare, a braccia tese come un funambolo, su un ponte sospeso! D’un tratto mi blocco. Sono sicura di aver sentito un rumore: un movimento strascicato proveniente dal centro della stanza. Poi, una sorta di respiro. C’è qualcuno che sta respirando qui sotto… e si sta muovendo! D’istinto indietreggio solo per trovarmi a sbattere di nuovo contro la libreria provocando un piccolo sbuffo di polvere e la caduta di qualcosa dal ripiano più alto a cui fa eco un risolino soffocato. Sempre con le spalle incastrate fra gli scaffali cerco freneticamente qualcosa con cui difendermi, ma prima che io riesca ad afferrare un oggetto qualsiasi improvvisamente la luce si accende lasciandomi, per qualche istante, abbagliata e disorientata. Poi, un grido mi fa sobbalzare “Sorpresa!!!” Con il cuore in gola sbatto gli occhi più volte per riuscire a mettere a fuoco il gruppetto di persone che, sorridenti davanti a me, agitano le mani e gli striscioni di auguri. Ancora un paio di secondi per capire che quei pazzi dei miei amici con la complicità di mia madre, mi avevano organizzato una festa a sorpresa per il mio compleanno. “Ma siete tutti impazziti? Mi potevate far venire un infarto!” Esclamo mentre tutti mi si avvicinano per farmi gli auguri. “Grazie di cuore, ragazzi, questa proprio non me l’aspettavo… ma state pur certi che prima o poi ve la farò pagare!” Regina Re Master Dei Se ne stava silenzioso alla sua scrivania. Quella mattina i corridoi erano disabitati. Circa 30 minuti d’anticipo sull’orario d’entrata sono una gran conquista per chi vuole evitare il traffico della strada e dei corridoi. Le macchinette del caffè ad ogni piano erano come i caselli dell’autostrada. Era obbligato a fermarsi e a pagare, non per il caffè, ma per ogni “buongiorno” che era costretto ad elargire senza alcuna generosità. Il caffè non lo beveva, per presa di posizione, per non mischiarsi con chi gli offriva una possibilità ogni mattina per scambiare quattro chiacchiere che poi sarebbero state tramutate in quattro frecce. Non quelle della macchina che varca il casello. Quelle che varcano i confini della sopportazione umanamente concessa. “Non c’è amicizia intorno alla tua scrivania”, si ripeteva, ogni volta che rifiutava l’ennesimo invito. Le possibilità le aveva scartate tutte e quindi aveva cestinato anche il caffè e la pausa pranzo. Possibilità che non erano per lui ma per altri. Momenti ludici per spezzare la triste quotidianità di chi si annoiava e aveva trovato in lui un gioco divertente da portare avanti. Un GdR, un Gioco di Ruolo che dal tavolo si era spostato nel vivo delle coscienze senza nome ma con mille facce. Chi avesse posseduto una quantità discreta di coscienza, si sarebbe rifiutato di giocare e si sarebbe opposto alle regole dettate dal Game Master. Ma nessuno ne aveva più di coscienza. Tranne lui. L’ambiente immaginario, le schede personaggio erano tutte studiate di modo che Alex avrebbe avuto un solo ruolo: quello di chi doveva essere fatto fuori dal gruppo. Era lì da 30 minuti a ripercorrere la storia delle sessioni di gioco che si svolgevano da un paio di anni ormai. Ci si era trovato per caso ed il caso, in questi casi, è sempre uno sbaglio. Aveva accettato l’invito per un caffè, dopo la pausa pranzo. Era nuovo in quell’azienda e gli era sembrato un buon modo per socializzare. Aveva accettato l’invito da una delle pedine del Master. In pochi minuti al Master erano arrivati i suoi dati e Alex, non appena tornato alla sua postazione, aveva ricevuto una mail. Il mittente era semplicemente: “Master”. Aveva aperto pensando che fossero le solite password dell’I.T. Si era trovato davanti ad uno schermo nero con una scritta rossa al centro: “Security Instruction”. Aveva cliccato sulla scritta convinto che fosse una maniera originale per istruire il personale nuovo e non si era minimamente reso conto di aver varcato la porta dell’inferno. Del resto la vita è un gioco manovrato dall’alto e che differenza volete che faccia un gioco manovrato dal basso? Il basso di un edificio che non è abbastanza alto per sfiorare il primo strato di cielo ma che dona ai suoi abitanti la continua promessa di arrivarci. Alex aveva giocato la sua prima partita tra applausi e sorrisi e aveva preso i suoi punti guadagnati con di gioco. Il gioco consisteva nel far fuori un dipendente a caso scelto dal Game Master. Si era anche divertito a seguire le istruzioni: “Stampa l’allegato che hai appena ricevuto da Drago 7, Recati presso l’ufficio B16 , 3’ piano e consegnalo dicendo che il documento te lo ha appena consegnato l’autore stesso!”. Soltanto il giorno dopo era stato chiamato dai piani alti e aveva ricevuto una promozione accompagnata da un cerimoniale di elogi per aver consegnato un documento che incastrava l’autore stesso. Era un falso e lui lo aveva capito soltanto quando gli era stato detto: “Non vogliamo neanche sapere come ci sei arrivato. Ciò denota una grande intelligenza e una devozione particolare alla tua azienda”. Stordito era tornato al suo posto. Una nuova mail, nuove istruzioni, un nuovo nome, un nuovo bersaglio. Da quel momento aveva cominciato a cestinare le mail ma lo schermo continuava ad aprirsi e richiedeva di cliccare sulle Istruzioni. Pertanto aveva pensato di ingannare il Master e aveva cominciato a far finta di giocare. Ma alla fine di ogni partita veniva chiamato a fare i conti con qualche pedina. Aveva stravolto le regole, aveva creato un nuovo gioco dove ogni giocatore ormai riceveva soltanto il suo nome. L’entità del miglioramento dei suoi personaggi era improntata su tattiche d’astuzia, l’unica arma pulita che gli veniva concessa dal Master. Il Master offriva potenti mezzi ma in cambio voleva pezzi di cervello virtuale. Voleva sostituire le parti di cervello attivo con parti di cervello passivo. In cambio avrebbe dato dei bonus a seconda dell’ambientazione del giorno: fiaccole, clave, lance, coltelli, sassi, fucili, pistole, mitra, veleni, bombe. Ma lui i bonus non li aveva mai accettati. Erano passati due anni e in due anni aveva superato il limite, era sopravvissuto a tutti i tranelli, aveva superato impossibili livelli. Quel giorno era lì a studiare. Avrebbe voluto un’arma invincibile per abbattere il cervello che governava quel gioco, per dar fuoco ad Outlook e a tutte le macchinette del caffè e a quella fottuta sala mensa dove nel vassoio ti servivano trappole per primo, secondo e contorno. Al dolce Alex stava già vomitando e la bottiglietta dell’acqua se la conservava sempre per il dopo. Mail. Nuovo messaggio. Ore 08.30. Prima nessuno era abilitato a giocare. Apri. Schermo nero ed una scritta “Canteen”. Entra. Altra scritta: “Menu”. Si ricordò di quella volta, circa due anni prima, mentre andava a mensa e un tizio gli aveva chiesto in Inglese “I’m sorry, where is the canteen?”. Forse l’emozione, aveva capito “cantina” e gli aveva indicato un ristorante che aveva una cantina e che si trovava proprio nella zona industriale. La barra menu aveva una sola opzione. Aveva cliccato e si era trovato una scala in 3D, nella penombra era apparsa una busta che conteneva le Istruzioni. L’aveva aperta. Un solo imperativo: “Go down stairs”. Era sceso e alla fine della scala aveva trovato una scrivania ed un PC. Il PC era in Stand by. Aveva mosso il mouse e si era trovato lo schermo nero con al centro una scritta rossa: “Welcome to the Mob Island”. Una risata era schizzata fuori dal PC e si era piantata proprio lì, sulle sue labbra. Oliviero Angelo Fuina P(r)oesia a scalare Strano, ma sono rilassato. Il respiro si è fatto più profondo e lento. Ci siamo. Lo sento. Non resta che contare decrescendo. Dieci è un buon punto di partenza e già il nove è un gradino più sotto, mentre all’otto il silenzio è già più denso. Sono solo oramai sulla mia scala. Il sette mi distacca ulteriormente dai consueti rumori ormai lasciati. Il sei è quasi un punto esclamativo di una affermazione mai troppo scontata. Cinque mi ricorda che il ritorno è distante, come in basso parimenti è la meta. Quasi è apnea senza alcun sforzo, la pausa di un respiro con l’altro. E scendo per mia scelta nell’oscuro richiamo del quattro. Ovattato è l’altro passo mentre il tre è già gradino che calco. La cantina è ormai vicina, ricordandomi di sguardo a comando. Il penultimo conteggio mi avvicina a questa meta, imposta, di partenza. Ecco l’uno di altri numeri a svanire, mentre il nero che mi è noto, avvolge. Sceso al piano più interrato, lo scopo del mio viaggio è il respiro. E’ vasto come il nulla, il buio. Allungo la mia mano ad esplorare. La maniglia curva le mie dita. La porta dei segreti si rivela. Questo è il punto di retta senza fine, questo è varco che mi impongo di aprire. Ferisce gli occhi abbaglio che fuoriesce. E’ luce d’incredibile candore; l’essenza mia più vera scaturisce. E’ questo il lampo che mi definisce. Adesso posso infine ritornare, scalando fino al dieci la coscienza. Molto ancora deve dirmi l’ipnotista! Straniero in casa da “Blocco note” Io che abito il mondo in ospitale inganno sono straniero in casa quando non sono solo. Abito a fondo: i silenzi delle mie grida, i solchi d’inchiostro sulla terra dei fogli, le spirali di fumo a tossirmi sul viso e le pause pensanti fra coppie di aggettivi; lancette piegate all’illuso Levante, gli appesi calendari dai giorni prenotati, le parole di getto da rileggere a conferma e ciabatte alla deriva sotto i piedi. Io sono quello che si adagia incurante tra le matite sparpagliate nei colori - da chi vive urgente prima che io nasca e giocosi incastri di plastica a riposo; nei rassicuranti chiarori a basso consumo e borse che sbadigliano nel sonno d’altri; nei libri spalancati a promemoria e schermi spenti che riflettono il mio viso. La poetessa russa di una sera in prestito palesa ogni mio limite, in cirillico e tradotta, mentre il pianoforte di Einaudi di poc’anzi era sprone al mio contro suonare la penna ed io che voglio scrivere il mondo abitando ogni casa abbandonata non trovo il passaporto di un respiro per varcare in domicilio le mie mura. Rossana Roxie Lozzio Quelle scale di sottile angoscia Non ho mai amato quella scala di cemento che portava in cantina ed ogni volta che ho dovuto percorrerla, da bambina, mi sono fatta del male… dentro. Non c’era nulla che mi piacesse, là sotto… c’erano ragni, poche lampadine che, quando funzionavano, finivano comunque per spegnersi a causa di uno sciocco automatismo che aveva impostato colui che aveva creato l’impianto di illuminazione degli scantinati del piccolo condominio, in cui abbiamo abitato per la manciata di anni che ci hanno visti insieme, come famiglia e c’erano odori che, nella maggior parte dei casi, non mi solleticavano le narici ma mi suggerivano di fuggire lontano. Eppure era anche là sotto che avevi impostato il tuo regno, era là dentro, in quella piccola cantina abbinata all’appartamento che avevi preso in affitto con il sogno di costruirti una bella famiglia, che esisteva il tuo piccolo ma enorme mondo. Lì avevi riposto tutte le tue passioni, la creatività che eri costretto, per una serie di circostanze che ti furono avverse, ad accantonare spesso… così come in cantina si è soliti accantonare oggetti che danno fastidio o che non sappiamo dove altro potremmo mettere. Se ripenso a me che scendo quei gradini, è a te che non posso fare a meno di pensare… ogni ricordo della bambina paurosa che si lasciava convincere a percorrere i gradini di quella scala illuminata a tempo – a meno che qualcuno non si offrisse di restare a fare da sentinella al dispettoso interruttore posto sulla parete in alto – è legato al padre che ho vissuto solo per una manciata di anni e che ha rappresentato il vuoto della sua assenza, anche prima che lasciassi questa Terra, per tutto il resto della mia esistenza. Mi viene in mente il tuo lavoro, mentre facevi il vino, davanti a quell’enorme damigiana e il sorriso che portavi dipinto sulle labbra, trafficandoci intorno, perché probabilmente ti faceva sentire abbastanza bravo da poter provare orgoglio e mi vengono in mente la tua macchina per scrivere e le tue dita che picchiavano nervosamente sui suoi tasti, dopo i continui ripensamenti che ti facevano pensare di averla risposta lì per sempre… e ancora tutti i tuoi scritti, su quei quaderni antichi posati sulle mensole, i tuoi componimenti musicali, i testi disegnati fra le righe del pentagramma! Oggi sono una donna ma mantengo la bambina di allora dentro il cuore e vorrei poterci tornare, sul pianerottolo di quei gradini di cemento che conducevano alle cantine. Vorrei scenderli ad uno ad uno, con la segreta ed intima speranza di ritrovarti, all’ingresso del corridoio che vedeva disseminate le porte o all’interno di quella che era stata assegnata a noi, impegnato a fare una delle tante attività che ti vedevano protagonista. Distante da tutte le brutture che ti hanno accompagnato, fuori da quel piccolo e bislacco mondo incantato. M’immagino la faccia che farei, vedendoti riapparire dall’oscurità di quell’ambiente a me così ostile e sorrido, perché ti ricordo sorridente. Ti amo, papà. Dax Ax Gradini neri Scendo non scendo gradini neri che sanno di morte il buio che graffia rumori di vento malato che corre su per il corrimano ingoio l’orgoglio allungo la manina e pigolo “Mi accompagni?La mia bambola e’ laggiù caduta nel pozzo nero Rotolando per le scale. Le cose che non hai mai avuto il coraggio di dire Tema della settimana è Le cose che non hai mai avuto il coraggio di dire. Tutto un programma. Chissà quante ne verranno fuori di cose mai dette ora che invece i nostri impavidi autori non avranno timore di riportare. Quanti momenti di silenzio, a volte imbarazzato, a volte rabbioso ci sono stati nella vita di tutti. Quanti argomenti, passati sotto silenzio per il quieto vivere. Quanti sentimenti inconfessati e inconfessabili, quante parole, sia d’amore o rabbia o desiderio non sono mai state pronunciate. Quanti peccati tenuti segreti e nascosti. Questa settimana forse si romperanno gli argini e riceveremo rivelazioni, e magari scopriremo lati insospettabili in molti autori che, fantasiosamente o meno, apriranno i loro animi facendo uscire ognuno a modo suo tutte Le cose che non hai mai avuto il coraggio di dire. Rossana Lozzio Al vento e alla pioggia Affido al vento, il silenzioso grido composto dalle due parole che non ti dirò mai e mentre lento e ineluttabile, il pianto scivola dagli occhi per cadere al suolo, alla pioggia lo regalo e lascio siano pioggia e vento a condurle in tua direzione… solo due parole, troppo spesso banalmente utilizzate, che non posso dire guardandoti negli occhi: ti amo! E dopo averle sussurrate, con la forza di un urlo prepotente, resto ad osservarle volar via, mentre sospiro e mi domando… chissà, se ti raggiungeranno mai. Giancarlo Ibba Alla deriva Come conchiglie sulla spiaggia, in attesa che una mano ci raccolga, rotoliamo nella vita, orfani delle stelle. Tutto qui. Perché Aggrappato allo scoglio dell’ignoranza, resto, mentre l’oceano si asciuga e il sole tramonta, nell’ombra indifferente. Oliviero Angelo Fuina Avevamo stelle nelle tasche da: “Cieli di carta” Perché mi hai rubato il ricordo degli anni verdi senza fiato a correre intorno alla notte contando stelle nelle tasche? Ormai non è questo che vedo nel tuo sguardo spento e impotente dichiarando il tuo fallimento nei sogni, da rabbia, interrotti. Ti odio per tutte le scuse che invento per non incontrarti per i pochi falsi sorrisi che il ritrovarti mi richiede. …E i nuovi demoni ostentati cercando di venderli bene ma non trovo più stelle in tasca - già bucata dal tuo cinismoE nel tuo astioso piegarti - dove gli occhi graffiano terra ci siam persi nel cielo immenso dove i sogni volano stretti. Si, ti odio amico mio caro perché sei caduto nel fango ed ora non posso specchiarmi ché sporca vedrei la mia pelle. Nadia Lattanzi Il nostro amore Il nostro amore è diverso… è più intenso… Noi non possiamo tenerci per mano per la strada perché ci guarderebbe tutti. Noi non possiamo farlo perché non abbiamo una strada che percorriamo insieme. Noi possiamo sfiorarci le mani solo “attraverso” una chat o una linea telefonica. I nostri baci rimangono imprigionati negli abbracci mai vissuti… le nostre parole piccole frecce che ogni giorno trafiggono la distanza che ci separa. Noi non siamo un amore normale. Noi combattiamo la nostalgia… la passione, i brevi ricordi di un incontro. Noi voliamo con la fantasia o moriamo dentro un silenzio. Noi piccole regine di un amore nato così… in attesa di un prossimo incontro, un anelito… uno sfiorarsi e tutto diventa di più e tutto diventa vissuto intensamente… e tutto è. Il nostro amore è diverso. Lo è. Monica Pasero Le parole che non ti ho mai detto Nei mie silenzi si celano le parole che non ti ho mai detto dolci frasi che non ti sussurrerò mai respiri,che non troveranno posto accanto ai tuoi battiti che non ascolterai parole che ho trattenuto in fondo al cuore per troppo tempo, lacerando la mia esistenza parole soffocate dalla vita stessa per il timore del a venire parole che avrebbero dato un senso a tutto ridette nella mia mente mille,mille volte ancora stampate nel mio cuore avrebbero dato speranza alla mia vita stessa se solo fossi stata in grado di dirti Torna amore Parole che non servono… Partii per questo viaggio nei meandri del mio inconscio per trovar quelle parole che ricercavo nel profondo. In questo mondo che corre senza mai fermar il suo pensiero, avevo bisogno d’intraprendere questo viaggio che mi donasse la forza e il coraggio. Camminai così, nell’anima tua, ricercando la strada più sicura che mi conducesse innanzi al tuo cuore sommerso da troppo tempo nel mar del dolore . Intrapresi così sentieri carichi d’ostacoli, diradai le nebbie della tua diffidenza, attraversai fiumi d’insicurezza, scalai monti irti di nostalgie, saltai dirupi colmi di paure, ma infine giunsi ai confini del mio ricercare. Dove innanzi a me, paesaggi dipinti dai colori del tuo animo, rispecchiano nell’essenza di ciò che sei. Ora io avanzo in questa terra per me inesplorata dove tutto profuma di te, cammino con la speranza di trovar le parole che solo Dio conosce e ode. Ora, qui innanzi a te, con l’anima mia nuda di fronte alla tua scopro… e non servono più parole. Perché tu hai già aperto la porta al mio amore . Tacqui Tacqui per tutta la mia esistenza Quanto il tuo amore fu l’unica mia essenza Quanto essere amata da te mi rendesse viva Quanto ho perso perdendo te Vita mia Elisabetta Bagli Non ti ho mai detto Non ti ho mai detto che lui mi ha dato la vita le ali per volare il sorriso da posare su petali di rosa, ha vestito di eternità i nostri raggi di sole, ha amato il mio corpo nudo, la mia anima in bilico, i miei occhi brillanti e vividi e continua a farlo ancora. Non ti ho mai detto che anch’io conosco il sapore delle sue labbra, la voluttà delle sue mani e quel suo sguardo seducente, audace invito a percorrere il suo bel sentiero, a vivere la sua passione lungo i binari di un treno e sentire la sua potenza riversata nelle membra. Non ti ho mai detto grazie per i dolori e le gioie, le energie e i tormenti, i canti e l’amore che, in segreto, il tuo uomo mi regala in ogni istante. Andrea Borrelli Messa per innato Dovrai immaginare da solo la luce stanca filtrata da una foglia verdissima e fradicia. E dare colori insoliti all’arcobaleno, che qui non esistono. Potrai avere fede ma una diversa da tutte quelle che conosciamo, darai un nome alle cose ma non sarà il nome che tutti impariamo Racconterai a modo tuo l’amore, forse sarà più fortunato di noi se gli eviterai di sapere il dolore. Risparmierai la bellezza e l’orrore, l’inquietudine e la fantasia, il sogno e la realtà, la vita mia. La morte però indugia. È stata unica cosa davvero concessa, figlio mio, mi dispiace tanto! A chi non ha ti ha dato la mano non hai mai ascoltato il pianto. Sperò Un piccolo pero al centro è grande il mio giardino intorno non vi è nulla del resto s’è fatto solo. La cura di un limone unico fusto lì vicino nella sua ombra ha fatto breccia s’ aspetta lento di toccarlo alla corteccia. Voglia di sentirlo vivo d’ essere considerato ma l’ altro di continuo scappa via verso il cielo per l’ alto vuol toccarlo. Nulla che tocchi al suolo può tener la mano e l’ altro non contento ancora di lasciarlo. Se almeno con le sue spine sarà possibile graffiarlo. Dax Ax Sogno Nebbia argentata avvolge l’animo sopito dal benessere si intravedono sagome curve di esseri soli ma nella pienezza del caldo nido sfuma la cruda realtà Nulla è un caso nella nostra vita Cose che succedono, avvenimenti casuali, incontri improvvisi e situazioni inusuali. Soltanto casi e coincidenze? Non lo crediamo, e non lo credono nemmeno i nostri autori che per questa settimana hanno scelto come tema “Nulla è un caso nella nostra vita“. Che strane riflessioni porteranno i nostri autori raccontandoci cosa succede nelle loro vite, come in quelle di ognuno? E’ possibile davvero che certe circostanze si verifichino soltanto accidentalmente? O chissà, magari dietro a tutto quanto c’è il piano di un sognatore, misterioso e imperscrutabile chiamato Destino? Scriveranno i pensieri emersi dopo essersi trovati in chissà quali situazioni, reali o immaginarie, per chiarirci il loro punto di vista. Nadia Lattanzi Amante per caso… Io ..e in un attimo diventi quell’altra. Quella che hai temuto, odiato e anche invidiato. In un attimo sei la seconda chances. Diventi la depositaria di una libertà chiusa dentro. Diventi i bisbigli notturni, sei il mistero, la vanità. Ti ritrovi a desiderare brandelli di tempo… Briciole di ore. Senti di poter colmare un vuoto, anche quando troppo spesso il vuoto è dentro e intorno a te. Sei la passione inesauribile, l’attesa a volte vana, la gelosia, il sogno sempre più insistente… Ma mai a divenire realtà. Sei gli appuntamenti mancati, le storie inventate, le scuse pronte. Sei quella che non ha diritti, niente certezze… Andrea Borrelli Ego Vivendo le lande del pensiero come unico siero serio nel far nulla di più sul mio sentiero specchio di vita inutile senza alcun mescere il vero e il faceto feto dell’ arroganza mia erta ad ascoltarmi solo nel riflesso di un piccolo giorno perso in piacevoli assenze distaccati ricordi e fottio di musiche veloci. Te Se fossi te a saper di fragole le più piccole particelle d’ aria intorno a me s’ io desto in te il color cobalto al volto nudo del ciel sopra di me sempre al suon di carillon il fianco mio accanto a lei il tocco di una falange sulla pelle d’ oro e s’ infrange il gusto al cuor. Giancarlo Ibba Intersezioni Per strade di polvere, io vago, miraggio di pellegrini salmodianti, interseco sguardi appassiti. Mai più nulla, dalla torre getterò, poiché niente mi resta e nessuno lo sa. Dai gradini dell’io, scivolo, senza disturbare oltre. Diana Mistera La chiamata Ho sempre creduto nel destino e da sempre ho agito in base ai segnali che mi dava, ma non é mai stato facile. È partito tutto dalla prima volta che lo sentii; io ero immersa nei miei studi e come sempre la tv era di sottofondo a volume bassissimo, ma quelle vibrazioni mi arrivarono dritte al cuore. Lo vidi, rimasi senza respiro per un numero indefinito di secondi, me lo ricordo sempre il sorriso che aveva quando salutava dalle telecamere,come se stesse parlando direttamente a me; in quello stesso momento realizzai che il cuore aveva accelerato i suoi battiti, istintivamente spensi la tv, non potevo innamorarmi di un cantante alla bella età di 28 anni, eppure iniziò ad abitare i miei sogni che da sempre mi avevano mostrato quel viso come quello di una fantasia, ma non era più tale, esisteva davvero. Passarono diversi mesi, anzi passò un anno e me o trovai di fronte, fu di nuovo il destino a pianificare il tutto, per me che non mi sono mai sentita una semplice, comune mortale. Non fu un caso c’erano 20 persone che lo aspettavano e lui venne verso di me, anonima, lontana dalla folla, senza che neppure lo chiamassi, ed i suoi occhi sorridenti, intensi, verdi mi sorrisero, da quel giorno ogni pensiero che avevo, lo sentivo uscire dalle sue labbra, persino i vestiti con i quali lo immaginavo glieli vedevo addosso e quegli occhi nonostante passavano gli anni, avevano sempre uno sguardo speciale per me, che continuavo a rimanere anonima. Adesso sono passati 11 anni dal primo incontro, le coincidenze stanno nuovamente aumentando ad una velocità anormale, così come i sogni strani. Dapprima mi sono detta ”ma si chiamiamole coincidenze” ma, il posto in cui vedevo il nostro prossimo incontro é giusto quello in cui sarà venerdì, non lo ha mai fatto prima, quello che farà venerdì. La situazione sulla quale ho fantasticato parlando con lui nei miei sogni, sarà quella in cui si troverà venerdì. Non pentendomi permettere la situazione grande a causa della disoccupazione, speravo in una possibilità più piccola, sempre parlando con lui nei miei pensieri gli avevo chiesto di creare un modo accessibile anche a me..ed è successo. Ora niente accade per caso, lo so, le coincidenze non sono mai tali, so anche questo, ma come fare quando ci sono degli ostacoli che impediscono il realizzarsi degli eventi? Il destino avrà pensato anche alla soluzione per scavalcarli? La voce chiama, è una chiamata che se non prenderò, non ricapiterà più, ma gli ostacoli in questo momento da parte mia sembrano invalicabili, i confini chiusi e le distanze infinite, la disperazione mesta. Elena Grifoni Non è colpa mia! Cos’ho da dire a mia discolpa? Semplicemente che non ho nessuna colpa! Che è stata tutta colpa del caso! Sì… è stato un dannatissimo caso! Io non c’entro proprio un bel niente! Infatti me ne stavo bello tranquillo a leggere sulla panchina del parco davanti casa, come faccio tutti i santi pomeriggi, e non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello di mettermi a tirar palloni ne tantomeno di farmi rincorrere da cani inferociti! No davvero… me ne stavo lì tranquillo con il mio romanzo ad assaporare lo svolgersi della trama e ad ammirarne i personaggi quando, forse sentendo lo spostamento d’aria o un leggero sibilo mi son girato verso destra e bam! il pallone mi è arrivato dritto in faccia facendo volare gli occhiali sul prato! Non vi dico il dolore! Il mio povero naso era in fiamme e gli occhi non la smettevano di mandar giù lacrime neanche fossi una donnetta isterica… poi li vedo arrivare di corsa, i piccoli delinquenti. Beh, senza occhiali e con gli occhi straripanti di lacrime non è che abbia visto granché, ma li ho sentiti: i loro squittii e gridolini di scuse li avevano preceduti. Non so che farmene delle vostre scuse! Mi avete rotto il naso, maledetti! Ho gridato loro livido di rabbia e di dolore tenendomi il naso con la mano destra e cercando, a tentoni con la sinistra, gli occhiali sul prato. Un inconfondibile rumore di vetro rotto mi fece capire che il piede di uno dei ragazzi li aveva trovati prima di me e questo fu l’ultima goccia! Sono montato su tutte le furie! Ci vedevo malissimo, ma ci vedevo quanto bastava per scagliare il libro che stavo leggendo al delinquente più vicino sbagliando però totalmente mira e facendolo atterrare sul prato invece che sul bersaglio. Allora ho afferrato il pallone con tutte e due le mani e ho iniziato a rincorrere quei teppistelli, sperando di rendere pan per focaccia ad almeno uno di loro. Ed è qui che entra in scena il cane. Eh sì, perché non c’è gruppo di marmocchi senza cane a seguito! E la fedele bestiola avendo intuito le mie poco amichevoli intenzioni ha iniziato a rincorrere me, che rincorrevo loro, che scappavano verso la strada. Ho tirato il pallone con tutte le mie forze giusto un attimo prima di essere atterrato dal cane che con un balzo mi si è avvinghiato alla gamba, prima con le zanne poi con tutto il corpo, e ha continuato a mantrugiare polpaccio, pantaloni e scarpa e anche quando, sdraiato a terra, cercavo di farlo desistere dandogli dei calci con la gamba libera. Il pallone intanto aveva continuato la sua corsa schivando tutti i ragazzetti e rimbalzando con un tonfo sul parabrezza dell’unica auto in transito in una strada a quell’ora era solitamente deserta. Colto di sorpresa, il conducente ha sterzato con violenza pensando di aver investito un animale. Ed è stato un caso, ripeto, un dannatissimo caso che quella strega di mia suocera fosse lì in quel momento. Era uscita in giardino a potare le sue rose, la vecchia, e l’auto che sbandando vi si è diretta a tutta velocità l’ha presa in pieno. E questa volta sì, l’auto aveva davvero investito un animale. Purtroppo è morta sul colpo; ma che ci vuoi fare… oggi siamo qui e domani chissà? Comunque, torno a ribadire che si tratta di un caso; fortunato forse, ma di caso si tratta. Il caso volle che la suddetta suocera avesse proprio il giorno prima modificato il testamento dopo l’ennesima lite con un paio dei suoi figli; ormai era una consuetudine, lo faceva a intervalli regolari. Tu provavi a discutere con lei e quella ti diseredava, un classico. I due malcapitati in questione erano i fratelli di mia moglie che avevano osato contraddire la vecchia e si erano trovati per l’ennesima volta tagliati fuori dal testamento. Di solito, una volta che all’arpia era passata la paturnia, ai trasgressioni delle sue personali leggi veniva di nuovo accordato il diritto all’eredità (fra l’altro cospicua). Ma questa volta è diverso. Questa volta la vecchia non si riprenderà più! Questa volta c’è rimasta secca e dura e il testamento è valido; il che significa che mia moglie erediterà, da sola, tutto il patrimonio e il risultato dell’equazione è uno solo: siamo fottutamente ricchi! E se qualcuno ancora insinua che tutto ciò è accaduto per colpa mia, perché io ho tirato la palla che ha fatto sbandare l’auto, allora io gli rispondo Hei! vattela a prendere con quei teppistelli, che invece di starsene in casa davanti alla tele se ne vanno nei parchi a calciar palloni in faccia alle brave persone! Prenditela con quei bastardi di cani, che invece di star legati a una catena scorrazzano in giro ad azzannare poveri passanti! Io non c’entro proprio un bel niente! Io me ne stavo bello tranquillo sulla panchina del parco a leggere! E sai cosa ti dico? Adesso sono talmente ricco che mi posso far costruire un parco privato dietro casa, dove metterò un bel recinto elettrificato e un cartello con su scritto “vietato l’accesso a cani e bambini”! Nadia Milone Non è un caso A volte la vita ci mette davanti a strane situazioni. Ci sono persone che,quasi senza che tu te ne accorga, entrano a far parte del tuo mondo. Diventano parte di te, giorno dopo giorno, insinuandosi nella tua anima senza un perché. Ma io credo che ciò non avvenga per caso. L’aver incontrato determinate persone che poi, con il tempo, sono diventate importanti è stato un dono e forse era giusto così. Ma il fatto che il destino me le abbia mandate, a tendere una mano nei momenti peggiori, ad aiutarmi a superare un periodo buio, no, non può essere solo una coincidenza. Il problema è che io tendo ad affezionarmi troppo, se sia un bene o un male non lo so, ma io mi ci lego, con il cuore e con l’anima, non posso farci niente, ma questo sentimento un po’ mi spaventa , perché non so se sia ricambiato. Forse è solo la mia insicurezza a parlare, ora, ma non ci sono certezze nella vita, né bisogna pretenderle. Oggi le persone ci sono, ti vogliono bene e, magari, un giorno spariranno senza dirti il motivo, senza una spiegazione. E nemmeno questo sarà un caso, semplicemente dovevano arrivare, renderti felice per un po’ e poi, silenziosamente, andarsene. O magari resteranno, chissà… Non è un caso incontrare un amico, un amante o un amore, non è un caso che arrivi qualcuno a renderti felice, così come non sarà un caso perderlo. Semplicemente deve andare così ed è inutile accanirsi contro il destino, sarà sempre più forte di noi. Prove del destino Io ci credo nel destino, non penso che tutto succeda per caso. A volte veniamo messi alla prova, forse per capire quanto possa essere forte la nostra forza di volontà ed i nostri sentimenti. Ci deve per forza essere una spiegazione se determinate cose accadono. Ogni tanto succede che fatti che prima avvenivano con facilità e naturalezza, improvvisamente sembrano diventati un’impresa titanica, quasi un miracolo. E perché succede questo? Forse perché il destino ci vuole far riflettere. Le cose belle, a volte, vengono date un po’ per scontate, ma non è così. Forse ciò che io ora sto chiamando destino, è solo un modo per farci capire l’importanza di ciò che abbiamo, per farci pensare a ciò che ci manca, a ciò che realmente desideriamo. A volte può bastare semplicemente una parola ad illuminare la giornata, perché il desiderare non è soltanto un fatto fisico, ma è un concetto ben diverso, a mio parere. E’ un fatto mentale, psicologico ed emotivo. Quando si desidera qualcuno, non lo si fa solo con il corpo, ma anche con il cuore e con la mente. Si desidera ciò che l’altra persona può donarci di se stessa e, a volte, può essere anche solo una parola o un sorriso. Se a noi basta quella parola e quel sorriso per essere felici, allora vuol dire che davvero esiste qualcosa di più grande, che va oltre il concetto di fisicità, per quanto questo possa essere bello e importante. Se ci rendiamo conto che di una persona ci manca lo spirito, oltre che la sua presenza, allora credo che ci si trovi davanti al concetto di bene assoluto. Forse, alcune situazioni si presentano proprio per darci modo di riflettere su questo. Io, da parte mia, la riflessione l’ho già fatta da tempo. Quando voglio bene, apro il cuore e non c’è fisicità che tenga. Certo, il contatto fisico è importante, il vedersi e il parlarsi è quanto di più bello le persone possano fare, ma ci sono sensazioni che ti porti dentro e che sono più forti di qualunque altra cosa. Quando comunichi con il cuore e con la mente, il resto non conta. Per me è così, spero lo sia anche per le persone a cui tengo e a cui voglio bene. Monica Pasero Non fu un caso… Non sei stato un caso rammenti come accadde? Colori autunnali quel giorno sul mio cammino, foglie leggere cadevano innanzi a me intraprendendo il loro ultimo tratto d’esistenza. Il cielo ormai grigio della sera preannunciava venti gelidi, la stagione fredda era alle porte. Era inverno anche nel mio cuore ormai innevato nei sentimenti, congelati in quei anni dove nessuno era riuscito a riscaldarli. Piccole folate di vento mi fecero accelerare i passi, a breve sarei giunta a casa. Dove nella mia solitudine mi sarei accovacciata sul divano e davanti ad una tazza di cioccolata calda avrei passato un’altra serata leggendo l ennesimo romanzo d’amore. Per poi perdermi ancora una volta nell’illusione di viver anch’io quei momenti, ma il destino aveva altri programmi per me quella sera per noi. Accelerai il passo, quando la mia distrazione già alquanto nota mi regalò il dono più bello “Tu” Gli caddi direttamente addosso, fu lo scontro più imbarazzante ed emozionante della mia vita, rotolammo a terra uno sopra all’altro su di un tappeto di foglie. Io arrossii violentemente, invece lui rise di gusto. Mi ricordo l’imbarazzo nel presentarci io con una foglia tra i capelli e lui con la giacca umida di terriccio, le nostre mani si sfiorarono i sorrisi distesero i nostri cuori, fu tutto semplice così naturale, una parola, un sorriso e il mio cuore sciolse i suoi ghiacciai, la neve se ne andò. La passione sbocciò libera come la vita stessa e non fu un caso se in quella fredda serata autunnale ti concepii. Nulla accade mai per caso Nulla accade mai per caso la penna di Dio scorre lentamente sulle pagine della nostra vita adagio segna nostri giorni quelli bui e difficili colmi di paure e incertezze ma nella sua immensa luce ci dona giorni d’amore, di passione, di vita che ci inebrieranno di gioia, d’emozioni pure da ricordare per sopportare meglio i momenti più difficili… e quando tutto non avrà più un senso, rammenteremo che nulla accade mai per caso… uno sguardo, un sorriso, un scontro avviene sempre per mano di Dio la sua penna, il suo inchiostro scivoleranno sulle nostre emozioni ricordandoci ancora e ancora che Noi… non siamo un caso… ma un disegno di Dio. Gabriele Palumbo Vita per caso E mentre tutto ciò che ti sta intorno scorre, tu rimani lì e riaffiorano ricordi che non ha mai vissuto… Dax Ax Vola Le mani chiuse come uno scrigno di carne limitato dalla realtà si aprono pian piano e la farfalla della mia coscienza osa,seppur intimorita a librarsi dove le mie mani non possono “Vola, amica mia, mia libertà, mia anima” raggiungi i posti luccicanti che mi sono impediti da questa gretta realtà Scrivimi Tema dell’ultima settimana è risultato “Scrivimi“, tema ovviamente caro ai nostri autori che si sono espressi in giocolerie letterarie, degne di affermati funamboli della parola. Inutile dire che i risultati sono eccellenti e gradevoli, le scelte di argomento e svolgimento varie e multiformi. Elisabetta Bagli Fuga silenziosa “Camilla, ciao!” Da seduto sorrido a Camilla che avanza verso di me con una lettera in mano. Faccio per alzarmi e lei mi fa segno di starmene fermo. Mi getta la lettera sul tavolo del giardino e sparisce tra gli abeti. Confuso la prendo in mano e leggo l’intestazione: “Scrivimi”. Sorrido ancora. Ah, Camilla, Camilla, sei una gran testona! Ma perché vuoi che ti scriva quando sai perfettamente quel che sento per te? Certo che sono strane le donne, non si accontentano mai di quel che uno gli dà. Vogliono sempre di più e di più non è mai abbastanza. E va bene, ti scriverò! Che ci sarà nella busta? Un foglio bianco per scriverti? Annuso la busta e sento il suo profumo di violette. La mia Camilla è speciale, senza di lei non saprei vivere. Sento la carta porosa sotto le mie dita, l’accarezzo e so che l’ha toccata lei. Un brivido mi percorre la schiena. Camilla, la mia adorata amante, amica, confidente, la mia splendida donna che tutti ammirano, che tutti vogliono e invece è mia, solo per me. Ti amo, mio tesoro, non te l’ho mai detto? Ora te lo scrivo così sarai contenta. Apro la busta e tiro fuori il foglio, lo stiro e vedo che è già scritto. Angelo mio, cosa mai mi dirai di così bello e prezioso che la tua bocca di rosa non poteva dirmi? Cosa mi hai scritto di così importante che i tuoi occhi di velluto non erano in grado di mostrarmi? Ti leggo, amor mio, ti leggo. “Nonostante il fuoco in cui stai bruciando e che ti farà rimanere cenere, sei ghiaccio ormai per me. Ma non ti scioglierai, no. Non ti dissolverai nel mare per vivere in compagnia delle altre gocce. Non evaporerai, no. Non troverai la compagnia delle altre particelle d’acqua che si disperderanno nell’aria per poi condensarsi in nuvola. Sarai condannato a rimanere una solitaria lastra di ghiaccio che vaga nel nulla. Sarai solo da ora in poi, sarai eternamente solo. Io non sopporto il ghiaccio. Amo il fuoco, ma il tuo con il quale mi sono bruciata, non è per me. Ora vado via e per sempre.” Cara Camilla, ti sei salvata anche stavolta. Impassibile ripongo la mia Colt 9mm nella tasca della mia giacca in attesa del tuo ritorno. Giancarlo Ibba Infanticidio Era stato un parto difficile e complicato. Il concepimento era stato breve e insoddisfacente. La gestazione un calvario. Adesso lei era li, una piccola ingrata senza futuro. Come tutte le premature non era granché. L’aveva odiata dal principio, era il frutto imprevisto di una lunga notte affogata nell’alcol, quando la solitudine rende romantiche anche le anime più dure. Ma ora lei era lì, davanti ai suoi occhi. Implorava la sua attenzione. I suoi versi erano uno strazio. Incomprensibili. Cosa voleva dire? Non le piaceva per niente. Era una creatura orribile. Figlia di un illusione. Doveva eliminarla. Con enorme tenerezza lei la guardò, per un ultima volta, senza dire nulla. Poi la prese tra le mani, quasi cullandola… e la gettò tra le fiamme del fuoco. Bruciò in silenzio. Lei pianse, lacrime calde, ma non provò alcun rimorso. In fondo… era una brutta poesia. Presto ne avrebbe concepita un’altra. Oliviero Angelo Fuina Potresti scrivermi un sogno Troppe volte ho letto i tuoi respiri tra le pieghe di un vetro increspato mostrando alfabeti d’occasione cesellando lingua universale. In verbi arditi ho spalancato porte spogliandomi al tuo sguardo distratto nel balbettio d’insicuro amore che il silenzio tuo amplificava. Bastava un segno scritto d’assenso una domanda a svelarti di me un aggettivo da accarezzare sul cuscino di afone notti. Ora, potresti scrivermi un sogno e abbracci da indossare da svegli graffiti da leggere su pelle: ho nuove pupille alla lettura. La tua storia l’ho scritta da solo cambiando nel cuore la mia trama scrivi pure di un tempo concluso volto pagine a un libro mai nato. Ma tu scrivi, tu scrivimi pure le parole adesso ormai scadute non fa male specchiarsi nel vuoto quando si impara il riflesso di noi. Elena Grifoni Scrivimi Scrivimi, ti prego, non posso più aspettare… mi giro e ti guardo con occhi supplicanti. Tu mi vedi e abbassi subito lo sguardo. Hai capito la mia muta richiesta? Scrivimi ti prego, metti nero su bianco quello su cui da un’ora stai rimuginando. Ecco, ti ho visto, hai preso un foglietto… prego con tutto il cuore che sia quello su cui mi scriverai. Non ti chiedo molto, solo poche parole, poche frasi… traduci in rime il risultato dei tuoi pensieri, ti prego… Ancora uno sguardo furtivo, ma non posso guardarti a lungo, mi sento anch’io osservato. Non c’è più tempo… non posso più aspettare… ti decidi o no a passarmi la versione di latino? Fede Giovanni Rega Scrivimi Scrivimi Non importa dove, Non importa come, Non importa cosa. Scrivimi Una parola dopo l’altra Scorrono violente Su questo foglio spoglio Scrivimi Versi di cuore Versi di dolore Versi d’amore Scrivimi E sarò felice, Tu però Scrivimi! Monica Pasero Scrivimi Scrivi su questo mio cuore la tua verità Scrivi ciò che senti, anche se mi ferirà Scrivi, e dammi ali per poter ancor volare liberami da questo oblio, ormai mia trappola mortale dove ora io mi aggiro senza pace nel mio cuore bramando ancor parole che profumino d’amore Non lasciar vuota questa mia pagina bianca Ancor ora è intrinseca dal profumo di questa ultima speranza. Andrea Borrelli Tesoro Scrigni vuoti aspirano diventar ricchi di versi scritti color diamanti Mantengono le pareti i loro inchiostri non danno l’adito a malfatti discenti Respirano l’aria dello sconforto boccate grandi di ristoro dovuto Restaurando l’ anima in acuti suoni di piacere dalle viscere della carta. Rossana Lozzio Un altro dei miei sogni Se soltanto mi potessi scrivere… se avvertissi il desiderio, benché minimo, di entrare in contatto con me! Ma continuo a sognare e un sogno è destinato a rimanere… tu non puoi farlo né lo faresti mai, perché non solo neanche sai che esisto ma non mi prenderesti mai in considerazione. Conscia della realtà, è comunque bello continuare a immaginare… un’icona che appare sullo schermo del computer o su quello del cellulare oppure una lettera, indirizzata a me, con la tua calligrafia rotonda dipinta sulla carta ed io che, emozionata al punto da veder tremare le dita delle mani, apro quella busta – reale o virtuale – e mi accingo a leggere una tua missiva! E lasciandomi andare all’immaginazione più sfrenata, leggo che mi pensi e che desideri entrare in contatto con me, non importa come né quando né dove… hai desiderio di vedermi, di parlarmi, finalmente l’uno di fronte all’altra e intanto penso che non starò a chiedermi neppure quale sarà l’argomento ma già tratteggio – con la stessa fantasia che mi consente di sognare la tua lettera – un abito col quale affronterò il magico momento e m’impongo di accettare questo atteso appuntamento! Se soltanto potessi smettere di sognarti… riapro gli occhi o li mantengo aperti, tanto fa poca differenza e mi riscopro a sorridere. Perché comunque, anche rimanendo ancorata alla realtà, solo pensare di incontrarti o meglio ancora, solo la certezza di sapere che esisti, mi conduce e con una naturalezza che m’invidio anche da sola, a vestirmi di un sorriso colmo di beatitudine e a desiderare di ricominciare da capo! Ilaria Militello Vorrei mi scrivessi… Quante pagine ho riempito con i miei TI AMO, ma che tu non hai mai letto. Non sai nemmeno che esisto, ma vorrei che ti accorgessi di me. Vorrei solo che tu mi scrivessi un semplice SEI BELLISSIMA. Non voglio frasi fatte, nemmeno lettere d’amore infinite, vorrei che mi scrivessi che sono davvero importante per te. Parole dolci, parole che mi fanno sentire apprezzata. Vorrei mi scrivessi solo un semplice TI AMO. Il mio sogno proibito “Il mio sogno proibito” è il tema scelto dagli autori del gruppo per la prossima settimana. Ne leggeremo delle belle! Sogni, fantasie, bollori e chissà quanto altro desiderano i nostri scrittori. Scommetto che sapranno deliziarci con delicatessen che renderanno la lettura non un piacevole diversivo, ma quasi un dovere da svolgere con sommo gaudio. Sebastiano Impalà Alternandoci Acque limpide su corpi sfatti da pensieri accartocciati dentro fibre di muscoli rossastri. Sei come me donna dalle lunghe dita che laceri la carne insaziabile d’affetto. Le nostre pupille, liquidi di gioia misti a salsedine, squarcino figure avvinghiate alle pareti. Una volta tu fra le mie gambe assorte parli con il cuore strangolato di piacere, un’altra io sul tuo collo avorio bisbiglio i miei perché ma sordi sono gli attimi a venire. Orbite distaccate e mai trovate, sussurri anelanti invadono la stanza. Fiumi, tempeste e sguardi Io sono il tuo pirata colui che ti ha bendato gli occhi per baciarti, faccia assassina dell’amore. Io sono il tuo galeone, legno pregiato sul quale condurre le tue idee in porti bagnati di salsedine e viltà. Ammaina le vele per vincere la tempesta, distruttrice del pensiero dove attecchisce la miseria nichilista del tuo essere. Dove sfoceranno le acque torbide e furiose dei nostri amplessi d’argento e rame, metalli di passione e forge clandestine? Ferma il passo e osserva le tue mani… vedrai la vita trasparente colorarsi di rosso fuoco. Scocca la tua freccia e cerca di colpire il centro dell’amore e…non impressionarti se, all’improvviso le tue dita si sporcheranno di sangue: era un sogno… Oliviero Angelo Fuina D’ermafroditi sensi da “Vocali in apnea” È fra i tuoi gemiti che vorrei stare rubando le alchimie d’ogni tuo orgasmo sentire lune tese sulla schiena il roco capovolgersi dei fianchi Mescolo carne in pensieri umorali sentendo la tua lingua che deflora aprirmi nella tua trasmutazione androgina passione che sconquassa - anelito d’ermafroditi sensi d’estatiche pulsioni m’avviluppo aspergendoti amore alle pareti e aprirmi poi a brame più complete vestendomi del cielo più rosato; disseto alla tua femminile essenza t’accolgo imitandone gli spasmi sentirti viscerale in ogni moto incastri d’un reciproco respiro. - safficamente complici d’inganno - Andrea Borrelli Insonnia Sonnecchio e annaspo tra lenzuola verde acqua La quiete del calmo dormir non appartiene Resto bloccato nel cemento di questo tessuto Freme il muscolo La mente inneggia ancora alla vittoria sul sonno Rimane a me proibito sognare nel buio Si vorrebbe la luce filtrar tra le palpebre chiuse. Dax Ax Intenti E guardo i tuoi occhi e tento l’azzardo di alimentar i fuochi che ardono nei nostri cuori nei nostri lombi e tu sorridi sicura e spregiudicata cavallo bianco nella notte scura mi porgi la mano sicura mi accompagni tra le lenzuola del paradiso Sogno proibito A volte mi fermo per strada ed osservo la gente,i palazzi,le strade. Mi incanto a guardare i balconi, i tetti, i muri di cinta. E chiudo flop occhi e mi immagino muratore, architetto, decoratore e provo ad adattare il mio sogno alla realtà, modificando, migliorando, rendendo tutto più bello e, soprattutto, funzionale. Riapro gli occhi e, dopo un eterno istante, riprendo la mia strada. Maurizio Donte Orizzonti perduti Silenzio eterno in questo mare che sale le sue rive, moto perenne di un veliero che non trova pace. Lacere vele svuotate di vento parole perdute che amaramente vorrei non aver detto. Te che di me hai fatto deserto. si vuota l’azzurro e la vertigine trascina il cuore nell’abisso nulla rimane di te che credevo amore a te cui avrei acceso il fuoco e ti avrei donato molto insieme al cuore. Diana Mistera Sogni che sembravano proibiti Mi ricordo, quando ad occhi aperti e sognanti guardavo alla luna desiderando di conoscerti, avevo 12 anni e tu eri la mia guida su tutto, sulle letture che avrei fatto, le idee che avrei avuto, la passione che avrei cresciuto, i primi passi nel mondo della scrittura li feci traducendo le tue canzoni, scrivendo storie brevi che tu lanciavi li come idee da catturare, parole con cui giocare. Eri colui che mi stava sempre vicino perché fondamentalmente ero sola, eri colui a cui guardavo prima di addormentarmi sussurrandoti parole d’amore, li appeso al muro nella carta patinata dei poster in quella posizione plastica, ma con quella bellissima luce negli occhi che ti ha sempre caratterizzato, eri tu che inconsapevolmente mi hai salvato dal suicidio quando per caso o per destino mi arrivò la cartolina con gli autografi con dentro una tua lettera… Sentivo questo legame crescere, iniziavo a capire che forse quello che molti psicologi new age stavano iniziando a dire che determinate anime sono destinate ad incontrarsi in ogni vita, era forse vero, oggi ho definitivamente tolto il forse; ascoltavo le tue canzoni,avevo sete delle tue parole, allo stesso modo come un assetato brama l’acqua nel deserto e pensavo eri il mio sogno irrealizzabile, poi un giorno, tutto quello che avevo sempre desiderato, sognato, scritto in papiri A4 alle mie amiche di penna si avverò. Fu difficile trattenere le lacrime di gioia a quell’incontro, difficile parlare perché pensavo di sognare, difficile spiegare, dipingere o descrivere quello che stava succedendo dentro di me, solo le lacrime scendevano senza tregua, lacrime di gioia, una gioia immensa, anch’essa indescrivibile a parole… Le stesse che a volte scendono ancora ogni volta che mi rispondi o parliamo. Oggi, 14 anni dopo, ancora mi emoziono a parlare con te e quale sorpresa vedere che ancora ti ricordi di me, quanto affetto nel constatare che nonostante il passare degli anni, questa cosa speciale che ti ha sempre caratterizzato è ancora in te… Adesso il mio prossimo sogno è quello di riuscirti ad abbracciarti di nuovo forte a me, scatenare un pianto collettivo, perché le emozioni muovono altre emozioni… E chissà alla faccia del calendario Maya succederà magari a Parigi nel 2014. Sogno proibito Proibito é quel sogno lasciato morire nei meandri della mia anima proibite sono le parole a lui legate i pensieri i desideri i miei sguardi furtivi. Proibito era l’amore di Lilith la sua passione la sua carne. Eppure accolse il morso del serpente ed il frutto che le offrì. Se questo sogno non fosse proibito smetterei di sognare di vivere di amare e scrivere con il veleno, che come per Lilith adesso scorre nelle mie vene insieme al sangue e senza il quale non esiterei, non esisteresti. Nadia Milone Sogno proibito Un sogno rimane sempre e comunque un sogno. A volte si avvera, altre no. Però ci sono sogni che si possono vivere, in qualche modo. Io so che il mio sogno è destinato a non realizzarsi e finire, prima o poi, perché è un sogno proibito, di quelli da vivere di nascosto, nell’ombra, che puoi soltanto immaginare, ma quando li immagini possono sembrare più reali che mai. Non ho bisogno di chiudere gli occhi, per immaginarlo qui, vicino a me. Mi basta pensarlo. Improvvisamente mi sembra quasi di sentire la sua voce, le sue mani che mi sfiorano dolcemente il corpo e il suo respiro sul collo. Mi spoglia piano, ho i brividi, ma non per il freddo. Mi stringe a sé, sempre più forte e ci perdiamo nel vortice della passione. Lui è fuoco, è passione, desiderio puro e io mi sento sulle stelle. In quel momento è solo per me, non abbiamo nessun altro intorno. E’ solo un sogno, ma non posso fare a meno di pensarci ogni volta che mi soffermo a guardare quella fotografia. Ma in quei momenti lo sento, lui c’è. Poi, però, la realtà torna prepotente a tormentarmi, a dirmi “smettila, è impossibile, non è tuo”. Così io torno a fissare la foto, gli bacio le labbra e gli sussurro: “A domani, mio bellissimo sogno proibito”. Mi sente, lo so che ci riesce. Lo sa che penso a lui e questo mi basta. Musica è droga, musica è poesia Eccoci ancora qua! Tema per la settimana in corso “Musica è droga, musica è poesia“. Per cui ne leggeremo di note. Saranno sinfonie scritte. Di Ogni genere immagino; come i gusti letterari anche quelli musicali danno ampio spazio a possibili interpretazioni. Le parole possono davvero diventare come note in mano a un abile scrittore, trasformandosi da mezzo di comunicazione in opera. Se poi si scende nel campo poetico, la musicalità delle composizioni, il loro equilibrio di verso e pausa, di pieni e vuot,i è davvero paragonabile a un pezzo musicale. Quanto si potrebbe scrivere sulla musica, quante possibilità in questo immenso argomento. Andrea Borrelli Nato Stava lì fermo non poteva muoversi su e giù tra laringe e faringe si dimenava bloccato quando poteva riusciva a spingersi fino alla punta della lingua ma di più non osava scendere come sabbie mobili la saliva ogni volta inghiottiva fino al giorno quando le lancette trovarono tempo in quel posto non si tirò più indietro finalmente allora si fece vedere negli occhi stupiti degli Alti trovò pace in aria musica calda scosse il vento freddo facendo più rumore di quanto volesse ancora prese forma fece suono uscì l’urlo. Conchilium Che la musica si mescoli Sulle briciole di sale e il colore Oro giallo dei raggi di sole Confonda le acque profonde A far sbagliare le onde Che si ripetano perdutamente Ma mai a consumarle Mentre proceda infinita Un’ unica canzone si sente Sempre incompiuta Con l’unirsi incessante dei versi E le note calanti E ululanti E si ricomponga Ogni volta senza fine. Sebastiano Impalà Musica di menestrelli in una piazza di città, con due innamorati che giocano all’amore Amo le tue vulcaniche labbra ed il tuo sesso come fiore rosso.. alle luci dell’alba rientro in te come portiere di notte senza chiavi…. e guardo le tue pupille nere ed immagino la notte di feroce sentimento. Sei fuoco e son canzone da cantare all’universo, con chitarre d’insonnia prolungate…. ….e cerco il mondo in un batter d’occhi e guizzi d’acri movimenti. Trovo solo te a strappare l’amore dal mio ventre in piena lotta. Oliviero Angelo Fuina No music no Life tratto da “L’uomo nudo con le mani in tasca” (…) Through the barricades, degli Spandau Ballet. Siamo al primo giorno dell’anno 1987, poco prima di mezzogiorno. La notte di San Silvestro non me lo ricordo nemmeno dove facemmo il brindisi; mi ricordo soltanto qualcosa di vago circa un interessarmi per prenotare due posti in un locale di San Primo o dintorni, nei pressi del Ghisallo, qualche chilometro più distante e più in alto di Oggiono. Presumibilmente siamo stati lì, prima di tornare, di notte, a casa mia, o meglio, alla mia pensione, per dormire insieme sempre nella famosa camera numero tre. Sì, quella che avevo condiviso anni prima con Ondine, e suo fratello. Ricordo però benissimo il completino intimo molto sexy che aveva indossato per l’occasione e il mio desiderio di lei che mi faceva stare quasi male. Fu una piacevole notte, ricca di magici momenti condivisi pienamente e anche di un dormire abbracciati per pochissime ore. Intimo momento al pari e forse più del buon sesso che ci siamo reciprocamente offerti quella notte di confine tra i due anni. Quello in cui sentivo d’essere nato e quello che ancora non sapevo che sarei morto. Verso le undici scendemmo al bar, salutammo mia madre che già era lì a lavorare da qualche ora, bevemmo un caffè e la riportai a casa per poter poi sostituire mia madre in servizio. Era un primo gennaio di sole meraviglioso, sia nel cuore che nel cielo. Viaggiai piano verso casa di Fausta, che distava pochi chilometri, per far durare più a lungo quel viaggio con lei al mio fianco. A nemmeno due chilometri da casa sua alla radio cominciò quel meraviglioso brano degli Spandau e in quel momento sentii di avere tutto l’universo accanto a me e dentro me. Quell’arpeggio di chitarre, quella voce melodica e soprattutto lei che appoggiò la sua testa sulla mia spalla destra, mi fecero letteralmente scendere lacrime di gioia sulle guance. Fausta se ne accorse e senza dire nulla me le baciò, me le asciugò con le sue carezze di labbra, e mi tenne la mano che avevo sul cambio stretta tra le sue (Tanto più che in terza non avrei messo data la bassa velocità di marcia). Il mio cuore scoppiava d’immensa felicità! Non avrei potuto chiedere nulla di più alla vita in quel momento se non l’eternità dello stesso momento. Sulle note finali della canzone arrivammo comunque davanti al cancello di casa sua e provai l’impulso irrazionale di far manovra veloce con la macchina e scappare via da lì con lei per non vederla scendere da quella bolla di magia che si era formata. Alla gioia di quel momento meraviglioso, di quell’epifania del cuore che non ne voleva sapere di starsene tranquillo nel petto, percepivo l’irrazionale sensazione che se fosse scesa dalla macchina nulla sarebbe stato più come quel momento. E nel salutarla alla porta per tornare al mio bar percepii la sensazione di aver vissuto con lei l’ultimo ultimo dell’anno, e primo. E così fu. Fisicamente la vidi l’ultima volta al mio compleanno di agosto, dopo che a Luglio mi aveva lasciato. Effettivamente però io portai lei e l’essenza di quel momento con me per decine di altri veglioni di San Silvestro. E “I will always love you” di Whitney Houston fu il suo regalo di compleanno, da ex mia ragazza. La musicassetta originale, insieme all’ultima di Bennato (Ok Italia), fu il suo regalo d’addio, visto che poi non la vidi più se non nei miei sogni o nei riflessi delle mie lacrime dentro lunghe veglie. “Io ti amerò sempre”, diceva Whitney Houston. Una contraddizione regalatami da lei che rappresentava tutto me stesso, in quel momento. L’orologio della notte tratto da “Cieli di carta” Tic-Tac, Tic-Tac, Tic-Tac, Tic-Tac… Dal rubinetto che perde sul muro della mia stanza nel ritmico stillicidio, gocciolando queste ore che non mi fanno dormire, scavando dentro la roccia d’inadeguato presente e Tic e Tac e Tic e Tac e chiudo, per non sentire, gli occhi e il tuo falso ricordo ma il frastuono dei secondi mi rende ancora impotente al respiro cadenzato del tuo volto già disperso dentro il tempo che t’ignora e Ticchete poi Tacchete e potrei anche impazzire solo non lo fossi stato, bussa alla porta la luna che il suo volto più non vedo di crateri somatici, quando lancette veloci ci rubavano ogni istante e Tacchete poi Ticchete e mi chiedo cosa veglio, altra notte che non voglio, che ricerco e più non fuggo che mi vesto ancora insonne che travaglio dentro un foglio nell’appiglio che mi assorda d’altra notte che ticchetta. Di te ho chiesto con voce nascosta Negli incensi che accendono lo sguardo tu non sei, alla fine delle mani all’inizio di un rotondo sentiero nel centro di ogni nostra direzione; mentre il palpito si accorda al tamburo è sincopato il singhiozzo represso come un torto che ho fatto nel silenzio al tempo del tuo nome condiviso. Di te ho chiesto con voce nascosta sapendo di svelare ancora il cuore ma innalzano le ali tue trovate e sotto sterno io vivo il tuo cielo. Cammino nei tre mondi che ora scopro cercando di acquietare il mio giaguaro trovo nei fiumi le pietre più vere lascio nel vento domande scadute. Diana Mistera Melodia incompleta Ed eccolo tornare, il tormento quel senso di inquietudine dentro il voler negare le evidenze pensando che siano solo coincidenze. L’abnegazione creata da questa illusione. Seppur la melodia è già stata scritta l’opera non è ancora finita e la conclusione è ciò che mi spaventa. Come avrai messo le note sullo spartito? Costruendole intorno al mio cuore smarrito. Ma attento al tempo, quello, è ancora indefinito. Musica è droga, musica è poesia Benedetto questo amore, maledette le lacrime che senza seguire i miei comandi scendono dai miei occhi, maledette eppure amate, che non riescono proprio a trattenersi quando le prime note della canzone annunciano l’esplosione del mio cuore, non ti vedo ma mi appari davanti,con quella melodia che un demone travestito da cupido ha voluto comporre e che non riesco a dimenticare, ti immagino salire sul palco, ogni tuo passo sembra essere una corda che si spezza, ti rivolgi ad un pubblico che non capirà cosa nasconde questa canzone. Tu, una bellezza dipinta di tristezza con una maschera nuova ogni giorno..ma gli occhi..quelli non puoi nasconderli, mascherarli e sono quelli che io guardo. Ero sicura che avrei lasciato il mio segno nella tua anima, ma poi tu mi hai detto, non rimarrà altro che quello che abbiamo dimenticato perché niente é per sempre e così rimango ad aspettarti in questo oblio, la chitarra strilla la sua triste melodia, aspetto un abbraccio, aspetto che tu mi dirai ti amerò fino alla fine dei tempi…poi la melodia sfuma..le lacrime sono scese portandomi quel sollievo che la tua voce mi ha sempre dato, abbracciando la tua oscurità mantengo la fiamma perpetua che consuma il mio cuore, perché un giorno tu riesca a ritrovarmi dopo il tuo lungo perderti. Gabriele Palumbo Le note dell’anima C’era qualcosa in quelle note, qualcosa che cercava di consolarti nei momenti più tristi… C’era qualcosa in quelle parole, qualcosa che sembrava capirti quando nessun altro ci riusciva… C’era qualcosa in quella melodia, qualcosa che ti dava la forza per andare avanti ancora una volta… C’è qualcosa nella musica, qualcosa che prende tutto di te e per un momento ti mette di fronte alla tua anima… Rossana Roxie Lozzio Tu SEI musica Tu SEI musica… sensuale come un tango argentino, esplosione di note rockeggianti, basta guardarti muovere! Note che sui tuoi fianchi si appoggiano e proseguono, risalendo fino ad entrarti dentro e raggiungono anche me, attraverso gli occhi, per arrivare al cuore ed indurlo a cantare! Tu SEI musica… melodia, armonia, un mondo di accordi, mentre sorridi o più semplicemente, ti giri e illumini l’universo che rifletti e che prende a somigliare a ciò che hai dentro. Note musicali, le tue, che non hanno bisogno di appartenere ad alcun pentagramma… che non necessitano di essere scritte su alcuno spartito, perché sono perfette così come sono nate. Tu SEI musica… per chi la sa ascoltare e comprendere e fare sua. Luigi Bonzanini Il Messaggero del Re Stavolta, sembrava proprio che tutto dovesse andare a catafascio. La cosa peggiore non sarebbe stata la galera per debiti, ma la vergogna che ne sarebbe inevitabilmente seguita. Ci mancava solo la prigione per coronare la sua reputazione già tanto compromessa. Tutto inutile: le fughe da una città all’altra, le lettere disperate ad amici e parenti che erano rimaste sistematicamente senza risposta, la ricerca spasmodica d’un lavoro qualunque per accontentare, almeno in apparenza,la moglie e i creditori. Tutto inutile. Adesso era bloccato in quella stanza d’albergo, senza nemmeno i soldi bastanti a pagare il conto, e i creditori stavano per rintracciarlo nonostante la fuga precipitosa da Zurigo. Guardò di sfuggita un calendario appeso alla parete: era la sera del 2 maggio 1864. Sarebbe passata ai posteri come la sera in cui il grande musicista misconosciuto era finalmente crollato sotto il peso del suo destino infame. L’uomo s’accasciò sul letto accanto alla borsa da viaggio dove custodiva le sue uniche, vere proprietà: un fascio di spartiti incompiuti e destinati chiaramente a non essere mai eseguiti. Certo non era granché neanche fisicamente: sulla cinquantina, piuttosto basso e con un’evidente tendenza alla pinguedine, la sua testa era decisamente troppo grossa per quel corpo così infelice. Aveva capelli biondi con lunghe basette che tendevano ad unirsi in un collare sul mento sporgente. L’unica caratteristica notevole del suo aspetto erano gli occhi: azzurri e gelidi nella più autentica tradizione sassone. Comunque, adesso erano pieni di terrore disperato. Si era ficcato proprio in una situazione senza uscite, e tutto per cosa? Per una colossale illusione da demente. Aprì la borsa e ne trasse le partiture manoscritte, tutte redatte in bella calligrafia, senza l’ombra d’una sbavatura o d’una correzione. Sfogliò per un po’ quelle pagine coperte della sua grafia minuziosa, con una specie di rimpianto indicibile. Probabilmente, in futuro, tutta quella sua fatica da certosino operoso sarebbe andata perduta. Tutto il lavoro di una vita perso a sognare su quelle pagine che non valevano un soldo: Lohengrin, Walkiria, Siegfried, Tristano. Tutte ineseguite; sogni mastodontici destinati a restare sulla carta alla faccia di chi vi aveva speso sopra tante notti insonni, in questo caso solo lui, il più stupido fra gli illusi. Lui: Richard Wagner, emerito compositore sconosciuto, ex maestro di cappella alla corte di Lipsia, licenziato in tronco per aver partecipato alla sollevazione rivoluzionaria del ’48. Gli venne da piangere pensando a come sua moglie Minna godeva nel rinfacciargli quel primo tracollo della sua inesistente carriera, non tanto perché gli rimordesse la coscienza a causa di quel licenziamento che, in realtà, era stato una sorta di liberazione, ma piuttosto perché doveva ammettere che Minna, come sempre, aveva ragione. Il mondo era un posto sudicio governato da usurai privi di scrupoli: senza denari, niente rispettabilità, niente gloria; Solo la vergognosa necessità di mendicare soldi ovunque e con qualsiasi mezzo. Anche in ginocchio, com’era accaduto a Parigi con Mayerbeer, quel giudeo infame che gli aveva allungato effettivamente un’elemosina per poi mandargli all’aria il Tannhauser. Ancora se li sentiva rintronare nella testa i fischi dei parigini: il più clamoroso fiasco in tutta la storia dell’opera lirica. Merito esclusivo della livida invidia di Mayerbeer per la sua opera che rischiava di metterlo in ombra davanti al pubblico francese. Era dovuto scappare in gran fretta anche da Parigi; poi, tornato in Germania, aveva giurato odio eterno a quell’ebreo borioso e a tutta la sua razza di usurai. Si era sfogato con un volumetto velenoso: “Il Giudaismo in Musica”, ma neanche quello aveva fruttato un quattrino. Sembrava proprio che della musica e delle opinioni personali di Wagner su di essa, all’umanità intera non gliene potesse fregare di meno. Mayerbeer, al contrario, quel laido e danaroso cialtrone, quello sì che era un musicista arrivato, corteggiato, ammirato. E lui, Wagner, aveva dovuto supplicare per avere da quel porco ebreo i denari appena bastanti a passare un inverno, e a quali condizioni poi: doversi adattare a trascrivere per cornetta a pistoni la musica di quell’altro cialtrone, Donizetti! Quel sifilitico scribacchino che sfornava un’opera in quindici giorni, quando a lui erano occorsi dodici anni abbondanti per finire il Tristano. Senza neanche rendersene conto, Wagner prese a sbattere la fronte contro la parete, masticando bestemmie e insulti in dialetto sassone. Il dolore lo fece rientrare in sé; per quando fosse resistente la sua grossa cervice satura di teutonico orgoglio frustrato, il muro era comunque più duro. Tornò a sdraiarsi ma, anche così, il panico lo costringeva quasi a boccheggiare. Esasperato, frugò freneticamente nella borsa da viaggio e ne trasse un flacone scuro con un’etichetta scritta a mano: Laudano. Il medico l’aveva prescritto a sua moglie per alleviare le sue continue emicranie. Scappando da casa per l’ennesima volta, due giorni prima, Richard l’aveva infilato nella borsa con la vaga intenzione di usarlo come ultima difesa delle sue illusioni contro la bieca malignità del mondo. Adesso si trovava sull’orlo dell’abisso, costretto infine a fissare il nulla che lo attendeva in fondo alla bottiglia. Sentì un brivido corrergli lungo la schiena e la volontà annichilirsi dinanzi alla soglia che aveva fantasticato di varcare con cinica noncuranza. Se fosse coraggio disperato o suprema viltà, quel suo avvinghiarsi testardamente alla sua vita disastrata, questo non lo sapeva. Seppe soltanto che non sarebbe riuscito comunque a trangugiare quel liquido nerastro, neanche per far dispetto a Mayerbeer che certo non avrebbe pianto per lui, né per lasciare la combriccola dei creditori a fissare ammutoliti il suo corpo esanime calcolando mentalmente gli interessi irrimediabilmente perduti. No, no, no!… Meglio la galera, meglio il sarcasmo di Minna, meglio persino i fischi e le grasse risate dei parigini. La vita è una ferita sanguinante nell’anima dell’artista, ma lui preferiva essere vivo e ferito nell’orgoglio, magari anche messo alla berlina, piuttosto che una salma anonima nell’obitorio di Stoccarda. Di quella porcheria ne avrebbe bevuto soltanto un cucchiaino, giusto per darsi una calmata e riuscire ad addormentarsi. Poi, domani, all’alba, sarebbe uscito di soppiatto dall’albergo e sarebbe sparito in qualche città remota, magari in Italia dove il clima è sempre mite, lontano dalle nebbie bavaresi e dal sarcasmo di Minna, lontano dagli usurai ebrei, lontano dalla carità pelosa di Mayerbeer. Alla malora tutto e tutti, lui aveva la tetralogia da portare a compimento! Non poteva arrogarsi il diritto di privare il mondo del suo genio. Fu così che il misconosciuto maestro di cappella ingollò un sorso appena del farmaco letale e, senza neanche togliersi la palandrana, scivolò lentamente in un sonno torbido e inquieto. Si ritrovò in un posto strano che pareva proprio un palcoscenico deserto. il golfo mistico era vuoto; niente musica né pubblico, soltanto delle facce arcigne che lo fissavano da dietro le quinte. Ebbe un guizzo di spavento pensando: ancora creditori!… Ma quelle sagome indistinte restavano confinate nella penombra, senza osare accostarglisi. Poi, di lontano, come da un’altra dimensione, gli parve di sentire il suono d’un corno che scandiva il tema di Siegfried e, udendolo, la sua anima fu invasa da un sollievo indicibile come quando, camminando per una via senza luce, si scorge d’un tratto in lontananza un vecchio amico che ci viene incontro sorridendo. Un po’ rinfrancato, Wagner si guarda attorno e s’accorge che su quel palcoscenico male illuminato non è più solo. Qualcuno sta avanzando verso di lui a grandi passi, e lo chiama per nome con un tono di deferente rispetto a cui non è abituato. Quel qualcuno è un giovane bruno, quasi un ragazzo, con il volto d’un pallore esanime e gli occhi dilatati in modo innaturale come quelli d’un pazzo. Il giovane lo fissa e continua ad avvicinarsi; Wagner ne è dapprima intimorito, poi scrutandolo meglio, s’avvede che sorride d’un sorriso ingenuo, quasi infantile. Il giovane, vestito in alta uniforme, gli giunge dinanzi e gli stringe la mano con devozione commovente e, nel frattempo, sussurra a voce bassa: “Maestro, maestro!… Non abbia più timore!…” Tre colpi secchi e violenti alla porta: Wagner si sveglia di colpo e si ritrova nell’infima stanza d’uno sconosciuto albergo di Stoccarda. Alla malora anche i sogni! La squallida realtà bussa alla porta come il destino nella quinta di Beethoven, e il maestro viene colto ancora una volta dal panico. Stavolta è finita sul serio: i creditori l’ hanno trovato e sono arrivati, magari con qualche gendarme al seguito. E’ la fine! La fine!… Che vergogna, uscire in strada con le manette ai polsi!… Nel corridoio risuona stridula la voce dell’albergatore che grida senza alcun riguardo: “Herr Wagner, ci sono visite per lei!…Herr Wagner, mi sente?!…” Maledetto figlio d’un cane rognoso, gridalo ancora più forte casomai qualcuno non t’avesse sentito! Fallo sapere a tutti che Richard Wagner oggi sarà arrestato per insolvenza! Wagner resta muto ed immobile così come s’è destato a fissare la porta oltre la quale lo aspetta un destino inesorabile. E il lazzarone insiste: “Herr Wagner, si sente bene?… Deve aprire la porta o dovrò farla sfondare!…” Wagner non si muove più, pietrificato dall’orrore. Dopo parecchi minuti, riesce soltanto ad articolare una specie di mugolio: “Che volete?…” “C’è qui un signore che vuole parlare con lei. È venuto apposta da Monaco ed ha molta fretta!” Oddio, addirittura da Monaco l’hanno fatto venire!!!… Quello m’arresta e mi trascina in catene fino alla gendarmeria!!!… Oddio!!!… D’un tratto una voce nuova, bassa e incisiva, si sovrappone a quella del locandiere: “Herr Wagner, la prego, apra la porta, sono qui per espresso volere del re! Ho notizie importanti che la riguardano!…” Notizie importanti?!.. Magari Mayerbeer è crepato d’un accidente e vogliono incolpare me della sua morte!… Dice che lo manda il re in persona!… Madonna santa, sta a vedere che stavolta mi danno la pena capitale!!!… L’altro, intanto, ha perso la pazienza e si mette a strillare: “Herr Wagner!!!… Se non apre immediatamente dovrò tornare dal re e riferirgli che lei non mi ha voluto ricevere! Non ne sarà affatto contento!… Il re la vuole assolutamente a corte entro la sera di domani!…” “Il re mi vuole a corte?!… Ma che razza di pasticcio è questo?…” D’un tratto la paura è sparita per lasciare il posto allo stupore misto a curiosità. Wagner si alza e si decide ad aprire la porta. Nella penombra del corridoio, davanti a lui compare un signore brizzolato in marsina nera. Una tipica faccia da imbrattacarte prezzolato con occhi stretti e due baffoni spioventi che assomigliano, pensa un po’, proprio a quelli di Nietzsche, altro gran figlio di buona donna. Lo sconosciuto fa un passo avanti e chiede con compassata cortesia: “Posso entrare, Herr Wagner?… O dobbiamo restare a discutere in corridoio?!” Ancora spaesato e incredulo, Richard lo fa passare e quello avanza nella stanza guardandosi attorno con un sorriso malizioso. Gli basta uno sguardo per capire tutto, e non può fare a meno di sogghignare. Poi si ricompone e, con un tono assai compassato, si decide a svelare il mistero: “Maestro,” ma c’è un velo di sarcasmo nel tono in cui lo dice; “permetta che mi presenti. Sono Franz Seraph von Pfistermeister, segretario personale di Sua Altezza Ludwig II, sovrano di Baviera, e sono venuto espressamente da Monaco per portarla a palazzo. Il re vuole assolutamente conoscerla e credo abbia intenzione di affidarle un importante carica, anche se io personalmente mi sono trovato in disaccordo con lui su quest’ultimo punto.” Ma vedi un po’ che razza di babbuino! Piomba qui facendomi quasi pigliare un accidente, dice d’essere mandato dal re ma che lui, poverino, non è d’accordo su tutta la faccenda!… Il maestro, piccato, non può far altro che rispondere: “Capisco!… Ma cosa vuole il re da me?…” “Probabilmente una sua opera!… Il re è giovane ed anche molto ingenuo. Dato il suo entusiasmo per la musica e le arti in generale, da vari mesi richiede con insistenza di conoscerla.” Pfistermeister fa una pausa e poi mugugna: “Anche se io l’ho ben messo in guardia sul fatto di non essere il solo a richiedere la sua presenza!… Mi risulta che la regia polizia nutra da tempo lo stesso desiderio.” Wagner non sa cosa rispondere e quindi, paonazzo di rabbia, resta muto davanti al messaggero che gli reca la salvezza. Il segretario del re è comunque un uomo di mondo, e capisce l’imbarazzo di Wagner: “Suvvia, maestro, non s’offenda se le parlo a viso aperto. La vita non è facile per nessuno di questi tempi. Io credo comunque che lei potrà trarre grandi vantaggi dall’entusiasmo del re per la sua musica. Se saprà condursi convenientemente, lei presto potrà dimenticare tutte le ristrettezze della sua vita attuale. Non avrà più problemi di sorta!… Prepari il suo bagaglio, bisogna partire subito. Il re l’aspetta a palazzo!” Poco dopo, nuovamente solo nella squallida stanza, Wagner rimugina ancora sbigottito su ciò che il messaggero gli ha rivelato. Il re di Baviera lo vuole a corte!… L’angelo della misericordia divina ha scorto la sua disperazione ed è giunto a recargli la salvezza sotto le vesti di quell’arcigno cortigiano. Di colpo rammenta il sogno in cui si trovava smarrito su un palcoscenico deserto, e il richiamo d’un corno gli ha annunciato l’arrivo d’un giovane in uniforme che lo interpellava dicendogli: Maestro, non abbia timore! Questo, dunque, era il vero volto del destino? Fino ad oggi Wagner non sapeva nulla di Ludwig e certo non immaginava questo lieto fine per la sua tormentata vicenda. Di certo non sa che Ludwig cova in sé il germe della follia che lo porterà fatalmente al suicidio. Non sa nulla e non può fare altro che seguire il suo destino. Forse ci voleva un re folle perché i grandiosi sogni musicali del piccolo uomo infelice e fuggitivo potessero prendere vita e consegnare il suo nome alla storia. Forse ognuno di noi, lungo l’incerto cammino, finisce sempre per incontrare sé stesso. La notte e i suoi tormenti La notte porta consiglio... e spesso reca con sé anche dubbi e tormenti. E sono proprio questi aspetti delle veglie notturne che c'interessano, chiedendoci quali e quante problematiche vengono affrontate nel corso delle ore più buie. Tuttavia è innegabile il fatto che le incertezze, le insicurezze, i propositi più deleteri e le risoluzioni più estreme solitamente si scatenano proprio nel corso della notte. La saggezza popolare consiglia di non prendere decisioni definitive, ma di aspettare la luce dell'alba, la quale normalmente non si limita a rischiarare solamente le volte celesti, ma anche gli animi, portando a più miti consigli e riconducendo la mente verso un percorso logico più terreno e più conciliante. Dunque, cari Portatori di Penne, raccontateci i vostri tormenti e noi aspetteremo l'alba in vostra compagnia, non lasciandovi da soli nelle tenebre. Nadia Lattanzi …ed è notte… “Ma poi cos’è la notte?” “Solo buio e silenzio..solo fantasmi che arrivano e che alle prime luci dell’alba saranno andati a dormire.” “Cos’è la notte in fondo?” “Un mucchio di ricordi appesi dentro ad un armadio, solo vestiti vecchi che puzzano di incubi.” “Ma si..dai dimmi cos’ davvero la notte?” “Forse le mani di qualcuno che non avrebbe dovuto sfiorati?..ma anche no.” “Tu non sai cos’ è davvero la notte.. no non lo sai!” “Si che lo so!” “No! tu non sai che la notte sono solo io..io soltanto. Io. E me. E forse è proprio questo che mi fa paura. Sapere che all’interno di quel buio e al di fuori di quel silenzio non ci sono che io. Io soltanto.” “Allora? Lo sai cos’è la notte ora?” “Si lo so..no..anzi, forse..lo immagino..la notte siamo noi..noi soltanto.” Oliviero Angelo Fuina Angelo è seduto sul confine Angelo è seduto sul confine ha un biglietto di penna d’oca - respira l’odore della pioggia gioca con la pagina del cielo a trovare differenze con i monti; il grigio per suo figlio è rosa - daltonico ottimismo da invidiare gocce tamburellano il tendone assordando i timidi pensieri; lampioni al nastro di partenza aspettano le ombre decisive di un vespero davvero imminente nei colpi di coda del giorno. E’ applauso di acqua scrosciante adesso a fremere le fronde Angelo vorrebbe ringraziare ma non si usa, dietro le quinte, e piega le spalle senza inchino nascondendo un sorriso di sfida. Gocce di piano e carezze d’archi (a mia madre) Gocce di piano e carezze d’archi sotto la pelle, vicino al cuore parole e suoni di me bambino sotto le scale di una canzone; gocce di note sulle mie guance dentro i riflessi della mia casa ricca di tante povere cose della tua mano sulla mia testa, dei tuoi sorrisi ai miei pensieri di quel profumo sulla tua pelle delle impazienze senza ritorno, mesto tuo sguardo al vecchio tiranno, che gli anni miei lontano spingeva dalle carezze mai più trovate. Gocce di sale scendono dense di vita sapida senza di te. Sono io il grande e tu la bimba che nei miei gesti cerca il fanciullo perso fra scale fatte di fretta, per quel bisogno di essere altrove tanto lontano dalle mie risa troppo distante dalla tua mano. L’assedio più lungo Nuova mi appare la costa sassosa d’arida terra dagli alberi spogli dai forti venti marini, svestiti e l’orizzonte dei miei chiari monti stagliati nel cielo color del mare d’Itaca sono e più non conosco. Di Patria è mendace il mio ricordo: è forse questa un’isola spersa nell’acque per decenni che ho solcato? (Mai fidarsi dei marinai feaci forse golosi dei doni d’Alcinoo). Sono partito con manto regale faccio ritorno di stracci vestito, mendicante, nell’usurpata casa, di quei vent’anni rubati da guerra perdendo donna nel dubbio che sale per la vittoria di noi tutti achei. Qual è l’onore da Elena perso? Per quanti lutti nel gioco di dei ho perso figlio nei verdi suoi anni? Mai la realtà si confronti col sogno quando al risveglio ti trovi privato di tutta una vita per mari persa da riafferrare con mano straniera ancora usando quest’arma d’imbroglio. Lo sconosciuto Telemaco figlio conosce l’ordito del mio inganno la sempre amata Penelope sposa tengo a distanza nel fingermi altro. È vento di sale che bagna le gote o nel mio cuor si rivela dolore per un ritorno a lungo sognato e ritrovarmi da lei più distante? Come mai un bagliore di sospetto non rischiara stracci da mendicante, nella mia taciturna Penelope, da palesarle presenza di sposo spazzando nubi inquiete timorose? [“Perché si rivela a tutti e non a me l’agognato sovrano nel ritorno? È forse sol maschile la vendetta O la fiducia s’è persa fra i mari? Nell’incredulità, implacabile, ostenterò inquietudine tacendo. Non posso perdonargli l’abbandono, m’assistano gli dei nella schermaglia testimoni del mio risentimento”] Antioco dei Proci, la fiera più scaltra, sguardo le intreccia, talamo mirando e la mia sposa, pur sempre una donna, nel desiderio, annega il rimpianto? Dodici cerchi la freccia trapassa le sue sorelle mutilano membra, lavano ancelle quell’immondo sangue ma del mio regno non sono padrone se mi rifiuta, Penelope, sguardi. Torto ha subito, da mia dipartita seguendo l’onda dei miti immortali, m’aspetta ancora l’assedio più lungo per conquistare fiducia e il suo cuore varcando porte da lei spalancate. È vana la mia celebrata astuzia se non può far breccia nelle sue mura, mi spoglio, di eroe, delle mie gesta stivali d’avventura getto al vento per consegnarmi ancora il suo re scalzo. Quel tuo infinito a termine Eppure non ti ho chiesto io di scrivere i tuoi sui riflessi del mio nome, accecandomi di Speranza; era allora il tuo presente quell’infinito a termine che volava l’elastico in ritorni convenuti. E oggi tu mi domandi come respira il mio cuore mentre io boccheggio a vuoto l’indifferenza mentita. E’ di te la mia risposta che non voglio comprendere tu che hai chiuso l’orizzonte nel recinto del tuo mondo. Ho nuove ali in collaudo per rotte quasi colluse la mia prudenza è il tuo dono in radente via di fuga - aspettando correnti ascensionali - Si è sempre soli …Si è sempre soli, ad ogni risveglio in ogni pensiero che segue lo sguardo portando alla bocca la tazza del latte ferendosi il volto nell’aria di brina. …Si è sempre soli, in mezzo alla folla ognuno fra bolle di sopravvivenza sfiorando contatti a scalfire la quiete contando nei passi distanze d’abisso. …Si è sempre soli, in ogni dolore gridando a se stessi la voce del vento pareti di carne attutiscono il verbo e i muti lamenti bestemmie taciute. …Si è sempre soli fin dentro un abbraccio vestendo di pelle la propria corazza spacciando la brama per doppia scintilla vivendo l’orgasmo rappresi sui sensi. …Si è sempre soli anche l’ultimo istante cercando ricordi nell’urna esclusiva nell’ultimo verso che non si è dettato lasciando più soli quegli occhi di pianto. Ti leggo allo stipite del giorno Ti leggo allo stipite del giorno, fra le mani la tazza di caffè e il mio vero diluito sguardo, tra sbadigli di piazze e di case; ricevo la carezza di lemmi che distanza annulla nel sospiro di tastiere complici e ruffiane, allungando amichevoli dita. Attimo di grazia regalato nel suono di parole mentali, nel sorriso che schermo riluce prima che s’affossino le spalle. Andrea Borrelli Autunno Mosse le braccia degli alberi al vento che strofina le foglie musica la pioggia nelle orecchie cader quel po’ d’acqua di più non riesce a fare lo spettacolo continuo sembra mai avere un fine diverso se riempire goccia dopo goccia il cuore irrobustendolo senza aver luce per sé gridare al mondo adorazione per il grigio. La stanza alle mie spalle Il ricordo di te è la stanza alle mie spalle. Si è ripulita con l’odore di nuovo che adesso l’ attraversa e unita al sapore della tua confusione immediata ci richiama. Del tuo viso è stata incoronata la parete bianca, macchiata con una vecchia musica, graffiati i versi di un canto come gli altri uniti da te con i miei. Ho preteso l’armonia stonata degli oggetti e teso il pensiero. Lasciando la fioca luce che illuminava lo spazio nero. Col tempo ingigantirà la sua luce e sfiorerà di nuovo le sue labbra con il buio. La notte passerà al giorno di nuovo il giorno alla notte. E sarà prima buongiorno. E poi buonanotte. Trucco e parrucco L’ho deciso oggi struccare i ricordi del passato Indossare una finta chioma d’idee nel presente Mostrare l’anima com’è veramente solo in futuro rimandando per sempre. Giancarlo Ibba Foglie d’Autunno Foglie d’Autunno, incendiano orli di sentieri bisbiglianti e fatui merletti di ghiaccio, preludio di fiocchi silenti nelle insonni aurore. Dalle vette immortali, giganti di pietra, vegliano… in attesa del nulla. Elena Grifoni Loop Percepisco la luce che filtra dalle persiane chiuse; sento una specie di chiacchiericcio, deve essere una radio accesa. Beh, ormai non ho più sonno. Mi tiro su a sedere sul letto e con gli occhi ancora chiusi infilo le ciabatte, mi stiracchio un po’, mi alzo. Saluto il mio coinquilino, poi le solite cose: bagno, colazione, vestiti puliti. Esco con lui per andare a lavoro ma qualcosa non quadra: davanti casa, invece del solito giardino incolto, si apre una strada trafficata dove un fruttivendolo, munito di ombrellone e scatole di ortaggi, urla ai passanti slogan accattivanti per incitare all’acquisto. Mi giro verso il mio coinquilino per farglielo notare, ma al suo posto c’è una mia vecchia compagna di scuola che, come se niente fosse, chiude a chiave la porta di casa e mi esorta a seguirla a passo svelto per non far tardi a lavoro. “Sto sicuramente sognando” Nell’istante stesso in cui la coscienza del sogno fa breccia nel mio inconscio eccomi di nuovo sotto le coperte, la luce che filtra dalle persiane, un chiacchiericcio di sottofondo mi fa pensare a una radio accesa da qualche parte. Apro gli occhi… che strano sogno. Mi alzo, infilo le ciabatte, mi stiracchio un po’, mi lego i capelli e esco dalla camera; saluto il mio coinquilino, poi le solite cose: bagno, colazione, vestiti puliti. Esco con lui per andare a lavoro. Ci fermiamo in un bar a fare colazione, io ordino un macchiato e un cornetto e lui un cappuccino. Un momento… ma io ho già fatto colazione! O sbaglio… e poi perché quando arrivo alla cassa mi fanno pagare cinquanta pezzi dolci? Di chi sono gli altri quarantanove? “Accidenti, sto di nuovo sognando!” Sono di nuovo nel mio letto, sento il tepore delle coperte che mi avvolgono. Non mi va di aprire gli occhi, credo che aspetterò la sveglia. Avverto l’aprirsi e richiudersi della porta della camera, e passi silenziosi di qualcuno che attraversa la stanza; ne vedo la figura attraverso le palpebre chiuse. Le doghe del letto cigolano piano mentre il materasso si alza e si abbassa, chiunque sia si è sdraiato accanto a me, posso sentirne il calore, sento il suo respiro e indovino le sue emozioni combattute. Poi il peso si sposta di nuovo e il calore si dissolve. Percepisco la luce che filtra dalle persiane e una specie di chiacchiericcio in sottofondo; tiro fuori le braccia da sotto le coperte e mi allungo più che posso; mi tiro su a sedere sul letto, mi metto la felpa e sto per mettere i piedi nelle ciabatte quando suona la sveglia! Apro gli occhi di colpo: sono sotto le coperte, tirate quasi fin sopra la testa. D’istinto mi giro verso la parte vuota del letto a due piazze quasi aspettandomi di trovarci qualcuno. Mi tiro su a sedere sul letto, spengo la sveglia, la radio chiacchiera nell’altra stanza. Mi infilo le ciabatte ed esco dalla camera. Saluto il mio coinquilino con un: “Di nuovo buongiorno! Questa è la terza volta, stamattina”. Lui mi guarda come se fossi matta e continua a mangiare il suo pane e marmellata. Sono appena le otto e sono già stanca… questi sogni a Loop mi sfiniscono ancor prima di alzarmi dal letto! Sebastiano Impalà Miele d’acacia La mia donna ha gli occhi grandi quando posa i suoi capelli sul cuscino dell’amore. Si avvinghia lentamente alle mie gambe in un amplesso senza fine e i suoi seni, acini di uva asprigna, odorano di vento fresco. Nella notte distinguo il suo bagliore come luna senza tempo che danza con galassie impertinenti ed amo il suo sapore che miele d’acacia sgorga di passione. Ora son suo, irrompo nel suo sesso per sconfiggere le ombre, lambendo coi pensieri il concetto assurdo dell’eternità. Rosa D’agostino Notte Passano lente, come ombre vaganti, le ore, i minuti, i secondi, danzano con movimenti lenti svolazzano come farfalle impaurite le vedo avvicinarsi ed una musica rintocca come una campana che suona a morte. Vorrei alzarmi, ma non riesco a muoverei le gambe, sento la gola arsa, la testa che mi scoppia sento una voce calda due braccia che si tendono sento sfiorarmi il viso sento baciarmi le labbra. voglio dormire chiudere gli occhi e sognare le ore passano sono ancora sveglia a rincorrere fantasmi, la finestra s’apre è un soffio di vento a smuovere una tenda è l’ombra di un albero che si proietta sulla parete è un orologio che batte il tempo, è solo il mio pensiero che crea dei fantasmi è solo una notte come un’altra… non dormo… vorrei averti accanto e sogno ad occhi aperti. Diana Mistera Notturno Rimango a guardarti mentre cerchi di seguire le tracce invisibili che ti ho lasciato per raggiungermi in quelle terre sconosciute della tua anima. Illuminato dalla luna mi insegui cullato dalla mia voce viaggi dentro questo tempo distorto. Ma la notte sta lentamente svanendo portando con se tutte le sue stelle lasciando un silenzioso, frustrante, vuoto di memoria. Elisabetta Bagli Ora so chi sei Ora so chi sei, non cercarmi, non ti risponderò. Continua a credere nella tua verità, continua a trattare le tue persone come bestie. Getta su di loro il fumo della tua mente, ordisci le tue trame di false parole. Sei finito. Credi di avere il mondo in mano, ma sei un povero, vecchio predatore. Stanotte ho sentito la tua paura, codarda, beffarda, infima amica. Senza rischi, l’hai abbracciata dimenticando le promesse che mi hai fatto. Ora so chi sei. Sei l’acqua putrida che ha sporcato il mio cuore, il petto ansante che ha mentito al mio seno, le labbra perverse che hanno giocato con le mie, gli occhi impietosi di un amante malato. Ora so chi sei e non guarderò indietro verso la fiamma che ha consumato il nostro fiele. Calpesterò con spilli di piombo il ghiaccio gracidante della tua anima nera, affamata di terra bruciata, di polvere solitaria e di morte in vita. Monica Pasero Tenebre In questa notte avvolta dalle tenebre riaffiorano fantasmi prigionieri della mia anima Volteggiano liberi nel buio Oscurando i miei pensieri perduti. Flutti di vita riappaiono nell’oscurità dipingendo esistenze immaginarie ombre che si saziano del loro bisogno reciproco affiorano innanzi a me nel mio eterno fantasticare Cosa ti manca Questa settimana i nostri autori si prodigheranno nel farci capire cosa manca, cosa manca a livello, materiale affettivo o di valori. Cosa più riempire quel vuoto che a volte sentiamo, cosa si pensa possa essere usato per raggiungere la felicità, cosa per sentirsi completi e soddisfatti. Chissà quali sono le cose di cui poi si sente la mancanza. Cosa è sempre mancato o cosa c'era e poi non abbiamo più trovato. Voi cosa rispondereste se vi chiedessero: Cosa ti manca Giancarlo Ibba Basta! A capo chino, ti vorrebbero, muto sarcofago di rimpianti, sfinito dal vuoto delle loro miserie, senza più orizzonti blu da esplorare… Ma non devi essere per forza cosi’. Basta! Esci dalle comode catene della rassegnazione, uccidi l’abitudine alla quiete preconfezionata, dichiara guerra alla pace grassa dei potenti, vivi o muori, l’attimo e’ adesso. Dimentica il maestro, ricorda gli insegnamenti: non porterai nulla, ma lascerai tutto. Gabriele Palumbo Che cosa ti manca Volevo arrivare fino in fondo, ogni volta, per trovare qualcosa che non fosse di nessuno…e se fosse arrivato qualcuno avrei detto:”qui non è di nessuno”… ma nessuno arrivava… E tu, ogni volta, mi ripetevi: “che cosa ti manca?”… non lo so” dicevo sempre, “tutto e niente… mi manca la radio, mi manca l’asfalto, mi manca lo sguardo, il giudizio degli altri, mi mancano i soldi, mi manca un motivo per sentirmi al centro, un armadio dove mettere i giorni che sto perdendo… tutto e niente”… poi guardavo il cielo, le notti bruciavano di stelle… e tu mi rimboccavi le coperte, per non vederle… “mi mancano gli altri, mi manca la voglia di averli davanti”… Andrea Borrelli Città Si intasa l’aria degli odori sporchi Lucidati come maniglie da vecchie e nuove braccia mozzate Fin tanto ne entra nei polmoni Respiro ancora e assapora il gusto Del catrame Eppur a questo nauseabondo Non mi stanco Se me ne distacco Ancora torno al tono nero dell’affanno A ricordarmi quei giorni in cemento. Lamento Credo che mi sia sempre mancato il coraggio La cosa che mi ripeto più spesso L’ unico assente a cui ho sempre pensato Indignato Contestato Sopravvalutato Criticato Offeso Guardando l’immagine riflessa Me stesso Avrei voluto avere più coraggio Buttarmi Arrampicarmi Scagliarmi Lanciarmi Cadere In quel vuoto che è dietro lo specchio. Sebastiano Impalà Cronaca di poveri amanti Vengo a prendere il tuo cuore, creatura dai colori della notte, dai mille pensieri che turbinano nel cielo. Alito di donna sulle mie spalle asciutte, brividi di un’estate silenziosa e mite… al mattino ti ritrovo accanto a me. Assente, nei tuoi capelli sciolti ritrovo il corso della storia, la vita che pulsa nello stomaco, il vorace sentimento che divora l’umile diaframma del soffrire. E mi ritrovo errante come un turista spento al tuo abbandono quando i confini del tuo mondo non toccano più i miei. Solo una foto in bianco e nero, cornice impolverata sul comò unico ricordo di una storia vissuta e mai scordata da due poveri amanti come noi. Regina Re e nik56 Il tiro Mi fa male qualcosa che non so sto scocciato e ho fatto un po’ di tiri oggi perché il genio, quando c’è, collima tutto. Ma ora tu che passi ispirami, piantami un chiodo nel cervello con un tiro lungo. “Io non so sparare.” Non lo sai se sai sparare o meno, andasse a fare in culo lo sparare o meno. Dimmi cosa, dimmi quando, dimmi che. La cosa che è la stessa cosa, prima e dopo il quando come quando fuori piove, piove come e quanto non sai più se e come piove dove non c’è più il quando. Piovono chiodi nel cervello senza spari, Dunque niente chiodi, non ho la mira, e te l’avevo detto. È un divertissement, non è poesia. La poesia fa male. Questa fa il solletico alla pineale. Oliviero Angelo Fuina Io, che mi manco da morire (E adesso anche tu non sei già più tu io, invece, non lo sono più stato.) Ho annacquato il tuo sguardo d’annata tracimando il mio lago dal volto; ho trovato nuove sponde piane d’abbracciare con sguardo mio lento. Rimane l’eco d’un tuffo sciolto del gabbiano con ali di piombo che nello slancio d’altre rincorse ha perso del volo la tua spinta. Sopra i fogli scrivo la mia storia, barchette di carte alla deriva nei notturni canali a perdere, sperando in una secca del tempo. Fumoso ectoplasma imperfetto che fioca lampadina riflette, inutile cercarne il contorno fuori dall’urna della memoria. (Ed io, che mi manco da morire, e tu, che non sei forse mai stata.) Diana Mistera Ispirazione Una strana sensazione di vuoto mi assale e non sento più nulla i sensi sono addormentati ibernati, i loro scheletri coperti di neve in cui il ghiaccio ha fermato il tempo. Tutto quello che mi avvolge è l’assoluto, pesante silenzio che mi contorce; sono sorda cieca smarrita, in compagnia di quel disagio che chiamo mancanza di ispirazione. Elena Grifoni La pagina mancante C’era una volta e non c’è più il regno fatato di Timbuctù. Lo so, è vero, esiste ancora ma solo il nome e non la dimora di quella città di antico splendore dove regnavano la gioia e l’amore. “Sei un po’ scontata!” direte voi, “Ma è una favola! Che altro vuoi?” È una storia che narra di una principessa, di un bosco fatato e una madre badessa, che una strega cattiva, (non abbia a mancare!) dal regno decise di eliminare. “Con pozioni fatate o mele avvelenate?” Non siate ridicoli… soluzioni già sfruttate! Per far piazza pulita di rivale, badessa e bosco non scelse la magia, ma un rituale ancor più fosco. Lasciato il calderone sul fuoco con la zuppa, munitasi di razzo e fuochi d’artificio, con sottile astuzia e un tocco di fortuna spedì l’intera corte in alto sulla luna! “E come va a finire?” Domandano impazienti i bimbi tutti in coro seduti nel cortile. La cosa è alquanto strana, e un poco imbarazzante… qui, proprio in fondo al libro c’è una pagina mancante! “E adesso che si fa?” mi chiedono i bambini “Sapere mai potremo, se principessa e corte dalla lontana luna son scesi in un baleno!” Bambini state allegri, smettete di belare in quanto è cosa nota che per un bel finale non serve la magia ma solo fantasia! Nadia Lattanzi Mi manchi …mi manchi tu, e le tue risate… Mi manchi da starne male. Mi manchi tanto da sapere di essere un “in più”. Mi manchi e a volte non so neanche io il motivo… Mi mancano le tue mani nelle mie, anche se poche volte ce le hai messe… Mi mancano sulla mia pelle..ad accarezzare a mesi alterni. Mi mancano le parole che ognuna dice all’altra nel momento esatto in cui vorrebbe dirle… Mi mancano i caffè della mattina… le buonanotti sussurrate a tre centimetri di distanza… mi mancano gli urli per un dentifricio finito in fretta… mi mancano le incazzature di un lavoro da raccontare… mi mancano le verdure bruciate per far l’amore o ancora le corse a recuperare un bacio chissà dove… Mi manca tutto, anche se mi fai sentire come una a cui non dovrebbe mancare niente e coi chilometri che ci passano in mezzo, riesci sempre a farmi stare bene..ma poi quelle piccole cose di “un di noi” nessuno ce le può dare ed è per questo che continui a mancarmi. Ma si… tutte ste parole perché alla fine… mi manchi tu. Rossana Roxie Lozzio Troppe le cose che mi mancano Troppe le cose che mi mancano… mi mancano il sorriso rassicurante di mia madre, i rimproveri di mio padre, le loro voci. Mi mancano gli amici lontani, anche se li sento sempre accanto e presenti, nel cuore. Mi manca la sicurezza in me stessa, la serenità, tanti Natali con coloro che mai più potranno esserci o che mai ci saranno. Mi mancano tante, molteplici cose… ma soprattutto sei tu, a mancarmi! Al punto da far sì che mi si spezzi il respiro e che il dolore mi si arrampichi dentro… fino a radicarsi nel punto più profondo dell’anima. Strani incontri Gli strani incontri a volte cambiano la vita. A volte rappresentano quel particolare che ci induce a rivalutare tutto ciò in cui abbiamo creduto, che abbiamo fatto e abbiamo pensato. Incontri che possono durare un breve attimo oppure che diventano fattori stabili nel nostro quotidiano. Nessuno può dire con certezza perché avvengano in determinati momenti, magari quando più abbiamo bisogno di un cambiamento radicale nella nostra esistenza, così come nessuno può stabilire quando sia il momento più adatto, tuttavia succede. E quando questo accade, gli strani incontri diventano fondamentali, a volte persino per la nostra stessa sopravvivenza. Che sia la fantasia o la realtà a muovere la vostra Penna, non fatevi scappare l'occasione di renderci partecipi delle vostre esperienze. Anna Cibotti Strani incontri Lei era là. Lontana dalla riva lungo la quale stavo camminando sotto quel sole di luglio. Non so perché mi venne di guardarla Stava seduta sulla sabbia con un bambino in braccio. Il piccolo teneva la bocca sul seno di lei che lo guardava teneramente. "E' troppo grande quel bambino per essere ancora allattato", pensai. La sua testa riccia rimaneva ferma sul petto della donna e assieme a lei formavano un quadretto sconcertante. Continuai a camminare, ma mi voltai continuamente, incuriosita dalla scena insolita. Lei non si mosse né girò mai la testa verso di me. Rimase immobile e indifferente al resto del mondo come se fosse sola. Li avevo appena visti e di loro non riuscivo a ricordarne i particolari. Solo una piccola testa riccia color seppia affondata nel seno di una donna identica a lui. Ci pensai e mi chiesi perché lo feci: ma non trovai una risposta. Solo quel giorno la vidi. Passò l'estate e me ne dimenticai. Ma l'hanno dopo lei è tornata. Un giorno di luglio, anche se non so, se fosse lo stesso dell'anno prima. Solo quel giorno!. La cosa strana è che l'immagine di loro due era identica a quella precedente. Stessa posa immobile e il bambino avidamente stretto al seno. Inquietante la cosa. Qual'è quel bambino che non cresce da un anno all'altro! No, era rimasto come l'avevo visto, grande per essere allattato ma non cresciuto come la logica vorrebbe. Passai loro vicino e li fissai. Niente. Non diedero nessun segno di avermi vista. Mi voltai ancora e ancora mentre mi allontanavo finché non furono che un punto sfuocato e lontano. Fu l'ultima volta che li vidi. Ricordo la loro immagine sbiadita come una vecchia fotografia incolore e sciupata dal tempo. Penso che se li avessi toccati, si sarebbero sciolti come sabbia tra le dita. Forse quest'anno lo strano incontro si ripeterà. Ma sarà cresciuto il bambino? Andrea Borrelli P. ed I. non trovano pace Immaginate per un momento. Immaginate due uomini. Per tenere l’anonimato li chiamerò solo con l’iniziale del loro nome. Immaginate, quindi, due uomini, uno P. e l’altro I. Due uomini completamente diversi tra loro, fisicamente ed intimamente, che ad un certo punto della loro vita si incontrano faccia a faccia, in un dato luogo e tempo, senza la possibilità di poter tornare indietro o di andare avanti. Ma con la sola certezza di vivere così, uno di fronte l’altro, completamente diversi. Ognuno con il suo pensiero. Adesso si avvicina un terzo uomo, M. M. è bugiardo, cattivo, irascibile, falso, prepotente, manipolatore, superbo, vanitoso. Ad M. sta bene che P. ed I. non smettano mai di litigare. Anzi ad M. sta bene che P. ed I. non solo litighino, ma passino dalle parole alla violenza. Più la discussione cresce, più M. accende gli animi, per vedere questa violenza. Non si allontana mai, ma sussurra parole d’odio all’orecchio prima di uno e poi dell’altro. Due uomini che discutono in maniera accesa, senza riuscire a trovare un compromesso alla loro logica, ma continuando nessuno dei due riesce ad allontanarsi neanche di un passo dalle proprie ragioni. M. sembra mai essere soddisfatto, incalza fino a quando P. ed I. iniziano a prendersi a botte. M. guarda e sorride, è contento. Rincorre gli uomini e preme affinché continuino a farsi del male. Immaginate P. ed I., prendersi a calci, pugni e scorrere il loro sangue. Ma non finisce qui. Ogni volta che uno scaglia un pugno verso l’altro con la mano destra, poi con la sinistra allunga il braccio per aiutarlo a rialzarsi. Così a vicenda. Ferirsi, accoltellarsi anche spararsi. Poi aiutarsi di nuovo a suturare la ferita. Perché M. è cattivo, ma non fino al punto di vederli morti, solo sofferenti e così poterli veder curare, prendersene il merito. Continuare a tal punto che M. osserva, rimprovera ed incoraggia ancora. E loro farsi del male e poi ricucirsi. All’infinito. Adesso immaginate di poter dare un nome vero a tutto questo. Immaginate di poter chiamare P. come Palestina e I. come Israele, ed immaginate il Mondo che li guarda. Immaginate il dolore che c’ è. Immaginate quello che manca. Denis Cornacchia Quella notte al faro Ricordo ancora il suo corpo appena unto di sabbia bagnata. Io sedevo accanto la lanterna, al di fuori della stanzetta, sul belvedere del faro a fumare l’ennesima sigaretta quando il tempo si prese una pausa… In sintonia con un tramonto di quelli particolarmente intensi di luce armoniosa, pronto a cullare i pensieri, si, proprio quelli che aprono le ali della fantasia, quella sera magica volgeva al termine, quando un lieve vento adagiò ai miei piedi il planare di un piccolo foglietto bianco. Strano dissi, fin qua su, cosa può mai arrivare dal basso, eppure c’è, ed è lì che mi guarda, dovrò pure assumermi la responsabilità di scoprire cosa c’è scritto. Rimasi immobile, lo sguardo riprese a tratti il tramonto ed il faro acceso, come una videata cerimoniale, pur se di scarsa ufficialità, per me fu un attimo sublime. Il mare faceva finta di non vedermi e se ne stava sereno a bassa voce. Decisi allora di metter mano a quella macchietta bianca davanti a me, accartocciando l’oggetto non identificato, lo strinsi nella mano e continuai a fumare indisturbato. In basso, la sabbia sembrava color oro sbiadito, ogni tanto presenze silenziose riempivano con gracili rumori quel manto maestoso. C’era una bella veduta dal sommo guardiano, poi un’occhiata lungo il fior d’acqua, poi un’altra e un’altra ancora e quando la sigaretta terminò, aprii il foglio, alternando lo sguardo con una strana figura all’orizzonte, ferma, si capiva che era una donna, con i capelli lunghi e neri, indossava un velo bianco trasparente e il costume azzurro mare. Lessi il foglietto ormai quasi consumato, c’era un numero di telefono. Pensai che le coincidenze rimanessero tali e che in fondo il paranormale fosse tutta un’altra scienza. Il tramonto stentava un piccolo bagliore, decisi allora di inviare un messaggio con il cellulare, ero curioso di sapere a chi appartenesse quel numero, e così feci. Nessuna risposta. Il vento tremò risvegliando le acque fin troppo accomodate; cercai di nuovo la donna dal manto bianco, ma nulla. Mi alzai tutto scricchiolante intenzionato a rientrare e scendere così dalla torre quando un ultimo sguardo verso il mare, mi regalò la dea dal manto bianco, era lì e guardava verso me. Rimanemmo forse per più di mezz’ora non ricordo, fermi fissi a guardarci, senza un cenno, un movimento che facesse intendere un primo approccio. Di colpo il cellulare emanò il suono unico del messaggio: chi sei? Il cuore scelse di ballare più in fretta, era suo, quel foglietto era suo. Le risposi: sono il guardiano del faro, cosa ci fai lì tutta sola? Non rispose subito, si girò verso il mare e aggiustandosi i capelli gridò qualcosa che non riuscii a comprendere. Mandò un altro messaggio: io sono Roberta, sono nata in questo faro. Conosco le tue abitudini, so con quanta passione svolgi il tuo lavoro, ma soprattutto scopro ogni giorno che passa, il tuo amore per il mare. Interminabili attimi correvano in quella notte di luna piena. Decisi di scendere, ma qualcosa mi diceva di andare piano, di non correre sui scalini della chiocciola, come se non avessi nessuna meta da scegliere. Arrivai sulla spiaggia e finalmente era lì, di fronte a me, col sorriso sulle labbra e la mano tesa. Camminammo sulla sabbia umida per chilometri. Si parlava di noi, della vita e della storia del vecchio faro. Ricordo che lei mi prese per mano e stringendosi il mantello e a me, mi chiese: puoi amarmi? Non capivo più nulla, tutto troppo in fretta, eppure la stringevo a me, ascoltando lo stesso mare e respirando la stessa emozione. Arrivati al faro: è tardi, devo controllare la lanterna su alla torre e poi devo riposare, domani sarà una giornataccia per me, ci sono molti rientri al porto e devo segnalare il loro arrivo. La baciai e nel salutarci lei mi riprese la mano e mi seguì. Notte indimenticabile, nell’incertezza di esserci, mi sembrava tutto un sogno, eppure fu reale. Notte d’amore e di dubbi, non si trattò di fare la parte del maschio, c’era molto di più, forse amore a prima vista, forse l’unica verità fu amarci per una sola notte, forse nulla di tutto questo. So con certezza che dormii per un’ora soltanto e che al risveglio mi ritrovai sulla spiaggia coperto da un velo bianco dal profumo di fragola. Salii sulla torre, questa volta correndo, controllai la lanterna ed uscii sul belvedere, accanto la porta in vetro, cicche di sigaretta sparse ed un mucchietto di carta bruciata. Mi girai verso il muro esterno della torre e proprio in direzione del mare c’era una scritta: Alfa e Omega – Roberta… per sempre. Frastornato, accesi l’ultima sigaretta rimasta e mi adagiai nello stesso punto della sera prima, assorto nei pensieri e stupito di essermi innamorato di un fantasma. Il manto bianco si disperse nel nulla, il mare s’infuriò ed il faro segnalò: pericolo. Oliviero Angelo Fuina Aghi di brina Aghi di galaverna, stalattiti di fiele, del cuore, alle pareti, nel gelo del tuo sguardo; diteggio le parole sui datati spartiti, cacofonico testo di musica immemore; eteronomo gesto la mano nel taschino, eufemismo eufonico per spacciarti sorriso; del tuo scozzare carte sul tavolo graffiato d’impotente dolore, ti rassegno vittoria. E nel mesto profilo del mio voltarti viso, lascio ai tuoi piedi gocce d’aghi di brina sciolti Senza parole Se avessi saputo che l’incontrarti mi avrebbe arrecato una così grave perdita, quel giorno sulla riva del mio lago non mi sarei mai permesso di sfidare note leggi fisiche facendo saltellare la pietra piatta sulle vene pulsanti dello specchio d’acqua. Uno, due, tre, quattro, …e si!, cinque salti per il mio sguardo sempre stupito. Niente di male, in questo atto di sfida. Male fu cercare la tua muta approvazione, con fiero sguardo proteso, come se essermi testimone fosse indispensabile. Tu nel tuo anacronismo statico di lunga veste bianca e ombrellino in tinta. Tu, il lago ed io, che già vivevo in un quadro di Monet! Qualsiasi parola al riguardo avrebbe potuto frantumare questa tela ma tu, disegnandoti un sorriso d’invito, ti girasti verso l’acciottolato che tagliava il prato, sommando passi che aspettavano la sfida. - Qui, anche dopo sei passi, sicuramente non affonderemo – ti dissi stupidamente dopo averti affiancato nel ritmo. - Ne sei proprio sicuro? – fu la tua risposta sibillina, prendendomi con inusuale confidenza sotto braccio. No. Non lo ero più. E nuotare nel mare tempestoso del mio sangue ribollente dal cuore divenne impresa ardua. Galleggiammo comunque tutto il giorno in un lago di seta su zattere di pelle e carne ed i tuoi sospiri furono petali di ninfa nelle mie liquefatte emozioni. Quando le nostre ombre si uniformarono al crepuscolo sdraiato nella stanza, la carezza del tuo sorriso si fece portavoce nel tuo commiato. Con stupita confidenza andasti a lavarti e ti rivestisti di quel bianco ancora luminoso nei contrasti serali. Ti vidi andar via come quando uscisti dal lago, per quello che ricordo. Solo l’ombrellino rimase chiuso. Scostai lacrime di lino e dall’occhio di vetro della stanza ti seguii fino al tuo voltarti verso me, regalandomi il tuo ultimo sorriso. Senza parole. Come da allora ne rimasi senza io. Le uniche superstiti furono quelle di questo ricordo che porto nel taschino della giacca vicino al cuore. Tutte le altre mie parole sono restate sulla tua pelle conosciuta da sempre. Il tuo nome soltanto mi è rimasto sconosciuto. Non potendo chiamarti scrivo di te con le uniche parole rimaste. Ferma quel gesto che l'anima strazia! L'Uomo tramonta nella sua natura quando equilibrio più sacro distrugge è femminile ogni ventre d'approdo nel miracolo più intenso di Vita. Spegni nel cielo la parte che vale quando precludi l'armonico volo: ferma quel gesto che l'anima strazia, che dolce saggezza nega al tuo sguardo! Crimine orrendo perpetui nel Mondo mentre rinneghi natura migliore sol anche una donna messa a tacere porta un silenzio che mai potrai dire. Uomo è la somma di entrambe le parti muore a sé stesso chi alza la mano; possa la Dea cancellarti dal Libro di razza umana riflesso divino! Andrea Borrelli Per strada t’ho amato Siamo cresciuti lontano non conosciamo noi la voglia del domani ha sapor dolce richiamo Non scosse il vento la pelle ma l’ urto degli occhi lo sguardo un secondo s'allinea Per saper due rintocchi di labbra socchiuse la voce andar piano ci scopra vergogna “ciao” Blocca un respiro. Sogna la bocca. Sfiora l’ anima E l’ aria si tocca. Rosa D'agostino Uno strano incontro Apro il computer cerco facebook faccio scorrere un po la home... curiosità su quel che scrivono i miei amici..qualche condivisione di link simpatici poi un nome noto: Alberto Rossi ma guarda un pò ! questo deve essere un mio vecchio compagno di scuola, a quei tempi era fidanzato con la mia compagna di banco. Chiedo l'amicizia e scrivo un messaggio: Ciao ! forse noi ci conosciamo.. sei di Messina , andavi all'ist.tecnico? ti ricorda qualcosa il nome Maria Vinci? ecco che mi risponde: si, andavo al tecnico ma non mi ricordo di Maria Vinci, mi ricordo di una ragazza bionda che dopo diplomata ha lavorato in una agenzia di viaggi ed ora guardando la tua foto..posso sicuramente dire : sei proprio tu! Accidenti ! che confusione quel ragazzo non si chiamava Alberto Rossi ma Mario Rossi ed era stato il mio ragazzo , anche se per poco tempo. Dio mio che figura ! ma è solo per un attimo.... i sentimenti cambiano gli anni passano .. lui mi chiama in chat , rispolveriamo i vecchi tempi, si parla della nostra vita , dei nostri figli, del nostro matrimonio della sua separazione. Io guardo le sue foto..Dio mio..come è cambiato e dov'è quel bel ragazzo che mi ha fatto perdere la testa, era alto , biondo magrissimo, bellissimo ora.. è alto, senza capelli , grasso. Certo, anche io sono cambiata , da magra son robustella, ma lui dice che sono sempre bellissima. Che strana la vita ..ci siamo incontrati su facebook , uno strano incontro, uno sbaglio di persona, ma non sono pentita, il grande amore ora si è trasformato in una grande amicizia. Sebastiano Impalà Ti ho cercata Ti ho incontrata una sera all'uscita del tram in una città senza nome fra passanti assurdi e musiche zigane. Poi ti ho cercata nei miei sogni appesi, nelle lunghe camminate dell'inconscio, sotto gli archi di monumenti arcani. Infine ti ho trovata, la scia del tuo profumo che mi inonda gli occhi scuri della notte su di noi, amanti persi per una sola notte. Nulla avviene per caso nella vita. Nulla Viaggio nel tempo Tornare nel passato o proiettarsi nel futuro? Rivivere avvenimenti già accaduti, magari adattandoli a circostanze nuove, oppure sognare un domani diverso, più soddisfacente e accattivante? Viaggiare nel tempo è sempre stata una delle fantasie più gettonate dalla fervida fantasia degli scrittori, questo perché il tempo è un fattore irrimediabile e nel momento stesso in cui accade, è già passato, sfuggito dalle nostre dita e dalla possibilità di poter cambiare ciò che è stato. A volte è il rimpianto o il rimorso a condurci nel passato, piuttosto che uno sfrenato desiderio d'innovazione a trasportarci nel futuro. Comunque sia, in qualsiasi direzione temporale vogliate andare, portateci con voi, in quello che sarà sicuramente un percorso ricco di idee e di spunti sui quali riflettere. Nadia Lattanzi Ti amo cosi... Credo sia amore...lo credo perché fino a ieri nulla conoscevo di te, se non te. Niente passato, ne dolorosi orpelli di cui prendersi cura oggi. Niente presente, ne conoscenza di lotte quotidiane da dover dividere. Nessuna aspettativa sulla quale costruire un' illusione... Ho conosciuto solo l'essenza di te, certa che quello che vedo e amo oggi è la somma di quello che in tutti questi anni ha contribuito a costruirti, ma a me ti sei rivelata scevra di ogni dolore adolescenziale, spoglia da ogni ferita d'amore..libera da ogni cicatrice dell'anima. Così voglio amarti, senza sapere cosa ti manca eppure poter colmare quel vuoto. Senza saper cosa hai, ma farne parte in silenzio. Voglio amare la parte più intima di te e poi guardarti e riconoscere da sola gli strappi del cuore, osservare con cura ciò che ti ha resa cosi..scoprire, nella curva della tua schiena, quali giorni ci si sono posati sopra. Sebastiano Impalà Fasti e crostacei due chele di granchio un osso di seppia barche secche adagiate,obliate in sere sanguigne... una donna fastosa veste gonne e conchiglie carte andaluse e visi imbruniti. San Vito e' vicino guarda il destino che passa e si posa a Mazara; si parte e sono sfere di grano le tue labbra saracene... Time the days run away upon unknown books. over the shoulders of time we, two drops of thunder only. it's a storm in spring time, new sensations of wrangler sun. sons of moon and hard stones, green lovers of contaminated woods, you as a strong rock i, a dinamic ocean. other's water in a glass. L'amante francese Quando ti dissi ti amo tu mi guardasti incredula convinta che il mio cuore fosse già volato via. Allora lo ripetei in francese e,nella lingua di Montaigne, tu mi credesti e ti convinsi. Versai torrenti d'emozioni sopra te, lungo la schiena ardita respirai il tuo odore e sporcai di nero china il quaderno che giaceva intorno a noi. Sulle cime del mondo ti portai e mi portasti.... salimmo vertiginosi picchi di piacere, angeli senza ali fummo noi in un istante. Poi,la quiete s'impossessò di noi, strinse le nostre mani con le corde dell'unione e tornammo a vivere.... come sempre... gli umili concetti della quotidianità. (Da "Empiriche sensualità" di SEBASTIANO IMPALA'-giugno2011-tutti i diritti riservati) Il senso del viaggio Navigo senza vento in quest'incerto mattino d'autunno. Attendo il tuo respiro amore mio che gonfi le mie vele per salpare. Solcheremo mari nuovi intorno al mondo, viaggio senza meta fra villaggi sperduti di gente primitiva, visi intensi da incrociare, danze di ritmi tribali e cibi nuovi da gustare. Il senso della vita siamo noi, l'uno accanto all'altra nei giorni e nelle notti da venire mentre ci stringiamo ad ammirare soli incandescenti e pallide lune da baciare. Denis Cornacchia Al di là dei mondi Vedo nel tuo sguardo nascente il mio disperato impeto che risale dalle valli morenti dell’Universo svuotato. Incredulo e severo ammonisci le sembianze mie sdraiate sui flussi eterni… limate. E nuovo rinasco ai confini dell’immaginario e sposo l’alba che un dì mi amò nel verde del ricordo senza fine. Ora è mai, simbiosi di colori e suoni a cavalcar mesti arcobaleni e nubi sciolte. Si, è vero non sei l’Universo, la mia anima è già oltre. Oliviero Angelo Fuina Il mio silenzio in valigia E te ne vai portando in valigia il mio silenzio ostinato ad assordarti nel viaggio che ti farà raggiungere l’eternità della distanza da me a un incrocio di braccia nei futuri acquattati dietro il vetro. E il mio annaspare muto frantumerà di decibel la stanza svanendo nel virtuale un sogno mai creduto nelle notti illuse di parole; e ancora ti vedo, accesa, sul cornicione di un palpito mentre lancette squartano. - Ma domani più non saremo - Andrea Borrelli Deja-vu Non sei tu a sognare ma il sogno ti costringe mentre sei cosciente nella realtà pensi di viaggiare in un secondo negli anni invece lui si ostina a farti credere di vivere. Regina Re Il viaggio Hai preparato la tua valigia, chiudila Apri la tua testa e parti, resta Il tuo corpo segue il tempo, preservalo L’orologio è fermo, conservalo Non svanire nei tuoi sogni, dimentica Non svegliare i ricordi, atterra Fede Giovanni Rega -la poesia forse è mortaNon riesco più a scriver una poesia Era pane quotidiano, era cocaina Eh ora? Non riesce la mia mano La penna nemmeno Non riusciamo perché la poesia è morta La poesia oggi è morta. Dietro un monitor, o una tv Dietro lo Spread o la tecnologia Non c è posto per la poesia Non riesco perché lei ha deciso così Rimane sola nella sua alienazione Rimane fredda nel suo non nascere ,nel suo non venir fuori , Piogge e venti, lune e stelle Non la ispirano più Affranta, delusa, stanca fugge via in un qualche iperuranio In un Eden lontano, lontana da noi Lontana da me, giace tranquilla La poesia forse è morta. Vive in quell'Eden ritornerà un giorno , o forse no. Anna Ciraci Un solo minuto Un solo minuto, per poter ricordare la mia prima vita voglio guardare e fermarmi, solo per celebrare... Tutte le ore che ci son state, e anche quelle che son mancate, per quelle leggere e spensierate, e anche quelle tutte arrabbiate, che niente sfugga o sia ignorato, che ogni viaggio sia considerato che tutto alla fine sia catalogato il mio lungo minuto fotografato. Un solo minuto per ricordare per riguardare e non far scappare. Solo la traccia di un monumento che mi riporti indietro nel tempo, un solo minuto, per poter ricordare perché è tutto ciò che ne rimane. Rossana Roxie Lozzio Non ho tempo Non ho più tempo, perché il mio tempo sei tu da sempre e prima di te, non vedo nulla di importante né posso immaginare un futuro orfano di te. Non ho più tempo, perché sono costretta a vivere giornate infinite e notti senza senso, nella tua assenza mentre so che altri beneficiano di quanto posso solo immaginare. Non ho più tempo, perché mi sento vuota e niente mi regala abbastanza emozione, niente riesce a togliermi quel senso di vuoto e di inutilità… e nessuno comprende che io sono niente, perché ti ho profondamente dentro ma non posso averti accanto in questa vita che detesto. Monica Pasero Neve Lenta e copiosa giunge fino al cuore Profuma di vita attutisce il dolore Ogni fiocco ha il suo destino e tra baffi di fumo si posa anche sul mio camino Nel suo manto incontaminato avvolge ogni cosa come anima bambina il cuor mio riposa mitiga le paure il suo lento cadere ricoprendo il mondo intero questa è la mia neve. Tratto da Lungo viaggio verso il ritorno ( pubblicabile ) L'abbaiare di Bobo destò Leo, che stiracchiandosi strizzò gli occhi, si guardò intorno e restò a bocca aperta quando capì che non era più nella stiva della Santa Maria. Si sedette, osservando con attenzione ogni particolare del nuovo ambiente che lo circondava. Sembrava un laboratorio .Sì! Come quello dell’aula d’artistica!. Pensò. Di fronte a lui, su un grosso tavolo di legno, c'erano tanti recipienti pieni di pennelli e colori, il tavolo era ricoperto da una miriade di macchie, alcune di pittura spiccavano qua è là sul vecchio pavimento in pietra. Leo spostò l'attenzione su Bobo, che era alle prese con l'inseguimento di un gatto e aveva l'espressione inferocita. .Dai Bobo! Piantala!. lo riprese Leo, ma il cane era troppo preso per obbedire. Il gatto, lesto, saltò su uno scaffale, rovesciando un contenitore di vernice che cadde miseramente sulla testa del cane, tingendo la bestiola di un bel rosso; guaendo, Bobo tornò dal ragazzo con la coda bassa. Leo, pur spaventato dalla nuova situazione, non poté trattenere una risata. .Povero Bobo! Quel gatto ha avuto la meglio, sei proprio buffo così!. Ritornò ad osservare l'ambiente circostante: oltre al tavolo, c'erano appoggiate al muro delle tele e in fondo alla stanza c'era uno scrittoio stracolmo di carte e fogli sparsi. Perlustrando la stanza, scoprì meravigliosi dipinti, poi si avvicinò allo scrittoio strabordante di carte, il cui contenuto, però, non riuscì a decifrare. Un rumore inatteso lo allarmò. Proveniva da una finestra in fondo alla stanza. Con passo cauto, Leo giunse davanti al vano illuminato e con mano tremante scostò il pesante tendaggio che celava la finestra. Scorse allora una via affollata: c'erano molte persone che passeggiavano, alcuni erano a cavallo, altri spingevano a mano carri colmi di frutta e verdura; lungo la strada si affacciavano diversi caseggiati, la carreggiata non era asfaltata ma rivestita in pietra. La gente era vestita stranamente: c'erano alcune donne con gonne lunghe avvolte in scialli di lana, gli uomini indossavano strani cappelli e lunghi stivali; c'erano poi bambini che correvano scalzi, altri ancora trasportavano pesanti ceste, traboccanti di mele; c'era un gran vocio. .Ma dove sono capitato! Mi sembra d'essere caduto nel quadro che la nonna ha sopra il caminetto!. disse stupefatto a Bobo, che però non lo sentì nemmeno perché troppo intento a leccarsi via la pittura di dosso. Tutto ciò fece capire a Leo che il suo sogno non era ancora terminato. .Dobbiamo uscire da qui!. Urlò. Bobo inclinò la testa per metà a pelo rosso e abbaiò in segno di consenso. .Ok! Troviamo l'uscita!. Leo e il suo fedele amico giunsero davanti alla porta, che però non si aprì: .Accidenti, è chiusa e adesso come facciamo!. Esclamò. Inutili furono i tentativi di aprirla, con calci, pugni e spallate: la vecchia porta resistette alla furia del ragazzino, che stanco e sconfitto si accasciò a terra. .In che pasticcio siamo finiti! Adesso ci tocca aspettare che venga qualcuno, altrimenti non usciremo mai da qui!. Bobo guaì e strascinandosi si accucciò sulle gambe del suo padroncino, che continuò ad osservare la stanza. I minuti diventarono ore. Il sole stava tramontando e la camera era quasi del tutto immersa nell'oscurità. Gli occhi di Leo erano sempre più tristi e pesanti. Ripensava al capitano e a ciò che aveva visto e soprattutto sentiva la mancanza della mamma e dei suoi amici. Ma perché non si svegliava? La pazienza lo stava lasciando e il panico lo avvolgeva serrandogli la gola. Uno scricchiolio improvviso lo liberò da quella morsa di paura. D'impulso prese Bobo in braccio e si nascose dietro grandi tele. Il respiro gli si fece sempre più affannoso quando gli scatti nella toppa divennero percettibili. La porta lentamente si aprì cigolando, Leo abbracciò con forza Bobo. Mentre i loro due cuori battevano all'impazzata, una piccola luce rischiarò la stanza, Leo spiò e vide una fiammella che si avvicinava accompagnata da una gigantesca ombra. La sagoma si stava approssimando e il ragazzo, nel tentativo di nascondersi meglio, fece cadere a terra le vecchie tele. Leo capitombolò davanti a due grossi piedi scalzi e alzando lo sguardo verso l'alto intravide due gambe ossute, coperte fino al ginocchio da un camicione a righe. Proseguendo, i suoi occhi si posarono su una lunga barba che dondolava su un grosso pancione. .Eh tu... hi saresti?. La luce della candela si fece più intensa, rischiarando il volto sconosciuto. .Orsù rispondi! T'ho fatto una domanda!. La figura che gli si parò dinanzi era di un uomo sulla cinquantina d'anni, con una lunga barba bianca e con capelli anch'essi lunghi e bianchi che gli ricadevano sulle spalle, anche se mancavano del tutto sulla parte alta del capo. Lo sguardo era vivace e gli occhi piccoli e vispi. .Sembra Babbo Natale!. pensò Leo con sorpresa ed entusiasmo. .Oh grullo! T'ho fatto una domanda!. Leo, rincuorato dalla somiglianza con Babbo Natale, si alzò da terra e rispose con voce tremante: .Mi chiamo Leo, signore!. .Oh he stranezza è mai questa! Ragazzo mi hiamo anch'io osì!.. Leo squadrò l'uomo che stava davanti a lui, non poteva essere... era impossibile che fosse... i suoi pensieri vennero interrotti dalle parole dell'individuo. .Ragazzo, io sono Leonardo da Vinci e tu perché sei nella mia...asa? Se non fosse di troppo disturbo mi piacerebbe sapere.... osa ti ha portato qui?.. Leo rimase pietrificato dinanzi all'affermazione dell'uomo e con un filo di voce disse: .Non ci credo! Lei è il vero Leonardo da Vinci?.. L'uomo lo osservò sorridendo. .Eh... hi altri se no! Ragazzo, hai battuto il... apo o sei proprio... osì strano di tuo?.. Leo, ancora confuso, si guardò in giro per cercare Bobo, che in quel susseguirsi di avvenimenti non aveva più visto. .Eh! he stai cercando? He ti guardi in giro?. indagò Leonardo. .Il mio cane signore! Si è spaventato e non riesco a trovarlo!.. .Un... ane e... hi altro c'è qui... on te?.. .Nessuno signore, solo il mio Bobo!. terminò il ragazzo. Leo iniziò a chiamare il cane, che, impaurito, sbucò da dietro una vecchia cassa. .Eh... osì tu saresti Bobo! He strano nome per un... ane!.osservò Leonardo. .Ora.... he ci siamo presentati potrei sapere... hi sei?.. .Beh! Vede signore.... disse Leo a occhi bassi, .io credo di stare dormendo e che questo sia il mio sogno. Ieri ero sulla Santa Maria con Colombo e stamani mi sono svegliato qui!.. .Oh povero ragazzo! Hai proprio battuto il apo! Hai bisogno di un dottore!. esclamò l'uomo. .No, no! Niente dottori, sto benissimo! So che per lei è difficile da credere, ma è andata proprio così, son cascato da una sedia e non ricordo più nulla! So solo che mi sono addormentato, ma prima o poi mi risveglierò, anzi lei potrebbe aiutarmi: è un grande inventore no?.. Leonardo intanto si era seduto e ascoltava confuso il suo interlocutore. .Eh certo, sono o no Leonardo da Vinci? Cercherò tra i miei scritti se esiste un modo per svegliarti, ma io ontinuo a pensare he tu abbia perso la ragione figlio mio! ...omunque ora è tardi, ci penseremo domani, forza vieni... on me, ti sistemerò per la notte, ma prima un pezzo di pane lo mangerai volentieri vero?.. Lo stomaco di Leo brontolò ed egli sorridendo disse: .Con molto piacere signore!.. I due scesero una scalinata in pietra e si trovarono in una cucina adibita anche a stanza da letto. Il camino era acceso e al suo interno scoppiettava un bel ceppo di legno. Leonardo aprì un vecchio armadio e tirò fuori una grossa pagnotta ed un pezzo di formaggio, ne tagliò una parte e la diede al ragazzo, che, grato, mangiò di gusto il pasto offertogli, dividendolo con il suo amico Bobo. Leo e Bobo dormirono accanto al camino sopra una vecchia trapunta. Leonardo russava alacremente nel suo letto quando un fascio di luce annunciò l'arrivo del nuovo giorno e le ultime scintille di fuoco scomparivano dal camino lasciando spazio alla cenere. Un fischiettio destò i due ospiti. Leo stropicciò gli occhi e vide Leonardo che seduto al tavolo trafficava con una montagna di carte. L'uomo, alzando gli occhi, lo salutò: .Oh buongiorno! ...ome stai? Hai dormito bene ragazzo?.. Sbadigliando il ragazzo gli si avvicinò. .Che cosa state facendo?. disse curioso Leo. .Oh, nulla d'importante, sto leggendo una lettera di una mia ara ami a he verrà a farsi fare un ritratto nei prossimi giorni! A proposito, preparati he si esce e datti una sistemata a quella testa! . affermò l'uomo, indicando i capelli arruffati del ragazzo. Leo si passò una mano nei capelli scarmigliati e chiese: .Dove andiamo?.. L'uomo e il ragazzo, usciti dal portone, si trovarono in strada. Bobo era spaventato e stava attaccato alle gambe del suo padroncino. Era tutto strano, la strada era lastricata in pietra e non c'erano auto o pullman ma solo dei carri trainati da cavalli e per le vie scorazzavano tranquillamente pecore e galline. Leo rise. ....he hai da ridere ragazzo?. chiese l'uomo. .No! È che, nel mio paese di animali non se ne vedono circolare liberi sulla strada, altrimenti le auto li investirebbero. Disse Leo. Leonardo si lisciò la barba: .Uhm! Auto e he os.è un.auto?. .Beh, vede... è una macchina che trasporta le persone, nella mia città ce ne sono tante in giro.. .Una ma hina che trasporta le persone!. replicò Leonardo, poi aggiunse: .Beh, certo parli della arrozza!.. Il ragazzo lo guardò e disse: .Una specie, ma senza cavalli.. Leo continuò a guardarsi in giro incontrando i volti di molti curiosi che lo osservavano divertiti. .Che c.è che non va? Perché mi guardano così?. chiese al suo accompagnatore. Leonardo fissò il ragazzo: .Ami... o mio, non posso dargli torto, mi spiace dirtelo ma chi ti ha onciato in questo modo? Dove hai trovato delle vesti osì ridicole?.. Leo si guardò il maglioncino e i jeans e stranito disse: .Io non ci trovo niente di strano nei miei abiti!.. Leonardo rise di gusto, pensando che forse il giovane era veramente arrivato da lontano. Proseguirono tra gli sguardi ilari della gente e Leo, guardandosi attorno, chiese: .È proprio bella questa città, ma come si chiama?.. L'uomo lo fissò sbigottito e gli rispose allargando le braccia: .Ragazzo mio, ma questa è Firenze!.. .Uaho! Ma nelle foto è diversa!. rispose entusiasta il giovane. .E ora dimmi, he sarebbe odesta foto?.. .Ecco eh... sono delle immagini stampate sulla carta!. Gli spiegò. .Interessante, molto interessante; e dove potrei vederne una?.. .Per farle ci serve la macchina fotografica!. disse Leo. .Ragazzo, tu mi fai pigliar il mal di ...apo! E adesso ...osa sarebbe sta ma... hina fotografi... a?.. Leo ridacchiando tra sé considerò: .Ma non doveva essere un genio .sto Leonardo?.. Poi, osservando Bobo alle prese con uno dei suoi inseguimenti, pensò che un gatto era un gatto in ogni epoca ci si trovasse, invece gli uomini erano così differenti. Leonardo arrestò il suo cammino su un ponte, si soffermò ad osservare il lento scorrere del fiume sottostante, poi disse: .Hai visto ...ome è bello l'Arno? La scorsa settimana ero a Pisa ...on al... uni amici, sono anni ormai ...he lavoro a ...odesto progetto, sto studiando un modo per deviare il fiume, creando un ...anale da Pisa a Firenze. Ciò porterebbe grandi vantaggi all'agricoltura e alle ...omunicazioni fluviali!.. Il ragazzo non diede peso alle parole dell'uomo, era molto più interessato al buon profumo che arrivava da una casa di fronte al ponte. Anche Leonardo inspirò a fondo quel delizioso profumino e disse: .Che ne dici di una bella fetta di torta?.. Leo entusiasta seguì l'anziano accompagnatore, che bussò a un vecchio portone esordendo: .Rosa! Oh! Tu ci sei?.. .Dai! Sali ...he ho fatto la torta proprio ...ome piace a te!. rispose una bella voce squillante. .Santa donna!. disse Leonardo, osservando il volto gioioso del suo giovane compagno. Pochi istanti dopo erano seduti attorno a un vecchio tavolo e avevano tra le mani un enorme pezzo di torta. .E ...odesto ragazzino, sarà mi...a tuo?. chiese la donna. .Sei la solita impicciona Rosa! L'ho trovato nel mio laboratorio .. .E ...hi sarebbe?.. .Non si sa! Il ragazzo ha le idee un po. confuse in proposito!.. I due parlavano a voce bassa, ma Leo era troppo preso da quel delizioso dolce per pensare ad altro. Durante il viaggio di ritorno Leonardo e il giovane si fermarono in un prato. Il vecchio si sdraiò a terra brontolando per il suo mal di schiena, poi, con un filo d'erba in bocca ed il naso all'insù, osservò il volo delle rondini giunte da poco a Firenze. Anche Leo si era sdraiato e con la coda dell'occhio guardava le pupille vispe del vecchio, che col dito al cielo tracciava per aria il tragitto delle rondini: ..he spetta...olo ragazzo! ...ome mi piacerebbe volare! Fin da ragazzo è stato il sogno mio più grande, forse un giorno!.. Poi interruppe il suo discorso e inspirò a fondo l'aria del tardo pomeriggio. A fatica si rialzò dal tappeto d'erba verdeggiante e guardando Leo disse: .Su ...oraggio! Dai ...he si va a ...asa!.. Leo sapeva che un giorno gli uomini avrebbero volato sugli aerei, ma sapeva che quando questo sarebbe accaduto il suo vecchio amico non sarebbe stato lì ad assistere all'evento, perciò non disse nulla, ma domandò: .Puoi farmi tornare a casa? Sei un inventore, inventa qualcosa che mi svegli, ti prego! Mi manca la mamma.. L'uomo guardò il ragazzino e disse: .Vorrei tanto aiutarti, ma ...he posso fare, non son mi...a un mago! Poi tu sei ...osì sicuro di star sognando?.. .Sicurissimo che sogno!. esclamò infuriato il ragazzo. .Io abito in un posto dove ci sono la tv, la play station, treni, auto, la gente ha il telefonino e, come dice la mamma, le donne stanno arrivando al potere!.. .Vai piano ragazzo, non ho ...apito nulla del tuo discorso, spiegami bene!.. Seduto su un muretto, Leo tentò di raccontare la sua storia al grande genio che aveva di fronte: gli raccontò della sua casa, di quanto gli mancasse la mamma, dei suoi pranzetti, delle sue giornate con gli amici davanti alla play o a vedere i cartoni in tv, di come suo papà passasse le ore al computer a scrivere per ottenere la promozione. Leonardo, incredulo, ascoltava ogni parola con vivo interesse, poi disse: .Ora le ...ose son due: o sei matto ...ome un ...avallo ed è la ...osa più probabile o arrivi da un altro mondo, o per meglio dire dal futuro; e se ciò è vero esattamente da ...he anno?.. .Beh! Veramente, abbiamo appena passato il 2008 da un mese!. disse a bassa voce Leo. Gli occhi vispi del vecchio scintillarono e una grassa risata gli uscì spontanea. .Oh, ma se ciò fosse vero, tu saresti una rara fonte di studio per me, sempre che tu non sia pazzo!. Affermò l'uomo. .Sì! Sì! Ho capito, ma puoi farmi tornare a casa?.. .Ci lavorerò! Orsù dai ...he si va, ora ho degli scritti da leggere!.. Un'ombra grande e una piccola si accompagnarono lungo il tragitto del ritorno. Il sole stava per andare a riposare, un altro giorno era passato e il piccolo Leo ancora sognava. I giorni che vennero Leo li passò accanto a Leonardo, facendo insieme con lui lunghe passeggiate, sempre osservati dalla folla che li additava al loro passaggio; passavano ore negli archivi per tentare di trovare un rimedio da quel lungo sogno che faceva pensare a Leo di essere prigioniero, ma Leonardo non trovò nulla nei suoi libri che potesse aiutarlo a spiegare ciò che affermava il ragazzo; la pazzia gli sembrava perciò l'unica risposta e così un giorno affermò la sua tesi: .Ragazzo mio, si potrebbe provare ...on un salasso, forse tornerai in te!.. Ma Leo, dopo avere avuto ampie delucidazioni su cosa fosse un salasso, strabuzzò gli occhi per la paura e il suo rifiuto fu irremovibile. Il genio alzò le braccia sconfitto: .Non so ...he fare per te! Ami...o mio, speriamo tu ti possa svegliare presto da solo!.. Anche Leo lo sperava tanto! Nell'attesa che ciò avvenisse, seguiva l'amico ovunque, l'osservava durante i suoi studi, seduto ad un piccolo scrittoio sommerso da innumerevoli carte sparse qua e là. Leonardo aveva un modo di scrivere molto strano: era mancino e, cosa buffa, iniziava a scrivere dall'ultima riga del foglio risalendo al contrario la pagina! Leggeva molto, disegnava e non era mai stanco, sembrava che il tempo per apprendere non fosse mai sufficiente per lui. Leo a volte sonnecchiava, quando il vecchio partiva con una delle sue innumerevoli teorie e tentava di far capire al ragazzo quanto fosse importante imparare. Un giorno Leonardo beccò il ragazzo sul fatto mentre sonnecchiava nel bel mezzo di un suo discorso, lo scrollò svegliandolo e con tono autoritario disse: .Oh grullo ..he tu non sei altro! Impara ora nella tua gioventù ...he un giorno ...osì ti possa divenir sapienza, quando la tua barba sarà lunga e bianca ...ome la mia oggi!.. Poi sotto gli occhi spaventati di Leo prosegui dicendo: .E se tu ragazzo un giorno penserai che diventar vecchi significa esser saggi, adoperati affinché un domani tu possa esserlo!.. Dopo quella sfuriata Leo non si fece più pizzicare a dormire. Un mattino il ragazzino era intento a fare scender Bobo da uno scaffale dopo che il suo cane aveva tentato un nuovo inutile inseguimento di un gatto randagio, che ogni tanto entrava in cerca di cibo in casa. .Ma perché sei andato a cacciarti lassù? Non ti è bastato il ricordino che hai ancora in testa? Tanto quel gatto è più furbo di te! Amico mio rassegnati, dai che ti ho preso!.. Leo aveva afferrato l'animale, che si tenne saldamente a lui tremante. Il ragazzo allora sghignazzò dicendo: .Sei proprio un fifone!.. Bobo saltò giù dalle braccia del ragazzo e mugolando andò nel suo posto preferito, al calduccio davanti al camino. Il ragazzo rideva di gusto nel pensare che Bobo si fosse offeso, quando alcuni colpi alla porta spensero il sorriso sul suo volto. Al momento era in casa solo, perché Leonardo era andato a fare rifornimento di colori e tele. .Chi sarà?. pensò. I colpi si ripeterono e si udì una voce di donna: .Leonardo ci sei?.. Il ragazzo aprì intimorito la porta e fu scioccante vedere chi era dall'altra parte dell'uscio. Si trattava di una donna molto bella: aveva dei lunghi capelli neri che le ricadevano sulle spalle; anche gli occhi erano scuri, in contrasto con la pelle chiara, quasi eterea, della donna. Aveva un non so che di familiare, ma Leo non riusciva a ricordare dove l'avesse già vista. La donna sorrise e lo scosse dai suoi pensieri: .Ehi tu, chi sei ragazzino?. e senza indugiare oltre, entrò. .Buongiorno signora! Se cerca Leonardo, ora non è in casa!. disse con un filo di voce Leo. La donna fermò il suo sguardo indagatore su quello strano ragazzo che aveva di fronte, poi rispose .Bene, aspetterò!., andando a sedere su una seggiola. Intanto Bobo studiava la nuova arrivata annusandole le vesti. La donna misteriosa sorrise al cane: .E tu pi...olo ...hi saresti?.. Poi si rivolse al ragazzo: .È tuo ...odesto ...ane?.. .Sì signora! Si chiama Bobo. rispose Leo. Lei accarezzò l'animale, che senza remore si accucciò ai suoi piedi. .E tu ...ome ti chiami ragazzo?. chiese posando lo sguardo sul giovane. .Io, signora, sono Leo!.. Il volto le si illuminò e sorrise al giovane, che imbarazzato ricambiò il gesto. Per fortuna Leonardo fece ritorno, aprì la porta con un calcio e sommerso dai pacchi fino al collo urlò: ....oraggio! Vieni ad aiutarmi!.. Leo accorse e liberò l'uomo da alcune scatole in bilico tra le sue braccia. Solo allora l'uomo notò la nuova venuta e sorridendo le andò incontro allargando le braccia: .Oh! ...ome stai? Se avessi saputo che il tuo arrivo era ...osì prossimo, mi sarei preparato a riceverti meglio!.. La donna sorrise maliziosa: .Non ti preoccupare ami...o mio, ci ...onosciamo da troppo tempo per usare simili formalità!.. Leo, ancora con i pacchi tra le braccia, osservava curioso la scena. .Forza ...oraggio! Ragazzo posa quei pa...hi e vieni qua che ti presento una persona!.. Assetato di curiosità, il ragazzo si strofinò le mani sudaticce sui jeans e si avvicinò verso la gentildonna. Leonardo con due colpi di tosse partì con la presentazione: .Ragazzo mio, questa è la mia ...ara ami...a Lisa, la devo ritrarre, perciò passerà molte ore in nostra compagnia!.. La donna sorrise e strinse la mano di Leo, che iniziava a comporre i ricordi su quel volto. I giorni che seguirono Leonardo li passò interamente nel suo laboratorio; Lisa, puntuale come un orologio, arrivava al mattino e passava molte ore in posa. .È un lavoro lungo!. soleva ripetere Leonardo, ma la signora annuiva rispondendo che la sua presenza lo deliziava e che amava ascoltare le sue nuove trovate per migliorar ...odesto mondo. Intanto Bobo e Leo si accovacciavano in fondo alla stanza ad ammirare come la bella signora prendesse vita sulla tela. Leonardo era un pittore attento e meticoloso nel dipingere e rivedeva molte volte ogni particolare prima di concederlo alla tela. Firenze, 1506 .Oh, finalmente è finito!. esclamò il maestro. Leo, Bobo e Lisa guardavano estasiati il dipinto, che in breve tempo aveva rapito la tela bianca impossessandosi di ogni particella di tessuto. La donna meravigliata disse: .Oh Leonardo, hai superato te stesso! Ma mi hai fatto un po. troppo grassa!.. Leonardo sorrise: .Oh mia ...ara! Tu sarai sempre bella in qualsiasi forma! Hai un viso troppo particolare per non apparire incantevole!.. Bobo abbaiò confermando le parole del vecchio. Leo annuì dicendo: .Sì signora! È vero: lei è bella quasi come la mia mamma!.. Gli occhi di Lisa si emozionarono quando arrivò il momento dei saluti: .Addio amici miei!.. Poi con sguardo dolce si rivolse al ragazzo e disse, accarezzandogli una guancia: .Spero ragazzo ...he presto tu possa tornare da tua madre!.. Infine, rivolta al suo caro amico: .E tu ...he dire? Sei un genio, ma tu già lo sai!.. Leonardo si lisciò la barba e tronfio disse: .Se lo dici tu!.. Quando Lisa si congedò, Bobo e Leo si buttarono sopra la loro trapunta davanti al fuoco. Il camino acceso scoppiettava e Leo si perse nelle sue mille scintille, entusiasta per avere incontrato la Gioconda e pensando a quando lo avrebbe raccontato alla mamma. Lei sarebbe morta d'invidia! Diceva sempre che voleva andare a vederla al Louvre, a Parigi, lui invece l'aveva vista in carne ed ossa. Leonardo russava da un pezzo, quando il ragazzo si addormentò con il sorriso sulle labbra. Nella quiete della notte Leo ripartì per il suo viaggio ed un nuovo sogno bussava già alla porta. .La vita ben spesa lunga è.. Leonardo Da Vinci (1452-1519)