Gli elementi primari dello sviluppo urbano

Transcript

Gli elementi primari dello sviluppo urbano
DIDATTICA DELL’ARTE NEL TERRITORIO
Corso on line
Prof. Paolo Pavan
PREMESSA
Questo primo modulo ha lo scopo di individuare i principi di crescita e sviluppo della città
storica fino alla modernità.
L’intento è di definire, in prima approssimazione, una classificazione gerarchica delle
emergenze storiche del paesaggio antropico per eccellenza: la città (di pietra), poiché si può
identificare la storia dell’arte come storia della città.1
GLI ELEMENTI PRIMARI DELLO SVILUPPO URBANO
“La città favorisce l’arte, è arte essa stessa”.
Lewis Mumford
Sia le città risultanti dalla stratificazione temporale dell’edificato, che quelle nate ex-novo come
atto fondativo volontario, codificano i propri elementi costitutivi secondo gerarchie di funzione
e di simbologie; in questo senso le leggi che governano Shanghai o Este sono simili: al di là
delle dimensioni spaziali il territorio antropico per eccellenza, la città, è la figurazione fisica
dell’organizzazione sociale umana ed in essa si possono scorgere identità di sistema.
In tale immagine esistono, secondo Carlo Aymonino, elementi primari, “capaci di accelerare il
processo di urbanizzazione”2 atti ad indurre configurazioni spaziali dipendenti dalla loro
presenza od assenza: la presenza di un presidio medico in un determinato centro urbano
produrrà effetti strutturali sia nella condizione sociale che nella forma fisica della disposizione
spaziale, così come l’assenza di una pianificazione viaria comporterà un rallentamento del
sistema del traffico veicolare territoriale, ma indurrà anche comportamenti diseconomici nella
gestione delle merci e dei servizi.
Se ne può dare una tassonomia? Cosa s’ intende per elementi primari e quali sono le relazioni
che essi allacciano con l’intorno? O meglio: quali condizioni spaziali creano e quali progressioni
inducono nel tessuto della città?
Si può partire da una classificazione sommaria, già indicata peraltro da Aldo Rossi, degli
“elementi determinanti che hanno funzionato come nuclei d’aggregazione”3:
LE ATTIVITÀ FISSE,
I MONUMENTI,
IL “PIANO”.
In questa lettura della città, la RESIDENZA è chiaramente intensa come variabile dipendente
da questi sistemi generatori elencati.
1
2
3
Giulio Carlo Argan: “Progetto e destino” Il Saggiatore editore; Milano 1965.
Carlo Aymonino: “Il significato delle città”; edizioni Laterza, Bari 1976.
Aldo Rossi: “Scritti scelti sull’architettura e la città”; edizioni Clup, Milano 1978.
1
Per attività fisse indichiamo tutti quegli elementi della sfera collettiva che si possono
identificare in edifici pubblici: università, ospedali, tribunali, scuole ecc., commerciali: uffici,
banche ecc.; magazzini e fabbriche.
Le attività fisse si identificano quindi con le attrezzature collettive (pubbliche o private),
definibili in precisi tipi edilizi, che ottemperano alla necessità di un servizio sociale.
È altrettanto evidente che essi sono identificabili, più che in una classificazione astratta, in una
determinata dislocazione temporale, apparendo e scomparendo secondo necessità: il bagno
pubblico
è
un
fenomeno
tipologico
notevolissimo
fino
al
novecento,
ma
a
partire
dall’inserimento nelle abitazioni private, anche quelle popolari, dei servizi igienici individuali,
scompare come presenza urbana rilevante).
Possiamo quindi definire tipo edilizio la classificazione di quel particolare manufatto edilizio
secondo la sua conformazione funzionale e distributiva, acquisita e strutturata nel tempo, che
meglio d’ogni altro involucro risulti coerente con l’uso dello stesso: non un edificio in
particolare, ma piuttosto una forma teorica, desunta da una casistica ripetuta.
il primo ad indagare in questa direzione fu Francesco Milizia, nel suo “Principi dell’Architettura
Civile”, pubblicato nel 1781, a conferma che tale tassonomia si impone con lo sviluppo della
città moderna. La ricerca sui tipi edilizi fu poi precisata nell’ottocento da Quatremère de
Quincy, per diventare vera “ossessione” progettuale nel Razionalismo Architettonico degli anni
venti del secolo scorso in Germania, con le note ricerche di Hilbersaimer, Klein e May, che
determinano la struttura edilizia a partire dal conformarsi degli ambienti interni, definendone
casistiche, combinatorie e moduli compositivi.
Quando l’individualità dell’elemento primario assume un carattere consolidato, trovandosi ad
insistere in un determinato luogo, esso è riconosciuto come condizione formale inseparabile da
quel luogo e da quella comunità: si avvia così un processo di trasformazione che ne farà un
nodo topologico all’interno del sistema città, inducendo nel tessuto urbano effetti organizzativi
e direttivi di sviluppo ed aggregazione. In questo senso la sua funzione paradigmatica di
catalizzatore, ne consolida la permanenza nell’insieme trasformativo del territorio, come
struttura spaziale è la permanenza, in sinergia reciproca.
Ne consegue che più l’elemento primario è riconosciuto come induttivo di inurbamento, più
esso si consolida come elemento di gerarchia spaziale; a sua volta il consolidamento di
gerarchia induce un ulteriore effetto di catalizzazione.
Attraverso l’individuazione degli elementi primari, che a questo punto possiamo definire come
emergenze, è possibile costruire un sistema generale di riferimento del tessuto urbano,
leggendone la dinamica di sviluppo, definendone la serialità di direttive spaziali che producono,
nelle relazioni reciproche (rapporto tra emergenza ed emergenza) e con il resto dell’edificato
urbano (relazione, per lo più, emergenza-residenza).
Casi
emblematici,
di
emergenze
che
diventano
permanenze,
sono
individuabili
nelle
trasformazioni subite dagli anfiteatri romani, come nel caso di Firenze (e di Nimes ed Arles
2
prima del ripristino archeologico del secolo scorso) - figure 1, 2, 3, 4 e 5 -: in periodo
medievale tali edifici sono molto spesso assorbiti, suddividendoli in proprietà individuali e
riutilizzandoli funzionalmente come manufatti per abitazione.
Dell’edificio originario, dal punto di vista fisico-percettivo, non rimane che la traccia
morfologica: una grande ellisse che struttura un brano di città; di esso resta il profilo esterno,
mentre l’interno è trasformato da vuoto a pieno.
L’anfiteatro, da forma tipologica ben strutturata ed architettonicamente definita, scompare per
lasciar posto ad una nuova funzione residenziale che ne assume l’involucro (le fornici
divengono abitazioni), cancellandone le specifiche d’uso.
L’impianto a terra, la morfologia, è la vera traccia di una stratificazione temporale che ha
abbattuto la funzione di quell’insieme di edificato, inducendo nel suo perimetro un organizzarsi
di vie e profili stradali che seguono un andamento ellittico e radiocentrico.
Come a dire: anche scomparso l’edifico determina organizzazione del territorio.
Altra permanenza di condizionamento può essere considerata la cinta muraria di una città, che
“condiziona volta a volta la soluzione planimetrica o la sistemazione urbanistica, essendosi
esaurito il rapporto di necessità che le avrebbe potuto consentire una partecipazione più
pienamente morfologica alle trasformazioni in atto”4, in altre parole: anche quando scompare
la funzione di baluardo delle mura, ma, aggiungiamo, anche quando esse fisicamente
scompaiono, esse rimangono elementi strutturanti della città. È il caso delle mura Vienna che,
quando vengono abbattute, lasciano spazio al Ring, quel grande percorso anulare che permette
il primo sviluppo tangenziale della città nuova – figura 6 - .
Si possono citare peraltro casi in cui l’uso di emergenze siano specificatamente previste da
alcuni progettisti del novecento per costruire porzioni compiute di città: si pensi a Giuseppe
Samonà quando edifica le barene di S. Giuliano a Marghera – figura 7 -, con le grandi
emergenze architettoniche a “C”, o a Carlo Aymonino con il quartiere Gallaratese presso
Milano, dove il segno dell’arena all’aperto, che sotto la cavea conteneva i negozi a servizio
della residenza, era pensato per indurre nell’intorno un effetto radiocentrico di sviluppo –
figure 8 e 9 -.
In entrambi i casi ci si trova di fronte alla volontà di costruire un insieme unitario di una parte
di città, che abbia nello stesso tempo caratteri di riconoscibilità ed autonomia, utilizzando in
senso strumentale il processo che vede l’emergenza trasformarsi, come atto voluto, in
permanenza.
In questo senso il pensiero teorico si rende strumentale a quell’obiettivo riformista di
trasformare le parti sfrangiate della periferia urbana in parti compiute attraverso nodi di
sutura: obiettivo caro all’architettura avanzata degli anni settanta ed ottanta del secolo scorso.
Non teoria sui massimi sistemi, ma prassi di riconnessione.
4
Pasquale Lovero in AA.VV: “La città di Padova” Officina Edizioni, Roma, 1970.
3
Si tenga poi presente che per gli elementi primari è pressoché destino diventare monumenti:
cosa sono, infatti, i monumenti se non cristallizzazione di un ethos collettivo in forma di pietra
che permane nel tempo? Estrema sintesi dello spazio, del simbolico e del tempo.
Ma questo destino è un processo, appunto, nel tempo, che porta l’emergenza allo
straneamento dai caratteri d’uso quotidiani (l’Utilitas diventa variabile non fondativa), per
giungere, a fine ciclo, al solo godimento estetico.
In questo senso è interessante notare la condizione di vicinanza, nella recente legislazione di
tutela, tra paesaggio e monumento: quasi ad indurre una riflessione che il naturale, il
paesaggio, nella sua sempre più esigua presenza fisica, non può che trasformarsi in un bene
culturale e quindi da tutelare, proprio come un monumento. Il recinto è ora della cultura
attorno alla natura, che non è più infinità, spazio vuoto da riempire, e non viceversa.
È inoltre verosimile che il passaggio da permanenza a monumento risulti tendenziale e mai
finito (se non in tutte quelle opere che trovano il loro significato puramente nel simbolico: ad
esempio monumenti funebri e rovine).
La tendenzialità del processo ha molte fasi intermedie, interruzioni ed accelerazioni, ed è
proprio essa che ci permette di individuare “brani di continuità storica” all’interno della città,
letta come manufatto: la permanenza, l’emergenza, si lega sempre all’intorno.
Cosicché possiamo individuare, nel tessuto urbano, parti formalmente compiute, dove
permanenza (verso “monumento”) e residenza formano, molto spesso, un unico inscindibile.5
Il terzo elemento, le direttive del piano, può essere considerato “un elemento primario al pari
di un tempio o di una fortezza; crediamo inoltre che lo stesso primo nucleo di una città
pianificata si rilevi come elemento primario; che inizi un processo urbano e lo caratterizzi (…)
non cambia molto”. 6
Questo poiché esiste sempre un nucleo generatore del piano che ne determina il disegno. Tale
nucleo generatore è spesso circoscrivibile, definibile architettonicamente in fatti primari quali
monumento e attività fisse, poiché anche una parte di città formalmente compiuta può essere
riportata a questo sistema lineare.
Quando nella formalizzazione di un piano per la città, le proposte nascono da una significativa
coscienza delle forze in atto nel territorio, da una visione d’insieme che ne possa indicare limiti
5
“Nei tre esempi (Trieste, Bari ed Edimburgo) l’equivalenza in genere delle strade e degli
isolati conferma il carattere unitario della parte che può essere assunta – ai fini di una
identificazione della dimensione architettonica – come un unico progetto. Il che è convalidato
dai regolamenti che confermano, nelle disposizioni circa le altezze, i distacchi e spesso le
stesse rifiniture decorativo-architettoniche, le unicità di quelle parti di città. La tipologia edilizia
è in tal modo determinata dall’impianto planimetrico – per i rapporti tra i vari isolati, i percorsi,
gli eventuali punti focali (piazze, canali, rive ecc.) – ma questo è frutto a sua volta di una
sommatoria di tipi edilizi simili o uguali, determinati in sé da nuove esigenze mercantili
(Trieste) o residenziali (Lisbona, Bari) che non hanno più riferimenti dimensionali e funzionali
con i tipi edilizi di origine fondiaria ed edilizia, medievale.” In: Aymonino “Il significato delle
città”; edizioni Laterza; Bari 1976.
6
Aldo Rossi: op. cit.
4
e prospettive allora il piano sarà oggetto concreto, atto collettivo di sintesi, che pur nelle
deformazioni e distorsioni dovute alle infinite mediazioni del suo attualizzarsi, finirà per essere
riconosciuto e, in un certo senso, diventare permanente.
Sicuramente riconoscibile è la pianificazione delle città di fondazione romana (si pensi a Torino
o Pavia, città nelle quali l’ordine a “scacchiera” è leggibile con precisione anche ai nostri giorni)
e la centuriazione del territorio (si pensi al territorio detto del “graticolato romano” a nord di
Padova).
Emblematico il Piano Napoleonico per Milano del 1807 che, tenendo per buono il criterio fissato
dall’Antolini qualche anno prima (1801), fa del Castello Sforzesco il centro d’irraggiamento e
sviluppo territoriale – figure 10 e 11 -.
Seppur non attuato nella sua definizione di “Foro Bonaparte”, grande insieme di edifici che
anularmente definivano lo spazio vuoto della piazza al cui centro rimaneva il Castello, tale
piano rimarrà come condizione “di memoria” nei piani regolatori fino all’attualità e nelle
trasformate urbane concrete successive.
Sempre molto significativo a proposito di piano, è la costruzione della città sovietica negli anni
trenta del novecento. Le città di nuova costruzione e i grandi piani di sviluppo urbano si
determinano come sistemi ex-novo su territori non urbanizzati. Tali piani si pongono spesso
ingenuamente di definire il dettaglio, entrando nello specifico dell’organizzazione interna degli
edifici, portando alle estreme conseguenze il mito del razionalismo definito nel motto: dal
cucchiaio alla città, nel senso che ogni cosa deve essere oggetto di riflessione e progettazione
(nel Moderno).
Non
per
questo
il
piano
risulta
utopico;
di
esso
ci
saranno
notevoli
tracce
nella
contemporaneità: si pensi al piano per la “città verde” di Baršč e Ginzburg (1930) o al piano
per Mosca del 1935 – figura 12 -. 7
Ci piace comunque riportare quanto dice Argan: “È il piano stesso che, attuandosi come scelta
e designazione di valori, definisce la propria metodologia. L’esperienza dimostra che il
progettista che ha compiuto questa scelta secondo la propria coscienza di specialista ed ha
osservato con assidua coerenza la propria linea metodologica, ha compiuto un’opera anche
esteticamente valida; se no, il risultato è anche esteticamente negativo. Vi sono notoriamente
forze esterne (per dirne una, la speculazione immobiliare) che cercano di deviare il piano,
rivolgendo a un interesse particolare un lavoro che, avendo al principio simpatia sociologica,
dovrebbe essere fatto per la collettività. Quando le forze esterne prevalgono il piano tradisce le
ragioni e le finalità della pianificazione: il fallimento del progetto apre la porta al disordine del
destino”.8
In sintesi: è possibile affermare che la città si costituisce aggregandosi per effetto di elementi
primari; che tali elementi primari possono essere intesi come nodi fisici e culturali, distinguibili
7
A cura di Paolo Ceccarelli: “La costruzione della città sovietica 1929-31” Marsilio editori;
Padova 1970.
8
Giulio Carlo Argan: “Progetto e destino” Il Saggiatore editore; Milano 1965.
5
in permanenze, monumenti e piano. Essi permettono il sorgere di parti compiute, figurazioni
territoriali non separabili dalla città, ma in essa distinte e riconoscibili.
IL MITO E IL RITO
“… i sentimenti non hanno tempo e si ripetono sul palcoscenico ogni sera con impressionante puntualità”.
Aldo Rossi
“Solo una piccolissima parte dell’architettura appartiene all’arte: la tomba e il monumento”.
“Quando nella foresta troviamo un tumulo lungo sei piedi e largo tre, foggiato a piramide con la pala, diventiamo seri e
qualcosa dice a noi: qui è sepolto qualcuno. Quella è architettura”.
Adolf Loos
Il concetto di culto, di memoria collettiva e simbolo sono intimamente collegati, al di là degli
spazi e delle forme societarie delle popolazioni umane.
Secondo Karl G. Jung, esistono, al di sotto della psiche individuale, dei contenuti comuni a
tutta l’umanità, che egli definisce come Archetipi: “immagini comuni presenti fin dai tempi
remoti”9. Quando tali contenuti si formalizzano in strutture narrative si definiscono miti: “…non
si è mai accettato il fatto che i miti siano in primo luogo avvenimenti psichici che rivelano
l’essenza dell’anima. (...) Tutti i fenomeni naturali mitizzati, come estate ed inverno, fasi
lunari, stagioni delle piogge, non sono affatto allegorie di quegli avvenimenti oggettivi, ma
piuttosto espressioni simboliche dell’interno ed inconscio dramma dell’anima che diventa
accessibile alla coscienza umana per mezzo della proiezione, del riflesso cioè nei fenomeni
naturali”.
Per dirla con Karoly Kerenyi10: il mito altro non è che un super-individuale, definito dallo
stratificarsi di immagini, ma di immediata assimilazione per il singolo. Allo stesso tempo
simbolo, contenuto inconscio presagito ma ancora sconosciuto, e narrazione: proprio dalla
narrazione nasce la diversificazione del simile e la sua materia viva (il soggetto narrante non
solo trasmette l’archetipo, ma lo trasforma, ne dà articolazioni nuove, in sintonia col sentire
specifico di quella collettività e di quel luogo) che ne contraddistingue la specificità.
Risulta evidente che le più antiche forme architettoniche, appartenenti a mesolitico e neolitico
come i Dolmen e i Menhir, dimostrano che, nella loro distribuzione estesa a tutta Europa,
esistono condizioni di comunanza e vicinanza nei modelli che portano l’uomo antico a
concettualizzare la forma spazio in senso simbolico, evidenziati anche dall’orientamento
zenitale che connette spesso tali costruzioni megalitiche con la disposizione della mappa
astrale del cielo.11
9
In “ Gli Archetipi dell’incoscio collettivo” di Carl Gustav Jung; Biblioteca Bollati Boringhieri,
Torino, 2004.
10
K. Kerenyi: “Gli Dei e gli Eroi della Grecia” Il Saggiatore editore; Milano 1963.
11
“Menhir, dolmen e cromelech, dal III° millennio a. C. sono le componenti più visibili
dell’intervento umano sul territorio. Nell’arte funeraria, insieme alla stele ellenica, ipostatizzano
archetipi da cui neppure l’architetto moderno riesce a prescindere. Sono mezzi per vincere la
paura del vuoto afferrandosi a corpi solidi, tattilmente verificabili”. In: Bruno Zevi “Paesaggi e
città” edizioni Newton Compton; Milano 1995.
6
Condizione che per altro si ritrova anche nella rappresentazione del figurativo pittorico:
notazione grafica evocativa, segno visibile non verbale, riconducibile più che ad elementi
illustrativi o didascalici (in mimesi col reale) ad una vera produzione mitopoietica, connettiva
della distanza tra soggetto e l’altro, proprio perché innesta il rituale nel simbolo.
Esso può essere il processo per la conquista della preda, nella sua fisicità, attraverso il rituale
della cattura della sua essenza, lo spirito, evidenziata nel suo simulacro, l’immagine; ma anche
del nemico, o di forme più articolate come la fecondità, sia quella femminile o quella della
terra.
Non si pensi che questa condizione sia relegabile ai soli tempi remoti: Marshal McLuhan ci
indica come in alcune popolazioni africane, venute in contatto con la civiltà occidentale negli
anni quaranta del secolo scorso, il vedere la propria immagine riprodotta fotograficamente
producesse in loro l’idea di essere stati espropriati dello spirito vitale che, sarebbe andato ad
abitare lo spazio dell’immagine, abbandonandone i corpi fisici. 12
Ciò ci permette anche di affermare che il passaggio di tutte le rappresentazioni avviene per
transizione dal simbolico al naturale e non viceversa: l’idea di realismo visivo è relativamente
moderna, fiorita sulle radici della mimesi greca che, in ogni caso, afferiva alla condizione di
tipo ideale, in quanto il naturale si mostrava prima di tutto come insieme codificato di leggi
geometriche alle quali anche la natura si piegava, o meglio: era l’essenza della natura.
Gli Archetipi non possono che essere arcani, veri e propri simboli, ambigui, carichi di allusioni e
mai compiutamente interpretabili (quando parliamo di simbolo intendiamo quel segno speciale
che si evidenzia per stratificazioni di senso, pluriverso, e non il puro segno).
Ma più di ogni altra cosa interessa che ogni mito, insieme ai riti che ne costituiscono la parte
narrativa, producono forme concrete non solo dell’essere sociale ma della forma spazio.
Mito e rito conformano concretamente la struttura spaziale della città, le sue conseguenti
modificazioni, non escluse quelle tecnologistiche.
Come a dire che le istituzione umane si fondano su una costante della vita storica, che è il
mito; anche se, possiamo aggiungere con il Kaufmann, “Le forme possono ricomparire, e i
sistemi no” (la Restaurazione ripristina la Monarchia che però è ormai altra cosa da quella
settecentesca; il Neoclassicismo ripristina gli ordini classici, ma tale forma linguistica non può
trovare il corrispettivo del tempio politeista). 13
12
13
Marshall McLuhan: “Dal cliché all’Archetipo” Sugarco edizioni; Varese 1998.
Emil Kaufmann: “L' architettura dell'Illuminismo.” Einaudi; Torino 1966. D'altronde possiamo
citare anche ciò che scriveva Lev Trockij: “Se dico che il significato della Divina Commedia è
quello di permettere di capire lo stato d’animo di determinate classi in una determinata epoca,
io la trasformo in un documento storico soltanto, poiché come opera d’arte la Divina Commedia
deve dire qualcosa ai miei sentimenti e stati d’animo. La Commedia di Dante può agire su di
me in modo opprimente, nutrire in me il pessimismo, o, al contrario, esaltarmi, entusiasmarmi,
animarmi… La società di classe, nonostante la sua mutevolezza ha alcune caratteristiche
7
Certo non possiamo aspettarci che i rituali (quelle sequenze codificate di gesti regolate
dall’aspettativa relazionale con il sacro) e le istituzioni, “si mantengano e si trasmettano senza
interruzioni e lacerazioni”. 14
È invece sicuro che mito e istituzione si intersechino l’un l’altra in un vicendevole rapporto di
trasformazione, e/o di conservazione, e le derivazioni da tali intersezioni producano un preciso
modo di vivere la città e di costruirla.
Fustel de Coulanges ci permette di verificare questo assunto in quello che egli descrive come il
“culto del fuoco sacro”: “La casa d’un Greco o di un Romano racchiudeva un altare: su
quest’altare ci dovevano essere sempre un po’ di cenere e dei carboni accesi. (…) Il fuoco non
cessava di bruciar sull’altare altro che quando tutta la famiglia s’era estinta; fuoco spento,
famiglia spenta, erano espressioni equivalenti per gli antichi. (al fuoco venivano) offerti
sacrifici, tutto ciò che potesse far piacere ad un dio: fiori, frutta, incenso, vino; se ne implorava
la sua protezione, lo si credeva potente”. 15
Esso rappresentava l’unità domestica della famiglia patriarcale. Esistevano ritualità precise che
andavano rispettate: come il mantenerlo lontano dalle impurità, “non gettandovi alcunché di
sudicio”, tenerlo sempre acceso tutto l’anno e, presso i romani, il primo di Marzo di ogni anno
spegnerlo ed accenderne subito un altro”.
Il fuoco sacro era posto al centro della casa e ne costituiva il nucleo formativo, era il valore che
confermava e codificava una forma dell’abitare, determinando la distribuzione planimetrica
dell’antica casa greca e romana.
Non basta: il De Coulanges spiega come affiancata a questa ritualità privata, specie di religione
familiare, in cui il fuoco sacro di ogni famiglia non era sostituibile da alcunché, esistesse pure
un “fuoco sacro” di natura collettiva, che apparteneva a tutta la città: esso rappresentava
l’unione di tutto il popolo, “l’ordine morale” che lo guidava.
Ma anche in questo caso la ritualità collettiva, aveva bisogno di un luogo dove accadere, dove
essere celebrata: tutto ciò era per i romani, il tempio di Vesta, che era la “dea vergine” che
essi vedevano come un’”anima universale” che regolava i movimenti dei diversi mondi – figura
13 -.
Non ci interessa qui indagare sulle “corrispondenze” tra rito privato e rito collettivo,
corrispondenze che la scienza del mito indica in una “progressione” del privato al pubblico, in
una trasformazione delle divinità “personali e temporanee” in divinità collettive per processi
analogici e di assimilazione16; ci interessa invece cogliere quali siano le relazioni con la
costruzione dello spazio e con la definizione di monumento.
generali” in “Letteratura e Rivoluzione” Einaudi editore, Torino 1973. È lecito pensare che le
caratteristiche generali siano assimilabili agli archetipi junghiani.
14
Furio Jesi: “Mito”edizioni ISEDI, Milano 1973.
Fustel de Coulanges: “La Città Antica” Sansoni editore, Firenze 1972.
16
Ernest Cassirer : “Linguaggio e Mito - Contributo al problema dei nomi degli dèi” edizione Il
Saggiatore, Milano 1961.
15
8
il tempio di Vesta, nella sua formalizzazione circolare, si struttura in funzione della sua
specificità rituale, rendendosi facilmente riconoscibile anche ad un occhio non allenato alla
discriminazione archeologica.
In questo senso non c’è alcuna differenza, nella costruzione fisica dello spazio, tra spazio
privato e pubblico: entrambi si strutturano partendo dal centro, il fuoco sacro: sintesi
unificante della collettività umana, sia essa familiare o nazionale.
Non possiamo che condividere ciò che afferma Aldo Rossi quando dice che “l’importanza del
rito e la sua natura collettiva, il suo carattere essenziale di elemento conservatore del mito,
costituiscono una chiave per la comprensione del valore dei monumenti e per noi del valore
della fondazione della città e della trasmissione delle idee nella realtà urbana”.
LA PERMANENZA E IL MONUMENTO
(precisazioni ed integrazioni)
“la monumentalità nasce dall’interno bisogno degli uomini di creare simboli per le loro gesta e il loro destino, per le
loro convinzioni religiose e sociali”.
Sigfried Giedeon
Esistono forme architettoniche che, all’interno dei cambiamenti della città e dei diversi usi che
su di essa si stratificano, rimangono inalterate. Ne abbiamo già parlato sopra, chiarendo che il
permanere non è dovuto alla funzione, anche se all’atto della nascita lo è, quanto alla Forma e
alle relazioni spaziali che essa immette all’interno della città.
Significativa è la lettura che A. Rossi fa del palazzo della Ragione a Padova; di come in questo
palazzo “le funzioni siano del tutto indipendenti dalla sua forma che ci resta impressa, che
viviamo e percorriamo e che a sua volta struttura la città”.
Il Palazzo della Ragione informa di sé l’intorno e con esso è una parte della città di Padova
chiaramente leggibile, una parte formalmente compiuta.
Esso traccia la separazione e, nello stesso tempo, la connessione di un complesso sistema di
piazze, che si definiscono nei rapporti dei pieni e dei vuoti urbani tra i più belli del mondo.
La ragione della permanenza di questo fatto urbano non va letta come dovuta a valori “extraumani” o “metafisici”, ma nel suo significare ancora per la collettività, pur nel cambiamento dei
codici di lettura.
Per dirla con V. Gregotti, “esiste un passaggio da un livello ad un diverso livello
dell’informazione emessa dall’oggetto, la sua collocazione in un contesto diverso, in cui uso e
significato, pur spostati di rapporti volumetrico reciproco, restano saldamente correlati”. 17
E’ quindi la forma che continua a parlare, che da una parte definisce l’assetto della città,
dall’altra ne trae il significato, il proprio senso, e, fatte le dovute precisazioni, di cui sopra, a
proposito del monumento e attività fisse: la bellezza di una città, il suo poter essere “arte” è
data proprio dalla contraddizione esistente fra l’assunto iniziale (il motivo per cui sorse il
17
Vittorio Gregotti: “Il territorio dell’architettura” Feltrinelli editore, Milano 1975.
9
monumento) e la realtà continuamente mutevole dell’uso che viene fatto di tale eredità (come
di tutte le eredità).
“Anche l’epoca delle sistemazioni archeologiche, se ha fermato tale processo per i singoli
monumenti – non si può più supporre di usare il Colosseo per impiantarvi una filanda– rientra
in pieno in questo processo se si considerano i rapporti che le zone archeologiche vengono ad
assumere nella struttura urbana, come parti di una città completamente diversa da quella che
quei monumenti hanno rappresentato”. 18
Esistono poi quei monumenti celebrativi ed intenzionali, che esperiscono il loro essere nella
subitanea funzione simbolica: parcellizzazione di una particolare forma di memoria e
rimembranza. Di essi non possiamo che confermare lo stesso destino già descritto per le
permanenze verso monumento.
Anch’essi partecipano infatti alle infinite riletture che gruppi sociali diversi, in tempi diversi, ne
danno.
Si può arrivare a paradossi esiziali: all'inizio del 2001, in Afghanistan nella Bamian Valley, i
Talebani hanno distrutto con esplosivi e razzi i due Buddha di Bamian, IV° - V° sec.; la statua
più grande era alta 53 metri, ed era la più grande immagine di Buddha del mondo.
Come si evince con chiarezza da quest’esempio una permanenza, che abbia la sua fondazione
di esistenza nel solo simbolico, non è dispensata dalle trasformazioni etiche e religiose del
tempo, che ne possono dichiarare l’improvvisa inutilità ed abbattimento.
Ma ci sono altri esempi territorialmente più vicini a noi: si pensi al Marc’Aurelio posto al centro
del Campidoglio. La sua salvezza dalla furia iconoclasta del primo Cristianesimo fu possibile
solo perché erroneamente ritenuto il ritratto equestre di Costantino il Grande, il primo
imperatore cristiano, appunto.
Il Marc’Aurelio è però significativo anche perché conforma lo spazio michelangiolesco del
Campidoglio, ancora una volta il monumento è figura attiva di trasformazione urbana: “Quando
Michelangelo comincia a elaborare attorno alla statua equestre di Marco Aurelio egli interpreta
a suo modo ciò che gli viene dall’antichità e non smette mai di pensare che lo spazio che sta
allestendo non è un museo ma una piazza, dove gli uomini viventi verranno dopo di lui a
parlare di politica, di affari, d’amore”. 19
Possiamo aggiungere che la visione michelangiolesca è quella precisa di fare della statua di
Marco Aurelio e, conseguentemente, della piazza del Campidoglio il Caput Mundi “Il primo
intenzionale centro focale della Roma controriformistica”. 20
Altro straordinario monumento intenzionale sono le due chiese gemelle a Piazza del Popolo di
Carlo Rainaldi a Roma. Il visitatore che giungeva a Roma dalla via Flaminia, doveva transitare
necessariamente per Piazza del Popolo – figure 17 e 18 -, incanalandosi per una delle tre vie
che da essa si dipanano verso il centro città (il cosiddetto “tridente” composto da via del
18
Carlo Aymonino: op.cit.
Georges Duby: “L’eredità” in “Il Mediterraneo” di Fernand Braudel; Newton e Compton
editori; Roma 2002.
20
Christian Norberg-Schulz: “Architettura barocca” Electa editrice; Venezia 1979.
19
10
Babbuino, via del Corso, e via Ripette). Sui due vertici del tridente Rainaldi edifica le due
chiese, incorniciandone la via centrale, via del Corso, che diventa l’ingresso principale. “Il
visitatore che entra nella città si trova di fronte le chiese con le cupole, e così veniva introdotto
ai nascosti tesori della città”.21 E in questo modo sarà per molti monumenti del barocco.
In sintesi posiamo quindi affermare che anche quando il monumento è atto volontario e
preciso di cristallizzazione della memoria collettiva in una determinata epoca, esso persiste nel
tempo solo se riesce ad assume letture altre, adattandosi alle mutate condizioni dei valori
collettivi, trasferendone in sé una qualche rappresentanza.
Non solo: essi possono essere, proprio come le permanenze, soggetti attivi di trasformazioni
urbanistiche, determinandone sviluppi ed indirizzi.
Monumenti e Rovine – la ragioni della conservazione e del restauro
La parola rovina ci dà con esattezza il senso del degradarsi della forma, che con immediatezza
ci appare quali antiche vestigia sgretonlatesi sotto il nostro sguardo.
Nell’antichità gli edifici e i monumenti in rovina avevano diversi destini:
potevano diventare elementi di spolio, atti ad essere puro materiale grezzo per nuove
edificazioni, si pensi all’edificazione dell’Arco di Costantino con i resti delle varie basiliche ed
altri monumenti dei Fori Imperiali; si pensi all’Arena Padovana, grande quanto quella di
Verona, che, intorno al X° secolo,
diventa cava a cielo aperto e che fornisce la trachite
necessaria per selciare piazze padovane e calli veneziane22;
potevano essere semplicemente eliminati come l’Ekatonpedon, il primo tempio di Athena
sull’Acropoli di Atene, per finire nella cosidetta colmata persiana durante l’età di Pericle –
figura 20 -;
potevano essere restaurati e riattati alle nuove esigenze, trasformati secondo necessità: si
pensi al Mausoleo di Adriano, trasformato in fortezza prima (Castel Sant’Angelo) e
successivamente in Carcere;
oppure semplicemente abbandonati alla corrosione del tempo, come molti acquedotti romani.
E così è stato fino a che: “Bruscamente tutto cambia quando, tra le altre scienze dell’uomo, in
uno sforzo globale di inventare, ordinare, classificare gli elementi del sapere, nacque
l’archeologia. Un nome: Winckelmann, antiquario di Sua Santità. Una data 1764. L’antichità
era sempre stata una sorella; eccola distanziata, mummificata, intoccabile. Morta”.23
Per inciso: il 1764 è la data nella quale Winckelmann assume l’incarico di Soprintendente alle
antichità di Roma. Sotto la sua spinta è costituita nel 1821 la Pia Accademia romana di
Archeologia e, nel 1829 l’Istituto di corrispondenza Archeologica.
Si trasforma così, irreversibilmente, l’antiquaria in scienza.
Ma perché l’istituzione della nuova scienza archeologica è fredda e mummificata?
21
22
23
Christian Norberg-Schulz: op.cit.
Cesira Gasparotto: “Padova e dintorni”; Storti edizioni; Venezia 2002.
Duby: op.cit.
11
Si potrebbe rispondere che lo è perché ogni scienza lo deve essere: la scienza seziona e
classifica; definisce i sintagmi ed ordina in nuovi paradigmi.
La risposta è, infatti, tutta nell’atto che compie Lord Elgin, ambasciatore britannico a
Costantinopoli: egli stacca una notevole parte della trabeazione del Partendone, portando le
metope che la compongono a Londra.
Tali metope saranno successivamente collocate Nel
British Museum.
È appunto la catastrofe dell’apparire di questa nuova forma tipologica, il Museo, in simultaneità
dell’apparire della scienza dell’Archeologia, a produrre la frattura, che possiamo indicare come
inizio sia del restauro, in senso moderno, che del conservazionismo.
Il Museo è il luogo tipologicamente deputato allo studio dell’antico, non un contenitore
qualsiasi: in esso sono poste le parti migliori dei resti, delle rovine.
È evidente che si tratta, per quanto attiene all’idea di rovina e di museo, della doppia faccia
dello stesso problema: riportare a storicità ciò che veniva classificato in precedenza secondo
Gusto; codificare secondo Filologia.
Si badi che tutto ciò non è semplice opera d’erudizione; la conseguenza è per così dire fatale,
nelle nuove relazioni con i monumenti: chi ora potrebbe porre sulla scultura di un busto antico
il proprio ritratto, asportandone il precedente? Cosa, peraltro, non solo praticata dai Romani,
ma anche successivamente alla loro civiltà. Sarebbe scandalo inaudito.
È inoltre interessante notare che mentre l’Archeologia ha culla a Roma (non in Grecia), dove è
presente, tra sette ed ottocento, ancora il potere forte del Papa, il Museo nasca a Londra: ciò
che è contenuto in Villa Albani, a Roma, è, infatti, ancora una Collezione, nella quale le opere
sono collocate per temi e non per contiguità temporale.
Diversa è la situazione per la casa-museo dell’Architetto John Soane a Londra – figura 21 -.
L’architetto organizza lo spazio della sua abitazione secondo una collocazione storica, in un
crescere dai piani inferiori a quelli superiori in progressività temporale.24
Ci si aspetterebbe anche che l’Archeologo fosse un fine conoscitore dell’antichità: in realtà lo
stesso Winckelmann non visiterà mai la Grecia ed attribuirà ad innumerevoli copie romane di
sculture greche la patente di autenticità. Il padovano Gian Battista Belzoni, colui che a tutti gli
effetti possiamo identificare come il pioniere dell’Egittologia, prima dell’incontro con l’agente
del pascià d’Egitto Gibraltar, si guadagnava da vivere nella capitale londinese facendo il
saltimbanco e l’attore.25
Ma torniamo al tema della rovina: i vasti scavi che si apprestano in molte parti d’Italia e che
partono dalla fine del settecento, producono come indotto nella città e nel territorio una
24
È interessante come J. Soane svuoti la parte centrale della propria abitazione (tipica
costruzione su lotto gotico a più piani) per lasciar spazio ad un alto cavedio interno, sotto il
quale, al seminterrato, è posto il sarcofago alabastrino del Faraone Chefren, portato a Londra
dall’Egitto per opera di Giovanni Battista Belzoni.
25
Gianluigi Peretti: “Belzoni; il pioniere dell’Egittologia”; cooperativa “Giordano Bruno Editrice;
Este 1985.
12
condizione d’ipostasi,
di
blocchi
di
sviluppo dove tali
rovine emergono, impensabile
precedentemente.
Intere aree archeologiche sono delimitate e preservate anche attraverso istituzioni di
salvaguardia legislativa.26 Non che prima di tale periodo tutto fosse lasciato alla spoliazione:
sintomatica è la posizione espressa da Raffaello quando assume l’incarico di Soprintendente
alle antichità di Roma (1515), in contrasto con quella espressa da Bramante, maestro ruinante,
27
e di Michelangelo.28 Raffaello spinge con la sua appassionata lettera a Leone X°, scritta con
la collaborazione di Baldassarre Castiglioni, il papa ad una nuova posizione storicista verso
l’antico. In essa si denuncia con veemenza il ruolo dei pontefici nella distruzione delle antichità.
Ma ancor di più importate è il suo apporto innovativo e sistematico alla classificazione dei
monumenti in Roma: con l’ausilio di numerosi aiuti codifica un sistema di rilievo in proiezione
ortogonale, che si serve di bussola e strumenti ottici.29 È altrettanto interessante come proprio
a Roma avvenga un salto innovativo nella rappresentazione del disegno: vedasi gli spaccati
assonometrici e prospettici per esempio del Peruzzi.30
Si pensi però che le devastazioni del Colosseo, usato come cava a cielo aperto per trarvi il
travertino, cessarono solo con il 1750, quando per il Giubileo s’inaugurò in esso un’enorme
croce, preservandolo da ulteriori saccheggi.31
Ma cosa sono restauro e conservazione? Le teorie in proposito non si contano. È certo che la
sistematicità di classificazione è avviata a partire dalla seconda metà dell’ottocento. La teoria
scientifica del restauro è da attribuire ad Eugène Viollet-le-Duc, che con notevole capacità
critica appronta il restauro delle mura di Carcassonne. Egli scrive inoltre il “Dizionario ragionato
dell’architettura francese dall’’XI° al XVI° secolo, che rimane una stella fissa per chiarezza
espositiva e completezza anche per il tema della teoria del restauro, e dove fra le altre cose
dice: “Restaurare un edificio non è conservarlo, ripararlo o rifarlo, è ripristinarlo in uno stato di
completezza che può non essere mai esistito in un dato tempo”. Parole chiare e significative se
si accoppiano al lavoro di Carcassonne: la ripulitura delle mura della città è così sistematica
che scompaiono tutte le stratificazioni successive al XIII° secolo, ma le stesse torri del
duecento furono in molti casi ricostruite exnovo. Il lavoro del restauratore, sotto questa luce, è
quello di chiudere ciò che era stato aperto dal primo progettista: porsi in continuità con il suo
26
In Francia, subito dopo la Rivoluzione, un decreto della Convenzione Nazionale del 1794
proclamò il principio della conservazione dei monumenti; paradossalmente fu tale decreto a
essere uno dei capi d’accusa per Gustav Courbert, il pittore iniziatore del Realismo Francese,
che dovette subire il processo per essere stato il responsabile durante i giorni della Comune di
Parigi nel 1871 dell’abbattimento della Colonna Vendốme.
27
Appellativo con il quale Bramante era comunemente chiamato all’interno della Corte di
Leone X°.
28
Indizio della polemica antistoricista di Michelangelo è il progetto per il riadattamento delle
Terme di Diocleziano in nuova Basilica degli Angeli; si veda Manfredo Tafuri: “L’architettura
dell’Umanesimo” edizioni Laterza; Bari 1976.
29
Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari: “Arte nel Tempo” edizioni Bompiani; Milano 1992.
30
James Ackerman: “La rappresentazione da Vitruvio a Gehry” Milano, Mondadori Electa, 2003
31
Antonella Merletto: “I Giubilei nella storia e nella cultura”;
http://www.provincia.asti.it/hosting/moncalvo/bol10htm/giubilei.htm
13
modello compositivo, elidere ciò che di esso è stato tradito nelle infinite superfetazioni
successive. È altrettanto chiaro che per il restauratore attuale questa tecnica di intervento si
qualifica come falso grandioso: dobbiamo però rilevare che la qualità degli studi filologici di
Viollet-le-Duc sono da vero erudito e che il suo pensiero ha ancora un certo seguito anche in
architetti contemporanei. Se infatti per uno studio scientifico tutte le incrostazioni del tempo si
possono qualificare come corpo di studio è anche vero che l’idea di completezza in sé di un
edificio produce nell’osservatore un godimento estetico proporzionale alla meno faticosa
operazione di completamento spaziale, quando avrebbe ben dovuto scervellarsi partendo da
dati sensibili parziali: chi avesse visitato Cnosso sa quanto pathos sia ritrovarsi in quella
ricostruzione.
Sir Arthur Evans, archeologo e direttore dell'Ashmolean Museum di Oxford, incominciò gli scavi
sistematici nel 1900, seguito dal suo assistente, l'archeologo inglese D. Mackenzie fino al 1931.
Fin dall'inizio i monumenti scoperti avevano bisogno di restauro: cosicché molte parti del
palazzo furono restaurate con tecniche assai poco filologiche (cosa che invece “Viollett-le-Duc”
avrebbe considerato un crimine) usando il cemento armato in abbondanza. Le parti che
corrispondevano a costruzioni in legno furono, all'inizio, dipinte in giallo (oggi il colore giallo è
sostituito).
Inoltre, egli scelse tra tutti gli elementi della stratigrafia solo quello neopalaziale, elidendo tutti
i resti relativi agli altri periodi che a questo si sovrapponevano.
In sostanza: l’attuale ricostruzione di Cnosso è sicuramente un falso, ma che ci fa rivivere una
vibrante sensazione di credibilità.32
Parallelamente alle teorie sul restauro di Viollet-le-Duc si codificava in Inghilterra la tendenza
della conservazione dell’antico ad opera di John Ruskin. In realtà tale pensiero si innestava
sulla moda del Pittoresco, che posiamo definire come sincretismo tra paesaggismo e cineseria:
è proprio nel settecento che nasce il giardino all’inglese, nel quale ritroviamo l’idealità
romantica che sposa una natura naturata (selvaggia, non condizionata in alcun modo nella sua
crescita da mano umana - naturalmente questo è solo un apparire, un artificio -), nella quale
sono disseminati ponti e gazebo alla cinese, ed edifici in rovina (sono privilegiati quelli gotici) o
frammenti di antichità classiche.
John Ruskin riporta tutto ciò a teoria alta con la sua opera miliare: “Le Pietre di Venezia”.33
In tale testo si evidenzia il mito della città in decadenza, Venezia, lo spleen sostanziato da
pittori contemporanei come Turner e, più tardi, da autori come Mann; città che nel suo
crepuscolo mostra di sé il morire della sua grandezza, ma con essa anche il resistere di un
passato etico (non a caso identificato con il Gotico, cioè lo stile che più di ogni altro fonde
32
Ci piace citare il pensiero di Walter Benjamin, in verità rivolto all’analisi della caduta
dell’aura nell’opera d’arte: “… nell’istante in cui il criterio dell’autenticità nella produzione
dell’arte viene meno, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della sua
fondazione rituale s’instaura la fondazione di un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla
politica”; in Walter Benjamin: “l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”
edizioni Einaudi; Torino 2000.
33
John Ruskin: “Le Pietre di Venezia; Mattinate Fiorentine” edizioni Vallecchi; Firenze 1974.
14
ascetico ad estatico, oltre ad essere luogo di fondazione dell’etica riformistica del lavoro e
dell’individualità).
Se possiamo fare una metafora, Ruskin trasla dalla pittura all’architettura e all’urbanistica il
concetto di natura morta (still life in inglese), quella particolare pittura di genere, ancora
frequente nell’ottocento, che evidenziava la transitorietà dell’essere, fotografando il memento
mori. L’antico non può quindi che essere abbandonato all’ineluttabile corso del tempo, ma le
sue vestigia devono, essere intoccabili, quasi sacre, permettendone l’unica fruizione possibile,
quella estetica.
Restauro e conservazione hanno nel tempo dato origine ad un’infinità di teorie e prassi
oggettuali, sovrapponendosi, creando sintesi o riproducendo antiche antinomie.
In Italia le condizioni del restauro sono dettate dal critico e storico dell’Arte Cesare Brandi, che
determina una visione equilibrata tra le varie posizioni presenti in panorama italiano, che per
ricchezza di reperti e per la loro stratificazione, era notevolmente problematico.
La sintesi del suo pensiero è delineata da quel documento fondamentale che resta la cosiddetta
Carta del Restauro del 1972, circolare emanata dal Ministero della Pubblica Istruzione con il
numero 117.
In essa si valorizza al meglio l’idea di salvaguardia, cioè qualsiasi intervento conservativo che
non implichi l’intervento sull’opera oggetto di restauro.
Il restauro è invece definito “ come qualsiasi intervento volto a mantenere in efficienza, a
facilitare la lettura e a trasmettere integralmente al futuro le opere e gli oggetti”.34
Precisando che si deve restaurare solo la materia dell’opera d’arte. Questo corollario risulta
fondamentale perché implica la negazione della scelta di cosa restaurare: “Il restauro deve
mirare al ristabilimento della unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza
commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia dell’opera
d’arte nel tempo”.35
È del tutto evidente il contrasto sostanziale tra il pensiero di Brandi e quello di Viollet-le-Duc,
che abbiamo espresso più sopra.
Questi criteri restrittivi hanno garantito, a partire dal 1972, un freno alla metastasi dell’edilizia
speculativa nei centri storici e nello stesso ha permesso la creazione di un codice minimo che
desse garanzia per la conservazione dell’esistente, senza essere troppo pervasivo.
In questo senso la legislazione italiana ha dimostrato più lungimiranza di altre situazioni
europee, anche se nel nostro Paese le buone leggi non sempre corrispondono a buone prassi,
costanti e rispettose.36
34
Cesare Brandi: “Teoria del Restauro” Einaudi Editore; Torino 1999.
Cesare Brandi: op.cit..
36
Si vedano le leggi: 1 giugno 1939, n.° 1089 (tutela delle cose di interesse artistico e
storico); 29 giugno 1939, n.° 1497 (protezione delle bellezze naturali e panoramiche); Regio
Decreto 3 giugno 1940, n.° 1357 (Regolamento per l’applicazione della Legge sulla protezione
delle bellezze naturali e panoramiche).
35
15
Elenco immagini:
Figura 1: città di Arles; Les Arènes nel Medioevo, nucleo fortificato della città.
Figura 2: veduta attuale di Arles dopo il ripristino archeologico.
Figura 3: pianta della città di Nimes nel XVIII° secolo.
Figura 4: pianta della città di Firenze all’inizio del XIII° con ubicazione dell’anfiteatro romano.
Figura 5: rilievo attuale della città di Firenze.
Figura 6: il ring di Vienna.
Figura 7: Veduta prospettica del quartiere San Giuliano a Mestre, con evidenziate le
emergenze; il progetto è dell’Arch. Giuseppe Samonà.
Figura 8: veduta del complesso abitativo “Monte Amiata” (Gallaratese); progetto di Carlo
Aymonino e di Aldo Rossi; 1967/72.
Figura 9: planimetria del complesso abitativo “Monte Amiata” (Gallaratese); progetto di Carlo
Aymonino e di Aldo Rossi; 1967/72; i corpi A, B, e C sono di C. Aymonino, mentre il
corpo D è di A. Rossi.
Figura 10: Pianta del progetto di Antonio Antolini per il “Foro Bonaparte”; al centro il Castello
Sforzesco; 1801.
Figura 11: Antonio Antolini per il “Foro Bonaparte”; parte del prospetto del nuovo edificio che
ingloba il Castello Sforzesco.
Figura 12: schema del piano regolatore del 1935 per Mosca; in tratteggio le zone destinate a
verde.
Figura 13: esempi di templi dedicati a Vesta.
Figura 14: spaccato assonometrico del Palazzo della Ragione a Padova (ricostruzione del
1300).
Figura 15: pianta di Padova del Valle con evidenziazione (cerchio giallo) del sistema delle
piazze concentrate attorno al Palazzo della Ragione.
Figura 16: planimetria della piazza del Campidoglio a Roma, con al centro la statua equestre
del Marcaurelio.
Figura 17: incisione del Dupérac del progetto michelangiolesco per il Campidoglio.
Figura 18: disegno di progetto di Carlo Rainaldi per Piazza del Popolo a Roma.
Figura 19: veduta di Piazza del Popolo a Roma, da un’incisione di Gian Battista Piranesi.
Figura 20: planimetria dell’Acropoli di Atene in età augustea, nella ricostruzione di G. P.
Stevens; è evidenziato dal cerchio rosso la posizione dell’Ekatonpedon eliminato
dagli ateniesi con la colmata persiana.
Figura 21: “Charles Townley nella sua biblioteca in Park Street a Londra” 1781-83, di Johann
Joseph Zoffany.
Figura 22: sezione verticale della casa di Sir John Soane.
Figura 23: veduta d’interno della casa di Sir John Soane.
Figura 24: veduta d’interno della casa di Sir John Soane.
Figura 25: veduta d’esterno della casa di Sir John Soane.
16
Esercitazione modulo 1
1. Cosa intendiamo per elementi primari nello sviluppo urbano, cosa li caratterizza?
2. Si può intendere la residenza come elemento primario? Perché?
3. Cosa si intende per tipo edilizio?
4. Si può intendere la centuriazione del territorio da parte dei Romani elemento di “piano”? Se
sì, se ne riporti un esempio significativo articolandone una descrizione; se no, se ne spieghi
il motivo.
5. Cosa intendiamo per archetipo?
6. In cosa consiste la relazione tra forme rituali, mito ed architettura?
7. Il valore di un monumento è costante nel tempo? La sua permanenza a cosa è dovuta?
8. Quando nasce l’archeologia come scienza? In cosa consiste la sua motivazione ideologica?
9. Si spieghi il significato di “conservazione” e di “restauro”, facendone esempi significativi.
10. In cosa consiste la differenza tra “collezione” e “museo”? Se ne descriva degli esempi,
anche moderni.
Esercizio per il forum modulo 1
Ogni corsista individui planimetricamente le emergenze di una città veneta, dandone
motivazione attraverso una breve relazione (400 battute, spazi esclusi).
Illustri, inoltre, sui caratteri formativi e di permanenza di un monumento (250 battute).
17