Scarica pdf - SentireAscoltare

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digital magazine aprile 2010
N.66
Lost in
Musical
Byrne & FatBoy Slim
A Toys Orchestra
Caribou
Fucked Up
Cobblestone Jazz
Adi Newton/Clock DVA
Santo Barbaro // Vessel // Temperatures // Kuupuu // Evy Arnesano // Ikonika
66
Sentireascoltare n.
Turn On
p. 4
Santo Barbaro
5
Vessel
6
Temperatures
7
Kuupuu
8
Evy Arnesano
Tune In
10
Ikonika
12
Caribou
16
Cobblestone Jazz
20
Fucked Up
Drop Out
24
A Toys Orchestra
30
Lost in Musical
Recensioni
36
Balaclavas, Caribou, Crookers, Extra Life, Ikonika, MGMT...
Rearview Mirror
90
Jawbox, Adi Newton, ZU...
Rubriche
86
Gimme Some Inches
88
Re-boot
102
Giant Steps
103
Classic Album
104
La Sera della Prima
SentireAscoltare online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05
Editore: Edoardo Bridda
Direttore responsabile: Antonello Comunale
Provider NGI S.p.A.
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Direttore: Edoardo Bridda
Direttore Responsabile: Antonello Comunale
Ufficio Stampa: Teresa Greco
Coordinamento: Gaspare Caliri
Progetto Grafico
e
Impaginazione: Nicolas Campagnari
Redazione: Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Stefano Solventi, Teresa Greco.
Hanno
collaborato:
Giancarlo Turra, Marco Braggion, Gabriele Marino, Leonardo Amico, Fabrizio Zampighi,
Luca Barachetti, Stefano Pifferi, Andrea Napoli, Filippo Bordignon, Luca Barachetti, Salvatore Borrelli.
Guida
In
2
spirituale:
copertina:
Adriano Trauber (1966-2004)
Lost in Musical (David Byrne+Fatboy Slim)
Vessel
—Setacciare la verità—
—Next pop queen—
Il gruppo bolognese cerca
una rifondazione delle parole
all'insegna della purezza e della
densità con un disco e un libro in
dialogo tra loro
Due parti di Giardini di Miro' e
una parte di Pitch. Per un viaggio
in tre tappe a bordo del Vascello
A
“L
'idea di Mare Morto è sorta in modo estemporaneo e imprevisto. Abbiamo fatto qualche prova e
nessun concerto, poi ci siamo chiusi in studio. Volevamo ridestare la centralità della parola, del testo. Ma non per giungere
allo stomaco di un pubblico vasto e sconosciuto, piuttosto per
scavare nella nostra coscienza e mettere in discussione la
nostra percezione delle cose. Come scrivere sulla superficie
liscia di uno specchio per accusare e additare quel volto ignoto che ci appare di riflesso”.
I Santo Barbaro praticano il difficile mestiere di
chi sta tra parola e verità. Dalla prima vogliono distillare significati che alimentino la seconda. Un disco, Mare
Morto, uscito nel 2008 e oggi ristampato insieme ad una
raccolta di racconti (Un giorno passo e ti libero) dalla
benemerita Ribéss Records, ovvero i due poli rappresentativi di una poetica dove la densità – lirica in primis,
e dunque di songwriting – è uno dei tratti più distintivi:
“I racconti rappresentano l'altra faccia di uno stesso ragionamento, sono squarci attraverso i quali si cerca di giungere
ad una dimensione infantile della rivoluzione. Ma sono anche
chiavi di lettura, una via per dare colore alle pagine in bianco
e nero dell'album”.
Un bianco e nero dalle tonalità livide, che inserendosi
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Turn On
Turn On
Santo
Barbaro
fra riferimenti previsti ma rimasticati a dovere (Black
Heart Procession, Radiohead, Nick Cave, C.S.I.,
Giancarlo Onorato), cerca forme di comunicazione
purificate e perciò (ri)fondative. Prima di tutto nel trattare temi purtroppo banalizzati dal brusio appiattito del
presente: “Il punto è setacciare la verità attraverso l'immagine che abbiamo di noi stessi, la nostra realtà, la propaganda
che ci avvolge come un fumo denso”. Quali ad esempio la
guerra: “La guerra invade il nostro presente ma i nostri occhi
ne rifiutano l'esistenza. Parlare di guerra è come parlare di
dio, di una astrazione, di qualcosa a cui ci si è abituati e che
non si mette in discussione in senso intimo e profondo. Ma
gli occhi di chi ha vissuto la guerra – e per cui quel termine
non è come per noi un semplice slogan orwelliano che si
confonde spesso con la parola pace – affondano nella nostra
intimità e la squarciano. Ridanno corpo e voce all'orrore che
nutriamo quotidianamente. Tutto questo, in ultima analisi, ci
riporta alla verità, e alla menzogna”. E ad un lavoro che
non chiamiamo poesia solo perché nell'essere Canzone
trova il proprio altissimo senso. Ma che della poesia ha
tutto il fine e la forza.
Luca Barachetti
unire Alessandra Gismondi, Corrado Nuccini ed Emanuele Reverberi in un nuovo progetto discografico non è la voglia di scoprire, ma di riscoprire. Seguendo i binari di una formazione musicale
comune passata per anni di ascolti e sbocciata di recente
in una collaborazione per una cover/tributo a Leonard
Cohen. “Vessel” recita la ragione sociale, perché di viaggio si tratta. Pianificato e con tanto di data di (presunta)
scadenza, da concludere entro il 2010 con tre EP ognuno
dedicato a un tema preciso. In quel Tales Of A Memento Island che trovate in spazio recensioni si parla della
"memoria", mentre i prossimi due verteranno sulla “passione” e sulla “rinascita”. Un fil rouge utile a dare credibilità alla produzione del gruppo ma anche a giustificare
scelte stilistiche fortemente contestualizzate.
“Coverizzare” senza (o quasi) cover, verrebbe da dire,
almeno in questa prima stazione del viaggio. Con gli anni
Ottanta e i Novanta che si mescolano all'indie-shoegaze
dell'accoppiata Pitch /Schonwald e a un elettro-cantautorato malinconico spruzzato di Velvet Underground.
Anche perché se di riscoperta si deve trattare, tanto vale
giocare con l'anagrafe e ritrovarsi ventenni: “Gli anni Ottanta hanno rappresentato forti cambiamenti di sonorità e
sono stati un forte punto di riferimento. Gli anni 90 sono
stati espressione della nostra vita creativa perché li abbiamo
vissuti fisicamente sia come pubblico che come musicisti on
stage. Abbiamo semplicemente omaggiato un'epoca, esplorando territori diversi, avvicinandoci alla musica d'autore e
cantautoriale, mescolando il background delle singole esperienze musicali”.
Un misto di nostalgia canaglia e di creatività, sommate
alla velocità con cui gli ultimi dieci anni hanno azzerato
tutte le sicurezze che l'Era del CD sembrava aver prodotto. E con loro due decenni dalla personalità stilistica
tutto sommato monolitica, se confrontati con un'attualità in cui la contaminazione tra i generi e la mancanza di
definizioni certe sono la regola. Nella diatriba tra "evoluzionismo" e "citazionismo" i Vessel si schierano apertamente a favore del secondo cercando nel contempo
i giusti referenti: over trenta, o magari nuove leve con
la voglia di andare oltre quell'ascolto distratto, veloce e
costantemente "sulla notizia" che il caleidoscopio della
rete spesso offre loro. Il tutto con uno stile pacato, fedele ai modelli, ma capace anche di trascendere il mero
reprise puntando sul carisma e l'esperienza dei musicisti.
Alla fine la sensazione di deja vù è forte per chi ha
vissuto quegli anni e in Memento List si ritrova citati Folk
Implosion, Built To Spill, Meat Puppets, Charlatans,Teenage Fanclub, Jeff Buckley, Sebadoh. Come forte è l'impressione che i Vessel abbiano iniziato il loro percorso con la
giusta convinzione.
Fabrizio Zampighi
5
C
apita che Mr. Thurston Moore si materializzi nel
web consacrando qualche oscuro act agli esordi. è
successo ai Mouthus, agli Upsilon Acrux ed ora è il
turno dei Temperatures, scovati spulciando tra i dischi
del fido negozio di Prurient a Brooklin e prontamente
segnalati in una pubblicazione di Pitchfork. Era la fine del
2007 e il duo basso/batteria costituito dai due pischelli
Peter Blundell e James Dunn aveva appena pubblicato,
su Heat Retention, un primo ellepì intitolato Ymir. Un
lavoro rumoroso nello stile della Load rimasticato però
in una variante detritica, lasciando di quel suono soltanto
le rovine. In pratica, se da una parte rifiutava la matematica dei Lightning Bolt, nondimeno quel sound toglieva quel poco di wave rimasto ai Sightings senza farsi
mancare infide cacofonie ottenute attraverso un synth
semi-modulare.
Se Colin Langenus, batterista del duo USA Is A
Monster ha dribblato con l'organo a pedali il problema di aggiungere spessore all'output sonico di una formazione ridotta ai minimi termini (che dai Ruins agli
Hella, oltre ai già citati LB, si risolve spingendo al limite
muscoli e cervello), i Temperatures ne escono con l'ausilio della (vecchia) tecnologia: un synth analogico ARP
6
Kuupuu
—Rumori caldi,
rumori freddi—
—Rito d'altro mondo—
Ha viaggiato a lungo, portato
il girovagare in musica e ora ha
trovato la propria voce: il pop
meticciato e cosmopolita dei Ruby
Suns di Ryan McPhun
A qualche mese di distanza da
Lumen Tähden torniamo nel
magico mondo finlandese di
Kuupuu
2600 collegato tramite microfoni a contatto ai tamburi
di Blundell che amplifica e deturpa (in lunghi scrosci e
gracchi) i colpi del batterista.
È col medesimo setup che a tre anni di distanza, licenziato lo scorso febbraio dall'italo-americana Ultramarine, esce il sophomore Eksra, un passo decisivo verso
una cifra stilistica significativa. Il drumming si è fatto più
vicino al free di Sunny Murray o Chris Corsano, lasciando sovente a Blundell e al suo basso il compito di
reggere la struttura ritmica a colpi di motorik, mentre
blatera frasi incomprensibili alla maniera lightinboltiana.
Ne vengono fuori delle sorta di jam sbronze, in cui si
alternano fasi slabbrate e fuori controllo ad intenzioni
più propriamente rock, in cui i due spingono all'unisono
verso una catarsi mai data. Mantenendo nei loro pezzi
quelle sensazioni come di un ebbro torpore che impedisce ogni spinta risolutiva.
è un sound sempre in bilico tra costruzioni instabili
e rovine inevitabili, che li tiene lontani da facili tentazioni parossistiche di band come Skullflower e Dead C
declinandoli verso i toni remissivi - e quasi malinconici della madre patria albionica. E già così Temperatures.
Leonardo Amico
L
Turn On
Turn On
Temperatures
a Finlandia è uno stato d'animo, un cervello specifico, il sit-in di emotività senza tempo ed inesprimibili;
guazzabuglio d'arbusti, laghi, foreste, distese chilometriche di natura allo stato puro, riti d'altri mondi. La musica
che nell'ultimo decennio è passata da qui ha toccato una
tangente parallela (ma forse in combutta) con il New
Weird America. è probabile che siano i luoghi la forza
magmatica di questa differenza con tutto il resto, anche
con sottoboschi musicali che sostanzialmente dividono i
medesimi percorsi.
Etichette come Fonal, Ikuisuus, 267 Lattajjaa stanno al
folk come l'acqua per Marte. E del sottobosco finlandese
Jonna Karanka ha manovrato con sapiente disappartenenza i fili di questa scena non troppo dissimile dalle sabbiose distese rossastre dal pianeta rosso. Avarus, The
Anaksimandros, Maniacs Dream, Kukkiva Poliisi,
Lussu ja Magneetti, Kermakolmio, Hertta Lussu
Ässä, Thriller Bingo, Way Of The Cross, Mezzolat,
Master QSH, tra i micro-gruppi più importanti che la
finlandia in odore weird abbia sfornato, è come se avessero scelto la musica come mezzo per non morire; la
solitudine a tenerli uniti, a farli collaborare.
Tra loro, Kuupuu è l'incantatrice di serpenti, ama il
collage visivo e sonoro. è pittrice, organizzatrice d'eventi,
musicista vaudeville, tessitrice di mosaici noise dall'im-
pianto para-acustico, usa il laptop come qualunque strumento consono e non consono, ama il metallo pesante,
così come le foreste, i laghi, l'apocalisse, e l'inferno depressivo dei suoi strani soggetti sonori, un po' alla stessa
maniera di Zeek Scheck quando s'inventava personaggi limite, ossessionati e sessualizzati, per i suoi siparietti
da hot-lines. Difficile racchiuderla in un genere musicale:
la sua più che dozzina di dischi in solo, e l'altra doppia
dozzina di materiali in compagnia, la schierano a fianco
dell'attitudine moderna di registrare qualsivoglia più per
necessità immediata, che per preciso bisogno di costruire discografie perfette.
Inoltre, è qualcosa di più di una musicista freak folk: il
suono è mesmerizzazione, visione parapsichica, qualcosa
che come nel caso di Lau Nau ed Islaja appartiene
all'inconscio; i dischi, a partire dalle immagini, indecifrabili, sogni nascosti e glaciali e la discografia è tutt'altro che
perfetta con l'ultimo Lumen Tähden a rappresentare
l'apice di quello che possiamo chiamare pre-birth folk,
musica che ti ribattezza uno stile (diventato anch'esso
schematico) piuttosto che ancorarsi agli abusati riti sciamanici.
Salvatore Borrelli
7
Turn On
Evy
Arnesano
—Tipa Tenace—
Low budget, tanta tenacia e
la giusta dose di talento. Una
situazione post-anni zero su cui
vale la pena meditare
T
ipa Ideale di Evy Arnesano - recensito nel ReBoot di marzo - è una autoproduzione a basso
budget che però non rinuncia all'intento di deliziarci con
raffinatezze e arguzie pop. Canzoncine che si cantano
sotto la doccia eppure dotate di una loro robustezza che
deriva da ascendenze lounge, swing, beat-pop melodico
anni sessanta... Degna di nota poi è l'applicazione anzi
la tenacia con cui l'autrice lo promuove e si promuove,
utilizzando tutti i mezzi a disposizione dal moderno do
it yourself. Ci è sembrato opportuno indagare.
Chi sei, da dove vieni, cosa hai fatto sin'ora?
Sono salentina, felicemente trapiantata a Bologna ma
con una incipiente voglia di tornare al mare, ex studentessa di legge, ex tastierista reggae ska, con l’hobby
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di cucinare dolci in particolare crostate di mele, con il
pallino di inseguire le mie idee, musicali e di scrittura.
Inoltre svolgo in maniera atipica e precaria alcuni lavori:
sono editor audio di videogames, coordino un centro
estivo di bambini delle elementari, faccio qualche lezione di piano e doposcuola ai piccoli.
Cosa c'è dietro a Tipa Ideale?
Dietro questo disco c’è da un lato il bisogno di chiudere
un decennio di vita e di canzoni, dall’altro il tentativo
di lasciare almeno una testimonianza della mia piccola
e "numerica" esistenza. Con l’ambizione di poterci riuscire da sola, senza intermediari, bypassando i normali
canali e interlocutori e arrivando direttamente al pubblico dal "basso", per dirla così, realizzando una sorta di
prodotto artigianale per veracità ma professionale per
caratteristiche tecniche.
Come sono nate le canzoni? Componi da sola?
Ho cominciato a scrivere musica sin da quando suonavo
le tastiere in alcune formazioni ska e reggae, per le quali
proponevo sia le mie parti, sia armonie e arrangiamenti
per altri strumenti. I primi pezzi sono nati su un atari
1040 dove girava cubase midi e su un akaj 3000 xl, in
una camera di un grosso appartamento che condividevo
con un numero incredibile di persone, ero disoccupata
e più squattrinata che mai. Il primo nucleo di Tipa Ideale
nacque in sei mesi di lavoro: idee di armonia e melodia
al piano, cesello del testo, arrangiamento al computer.
Compongo da sola avvalendomi del computer col quale
ho un'intesa perfetta, soprattutto con alcuni softwares
tipo reason, logic e pro tools. Suono il piano e le tastiere e quindi posso arrangiare tutto immettendo le
parti suonate con la master, programmando sequenze o
lavorando campioni. Mi piace molto armonizzare le voci
e compenso coi cori la mancanza di virtuosismi vocali
non affini alla mia scrittura.
Quante persone sono state coinvolte nel progetto?
Davvero tante. Per numero e qualità siamo a livelli di
una bella produzione standard, cosa che visto il budget a disposizione non ti aspetteresti. Questo perché
i 14 turnisti, grafico e fotografa non hanno preso alcun
compenso per le loro prestazioni, essendo tutti amici ai
quali ho chiesto di dare un contributo. Inoltre ho fatto il
lavoro di editing quasi tutto io personalmente, comprese le voci che ho voluto lavorare senza servirmi però di
auto-tune.
Dimmi dei tuoi riferimenti musicali.
Preciso che, nel momento in cui mi viene in mente
un’idea per un pezzo, scrivo di getto senza pensare mai
a riferimenti e modelli. In quel momento tutto ciò che
fa parte del mio background musicale è ampiamente
metabolizzato e inglobato a tal punto che, se qualcosa
rimane, sono richiami subliminali, quasi inconsci. Il punto è che di musica altrui ne ascolto davvero parecchia,
spaziando dalle cose molto vecchie a quelle dell’ultima
ora, anche se purtroppo non riesco a comprare tutti i
cd che vorrei possedere. Ad esempio alcuni gruppi che
amo molto e che non sono per niente presenti nella
mia musica sono Phoenix, Bent, Milosh, Telefon Tel
Aviv, Kings of Convenience. Tra i miei ascolti, quello
che invece è più facilmente riconoscibile nel mio stile è
tutta la musica cinematografica anni sessanta e settanta,
quindi soprattutto Umiliani e Piccioni, Bruno Martino, Sergio Caputo, Carosone, Buscaglione, Arigliano, Mina, Battisti, Curtis Mayfield, Isaac Hayes.
E potrei andare avanti davvero per molto ancora...
C'è un altro aspetto oltre a quello musicale che
mi interessa molto di te, ed è quello promozionale. Stai spingendo molto sui social network, ti promuovi con tenacia e devo dire una certa abilità...
Il web ha dato un nuovo e decisivo impulso a qualcosa
che esisteva già. Quando cominciai a mettere i pezzi del
vecchio demo su myspace mi accorsi che da più parti,
anche dall'estero, venivano apprezzamenti crescenti e
la richiesta di un disco e di un live. Quando mi sono
iscritta a FB non l’ho fatto con l’intento di promuovere
le mie canzoni, la cosa è venuta come conseguenza essendo la musica una parte di me. I primi contatti che ho
cercato sono stati scrittori ed editori proprio perché
avevo interesse a comunicare il mio interesse per la lettura e la scrittura. Da lì in poi, man mano che cresceva
il mio seguito, è stato naturale farmi conoscere anche
per il progetto musicale che nel frattempo aveva preso
forma.
Poi c’è il mondo reale. Ovviamente fai concerti.
Come ti organizzi, hai una band?
Ho cominciato in questi giorni a riorganizzare il live,
che per esigenze di budget dovrà esser pensato per un
organico piccolo, e questo significa che dovrò suonare
la tastiera con un impegno maggiore rispetto al precedente live set, dove mi concentravo più sul canto e
sulla presenza scenica. Debutterò in questi giorni in forma light ad un contest cittadino bolognese, giusto per
saggiare il terreno e prendere confidenza con questo
mio doppio impegno. Con me ci saranno un bassista,
un batterista e probabilmente un percussionista, tutti
scelti tra i turnisti che hanno partecipato al mio disco, i
quali, essendo soprattutto degli amici, aiutano a ricreare
un’atmosfera da "gruppo".
Fin dove si spingono i tuoi sogni o, se preferisci,
la tua ambizione?
Fino al punto di desiderare di fare altri due album, uno
di cover e uno di inediti, di scrivere il mio primo romanzo o libro di racconti, di finire in programmazioni radio
che mi permettano di arrivare ad un maggior numero
di persone (mentre ti scrivo sono in gara a Fattore C
di radio 101) ma senza mai, e dico mai, perdere la mia
libertà creativa, senza mai assoggettarmi a logiche di
mercato, nel rispetto della mia personalità e del gusto di
chi ascolta. Con onestà tale da offrirmi magari in modo
piu' ingenuo ma sincero!
Stefano Solventi
9
Turn On
Ikonika
—She Bleep Steps!—
Debutto sull’etichetta di Kode9
per la ventiquattrenne di West
London. La nuova onda del
dubstep avanza
H
yperdub. Quartier generale di Londra. L'etichetta culto per il mondo dubstep/wonky e per tutte
le declinazioni del suono now londinese d'avanguardia
nerdy commemora la longevità quinquennale con una
compilation che fa storia. Tra i più di 30 titoli spuntano
due tracks - Please e Sahara Michael - di un'illustre sconosciuta: Ikonika. In compagnia di nomi sacri del calibro di Zomby, Burial, Kode9, Rustie, Martyn, Flying
Lotus, The Bug e King Midas Sound s'incunea una
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ragazza giovanissima, coloured e con la fissa per le tastierine. Grazie a una serie di break al fulmicotone fa
capire al mondo che in mezzo alla sporca dozzina lei
gioca duro, e a modo suo.
In un 2010 stanco dei mix da dilettanti che scimmiottano la classe di Bibio o di Zomby, rivalutarsi attraverso
lo strumentale è già degno di nota, eppure l'approccio
della westlondoner prende una direzione diversa dai
maschietti pasticcomani che le girano attorno (vedi alla
voce Toddla T). Con un'estetica a metà tra l'umanista e
l’hauntologico, Sara Abdel-Hamid sta lontana dalla techno, cerca nelle vecchie macchine il cuore, scava nella
memoria con occhio sbarrato e, usando le sue parole,
«fa esprimere alle macchine le loro emozioni, come WALLE», mescola cioé melodia e ritmo in un equilibrio tra
sogno e disimpegno, quasi come volesse fare della messthetica aggiornata ai tempi del dubstep. La Young Marble
Giant dell'elettronica made in Londra.
Uno scarto inatteso per una scena autocelebrativa
che fino ad oggi ha indossato sempre e solo i calzoni. La
storia di Sara inizia a scuola. L’attuale ventiquattrenne
inizia a conoscere la musica tramite la batteria a soli 11
anni. Il suo amore per l’hip-hop e il crossover la fanno
entrare prima nel giro hardcore, poi nelle sonorità hiphop con il moniker KillKip. Ma dal 2005 c’è la folgorazione. Una traccia classica di Skream (Midnight Request
Line) le fa alzare le orecchie e pensare di imbarcarsi
nell’avventura.
Inizia a frequentare il sito di scambio di tracce dubstepforum e nel 2007 manda in giro i primi demo di Please. Steve Goodman (aka Kode9) la nota, dice lei, forse
per quel nome apparso in un documentario quando frequentava la film school. La traccia è una bomba imprevedibile che raccoglie idee e suoni da fonti apparentemente slegate: la ritmica spezzettata del free jazz, i synth
anni '90 dei videogame, il minimalismo bleep techno e
in mezzo a tutto questo caos un amore per la melodia
che riporta la cantabilità su un pianeta dominato in gran
parte dal beat. Nelle mani del boss di casa Hyperdub il
pezzo viene tagliuzzato e limato per la stampa vinilica.
«è strano e sorprendente avere la richiesta di poter rimaneggiare il pezzo da parte di una persona di cui sei fan», ci
dichiara via mail.
Il singolo esce a febbraio 2007 e viene replicato nel
2008 con la track Millie. Per il full length bisognerà attendere altri due anni, fino ad oggi dunque: un intervallo nel
quale Sara, paziente e scrupolosa, licenzia soltanto altre
due tracce, sempre su Hyperdub, Sahara Michael e Fish
(novembre 2009). Ora che l'attesa è finita le chiediamo
qual è il core dell'album. «Quello che volevo raggiungere
col disco è contrasto ed emozioni elettroniche», ci risponde secca. Come a dire che il calderone si basa su
melodia e su nostalgia nerdy per gli anni ‘90. I bleep a 16
bit (la cosiddetta quarta generazione di consolle, tipo
Sega Mega Drive e Super Nintendo per intenderci) e la
melodia di sottofondo, tutto filtrato con la trasversalità
del wonky e della nostalgia dell’hauntology.
La melodia di Sara si fonde con il ritmo e porta una
ventata di novità alla scena, ormai stanca di celebrare
esclusivamente la stagione del rave. Contact, Love,
Want, Hate - come dice bene il giornalista britannico
Adam Harper - è un disco per la Hyperdub generation,
non per i reduci dei party Metalheadz. Il suo merito è
quello di variare continuamente le coordinate e situarsi
nella direzione tracciata da Joker, Hudson Mohawke
e Starkey: un nuovo modo di vedere oltre la corte
fumosa del dubstep. Non si rinnegano le origini, ma si
applicano trasversalmente le conclusioni massimaliste
ereditate dalla storia decennale degli Animal Collective e dalle ultime produzioni di Bibio.
è Londra che si mostra in tutta la sua positività: dopo
aver esplorato l’assenza di luce e gli abissi magmatici del
grime con il campione Burial, Ikonika riporta il gioco in
primo piano: nell’intro Ikonklast (Insert Coin) e nella penultima traccia Look (Final Boss Stage) i riferimenti sono
dichiarati esplicitamente già nei titoli. Le sequenze campionate provengono da quelle session pomeridiane da
cameretta che richiamano adolescenza nerdy e manine
paffute. Non solo: Idiot e R.e.s.o.l sussurrano melodie apparentemente infantili costruite con i synth mescolate a
scale orientaleggianti e bassi da pompa magna Hyperdub,
Yoshimitsu si avvicina alle meraviglie ambient di Scuba,
a quello stupore che oltre al suono proponeva meditazione e trance, They Are All Losing The War ci spara direttamente in sala giochi, nella progressività al fulmicotone
della due posti di Out-Run, Psoriasis ha il vago sentore
del baile funk sudamericano e ascoltando Video Delays
scappa pure un’involontaria lacrimuccia minimal.
L’innovazione non sta solo nella mescolanza fra generi, ma nel processo stesso di costruzione del nuovo. Per chi cerca un tag che definisca sinteticamente la
musica di questa generazione di smanettoni sarà uno
shock non trovare definizioni unilaterali, dato che ad
ogni ascolto si aggiungono elementi eterogenei, particolari che assumono sfaccettature diverse. Caleidoscopio
di bleep, di ricordi e di proposte, la “nuova onda” del
dubstep parte da West London. La Giovanna D’Arco
della rivoluzione istantanea è una ventiquattrenne schiva e concentrata sul suo lavoro. Con un EP in uscita
su Planet Mu la prossima estate e con una pletora di
remix e collaborazioni, Sara non ha un minuto di sosta.
Il debutto ufficiale colpisce ad ogni iterazione di ascolto.
Ikonika è la nuova voce dello sprawl londinese.
Marco Braggion, Gabriele Marino
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D
Tune-In
alla post-idm del primo lavoro, alla folktronica massimalista, con cui si è fatto conoscere e apprezzare
negli ambienti elettronici tramite la blasonata Leaf Records, Dan Snaith in arte Caribou (precedentemente
noto come Manitoba) è un autentico campioncino del
suono anni zero e un testimone paradigmatico delle sue
evoluzioni.
Caribou
—Minimalismo e complessità—
Caribou svolta il decennio con un nuovo corso musicale all’insegna di un’idea di
trance rinnovata dai richiami dance, colti e rave
Testo: Edoardo Bridda
Virando di 180° gradi l'approccio pop ad alto tasso psych del
precedente Andorra, Swim - in uscita nella prima metà di
aprile - apre una nuova fase nello sviluppo sonico del canadese, rinnovando gli arrangiamenti e virando verso un'elettronica trance-dance ispirata, tra gli altri, a Arthur Russell. Il filo
rosso risiede, ancora una volta, nel dialogo tra pop e avanguardie, mentre il cambiamento di pelle ripensa la mutant disco di
fine Settanta, in una prassi cui presiede un continuum personale di ripetitività e complessità, due estremi di un concetto di
trance che, secondo Snaith, ha raggiunto il massimo equilibrio
nell'epoca d'oro del free jazz, allorché Oriente e Occidente,
libertà e virtuosismo hanno a suo avviso hanno combaciato
perfettamente. Per il canadese, infatti, non vi è molta differenza
tra kraut rock, drone music e quello psych-rock che più gli
piace: ognuno combina diversi elementi di minimalismo e costruzione, collocandosi in seguito nel quadro di una dialettica a
distanza con l'amico Kieran Hebden, anch'egli responsabile di
una similare svolta nel recente There Is Love In You.
Da qui partiamo anche con l'intervista, curiosi di sapere se
tutte le spezie presenti in Swim siano figlie di una certa razionalità o siano da ricondurre al "consueto" istinto dell'artista.
Senza tralasciare quanto ancora vi sia di eccitante e creativo
nel fare musica dopo cinque album e dieci anni di attività.
Parlando con Kieran del suo ultimo lavoro è venuta fuori una sua passione adolescenziale per il
two-step, stile che troviamo anche come influenza del tuo primo lavoro Start Breaking My Heart.
Swim in un certo senso pare ricongiungersi con
tutta un’elettronica lasciata temporaneamente
da parte…
Credo che Kieran sia molto più dentro di me in queste cose
attualmente, come è sicuramente vero che quando incisi
l’esordio, il two step era molto popolare tanto a Londra quanto nei miei ascolti ed è finito per influenzarne alcune di quelle
tracce. In questo periodo ho ascoltato molto funky elettronico, sempre inglese, e non di meno mi sono interessato proprio
agli inserti two step nelle recenti produzioni dub step.
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mi piacciono le sue canzoni. Più che altro è il background
di partenza a cui entrambi facciamo riferimento. Penso agli
ottanta quando la dance music dialogava con le avanguardie,
l’avant disco di Arthur Russell
Nell’album c’è tutto un portato rave. Cose a cavallo tra idm e ballo come per esempio gli Orbital pre Insides, i Chemical Brothers…
Non mi è mai piaciuta l’ambient techno quando ero a scuola.
E non ho mai ascoltato di proposito quella musica al tempo,
piuttosto l’album è frutto della fascinazione per l’idea sonica
che stava dietro a quella musica. Mi riferisco alla trance per
esempio: mi piace moltissimo quel senso di euforia che ha
dentro ma non l’effetto “detonazione” del ritmo, il rush da
sballo. Infatti, in Swim sia che si tratti di suoni rave come quelli
ricavati dai primi sintetizzatori, è la ricollocazione di contesto
quello che conta.
è entusiasmante il percorso che ti ha portato da
certa psichedelia pastorale di Milk Of Human
Kindness al trance pop di Andorra e infine a quello Swim ce ne parli un po’?
C’è sempre stata quest’attenzione alla trance. Magari un po’
meno in Andorra che vedo sempre come il mio lavoro pop.
Quando ero teenager tutto si focalizzava sull’imparare a suonare bene uno strumento e fare i primi virtuosismi. La dance
music ha sovvertito tutto. La ripetizione era quello che contava e non l’assolo, proprio come nel kruat rock e proprio
come certe musiche etniche come quella africana o indiana. Il
minimalismo poi, in grado com’è di creare la trance attraverso
la ripetizione, è un’idea veramente potente, totalmente agli
antipodi rispetto alla tradizione classica europea che si basa
sulla complessità.
Eppure nella tua musica c’è un progressivo grado
di elaborazione e concettualizzazione
Già, penso di aver utilizzato entrambi i modi. Andorra per
esempio aveva molto a che fare con le complessità armoniche,
il comporre e l’arrangiare i brani, in Stop Breaking My Heart
e gli altri album domina invece la ripetizione. In Swim le componenti utilizzate sono entrambe.
L’uso che fai del free jazz è dunque da intendere
come un modo per rompere il meccanismo?
Sul versante melodico, Odessa, il tuo primo singolo ha un evidente richiamo al white soul. Durante tutti gli anni zero Erelnd Oye ha riscosso
un certo successo portando quel tipo di sound in
discoteca, agganciandoci tappeti di funk e groove
house, credi ci sia una connessione?
In un certo senso anche nel jazz è successa la stessa cosa.
Gente come Ornette Colemann era ossessionata dalla
complessità e dalle capacità tecniche, poi gente come John
Coltrane coltivò la direzione del mantra pur rimanendo comunque virtuosa. Credo che il tardo John Coltrane, Alice
Coltrane, Albert Ayler sia quello ha sposato al meglio complessità e semplicità. C’era il senso del ritmo, della ripetizione,
del groove e una lussuosa combinazione di suoni. La free jazz
music che adoro non è così lontana dal kraut rock e neppure
dalla mutant disco di Arthur Russell
Non ci ho mai pensato. Amo la sua voce ma decisamente non
La dinamica tra semplice e complesso è riscon13
trabile nella tua musica ma è più una strategia
procedurale dal di dentro: chi ascolta Up In Flames, e in particolare la traccia Skunk, dove citi una
canzone dei Beatles, ci sente del massimalismo in
musica e magari un’operazione post modernista
tout court…
Fino a quest’album, non ho mai pensato concettualmente. E
crescendo in un posto merdoso nel mezzo del nulla nel Canada, non hai proprio idea dei contesti e da dove vengono le
cose. Certo, suonare psichedelia con una drum machine e suonandoci sopra free jazz è post-moderno, e se fossi cresciuto
a New York quando è nato l’hip hop avrei avuto un contesto
sociale molto forte che mi avrebbe insegnato cosa questo significava, eppure, fino a Swim è stato un mettere assieme i
suoni che mi eccitavano di più, senza contesti né barriere.
Up In Flames pare proprio un tutt’uno con le fascinazioni che lo hanno prodotto. Quasi ti si vede
copiare e incollare tutti quei layer. Formare mondi tridimensionali basandoti sui suoni. è un album figlio di un uso massivo del laptop, strategia
che hai progressivamente ridimensionato…
Ho iniziato suonando il piano, classico e jazz, poi ho suonato un
po’ la batteria e la chitarra. La cosa eccitante della musica elettronica, un computer e un synth per dire, è il suo costo. Potevo
fare musica a costo praticamente nullo. Così, sin dal mio primo
album, che è sicuramente quello più elettronico, ho iniziato a
rimetterci gli strumenti che avevo suonato per anni.
Poi hai iniziato a fissarti con le percussioni. Aspetto che ti ha portato all’esibizione dell’ATP del
2009 che è stato un po’ uno spartiacque…
Ho suonato con quindici persone on stage, amici e miti personali: quattro batteristi, cinque trombettisti tra cui Marshall
Allen della Sun Ra Arkestra, Kieran Hebden, Jeremy Greenspan (Junior Boys) ecc. è stato il massimo. Il capitolo finale
di un’apoteosi psichedelica, la realizzazione di un sogno con la
consapevolezza che era la fine di quel tipo mondo sonico.
Infatti in Swim c’è un ritorno all’elettronica e a
un suono molto meno corale…
C’è molto molta tecnologia nell’album. Per esempio in Balls ho
campionato il suono di palle tibetane comprate in un viaggio in
Cina. Successivamente le ho suonate grazie a una tastiera (proprio come un sintetizzatore) tirandoci fuori tutto lo spettro di
possibilità che mi potevano dare.
o un PAD rispetto a uno schermo del computer. è più performativo utilizzare i sample, suonarli veramente. Hai utilizzato anchei contact microphone che
vanno tanto di moda ora?
Non quando ho registrato, saranno sicuramente una parte importante del live show. Rispetto a prima ora la tecnologia ci
permette di suonare spontaneamente le parti elettroniche ed
è una prospettiva tremendamente eccitante.
Tornando alle canzoni. Ci racconti un po’ come
sei arrivato alla forma canzone (E agli Eighties)?
Andorra è stato il mio album pop. Quello attraverso il quale
ho imparato a scrivere canzoni. Quest’album invece è un misto
di loop e pop. Non mi sento parte del revival ’80, sicuramente
appena finirono ho pensato che erano stati un totale spreco
di tempo. Solo successivamente amici come Jeremy mi hanno
introdotto a cose interessanti come John Fox per esempio. A
parte il pop, gli Ottanta sono stati fondamentali per la musica
elettronica ma quel che mi preme è che un mio disco non sia
facilmente etichettabile dentro un periodo. Oggi sul mercato
trovi gente che mima quei suoni in ogni aspetto, contrariamente, a me interessa che passi l’aspetto compositivo, che ci si
riconosca l’impronta sotto i riferimenti. Nell’album ci sono canzoni autobiografiche che
parlano di aspetti anche negativi della vita. Sono
una novità?
è la prima volta che parlo di me stesso nelle canzoni e ho
una prospettiva più lunga riguardo alla vita rispetto a quando
ero un ventenne. Andorra aveva a che fare con la musicalità,
quest’album invece è più il frutto di una persona cresciuta. Lo
scorso anno sono morti i miei nonni ma non si è trattato di
scrivere canzoni catartiche, piuttosto d’immaginare come era
la loro vita quando avevano la mia età. Questione di prospettive che ambiano dunque.
Come ti vedi fra tre anni?
Non ho mai amato ripetermi e sicuramente andrà così ancora
per lungo tempo. Quest’album ha gettato almeno una manciata
di direzioni possibili e la cosa più eccitante è che sono arrivato
al quinto lavoro lungo e ci posso ancora sentire l’eccitamento
per la musica che avevo nel primo. Anzi, forse di più.
Ai tempi del suo secondo album, Kieran creò suoni molto editati partendo esattamente da queste
basi. Hai avuto anche tu un periodo in fissa con la
manipolazione dei campioni?
Direi che proprio in quest’album mi sono interessato a processare come faceva Kieran al tempo anche se non in maniera
così massiva. Del resto, rispetto a quel periodo, ora è molto più
interessante catturare i suoni e riprodurli live con una tastiera
14
15
Tune-In
Cobblestone Jazz
—The Modern Deep (has just) Left
(the building)—
I Cobblestone si spostano a Berlino, tornano quartetto e sfornano un secondo album
a base di electro '80, deep e ambient house '90 che ne conferma bravura e gusto
Testo: Gabriele Marino
V
ictoria, British Columbia, Canada orgogliosa provincia dell'impero, anno 1997: quattro giovani electrofili
mettono in piedi un progetto dancefloor orientato a live
jam e improvvisazione. Si chiamano The Modern Deep
Left Quartet e sono Mathew Jonson (Roland SH-101 e
altri synth, drum machine, missaggio), Danuel Tate (piano Rhodes, vocoder Roland SVC-350, synth vari), Tyger
Dhula e Colin de la Plante (sample e missaggio). Registrano soltanto un EP, Babyfoot, lavoro ad alto tasso di
sperimentazione che viaggia tra electro, minimal, tribal e
ambient. Interessante, con chiari indizi degli sviluppi di
là da venire, ma non del tutto a fuoco. Quando viene
pubblicato (su Wagon Repair, label fondata da Jonson e
Konrad Black), siamo ormai nel 2005, il quartetto si è
già dissolto.
O meglio, si è già trasformato in qualcos'altro. De la Plante si è tirato fuori e ha messo base a Montreal. Gli altri si
sono spostati a Vancouver e si sono ribattezzati Cobblestone Jazz: nome suggerito da un amico per indicare la
capacità dei tre di dare risalto a diverse sfaccettature musicali. Si riparte. Cinque EP in quattro anni (2002-2006),
ottima messa a punto dello stile, e poi il botto con l'esordio sulla lunga - lunghissima (doppio cd, uno in studio e
uno dal vivo) - distanza, 23 Seconds (2007; !K7). Il disco li
impone subito come una delle realtà electroniche più interessanti e di qualità della scena. Jonson intanto si è fat16
to un nome come solista, con collaborazioni prestigiose
(Luciano, Hrdvsion, Carl Craig, Ricardo Villalobos)
e remix importanti (Chemical Brothers, Moby, Nelly
Furtado), ma soprattutto con una valanga di 12" votati a
una deeptechno rotonda e immediatamente riconoscibile: la stessa che costituisce l'ossatura ritmica dei pezzi
Cobblestone. è lui il prominent man della formazione.
Passano gli anni e si aspetta il secondo album. A fine
2009 viene annunciato il titolo: The Modern Deep Left
Quartet. Si drizzano le orecchie perché viene riesumato
il nome del progetto where it all started e non è un caso: il
disco segna infatti il ritorno in cabina del produttore e old
time friend Colin de la Plante aka The Mole. Copertina di
memorabile bruttezza (un radiografia acrilico su tela di un
pulcino?), registrato in tre settimane a Berlino la scorsa
estate (e si sente), anticipato da due EP su Wagon Repair,
l'album viene pubblicato da !K7 su compact ma anche su
doppio 12", quasi a ribadire la vocazione traxistica, per
quanto eterodossa, del combo. Si tratta di un gioiellino
in cui la poetica Cobblestone si fa ancora più asciutta e
chiarisce nuove sfumature. Questa la cronistoria in breve
dei Ciottoli. Andiamo adesso alla loro musica.
Qualche anno fa avremmo detto che la cosa che più ci
interessava e ci piaceva dei Cobblestone è il suono che
sono riusciti a creare, quel suono che è già un marchio
di fabbrica riconoscibile tra mille. A ben vedere però, il
vero highlight del gruppo canadese è la condizione di possibilità di quel suono: la sintesi musicale che ci sta dietro.
Fare sintesi, cosa questa che rappresenta oggi la vera sfida
linguistica di un mondo che ha nelle contaminazioni, negli incroci e nei ribaltamenti il proprio campo d'azione
naturale. Pur nutrendosi di una vasta gamma di generi e
riferimenti, i Cobblestone non hanno creato un Frankenstein, ma una creatura sulla cui pelle le suture, quando
pure visibili, non appaiono mai come cicatrici. Salta subito
all'orecchio la cura con cui è preparato l'impasto timbrico, che, fatte le dovute differenze, avvicina i nostri ad altri
act tra i più interessanti della scena, da Bruno Pronsato a Ricardo Villalobos a Luciano a Sam Shackleton al
"nostro" Andrea Sartori. Per comodità tassonomica li
definiamo minimal e/o deep, ma forse vale davvero la pena
di rispolverare quell'etichetta tanto vaga eppure tanto efficace che ha inteso sintetizzare - appunto - il continuum
dell'elettronica extra-colta che comprende tutti i gradi
della techno, dell'house e derivazioni: electronica. Eccola
allora l'electronica dei Cobblestone: la dialettica pienovuoto e l'ottusità timbrica del dub, l'asciuttezza e il gioco
di variazioni della minimal techno, la cremosità e la gom17
mosità - a seconda della sfumatura messa in evidenza
- della deep house. Il tutto giostrato con un gusto per
l'interplay mutuato dal jazz suonato.
Per capire da dove vengono poetica e suono Cobblestone bisogna forse spendere due parole sulla figura
del burattinaio - neppure troppo occulto - del progetto: Mathew Jonson. "Theo" traffica con gli strumenti
fin da bambino (piano classico e batteria jazz), con alle
spalle un padre smanettone appassionato di circuiti ed
elettronica: è questo il seme della dialettica magica che
anima la formula del gruppo. La sua è una preparazione
musicale da autodidatta, eppure capace di lambire sperimentazioni solitamente appannaggio di chi fa fusion o
addirittura prog. La musica è una struttura organica da
tirare su quasi fosse un grattacielo: progetti ingegneristici
compresi. Ecco allora l'uso insistito dei poliritmi (parti
differenti che seguono tempi differenti sovrapposte in
modo coerente) e una concezione frattale dello sviluppo
dei brani, sempre uguali a se stessi eppure sempre cangianti (i frattali sono figure geometriche non euclidee - a
metà strada tra bidimensionale e tridimensionale - che
spiegano su un piano teorico l'irregolarità ordinata delle
forme naturali; loro caratteristica principale è l'autosimilarità e cioè la proprietà di mantenere, a qualsiasi scala
di osservazione, la stessa forma e la stessa struttura). Il
tutto può sembrare cervellotico, ma l'ascolto dei pezzi
riesce a fugare quest’impressione: calcolo matematico e
freddo rigore strutturale vengono immersi in un flusso
sonoro dal feel caldo e live, si intravedono come sottopelle, cosicché in superficie resta soprattutto un’immediata godibilità.
è proprio la capacità di riduzione ad unum che ammiriamo
nei Cobblestone, capacità che in questo secondo lavoro, certo
meno decisivo del primo, appare forse ancora più affinata. Ne
abbiamo parlato con Mathew.
L'intervista
Com'è stato lavorare di nuovo con Colin? Che
contributo ha dato a questo secondo album dei
Cobblestone?
Mathew Jonson: Io e Colin stiamo lavorando assieme continuativamente da quando abbiamo deciso di dividere lo stesso
appartamento a Berlino. Tyger e Danuel cercano di passare
tutto il loro tempo libero qui con noi e così lavorare assieme
non è stato troppo difficile. Certo, pensando a cosa erano i
Modern Deep Left Quartet, entrare con Colin in studio come
Cobblestone Jazz è stato un po' come tornare alle origini, a
dieci anni fa.
L'album sembra molto più anni Ottanta, electro
(il primo pezzo ricorda abbastanza i Kraftwerk)
e voice-oriented rispetto a 23 Seconds. Anche più
18
morbido, meno spigoloso, tanto nei suoni che
nelle melodie...
Sì, è stato davvero divertente lavorarci sopra. Ogni pezzo che
abbiamo scritto per il disco è diversissimo da tutti i nostri lavori precedenti. Forse perché ci siamo spostati a Berlino, forse
perché è tornato in formazione The Mole. Non ti saprei dire,
però è venuto fuori così. E sono davvero contento del risultato finale. Mi piace molto di più del nostro primo album.
La vostra electronica sintetizza diversi generi e
stili: techno, house, dub, eccetera. Pensi che sia
una musica più adatta per il dancefloor o per un
ascolto hi-fi nel salotto di casa?
La nostra musica è pensata per gente con la mente aperta
che vuole ballare su qualcosa che non sia per forza la solita
roba del momento. Credo che possa funzionare davvero dappertutto se suonata nel giusto contesto. Purtroppo alcuni dj
preferiscono andare sul sicuro e non rischiare e questo indebolisce molto le potenzialità dei club e la varietà di esperienze
musicali che la gente vi può vivere dentro.
Nei vostri pezzi focalizzate l'attenzione su un'idea
semplice ma forte e la sviluppate lavorando di
cesello. Hai detto che di solito partite da un particolare ritmo e da un particolare suono per poi
trovare una melodia. I vostri pezzi nascono sempre come jam live in studio, come ai tempi di 23
seconds, o avete introdotto processi compositivi
diversi, magari più orientati alla scrittura (computer, spartito)?
Continuiamo a mettere su traccia tutto quello che arriva live
al bancone del mixer. Questo vuol dire che siamo costretti
a fare più take dello stesso pezzo se qualcosa non va per il
verso giusto o se qualcuno di noi non è contento di come ha
suonato. Penso comunque che abbiamo lavorato un po' più in
post-produzione - taglia qui, cambia questa parte - rispetto al
primo album.
Per come lavorate e per come rifinite i pezzi,
date l'impressione di pubblicare solo le versioni
migliori dei pezzi migliori. Quanto materiale inedito avete in archivio?
Grazie! In effetti abbiamo un archivio enorme, pieno di materiale. Registriamo tutto quello che facciamo e le session sono
davvero tante, ma ci sono molto cose che non credo proprio
valga la pena di pubblicare e altre che sono davvero troppo
strane per avere un mercato. Direi che abbiamo pubblicato
circa un 5% delle nostre registrazioni.
La vostra è un'electronica suonata e live. L'interplay è il vostro highlight.Vi interessa un approccio
come quello del Moritz Von Oswald Trio? Parlo di
Vertical Ascent. L'integrazione tra l'elettronica e
un approccio suonato potrebbe essere uno degli
scenari musicali futuri più interessanti...
Sì, quel disco mi è piaciuto molto. E penso che man mano che
l'elettronica cresce e va avanti quel tipo di approccio sarà sempre più rilevante. La gente sta imparando sempre più cose sulla
tecnologia che consente di fare electronica live e si va stancando sempre più dei set fatti solo col laptop: la nuova generazione di quelli che frequentano i club e i festival, gente che non
ha avuto esperienza diretta di gruppi come Orbital o Future
Sound of London, sta cercando qualcosa che vada oltre il
solito set a base di Mac e Ableton Live. Incorporare musicisti e
una strumentazione extra-computer negli show è una via possibile. Siamo vicini a un grande cambiamento e credo che ce ne
accorgeremo già dall'anno prossimo. La scorsa settimana eravamo nel suo studio e Richie Hawtin mi ha dato un assaggio
del suo progetto Plastikman. Ecco, penso che lui sia davvero
all'avanguardia in tal senso.
Vi sentite parte di una scena "deep"? Ti interessa
il lavoro di produttori come Bruno Pronsato, Sam
Shackleton, Luciano, Ricardo Villalobos? Conosci
anche produttori italiani (Andrea Sartori aka DeepAlso, per esempio)?
Sono fan da anni di tutti i nomi che hai citato. E sono anche un
grande fan di Donato Dozzy [vero nome Donato Scaramuzzi,
romano, file under deeptechno, tanti 12" ma ancora nessun
album; ndr], probabilmente il mio dj e produttore italiano preferito.
I tuoi musicisti preferiti?
Squarepusher, Vangelis, Herbie Hankock, Miles Davis,
Thelonious Monk, N.W.A., Public Enemy, Prince, Del
tha Funkee Homosapien, Keith Jarett, Manu Dibango,
Quincy Jones, Sergei Rachmaninoff... Potrei andare avanti all'infinito, perché amo tantissime cose e tutte diverse tra
loro.
Ve l'avranno chiesto mille volte... Sappiamo che il
nome Cobblestone Jazz è stato scelto da un vostro amico. è possibile che nelle sue intenzioni ci
fosse una qualche allusione all'omonima etichetta jazz, la Cobblestone Records, che pubblicava dischi di gente come Elmore James, Earl Grubbs,
Pat Martino e di alcune edizioni del festival di
Newport?
No, non credo che ci sia alcun legame. è solo una coincidenza.
Ti interessa quello che sta succedendo nella "newwave" dell'hip hop con produttori come Madlib
(per non dire ovviamente di J Dilla), Flying Lotus,
Sa-Ra? E produttori non-dance come Burial?
Dilla (R.I.P.) è semplicemente s-t-r-a-o-r-d-i-n-a-r-i-o. L'ho scoperto anni fa grazie a Colin. Le sue produzioni... non trovo
neppure le parole giuste per descriverle. Anche Flying Lotus
mi piace molto.
19
Tune-In
Fucked Up
—La scalata alla montagna dorata—
La costruzione di sè come arma decisiva.
Testo: Andrea Napoli
20
I
Fucked Up sono un fulgido esempio di come un
gruppo proveniente da più rigidi ranghi del punk hardcore possa maturare un'evoluzione personale sia
sul piano strettamente musicale sia su quello, non meno
elaborato o carico di significati, dell'immagine e della comunicazione di sé. La band, formatasi nel 2001 a Toronto,
ha saputo progressivamente arricchire la propria identità come pochi altri negli ultimi anni. Dagli inizi ortodossi
ai muri stratificati di chitarre e alle infinite sovraincisioni
che oggi affollano le loro tracce, ogni elemento dice di
un fine labor limae che non ha mancato di dare i frutti sperati. Parallelamente all'eloquenza comunicativa, la
band ha aggiunto sempre più spezie all'intingolo. Dovresti
vedere i nostri files di Protools, sono sempre un inferno allucinante - dichiara 10,000 Marbles a Vom di Bam! Magazine, riassumendo quella continua rielaborazione che, un
paio di mesi fa, ha trovato l'ennesimo sunto nella doppia
raccolta Couple Tracks: Singles 2002-2009. Vademecum a base di B sides e rarità, florilegio di singoli, cover
ed inediti sperduti tra 2005 e il 2008, l'uscita impone la
necessità di una riflessione su ciò che è accaduto fino
ad oggi, uno sguardo che getti luce su un passato solo
apparentemente lontano.
Oggi i nostri possono permettersi di duettare con miti
d’infanzia e celebrità dell’effimero pantheon indie in
maratone concertistiche di dodici ore, e vantano un lavoro come The Chemistry Of Common Life, l'album
del 2008 osannatissimo da tutte le riviste musicali del
globo, dalle più blasonate giù fino ai blog e alle webzine
misconosciute. Della partita (vincente) erano alchimie di
punk'n'roll villoso alla Turbonegro e hard/space rock
primi ’70 (Son Of The Father, Days Of Last), dissertazioni
da opera rock (Golden Seal, Looking For Gold), epicità prêtà-porter (Black Albino Bones e soprattutto la title-track).
E ancora, punk chords in minore scansati da stomp dal
sapore occulto (Twice Born) e No Epiphany, vero tour de
force per un numero sconfinato di chitarre, synth liquidi
e coralità ascensionale. Non è dunque un caso che l'album, premiato con il Polaris Music Prize edizione 2009,
sia stata la definitiva consacrazione presso il grande pubblico, il culmine di potenzialità già nell'aria da tempo.
Fin dagli esordi i nostri si fanno notare per un hardcore
irsuto che non fa mistero dell’influenza di padri storici
come Negative Approach e 7 Seconds, ma soprattutto dei paladini della seconda ondata, dai Sick of It All
ai Poison Idea di Pig Champion. L’attitudine è vistosamente ambigua, con un primo singolo dall’inequivocabile
titolo No Pasaràn preceduto da uno split raffigurante
in copertina una folla oceanica di braccia tese. Ma è solo
la prima di una lunga serie di efficaci trovate. In primis
una sfilza di nickname accattivanti di scuola spudoratamente Dwarves (Concentration Camp, Mustard Gas,
Pink Eyes). Poi la teatralità sudata dei live, con Pink Eyes
spesso denudato, quando non sanguinante, che si agita in
mezzo alla folla come un lupo appena uscito di gabbia.
Le grafiche infine non si esimono dall’accostare tradizione anarchica a suggestioni totalitaristiche, alzando gli
inevitabili polveroni. E se è innegabile la capacità di comporre ordigni di hard’n’roll dinamitardo e trascinante,
altrettanto si deve dire dell’abilità nel crearsi gimmick
ad hoc, presto rivelatisi efficaci gimme-ink. Coi FU la due
cose vanno di pari passo fin dal primo periodo, la cui
furia ragionata viene documentata dalla raccolta Epics
In Minutes edita da Deranged. Dance Of Death, Circling
The Drain, Baiting The Public dicono di un esordio al fulmicotone che di lì a poco esonderà dagli argini per invadere ben altre sponde. E come sarebbe potuto essere
altrimenti, data la patina di mistero e contraddizione che
21
non sembra mai smettere di incuriosire gli scribacchini
di mezzo mondo?
Hidden World, primo effettivo album, esce 2006 per Jade
Tree e segna il primo punto di svolta. Qui le tendenze
agit-prop da Oi! punk scalmanato incrociano divagazioni
dal retrogusto volutamente esoterico; nel farlo il sound
ne esce ripulito ed ingrossato, più catchy e ammiccante.
Ma è anche il disco dove l’infatuazione per simboli magici ed occulti trova il suo coronamento, e dove fa il suo
ingresso il personaggio (fittizio?) che cambierà le sorti
del gruppo, con buona pace degli ortodossi. I Fucked
Up infatti assumono il manager-guru (MC5 docet) Da22
vid Eliade, uno che, tanto per non sfigurare, riprende il
cognome dello scrittore rumeno affiliato alla Guardia di
Ferro. Non sono in pochi a sostenere che sia quest’ultimo il vero artefice del loro successo e se guardiamo a
certe figure del passato (Malcom McLaren in primis)
non si può non prendere in considerazione questa ipotesi. Le leggende sul suo conto si sprecano, da quella che
lo vorrebbe vero autore dei testi, alle dicerie per cui
sarebbe l’unico dell’entourage in grado di accordare una
chitarra. Nessuno stupore dunque che le reazioni divergano. Chi plaude la svolta elaborata e stratificata, figlia
al contempo della passione per il punk più stradaiolo e
per l’hard-blues e la psichedelica (la copertina dell’album
dice più di qualsiasi press sheet), e chi accusa i sintomi del
tradimento, tuffandosi di rimando nella pletora di 7 pollici
e split che, va detto, il gruppo non smetterà di alimentare. È anzi nelle produzioni laterali, nei singoli, negli EP su
12 pollici che i canadesi mostrano il lato più innovativo, dando spazio ad esperimenti inusitati che richiedono,
giustamente, una dimensione, e quindi una pubblicazione,
propria. Per tutti valga l’emblematico Year Of The Pig,
diciotto minuti che fagocitano giochi vocali di genere, distensioni kraut e sfrenate corse tardo-hc . Non proprio
il pane quotidiano della prima punk band che trovi in una
sala prove qualsiasi.
Seguono roventi tour Europei e apparizioni su MTV i cui
set vengono ridotti a brandelli da un pubblico in preda
al mosh più esagitato, e il gioco è fatto. Da quando Vice ha
scritto di noi per la prima volta abbiamo visto sempre più hipsters o gente indie-rock ai concerti. Ma piu o meno contemporaneamente molti dei nostri fan storici hanno cominciato
a odiarci, quindi in fondo ci è pure andata bene! (Rumore,
Febbraio 2010). Il cortocircuito mediatico è innescato e
i FU sono sulla bocca di tutti e sulle pagine di Pitchfork,
NME e finanche il New York Times. Da questo punto in
avanti il cerchio si chiude su se stesso e la storia è ormai
nota. Ancora oggi l'agenda del gruppo è, al solito, ricca
di appuntamenti, come suggerisce il numero delle uscite
annunciate tra cui gli inevitabili singoli e split. A cambiare
sono però il nome e il calibro degli artisti tirati in ballo, se
è vero che nel futuro immediato sono previste collaborazioni con King Khan & BBQ e NOFX, quest'ultimi
rivendicati nelle interviste - a bella posta, verrebbe da
dire – come importante influenza. Molti li sottovalutano
come uno dei mille gruppi pop-punk stupidi, ma The Decline
è un capolavoro. Year Of The Pig ha anche altre influenze, la
psichedelia e il prog, ma sarei un bugiardo se dicessi che i
NOFX non hanno nulla a che fare con quel disco e con la sua
stessa esistenza (Rumore, Febbraio 2010).
Proprio come nelle narrazioni epiche che tanto sembrano ispirarli, la saga discografica dei FU è potenzialmente
infinita.
23
A Toys
Orchestra
—Più carne, meno sogno
"M
Drop Out
Una crescita costante lunga oltre
dodici anni, ed oggi un quarto disco
che sembra il salto definitivo. Intervista ad Enzo Moretto degli ...A
Toys Orchestra
Testo: Stefano Solventi
24
anca forse un po' di carne a queste
visioni, il piglio ad alzo zero delle cose
terrene. Ma sospetto si tratti di una
scelta precisa, di cui prendo atto."
Ho scritto queste parole quasi tre anni fa, chiudendo
la recensione di Technicolor Dreams, terzo album
firmato A Toys Orchestra. Mi sono tornate subito in
mente ascoltando la loro ultima fatica Midnight Talks, album che li vede calare sul tavolo carte più crude,
meno teatrino visionario e più romanticismo viscerale. Ferma restando la fibra sontuosa del sound, che
stavolta decide di puntare forte sul pop ad alta gradazione come se ne distillava al crocicchio tra psych,
glam e prog nei primi seventies.
Non una rivoluzione a ben vedere. Per dire, retaggi Bowie,
Lennon e Floyd erano palpabili anche nei precedenti lavori.
A volte però basta spostare di un nulla le coordinate per
cogliere il bersaglio in pieno. è proprio quello che sembra
essere accaduto. In procinto di compiere il tredicesimo
anno di vita, il quintetto campano può vantare finalmente
una maturità e una ricchezza espressiva in grado di sostenere ogni proscenio. Ne abbiamo parlato con Enzo Moretto, voce, chitarra e "mente" della band.
Fin dalla copertina Midnight Talks segna un
netto cambiamento rispetto al passato. è
spregiudicata, aggressiva, provocatoria, ma in
fin dei conti è un bacio. O no? Raccontatemi
come è nata.
25
de. Se parli dell'aspetto onirico del suono, allora probabilmente è vero. Forse per via
del fatto che abbiamo eliminato i campionatori e un certo tipo di elettronica. è un
disco tutto "suonato" dalla prima all'ultima nota.
Ci sono però inserti maestosi di orchestra che conferiscono un colore "sgargiante"
e marcatamente psichedelico agli arrangiamenti che non avevamo mai usato prima in
tal senso. Per quanto concerne le liriche poi, le canzoni di questo disco sono popolate anche di strani personaggi. Frankye Pyroman è a suo modo una favola, così come lo
sono Plastic Romance e Red Alert. Ovviamente sono da contestualizzare. Ma era così
anche per Hengie o Mrs Macabrette nei dischi precedenti. Il fascino dei personaggi
scuri, outsider, bizarri, dalla crosta dura ma teneri dentro è sempre radicato in me.
E in un disco in cui l'amore è il tema portante non potevano certo mancare. E non
solo l'amore di coppia, anche quello fraterno, ancestrale, o ancora quello divino e
spirituale... Quel battito che regola la vita nella gioia e nel dolore. In questo disco c'è
voglia di parlare a "qualcuno" piuttosto che a se stessi, con toni differenti, a bassa o
ad alta voce.
Anche questa volta non vi fa difetto la capacità di azzeccare grandi
melodie. Pills On My Bill, ad esempio, è davvero stupenda. Ma un
pezzo come Celentano da dove esce?
Beh, che dirti, nasce dallo stesso grembo di tutte le altre... Il titolo Celentano viene
da uno dei tanti bizarri titoli provvisori che diamo alle canzoni ancora in fase di definizione. In realtà non è una canzone celebrativa nè tributativa all'Adriano nazionale,
quanto meno non nel messaggio lirico. Nonostante ci sono delle evidenti citazioni
nascoste nel testo e nella musica che fanno poi dei riferimenti palesi proprio a lui,
per la precisone alla celebre Yuppi Du. In fase di provinaggio la ritmica della chitarra e
gli accordi ci rimandavano a quel brano, per cui temporaneamente fu nominato così.
In principio era solo ricollocabile a questo motivo ma poi al momento di scriverne
il testo ho trovato intrigante congettuare su quel nome e quella canzone, pur mantenedo le distanze dal tributo vero e proprio. Non è un caso poi che abbiamo deciso di
mantenere delle caratteristiche pronunciatamente italiche per questo pezzo.
Tutti i nostri dischi sono diversi tra loro...
Ogni volta cerchiamo di esprimerci in
modo differente da quella precedente.
Di rielaborare le nostre idee, di trovare
nuovi stimoli nella ricerca. Abbiamo bisogno di "muoverci" sempre. Non siamo
il tipo di band che consolida un sound e
lo ripropone per il resto della carriera.
Per questo disco è venuto subito fuori
un sound più crudo, più "carne" e meno
"sogno", forse anche condizionati dal fatto che venivamo da un lungo tour. Abbiamo mantenuto quell’attitudine, quella
potenza, quel “battito” più viscerale e
sanguigno.
l'umanità dall'alba dei tempi, insieme al suo fratello gemello: l'odio. Ho approfondito molto questi aspetti in questo disco: l’odio all’interno dell’amore,
l’amore all’interno dell’odio. A volte è quello che scrivi che sceglie te e non
tu quello che scrivi. La copertina nasce proprio da questo: i due personaggi
ritratti sono una coppia di amanti che dopo essersi massacrati di botte fanno
l’amore.
C'è da dire poi che questo è il nostro
primo disco interamente d'amore.
Ovviamente per amore non intendo
quello fatto di "tvtb" e dichiarazioni
edulcorate. Ho intrapreso sentieri
più misteriosi e rischiosi di questo
sentimento che tiene in ostaggio
Poi si ascoltano le canzoni ed è ufficiale: qualcosa è cambiato. Siete
più diretti, meno "favolistici". è il frutto di una scelta precisa?
26
Un'immagine che si è formata nel mio cervello poco dopo aver scritto i primi testi.
In questo scatto (di Graziano Staino) c’è però secondo il mio intento un rivaleggiare
dell’amore sull’odio e dentro l’odio. è un immagine a mio avviso, estremamente potente e ricca di vita. Quel bacio/morso è espressione della potenza dell’amore anche
all’interno di sentimenti diverso da esso. Come ti dicevo è un disco in parte fatto
meno di sogni e più di realtà, dunque - per paradosso - più allucinante. è incredibile
come una foto “reale” possa suscitare una reazione così violenta al punto da risultare
più “assurda” rispetto alle gemelle siamesi di Alice ritratte sulla cover di Technicolor
Dreams…
Come ti dicevo appunto nella risposta precedente il "cambiamento" è una necessità.
Non credo ci sia stata un scelta realmente ponderata, di solito seguiamo il nostro
istinto. Non siamo molto cerebrali quando componiamo, cerchiamo di fare al meglio
quello che ci viene più naturale. Nella nostra natura è insito il rinnovamento ciclico.
Non saprei poi se siamo realmente meno "favolistici", dipende da che favole si inten-
Così a spanna sembra che vi siate sintonizzati su una stazione specializzata in power-pop, psych, glam e un pizzico di prog. Roba che
passava in radio nei primi anni settanta. Sbaglio?
Non sbagli. Rock, Power-Pop, Glam, Prog, Hard, Psych, Electro… Nulla di ciò ci è
estraneo, siamo divoratori di musica a tutto tondo. E non mi meraviglia che questi
ascolti possano essere confluiti nel nostro approccio creativo. Anzi, sinceramente
credo che dal primo tamburo dell'homo sapiens ad oggi sia stato sempre un evolversi
in prospettiva. Un continuo imparare la lezione dai maestri che ci hanno preceduti. è
il ciclo vitale della musica, e non ci arroghiamo certo l'esclusiva di essere quelli che
inventano dal nulla. A nostro modo cerchiamo di rielaborare con originalità e rispetto quanto continuiamo ogni giorno ad imparare.
Quale ovvia (?) conseguenza c'è la grana del suono, marcatamente
vintage. Molte tastiere analogiche, le chitarre che sfrigolano ruvide,
gli ottoni, le partiture orchestrali. Le stesse voci, colte in flagranza
di reato. Anche Technicolor Dreams aveva i suoi rimandi ai settanta e sessanta, però in Midnight Talks diventano la nota dominante.
No?
Potrebbe dipendere da come ci siamo rapportati alla realizzazione di questo disco.
Infatti proprio per mantenere vivo l'aspetto "umano" abbiamo deciso di registrare il
tutto completamente in analogico su nastro. Utilizzando solo strumenti e macchine
analogiche e a valvole, che hanno bisogno di un confronto reale con chi le suona,
27
di un'interazione uomo/macchina con
maggior relazione. Anche l'uso di fiati,
ottoni e archi negli arrangiamenti sono
emblematici in tal senso. Volevamo rifuggire dalla "fredda" praticità della tecnologia moderna, provare a fare un disco
come si faceva "una volta" con l'impegno
e il sacrificio che ciò comporta. Un gesto di rispetto verso la nostra musica e
verso il progetto ambizioso che stavamo
cercando di realizzare. Era nostro intento quello di osare molto, e per farlo
necessitavamo dei ritmi più consoni per
non rischiare di creare un pasticcio pretenzioso. E probabilmente questo tipo di
approccio, sicuramente meno pratico ed
agevole, è più figlio di tempi andati.
Dischi come il vostro mi fanno
pensare che un altro airplay radiofonico sia possibile. Musica
accomodante per quanto strutturata, intensa e orecchiabile,
appassionata e "colta" ma dannatamente pop. Mi sto facendo
delle illusioni?
Beh, ti ringrazio. Ma non saprei... Questo non è un giudizio che spetta a noi.
Se confermassi i tuoi apprezzamenti varrebbe il detto che "me la canto e me la
suono"... Mai così azzeccato. Ovviamente amo quello che faccio, altrimenti non
avrei motivo di farlo con tanta veemenza
e dedizione. Ma l'autoelogio è dietro l'angolo e non sono uso a questa pratica.
Sembra ormai finita l'epoca delle scene prevalenti, il panorama
musicale è abitato da una miriade di situazioni diverse, dal
folk più atavico all'elettronica
più sperimentale con tutto quel
che passa nel mezzo (e anche di
più). Una collocazione la si trova
sempre, anche nei casi compositi come il vostro. Semmai difficile è capire quanto è importante
quello che si fa rispetto a tutto
il resto. Che impressione avete
al riguardo? O, se preferite, che
cosa vi auspicate?
Questa è la "domanda da un milione di
dollari". Anche perchè in quello che dici
28
c'è una bivalenza applicabile anche al di fuori della musica. Diciamo che la sfumatura
più pessimistica che riesco a cogliere è profetizzabile nel proclama che fu di Andy
Wahrol che "nel futuro tutti avrebbero avuto un quarto d'ora di notorietà". Le epopee del passato erano indice di una forte coscienza collettiva, cosa che oggi manca
quasi del tutto. Le microscene che si alternano al giorno d'oggi hanno più o meno lo
stesso ciclo vitale di un modello di telefonino, e una forza aggregativa molto blanda.
Oppure si cerca di spacciare per nuovo quello che sarebbe più facile e veritiero
catalogare come revival. Il che potrebbe suonare come un segnale allarmante di mancanza di "idee". Ma in realtà non credo sia proprio così.
Credo piuttosto che sia il passaggio di un epoca che si sta rinnovando nel modo
di comunicare e di interagire, e tutto è successo così rapidamente da averci colti
impreparati. Forse è solo una caotica fase di transizione da un epoca all'altra. Inevitabilente noi stessi siamo esponenti di questi tempi in quanto li viviamo e ne siamo
figli legittimi, e se abbiamo la possibilità di dire la nostra allora probabilmente dovrei
vederci dei vantaggi. Non sono un "nostalgico" fondamentalista. Riconosco i vantaggi
del progresso, ma è pur vero che nella "rete" ci siamo finiti davvero in troppi.
Ascoltandovi si ha la chiara impressione che i vostri punti di riferimento siano ben oltre i confini nazionali. Anche la pronuncia
dell'inglese è sempre più disinvolta. Come stanno le cose?
Credo che la scelta di essere una band che si esprime in inglese ci metta nella
posizione di proporci come realtà "europea" piuttosto che specificamente italiana.
Perchè se è vero che siamo italiani al 100% lo è anche che siamo europei. Non c'è
alcuna intenzione di rinnegare la nostra cittadinanza, è solo un'alternativa nel modo
di proporsi e di comunicare. Si pensi ai Notwist, ai dEUS, agli Air, ai Motorpsycho
o addirittura a Bjork... Sono tutti artisti non madrelingua ma cittadini d'Europa e di
essa rappresentanti. Non di certo dei volgari epigoni! L'idioma inglese è l'idioma universale, non c'è alcuno "scimmiottìo" nell'esprimersi in una lingua che è ormai quella
dell'umanità tutta.
In verità ho cominciato a cantare in inglese fin da quando da adolescente rifacevo
le cover delle bands rappresentati della mia generazione. Sono cresciuto negli anni
novanta, l'influenza della scena americana aveva contagiato il mondo e non aveva
certo risparmiato me... Poi da cosa nasce cosa, e dopo tre lustri paradossalmente
l'unico modo in cui riesco ormai ad esprimermi è in inglese, con cui adesso mi trovo
perfettamente a mio agio, mentre per assurdo non ho dimestichezza con la mia lingua
d'origine, almeno per quel che concerne il cantare...
sodo la notte e dormono di giorno, ed entrambi abbiamo il compito di "sfornare"...
Personalmente sento forte il bisogno di ritagliarmi degli spazi di "normalità". Quando non sono in tour o in studio mi dedico alle cose più semplici, vado a pescare in
barca, oppure guardo le partite di calcio con mio padre. Mi piace oziare e passare
del tempo con i miei amici di sempre, anche solo a cazzeggiare davanti ad un bar. Ho
una famiglia stupenda che non appena ho il tempo vado a trovare. Ho due splendide
sorelle con cui passo delle ore a chiacchierare sul letto. Mi diletto in cucina con mia
madre, vado a passeggio con il cane... Insomma, non potrei fare solo vita mondana, mi
annoierebbe e mi distruggerebbe. Ho bisogno di ricarburare e nelle cose cosiddette
"normali" trovo le alternative giuste.
Quali sono le difficolta che una band della vostra dimensione (una
indie band?) deve affrontare? Contano più i problemi logistici - ad
es: avete una vostra sala prove? - o quelli culturali?
Spesso i problemi logistici sono legati a doppio filo a quelli culturali. Laddove manca
la cultura mancano le strutture per sostenerla. Da qualche tempo siamo di adozione bolognese, dove tutto per certi versi ci è più semplice. Ma fino a pochi mesi fa
abbiamo vissuto in una cittadina nel cuore della Campania dove per avere qualcosa
bisogna che te la crei da te, anche soltanto avere una sala prove non si è mai rivelata
cosa facile. Non mi sento però di incolpare il Sud, che forse è vittima prima che carnefice.Vivere nel centro-nord ti avvicina a tutto. Purtroppo musicalmente e non solo
il territorio italiano non è ben distribuito... Succede che le "menti" del Sud spesso
sono prevaricate dalle difficoltà. è pur vero però che laddove c'è poco è più forte
l'esigenza di creare. Il bicchiere in questo caso è sia mezzo pieno che mezzo vuoto, e
non dipende dai punti di vista.
In questa vostra avventura che dura ormai da più di un decennio,
vi sentite isolati o c'è una comunità musicale cui fate riferimento?
Non lo so. Per parlare di un ipotetica "scena" musicale servirebbero dei
presupposti come l'aggregazione e l'intenzione collettiva. Credo in verità che
questi fattori non siano ancora compatti
al punto da essere appellati con tale dicitura. Piuttosto parlerei di "realtà", che
è tangibile e comprovabile nelle numerose bands che popolano il sottobosco
musicale italiano, e che non deifinirei più
come "minori", ma come una nuova forma di cultura o "controcultura" in contrapposizione a quella di massa, con un
numero sempre più significativo di esponenti e sostenitori.
Siete rinomati per i vostri live
act. Avete già programmato il
tour di Midnight Talks?
Ovviamente si, gireremo in lungo e in largo la penisola prima di lasciare i confini.
Dici che siamo rinomati per i nostri live?
Beh... non vi resta che verificarlo!
Immagino che seguire le orme ad esempio dei Jennifer Gentle non
vi spiacerebbe per nulla. Ma il successo internazionale significa buttarsi, mollare se non tutto un bel po' di cose. Quanta vita siete
disposti a mollare e - quindi - investire nella band?
Beh, non so com'è è andata per i Jennifer, ma noi da quando dodici anni orsono abbiamo intrapreso questa avventura abbiamo cancellato il raziocionio dalle nostre vite...
Com'è ad oggi il rapporto tra la vita "normale" - famiglia, lavoro,
burocrazie varie - e la dimensione del musicista?
Come ti dicevo fare la vita del musicista ti porta a intendere e interpretare la vita
in modo astrurso e a rapportarti in maniera differente alle cose "normali" della vita.
Dormire, mangiare, curarsi del proprio corpo è una cosa che un musicista vive in
modo assolutamente differente ad esempio da un impiegato statale o, chessò, da un
commesso di H&M. La motivazione non è riscontrabile solo in una romantica visione
"bohemienne" della realtà,quanto piuttosto nei ritmi altissimi che questa vita comporta. Soprattutto laddove bisogna stringere i denti e spesso anche la cinghia. A volte
il modus vivendi del musicista è simile a quella di un panettiere, entrambi lavorano
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Lost
In Musical
—David Byrne, Fatboy Slim
R ock ' n ' romanze
Drop Out
David Byrne che si da a un concept
partendo da un musical? Perché
mai stupirsi dato che il pop sembra
essersi preso un posto a teatro
Testo: Giancarlo Turra
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La musica pop vive di corsi e ricorsi ed è un fatto a tal punto noto da passare
quasi inosservato. A maggior ragione oggi che tutto pare accatastarsi fino a
confondere le prospettive e rendere l’identificazione di uno o più filoni un
problema. Sovrapponendosi, però, i ritorni mutano in qualcosa d’altro: non
sempre apprezzabile o tenuto entro i recinti del gusto, ma il punto non è
questo. E dunque, dopo l’elettronica a sogni aperti e le canzonette in bassa
fedeltà, le cantautrici folk neoclassiche e il grande suono da collettivo, emerge una mescolanza da senno di poi che somma gli umori del glam, seppur al
netto di lustrini e primedonne; citazioni operistiche che sfociano in un cattivo
gusto consapevole; ampiezza di vedute e celebrazione mistica.
Ogni cosa assieme spassionatamente, come può chiarire il melodramma
venato anni Sessanta dei nostri Baustelle o quello combinatorio - gli Sparks
e le rock operas giusto dietro l’angolo: non a caso - su cui si fondano i Fiery
Furnaces. Senza tralasciare la recente metamorfosi dei MGMT, usciti dal
bozzolo “Karaoke Flaming Lips” dell’imbarazzante esordio impastando popedelia kitsch e citazionismo spinto, nel frattempo prendendo per quel che
sono - baggianate usa e getta - le pose da Falco versione Amadeus degli Irrepressibles, la fluorescenza da Glamour (“non perderti tutti i trucchi dell’estate”) cui si ispira Bat For Lashes e la ninfetta Marina And The Diamonds.
Meglio pensare a un Lightspeed Champion che, indie-folker di colore,
si professa amante del Libro Della Giungla (poco da ridere: consigliamo di
ripescare il fenomenale Stay Awake, tributo a Walt Disney risalente al 1988,
dove Tom Waits, Sun Ra e Replacements e altri maestri gettavano colore su
una tela di fenomenali rielaborazioni semantiche) e afferrare che una voglia
di platea è nell’aria.
Percorsi a volte attenti più alla confezione, magari, che trovano una parafrasi approfondita attraverso la prospettiva di David Byrne. Il quale, dopo
aver riabbracciato la trasversalità pop con Brian Eno (a sua volta cresciuto
31
col gospel e maturato in canzoni di geniale, avanguardistica asimmetria), si imbarcava lo scorso anno in un tour con l’aspetto da musical per gente colta e
chic, pubblicando oggi un concept album di presupposti e ispirazione conformi.
Una capriola d’autore, l’ennesima.
Teste,
ritmo, storia
Un gesto che, dopo una gravidanza lunghissima e la pubblicazione ulteriormente posticipata di un paio di mesi, spiana la strada a Here Lies Love, il
progetto di David Byrne che racconta la figura di Imelda Marcos, moglie del
dittatore filippino deposto a metà anni ’80. Partita come “ciclo di canzoni”
pensato e scritto da Byrne e arrangiato con Norman Cook a.k.a. Fatboy
Slim, fu rodata una prima volta in Australia un lustro fa e due anni dopo a
New York con reazioni piuttosto scettiche. La registrazione veniva nel frattempo condotta in studio in modo affatto lineare, sia per gli impegni di entrambi che per la ritrosia di Cook a lavorare tramite file sonori via internet.
Comunque felice il rapporto tra i due, benedetto da molto punti di contatto
e su tutti il senso per la “fisicità” del suono e la forma canzone (da musicisti e
non dj), saldato alla passione per la black music. Ecco come la vede Norman,
sfoggiando una cordiale concretezza:
"David mi sorprese con una telefonata a casa: tre giorni dopo
ero a New York e David mi veniva incontro in bici con in
mano delle birre. Andammo sul lungomare di TriBeCa a bere
qualche lattina in un sacchetto di carta e conoscerci meglio.
Al momento in cui ci cacciarono dal molo per aver bevuto in
pubblico, avevamo le basi su cui lavorare".
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Praticamente, aveva già tutto in
mente, melodie e testi. è uno cui piace fare le cose giuste nel modo sbagliato, ottenendo ciò che vuole con
l’opzione più complicata. è come me:
un ragazzo bianco ossessionato dal
funk. Insomma il duo doveva chiudersi in studio a Brighton per ragionare
su strutture, abiti sonori e le interpretazioni dei brani. Perché oltre a
essere un doppio cd (con annesso
libro e DVD: forse una robusta presa
di posizione “d’altri tempi” verso l’attuale fruizione frammentaria e superficiale), il lavoro affida a una pletora di
cantanti ospiti i ruoli e la narrazione,
donando carne ai fondamentali esperimenti con le found voices che furono. Accantonato in via momentanea
l’allestimento teatrale (nondimeno
sembra che Byrne si stia attrezzan-
do: all’idea qualche brivido giunge; non esattamente di piacere) permane il
“famigerato” formato del concept, pesante croce e rara delizia per rocker
complessati e intellettuali o supposti tali:
"La cosa che ha scatenato il tutto risale a un bel po’ di
tempo fa: lessi un libro intitolato “L’Imperatore” dello scrittore
polacco Ryszard Kapuscinski. Raccontava di come si stesse in
Etiopia verso la fine del regno di Haile Selassie. Tratteggiava
un affascinante quadro della vita di corte, nel pieno della follia del potere.Vi ho scorto alcune bellissime immagini teatrali,
ma la cosa si era fermata lì. Poi vidi qualcosa su Imelda che
frequentava regolarmente lo Studio 54 e aveva fatto costruire una discoteca nella sua casa di New York".
Così crediamo vada inteso il risultato finale: come un passo che - allorché
la musica è ormai smaterializzata - richiede un approccio diverso per come va
ascoltato e letto; una maniera alla quale il pubblico giovane non è abituato e
verso la quale, di conseguenza, seguiterà a mostrarsi indifferente. In tutto ciò
c’è una familiare temerarietà, una voglia di rimettersi costantemente in gioco
e in discussione che anima Byrne sin dagli inizi. Che lo ha portato a incrociare
sulla propria strada i collaboratori più disparati, ad allestire geografie sono33
re sulla carta improbabili e invece azzeccate. Una Testa Pensante prototipo
dell’intellettuale rock moderno (da Michael Stipe a Damon Albarn passando
per Thom Yorke, tanti coloro che hanno raccolto l’esempio), lontanissimo
dalla Rivoluzione Contro Il Sistema o la deboscia di eccessi e decadenza; che
vive serenamente la propria condizione di moderno uomo rinascimentale.
Senza limiti né freni alla creatività e libero di spaziare su ogni possibile
fronte, nervosa wave e neo-tribalismo, fotografia o scavo della psiche umana.
In considerazione dell’opera byrniana in toto, realizzi allora che da More
Songs About Building And Food ogni suo disco è di fatto un concept, o comunque maneggia un filo conduttore a prescindere dall’esito e dal momento.
Comprendi come proporre tanta carne al fuoco (portatasi via fatica e tempo
come mai prima per l’artista americano, incluse ricerche sul campo e viaggi
in bicicletta su e giù per le Filippine) in un contesto sonoro peculiare sia, per
prima e somma cosa, una sfida; uno di quei rischi che sono sempre meno a
prendersi e dunque da lodare, a maggior ragione sapendo che, economicamente, Byrne ci ha messo tutto del suo. Anche solo per questo guadagna
l’applauso sincero.
R oads
to where ?
Non è però impresa agevole attraversare le due ore di musica di Here Lies
Love: la prima metà arranca e la penna si rivela involuta, piatta, nonostante
una storia che intriga e stupisce senza romanzare, perché - come ha dimostrato Byrne nel film True Stories - la realtà supera sempre in bizzarria qualsiasi fiction. Un racconto che, a un certo punto, trascolora in un’indagine sul
criminale potenziale che giace in noi, sul potere che (politico o rockstar non
fa differenza, come indicava con poca finezza Roger Waters in The Wall)
a un certo momento si trasforma in potentissima droga. Da qui l’affidarsi
per metà programma a ritmi dance: il rush adrenalinico della pista da ballo e
l’euforia dell’onnipotenza si correlano a vicenda, persuadendo che la passione
di Imelda per la disco non fosse un caso. Così come non lo era l’ossessione
per bellezza e stile, farcitura estetizzante (i palazzi faraonici che fece costruire
mentre il popolo moriva di fame; le leggendarie 3.000 paia di costose scarpe
rinvenute nel palazzo reale) per colmare un’esistenza inizialmente di una povertà dickensiana.
La ragazza cresceva in un garage, tirata su dopo la morte della madre dalla
giovane cameriera Estrella Cumpas, poco più grande di lei. Sul loro rapporto
verte buona parte dei brani con quel sottile calarsi nel personaggio incominciato da Psycho Killer e che osserva la Marcos diventare reginetta di bellezza,
sedurre il dittatore e assurgere a First Lady di un regime dove, nel 1972,
impone la pena di morte:
lotta tra angeli e demoni psicologici: talvolta vinceva un lato,
altre volte toccava a quell’altro. Mi interessava comunque la
sua estrema risolutezza, il fatto che fosse scaltra e tosta.
La questione era che dovessi celebrare qualcuno che ne fosse degno, oppure una figura totalmente opposta? Faccenda
complicata, perché è difficile scrivere dei buoni."
E neppure dei cattivi, se è per questo, benché all’album non difettino
grandezza di mezzi (orchestra e beats, suoni “del mondo” e panoramiche
pop-rock, epica e leggerezza) e celebrità: Tori Amos, Steve Earle, Martha
Wainwright, Cindy Lauper sono la punta di un iceberg dove il “concetto”
non prevarica l’esposizione. Il vizio che affligge la più parte dei ridondanti
concept records - la distanza tra contenuto e forma - si mantiene entro limiti
accettabili e c’era da contarci. Quel che lascia perplessi è semmai la scrittura,
che fatica a reggere la distanza scorrendo senza gravi scivoloni ma - tra mestiere consumato, motivi anonimi, pop risaputo - neppure colpi d’ala rilevanti.
Tranne quando Fatboy Slim guadagna il proscenio nel secondo dei due cd, in
massima parte latore di ibridi big-beat ripassati pop, funk venato di squarci
melodici, soul contemporaneo affatto banale che tocca apici in American Troglodyte (il Nostro che affonda i pallidi discepoli odierni) e una sensuale Please
Don’t illuminata da Santigold. Insomma: considerato per quello che a conti
fatti non è, cioè “un nuovo disco di David Byrne”, Here Lies Love (epitaffio
che la Marcos, tornata nel frattempo in madrepatria a fare opere di bene
amata da un’ampia fetta della popolazione, vorrà sulla sua tomba…) paga il
confronto con i caleidoscopi acuti Grown Backwards (che peraltro includeva
la dance sperimentale di Lazy, con gli X-Press 2) e Look Into The Eyeball.
Se, viceversa, ragioni sui presupposti di partenza, ne emerge un progetto
sfaccettato che all’altezza di Music For Knee Plays o The Catherine Wheel
avremmo definito multimediale e al pari di quelli disorienta e sfugge.
Come la protagonista e il tema “ultimo” che incarna, ovverosia il prevalere
dell’ego su ogni altro aspetto dell’esistenza e la conseguente origine di una
malvagità obliqua che giace in agguato dentro ognuno di noi. Perplessi, rieccoci su questo folle pianeta come l’io narrante di Once In A Lifetime: spaesati,
la testa attraversata da un poco rassicurante “che ci faccio qui?”
"La faccenda delle scarpe è stata un vero problema, soprattutto lo spingersi oltre. Le scarpe, in ogni caso, non furono
scoperte fino al 1986, mentre l’esercito americano portava
via i Marcos in aereo nel pieno della rivolta popolare, ed è lì
che termina la storia che intendevo raccontare. Dalla nascita,
Imelda aveva un peso psicologico sulle spalle: ho iniziato a
ragionare sul fatto che, se etichetti le persone come mostri
senza spingerti più a fondo, non capirai mai ciò che li muove
a compiere le loro malefatte. Devi calartici e vedere dove conduce. Come la maggior parte dei politici, lei era spinta da una
34
35
Recensioni
AA. VV. - Pizza 4 Seasons (Sonic
Belligeranza, Gennaio 2010)
G enere : N oize
Se c`è qualcosa che non manca al titolare dell'etichetta
Sonic Belligeranza, è di sicuro l'inventiva. Circa un anno
fa, Dj Balli faceva uscire l'infame concept album da
scratch - per mazze e buche - Pornogolf, poi fu il turno del
7" Bally Corgan giocato in corto circuito sui vezzi poetici
del Corgan vero (lui che poi ci assomiglia un tot), infine
arriva il presente 12" picture disk Pizza 4 Seasons, una
compilation noise per altrettanti artisti/ingredienti.
Ci troviamo Balli in Con il fischio o senza? rispondere
alla domanda di Pierino con stridii di treni in freno, mischiando elettronica harsh a spezzoni da seconda serata;
Bruital Orgasme e ZR3A - Belgio e Giappone - a continuare la bolgia di laptop rumorismi (da Merzbow
in avanti); System Hardware Abnormal in quello
che potrebbe essere il risultato di una sintonizzazione
sbagliata nei pressi di Radio M2O. Girando il vinile - sul
lato della crosta - troverete un unico-megamix all stars,
100% Pizza Noize Guaranteed e bollino sul disco assicurato.(6.8/10)
Leonardo Amico
AA. VV. - Kitsuné Maison
Compilation 9. Petit Bateau Edition
or The Cotton Issue (Kitsuné
Music, Aprile 2010)
G enere : disco pop
Ci son almeno tre motivi per ascoltare questa nuova
Kitsuné. Uno: i francesi aprono con Beloved di Washed
Out e aumentano il gossip sul glo-fi, da qui in poi nuovo
pop per gli anni '10. Due: il coraggio e la perseveranza
che batte ancora una volta le strade dell'electro. Tre: il
gusto fashion che plastifica consapevolmente la proposta
e discrimina tra in e out.
Ci son almeno tre motivi per non ascoltare questa nuova Kitsuné. Uno: l'ostentazione barocca che fa traboccare il vaso con tracce zuccherose come Let's go Together o
Stop And Stare. Due: la presunzione spocchiosa che non
ammette come il ricordo '80 stia già ammuffendo. Tre:
36
— cd&lp
l'esclusione dal mondo ritmo dell'universo adult, a favore
di sporadiche sonorità brufoloso-tardoadolescenziali.
A voi la scelta. Per chi scrive la sufficienza è comunque
raggiunta. I kudos sono per il già citato Ernest Greene,
per il pezzo dei Crookers ovviamente più francese che
mai con il featuring di Yelle e per il richiamo ai Depeche Mode mescolati Sommerville nel pezzo dei Silver
Columns.(6/10)
Marco Braggion
AA. VV./DJ T - Fabric 51 (Fabric,
Marzo 2010)
G enere : deep
Il boss di casa Get Physical nonché fondatore di Groove Magazine, Thomas Koch si propone sul prestigioso mix del club londinese. Dopo aver sfornato da poco
un buon The Inner Jukebox, l'uomo che da oltre 20 anni
bazzica per i sobborghi della techno e dell'house di alta
classe, prova a inserire un po' di soul nel dancefloor. Ne
viene fuori una selecta squadrata (da buon tedescone)
ma nel complesso varia, che punta sul vocalismo ora parlato (grande Ursula Rucker in Where Is It), ora cantato
(You Will Find Out).
Il nuovo ricorso storico, inaugurato magistralmente da
Terre Thaemlitz e da Chatterton qualche mese fa,
ritorna qui più concentrato che mai sulla grana vocale che richiama l'old school newyorchese garage (I Get
Deep). Una 'svolta' retrò (vedi le basi 303 di Hungry for
the Power o i laser in The Royal Pennekaums) che piace e
che ci ricorda come il ritmo abbia sempre e comunque
bisogno dell'anima. Ancora una volta i ragazzi di Londra
c'hanno preso.(7/10)
highlight
A Toys Orchestra - Midnight Talks (Urtovox, Aprile 2010)
G enere : power pop
A volte mi chiedo se una recensione, in fondo, non sia che un desiderio. Ogni scribacchino ha il suo disco
perfetto rannicchiato da qualche parte tra cuore e memoria. Magari è solo un'idea, qualcosa cui tendere.
Rispetto al quale emozionarsi più o meno. Ecco, ad esempio, nella recensione di Technicolor Dreams,
terzo album per i campani A Toys Orchestra, dopo aver speso i complimenti del caso - ed era il caso - mi
auguravo un po' più di carne nel menù, perché tanta mirabilia pop a gioco lungo poteva rischiare l'inconsistenza, di restare appesa a nuvolette tutte sue.
Passati tre anni, ascoltare questo Midnight Talks mi fa quasi venire il sospetto che Enzo Moretto e compagni abbiano tenuto in grande considerazione
il mio auspicio. Figuriamoci: chi cazzo se lo caga un recensore? Resta il fatto
che, ferma restando la polpa melodica, è un disco che sterza con misura ma
deciso verso un sound più energico e appassionato. Pop-rock radiofonico ad
alta densità, con le radici evidentemente affondate nel power à la Badfinger,
quindi comprensivo di aperture orchestrali e con digressioni psych anche
parecchio asprigne, ma non va trascurata una certa enfasi riconducibile alle
propaggini più potabili del prog.
Lungo il programma t'imbatti nell'inquietudine muscolare di Mystical Mistake, in quella The Golden Calf
che si disimpegna tra Kinks e George Harrison, in una Frankie Pyroman che - ohibò - strizza l'occhio
ai Nirvana e agli Stranglers, oppure in una Plastic Romance che potrebbe essere la marcetta da brass
band diretta dalla coppia Syd Barrett-Wayne Coyne. E poi ancora nel piglio noir assieme desertico
e metropolitano di Backbone Blues, nello struggimento in bilico tra Wings e Wilco della stupenda Pills
On My Bill, senza scordare l'arguzia molleggiata di Celentano col suo stuzzicare visioni e memorie annidate
chissà dove.
E via discorrendo, muovendosi poliedrici e compositi senza sembrare mai dispersivi, anzi azzeccando una
bella coerenza emotiva, avvalorata dai begli arrangiamenti orchestrali di Enrico Gabrielli e dalle chitarre
di Alessandro Stefana tra gli altri. No, ok, Midnight Talks non è il disco ideale cui accennavo sopra
(quello che chissà se esiste o se mai esisterà). Ma è l'album che consacra una grande band.(7.8/10)
Stefano Solventi
Marco Braggion
AA. VV./Duke Dumont (The) Fabriclive 51 (Fabric, Aprile 2010)
G enere : deep techno
Già conosciuto per qualche remix di pulzelle anni '80
(Bat For Lashes una per tutte), il buon Adam Dyment approda alla costola per emergenti del rinomato
club londinese. Il ragazzo, balzato alle cronache per aver
vinto nel 2006 il Diesel U Music contest, ci propone oggi
una selecta che contiene la miscela electro-tech eredi-
tata dai primi esperimenti con la Playstation e rivisitata
con il gusto mesh now.
Il mix, oltre ad andarci di spigoli, propone una buona
varietà di sound, con le sue parole, "pieni di emozioni":
l'anima deep (Reality Check, Debbie Downer), la puntatina
balearic (Imitation Dub), il soul (On The Streets) aggiornando il display con una puntatina al dubstep liquido di
Scuba (nell'ormai classico Hundreds And Thousands) e
all'ambience 2-step di Floating Points (K&G Beat).
Un buon miscuglio che preserva il piacere per l'atmosfera (vedi la chiusa IDM di Idioma) e per il groove. Senza
data di scadenza. Noblesse oblige, Duke.(7/10)
Marco Braggion
37
Africa Unite - Rootz (Universal,
Marzo 2010)
G enere : reggae
Ventisette anni di musica insieme, in pratica il reggae
importato e diffuso in Italia. Gli Africa Unite arrivano
al disco numero quindici della loro storia tornando alle
origini e ad una classicità compositiva - programmatico il titolo - che fa da contraltare alle divagazioni dubelettroniche del precedente Controlli. Se quello infatti
era il disco dove si sentiva più incisivamente la mano di
Madaski, qui è Bunna a spadroneggiare, infilando uno dietro l'altro una serie di brani cui non mancano ortodossia
musicale e calore. Dunque ritmi in levare, spesso dal respiro soul, poetry, fiati reintrodotti, e il nume di Linton
Kwesi Johnson a proteggere un'ispirazione che nelle
liriche si rivolge soprattutto a tematiche socio-politiche,
fra ambientalismo, antiomofobia e un generale invito a riprendere in mano il proprio destino (vedasi l'anti-singolo
in accorato spoken Cosa Resta).
Dal canto suo Madaski si ritaglia spazio in tre-quattro
tracce dub dove appoggiare rime e voce gutturale, mentre il resto lo fanno i tanti ospiti, tutti italiani, a confermare il ruolo degli Africa quali capostipiti della scena
nostrana. Ottimi gli interventi di Piero Dread e Roddy
Jah Son dei Franziska su Here and Now e di Alborosie su Reality, più interlocutori gli altri (Patrick 'Kikke'
Benifei dei Casino Royale, Jacopo dei Mellow Mood,
Mama Marjas). E del resto interlocutorio risulta tirate
le somme l'intero disco, non privo di episodi assai riusciti
(Mr.Time su tutti) ma poco capace di sorprendere se non
per una scrittura comunque all'altezza.(6.5/10)
Luca Barachetti
Alice Donut - Ten Glorious
Aniimals (Alternative Tentacles,
Febbraio 2010)
G enere : I ndie H ardcore
Sono ancora cazzoni e divertiti rockers gli Alice Donut. Ten Glorious Animals non è all'altezza dei passati Mule o Bucketfulls of Sickness and Horror in
an Otherwise Meaningless Life, ma non è doma la
tetra pazzia che rimbalza in pezzi di conciso e letargico
hardcore, lercio e scassato blues altezza Jon Spencer e
felici intuizioni di pop deviato e corrosivo.
Ten Glorious Animals segna anche il ritorno alla storica Alternative Tentacles, a cui il gruppo era approdato
dietro raccomandazione di Jello Biafra per poi sfasciarsi
a seguito della sconfitta commerciale inferta loro dai "rivali" Butthole Surfers. Solo ora, dopo il discreto Fuzz
del 2006, il sacro fuoco della creatività pare riardere e
se proprio non si tratta di incendio, è un caldo e amiche38
vole falò, lisergico il giusto. Per averne la conferma basta
partire dalla fine. Dalla cover di Where Is My Mind, identica all'originale tranne che per le parti cantate affidate
a trombe e tromboni. Ok,
un'idea già sperimentata per
una versione di Helter Skelter nel live Dry Humping
The Cash Cow, ma funziona ancora a dovere. Ben
dispongono anche il delirio
tra Old Time Relijun e
Paper Chase dell'apripista
Mrs Carradine, l'hardcore caramellato di Lorelei & Henry,
gli Screaming Trees sotto codeina di No More Room,
il tetro e marziale bozzetto prog/punk di Esophagus e
Prog Jenny e The Cavalry, ballate punk/country dal cuore
ricolmo di sangue zuccheroso.(6.8/10)
Giampaolo Cristofaro
Andrea Carboni - La terapia dei
sogni (Seahorse Recordings,
Febbraio 2010)
G enere : I ndie pop
L'incrocio è tra Thom Yorke e Jeff Buckley in stanca e
ripetuta discendenza; lo scotto da pagare quello di falsetti
e trionfalismo pericolosamente Negramaro nonostante
un Corrado Rustici in meno e un'attitudine ad asciugare
gli arrangiamenti virata alternative. Non salvano Andrea
Carboni neanche certi tentativi post-rock intimiditi da
briglie saldamente pop o sciolti in cavalcate a dir poco
didascaliche. E l'accostamento ad un Alessandro Grazian folleggiante nell'episodio in francese Des Larmes Et
Leurs Cendres che poi torna nella teatralità folk-rock di
Livido sono gli unici segni più di tutto il lotto.
Ma così non si uscirà mai vivi dagli anni Novanta, neppure attraverso tentativi di parodie che parodie purtroppo
non sono o liriche che sembrano scritti in automatico
da un generatore di testi del perfetto songwriter sangiorgiano. Diamo comunque atto a questo ragazzo di saper cantare e arrangiare come si deve. Però la prossima
quantomeno ci provi a fare qualcosa non diciamo (addirittura?) di personale, ma che non sembri proprio preso
in prestito dagli scarti di magazzino di qualche grande
marca. Per favore.(5/10)
Luca Barachetti
Arrington De Dionyso - Malaikat
Dan Singa (K Records, Novembre
2009)
G enere : etnogarage
Arrington De Dionyso ha qualcosa di profondamente
viscerale. Ogni nota siglata dal suo nome segna una presenza fisica e metafisica insieme della musica, del rumore,
del filo rosso che conduce l'uomo al centro della terra.
È un personaggio che studia da sempre, che non smette
di lasciare a bocca aperta per i numeri che la sua ugola
riesce a produrre - forse a volte non facile da seguire, nel
momento in cui licenzia dischi giusto per documentare i
progressi nelle passioni e nelle tecniche etno-oltranziste
(à la Sublime Frequencies).
È mistico e sanguigno, all'essenza, Arrington, proprio
come gli Old Time Relijun, specie negli indimenticati
primi dischi del combo. Se proprio vogliamo trovare un
difetto, lo rinveniamo nel rischio di limitare la musica a
scenografia della voce, della gola, del clarinetto impazzito
- uno sfondo su cui scatenare il talento e la tarantola
che si annida nella gola infuocata. Non in Malaikat
Dan Singa, dove ritroviamo l'efficacia e l'equilibrio
graffiante di Uterus And
Fire, e forse una delle produzioni migliori di quell'essere dionisiaco degli ultimi dieci anni. Lo testimoniano il
ragamuffin scapestrato e abrasivo di Mani Malaikat (echi
di ultimi Oneida?), che è un pretesto per gli sfoghi improvvisatori del fiato di Arrington su un ohm di retroguardia, come il garage ludico ed etnico del disco, che lo
permea da Kedalaman Air e Nama Bersembunyi (ricordate
l'androidpunk di Detroit?). Ciliegina, il rimando continuo
a una versione mistico-garagista della musica indonesiana,
richiamata da alcune vie di fuga, da meditazioni (Tenaga
Halusinasi) e dalla lingua con cui De Dionyso scandisce
le lyrics. Un album da recuperare dalla fine del 2009, e da
continuare a riascoltare.(7.35/10)
Gaspare Caliri
Aufgang - Aufgang (InFiné, Ottobre
2009)
G enere : T echno /P iano M usic
Presenziare ai festival che sperano ancora, nel 2010, di
gettar ponti tra classica e musica da ballo recitando la
trita litania secondo cui l'elettronica, nata negli studi di
fonologia, imbastarditasi nei club, sarebbe alfine tornata
nel rassicurante alveo della musica d'arte - ah, l'eterogenesi dei fini! - è un prezzo che si può pure scegliere di pagare. Essere esposto in bella mostra di tutto
punto vestito sui carrozzoni (sempre meno allegorici)
della dance intelligente, a nostro avviso, invece, no. Sono
passati cinque anni da quando il trio Aufgang (Francesco Tristano e Remi Khalifé, pianoforte; Aymerich
Westrich, batteria e programming) si è esibito per la
prima volta al Sònar, eppure chi ha avuto l'occasione
d'assistere da vicino alla sua genesi, o si è incuriosito nel
frattempo alle metamorfosi del giovane Tristano, non
troverà in quest'esordio novità eclatanti se non un autoimposto sfoggio di classe. L'approccio cerebrale e, oseremmo dire, progressivo
(alla Mars Volta, per intenderci: gli scettici ascoltino
Channel 7) a quel tipo di pianismo post-minimal che tanto è penetrato nel tessuto della musica di consumo rimane inalterato, e continua ad andare di pari passo con
le regole base della techno. Melodia e ritmo allo stato
puro, dunque, eccezion fatta per quei rari luoghi - i più
interessanti da esplorare - in cui qualcosa (un incedere
caotico in Channel 8, una serie di dissonanze in Soumission) intorbida il tocco cristallino dei due eccellenti
strumentisti.(5.5/10)
Vincenzo Santarcangelo
Awesome Color - Massa Hypnos
(Ecstatic Peace!, Aprile 2010)
G enere : hard - rock
E così gli Awesome Color, giunti al terzo album, prendono definitivamente la via dell'hard-psych seventiesoriented. Ed era ora, verrebbe da dire, visto il curriculum
sempre indeciso sulla direzione da prendere.
L'attacco di Transparent - stoner primigenio alla Kyuss,
ma essiccato e ancor più ossessivo - è una dichiarazione
d'intenti bella e buona, che poco lascia all'interpretazione
di chi ascolta. Tutto l'album infatti emana continuamente
effluvi acidi hard&heavy, qua e là venati di stoner postkyussiano o di risvolti heavy-rock rifunzionalizzati alla
maniera dei primi Monster Magnet. Certo che non
di soli panorami post-kyussiani vive Massa Hypnos: il
rifferama ashetoniano resta la base fondante del suono
dei trio newyorchese (specialmente quando accelerano
come in White Cloud) così come una certa, vaga predilezione per ballate bluesy strascinate (Zombie) e psychbluegrass (Slaughterhouse) ma è il richiamo della foresta
hard-seventies la pietra filosofale di questo terzo disco.
Vedasi la lunga IOU, che fotografa gli Stooges di Funhouse intenti a jammare coi Loop sul palco di Monterey.
Come a dire che, dopo peregrinazioni e tentativi di focalizzazione poco riusciti, questo sembra essere il terreno
ideale dei tre capelloni americani.(6.2/10)
Stefano Pifferi
Baby Dee - A Book Of Songs (Drag
City, Marzo 2010)
G enere : folk cameristico
Ritorno al futuro per Baby Dee. Il passo successivo
39
all'eccellente Safe Inside The Day è un ritorno ad un
lavoro pubblicato in pochi esemplari, poco più che un
demo registrato in autarchia nel 2001 e da tempo ormai
introvabile. Riarrangiati da Maxim Moston, già al lavoro
con Antony and the Johnsons, i pezzi che compongono questo A Book Of Songs sono altrettanti lieder
cameristici con nuances teatrali. Archi, legni, piano e arpa
costituiscono un trepido fondale per la voce incredibile
di Dee: un impasto di solennità e abbandono, fragilità
ed ebbrezza, dolore ed estasi, con quella capacità di galleggiare tra rappresentazione e intimità, tra crepuscolo
solitario e luci del palcoscenico.
Il tema è l'amore, ovviamente, ovvero il diritto d'amare e
di essere amati, malgrado tutto e tutti. Un tema che sta
particolarmente a cuore al Nostro, che ci regala interpretazioni notevoli quali l'accorata Black But Comely, la
guizzante Lilacs, l'angelica Love's Small Song e la desolata
Unheard Of Hope. Bel disco, ideale alternativa all'ultimo
di Joanna Newsom, come se di quello fosse un fratello
senz'altro minore ma forse più saggio. (7.2/10)
Stefano Solventi
Balmorhea - Constellations
(Western Vinyl, Febbraio 2010)
G enere : F olk ancestrale
Constellations è uno sguardo al cielo notturno, in riva
al mare d'inverno con pace e inquietudini a mescolarsi
nelle viscere. Immagini sfocate di una città in movimento
dal finestrino di una macchina in corsa sotto la pioggia.
Serenità rivestita di morbido spleen. è anche il susseguirsi di composizioni di folk ancestrale istoriato da accenni
di musica classica e jazz. Composizioni bagnate dalle lacrime di corde pizzicate, sfiorate e da granuli d'archi e
timidi organi. Ma è il piano (Steerage And The Lamp una
per tutte) centro gravitazionale attorno a cui ruotano
strumentali minimali e impressionistici al contempo, misurati e cesellati con sapienza. Forse troppo allineato al
precedente All Is Wild, All Is Silent, ma poco importa.
Mani nelle tasche, armati di un lieve sorriso è ora di tornare a casa.(7/10)
Giampaolo Cristofaro
Basia Bulat - Heart Of My Own
(Rough Trade, Febbraio 2010)
G enere : songwriting
Per il sophomore Heart Of My Own la songwriter
canadese Basia Bulat conferma produttore (Howard
Bilerman) e studio (il prestigioso Hotel2Tango di Montreal) concependo, durante un anno on the road, un seguito più eterogeneo dell'esordio Oh My Darling.
Se lì Basia coglieva i nostri favori mettendo in mostra un
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fresco songwriting spesso in acustico al piano con archi
e inflessioni chamber e jazzate, al contrario in questa
prova tutto è più in grande e di maniera con arrangiamenti e musica declinati su un folk rock di marca Neko
Case, puntate nel country e ancora approccio da camera. Caratteristiche e levigatezza che non giovano alla
verve compositiva della cantautrice.(6.5/10)
Teresa Greco
Baustelle - I mistici dell'occidente
(Warner Music Group, Marzo 2010)
G enere : pop rock
Il quinto dei Baustelle è un disco che azzarda una disinvolta maturità. Non alza l'asticella, anzi, persegue un'inerzia scafata e agile in chiave pop-rock, spogliandosi in parte del vezzo citazionista a vantaggio di un'alta definizione
sonica che bene incorpora inventiva ed essenzialità. Ha
fatto buon gioco quindi la presenza di Pat McCarthy alla
co-produzione e non era affatto scontato, visto che comunque c'era da perpetrare tutto un immaginario infarcito di beat italiano, morriconismi e languori orchestrali.
Finisce così che certi preziosismi - uno sfarfallio di flauto,
lo svolazzo pettoruto di una tromba - somiglino a rapide
pennellate su una trama ricca, sobria ed incisiva ad un
tempo.
Il suono quindi, innanzitutto. Poi una scrittura mediamente più sbrigliata del solito, come se avesse mollato
qualche zavorra nostalgica e - di conseguenza - quella
posa blasé, tanto che avverti una generosità inedita nel
suo alternare ballate estatiche e guizzi ruspanti. Le coordinate sono individuabili nei sessanta più favolistici che
favolosi ma anche nei corollari più abboccati del prog,
finendo per lambire le ruggini R.E.M. altezza Green
(Canzone della rivoluzione) e perfino il caracollare arguto
dei tardi Blur (Le rane). Archiviata una Gli spietati che
in quanto primo singolo/video è biglietto da visita abbastanza ingannevole (col suo citazionismo ipertrofico
che si permette una sorta di Rino Gateano à la Mio
fratello è figlio unico nel finale), sono degne di nota la title
track (con le strofe De André che vanno a sublimarsi in
un ritornello sinfonico), una San Francesco che potrebbe
non spiacere a Wayne Coyne e quella Il sottoscritto che
smazza garbata solennità ed enfasi melodica.
Di contro, una certa fiacchezza pervade la narcosi quasiAir di Follonica, lo yeh-yeh automatico di La settimana
enigmistica e lo struggimento un po' troppo accademico
della conclusiva L'ultima notte felice del mondo. Un'ultima
considerazione riguardo ai testi: laddove Amen pareva esprimere la consapevolezza di un'epoca sull'orlo del
baratro, l'approccio de I mistici dell'occidente sembra accettare con fatalismo e appassionata disinvoltura
highlight
Balaclavas - Roman Holiday (Dull Knife, Febbraio 2010)
G enere : D ub P ost -P unk
Dopo i due EP di un paio di anni fa, i texani Balaclavas debuttano su lunga distanza capitalizzando sapientemente il tempo trascorso dall'ultimo Inferno. Come dimostrano la title-track e Up The Newel, il sound dai
richiami Public Image Ltd. e Point Line Plane resta la fondante di una
ricetta comunque messa a punto e orientata, ora più che mai, al dub di matrice Wobble-iana. La passione per le ritmiche giamaicane, e nere in genere,
la troviamo negli incastri tribali di Vuitton e Nine Livers che farebbero la gioia
di Yaki Leibezeit.
Parallelamente, una coltre color pece dal forte regusto Gun Club ammanta
brani come True Believers, mentre il sax nottambulo di Ralf Armin (già nei
local heroes Culturcide) in Night Worship ci prende per mano e ci conduce
in un viaggio onirico come solo i Morphine sapevano fare. Roman Holiday
odora di funk umido e sporco e di asettica austerità inglese, madido del sudore dei tropici e bagnato dalla
pioggia urbana di Londra. Lavori di tale fattura sono sempre più rari. Chapeau.(7.3/10)
Andrea Napoli
l'inevitabilità del day after, dove l'estinzione del sacro è
lo sfondo crudele ma congeniale per vite alle prese con
la legge inesorabile del tempo, "che passa ma il segno rimane". La leggerezza pensosa di queste canzoni è assieme un lenitivo e una chiave, o se volete - appunto - un
buon passatempo. Con tutto ciò che questo può significare.(7/10)
Stefano Solventi
Black Dog - Music For Real Airport
(Soma Records, Aprile 2010)
G enere : IDM, soundtrack
Avete capito bene. I Black Dog, a trentadue anni di distanza dal mitologico Music For Airports, hanno deciso di licenziare un album sullo stesso tema aggiungendo
polemicamente un real al titolo. Come riportato dal sito
ufficiale alcuni membri del combo non erano mai stati contenti del trattamento rivolto da sir Brian Eno all'argomento.
Troppa celebrazione della società contemporanea, troppo ruffiano l'assist alle compagnie stesse che potevano
docilmente usare quella musica come muzak.
In pratica, se lodevolmente i Black Dog intendevano
rispondere al sulfureo Eno con un lavoro comprendente,
e dunque contemplante, quella paura sottotraccia persistente nell'atto del volare (toccando magari i risvolti subconsci legati al terrorismo), successivamente non
hanno resistito al richiamo della polemica (contro una
supposta falsa utopia e falso idealismo presenti nello storico lavoro) e a quello della resa tecnica.
Frutto dell'elaborazione di 200 di field recordings e di un
significativo uso dei sintetizzatori sull'asse Vangelis/Jarre,
Music For Real Airports offre cinquantotto minuti
totali di IDM scura e senza forma, risultando però un album pretenzioso e, fin da subito, piuttosto noioso. Invece di stimolare gli aspetti irrazionali della paura di volare,
il combo punta a una chirurgica calligrafia IDM '90 dagli
astuti quanto prevedibili ritagli dub step. Non ricordavamo i Black Dog come degli Oasis dell'ambient.(5/10)
Edoardo Bridda
Black Rebel Motorcycle Club Beat The Devil's Tattoo (Vagrant,
Marzo 2010)
G enere : rock - shoegaze
Singoli come Whatever Happened To My Rock 'n' Roll hanno fatto il loro tempo e sono invecchiati inesorabilmente. Periti sotto i colpi della poca voglia di rischiare, storditi dall'ebbrezza provocata da un buon disco d'esordio
e dalla disillusione allegata al secondo, contaminati dal
blues-psych elettro-acustico di Howl e minati nelle fondamenta dalla superficie lucida di Baby 81.
Un percorso tortuoso e non sempre dai buoni risultati,
quello dei Black Rebel Motorcycle Club, speso tra
riciclo e furberie, banalità assortite e rinnovata credibilità. In mezzo, quel mix di shoegaze-blues-rock a grana
grossa un po' Brian Jonestown Massacre, un po' Jesus And Mary Chain, un po' Ride, un po' punk, generoso dal vivo ma spesso poco sorprendente su disco.
Beat The Devil's Tattoo non sconvolge il quadro clinico, ma qualche argomentazione a sostegno la trova,
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facendoci credere almeno per un istante che ci sia vita
oltre la morte. Forse non nell'iniziale title track - un' outtake di Baby 81 ? - e nemmeno nella successiva Conscience Killer - classico punk acido delle origini -, ma di sicuro
nel blues acuminato di War Machine, nell'elettricità monolitica di Mama Taught Me Better, nel beat di River Styx,
nella suite lisergica di Half-State. Col pedale dell'elettricità a fondo corsa e un ritrovato entusiasmo dovuto anche al cambio di formazione - dietro ai tamburi, al posto
del dimissionario Nick Jago, c'è Leah Shapiro delle
Raveonettes - che costringe la band a prendersi qualche responsabilità in più. Né un fallimento annunciato né
musica da vette creative dell'indie più coraggioso, Beat
The Devil's Tattoo, ma un'opera riconoscibile. Con tutti i
pro e i contro del caso.(6.4/10)
Fabrizio Zampighi
Blood Red Shoes - Fire Like This (V2
Music, Febbraio 2010)
G enere : I ndie R ock
Tesi e nervosi spasmi di indie rock chitarristico di stampo
marcatamente anni '90. Non si discostano molto da tale
canovaccio i pezzi del secondo disco dei Blood Red Shoes.
In due, Steven Ansell (batteria e voce) e Laura Mary
Carter (chitarra e voce) non sono i White Stripes al
contrario, benché qualche stilla di secco blues sporcato di
garage si intraveda a tratti.Volendo riferirsi al recente passato Fire Like This si potrebbe attribuire a degli Arctic
Monkeys più muscolari e cinetici. Spiccano la possanza di
When We Awake (e qui c'entrano qualcosa anche le Breeders), le arroventate Keeping It Close e Heartsink dalle
sfumature grunge (!) e l'autistica Follow The Lines.(6/10)
Giampaolo Cristofaro
Blood Red Shoes - Fire Like This (V2
Music, Febbraio 2010)
G enere : I ndie R ock
Tesi e nervosi spasmi di indie rock chitarristico di stampo marcatamente anni '90. Non si discostano molto da
tale canovaccio i pezzi del secondo disco dei Blood Red
Shoes. In due, Steven Ansell (batteria e voce) e Laura Mary Carter (chitarra e voce) non sono i White
Stripes al contrario, benché qualche stilla di secco blues
sporcato di garage si intraveda a tratti. Volendo riferirsi
al recente passato Fire Like This si potrebbe attribuire a
degli Arctic Monkeys più muscolari e cinetici. Spiccano
la possanza di When We Awake (e qui c'entrano qualcosa
anche le Breeders), le arroventate Keeping It Close e
Heartsink dalle sfumature grunge (!) e l'autistica Follow
The Lines.(6/10)
Giampaolo Cristofaro
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Brian Lavelle - Ustrina (Afe
records, Ottobre 2009)
G enere : elettronica / ambient
La forza di questi field recordings vecchi dieci anni (come
nel miglior Basinski), e delle loro stratificazioni in droni sta nella proporzione e nell'equilibrio che delineano
una continuità perenne fatta di slittamenti, passaggi che
galleggiano, decomposizioni, dissonanze e sedimenti di
suono.
Sembra esser stato composto in stato di sonnambulismo,
l'ultimo lavoro dello scozzese Brian Lavelle licenziato
dall'italiana Afe Records.A tratti ricorda il DJ Olive della
Room40, quello delle Sleeping Pillows, sicuramente continua sulla strada dei due precedenti Just a Song at
Twilight (Dust, Unsettled, 2006) e Supernaturalist
(EE Tapes, 2008); ma la differenza, per Ustrina, sta nella
logica perfettamente isolazionista che lo caratterizza.
Suoni per spazi profondi e imperscrutabili verso i quali
dirigersi grazie a un lento e denso spostamento orizzontale.(7/10)
Sara Bracco
Burning Star Core - Papercuts
Theatre (No Quarter, Marzo 2010)
G enere : P sych N oise
Distante dalle efferratezze dei compagni di sventure
Yellow Swans, Prurient e John Wiese, chi ha seguito da vicino Chris Spencer Yeh/ Burning Star Core sa
quanto l'uomo abbia ammiccato alla musica colta nella propria carriera. Disseminati in Amelia o di Everyday
World Of Bodies, ad esempio, troviamo evidenze di LaMonte Young come di Tony Conrad attraverso suoni
minuscoli e variazioni altrettanto microscopiche. Papercuts Theatre ne cambia corso a favore della visceralità della comitiva: un insolita batteria (non più campionata) oscilla tra spasmi e ritmi funk nella traccia I, affogata
da synth pulsanti di rumore fluido; e se in III ritorna la
voce (come in Everyday World Of Bodies processata fino
a sembrare una beat-box sbronza) passa un attimo e la
foga dei synth sommerge tutto di nuovo.
Un suono che reclama spazio. Che si fa strada attraverso
i reverberi in direzioni misticheggianti per un free noise mai annichilente. In Papercuts Theatre, quello che C.
Spencer Yeh ha tolto al cervello, lo restituisce allo spirito
tutto.(7.2/10)
Leonardo Amico
Burzum - Belus (Byelobog
Productions, Marzo 2010)
G enere : B l ack M etal
Dai Sunn O))) di Stephen O'Malley ai Jesu di Justin
highlight
Caribou - Swim (Leaf, Aprile 2010)
G enere : folk , trancetronica
Ci aspettavamo un nuovo capitolo della saga kraut-psych ad alto contenuto ritmico, aggiornata magari a
una scrittura ancor più fluida e matura, ed invece Dan il canadese più amato dalla Leaf, seguendo parallelamente le linee guida dell'amico fraterno Kieran Hebden, ha preferito intendere Andorra come un
capolinea di tutto un percorso intrapreso sicuramente con The Milk Of Human Kindness, album con
il quale si era fatto conoscere e valso l'appellativo di gentle-tronico, il ragazzo
dall'elettronica gentile.
Allo stesso modo di There Is Love In You, la svolta di Swim introduce
l'elemento ballabile unendolo a quello ipnotico, combinando così kraut e minimalismo. Ad differenza di un Four Tet dritto sulla rotta trance più minimal
tracciata dall'altro amico James Holden, Snaith preferisce tenersi il pop
come metro con il quale misurarsi i vestiti, scegliendo persino di buttarsi
negli eighties più synth con il singolo Odessa, brano di punta di un look che
non rinnega né certo white soul (e funky nei ritmi) né una posa dancefloor
doppiozero à la Erlend Øye (presente anche in Leave House). In Swim però c'è soprattutto altro come
i ritmi para DFA di Bowls o i citati modi trance che sublimano in Sun, brano chiave per l'altra importante
lezione messa in circolo che è l'idm-ravetronica, Orbital in primis, Underworld dopo, e più indietro l'old
school chicagoana.
Dan è fresco e appassionato alla materia sonica come non lo sentivamo dai tempi di Up In flames, un
lavoro che siglò a inizio Duemila la cosiddetta folk-tronica. Ora occorre che qualcuno scovi un termine
nuovo per questo movimento in fieri che finalmente guarda oltre il copia/incolla Ottanta. Sentiamo un po'
che farà l'altro guru delle contaminazioni extra-dance, Matthew Herbert, e per il momento godiamoci
questo bel viaggio intelligent di gran gusto che, attenzione, non rinnega niente: né lo psych né il jazz (Hannibal) né l'indie né Nick Drake.(7.3/10)
Edoardo Bridda
Broadrick, passando per atti ben più underground come
Xasthur e Striborg, i pegni a Varg Vikernes sono stati
molteplici così come indelebili i segni lasciati dal progetto Burzum su tutte le musiche estreme degli ultimi
quindici anni. Oggi che il Conte è tornato in libertà - e Burzum redivivo - i sedici anni di reclusione pesano però come un
macigno sulle sorti di Belus, settimo sigillo di uomo che
oggi risveglia il genius loci che aveva guidato le gesta degli
adepti del culto più un lustro or sono.
L'iniziale coppia di brani Belus' Død (con recupera il vecchio riff di Dauði Baldrs) e Glemselens Elv (reminescente
degli Ulver di Bergtatt) è indubbiamente la più riuscita; Kaimadalthas' Nedstigning si salverebbe agilmente se
non fosse per le parentesi folk-metal, mentre Sverddans,
un thrash-black risalente al periodo degli Uruk-Hai (il
nome del progetto prima che si chiamasse Burzum)
mostra inevitabilmente i tratti più anacronostici del suono dell'ex detenuto di Trondheim. Altro aspetto negativo
è il paragone con lo scream dei bei tempi, oggi un pallido
riflesso di quello di allora, e perciò non rimane che la nostalgia nell'incedere finale di Belus' Tilbakekomst memore
dei fasti '90.
In casi come il suo, sarebbe meglio lasciare che le reliquie
giacciano indisturbate per essere eternamente onorate
e servire da monito negli anni a venire.(6/10)
Andrea Napoli
Canemorto - Canemorto (Music
Valley, Marzo 2010)
G enere : canzone d ' autore
Più attenzione e un pizzico di furbizia a volte non guasterebbero. è necessaria una cover di Ivan Graziani
quando vocalmente si è pressoché identici? Perché rischiare dunque un simile misunderstanding identitario
come fa Canemorto in questo esordio omonimo? Antonio Nardi, già nei Colya (un ep e un singolo, Laura, in
buona rotazione nel 2005), a tratti scrive e sicuramente
43
canta come l'autore di Firenze (canzone triste). Non lo
fa (del tutto) apposta, è la sua voce. Però pensa bene di
mettere in tracklist proprio una rilettura di quel brano, peraltro fin troppo smaltata. Ed è un harakiri. Anche
perché il resto naviga zelante su rotte novantiane di Afterhours impoltroniti, enfasi Muse giusto in apertura
(A 300 all'ora), e quasi a metà la scoperta a dir poco bizzarra di un inno calcistico (Fiorentina) versato shoegaze
e violini cameristici.
è chiaro che Canemorto cerchi una via personale alla
canzone d'autore ereditandone lo stile, l'impegno, e opponendo alla nostalgia soluzioni nuove, tratte per lo più
dagli ultimi vent'anni di rock anglo-americano (Leopoldo
Giachetti e Martino Mugnai dei Velvet Score a dare
una mano). E date le premesse, è anche ovvio che queste
soluzioni nuove manchino, ma fa niente. Il nodo è semmai un altro: che ad arrancare sono proprio le canzoni, perse tra rock'n'roll a salve (Se ritornasse il Signor G),
cromatismi elettronici che hai voglia a vederli i Primal
Scream (Aeroplani) e una stanchezza diffusa che solo
in un episodio si riprende (Giuliano non lo sa ha la stessa
rotondità suadente di certo Graziani, ma rimane un bel
pezzo).
Costui ha vinto nel 2008 il Premio De André?
Mah...(5.2/10)
Luca Barachetti
Capputtini 'i Lignu - Capputtini 'i
Lignu (Jeetkune, Febbraio 2010)
G enere : G arage B lues
Capputtini 'i Lignu sono l'esempio lampante di come
la tradizione musicale americana continui ad esercitare un fascino globale ed incondizionato. Il duo formato dal francese trapiantato a Roma Cheb Samir (già nei
Normals e Two Tears) e dalla siciliana Kristina, dopo
l'ottimo 7'' su Shit Music For Shit People, distilla undici
episodi che sono un vero vademecum di old time music
made in the Usa. Espliciti richiami Gories (3per3, She's
A Crime) e vecchi blues rurali (Fireflies) fanno il paio con
tristi ballad d'antan (Mr Death, tra i fiori del lotto) e boogie indiavolati (la nomen omen American Dance).
Un completo ed ammaliante compendio di cent'anni di
rock'n'roll, un salutare refresh che farà la gioia di chi di
quei suoni ha sempre la giusta nostalgia.(7.1/10)
Andrea Napoli
Chapelier Fou - 613 (Ici d'ailleurs,
Marzo 2010)
G enere : chamber - folk - tronica
Bisognerebbe lasciarli crescere, gli artisti. Senza pretendere che dicano subito quel che vogliamo o che confer44
mino le aspettative che abbiamo riposto in loro. Dovremmo lasciarla alla farsa del nostrano calcio la sciocchezza
di licenziare un allenatore dopo tre mesi di campionato
perché il rendimento non è all'altezza. Abbiamo avuto
pazienza con Louis Warynski, il ventiseienne francese
di belle speranze che si fa chiamare Chapelier Fou, e i
due EP già passati al vaglio - Darling, Darling Darling... e
Scandale - convincevano il giusto mentre indicavano un
talento alle prese con elettronica e tentazioni classicheggianti, folk e cameristica mantenendo forza comunicativa.
Ne veniva fuori un'avanguardia sorridente e in nessun
caso autocompiaciuta, col raro dono di aprirsi senza banalità.
Impresa non delle più agevoli, nondimeno lo è per lunghissimi tratti in 613, album d'esordio dal titolo enigmatico e inafferrabile come le sonorità che trattiene. In
grado di far tutt'uno di chanson e morbidezze - morbosità? - 4AD (Half Of The Time: canta Matt Elliott:
Louis ricambierà il favore
partecipando all'imminente ritorno di Third Eye
Foundation); di ammiccare con personalità alla
folktronica e ai bozzetti di
Brian Eno, ai Cluster più
trasognati e alla giocosità
contorta dell'Holger Hiller di Oben Im Eck; di commuovere come un'Orchestra
Pinguina discesa in una domenica paesana d'oltralpe.
Soprattutto di mescolare ogni aspetto in base a estro
e verve moderni, caratteristici di una generazione che
si accosta alla musica senza più barriere né preconcetti,
siano essi di stile o metodo (il tris d'apertura G tintinnabulum, Les métamorposes du vide, Luggage). Lo aspettavamo al varco, il Cappellaio, ed è sfuggito con una piroetta
perché ha un sacco da fare. La perfezione non dista molto: intanto, gli applausi sono per lui.(7.4/10)
Giancarlo Turra
Christian Prommer - Drumlesson
Zwei (!K7, Aprile 2010)
G enere : jazz on electronica
A quasi trent'anni dalla sua fase pionieristica, l'electronica è ormai storicizzata e canonizzata. Ha sfornato i suoi
capolavori e fissato i suoi standard. è pronta per entrare
nei real book dei jazzisti.
Quello del tedesco Christian Prommer è forse il più
riuscito tra i progetti che mettono su disco considerazioni come questa, rileggendo in chiave strumentalesuonata, e appunto jazz, pezzi ormai classici a cavallo tra
electro, techno e house. è un approccio che, lo abbiamo
visto, si sta facendo strada, con pari densità teorica, anche nel mondo hip hop (oggetto, per adesso, brani dai
corpus di Pete Rock e J Dilla) e che, con molta meno
densità teorica e programmaticità, ha portato anche a
riletture di pezzi - capolavori pop Duemila, precisiamolo
- come Toxic di Britney Spears e Hey Ya! degli Outkast.
Torna quindi Prommer con un secondo capitolo Drumlesson dopo l'ottimo esordio del 2007. La formula non
cambia, classici electronici vecchi e nuovi riletti in chiave
jazz, e ancora Peter Kruder a co-produrre. Lì i pezzi
forti erano Can You Feel It di Larry Heard/Fingers
Inc. (la nascita della deep house), Strings of Life di Derrick May (codificazione delle tastiere house dentro un
pezzo techno, quando ancora non c'era stata l'elettrolisi
a separare i due generi), Nervous Track dei Masters at
Work a nome Nuyorican Soul, Trans Europe Express
dei nonni Kraftwerk, lo smash hit Around The World dei
nuovi stilisti Daft Punk.
Qui i brani scelti sono forse meno universalmente noti,
per cui vale la pena di elencare la tracklist per intero:
Sandstorms di Carl Craig, Groove La Chord di Aril Brikha, Sleepy Hollow di Stefan Goldmann, Acid Eiffel di
Laurent Garnier, Oxygène Part IV di Jean-Michel Jarre, Jaguar di DJ Rolando e Mike "Mad Mike" Banks
(in doppia versione), Sueno Latino di Craig e May, High
Noon di Kruder & Dorfmeister, Sandcastles di Dennis Ferrer e Jerome Sydenham.
Prommer è bravo a dosare gli elementi, trova il giusto
equilibrio tra sottolineatura del tema e spazio lasciato
ai musicisti e ai loro soli, tra rispetto del brano e lettura
personale. Ma perde un po' di mordente. Forse perché è
scemato l'effetto sorpresa (e forse perché alla "seconda
botta" si avverte di più il fattore manierismo di un'operazione come la sua), forse perché sono le selezioni
stesse ad essere meno efficaci. Sia come sia, rispetto
al primo volume la massa sonora è più essenziale e filiforme, più spacey, più elettrica (molte tastiere e anche
un minimoog), meno strettamente jazz. Il risultato, per
quanto appunto meno intrigante, è comunque sempre
godibile. Nota: l'impostazione ritmica di un paio di pezzi,
ma soprattutto di Jaguar, ricorda incredibilmente da vicino i King Crimson di Discipline.(6.9/10)
Gabriele Marino
Coal Porters (The) - Durango
(Prima Records, Febbraio 2010)
G enere : bluegras s , country
The Coal Porters è il gruppo bluegrass inglese in cui
milita Sid Griffin, ex The Long Ryders, band di metà
Ottanta del giro Paisley Underground. Il leader della
band che esiste da ormai quasi due decadi è da anni giornalista (Mojo, Uncut, Record Collector..) nonché scrittore, saggista e discografico indipendente, dividendosi tra
Inghilterra ed America.
The Coal Porters erano nati come gruppo rock elettrico, per poi spostarsi anche verso territori acustici e
contaminazioni punk e rockabilly. Durango arriva dopo
tre anni dal precedente
Turn The Water On,
Boy!; forse più che alt bluegrass l'album si può definire country tout court con
spruzzate contaminanti di
Clash e rockabilly sparsi.
Banjo, violino, chitarre, contrabbasso e mandolino con
la produzione di Ed Stasium (Ramones, Smithereens, Belinda Carlisle), per un
disco piuttosto tradizionale con alcune sorprese, come
una versione basic di Like An Hurricane di Neil Young, e
testi letterari. Per il resto i due guest Tim O'Brien (assolo di mandolino in Roadkill Breakdown) e Peter Rowan
(voce e chitarra in Moonlight Midnight) non lasciano dubbi.(6.8/10)
Teresa Greco
Cobblestone Jazz - The Modern
Deep Left Quartet (!K7, Marzo 2010)
G enere : deepminimal / fusion
Il secondo attesissimo album dei canadesi è un passo
avanti che li riporta - per certi versi - alle origini. Il trio
diventa infatti un quartetto con l'ingresso in formazione
di Colin de la Plante aka The Mole, produttore già
in quel Modern Deep Left Quartet dalle cui ceneri nacquero i Cobblestone e che dà opportunamente il titolo
a questo lavoro.
Cosa cambia rispetto a 23 Seconds? Poco e tanto. Il tocco è quello, globuloso e avvolgente, immediatamente riconoscibile, la cura del dettaglio quasi maniacale, la concentrazione tutta spesa su motivetti essenziali che animano
pezzi iterativi e fluttuosi dagli esiti praticamente trancey.
Stavolta però gli angoli appaiono smussati, i temi più lineari, la materia più asciutta e compatta, fanno capolino
atmosfere che definiremmo addirittura solari, anche se la
luce è quella del tramonto (parola chiave ambient house
primi Novanta). Il cesello insomma non solo rifinisce ma
ammorbidisce le forme. Ed emergono con maggiore chiarezza anche altre sfaccettature delle radici di Jonson &
compagni: gli anni Ottanta e la mamma di tutte le forme elettroniche della dance - l'electro - con un uso più
marcato della voce, vocoderizzata e inintellegibile, mol45
to Transformers. Dici electro e l'iniziale Chance Dub è a
due passi della cavalcate soft dei Kraftwerk di Tour de
France. Fiesta, il pezzo di maggiore impatto, è un riff scuro
e potente che ricorda i GusGus di 24/7, nome questo
da scomodare anche per la successiva Children, se non
altro per quel modo di accumulare tensione senza mai
risolverla. Mr. Polite, basso appiccicoso, claphand e vocoder,
sembra una versione stilizzata - in silhouette - di certi
numeri Daft Punk, e l'ombra dei due francesi, mista a un
ricordo come di certi Devo post-Are We Not Men...,
si allunga anche sulla successiva Cromagnon Man. Resta il
tris di pezzi che riprende le tastiere elettriche e lo spunto fusion di Slap My Back (su 23 Seconds) sviluppandolo
con feel latin: Sun Child si mantiene su quello stesso mood
jazzy, mentre Chance e soprattutto la conclusvia Midnight
Sun - un titolo che è un programma - prendono una piega
soft praticamente lounge, perfetti per chill out ibizenchi
all'ora del crepuscolo.
Un lavoro conciso che massimizza l'efficacia lavorando
su poche idee fatte benissimo, suonate da dio e risolte
sempre con stile e classe. Probabilmente è già maniera,
ma chi se ne frega.(7.3/10)
Gabriele Marino
Dag för Dag - Boo (Haldern Pop
Recordings, Febbraio 2010)
G enere : indie - rock
L'inquietudine Joy Division ripassata con spugnature lisergiche, ovvero drumming serrato e prossimo alla deflagrazione e chitarre che non rinunciando all'elucubrazione elettrica spargono reflui luccicanti e aciduli: quello
che fanno i fratelli svedesi Sarah e Jacob Snavely in questo
esordio sulla lunga distanza prodotto per quasi metà negli
Stati Uniti (da Richard Swift) e per il resto nella terra
natale è presto detto. Si aggiunga a ciò solo un violino
spiritato che per Boxed up in pine dichiara un'ascendenza
folk non troppo precisata e una Wouldn't you da Arcade
Fire in tensione misticheggiante e la mappa del percorso
dei Dag för Dag è completa. Ovvio che sulla distanza di
tredici tracce il gioco si ripeta un po' troppo e annoi - anche se ai nostri non manca quel tiro che live saprà farsi rispettare - tuttavia neanche una bonus track intitolata Ring
me, Elisa che li vede travestiti da White Stripes sembra
aprire chissà quali prospettive. Insomma: vi piaceranno solamente se saprete accontentarvi.(6/10)
Luca Barachetti
David Byrne - Here Lies Love
(Nonesuch, Aprile 2010)
G enere : pop , l atin , kitch
L'unico modo per rendere giustizia a questo mastodon46
te è considerarlo sin da subito un "a sé" nella carriera di
David Byrne. Non pensarlo, né tanto meno valutarlo,
come se fosse il seguito di Grown Backwards. E, con ciò,
di riconoscerlo come pegno di coraggio da parte di uno
che non s'è mai fatto mancare nulla quanto a genio e
sperimentazione, grandi canzoni e futuro preconizzato.
Giano bifronte, Here Lies Love, è disco schizofrenico che
affida al doppio cd un concept sulla vita di Imelda Marcos,
in cui abbondano ospiti davanti al microfono, dunque si
trova una strada segnata sin dall'inizio. Che non è male
nella title-track a mo' d'introduzione, gustosa di screziature disco, melodia sorridente e orchestrazione folta
però agile. Canta Florence "Machine" Welch e rende
un buon servizio, come Candie Payne e St. Vincent
sul latineggiare marpione Every Drop Of Rain. Potrebbe
bastare e buttiamo sul piatto pure l'ironia elettro-rock
funk di Eleven Days (ospite Cyndi Lauper), giacché il
resto sa di epica sfocata, banalità folk e un rock-pop che
- come le citazioni etniche e cameristiche - scorre anonimo e pallido.
Tutt'altra musica sul secondo dischetto, dove il ruolo di
Fatboy Slim ha maggior peso ed è cosa buona e giusta:
esclusi un paio di numeri soporiferi, si tocca l'apice con
American Troglodyte (Byrne si ricorda di mutare la disco
e mostrare la via alle sciacquette odierne) e la sensualità nu-errebì traboccante da Please Don't con Santigold.
Sul rimanente funzionano il battito squadrato ma caldo e
l'ugola di Sharon Jones su Dancing Together, la hi-energy
anni '70 Men Will Do Anything, la contorsione alla Prince - Kate Pierson dei B-52's risvegliata dal letargo
- immaginata con The Whole Man. Stimolante e controverso ma, per quanto ce lo potevamo aspettare, tutto si
conferma una sorpresa. Non sempre di quelle positive,
però.(6.6/10)
Giancarlo Turra
Dino Fumaretto - La vita è breve e
spesso rimane sotto (Trovarobato,
Marzo 2010)
G enere : surreal cantautorato
Dino Fumaretto è lo pseudonimo di Elia Billoni, o forse l'alter ego, oppure il prodotto di una schizofrenia artistica/esistenziale. O un gioco. Uno scherzo terribile ed
esilarante. In ogni caso, c'è. E c'è questo disco, l'esordio
ufficiale dopo un paio di autoproduzioni e tante performance che hanno fatto di Billoni/Fumaretto un piccolo
culto in attesa di più ampie platee. Arrangiamenti stringati, pianoforte e voce perlopiù, qualche tastiera, l'armonica ed il kazoo, tutti suonati dal Nostro nel tentativo
di dare vita a tanti teatrini quante sono le canzoni in
programma.
highlight
Crookers - Tons Of Friends (Universal, Marzo 2010)
G enere : mesh rap urban
Una tonnellata di amici per il debutto full lenght dei ragazzi italo che hanno sbancato all'estero con una
pletora di remix da far impallidire il più navigato dei produttori. La loro è la storia di chi non è (e forse non
sarà mai?) profeta in patria. Pazienza, l'importante è il disco (dopo quel Mixtape underground comunque
indimenticabile) e la guest list che da un artista italiano non avresti mai osato
nemmeno immaginare: Soulwax, Kelis, Róisín Murphy, Yelle, Kid Cudi e
Dargen D'Amico.
Phra e Bot: orgoglio da veri rockers sul piatto senza peli sulla lingua. Internazionalismo a base di mesh Missill, M.I.A. e suono losangeliano. Dall'anthem
Day'N'Nite per Kid Kudi ne sono passate di serate, ma i due anni trascorsi
non hanno sedato l'urgenza e la voglia di divertire, professionalità in consolle included. Dopo i remix mito per i Chemical e la rilettura degli AC/DC
il duo è finito pure in copertina su Mixmag... e ci sarà pure un motivo, no?
Un successo che è e rimarrà esterno allo stivale, non ancora pronto alla loro rivoluzione sul verbo rap.
Un genere che per definizione non ci appartiene ma che a loro calza a pennello. L'abito indossato risulta
comunque stretto e con la mano da sarti ci hanno dato delle sforbiciate da panico. Nuova collezione per
loro, oggi. Parola d'ordine: crossover.
Le tracce parlano da sole: l'inizio rombante house di Soulwax di We Love Animals, la spocchia urban di Kelis
mescolata al fidget in No Security, la classe chic della Murphy in Hold Up Your Hand e in Royal T, Hip-Hop
Changed appunto nuovo anthem da panico mesh (stranamente cancellata dall'edizione italiana), la moda
innestata nella voce '80 della francesina Yelle in Cooler Coleur, il tributo rap-italo di Dargen in cordata con
Marina e The Very Best in forma più che mai nel baile reggaeton di Birthday Bash, Transilvania in odore Grace Jones per Steel Lord, un blues acustico per Tim Burgess (Lone White Wolf) e l'inevitabile laserone truzzo
con Major Lazer (Jump Up). E poi un tripudio di professionalità da artigiani di bottega rap now che solo
i due uomini sanno maneggiare così. Chapeau, ragazzi.(7.7/10)
Marco Braggion
Nevrastenia sciroccata, disarmo totale, disamine tragicomiche, invettive deliranti e laconici parallelismi: è un
carosello meno divertente che patologico, l'autore è una
vena sul punto di scoppiare e questo suo blaterare trepido è la terapia che stasa, almeno temporaneamente.
In realtà però non c'è cura, non c'è scampo, predomina
un senso di resa feroce (Venite assassini) ed implosione
nell'assurdo (Nella casa), ingannevoli vie di fuga (Nuvole e
meraviglie) e cinismo sprezzante (Mostra). Personaggio e
disco interessanti, anche se a stretto rischio di autoreferenzialità. (7/10)
Stefano Solventi
Downpilot - They Kind Of Shine
(Tapete, Aprile 2010)
G enere : F olk rock
Un po' come Hendrix, Paul Hiraga si costruisce il
proprio studio per registrare il terzo episodio a nome
Downpilot, e un po' come il McCartney dell'esordio
solista decide di suonare tutto da sé (ovviamente "con
un piccolo aiuto dagli amici" che gravitano intorno al
gruppo).
Hiraga scrive suggestive e ariose canzoni in piena tradizione Americana, vivacizzate da una ricchezza strumentale che evita il rischio dell'autoindulgenza. Il gusto lo
scopriamo per esempio nell'efficace opener All The Ghost
Will Walk e nel resto della tracklist dove la scrittura rimane disinvolta (The Regrade e il modo in cui fregandosene svicola dalla sua stessa classicità), anche se un po'
calante man mano che si procede.
Non si evita però l'altro rischio: quello di mescolarsi nel
mare magnum di una scena dalla tradizione annosa e
dalla produzione oceanica, dove ormai bisogna essere i
migliori più uno per spiccare.
Hiraga si colloca in fascia alta, ma non lo è.(6.5/10)
Giulio Pasquali
47
Drive By Truckers - The Big To-Do
(Pias, Marzo 2010)
G enere : A mericana
La trattengono nel Dna la musica, i Drive By Tuckers.
In buona parte figli di musicisti, hanno imparato a suonare prima di dire "mamma", ragion per cui è stato naturale
tramutare una passione in professione. Grossomodo dalla fine dello scorso decennio, quando muovevano i primi
passi non senza difficoltà e guadagnandosi un pubblico
di tutto rispetto grazie all'intensa attività concertistica.
Ed è lì che gli americani
mettono alla prova i gruppi: non puoi barare e tanto
meno te lo consentono nel
loro Sud, dove si bada alla
concretezza, all'esecuzione
e alle canzoni. Sin qui ne
hanno infilate di mediamente buone e qualcuna pure
ottima e seguitano a farlo,
rispondendo con equilibrate metamorfosi stilistiche ai
rimescolamenti di formazione. Come nelle famiglie numerose si inseguono le certezze, così loro percorrono
una tradizione più sfaccettata di quel che si creda.
Meno southern rock gravido di assoli e boogie per loro:
piuttosto una raffinata alternanza di folk da ebbrezza alcolica (I Told You So), muscoli flessi (Drag The Lake Charlie) e propensione all'intimismo (You Got Another, Eyes
Like Glue); gestendo l'influenza evidente di Tom Petty
senza calligrafismi e incorporando chitarre più ruggenti
dell'usuale (The Fourth Night Of My Drinking, Daddy Learned To Fly). Lontani dalla sintesi e scrittura stellari che appartengono ai Black Crowes, i ragazzi quasi persuadono del contrario con l'indolente romanticismo di Santa
Fe e una tesa però delicata The Flying Wallendas, sfacchinano con gioia e convinzione da far chiudere un occhio
su alcuni indugi. Tra manodopera e ingegneria esiste una
fascia intermedia: profuma di orgoglio e onestà.(7/10)
Giancarlo Turra
Dum Dum Girls - I Will Be (Sub Pop,
Marzo 2010)
G enere : weird garage , lo - fi
Se c'è un centro nel pulviscolo di etichette, artisti e situazioni che compongono il pantheon del nuovo lo-fi
americano, è certamente da rintracciarsi nella figura
dell'enigmatica Dee Dee: bibliotecaria di professione,
agitatrice culturale nel tempo libero. Nell'ultimo anno
e mezzo ha collezionato così tante collaborazioni con i
prime mover della scena weird garage, che viene naturale domandarsi se ogni tanto la ragazza a casa ci torni.
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Dum Dum Girls rimane il suo progetto principale, ma
vale la pena ricordare il disco fatto uscire lo scorso anno
con Mike Sniper (alias Blank Dogs) sotto il moniker
Maifair Set. Il tutto all'insegna della vecchia ricetta cara
a Jesus And Mary Chain: melodie velvetiane, ritmica
minimale e fuzz che si trasformano in seghe circolari.
Dalle poche foto rubate e disponibili in rete, appare chiaro che la ragazza è tutto fuorché un sex symbol. Eppure,
in questa nuova era dell'understatement, capita che il suo
primo album fosse uno dei lavori più atteso dell'anno.
La Sub Pop, memore una volta tanto del ruolo seminale
avuto in passato, non si è lasciata scappare il colpo: le
ha affiancato un produttore (Richard Gottehrer, già al
lavoro con Blondie e Raveonettes) che ha ripulito il
suono quel tanto che basta a renderlo appetibile a chi ha
paura di rovinarsi i timpani con fischi e distorsioni e le ha
lasciato il giusto raggio di autonomia (la versione vinilica
del disco esce per la HoZac, microlabel di culto della
scena shitgaze). Il risultato è questo I Will Be, che arriva
dopo una pletora di e.p., 7'', video casalinghi postati su
YouTube, scorie musicali disperse per il web e materiale
prodotto nel più puro spirito DIY.Togliamo subito spazio
ai dubbi: è un disco bellissimo. Una delle poche volte in
cui la realtà supera le aspettative.
Ci tengo ad affermarlo prima che l'indie snob di turno
venga a dire che "si stava meglio quando si stava peggio",
ovvero quando il cantato di Dee Dee era solo un flebile
sussurro dietro una coltre di feedback. Non credetegli.
Il canzoniere della nostra è così solido che farebbe un
figurone anche se fosse suonato con l'ausilio della sola
chitarra acustica, tale è la limpidezza delle melodie.
Sono perle di poesia minimale e senza tempo. Poi, certo, l'estetica fa la sua parte: il jingle jangle distorto, la
ritmica elemantare, il furore delle chitarre, unito all'innocenza delle linee vocali: tutto punta verso l'Inghilterra
di metà anni 80, al twee pop di Shop Assistants e Talulah Gosh, all'alba dello shoegaze. Ma è evidente pure
l'amore per i 50s, i girl groups, l'inevitabile Wall Of Sound
spectoriano. Elementi che abbiamo già visto combinare
insieme altre volte, non ultimi dai danesi Raveonettes.
I Will Be però è un'opera coincisa e focalizzata come
non si ascoltava da tempo in questo ambito.Vi troverete
undici tracce coincise e dirette, come qualcuno che ti
da subito del tu e che dimostra di conoscere tutto di te,
comprese le tue debolezze.(7.1/10)
Diego Ballani
Edible Woman - Everywhere At
Once (Sleeping Star, Aprile 2010)
G enere : post - math - noise
Già in supporto ai Jesus Lizard, le prime avvisaglie di
un suono più scarno e tirato s'erano sentite. Ora la conferma si chiama Everywhere At Once ed è un disco
potente, screziato, frastagliato, per certi versi spiazzante
sin dall'accoppiata iniziale Slightly Shifted e A Small Space
Odissey. La prima un bozzetto da filastrocca pop 60s; la
seconda un farfisa spacey che fa tanto anni '70 ma che a
metà della sua folle corsa si slabbra in una nenia psych
che tritura Barrett e Kubrick.
Ad accompagnare gli Edible Woman c'è un nutrito stuolo di ospiti di rango: dai produttori Mattia Coletti e Lorenzo Stecconi (Lento) che prestano chitarra acustica
e lowtuned al sax di Roberto Mazzoli e Marco Emoli.
Ma non è questo il nocciolo della questione. Sono Andrea Giommi (basso, voce), Federico Antonioni (synth)
e Nicola Romani (batteria) ad aver lavorato di cesello,
cercando di affinare un suono che, potente, spigoloso e
dissonante quanto si vuole, mostrava già in The Scum
Album la volontà di superare se stesso. I tre hanno coraggiosamente scelto la via della bastardizzazione delle
coordinate (post)math-noise adagiando le curve a gomito e le abrasioni di genere su un senso del pop che in alcuni casi (Goran Sarajlic) sfiora la melodia psych-pop alla
Eno, in altri (Entomology) propone ballate malinconiche,
in altri ancora (To My Brother) sembra distorcere il già
devastante procedere oneidiano in una sorta di mayhem
tribale e schizzato. Un po' come accade con cover ed artwork, tutto è riconoscibile, seppur trasfigurato.(7/10)
Stefano Pifferi
Electric President - The Violent
Blue (Fake Four Inc., Marzo 2010)
G enere : I ndie pop
Barcamenarsi tra sottotesti glitch ed estetica indie pop
non è cosa tanto semplice. A giocare con la fragilità e
la delicatezza del pop da cameretta si rischia di riempire bicchieri di aria e far scappare i clienti. Gli Electric
President son bravi gestori e lo si era capito sin dai
due dischi su Morr, edificati con abilità tale da far trasparire la propria personalità pur adeguandosi all'identità
musicale dell'etichetta stessa. Scongiurati rischi di noia e
maniera, reggono ancora bene i sottili equilibri alla base
del precedente Sleep Well quanto di questo The Violent
Blue.
Ancora i Death Cab For Cutie e i Grandaddy più
soffici come riferimenti per pezzi caratterizzati da elettronica sobria e chitarrine languide, al servizio un indie-pop vellutato ma capace di alternare duri colpi allo
stomaco (Nightmare No.5 Or 6) e carezze seduttrici. A
conferma di tutto poi, All The Distant Ships poteva segnare il tracollo: pezzone di più di otto minuti ad alto rischio
di sbadigli e palle rotolanti. E invece è delizioso e il pezzo
migliore di The Violent Blue, lavoro colmo di amarezza incantata quanto il battito d'ali di una farfalla appena
nata che svolazza beata incontro alla morte.(7/10)
Giampaolo Cristofaro
Eleh - Location Momentum (Touch
Music UK, Marzo 2010)
G enere : elettronica drone
Dopo una serie di uscite relegate alla pubblicazione vintage su vinile, l'enigmatica sigla che risponde al nome di
Eleh (Compositore? Band? Androidi?) approda al primo
parto su supporto digitale vero e proprio per i tipi della
Touch, con quello che possiamo definire un riassunto
generale della propria estetica. L'intero progetto, per sua
stessa ammissione, ruota intorno ai massimi esempi di
minimalismo sonoro, nella fattispecie La Monte Young,
Elian Radigue, Charlemagne Palestine e Pauline
Oliveros. La strumentazione si adegua di conseguenza
utilizzando un sintetizzatore analogico / modulare, un
oscillatore e a tratti (molto rari) chitarra e piano.
Il risultato finale è una caduta a peso morto nelle frequenze più disumane ed estreme della drone music
elettronica, in un regno asettico che ricorda i suoni
più incontaminati di certa elettronica cheap neozelandese (Seht, Omit).
Il parto su Touch riassume
tutti i capisaldi dell'operazione: loop ripetitivi attenti
ai granuli più minimi dello
spettro sonoro (Heleneleh),
giochi di mixer per astratti
diagrammi sonori (Linear To Circular / Vertical Axis), sculture
sonore informi su pattern ritmici deturpati su frequenze
hyper-bass (Circle One: Summer Transcience), chip digitali
e rumorismo informale da eden androide (Observation
Wheel), elettronica vintage con spettrogramma valvolare (Rotational Change For Windmill).
Davvero troppo ermetico per la maggior parte della
sua durata, il progetto di Eleh è destinato ad attrarre e
respingere allo stesso tempo. Solo per appassionati del
settore.(6/10)
Antonello Comunale
Elton Junk - Loophole (Forears,
Marzo 2010)
G enere : indie psych
Lucidità è la parola giusta per iniziare a parlare di Loophole, quarto disco degli Elton Junk. Sembra che il trio
tosco-emiliano abbia finalmente trovato la quadratura
tra entusiasmo e consapevolezza, azzeccando un'apertu49
highlight
Extra Life - Made Flesh (LoAF, Marzo 2010)
G enere : math - prog
Dopo essersi aggiudicata la ristampa di Secular Works, la LoAF licenzia anche il seguito, il CD Made Flesh
(in vinile stampato dall'italiana Africantape), carne viva ma sofisticatissima, ovvero il nuovo lavoro di Extra
Life. Charlie Looker continua la parabola progressiva che contrappunta i rumori di Zs, e lo fa ancora con
un prog principalmente derivato dalla voce, sempre sul limite dell'eccesso, ma evidentemente già marchio
distintivo, insieme all'impianto musicale dirompente ma distaccato.
È evidentemente un prodotto che guarda agli anni novanta, ma non per questo lo mettiamo a distanza; la derivazione non è derivatività, il riferimento
esula dal già sentito. L'accordatura (scordatura?) delle chitarre sembra citare
Glenn Branca (con cui Looker ha lavorato, in passato). Le note dei riff
sembrano seguire una legge di rimbalzo regolare di una pallina nel flipper. La
ritmica è scontrosa, asimmetrica ma regolare (come nei Novanta?) - e tiene
splendidamente in Easter, contrappuntata da un barrito quasi mistico.
Made Flesh è pervaso da una sorta di epicità, che però viene ponderata in
quelle strutture e ratio difficilis ereditate dal decennio pre-'00. Sentite la title-track e ne avrete prova, con
quell'afasia con cui culmina e ri-culmina il crescendo tensivo. Le atmosfere arrivano a essere invece quasi
madrigaliste in One of Your Whores (se non dessero l'impressione di esplodere da un momento all'altro, ci
ricorderebbero nientemeno che Desertshore). Peccato per il finale un po' imbarazzante, che chiude la
suite di The Body Is True. Ci ricorda le invasature del metal ma suggerisce anche che forse l'impasto di mondi ala fine troverà un ascoltatore terzo (o meglio quarto, quinto) rispetto a quelli appassionati ai generi e
ai mondi da cui gli Extra Life provengono.(7.2/10)
Gaspare Caliri
ra del ventaglio sonico-stilistico impressionante (un viaggio tra psych e wave passando da scorribande desertiche,
escursioni cinematiche e avant-pop) senza mai mollare la
barra, senza mai sembrare altro da se stessi. E la scrittura segue nello stesso solco, disimpegnandosi benissimo
tra malsana circospezione Black Heart Procession
e squilli Calexico (Summer), ballate Eddie Vedder col
ruggito in canna (All Along The Horizon), indolenza Tim
Buckley in mezzo a narcosi Gun Club (la title track),
asprezze teatrali Killing Joke (Police Officer) e frenesie
Talking Heads sbilanciate Nick Cave (Lost).
Riescono a sorprendermi non poco con una The Power
Of Love melmosa come un Johnny Cash rifatto dal più
torvo Mark Lanegan e soprattutto con la conclusiva
Del Miele che in qualche modo mette in cortocircuito
La Crus e Laurie Anderson. Senza contare la prova
di bravura di The Beast Called Rock'n'Roll, spigoli wave,
distensione emomelodica e coaguli Stooges celebrando la nostra bestia preferita. Sottolineata con piacere
la presenza di Nicola Manzan aka Bologna Violenta al
violino, non resta che ribadire: gran bel disco. (7.4/10)
Stefano Solventi
50
Fenn O'Berg - In stereo (Mego,
Marzo 2010)
G enere : P ost -D igital
Nove anni fa li lasciavamo in un crashing generale. L'inizio e la fine di un genere, così forte era l'onda d'urto.Trasversalismo, fusione di elementi, l'intenzione di sorprendere ancor prima che narrare. E due lustri, nella musica
elettronica sperimentale odierna sono come novanta
anni di profilassi rock, soprattutto se parliamo del ritorno di chi aveva squadernato tutti i binari della ricerca
elettroacustica con due dischi manifesto.
Vederli tornare come fantasmi, quasi si trattasse di una
seduta spiritico-digitale, fa un po' impressione; dedurne
linee e percorsi attuali, alla luce delle carriere personali
probabilmente rende le cose più facili. Christian Fennesz
ha intrapreso costruzioni granulari minimali, Peter Rehberg, con KTL, costipato il noise in forme analogicozen col gusto M.B., Jim O'Rourke coltivato la purezza
faheyiana nell'ultimo The Visitor.
Così In Stereo, è un disco di coesione, di struttura e
prima di tutto un disco giapponese: giocato nipponicamente tra puro e spurio, tra l'alternarsi di movimenti
costruttivi, ed elementi di disastosi ricorsi ad un'analogia
dotata di rimasugli ante-litteram e circuit-bending che
una decina di anni fa solo pochi potevano vantare. Un
disco giapponese perché registrato in quel di Tokyo, una
città futurativa dai ritmi e dai movimenti fantasmatici, di
cui il solo O'Rourke è di casa.
Al di là di tutto questo però, In stereo rappresenta un
disco pre-contemporaneo, levigato, discorsivo, strutturato. Un atteggiamento molto più concreto dunque, sul
punto di tornare all'origine attraverso la costruzione di
snodi e circuiti propri di una struttura rock, in barba a
chi riteneva che il glitch fosse l'assenza di soluzioni o
il momento mori del linguaggio elettronico. Recuperati
i fossili, ovvero le strutture di base di un suono minaccioso, ed a tratti operistico, il trio privilegia la parscostruens, e così ecco gettare nero su bianco, imprimendo al lavoro, l'intento di un'opera enigmatica e per certi
versi addirittura rigenerante per l'elettronica tutta (sul
vinile è presente una bonus-track che da sola vale tutte
le tracce dell'album)(7.5/10)
Salvatore Borrelli
Fionn Regan - The Shadow Of An
Empire (Heavenly, Febbraio 2010)
G enere : F olk -R ock
Secondo disco per il menestrello di Dublino. Amante di
Leadbelly quanto dei Nirvana, Fionn si dimostra infatti perfettamente capace di elaborare ispirazioni antitetiche, rendendole felici compagne di viaggio ed espressione di una cifra stilistica sempre più compiuta. Partenza
con chitarre in twangle, piglio sbarazzino e sarcastico
degno dei migliori Libertines (Protection Racket e Coat
Hook renderebbero viola di invidia Pete Doherty), ritornelli killer che si infilano sotto pelle ed entrano in
heavy rotation nel sistema circolatorio.
Da Genocide Matinee in poi gli archi voltaici di puro istinto rock'n roll si estinguono e rinascono a nuova vita in
acute incursioni di incantato e incantevole cantautorato
folk, tra energia ed estasi melodica bilanciate con consumata sapienza.
Mutevole e caleidoscopico The Shadow Of An Empire: Violent Demeanour è ciò che sarebbe scaturito da
una jam tra Violent Femmes e Nick Drake, torch
song dalle minuzie western Lines Written In Winter, House Detective è un congegno di pulsioni rock alla Chuck
Berry remixate da Lee Hazlewood. E poi dolci fitte
al cuore di romanticismo alcolico Little Nancy, estro e
profonda emotività nell'accorata preghiera di frontiera
di Lord Help My Poor Soul, piano, voce e la pelle diventa del tutto splendida con la title-track a suggellare una
promessa mantenuta.
All'uscita del debutto The End Of History, la speranza
di aver scovato un talento era palpabile. Ora è sbocciato.(7.3/10)
Giampaolo Cristofaro
First Aid Kit - The Big Black And The
Blue (Wichita Recordings, Gennaio
2010)
G enere : F olk
Con un'abile strategia di marketing i boss Wichita han
permesso alle sorelle Johanna and Klara Söderberg di
"arrivare" anche aldilà della loro Svezia. è bastato ristampare l'ep Drunken Trees del 2008. rimpinguarlo con
una cover dei Fleet Foxes (Tiger Mountain Peasent Song,
piuttosto calligrafica) e tre versioni live di nuovi pezzi
non inclusi in questo debutto. La cifra stilistica del duo
di Stoccolma è rimasta in sostanza la stessa, molto vicina
all'austera eleganza di certe composizioni targate Laura Veirs, Alela Diane e Marissa Nadler. Una buona
coralità sonora e caldi impasti vocali poi, ben si amalgamano all'affresco pastorale disegnato in ogni pezzo pur
peccando in varietà. Lì dove il recupero di stilemi folk di
stampo britannico non è sorretto da una scrittura capace di convincere per personalità, The Big Black And
The Blue scivola nella maniera. E allora ci si ritrova ad
essere piacevolmente cullati dalla melodia cristallina nutrita a mandolini squillanti di Hard Believer, elettrizzati dal
saltellare country di Sailor Song, ammaliati dall'ispirato
fingerpicking di Heavy Storm o dall'organetto caricato a
melanconia di Ghost Town. Ma poi perplessi per i motivi citati poco su. Scivolano via senza emozionare In The
Morning e Josefin e si sconfina nell'aurea mediocritas da
A Window Opens (con il fantasma di Will Oldham a farsi
una passeggiata) a Will Of The River.(6.4/10)
Giampaolo Cristofaro
Frightened Rabbit - The Winter Of
Mixed Drinks (Fat Cat, Marzo 2010)
G enere : I ndie
Che attraversino le lande Sebadoh discorrendo con
Sonic Youth e Oneida sulla loro identità (l'esordio
Sing the Grays, 2007), o cavalchino folkeggianti stalloni acustici con inaspettate reminiscenze Counting
Crows (il seguito The Midnight Organ Fight, 2008)
ai Frightened Rabbit non riesce mai di muoversi dal
canovaccio che disco dopo disco decidono di gare loro.
E pure The Winter Of Mixed Drinks non è da meno,
nonostante l'ingresso di un quinto elemento (Gordon
Skene: chitarra, tastiere, cori) e l'ottima vena della scrittura di Scott Hutchison.
Lo spunto è un recupero new wave portato a casa pardon: al college - con virulenta energia tutta canadese.
51
highlight
Ikonika - Contact, Love, Want, Hate (Hyperdub Records, Aprile
2010)
G enere : wonky - step
In un momento in cui il dubstep è solo uno dei possibili generi, le etichette che contano si fanno notare
smarcandosi dai tag più prevedibili. Una di queste è (da sempre) la Hyperdub del DJ e teorico Kode9.
Invece che andarci di melodia o di ritmi affini alla techno, il nuovo acquisto
Sara Abdel-Hamid punta sulla produzione.
La ragazza propone un album contaminato dai giochini per nerd degli amici
wonky, infatuati per il lo-fi a 8 bit (Idiot, R.e.s.o.l), ma non si nega nel contempo alle profondità di esplorazione dubstep del capitano Nemo aka Scuba
(Yoshimitzu: sogno e distopia bladerunneriani). In più, grazie all'amore per le
Roland, si anima con le istanze house old school (They Are All Losing The War),
si scontra con il canone dei laser superimposto dalla label (Heston) e non
resiste alla prova di contaminazione con ritmiche che ricordano l'uptempo/
baile di M.I.A. filtrato dalle visioni di Zomby (Psoriasis), per concludere con una nostalgia ereditata dai
Crystal Castles mescolati a Kavinsky (Video Delays).
Che il suono di Londra sia un continuum lo sapevamo ma che una ragazza potesse uscirsene con un trattato così complesso di ritmiche e di spensieratezza elegantemente misurate, proprio non ce l'aspettavamo.
Un concentrato di idee e di savoir faire musicale inusitati. Primo disco dell'anno per chi scrive.(7.5/10)
Marco Braggion
Reich, il nuovo album dello svizzero Gilles Aubry riprende il tema della deportazione degli ebrei nella Germani Nazista.
Solo che s6t8r sostituisce agli arrangiamenti orchestrali
e ai campioni vocali del padre del minimalismo lo spazio
gonfiato di rumore di una stanza deserta.
L'effetto, ottenuto grazie a registrazioni effettuatte nelle
stanze dello Stralau 68 - storica sede berlinese che ospita concerti di musica sperimentali - è di un paesaggio
reiterato di elettronica plasmata con field recordings,
drones e loop di eventi acustici originariamente privi di
significato.
Suddiviso come Different Days in tre parti, s6t8r dedica la prima a drones e microvariazioni armoniche, la
seconda a fluttuazioni e rimbalzi e la terza al dispiegarsi
di fonti sonore che finalmente elicitano il loro referente,
che sia soffio di un vento che filtra dalla finestra o, rumore dei treni della metropolitana.
Trecento copie in tutto e un cartonato impeccabile per
un progetto che riesce ad equilibrare estremo rigore formale con mobilità ed emotività di stampo ritmico.(6.6/10)
Sara Bracco
In pratica l'impazienza di chitarra e batteria e la coralità anthemica degli Arcade Fire talvolta ulteriormente
infiammate da incandescenze elettriche o facilitate da
apertura di ritornelli alla meglio. Ciò che ne esce è piuttosto divertente e ben suonato, ma troppo omogeneo.
Meglio prenderli per singoli episodi allora (Things, Skip
The Youth) o sperare che al quarto disco provino a stupirsi, e a stupirci.(6.4/10)
Luca Barachetti
Giancarlo Frigieri - Chi ha
rubato le strade ai bambini?
(Autoprodotto, Marzo 2010)
G enere : folk autorale
Non ha perso tempo Giancarlo Frigieri a dare un
seguito alla svolta in italiano de L'età della ragione.
Tanti anni ci sono voluti per decidere quel passo da lui
ritenuto difficilissimo, tanto urgente sembra oggi la voglia di dare voce al mix di sentimenti che gli si agitano
dentro, come se avesse finalmente trovato il codice più
efficace o forse quello più giusto. C'è uno sgomento arrabbiato, c'è sarcasmo disarmante, c'è il bisogno di recuperare poesia attraverso il pessimismo, l'amarezza, lo
sdegno. Soprattutto, c'è il bisogno di cantare come atto
improcrastinabile, meno liberatorio che accusatorio, più
cerebrale che viscerale, come gesto che stabilisca le di52
stanze tra sé e tutto il resto e quindi definisca il Frigieri
(l'uomo prima che l'artista) come sensibilità disallineata,
(e quindi) viva.
Molto più propensa al cantautorato che al rock, e non
solo per la veste perlopiù acustica (a proposito, molto
belli gli interventi al flauto di Max Marmiroli e all'organo
di Federico Barbieri). Se avverti un po' del piglio Giorgio Canali (soprattutto nella title track e Le disgrazie),
a prevalere è però un incedere narrativo vicino al miglior Vecchioni o se preferite a un Guccini più asciutto,
scomodando altrove il Gaber più lirico (nella trepida
L'ipotesi) ed il De Gregori arguto (Colleghi). Per non
scordare l'immancabile De André (palpabile in Canzone
del 9 novembre) e fermi restando i rimandi al folk d'oltreoceano (particelle Steve Wynn e Bob Dylan in La vita
che ti ha scelto).
Disco fieramente, lucidamente, sprezzantemente obsoleto. Che l'autore ha provveduto a stampare anche
in formato vinile 180 grammi. Più o meno imperdibile.(7.4/10)
Stefano Solventi
Gilles Aubry - s6t8r (Winds
Measure Recondings, Luglio 2009)
G enere : elettronica
Sulla scia del monumentale Different Trains di Steve
Goldfrapp - Head First (EMI, Marzo
2010)
G enere : dance pop
Col quarto album i Goldfrapp finalmente portano a
compimento la loro missione. Un percorso lineare, a
ben vedere, che forse solo oggi è possibile scorgere con
assoluta chiarezza. Felt Mountain fu un esordio formidabile, eppure messo in prospettiva sembra un episodio
occasionale nella carriera del duo: quel ricercare suggestioni oblique tra barbagli cinematici malfermi, così come
il calore differito dell'aura emotiva, rappresentarono un
tentativo (riuscito) di scavare un pertugio sofisticato nel
pop di largo consumo, gratificando allo stesso tempo i
neuroni più scafati e quelli un tanto al chilo, con una disinvoltura che parve francamente straordinaria.
Nei lavori seguenti è accaduto però uno sputtanamento
progressivo a base di glam danzereccio e ballate sciroppose, sostenuto da un sempre più accurato e screanzato
impiego del look, sorta di anello mancante tra le pose di
Madonna (a proposito: in copertina la somiglianza tra
Alison e la Ciccone è sconcertante) e l'ultra-glamour di
Lady Gaga. Con Head First, infine, tutto si compie:
canzoni che sembrano schizzare fuori da una capsula
del tempo dove qualcuno ha voluto shackerare gli eighties ipotizzati da Abba e Moroder, i vezzi a perdere
di piccoli calibri dimenticati tipo gli Industry e quelli
stra-ruffiani dei Van Halen col synth. Il risultato è una
tracklist incredibilmente vacua e affabile che spopolerà
nelle radio da qui a qualche mese. Lo sputtanamento è
così totale da suscitare un certo rispetto. (4.5/10)
Stefano Solventi
Goodnight Loving (The) Arcobaleno EP (Wild Honey, Marzo
2010)
G enere : C ountry - F olk
La nostrana Wild Honey ha un vero e proprio culto per i
Goodnight Loving di Milwaukee. Dopo aver pubblicato la versione europea del loro ultimo omonimo album,
portati in tour e curato la distribuzione in patria, ecco
un nuovo EP dalla lussuosa veste grafica: un 12 pollici
stampato su un lato solo e serigrafato sul secondo in cui
i ragazzi del mid-west virano leggermente dai luccichii
pop dei precedenti dischi per concedersi una pausa più
intima.
Prova ne sono il folk in levare di 4&3 ed il country placido di You'll Own My Heart, cui si aggiungono le fascinazioni western di Sweet Clover e quelle byrdsiane di Pinalope,
il pezzo più struggente. Una gustosa parentesi prima del
prossimo full-lenght.(7.1/10)
Andrea Napoli
Gorillaz - Plastic Beach
(Parlophone, Marzo 2010)
G enere : H ip hop
Penso a quello spot che gira molto in questi giorni. Ragazzi neanche trentenni appollaiati su un cartellone pubblicitario. A non fare un cazzo e canticchiare una canzoncina di enorme successo. Trattasi di Clint Eastwood, il
primo grande successo dei Gorillaz. Situazione perfetta.
Emblematica. Grandi investimenti, disinvoltura prossima
all'indolenza, l'atteggiamento scafato di chi non ha
bisogno di entusiasmarsi
troppo, ché ci pensa l'organizzazione a mettere in
piedi i giusti canali. E poi, in
ogni caso, sbattersi non fa
troppa differenza.
I Gorillaz nenache esistono davvero. Sono cartoon. E giocano. Come anche - e
soprattutto - in quest'ultimo disco: tra hip-hop e soul
sonnolento, slackerismi nineties e pop-psych da supermercato, elettro-funk e tentazioni house, guarnizioni
kitsch anni ottanta e certi curiosi rimandi alle traiettorie
cosmic-disco dei seventies. è un gioco da professionisti. Non si bada a spese. Nel singolo Stylo ci sono Mos
Def ed il vecchio, glorioso Bobby Womack. Nel pa53
sticciaccio laser-disco-punk di Glitter Freeze c'è Mark E
Smith. Nell'esotismo posticcio della title track ci sono
quei mattacchioni di Mick Jones e Paul Simonon. In
Some Kind of Nature chiamano addirittura Lou Reed a
fare il robottino di plastica in una ballatina tanto arguta
quanto insulsa. E non vi ho detto dei De La Soul, degli
svedesi Little Dragon, di Gruff Rhys già Super Furry
Animals.
Più che un disco è una SPA. Una multinazionale postmoderna del suono pop. Prima di sfornare un prodotto
fa ricerche di mercato. Nel caso specifico, meno Londra
e più America. Comunque è tutto un sintetizzare gusti
tirando righe traverse per poi cantarci sopra, con quei
modi da upperclass afroamericana supercool che non
deve urlare perché basta metterla giù svaccati sul divano.
Ed è una tracklist che si commenta in modalità Sanremo.
Tutta roba già fatta anni prima e riproposta come se fosse l'ultima edizione di. I Gorillaz sono gli U2 per la massa
generazionale successiva che su Mtv il rock non glielo
hanno passato più. C'è fascino comunque e sempre nel
Damon maliconico eterno ragazzo fuori dai giochi. Nei
suoi occhi: il ragazzo Novanta che nei Duemila ha capito
tutto e si sente mica tanto bene.(7/10)
Stefano Solventi
Growing - Pumps (Vice Records,
Aprile 2010)
G enere : industrial
La transizione che è avvenuta in seno ai Growing è ormai del tutto compiuta. In Pumps troviamo un suono
elettronico industriale volutamente datato e del tutto
incentrato sull'ossatura ritmica delle batterie elettroniche e sull'interazione (sempre ritmica) delle punteggiature create dalle tastiere. Un sound che ricorda tanto i
pionieri dell'EBM (Pankow su tutti, sin dall'inziale Short
Circuit) quanto i Krafwerk - i primi Ralf & Florian, raramente, (Drone Burger), ma
spesso quelli più tardivi.
Strutture e timbri che hanno molto di fantascienza
vintage (ma di derivazione
'80), e non si spingono molto in là rispetto ai due riferimenti citati (forse solo
nello step di Challenger arrivano a intraprendere un
dialogo verso altri pilastri, vedi Mark Pritchard). Ma
di kraftwerkiano c'è anche una certa ironia o leggerezza
giocosa, nel settimo lavoro in studio dei Growing. Lo
studio, a questo proposito, è una chiave fondamentale
di lettura e il risultato è un lavorio che arriva alle orec54
chie, nel delineare i primi piani delle tastiere e nel creare
e trattare, laddietro, dietro gli angoli delle strutture, gli
spazi delle voci (Highlight).
Manca però la permanenza, dentro ai padiglioni auricolari, degli otto pezzi di Pumps. Non si può dire che qualcuno rimanga tatuato nei neuroni, semmai vi vaga un po'
e poi si spegne. Colpa (o intenzione) forse contenuta
nell'avvicendarsi dei brani, che sembrano incastrarsi tra
loro e puntare più all'effetto di insieme. Ma, di scala in
scala, neanche il contenente ha la capacità di far memorizzare il contenuto. Resta un'impressione di poliritmo
marziano (non lontano dai Black Dice), non a caso il
collante della conclusiva Mind Eraser - con echi di voce
alla Throbbing Gristle. Una spersonalizzazione, in una
parola. Ma non è detto che sia l'ultima parola.(6/10)
Gaspare Caliri
Happy Birthday - Happy Birthday
(Sub Pop, Marzo 2010)
G enere : A lternative
La Sub Pop è un'etichetta che sta cambiando pelle. Passata in secondo piano la cotta per la formula alt.country
che ne ha caratterizzato le produzioni recenti, è tempo
di guardare altrove. Meglio se al passato. Così, fedele a
quel corollario della legge dell'entropia che afferma che
nel pop nulla si crea e nulla si distrugge, l'abbiamo vista
rinfrescare la propria estetica con il noise degli AFCGT,
gli abboccamenti grunge dei No Age e il lo-fi di Dum
Dum Girls e Male Bonding.
Adesso è la volta dei celebratissimi Happy Birthday,
il cui noise pop si inserisce perfettamente in quella riscoperta del sound dei primi 90s che pareva inevitabile
dopo quasi un decennio di 80s revival. L'incipit di Girl FM
farà subito girare la testa ai nostalgici di quel pop sbilenco che una ventina d'anni fa era patrimonio di gruppi
squisitamente perdenti come Superchunk e Archers
Of Loaf. Chitarre che incespicano, ritmiche spezzate,
spasmi rumoristici e slackness di fondo: tutte cose che
scalderanno il cuore a chi (come il sottoscritto) è cresciuto a pane e Pavement.
Purtroppo, con lo scorrere dei pezzi, si fa strada la fastidiosa impressione che Kyle Thomas e compagni amino
unire questi elementi ad un'inopportuna passione per
certo stucchevole pop dei 70s, roba alla 10cc per intenderci, ovvero quella parte di storia del pop che neanche
il tempo è riuscito a nobilitare. Un connubio capace di
generare strani ibridi a base di chitarre a bassa fedeltà,
assoli tamarri e falsetti che sfiorano la parodia.
Peccato davvero, anche perché altrove il gioco funziona: succede quando le melodie si fanno più compiute, la
voce meno nasale e il chitarrismo, pur restando piacevolmente slabbrato, diventa più essenziale.
Segno che la misura resta una dote da cui è impossibile
prescindere.(5.5/10)
Diego Ballani
High Places - High Places vs.
Mankind (Thrill Jockey, Aprile
2010)
G enere : M eta pop
Ciò che colpisce del sophomore degli High Places è il
salto di qualità di un progetto già nato sotto i riflettori
della critica specializzata di mezzo mondo. Nello splendido High Places vs. Mankind i suoi protagonisti sono
passati da un approccio dominato dall'elettronica bric a
brac di Animal Collective e Black Dice a un maturo guitar sound, un nuovo livello in scrittura alla giusta
distanza da certa oscurità Ottanta, e soprattutto la voglia di melodie cristalline di
stampo 4AD.
Come per l'esordio, i brani scorrono sicuri lungo le
linee (leggi le tape) psychesotiche - e a tratti dub
- dell'esordio, con la differenza che sopra di esse si
poggiano i refrain wavey
della chitarra di Barber e il canto dreamy - o pop tout
court - di un'incantevole Pearson. Ed è proprio come
se il combo volesse porsi a contraltare ideale del metapop dei compagni d'etichetta Pit Er Pat. Stesso fascino
e qualità per obbiettivi differenti, con il duo a puntare
al cuore di una personale missione sonica: una morbida lievitazione dagli smalti appena ingialliti, una maniera
escapista, afosa e senza nostalgie sotto la quale si balla
anziché no.
Nelle loro parole, se il precedente sforzo era tutto bellezza e crescita, il presente si focalizza sul concetto di
essere umano e sull'interazione. Massimi sistemi per una
collezione di tracce facili, ricchissime di spunti e meglio
di ogni altra cosa, potenti. (7.3/10)
Edoardo Bridda
Holly Miranda - The Magician's
Private Library (XL, Marzo 2010)
G enere : dream pop
Holly Miranda bazzica l'ambiente newyorkese già da
qualche anno. Si era fatta conoscere come opening act
per The XX, Scott Matthew, Vampire Weekend ed
era frontwoman dell'indie act The Jealous Girfriends da
Brooklyn. Ora con un piccolo aiuto da parte degli ami-
ci TV On The Radio (Kyp Malone, Jaleel Bunton) e
soprattutto Dave Sitek (amico fin dagli esordi e anche
producer del lavoro), approda all'esordio firmando una
musica atmosferica molto vicina ai colori di una Bat For
Lashes o meglio di una Bjork, influenza primaria per
questo genere.
The Magician's Private Library oscilla tra indie
pop atmosferico, numeri psych debitori ai Pink Floyd
(Joints), dream pop d'annata, melodie XTC-iane (il già
citato Joints), il tutto colorato dalla mano onnipresente
di Sitek che arricchisce il suono di sfumature pur senza
appesantirlo. Un esordio interessante.(7/10)
Teresa Greco
Ilaria Pastore - Nel mio disordine
(Totally Unnecessary Records,
Febbraio 2010)
G enere : folk - pop
Una Cristina Donà jazz, la Consoli più elegante, il folk
bucolico dell'ultimo Moltheni. Ilaria Pastore sta esattamente in mezzo, con una proposta che lavora per sottrazione, prediligendo una musica d'autore ordinata, dagli
arrangiamenti sobri e naturalmente predisposta al virtuosismo vocale. Insomma, il "disordine" del titolo è solo
supposto perché tutto quadra in questo esordio a cui
collabora in veste di arrangiatore e produttore il collega
d'etichetta Gipo Gurrado, in arte Nolan. Dall'intimismo di Addosso alle declinazioni sudamericane di Miele,
dalle basi dispari di Fermo immagine al pop di La chiamano
notte.
Manca un po' di coraggio. Per andare oltre l'opera tecnico-compilativa, evitare l'effetto piano-bar e approdare
a una dimensione musicale peculiare lontana dalle solite
confezioni pop-melodiche.(6.4/10)
Fabrizio Zampighi
Jaguar Love - Holograms Jams (Fat
Possum, Aprile 2010)
G enere : synth - wave
Restano in due i Jaguar Love. Per chi si fosse perso la
puntata precedente (Take Me To The Sea di un paio di anni
fa) la defezione riguarda il batterista Jay Clark, così che
ormai la sigla è roba degli ex Blood Brothers Cody
Votolato e Johnny Whitney. E se possibile i due riescono
a fare anche peggio di quel disco, già piuttosto brutto di
suo.
Andiamo però con ordine. Per primo le musiche: quanto
di più banale si possa estrarre da synth, drum machines e
chitarra. Immaginate i Death From Above 1979 senza
ironia e con un centesimo dell'impatto, impegnati in una
synth-wave danzereccia finta e melensa. Un concentrato
55
di finto-spigolosità alternativa inscenato su immaginari
futuribili quanto poteva esserlo la scenografia di Spazio 1999. Poi la voce. Quella di Whitney è sempre stata
particolare con quel falsetto schizoide e da castrato, ma
all'epoca era funzionale alle riottose aperture screamo
dell'ex band. Inserita in un contesto catchy zuccherosamente elargito per le comunity finto-ribelli post-MTV, si
trasforma in un'arma di devastazione di massa. Roba da
orchite immediata e senza possibilità di fuga. Forse c'è
un intento ironico dietro tutto ciò, ma se così fosse non
l'abbiamo colto.(4.5/10)
Stefano Pifferi
Jahcoozi - Barefoot Wanderer
(BPitch Control, Aprile 2010)
G enere : dub minimal
Gli Jahcoozi sono Sasha Perera (cingalese di Londra),
Robert "Robot" Koch (berlinese) e Oren Gerlitz (nato
a Tel Aviv). Sasha è la voce - ma anche l'immagine - del
gruppo; Robot e Oren si occupano delle basi, produzioni
e basso elettrico rispettivamente. La loro fortuna è stata
piacere a John Peel, che nel 2003 mise il loro debut EP
Fish tra le sue cose preferite del momento. Con tutto
l'hype che ne era potuto seguire. Il primo album, Pure
Breed Mongrelera (2005), era ottimo, una miscela molto ben studiata di dub, ragga, pop (un pezzo ammiccava a
All That She Wants), breakbit ed elettronica minimale.
Questo terzo album, pubblicato dalla label di Ellen Allien, asciuga al massimo il loro stile, cosa potenzialmente molto interessante (nonché volano assicurato per una
pletora di rmx), ma registra pure un abbassamento della
qualità sotto il profilo compositivo. Tra numeri sexy e
catchy e feat ragga tutti abbastanza già sentiti, il punto
più basso lo si tocca con l'inciso di tastierazze di Close
to Me, una sbracata imperdonabile. Peccato, perché un
due-tre pezzi tra quelli più intimisti - rarefatti tappeti
elettronici stesi a uso esclusivo della bella voce di Sasha sono davvero interessanti (Zoom In Fantasize, Barricated)
e anche il rappato di un ospite di lusso come M. Sayyd
degli Anti-Pop Consortium (influenza tra le più sbandierate dal gruppo berlinese d'adozione) risulta molto
riuscito.(6.3/10)
Gabriele Marino
Johann Johannsson - And In The
Endless Pause There Came The
Sound Of Bees (Type Records,
Marzo 2010)
G enere : cl as sica soundtrack
Johannsson è l'ultimo dei maestri della classica contemporanea approdato al circuito delle etichette rock orien56
ted. Dopo due lavori largamente apprezzati dai fan del
settore, Fordlândia e Englaborn, entrambi su 4AD, che
il compositore islandese arrivasse a pubblicare anche su
Type era solo una questione di tempo. And In The Endless
Pause There Came The Sound Of Bees sembra essere il lavoro ideale per l'etichetta di Xela.
Trattasi in pratica della colonna sonora del film di animazione intitolato Varmints, diretto nel 2008 da Marc
Craste, quindi cronologicamente parliamo di materiale
antecedente a Fordlândia, che dopo una primissima tiratura limitata per il tour americano, viene ora proposto
al grande pubblico sull'etichetta britannica. Come
tutte le colonne sonore,
anche quelle più riuscite, si
avverte sempre la mancanza delle immagini. Il sinfonismo si fa per forza di cose,
astratto e descrittivo, alla
ricerca perenne di un senso da dare al tutto, ma Johannson si dimostra assai più
abile e colto degli altri compositori da etichetta "indie".
Non ha paura di misurarsi con i massimi esempi. Si respira l'aria del Prokofiev di Ejsenstejn nei frangenti più
tesi (Escape, Siren Song), così come il romanticismo classico dei Debussy e dei Gorecki (Entering The City, The
Gift). Si avverte anche il piglio islandese, quello magico
e ghiacciato dei Sigur Ros (Rainwater, Pods) e la composizione sinfonica si traduce nell'estetica più contemporanea attraverso l'elettronica agli ultravioletti di Tim
Hecker (City Building). Un lavoro suggestivo.(7/10)
Antonello Comunale
John & Jehn - Time For The Devil
(Naive, Marzo 2010)
G enere : wave pop
Secondo album per questa coppia di parigini domiciliati a
Londra dove più e meglio possono sfogare l'estro postwave, mantenedo altresì un atteggiamento da poseur che
non guasta. La formula sonora è piuttosto variegata, per
non dire slegata, frutto evidente di un calcolo che tenta
la quadratura tra citazione cool ed immediatezza raffinata. Lo senti da come ondeggia tra evidenti richiami Joy
Division-New Order (Shy) e capricci errebì (una Vampire che manda in cortocircuito la Whinehouse e Siouxsie), enfasi Echo & The Bunnymen con additivi Franz
Ferdinand (London Town) e casomai - perché no? - un
retrogusto Arcade Fire (la title track, Down Our Streets), stemperando al bisogno melodie Smiths col brio
balzano Julian Cope (And We Run) oppure ammiccando
certa wave nera come avrebbe potuto il primo Prince
(Oh My Love). Sono interessanti la tenacia, l'arguzia, l'accuratezza dello sforzo produttivo, il "physique du rôle",
quelle due voci che si scambiano i compiti nel modo più
congeniale. Ma tutto suona splendidamente artefatto. è
un disco che andrà bene come sottofondo nelle festicciole per scafati. Casomai.(6/10)
Stefano Solventi
John Zorn - In Search of the
Miraculous (Tzadik, Febbraio 2010)
G enere : romantic Z orn / jazz
è dallo scorso anno che ci ripetiamo su Mr. JZ: semplicemente perché è l'uomo a ripetersi. Torna così il trio
di Alhambra Love Songs, potenziato dal vibrafono
di Kenny Wollesen e dal basso di Shanir Blumenkranz. Ed è ancora lo Zorn romantico e cinematico: jazz
da camera e saliscendi di sapore minimalista - nel senso
del Philip Glass meno avant - per piano e percussioni.
I pezzi sono piacevoli, ma è davvero scocciante sentire ancora autocitazioni che sempre più hanno il sapore
dell'autoriciclo: Sacred Dance sembra una outtake da Invitation To A Suicide (2002). Il disco si salva grazie alla
bravura di Bob Burger (agli acquarelli pianistici Affirmation, Hymn for a New Millenium e Journey for the Magicians)
e al pezzo principale della raccolta, The Magus, lunga dissertazione fusion-prog su un tema in controtempo.
Zorn il miracolo l'ha già
fatto, brevettando una maniera che è riconoscibile,
accessibile e - formalmente
- sempre di qualità. Ma se
per adesso, nella aurea mediocritas su cui si è comodamente appollaiato, l'oro
e la mediocrità si bilanciano ancora piuttosto bene,
niente esclude che nel futuro il secondo termine possa
mettere in ombra il primo.(6.4/10)
Gabriele Marino
Jon Mueller/Jason Kahn - Phase
(Fss, Marzo 2010)
G enere : B l ack droning
Jason Kahn, conosciuto ai più come musicista riduttivo
(usa dei piatti percossi filtrati pesantemente con max/
msp), è anche installatore e performer; Jon Mueller,
batterista sui generis ma comunque non quanto il Kahn,
ha pure lui il vizietto dell'elettroacustica e dell'improvvisazione radicale. Che prima o poi i due musicisti collaborassero insieme esprimedosi nel modo più radicale
possibile, un po' ce l'aspettavamo.
Non si capisce dove finisca il gioco percussivo e cominci
quello dronico né quali meccaniche sottili determinino
queste frequenze sonore cariche di metallo, aria e carne,
né cosa le abbia generate e rimesse in moto per sbalordirci.
Phase non è un disco complesso, non ha né un luogo d'origine, né un tempo se non quello raffermo e grigiastro della percorrenza statica, ma sono proprio gli
elementi imperituri del materiale - così come la forma
ottusamente chiusa su se stessa - a renderlo un lavoro
importante.
Non è musica che richiede attenzione. è piuttosto un
luogo, introiettato e passivo, che fa di quel luogo più vasto e dinamico che è la vita, il suo vascello naufragato ma
fluttuante.(7.2/10)
Salvatore Borrelli
José James - Blackmagic
(Brownswood, Febbraio 2010)
G enere : soul - jazz
Una serie di 12" e di collaborazioni eterogenee (Basement Jaxx, Gilles Peterson, Jazzanova, Flying Lotus) ne hanno segnalato il nome; il debutto The Dreamer ne ha fatto un singer coccolato dai festival e dalle
riviste jazz USA (per alcuni, tra i migliori dischi del 2008).
Il newyorkese José James unisce la tradizione del soul
e del jazz con l'appeal della nowness produttiva tra nu- e
hip hop, ama John Coltrane, guarda a Marvin Gaye e
allo Gil Scott-Heron degli anni Ottanta. La critica lo
ha paragonato spesso a D'Angelo, ma il nostro sembra molto meno incline allo sdilinquimento vocale e più
classic-sided.
Un pugno di pezzi vellutati ed eleganti (Touch, Save Your
Love For Me), ibridi costruiti con intelligenza (lo step-jazz
di Warrior) e le tre produzioni firmate Flying Lotus (la
dilliana intro, Made For Love e la titletrack), non riescono
però a fugare del tutto l'impressione che tiri una certa
aria di autoindulgenza e che sul piano compositivo - la
confezione è impeccabile - sia possibile fare di più. José ha
i numeri giusti - piglio, voce, cura del dettaglio - per farlo.
In coda, un remix by Joy Orbison che guarda alla old
skool house, divertente ma un po' fuori luogo.(6.9/10)
Gabriele Marino
Josiah Wolf - Jet Lag (Anticon,
Marzo 2010)
G enere : indie pop
L'Anticon punta ancora sul suo lato pop. Josiah è il fratello maggiore del più famoso Yoni e il batterista dei suoi
WHY?. Piccoli feat su alcuni dischi del giro, la co-produzione di un EP dei cLOUDDEAD, il debutto solista
57
highlight
MGMT - Congratulations (Sony BMG Music Entertainment, Aprile
2010)
G enere : S ixties psych pop
Tra le giovani e attesissime promesse pop, a pari merito coi Vampire Weekend che hanno bissato non
senza qualche critica lo scorso gennaio, arrivano ora gli MGMT, altro combo in vacanza permanente che
ha deciso peraltro di promuovere il sophomore con le medesime strategie dei newyorchesi (e non solo):
metterlo in ascolto gratuito sui propri canali ufficiali.
Congratulations è innanzitutto un lavoro molto differente dall'esordio e come dichiarato a inizio anno
dal cantante Andrew Van Wyngarden, il duo ha voluto evitare ad ogni costo
"il classico lavoro di cui si scaricano i soli singoli". Dunque a limiti dichiarati,
quand'anche sir Paul McCartney ha espresso il desiderio di lavorare con
loro, e appurata la natura simbiotica di un progetto comunque legato a un
produttore importante, i ragazzi puntano ad andarci sul serio in vacanza
invece di arrivarci pieni di droghe sintetiche.
Dopo Dave Friedmann, c'è un'inedito Pete Kember (che-ve-lo-dico-a-fareSpacemen 3) a tenere le redini. Ed è come ascoltare un'altra band che
contrariamente a quanto tutti s'aspettavano, con le tastiere vintage al posto
di quelle Ottanta e le batterie vere invece delle drum machine, suona molto più friedmann-iana (e melodicamente Flaming Lips) di quanto non lo fosse nella prova precedente. Un salto di qualità contro i
supersingoli. Una manciata di buoni sixties pop che punta più a un compatto crescendo (spesso in contagiosa euforia) che a un pronto consumo anthemico. In qualche caso i brani non bucano, eppure cadono
sempre in piedi, a partire da It's Working, giochetto psych dai contorni canori AIR per uptempo western
in (deliziose) stratificazioni wall of sound spectoriani; oppure nell'altro esperimento indie disco di Flash
Delirium che da un crooning e glamour Bowie-ano sale fino a un'incontrollabile (quanto altrettanto riuscita) schizofrenia arrangiativa.
A catturare in toto troviamo le surfate per tastierina fantasmatica e il bridge jingle jangle di Song for Dan
Treacy, mentre in scrittura piace tutta la seconda parte dell'album dallo psych folk di I Found A Whistle (che
tenta il colpaccio ruffiano riuscendoci quasi) all'apparente semplicità à la Kings Of Convenience di
Siberian Breaks (in verità è un collage di almeno tre canzoni dagli smalti country pop per 12 minuti) e alla
ballatona confidenziale Congratulations.
Infine, a tagliare trasversalmente una collezione di canzoni ognuna con una propria vita autonoma, c'è lo
spettro degli accenni musical delle citate Song For Dan Treacy (Rocky Horror?) e Flash Delirium (Grease?),
aspetti di kitcheria controllata che portano a quella Brian Eno che altro non è che un'adorabile operetta
rockabilly glam. Un tracklist solida come una quercia.(7.5/10)
Edoardo Bridda
con un EP lo-fi nel 2003 e adesso l'album, registrato nel
2008 in solitario ritiro campestre.
Il legame con la band madre si sente ed è forte, siamo
sempre in ambito indie pop e con le percussioni intonate
(marimba) a farla da padrone, ma qui emerge - giocoforza? - una vena più cantautoriale e folkie (particolarmente
evidente in alcuni dei pezzi migliori come Skull in the
Ice). Una vena agrodolce, dettata dalle vicende personali che fanno da sfondo al disco (la fine di una storia
d'amore durata undici anni), che in certi pezzi può ricordare anche i Velvet Underground del periodo Doug
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Yule (That Kind of Man). La voce di Josiah, e lui stesso lo
ammette, è poco educata al canto, sempre un po' trattenuta e stonata, ma questo poco importa. Importa di
più che, per quanto tutto sia ben fatto, è anche tutto un
po' troppo ripetitivo e, alla fine, poco personale: e in un
campo così inflazionato, questo non è certo un dettaglio
trascurabile.(5.6/10)
Gabriele Marino
judA - Malelieve (Il verso del
cinghiale, Aprile 2010)
G enere : rock
Esistono dischi totalmente emo senza possedere una
nota riconducibile all'emo. Malelieve, comeback dei
judA, ne è perfetto esempio. Grunge-rock psichedelico
si definisce il giovane trio, ma forse si va solo di coordinata generica per inquadrare un suono che fa del pathos
e della struggente evocazione emotiva la sua forza, mettendovi al servizio una carica strumentale non indifferente.
Il cantato autoctono aiuta in questo senso, sfruttando certe caratteristiche della lirica in italiano che i tre
- Marco Antoci D'Agostino (basso/voce), Sergio Fossati (chitarra) e Alberto Mangili (batteria) - piegano
sapientemente agli stilemi rock anglofoni alla Alice In
Chains/Soundgarden. Ne è esempio la splendida Il Tuo
Male, lunga suite rock (hard-, post-, heavy-) struggente
e malinconicamente melodica composta di crescendo e
sbilanciamenti vuoto/pieno non banali, messi al servizio
di liriche su mali interiori, illusioni e perdite più o meno
necessarie. Il resto non è da meno nell'appoggiare trame (semi)cantautoriali di stampo indie in metrica libera
(Trema, Invasa Da Umori A Distanza con ospite sua maestà
Xabier Iriondo) ad un interplay potentissimo solo apparentemente di matrice post-rock alla Mogwai (l'alternanza restrain/release e la compattezza delle chitarre),
ma in grado di slanci post-core apocalittici alla Neurosis
come di intricate e cerebrali costruzioni strumentali.
Bravi i judA, autori di un disco sentito, schietto, non artyfatto. Bravi soprattutto per intendere la musica come una
passione da non svendere al primo che passa. Si chieda
all'Hollywood cosa ne pensano in proposito.(7/10)
Stefano Pifferi
Juliana Hatfield - Peace and Love
(Ye Olde, Febbraio 2010)
G enere : songwriting
Sono passati due anni da How to Walk Away e la Hatfield sembra esserne uscita. Ha accettato la perdita di
quell'uomo e se n'è fatta una ragione, o perlomeno, abbandonando l'impianto folk-rock di quella prova per un
set acustico, torna sul luogo del delitto facendone ancora una volta metafora. La metafora di come una ragazza
affronta i malanni dell'amore di coppia con la differenza
che qui a spuntarla è la filosofia.
L'autobiografia del 2008 deve averle giovato: l'inedita serenità di Peace And Love ce la restituisce agrodolce,
eternamente Novanta e nondimeno in ritrovata forma.
Sarà un album con il grande difetto dell'ennesimo giro
in giostra post-Lemonheads-grunger-Gilmore-girl-
suburbana, eppure l'accorata semplcità di alcune delle
composizioni scansano ogni cinismo e mettono da parte
l'ennesima speculazione sul "come sarebbe stata" la sua
vita se quel disco su major fosse uscito veramente come
doveva ecc. I cocci di quell'altrimenti sono solamente
stati spazzati sotto il letto eppure negare a episodi come
Why Can't We Love Each Other e I Picked You Up la loro
bellezza sarebbe stupido e disonesto. D'altro canto, anche in mero songwriting i numeri ci sono (Faith In Our
Friends) e quindi benritrovata seconda giovinezza.(7/10)
Edoardo Bridda
Kalweit And The Spokes - Around
The Edges (Irma Group, Febbraio
2010)
G enere : rock
Il nome Georgeanne Kalweit probabilmente non dirà
molto alla maggior parte dei lettori, eppure l'artista di
Minneapolis ha già all'attivo una serie di collaborazioni
illustri con musicisti del calibro di Vinicio Capossela nei panni della Medusa Cha Cha Cha di Ovunque Proteggi
-, Calibro 35 - per Tutta Donna -, Arto Lindsay, Luca
Gemma e non ultimi Delta V, a cui ha prestato la voce
nel nuovo millennio. è lei la Kalweit della ragione sociale,
mentre gli Spokes rispondono al nome di Leziero Rescigno e Giovanni Calella, rispettivamente musicista
negli Amour Fou e produttore.
Base lombarda per una band interessata a tutt'altre atmosfere, visto che in questo disco si parla di America e
dintorni. Un mondo sospeso tra la cowboy-psichedelia
di Curtains e il crooning di New York Movie, il roots di Ice
Man e il folk della title track, il blues di The Whore e il
rock di Guns Are Back. Un caleidoscopio di generi che
può vantare sicurezza, fascino e quel po' di mestiere che
deriva dal saper mettere a frutto un lungo percorso di
esperienze professionali. Nel classico disco dagli equilibri
impeccabili e la scrittura rassicurante.(6.8/10)
Fabrizio Zampighi
Kazumasa Hashimoto Strangeness (Noble, Marzo 2010)
G enere : E lettronica lounge
Ekkehard Ehlers, che di fiuto ne ha, con l'antologia
Childish Music, coinvolse anche Kazumasa Hashimoto
nel rango della freakerie eletronique, elevandolo a cadetto di una preziosa promessa.
Alla sesta prova su lunga distanza, il "naive sounds" di
Hashimoto, da minimalismo texture-elettronico trasborda a canzononcina-lounge, cancellando vistosamente una
serie di dettagli e microprocessing elettronici. L'avevamo
lasciato con Tokyo Sonatas, che accompagnava l'ultimo
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rarefatto film di Kiyoshi Kurosawa, ed il capitombolo
all'indietro, si avverte, nel senso generale di un'assenza di
dettagli e novità.
Sia chiaro, le traccie sono ganze, l'architettura pop tiene
e regge, ma il tutto è oggettivamente intaccato dall'accanimento quasi morboso di azzardare il tributo definitivo
ai vestali pop. In tal senso, Strangess cade irreparabilmente in un salto all'indietro, s'ingolfa in arrangiamenti stucchevoli e pesanti, e finisce per somigliare all'ennesimo
tentativo da copisteria tardo-revival.
Hashimoto non sta alla musica pop come Arto Lindsay sta a quella brasiliana, e poiché siamo abituati dai
giapponesi al costante isolazionismo-straniamento, ci risulta difficile digerire un ennesimo disco cover alla Stereolab. Per non parlare dell'ultima traccia, 20 minuti di
piano, che esulano completamente dalle atmosfere del
disco. Dispensabile.(5/10)
Salvatore Borrelli
Ken Camden - Lethargy &
Repercussion (Kranky, Aprile 2010)
G enere : chitarra avantgarde
L'operazione di Ken Camden, debuttante neo acquisto di casa Kranky, non è poi molto distante da quella
recentemente messa in essere da Geoff Mullen, ovvero sperimentalismo chitarristico che gioca di sponda tra
le vibrazioni kraut, le scale orientali e l'appeal cosmicoelettronico di chiara ascendenza frippertronics. Qui c'è
meno metodo e molta più improvvisazione.
La stesso dettaglio non secondario che tutto il disco
o quasi (fa eccezione la traccia finale Jupiter) sia stato
registrato in presa diretta, senza l'uso di sovra-incisioni, restituisce immediatamente la fragranza cruda di un
approccio live. Quindi il passaggio rapido dai bozzetti orientali dell'iniziale Birthday al viaggio intergalattico
della successiva Raagini Robot avviene senza soluzione
di continuità. Tutto il disco vive amabilmente su questo
equilibrio precario ottenuto senza rifletterci due volte di
troppo sulle soluzioni da adottare, ma il risultato finale è
troppo poco coraggioso.
Il riferimento quasi imprescindibile al raga lascia il tempo
che trova. Certo, non c'è una virgola fuori posto, ma cui
prodest l'ennesimo disco che rifà il verso, senza troppo
sforzarsi, alla magia di No Pussyfooting?(5.8/10)
Antonello Comunale
Kissaway Trail - Sleep Mountain
(Bella Union, Marzo 2010)
G enere : C anadian pop
La All Music Guide ci racconta che il gruppo è frequentemente associato agli Arcade Fire. Dubbio che sciogli
60
immediatamente quando l'autore dell'articolo ci tiene a
mettere in chiaro che la copertina dell'esordio dei danesi
è dello stesso grafico dei canadesi più famosi del rock.
Emuli sembrano e emuli sono. A distanza di tre anni
da quel lavoro siamo ancora a rintoccare campanellini
e soprattutto campane e campanacci su un canovaccio
orchestral wave folk rock ad alto tasso di emozione e
sentimenti assortiti. L'orecchio più attento scorgerà la
piega Mercury Rev nella voce di Thomas Fagerlund. è
un tocco dreamy che fa bene a una formula che sa ancora pesantemente di presa in prestito, specie se coetanei
più influenti come Get Well Soon stanno già girando il
timone in direzioni differenti.
Come per gli americani Eagle*Seagull (pure loro freschi di sophomore) era prevedibile che il cosiddetto
Canadian Pop venisse emulato a destra e manca fuori
dai confini patri. Sarà ricordato come un prodotto tipico
anni zero, proprio come il post-rock fu per i Novanta, e
acquisizioni di format come queste fanno capire che è
ora di voltare pagina. Da qui in poi sarà soltanto maniera.(6/10)
Edoardo Bridda
Knife (The) - Tomorrow, In a Year
(Rabid, Gennaio 2010)
G enere : electro - opera
Nel centocinquantesimo anniversario della pubblicazione, gli electro-dancer svedesi Olof e Karin Dreijer
celebrano Darwin e il suo rivoluzionario L'origine della
specie raccogliendo una commissione della compagnia
teatrale danese Hotel Pro Forma.
Ne viene fuori una electro-opera della durata di un'ora
e mezza, sedici brani medio-lunghi spalmati su due dischi,
realizzata a sei mani col dj e produttore Mount Sims
(americano trapiantato a Berlino): tappeti che pescano
tra l'elettronica di ricerca (con tanto di field recording
registrati in Amazzonia ed esperimenti onomatopeici
come il dittico Variation of Birds e Letter to Henslow) e
l'ambient disturbata, evidente l'influenza dello splendido
spin-off di Karin a nome Fever Ray nelle atmosfere algide e brumose che informano tutto il disco, solo qualche
indizio invece della poetica più Knife-danzereccia (la minimal techno di Seeds). Progetto interessante e rischioso, e la scommessa del duo («At first it was very difficult
as we really didn't know anything about opera...») si può
dire vinta, annotando però che le parti cantate in stile
operistico (la mezzo-soprano Kristina Wahlin Momme)
sono proprio quelle meno riuscite, tutte molto - troppo
- simili tra loro. I pezzi danno il meglio quando il focus è
concentrato sulla produzione e quando entrano in scena
le voci "più pop" (Janine Rostron aka PlanningToRock,
highlight
Mulatu Astatke - Mulatu Steps Ahead (Strut Records, Aprile 2010)
G enere : etno - jazz
A giudicare dal titolo dato a quanto segue l'acclamato e splendido Inspiration Information, penseresti a un
lavoro estremista. All'enfasi posta sul lato più sperimentale della felicissima
collaborazione del maestro etiope - qui replicata - con gli Heliocentrics
e la Either/Orchestra. Non è così, e in tal senso l'iniziale Radcliffe rappresenta un bluff d'eccezione, col suo gassoso veleggiare che s'inquieta sopra
trombe davisiane e sofisticate trame di percussioni e piano. Basterebbe da
solo a consigliare l'acquisto, non vi fossero sparsi a piene mani il coraggio e
l'onestà intellettuale di non ripetersi, pur in un momento di impressionante
lucidità artistica.
Mulatu Steps Ahead prende così le mosse dagli stessi presupposti del predecessore ma, stilisticamente, aggira le secche della ripetitività; rimane sé stesso nel momento preciso in cui
mostra venature più solari, come potevano nondimeno intenderle il modello Duke Ellington e l'inquieto
pioniere del meticciato Charles Mingus. Sta lì il senso di quel "passo avanti" di cui sopra: in una Green
Africa che maneggia bordate di ottoni e un violino africaneggiante solo per aprirsi allo swing, quello stesso
cui Ethio Blues si abbandona totalmente. Nella fusione di jazz e radici che incarna la cifra dell'uomo, di
un'attualità da lasciare sbalorditi e lo stesso per la disinvoltura con cui viene riadattata. Se infatti la breve Assosa respira in modo classico, I Faram Gami I Faram, Mulatu's Mood e The Way To Nice sorprendono
con sensuale ma ruvida latinità.
Gli spigoli sono smussati senza smarrire verve, anzi trattenendo un'attenzione al dettaglio e all'intarsio
che rivela più della facciata. Mentre si indaga un romanticismo tenue e antico in Motherland, con una mossa che la dice lunga sull'intenzionalità del gesto, il brano più sperimentale - la glassa sospesa Derashe - è
"confinato" a bonus digitale. Il momento critico nella carriera di un artista è il seguito a un capolavoro. Una
regola che, evidentemente, non vale per chiunque.(7.5/10)
Giancarlo Turra
Jonathan Johansson, l'attrice Lærke Winther Andersen, la
stessa Karin). Nota: di recente, anche gli Sparks e David Byrne in coppia con Fatboy Slim si sono lasciati
tentare, in maniera molto diversa, dall'efficacia narrativa
e dall'intensità esibita propri del teatro musicale. Back to
the opera?(7/10)
Gabriele Marino
Konrad Sprenger - Versprochen
(Schoolmap Records, Novembre
2009)
G enere : S ound A rt
Seguito di un esordio discografico che lo annunciava
sin dal titolo (Miniaturen, Choose Records, 2006),
Versprochen torna a indagare la forma del bozzetto
in musica, così come declinata dal giovane sound-artist
tedesco Konrad Sprenger - anche tecnico del suono e
produttore già visto all'opera con Arnold Dreyblatt
ed Ellen Fullman.
Stampato in 300 vinili dalla sempre attenta Schoolmap,
il lavoro sembra davvero provenire da quell'età dell'oro
in cui la sound-art era ancora genere degno di un certo
credito, regolato da leggi non scritte che tuttavia, paradossalmente, lasciavano che l'artista (si badi: l'artista, non
il musicista) navigasse libero nell'oceano delle sconfinate possibilità offerte dal mezzo elettronico allora da
poco scoperto. Dunque non stupirà la disinvoltura con
la quale si passa, in dodici tracce e poco più di mezz'ora,
da innocui field recordings di treni in corsa (Freier Im
Wald) a drone ambient (Lethe) o di ascendenza kraut
(Fenchel); da angosciosi reperti sonori antropomorfi
(Das Helle Fell Am Hinterteil Des Hirschs) a bestiari dell'assurdo in musica (Lügner). E in tutto questo, continuare a
coltivare quella passione per l'amabile/cantando che può
manifestarsi indifferentemente con uno stornello medievale (Geht Von Alleine Weg), dementi colonne sonore per
b-movies inesistenti (Wanderheuschrecke) o musiche da
circo di clown ubriachi danzanti (Die Artischocke Und Die
Blaue Banane). Non male.(6.8/10)
Vincenzo Santarcangelo
61
highlight
Santo Barbaro - Mare Morto + Un giorno passo e ti libero
(Ribéss Records, Marzo 2010)
G enere : canzone d ' autore
Dei Santo Barbaro emerge prima di tutto una forza comunicativa importante, che cerca tempo e spazio
concedendo ben poco. Canzoni d'autore, le loro, distillate nelle liriche, poco inclini alla narrazione, tagliate come fotografie di guerre, solitudini, schiavitù appartenenti ad un futuro
desolato che è già presente. Un folk illividito che nelle tonalità si accosta ai
Black Heart Procession, preferendo però trame solo apparentemente
tradizionali, in realtà allucinate da stridori Radiohead, elettriche baldorie
Nick Cave, nenie in soluzioni folk come le avrebbero fatte i C.S.I.. Tutti
riferimenti fin troppo gravosi se non fosse la forza della scrittura, testuale in
primis, a levare i Santo Barbaro da un pantano spersonalizzante in agguato
come non mai.
Ed è qui che entra in gioco il rimando più prossimo al gruppo, nella densità
lessicale dei versi come nel cantato dalla voce traballante e leggermente teatrale, quello di un Giancarlo
Onorato che di queste undici tracce sembra essere una sorta di padre putativo. Brani come Nero deserto,
Occhi immensi (samba zoppicante sfibrato in fondo da una coda di spezzature e tonfi ritmici), Il mondo è la
patria di chi non ha dimora segnano i confini di un'espressività in cui l'essenza nuda degli animi e il bisogno
di una rinascita che restituisca ordine al caos sono contrassegnati da un forte rigore poetico e comunicativo.
Non stupisce dunque che in questa elegante riedizione del disco (già uscito nel 2008) venga accorpata
da Ribéss Record una silloge di racconti intitolata Un giorno passo e ti libero. Quasi a confermare la
centralità della parola nell'economia del gruppo e l'importanza di una (nuova) purificazione di essa all'interno dell'immanente confusione dei tempi che stiamo attraversando: «e ho pensato che forse dovremmo
solamente / abbandonarci al rumore del mare / per poi spiaggiarci sull'asfalto / come balene suicide / perché puoi
anche uccidere la menzogna / ma è più difficile partorire la verità».(7.7/10)
Luca Barachetti
L'insolito clan - Non vi stimo più
(Altipiani, Marzo 2010)
G enere : folk jazz
A tre anni dall'esordio, da quel titolo un po' Lina Wertmüller (50enne bruno povero senza fissa dimora
cerca donna ricca e bella scopo matrimonio) e un
piglio fresco da cantastorie surreale, torna L'insolito clan
con un'opera seconda che sottolinea l'eccezionalità di
questa band calabrese trapiantata in Romagna. In loro il
cantautorato militante, socialmente attento e per certi
versi impegnato, è la sinopia su cui ordire arazzi acuti e
beffardelli (Felicità, La Panda, il buono e lo sconto), talora
sornioni ma sotto sotto caustici (L'estate), il folk pervaso
d'aromi swing e strattonato brass-band (sentite l'irresistibile Richiamerò) intanto che soffiano spifferi etnici e
reggae (La gogna).
è un carosello sardonico che non punta il dito anzi si fa
carico di quanto messo alla berlina secondo la lezione di
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Gaber e Gaetano, schiudendo talvolta pertugi inebrianti
con fare Vinicio Capossela (Il capo) e con ciò concedendosi apprezzabili esorcismi sonori. Tutto un teatrino
di quelli che ti sembra di starci in mezzo.(7/10)
Stefano Solventi
Le Le - Le Classics (Gomma, Aprile
2010)
G enere : E lectro D isco P op
Piet Parra approda su Gomma affiancato da Serge Fabergé (ex DJVT) e da Rimer London (ex Comtron). Il designer/stilista/musicista olandese esprime la fascinazione
per gli '80 con un full lenght che raccoglie singoli ben
noti (Disco Monster, Breakfast) e altre amenità. Il calderone richiama luci strobo, passi colorati al neon, Ray Ban e
sottofondo fashion (Ich Clack Dich) che fanno rispuntare
per l'ennesima volta dal cassetto la decade degli yuppies,
dei synth e del minimalismo di Miss Kittin.
Sarà che il glo-fi ci ha portato a riguardare il pop caramelloso con occhio diverso, sarà che la Gomma non
è proprio l'ultima etichetta, ma a riascoltare queste hit
(Skinny Jeans è stata in top 30 olandese) osannate tra gli
altri da Erol Alkann e da Mehdi ci vien voglia di scattarci delle polaroid, di bere Martini e di passerella. Missione
compiuta Piet.(6.4/10)
Marco Braggion
Le-Li - My Life On A Pear Tree
(Garrincha Dischi, Marzo 2010)
G enere : folk - pop
Non ci stupiremmo più di tanto se un giorno trovassimo in un disco dei Le-Li una Mary Had A Little Lamb o
una ABC (The Alphabet Song). Non ci stupiremmo perché l'immaginario che richiama il folk-pop del duo è da
sempre profondamente legato alla dimensione infantile,
per lo meno nella concezione generale e nell'estetica.
Una musica minimale, immediata, sussurrata, capace di
prodursi in filastrocche in bilico tra chitarre acustiche
e archi (Junk Girl), per un "barone rampante" in gonnella
- come vorrebbe farci credere la candida copertina di
Andrea Pitinto - immalinconito e fin troppo piccino per
il mondo che ha attorno.
Colori pastello, basso profilo, ma anche una pletora di
collaboratori del giro Garrincha/Trovarobato in My Life
On A Pear Tree - tra i tanti, Marcello Petruzzi, Elia Della Casa, Nicola Manzan e l'accoppiata di co-autori
Alessandro Grazian/Matteo Romagnoli -, a nobilitare un disco che in versione naked avrebbe forse
raccolto meno entusiasmi. Perché se dal punto di vista
della comunicazione l'approccio soft/acustico/malinconico/
english/french/pop rende, in fatto di originalità fa storcere
un po' il naso a chi ha a che fare con produzioni sul genere dall'alba al tramonto.
Detto questo, il primo disco lungo dei Le-Li rimane
un'opera godibile, oltre che un passo in avanti rispetto al
precedente Music Is Not For Grownups Ep. Collezione di
parentesi musicali perfettamente oliate, ingentilite da orchestrazioni raffinate, capaci di stupire in con una Lithium
dei Nirvana trasfigurata o con una Which Way tutta sitar
che non sarebbe dispiaciuta al miglior George Harrison.
E non di meno in grado di ipotizzare con i pochi episodi
in italiano una prospettiva originale - e forse una via di
fuga percorribile - per una leggerezza di tutti e di nessuno.(7/10)
Fabrizio Zampighi
Librarians - Present Passed
(Postfact, Marzo 2010)
G enere : art - pop
Vengono dal West Virginia i quattro Librarians (Ryan
Hizer, voce e chitarra;Trey Curtis, chitarra; Kyle Vass, basso; Billy Parsons, batteria) ma è come se uscissero dal
calderone arty newyorchese, tanti e tali sono i punti di
contatto con la pop oddity made in Williamsburg. In particolare, stella guida dei 4 sono indubbiamente gli Animal Collective di Merriweather Post Pavilion, per
quella maniera di rivestire il pop di sperimentazione o,
viceversa, fornire musica sperimentale rivestita di accessibilità pop. Cosa quest'ultima che in alcuni passaggi è più
di un riferimento (Candy Season, Wait & See) sfiorando
quasi il plagio.
A scavare a fondo negli 11 pezzi di Present Passed si nota
la volontà di emanciparsi dal modello e così ci si ritrova
tra i piedi frammenti di tropicalismo indie sconnesso e/o
gentile (dagli Abe Vigoda meno irruenti ai Vampire
Weekend più riflessivi), stratificazioni ludico-infantili di
beat digitali e chitarre psych-pop, un certo barocchismo
mai esasperato nelle strutture delle canzoni e minime
curvature wavey dissonanti. Kid Stuff e Present Passed, le
due tracce che chiudono l'album, sono infatti due gioiellini di experimental-pop alla Brian Eno accattivanti quanto basta per mostrare la via da intraprendere.(6.4/10)
Stefano Pifferi
Lonelady - Nerve Up (Warp
Records, Marzo 2010)
G enere : wave
Il canto, diciamolo subito, buca le casse: di ghiaccio o
rasposo, espettorato o caramellato, è l'affascinante protagonista di una graffiante manciata di art song abilmente
confezionate da Guy Fixsen dei Laika (già al lavoro
con My Bloody Valentine, Pixies, Stereolab). Con la musicista mancuniana che poi ci mette tutto il coraggio che
serve, mescolando pose di oggi e di ieri senza distinzione
di tempi e geografie.
Throwing Muses e Bat For Lashes. Estetiche 4AD e
La Roux con una fluidità pari al dialogo black messo in
gioco, trasfigurato anch'esso come il post punk che sentiamo uscire dalla sei corde (ma anche dai setting delle
drum machines) e prodotto proprio come sarebbe piaciuto al Martin Hannett della Factory Records. I Joy
Division di She's Not Control sono citati in If Not Now,
il funk dei Gang Of Four riproposto in Intuition, l'epica
romantica e un poco esotica di certi Echo & The Bunnymen messa sottopelle a Immaterial, fino alla terra incantata per violino e chitarra a spine staccate di Fear No
More. Quest'ultimo atto conclusivo di un album giocato
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tra l'elettronico vintage Ottanta e una strutturante citazione chitarristica art pop mai banale e dai ritornelli insidiosi, anche se stretta tra le mura di modelli ingombranti.
Ad ogni modo, per sbilanciarci, ci sarà tempo.(6.9/10)
Edoardo Bridda
Love Is All - Two Thousand & Ten
Injuries (Polyvinyl Records,
Marzo 2010)
G enere : pop - punk
Si giocano tutto sulla freschezza, i Love Is All. Cosa di
per sé notabile, dato che il combo svedese si presenta
al pubblico del 2010 non
con un esordio, né con un
sophomore, ma con una
terza prova. Termine tardoliceale che ben si presta
all'adolescenza incallita e
romantica cantata dal cinguettio punteggiato di raucedine emesso da Josephine Olausson - come del resto a tutta la materia di cui
stiamo parlando, cioè i dodici pezzi di Two Thousand
& Ten Injuries.
Dietro all'apparente semplicità ed essenza twee-pop
punk, però, c'è un tentativo apprezzabile di quadrare il
cerchio di abitanti vicini e lontani del genere. In Early
Warnings e False Pretense i Nostri dimostrano di avere
imparato la lezione offerta loro da Vampire Weekend,
come del resto in Bigger Bolder riecheggiano le indicazioni dei primissimi Strokes, pur ammorbiditi. Ci sono
anche tentativi di fare qualche passo (strumentale) più
in là (The Birds Were Singing With All Their Might) e finte
di corpo verso il post-punk (quasi funk-punk?) - sentite
Dust, peraltro subito riallineata con un anthem morbido,
un refrain corale e varie ed eventuali indiepop appena
più ruvido.
Il segreto è sempre lo stesso, essere il più appiccicosi
possibile (Kungen), al di là della parvenza di ruvidità e di
rimandi garagisti. Ma niente oltranzismi. La ballata finale (Take Your Time) è dichiarata intenzione di non voler
essere intransigenti. Una chiusura sofficissima, fatta di
arpeggi leggeri e bolle di sapone. E forse è questo che
più ci piace, per una volta, dei Love Is All: la totale indifferenza verso l'anti-indulgenza.(6.5/10)
Gaspare Caliri
Mantler - Monody (Tomlab DE,
Aprile 2010)
G enere : pseudo - canterbury
Ha alle spalle un percorso interessante il quarantunenne
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canadese Chris Cummings, in arte Mantler. Di quelli
che dici un riassunto attitudinale del fare musica contemporaneo: da bambino alterna gli studi classici di pianoforte alla passione per l'eleganza pop; da grande si dà
alla scrittura e alla produzione di film nel mentre inganna
il tempo come dj e appassionato di rarità black. Dopo
una falsa partenza nel '94, col nuovo secolo prende a
incidere autarchicamente, inaugurando il rapporto Tomblab nel 2002 con Sadisfaction, da dove si porgeva come
un giovane Robert Wyatt rasserenato che scrive con
Brian Wilson, facendosi talvolta arrangiare da Donald
Fagen ma stretto di manica e budget.
Ne risultava un'isoletta felice non più eguagliata da Chris,
che in seguito ha pubblicato poco e senza guizzi preferendo sonorizzare spettacoli teatrali. Tenta un rilancio
con questo disco, che si è portato via tre anni di lavorazione e si giova di un folto cast di musicisti riguardosi
e della co-produzione di Jeremy Greenspan e Owen
Pallett. Che dire di composizioni aggraziate da cantautorato easy anni '70? Che sono gradevoli e tuttavia gravate da uniformità d'atmosfere, scrittura poco incisiva e
un paio di scivoloni disco. Tranne per gli sprazzi d'introspezione un po' alla Rock Bottom (Author, Crying At The
Movies, Mount Shasta), per il jazz da camera Maiden Name
e per una Fortune Smiled Again che vira Peter Gabriel
in funk-pop da cameretta, la magia oggi è ordinarietà. E ti
rincresce.(6.5/10)
Giancarlo Turra
Marc Behrens - Sleppet (Crónica,
Marzo 2010)
G enere : F ield R ecordings
La foresta nei pressi di Nerben, i ghiacciai più giù a Nord,
il lago di Røsskleivvatnet, la Norvegia come contenitrice
di ambienti, l'isolamento umano la cui presenza ambientale amplifica i pensieri irrequieti del dentro, la Norvegia
come l'avamposto sul nulla e sull'altrove.
è questo Sleppet, l'ultimo materiale della ventennale ricerca di Marc Behrens. Da questi lidi, neo-riduzionisti
(riduzionisti in quanto conduttori di un macrocosmo
esistente pronto al congelamento perenne) ci si era
imbattuti sia con Lionel Marchetti che con Eric La
Casa. L'uno alla ricerca di fratture e discontinuità dei
luoghi, l'altro in ossessiva narrazione-catalogazione del
sinfonico racchiuso nell'aperto.
Marc Berhens sembra invece interessato all'aperto come
concetto animale, come continua permanenza dell'animalità nel processo razionale dell'ascolto e dipana una
ricerca proto-acusmatica in quattro dissertazioni, che
sono anche quattro inni alla sopravvivenza su prossimità
zero e del contatto innaturale che c'è tra l'ascolto e la
natura. è questa la grande tensione di questi materiali:
più che filmare elegiaci movimenti dello spazio, Behrens
sembra attraversato dall'idea di fotografare i rigurgiti, le
spietatezze, i gap ambientali dei luoghi che filma, catturando l'ascoltatore con movimenti transitivi e la somiglianza di questi alle nature umane viventi (il ruscello
della seconda traccia che somiglia ad un vinile in loop, i
rumori della terza che sibilano come se catturassero un
missile che proviene dalle galassie).
Nel mezzo di questi anfratti invisibili ed ostici, ogni tanto
emerge qualche voce umana, qualche silenzio, degli strani
sbalzi di pressione sonora, che ci ricordano come certi
suoni siano manipolati da fili, da cervelli, e come proprio
in questo caso, questi cervelli non abbiano bisogno d'inventare musiche ma solo di tenerle in bilico perpetuo, di
come non ci sia bisogno di strumenti, né di molto altro,
per organizzare delle forme a dir poco soprendenti col
solo aiuto di Dio.(7.4/10)
Salvatore Borrelli
Mark Van Hoen - Where Is The Truth
(City Centre Offices, Aprile 2010)
G enere : shoegaze - beat
A volte basta consultare la carta d'identità di un musicista per chiarirsi le idee. Nativo di Croydon, l'inglese
Van Hoen è cresciuto dentro quella che dalle sue parti
chiamano "Black Country", l'area industriale delle Midlands. Un po' come gli illustri suoi maestri di Düsseldorf,
Sheffield e Detroit, ha familiarizzato prestissimo a con
ritmi e clangori da fabbrica, smanettando già a quindici
anni col primo synth e (senza dimenticare l'amore per i
Cocteau Twins: si sente) abbracciando la musica elettronica. Che, a ben pensarci, è oramai un'etichetta che
contiene tutto e nulla come "rock". E infatti Mark - di
sangue misto d'India, Giamaica e Albione - si è fin
qui destreggiato facendo
di tutto un po': sintetizzando, ricordiamo la presenza
nei Seefeel; il progetto
Locust e un contratto andato all'aria non per colpa
sua con la R&S; esperimenti
con sonorità digitali stimati dagli Autechre; l'apprezzabile produzione per gli ex compagni di giochi Scala e i
teneri Mojave 3.
Punta di un sommerso che non lo vedeva uscire in prima
persona da sei anni e sarebbe stato meglio così. Resta
difatti a metà del guado Where Is The Truth, indeciso tra
un'elettronica pastorale in scia ai Cluster più morbidi
e agli Harmonia (bella e illusoria la partenza Put My
Trust In You) e un trip-hop dalle venature shoegaze - e
viceversa - sulla carta stuzzicante ma frigido negli esiti.
Logico che vi sia tanto professionismo dell'intarsio e si
viaggi su levigate stratificazioni; meno che ciò affossi i
brani nonostante certe intrusioni più sperimentali. Senza
che qualcosa, ad eccezione della straniante I Need Silence,
si imponga sulla scrittura anonima. Così non si esce vivi
dagli anni Novanta.(5.5/10)
Giancarlo Turra
Marvin - Hangover The Top
(Africantape, Aprile 2010)
G enere : noise - rock
Trans Am sballoni, Devo psicotici, heavy-metal futuribile alla Fucking Champs, strabordare di synth in
overdrive, catalessi math-noise. Questo è una minima
parte di quel che ci offre il comeback del trio misto di
Montpellier: noise-rock futuribile ai suoi massimi livelli
per trasporto e applicazione con pregevole compattezza di suoni e mobilità schizofrenica di strutture a far da
contorno.
Fred alla chitarra, Greg alla batteria e la graziosa Emilie
alle tastiere propongono una musica potente e screziata,
capace di far convivere molte anime diverse su un sostrato riconoscibilmente math-noise per volumi, frenetici cambi di passo e intrigo di strutture: passaggi neanche
tanto velatamente metal (Conan Le Bästard, Roquedor), ossature ossessivamente reiterate da disco-bar venusiano
e prog alieno (Good Radiations), tour de force strumentali
che collidono con ritmi pestonissimi da disco demente
(Fear), ipervitaminizzati assalti all'arma bianca da terroristi sonici doc (Au 12). Il tutto sempre ben amalgamato
ed equilibrato, seppur sulla carta potrebbe sembrare un
ibrido stucchevole o forzato.
Il conclusivo omaggio al Brian Eno obliquamente pop
di Here Comes The Warm Jets non passerà certo alla
storia con la sua rielaborazione noisy, ma da la misura
dell'apertura mentale dei tre e di una scena francese che
sembra aver recuperato terreno alla grande non solo sul
versante garage.(6.9/10)
Stefano Pifferi
Matthew Herbert - One One
(Accidental, Aprile 2010)
G enere : (W hite ) S oul P op
Consapevole o no - e con tutti i limiti del caso - Matthew Herbert è il Brian Eno della generazione E. Un
musicista concettuale che non lascia nulla al caso, un
produttore sempre più richiesto, un acuto osservatore
della società e soprattutto un artista che ha il coraggio
di esplorare i limiti della propria opera. In comune Brian
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e Matthew hanno anche uno stacanovismo impareggiabile. O meglio, un'autentica scimmia creativa. Sul sito ufficiale s'apprende che il Nostro quest'anno pubblicherà
tre album, ultimerà i lavori per Eska, Barbara Panther e
il blackissimo elettro funker Rowdy Superstar, curerà il
prossimo capitolo della fortunata serie Recomposed e
contemporaneamente farà soundtrack, dj set e pure il
direttore della premiata Matthew Herbert Big Band.
Non dimentichiamo poi che, parallelamente all'impianto
che sta dietro all'Herbert ambient, c'è anche un manifesto al quale il musicista britannico sottostà dal 2005
e che prevede una deontologia precisa: bannati i preset,
niente suoni di fabbrica, niente samples di altri artisti e
nemmeno synth che suonino di marca. Tutto artigianale
e fatto in proprio, ricostruito secondo precise modalità.
Con in più la nota politica: la provenienza di ogni strumento - e fonte sonora - deve essere resa pubblica. Di
qui la sfida più grande, ovvero la voce: apice di un percorso umano e artistico di un uber musicista da sempre
nascosto dietro l'afonia della generazione elettronica.
One One è l'album di canzoni di Matthew. Una collezione di soul song inevitabilmente bianche, umoralmente
georeferenziate e venate di jazz. Sofisticate come l'ultimo
Eno pop "sul pianeta terra", soul come potrebbero essere
le strofe di un Robert Wyatt late nite, magari piazzato in
mezzo ai tavoli di un cocktail lounge o perso negli anni '50.
Non il Wyatt esistenzialista dunque, piuttosto quello più
subliminale, notturno ed efebico, sottilmente mondano
come lo sono certe pose memori della dance (via minimalismo). Oppure abilmente berlinese in quel fare asciutto ma pur sempre cool (Milan) e attentissimo al folklore
globale (la latinità funk di David Byrne in Dublin).
Non tutti gli episodi spiccano per estro: Herbert non
ha le capacità compositive di un Eno (che proprio con
il canto forgiò i primi capolavori del postmodernismo
pop partendo dalla decadenza glam) e il suo crooning in
Berlin non è proprio indimenticabile; e così la scaletta, sul
finale, scivola in un sottofondo discreto e impalpabile.
I prossimi due capitoli della trilogia lo vedranno tornare
al concretismo a sfondo politico di Plat Du Jour, nel
frattempo le basi per un percorso canoro sono state
gettate.(7/10)
Edoardo Bridda
essere passato l'appetito per quei suoni slavati ed estivi.
Anche se manca la bella cavalcata di 22 minuti (Treeship),
la stampa italiana si mantiene su quei binari che avevamo
già individuato qualche mese fa: chitarre 4AD, field sounds
estivi, batterie slow-motion e strumenti di un'elettronica
a 8 bit, voci in eco e tanta tanta nostalgia Ottanta.
Oggi, che Toro Y Moi è diventato una moda, e che spuntano come funghi nuovi adepti (uno degli ultimi è Summer Camp), il disco di Dayve Hawk per la sua omogeneità è un piccolo classico, una cosa che per ora non
ci sentiamo di esaltare troppo, ma che fra qualche anno
potrebbe diventare un culto. Accattatevillo!(7.1/10)
Marco Braggion
Meshel Ndegeocello - Devil's Halo
(Mercer Street, Aprile 2010)
G enere : adult oriented bl ack
In questi tempi di citazionismo senza copia carbone, e
post-modernismi facili facili, far propri i modelli invece di
frullarli è merce rara così come sentire una formazione
suonare come dei Police in salsa soul, una Sade dub
con smalto chamber e funk liquido o ancora la mestizia
ultra chic degli Everything But the Girl (Bright Shiny
Morning) libera dai soliti Ottanta.
Meshell non è proprio una ragazzetta. Nata a Berlino nel
1968 ma americanissima - risiede tutt'ora a Los Angeles
-, si divide tra nominations ai Grammy e qualche vezzo
da star, e con Devil's Halo arriva all'ottavo album solista.
Nel passato il più grande successo lo deve al duetto con
John Cougar Mellencamp (la cover di Wild Night di
Van Morrison), fulgido apice di una carriera spesa come
musicista aggiunta di Alanis Morisette, Rolling Stones e
tanti altri. Oggi è autrice di un soul morbido, adulto e
smaltato dub, che alla bisogna svirgola verso il rock o magari nei pressi della prima Goldfrapp (Love You Down).
Uscito lo scorso ottobre in America e negli Uk e ricoperto di plausi planetari, Devil's Halo esce anche
da noi senza essere invecchiato. è un lavoro fresco e
d'esperienza, giocato in sicurezza per una buona metà
(Die Young) e in cui manca probabilmente una hit vera (la
andy summeriana Tie One On è semplicemente un ottimo arrangiamento), non di meno, uno di quei dischi nu
soul degni di più di una nota a margine.(7/10)
Edoardo Bridda
Memory Tapes - Seek Magic
(Edizione Italiana) (Something In
Construction, Aprile 2010)
G enere : glo - fi
Micol Martinez - Copenhagen
(Discipline Venus, Gennaio 2010)
G enere : canzone d ' autore
Con un ritardo di quasi un anno, viene importato anche
da noi il buon album di Memory Tapes. Dopo mesi di
moda glo, a riascoltare uno dei caposcuola, non sembra
Poco spazio ma anche pochi nomi interessanti per il cantautorato italiano al femminile. Dietro la solita Consoli,
una Donà di cui attendiamo il ritorno, e qualche nome
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highlight
Scuba - Triangulation (Hotflush Recordings, Marzo 2010)
G enere : T ech , step
Appurato lo shifting techno - che non volta le spalle a mamma Warp - del precedente 12'' Klinik / Hundreds & Thousands, e la selecta a base di drum'n'bass nel recente Sub:stance, di Paul Rose era attesa la
collocazione nel continuum dopo i fasti ambient-step dell'oramai antologico A Mutual Antipathy.
Scuba risponde portando la formula al livello successivo come non ci si
aspettava, triangolando sapientemente i cosiddetti sottostili in quello che
rappresenterà la pietra d'angolo per la scena a partire dalla rimessa in gioco
del two step burial-iano in groove ambient house (già in odor di deep in
Latch), oppure dialogando a distanza con gli olandesi (2562, Martyn) a colpi
di lezioni funk house e trance (On Deck, Tracers). La forza sta comunque
nell'intuizione drum'n'bass, riproposta non come baluardo bensì restituendocela come anti materia: in pratica l'essenza e l'eleganza della Metalheaz del
1996 (Three Sided Shape) tolta d'ogni elemento euforico, una mental d'n'b
come seme nella roccia dell'overstep.
Di più, attraverso un portato concreto - da sound degli abissi come da pendici del vulcano - all'opera
s'aggiungono la coesione, la coerenza e la cifra stilistica, altra triangolazione in sublimazione questa volta
tecnica, perché in quanto a steps Rose non rinuncia nè a groove housey nè a stilettate techno (l'egregia
You Got Me con tanto di tastiera cinematografica à la John Carpenter). Molta carne al fuoco, tanto che
con i soli fuori programma (Minerals) c'è pure da giocarsi l'asso afro step, un passo prima della soulness di
Burial e King Midas Sound. Fondamentale.(7.5/10)
Edoardo Bridda
ormai storicizzato senza troppi trionfi (Turci) c'è campo aperto per esordi come questo di Micol Martinez.
Produce Cesare Basile, partecipano tra gli altri Enrico Gabrielli e Rodrigo D'Erasmo ad aggiungere quel
tanto che basta su strutture folk-rock che al siciliano
devono molto, sia nell'essenzialità di scrittura e arrangiamenti che nella tensione poetica più votata al lato femminile dell'esistenza che a quello tragico-biblico.
Martinez parte insomma da basi solide che la portano ad
approdi piuttosto prevedibili ma non per questo carenti
di sostanza (PJ Harvey nella scansione elettrica di una
title-track decisamente berlinese; la Cristina Donà di
Nido nella sensuale Il cielo). Di suo aggiunge interpretazioni precise (è anche attrice) ed almeno due canzoni
che lasciano intendere quanto sarà interessante l'evolversi del progetto. In Testamento biologico parla di fine
vita senza speculazioni retoriche ma con l'altera autorevolezza di un Ivano Fossati; mentre Donna di fiori è
la canzone che chi scrive ha fatto vincere nell'ipotetico
Sanremo che ci siamo inventati per il Re-boot di marzo.
Come si diceva là, da conservare intatta e promuovere. E
vista la scarsità di materia prima di cui all'inizio, possiamo
dire sia decisamente il caso di accorgersi di lei.(7.2/10)
Luca Barachetti
Mixtapes & Cellmates - Rox
(Tangled Up, Dicembre 2009)
G enere : R ockgaze
Saturazioni elettriche, languidi cantati dal candore macchiato di sangue, tastierine twee, testi esistenziali. L'omonimo debutto degli svedesi Mixtapes & Cellmates è
stato il mix di un po' tutto questo. Era il 2007 e il rifiorire
dello shoegaze abbinato a fascinazioni indie rock dalle
forti ascendenze emo di band quali Mineral o Sunny
Day Real Estate, non aveva ancora partorito i The
Pains Of Being Pure At Heart o rinvigorito la cifra stilistica dei Deerhunter, né tanto meno riportato
in voga il verbo professato dai My Bloody Valentine.
Insomma, i Mixtapes & Cellmates si muovevano in
quei mondi lì con sorprendente disinvoltura, lontani da
qualsiasi hype e dal furbo affidarsi al vento che tira.
Con Rox la strada maestra è la stessa, ma prevalgono
divagazioni in direzione di un suono più robusto e spigoloso, meno istintivo e deliziosamente fragile, abbinate a
piacevoli sbandate elettroniche di stampo New Order. In
un certo senso, è il classico disco della maturità: certifica
un'evoluzione stilistica costruita a colpi di pezzi dall'identità precisa che non si accartocciano in cliché stantii, ma
paga pegno smarrendo in parte le dolci inquietudini degli
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esordi, magari naif e non sempre a fuoco, ma dotate della
spontanea freschezza al calor bianco che seduce senza
remore. Solido e ben congeniato, ma non conquisterà
mai davvero.(6.4/10)
Giampaolo Cristofaro
Mother Mother - O My Heart (Last
Gang Records, Marzo 2010)
G enere : M utant P op
In tempi recenti il Canada è stato territorio fertile per
certo pop mutante. Basta considerare le vette raggiunte
dai raffinati esperimenti genetico/sonori di Broken Social Scene, Stars e Most Serene Republic, all'exploit
prettamente commerciale di Tegan and Sara.
Da Vancouver in arrivo il secondo album dei Mother
Mother che della contaminazione del corpo pop han
fatto credo e si affidano per meglio ribadirlo alla scintillante produzione di Howard Redekopp, già al lavoro
con i New Pornographers. Pop Mutante si diceva, ed
anche di pregio, non fosse per l'ennesima sciatta deriva
neo wave della title-track e il tremendo affondo kitsch di
Hayloft. Tant'è, e allora meglio sperdersi nell'imponenza
di arrangiamenti carichi ma non ridondanti, negli spunti
melodici che passano in scioltezza da Beatles a MGMT,
tra sprazzi di intimismo acustico annegato in orchestrazioni d'archi e fiati e chorus dalle classiche ma funzionali
strutture chiamata/risposta e alternanza di cantato maschile e femminile.
Toccanti e trasognate Try To Change e Wisdom saltellano
come clown in crisi di pianto, Ghosting è degna del Jason
Collett più vispo e giocherellone, la muscolare e catchy
Body Of Years è impreziosita dal bridge di pulviscolare
amarezza indie. Arms Tonite e Wrecking Ball poi - pezzo
manifesto del disco tutto - ricordano il gioioso rimescolamento di cromosomi indie rock dei Los Campesinos
e il rammarico per i due scivoloni di poco su si fa via via
più amaro.(6.8/10)
Giampaolo Cristofaro
Motor City Drum Ensemble - Raw
Cuts Vol. 1 (Faces Records, Marzo
2010)
G enere : deep house funk
Tagli primitivi, quasi anni Settanta in questa lunga compila
unmixed. In prima battuta sembra fatta apposta per i cultori dell'old school dance (Raw Cuts #1) e del funk (Raw
Cuts #2), ma poi si insinua anche un vago sapore jazzy
(Prayer) che ricorda profumi di fine secolo parigini (Dimitri e soci della Bastiglia) e un basso che ti apre lo stomaco con una deepness tagliata techno street (All My Life
e Monster Box unici due pezzi targati Jayson Brothers).
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MCDE è la creatura di Danilo Plessow, nuova star
della deep immaginifica e
grondante freschezza dopo
quel capolavoro di Terre
Thaemlitz che ha riaperto
il discorso sul suono postChicago. Il ventiquattrenne
di Stuttgart dice la sua senza scomodare ingombranti ammennicoli da studio di produzione, sfoggia il suo vocabolario lo-fi in modo a tratti didascalico, ma in questa chiarezza (e se vogliamo ingenuità) acquista punti. La selezione di
singoli dalla sua etichetta è fatta per chi ascolta house con
il cuore black, per chi crede che ci sia ancora una possibilità di anima dietro la consolle (ottimo in questo senso il
featuring di Stee Downes in There's A Truth).
Se non fosse per le note biografiche, Danilo potrebbe
essere nato a Detroit (vedi la bomba da autobahn kraftwerkiana Monorail). Tenete d'occhio questi tagli, potrebbero farvi sanguinare...(7.2/10)
Marco Braggion
Nice Nice - Extra Wow (Warp
Records, Aprile 2010)
G enere : post - modern rock
Due ragazzi da Portland entrano nei quartieri generali
Warp con la carta in mano del postmodernismo rock.
Giocano quindi difficile da subito Jason Buehler e
Mark Shirazi, dato che impantanarsi nel territorio in
cui regnano gli Animal Collective è cosa rapida.
Anticipata da una compilation a inizio anno, la proposta
si colloca nel minestrone noisy sperimentale progressivo
olistico che imperversa nella generazione di trentenni
che hanno (avuto) a disposizione tonnellate di musica
da scaricare. Eppure, avere troppi dati a disposizione a
volte è un difetto e il forte rischio è quello di non saper
più cosa dire. Il mix risente di echi balinesi cari ai minimalisti americani à la Reich, si mescola alle esperienze dei
Talking Heads (See Waves), al noise dei Liars (Set And
Setting), al cosmic-prog di Prins Thomas (A Vibration) e
a mistiche orientaleggianti proto-Alice Coltrane (New
Cascade), un bombardamento di stimoli sonici senza le
briglie che piacevano tanto a Frank Zappa (e di cui ci
sarebbe enorme bisogno qui).(6.5/10)
Marco Braggion
Nina Zilli - Sempre lontano
(Universal, Febbraio 2010)
G enere : pop
Calmatesi le acque, invero quest'anno stagnanti come di
rado, scegliamo un disco sanremese da recensire ed è
quello di Nina Zilli. L'italico pop arriva sempre qualche
anno in ritardo, e mica solo lui a dirla tutta, dunque per
una Amy Winehouse in surplus mediatico ecco giungere una schiera di voci sgrezzate, aroma cuoio ancora
caldo, che vagano chiccose ed elitarie con nobili Avvocati
a far da padrini (Malika Ayane) o rivalutano i magnifici
Cinquanta/Sessanta come nel caso della milanese.
Zilli riparte infatti dalla grande stagione del pop orchestrale nostrano e lo mescola a fiati Stax, incrinature raggae e ska, quadrature beat, con gusto melodico perfetto
e voce che pur senza strafare fa comunque quel che vuole. Il tutto è nuovissimo per il cambriano sanremese, fin
troppo incravattato e prevedibile quando invece si torna
nella realtà. Certo, la ragazza ha stile ed il disco è piacevole, Il paradiso ad esempio concentra in una sola traccia
tutto quanto detto fino ad ora ed è un bel sentire, più
Caterina Caselli che Mina.
Tuttavia un qualche azzardo in più avrebbe sicuramente giovato, soprattutto sulla lunghezza di dodici tracce
con in più le ovvie featuring di Giuliano Palma e degli
Smoke. La si vedrebbe bene prodotta dal Fossati in
spleen Motown di Lampo viaggiatore, che magari le
scrivesse anche qualche brano.(6/10)
Luca Barachetti
Nothing People - Soft Crash (S-S
Records, Febbraio 2010)
G enere : S pace G arage R ock
Terzo album in poco meno di 3 anni per il trio californiano formato da misteriosi individui rispondenti ai nomi di
Ør, Ød e Øs. Laddove il precedente Late Night insisteva su tonalità notturne e oniriche, Soft Crash recupera
l'energia ruvida del primo Anonymous come già paventato nel recente singolo Enemy With An Invitation.
Così, se non mancano i richiami alle più recenti dissertazioni narcotiche (Avoiding Needels, In The House), a farla
da padrone sono le scariche elettriche di Is This What
You Want e Wasting Our Time, e il glam rock grattugiato
e accattivante di Marilyn's Grave; e ancora, le sfumature
Chrome(atiche) della title-track e Friend Or Foe. Ma è la
calibrata miscela di irruenza ed atmosfera il vero collante e punto di forza di un disco che guarda al passato per
raccogliere i frutti del tempo e riscrivere la storia con
parole nuove.(7.1/10)
Andrea Napoli
Oren Ambarchi/Keiji Haino/Jim
O'Rourke - Tima Formosa (Black
Truffle, Aprile 2010)
G enere : impro , noise
Tre campioni dell'improvvisazione si incontrano sul pal-
co della Playhouse nel nipponico Kitakyushu Performing
Arts Center, l'8 gennaio 2009. Ambarchi alla chitarra,
O'Rourke al piano e Haino alla voce, flauto, drum machine ed elettronica. L'ora di improvvisazione parte con il
solito drone di chitarra di Ambarchi (un misto tra Sunn
O))) e musica tibetana) che dopo una decina di minuti
viene interrotto dal falsetto di Haino. Da qui in poi si
capisce chi è - per questa volta - il leader: le vocals del
giapponese saranno infatti il filo conduttore dell'ora di
improvvisazione. In partenza meditazione sacra di voci
bianche (Tima Formosa 1), nel mezzo una breve discesa su
toni basso-baritonali con la non sorprendente improvvisazione di O'Rourke al piano che invoca il fantasma di
Tudor (Tima Formosa 2), in conclusione un maelstrom
che riporta il disco sui binari del miglior avant-metal
contemporaneo
tagliato
con l'elettronica di Merzbow (Tima Formosa 3).
Obbligatorio per i fan dei
tre artisti, consigliato a chi
stravede per la pseudoavanguardia
impolverata
di Fennesz e per chi è in attesa del nuovo disco del
combo di Stephen O'Malley (che ha peraltro curato l'artwork dell'album). Per gli altri merita sicuramente una
passata.(6.9/10)
Marco Braggion
Paolo Saporiti - Alone (Universal,
Gennaio 2010)
G enere : cantautorato folk
L'atmosfera è la stessa delle prime due uscite su Canebagnato Records: quella di un autunno in risveglio, attraversato dai primi lievi raggi di sole, con l'aria odorante
di terra, malinconie e sofferenze. Ma le coloriture sono
maggiori, ampliate dai complementi sensoriali di un Teho
Teardo che cura produzione e arrangiamenti: dunque
accanto al legno-corda della voce e della chitarra ecco
oscurità di cello, rhodes e pianoforti gocciolanti, luccichii
di glockenspiel, beat materici e soprattutto un quartetto
d'archi a volteggiare setoso. Insomma l'apertura ideale
per il folk classico di Paolo Saporiti - voce interiore e
granulosa ma capace di innalzamenti ampi come landascapes - alla sua prima volta su major.
Teardo non invade, piuttosto scontorna, e solo in un caso
(il nervosismo di elettrica e costole elettroniche di Haven't you heard?) dimostra cosa sarebbe un disco firmato
a due mani. Un po' come se Bonnie "Prince" Billy o
il primo Devendra Banhart passassero dalle radici ai
rami (l'apertura in quasi soundtrack di I could die alone)
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e dai rami al cielo (le splendide ascensioni emozionali di
A real love e Fever), così questi due insieme potrebbero
fare grandi cose, magari non solo in inglese ma anche in
italiano, vedasi in fondo una travolgente e più comunicativa Gelo. Che non si fermino qui.(7/10)
Luca Barachetti
Park Avenue - Time To (BKM
Productions, Aprile 2009)
G enere : B ritish pop rock
Novaresi i Park Avenue, eppure Time To pare l'esordio di una band british sin nelle mutande. Non è ovviamente per il cantato, ma piuttosto per il coacervo di
input sonori che da bravi mattoncini ammaestrati marchiano il disco da cima a a fondo. Leit Motiv di Time
To è il gioco di chiaroscuri di un pop-rock che lascia
emergere senza remore i punti di riferimento del caso:
gli Stereophonics (invero gallesi) e i Supergrass. Ovvero, la mediazione perenne tra tradizione anglosassone altezza Kinks o Small Faces e la predisposizione a
certo pop simil-trasversale di marca Stone Roses.
E allora campo libero a chitarre grattugiate come da dettami neo wave, tappetini di synth non troppo invadenti,
alternanza di possanza elettrica (South Road) e pacatezza
acustica - Morphine o On August 15 (I'll Go), quest'ultima
davvero riuscita e toccante - al servizio di hook melodici
in bilico perenne tra il banale e il gustoso. Ognuno con i
propri vezzi, specificità e contaminazioni, Kelley Jones e
Gaz Coombes avevano però trovato la quadratura del
cerchio per una manciata di dischi davvero buoni.
Federico Marchetti Florio, Marcello Cravini,Vinicio Vinago e Alberto Piccolini invece, ne han metabolizzato ogni
piccola sfumatura, ma la scrittura è ancora troppo calligrafica e poco personale per convincere davvero.(5/10)
Giampaolo Cristofaro
Peggy Sue - Fossils And Other
Phantoms (Wichita Recordings,
Aprile 2010)
G enere : folk rock
Si sono tolti i pirati dal nome e adesso sono soltanto
Peggy Sue, questo trio di Brighton composto da due
cantantesse-chitarriste-percussioniste più un batteristabanjoista. Ed è quindi un debutto per la nuova denominazione sociale il qui presente Fossils and Other
Phantoms, titolo che cova mistero e balzane suggestioni adeguate al contenuto. La loro musica è infatti un
folk rock perturbato blues teso ed eccentrico, inquieto
e capriccioso, capace di stemperare con grazia e acume il
furore laconico di Cat Power e le bizzarrie teatrali delle Cocorosie, riesumando a tratti certo lirismo arcaico
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un po' Joanna Newsom e un po' PJ Harvey. Tutto ciò
ferma restando l'aura british folk dei Sessanta-Settanta
come sfondo su cui proiettare questi dodici ologrammi
irrequieti.
L'incedere ossessivo di Watchman, il passo lunatico e
marziale di I Read It In The Paper, la trama fitta e onirica
di Careless Talk Costs Lives e l'ectoplasma gospel di Green
Grow The Rushes sono forse i momenti migliori di una
scaletta senza sostanziali cali di tensione.(7.3/10)
Stefano Solventi
Radio Dept. - Clinging To A Scheme
(Labrador, Aprile 2010)
G enere : indie pop , lo - fi
Dopo il fulmine a ciel sereno di Lesser Matters e il parziale aggiustamento di tiro di Pet Grief, arriva l'album che
rappresenta la formalizzazione del Radio Dept. sound,
nonché un'istantanea ben definita dell'indie pop targato
Labrador all'alba del nuovo decennio.
L'etichetta svedese, erede di una label di culto come la
Sarah Records, si è ormai specializzata in una peculiare
commistione fra melodie opalescenti, linearità elettroacustica e algidi suoni elettronici: traiettorie che Clinging To A Scheme recepisce in pieno.
Certo, Lesser Matters rimarrà la pietra di paragone
su cui misurare l'opera del combo svedese negli anni
a venire. Loro lo sanno e cercano di accontentare i fan
della prima ora con un paio di episodi che, guarda un po',
suonano fra i migliori dell'album. In A Token Of A Gratitude, in particolare, si respirano i paesaggi boreali che ci
avevano fatto innamorare dell'esordio, così come in Four
Month In A Shade, pervasa da brume shoegaze e trafitta
da pattern elettronici misurati e meno invasivi rispetto
al recente passato.
Il nuovo corso, piaccia o meno, sta nelle atmosfere soffuse di Domestic Scene, in cui il gruppo si appropria delle
melodie uggiose di Felt e Field Mice (questi ultimi vengono omaggiati con una This Time Around in odore di plagio) e le adagia su un soffice tappeto di arpeggi e tastiere
glaciali; oppure nella circolarità Heaven's On Fire, curioso
ibrido fra austerità nordica e atmosfere esotiche.
Inutile rimpiangere il passato: i Radio Dept. si dimostrano abili nel forgiare piccole gemme in bassa fedeltà,
a suggerire mood malinconici e avvolgenti. Un'arte, la
loro, che conquista poco a poco, basta prestare loro la
necessaria attenzione.(6.7/10)
Diego Ballani
highlight
Talibam/Peeesseye - Talibam Peeesseye (Invada, Aprile 2010)
G enere : impro - noise
Cosa succede quando due tra le formazioni più imprevedibili e inclassificabili dell'out-rock mondiale uniscono le forze? Ne esce un disco capolavoro che moltiplica le energie messe in campo e, di conseguenza,
amplifica i risultati. Fuor di retorica è proprio ciò che accade in questo lungamente atteso omonimo, in
cui Matt Mottel (synth) e Kevin Shea (batteria) da una parte e il trittico Chris Forsyth (chitarre), Jaime
Fennelly (elettronica) e Fritz Welch (batteria) dall'altra, si sfidano a singolar tenzone.
Non una novità per l'estemporaneo quintetto, non nuovo alla pratica collaborativa avendo spesso incrociato le armi con spiriti affini; nello stesso modo i cinque sono avvezzi alle
pratiche dell'impro più o meno radicale di matrice jazzistica (e a proprio
agio nel devastare dal di dentro gli stilemi del rock più storto e vagabondo).
È perciò superfluo dire che l'improvvisazione sia la musa-guida della collaborazione, in quanto modalità in grado di mediare da un lato ed esaltare
dall'altro sia il free-rock deforme dei secondi, sia quello free-jazz oriented
dei primi.
La sintassi rock - sotteso scheletro portante dell'intero album in quanto
terreno d'incontro/scontro tra el due formazioni - è sottoposta a una furia
devastante, selvaggia, irriverente e al limite dell'incontrollabile, che la frulla e la ricombina in continuazione,
senza però mai abbandonarla sul soglio sacrificale dell'autoreferenzialità. Che si appoggi a dilatazione semikraute (l'iniziale You Tried (To Eat It)) con la sua cavalcata targata Faust) o a informi e ossianici rumorismi
post-industrial (Everything To Everyone), a minimalismo disturbante da eco-pastorale noise (New Vitality In
The Biomass) o a dilatatissime suite ritmico-espressioniste (Year Of The Moral Orgy), poco conta. È il senso
del tutto a stabilire in maniera definitiva chi comanda il gioco in ambito impro-avant-rock.(7.8/10)
Stefano Pifferi
Rafter - Animal Feelings
(Asthmatic Kitty Records, Aprile
2010)
G enere : E lettro pop
Nonostante ci sia sempre un po' troppo produttore
dietro alla maschera del musicista, il buon Rafter questa
volta le canzoni le raddrizza. Anzi, se non fosse per quei
testi un po' idioti ci crederesti davvero che s'è messo a
pensare a quello che farà da grande. Per esempio pop scritto maiuscolo, come lui stesso precisa -, tra pletore
di synth, percussioni e strumenti veri che indagano uno
stile alla volta, evitando quasi del tutto siparietti inutili e
affidandosi finalmente a una produzione pulita, ruffiana
ma intelligente.
C'è spazio per il vocoder da piani alti virato Daft Punk
nell'operner No Fucking Around e nel singolo Fruit, per
arrangiamenti caraibici Vampire Weekend e per tanto
funk bianchissimo condito da smalti r'n'b: in pratica, il
meglio dell'avant traghettato pop stellestrisce, il portato indie traslato world, l'esotismo che in Timeless Form,
Formless time mastica sofisticazioni à la Sea And Cake
e ribalte Madagascar (quello della Pixar). Non mancano
momenti cheesy (Never Gonna Die), uno houmor tipicamente americano da sempe parte integrante dei modi
rafteriani e una certa giocosità che sfocia in un format
divertito e divertente. Senza che la bravura diventi un
peso ed evitando la chirurgia pedante. In una parola, uno
spasso.(7.1/10)
Edoardo Bridda
Red Sparowes (The) - The Fear is
Excruciating, But Therein Lies
the Answer (Conspiracy Records,
Marzo 2010)
G enere : post post rock
I Red Sparowes sono un quintetto losangelino giunto
al terzo album. Fanno post rock strumentale riconducibile ai primi Mogwai ed Explosions In The Sky, ma
ci fanno la grazia di declinarne l'accento verso territori
brumosi Americana, senza disdegnare complicazioni gotiche a base di synth. Così facendo si salvano in corner,
però a dire il vero neanche troppo e non certo fino in
fondo. Resta quel senso di ricerca spasmodica dell'acme, l'accumulo degli elementi, la cottura a fuoco lento
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dei materiali emotivi, la cura dei risvolti cinematici, tutte
quelle forme e movenze insomma che avevano un senso
- eccome se ce l'avevano - quando era in corso una profonda crisi di ripensamento rispetto ai cliché e persino
alla "missione" del rock. Poi è successo quel che è successo, il riflusso, la simultaneità degli stili, l'accessibilità
totale, la polverizzazione delle scene. E tutto quell'elucubrare sembrò d'improvviso perdere senso, forza, necessità. I Red Sparowes sono una buona band, capace di
sfornare trame suggestive con bella padronanza. Ma oggi,
anno 2010, trovo che ascoltarli sia un esercizio ozioso e
a dire il vero un po' noioso.(5/10)
Stefano Solventi
Rhys Chatham - The Bern Project
(Hinterzimmer Records, Gennaio
2010)
G enere : neominimalism
Di Rhys Chatham abbiamo ancora in mente la grandiosità di quattrocento chitarre che suonano insieme
per un obiettivo neominimalista. Era A Crimson Grail For
400 Guitars, un progetto maestoso che ha creato subito abitudine, stilemi, che ha lasciato tracce indelebili. The Bern Project è un'altra cosa. Innanzitutto è il
risultato di un incontro, di
un aneddoto: Chatham che
arriva nel 2008 a Berna per
un concerto e lì incontra
Mago Flueck, Julian Sartorius, Beat Unternährer, nonché Reto Mäder
della Hinterzimmer Records. Quest'ultimo diventerà produttore del progetto, e la sua etichetta responsabile della pubblicazione. Gli altri tre, il primo bassista,
il secondo batterista e il terzo trombonista, da musicisti
"raccolti" daranno l'anno dopo la propria identità e i
propri timbri (e, ai fini del copyright, anche la propria
autorialità) a The Bern Project, altra opera di grande
effetto, ma meno incompromissoria che nel passato.
Il crescendo esaltante di War In Heaven (titolo esemplare) parla chiaro, proprio alla luce dei nuovi inserti. I tratti
del neominimalismo Chatham-iano sono qui più euforici,
più vicini ai suoni e alle norme del rock, ma non della
no-wave, di cui davvero poco si sente nell'album. Siamo
a un livello più concreto di ascoltabilità, riconoscimento
di figure a cui ancorarsi. Stupisce poi la carezza free di
Scrying In Smoke, dove la tromba di Rhys prevale sussurrando e misticheggiando sulla chitarra - ma senza dichiarare gerarchie, sia ben chiaro. Il bis è subito lì di presso, nell'incanto quasi ambientale di My Lady Of The Loire.
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E c'è un ombrello che racchiude tutto questo, come i
due episodi finali. Si chiama leggerezza. L'ultraoltranzista
Rhys Chatham mette in scena le vie di fuga da se stesso,
lasciando prendere il ruolo protagonista a qualcun altro,
che aleggia in tutta l'opera e si materializza sul finale,
prima nella micro-frammentazione impro alla Sinistri
di Under The Petals Of The Rose, poi nell'eccitazione del
pubblico, che sembra spronare il compositore su questa
strada. Il quale si toglie la soddisfazione (affatto divertita)
di auto-citarsi - ma evidentemente con buona dose di
ironia - in Is There Life After Guitar Trio? Come meglio concludere una recensione di The Bern Project se non
rispondendo di sì? è Rhys a dircelo.(7.2/10)
Gaspare Caliri
Rob Swift - The Architect (Ipecac
Recordings, Febbraio 2010)
G enere : turntabilism
Basta poco perché un disco basato sull'abilità tecnica si
trasformi in sfoggio onanismo: da questo punto di vista
tra un autocompiaciuto virtuoso del Technics SL-1200 e
l'invasato della sei corde alla Steve Vai non v'è alcuna
differenza. Idem quando ha la meglio un approccio che
saggiamente considera i "mezzi" per quello che concretamente sono. Accade in modo costante in questo nuovo lavoro di Rob Swift, esordio per Ipecac, la cui gestazione è iniziata diciotto mesi prima dell'uscita ufficiale:
considerando la sua riconosciuta destrezza (testimoniata - tra numerosissime partecipazioni e onorificenze, apparizioni televisive e in festival jazz - nel 2009 dal DVD
As The Technics Spin), Swift si appoggia a una robusta conoscenza della sostanza sonora e ne esce salvo.
Frammentaria com'è tipico e giusto, questa mezz'ora abbondante spazia da fondali orchestrali (Mozart, Bach
e Chopin nel background del ragazzo: ascoltare Spartacuts prima di inorridire) a goticismi, da sospensioni stridenti a visioni cinematiche unificate da groove plastici.
Roba fina, anche se non si toccano i vertici del giovane
DJ Shadow (referente dei passi d'impronta metropolitana) o di certe frange estreme della scena hip-hop. I
tre "movimenti" di Lower Level e le due tracce arricchite
dal rimare di Breez Evahflowin inducono a riascolti
non di mera cortesia, essendo qualsiasi orpello ridotto
al minimo se non assente. Fan ed esperti hanno di che
apprezzare.(6.7/10)
Giancarlo Turra
Robyn Hitchcock - Propellor Time
(Sartorial Records, Aprile 2010)
G enere : songwriting
Con Propellor Time Robyn Hitchcock riprende il di-
scorso lasciato nel 2006 con Olè Tarantula, quando
per la prima volta era stato affiancato dai Venus 3 (Peter
Buck, Scott McCaughey e Bill Rieflin); infatti i pezzi che
sarebbero diventati l'ultimo album sono stati messi da
parte, in favore di un altro disco, Goodnight Oslo pubblicato l'anno scorso, composto di materiale successivo
sempre con i Venus 3.
La formazione si arricchisce in Propellor Time di ulteriori
ospiti, come Johnny Marr, John Paul Jones, Nick Lowe
e Chris Ballew (Presidents Of The United States
Of America), confermando l'ex-Soft Boys ancora padrone di quel songwriting tra rock e psichedelia, psych
e folk, ironia e malinconia che lo ha reso un capostipite
di questo genere.
Hitch realizza un disco compatto questa volta, degno seguito della "tarantola", che sancisce l'amalgama perfetto
con i compagni di viaggio e soprattutto la tenuta della
sua scrittura. Una vitalità ancora fresca e una prolificità
invidiabile.(7.2/10)
Teresa Greco
Roedelius - The Diary Of The
Unforgotten Selbstportrait VI
(Bureau-b, Aprile 2010)
G enere : krautrock
La chiave di lettura per questa ennesima uscita dell'alchimista sta nel (sotto) titolo. Trattasi del sesto capitolo
della serie "autoritratto", al cui interno Roedelius rispolvera in perfetta solitudine materiale lasciato nel cassetto: nel caso specifico, l'ora che qui scorre - tra gassose
elevazioni d'elettronica campestre e un classicheggiante
ristagnare di acustici tasti - proviene dal lustro '73 '78,
dall'amato ritiro di Forst come dalla località austriaca
di Blumau. Nastri, chissà, forse accantonati tra una sessione con Moebius e Rother, un'insalata con Brian
Eno e un caffé lungo tutti
assieme.
Musica solo apparentemente immobile ma che,
come sempre, nasconde
l'indole inquieta tra le pieghe quando la esplicita.
Dopo aver ritratto il futuro
dell'occidente industriale
che è divenuto questo presente, in lui aveva all'epoca
prevalso l'essere umano. Riaffiorava così il pianista che
stira i suoni come acquerelli e lo stesso fa con i sintetizzatori, cavando dal cilindro rifrazioni, brume e atmosfere stranianti allorché finge di rassicurare. E inscena per
lo più pagine d'accademia punteggiate di qualche colpo
d'ala, quantunque lontano dalla grandezza "vera" del suo
educato Genio. Che è chiaramente da cercarsi altrove,
tuttavia guai a sottovalutare l'artista quando dipinge se
stesso.(6.8/10)
Giancarlo Turra
Sade - Soldier Of Love (Sony BMG
Music Entertainment, Febbraio
2010)
G enere : urban soul
Dopo dieci anni ritorna la signora del soul britannico
anni '80. E con lei ritorna il portamento regale, la capacità di smarcarsi con il solo sguardo e quel pop di
qualità che da sempre si sposa con il successo di vendite
(cinquanta milioni di dischi venduti o giù di lì). Over 50,
è ancora bella come 20 anni fa. La nobiltà di una voce e
di una dedizione. Sade Adu. Mezza inglese mezza nigeriana: il miscuglio che intriga e che appassiona. Il classico
che si ripresenta oggi e che è senza tempo.
Con un personaggio così eterno hai quasi paura a sentirle le prime note: passi in rassegna le tracce e ti ritrovi un
singolo con il tamburo in marcetta quasi bbreak Soldier
Of Love, la sviolinata puro soul di The Moon And The Sky,
il lentone meditativo Morning Bird, i pezzi urban (Babyfather, Bring Me Home), le ballad cavallo di battaglia (The Safest Place, Long Hard Road, da panico gli archi e il sax di In
Another Time) e t'accorgi che l'anima sopravvive al tempo
senza effetti o superproduzioni, sopra agli arrangiamenti
piacioni e alle strizzatine d'occhio alla top ten (che non
mancano manco loro). Che donna, Sade.(7.2/10)
Marco Braggion
Samuel Katarro - The Halfduck
Mystery (Angle Records, Aprile
2010)
G enere : rock - psichedelia
Le aspettative le creano le testate giornalistiche, i premi
ricevuti, le manifestazioni a cui partecipi, i buoni riscontri che riesci ad ottenere dal pubblico. E ovviamente la
musica. In questo senso Beach Party, esordio di Samuel
Katarro, ha rappresentato un paio di anni fa un caso emblematico di convergenza inaspettata tra intellighenzia e
gusti degli ascoltatori, originalità e urgenza creativa. Un
disco di cui c'era evidentemente bisogno e al cui seguito si chiedeva di confermare le ottime premesse, oltre
che di indicare quali direzioni avrebbe preso il Mariottipensiero fuori dall'incoscienza blues-psych-wave degli
esordi.
Il nuovo The Halfduck Mystery viene a patti con l'istituzione "rock" e palesa un debito non indifferente verso i
Sixties americani più freak innervati dalla consueta componente lisergica. Preferendo alla creazione di un arche73
tipo personale folgorato sulla via di Robert Johnson
un prêt-à-porter sornione e adatto alle grandi firme del
giornalismo musicale. A nobilitare il tutto ci sono un lavoro di studio articolato, un pugno di validi collaboratori
(tra i tanti l'inseparabile Wassilij Kropotkin e Enrico
Gabrielli dei Mariposa) e una tendenza alla contaminazione generalizzata, nel tentativo di giustificare con
un'opera ambiziosa l'attenzione capitalizzata in passato.
Da qui, la routine. Nei Grateful Dead circensi - periodo Aoxomoxoa - di Pink Clouds Over The Semipapero,
nel vaudeville deviante di The First Years Of Bobby Bunny
, nei Love di Three Minutes In California, nel garage morbido di Pop Skull.
I pezzi da novanta non mancano, ma sono giusto un paio:
l'iniziale Rustling e la barocca 'S Hertogenbosch Blues Festival, guarda a caso gli unici episodi che si discostano dal
tenore revivalista del disco. Entrambe sontuose suites
psichedeliche sospese tra archi, jazz, Jennifer Gentle,
Mercury Rev, folk orchestrale e capaci di far emerge prepotente il Katarro
più visionario. In altre parole, il personalismo da
ricercare a cui si faceva
riferimento all'inizio. Il resto del disco si posiziona
tra un dignitoso mestiere e
qualche sprazzo brillante, finendo per meritarsi un sette
che da un lato tradisce in parte le aspettative e dall'altro
non rappresenta appieno le reali potenzialità di Samuel
Katarro.(7/10)
da Conan O'Brien a David Letterman, da Denzel Washington a David Byrne tutti la chiedevano e tutti la
volevano. Ognuno a lodare esibizioni dal vivo - Coachella, Roskilde e WOMAD non possono sbagliarsi - che le
cronache raccontano esaltanti. Belli i dischi, allora, ma
le mura dello studio fallivano nel restituire appieno le
potenzialità di Sharon e dei Dap-Kings, da par loro strumentisti in grado di far volare Al Green ed Amy Winehouse. Non qui, in un album prodotto dall'abile chef di
casa Bosco Mann utilizzando un vecchio Ampex a otto
tracce negli oramai mitici studi - nomen omen - House Of
Soul. è un disco che respira e ricostruisce consapevole
uno stile, questo, e mai revival fine a se stesso.
Non si è al cospetto di effimere sciacquette, ma di gente
che questa materia la maneggia da sempre, e sta lì la
spiegazione di un'ugola matura e duttile, di un riassunto
curato però viscerale della musica nera classica allestito tra un punteggiare di tasti e un incastro tra ottoni e
archi, una ballata sofferta e un'accelerazione del passo.
Dal sontuoso "Philly sound" The Game Gets Old che apre
vellutato eppure fermo fino alla chiusura (Sam Cooke
giovane e femmina…) Mama Don't Like My Man sfilano
solo delizie che non temono polvere. Con I Learned The
Hard Way, titolo autobiografico che sigilla il traguardo
raggiunto, Miss Jones entra nell'alta società del vintage
soul contemporaneo. Srotolate il tappeto rosso.(7.4/10)
Fabrizio Zampighi
M Ward e Zooey Deschanel, il songwriter e l'attrice,
strana coppia davvero, ancora insieme per la seconda
parte della loro collaborazione. Il primo Volume One
(2008) aveva funzionato, con lei a scrivere quasi tutto il
materiale e lui ad arrangiare e produrre quella mistura
tra folk e pop di derivazione Sixties, con la voce cristallina dell'attrice a far da collante.
In Volume Two viene riproposto lo schema consolidato di scrittura-arrangiamento, cover comprese (questa
volta tocca a Ridin' In My Car - NRBQ e Gonna Get Along
Without You Now - Skeeter Davis), con una maggiore consapevolezza e sicurezza di scrittura rispetto all'esordio:
scintillanti pezzi revival rivisti all'oggi, una sorta di Isobel
Campbell & Mark Lanegan, o Belle & Sebastian
tout court, riecheggiando altre coppie famose del passato, come i gloriosi Nancy Sinatra e Lee Hazlewood
o i Carpenters.
I nomi obbligati sono gli stessi del primo album, Dusty
Springfield piuttosto che Zombies e Ronettes; dalla
sua la Deschanel - vista di recente in 500 giorni insie-
Sharon Jones & The Dap-Kings - I
Learned The Hard Way (Daptone
Records, Aprile 2010)
G enere : vintage soul
Brillante crescendo quello di Sharon Jones, partita da
un basso di palchi polverosi e platee sudaticce macinando black della più vibrante e convincendo pian piano
critici e appassionati del globo con un tris di dischi. Tre
anni dopo 100 Days, 100 Nights spetta alla carta numero
quattro rivelare se la cinquantatreenne georgiana può
infine calare il poker. Perché se di bluff non si è certo
trattato sin qui, nondimeno ci pareva che mancasse la
scintilla di Bettye LaVette e Candi Staton. E questo,
si badi, in un contesto di solidità esecutiva e ricchezza
dell'interpretazione encomiabili; nel disinvolto pescare
da funk ed errebì, nel volgersi a Stax e Motown come
solo col senno di poi è possibile.
Frattanto la scalata era in pieno corso: dalla CNN a VH1,
74
Giancarlo Turra
She And Him - Volume Two (Domino,
Aprile 2010)
G enere : songwriting
me - ci mette personalità, freschezza e appeal, una Laura Veirs back to sixties. Il tutto si tiene ancora una volta
e per essere qualcosina in più di un side-project funziona
bene. Una riconferma.(7.1/10)
Teresa Greco
Sig - Freespeed Sonata
(Makasound, Febbraio 2010)
G enere : hip hop / jazz
Il francese Sig ci gioca molto, sul look e i modi dell'artista vagabondo. Regista e fotografo, compositore e polistrumentista, i suoi dischi sono le colonne sonore delle
sue pellicole (l'esordio, doppio, Louise (Take 2), 1998;
Sansa, 2003, su cui suona nientemeno che Steve Lacy)
e comunque mantengono sempre forte il legame con
l'immaginario cinematografico, come dimostrano Free
Cinematic Sessions (triplo cd, 2008) e questo ultimo
Freespeed Sonata.
L'album si propone pomposamente come la prima "hip
hop sonata" della storia (ma sonata è uno dei termini più
vaghi del vocabolario musicale) e come un poetico
vagabondaggio attraverso la
città addormentata (un concept? Una colonna sonora
di un film immaginario?). In
ogni caso, la formula non
cambia di una virgola rispetto ai dischi precedenti:
un melange tra jazz (a tratti anche free), hip hop (e trip
hop) e classica (anche contemporanea), con inevitabili
sfumature world, che unisce spartito e improvvisazione. Protagonisti il piano dello stesso Sig, la voce di Joy
Frempong, ghanese trapiantata in Europa, e il sax di
Christophe "Stalk" Turchi (effettivamente bravissimo
nel colorare i pezzi e dare atmosfera, con sottolineature
emozionali che pescano - ovviamente - da certi cliché
delle colonne sonore).
Figlio diretto di quell'estetica fusion/hop che negli anni
Novanta aveva portato da una parte a cose come Jazzmatazz, dall'altra al trip hop, è un lavoro sicuramente
ben fatto e ben impaginato, ma con molto di già sentito
e soprattutto privo della giusta dose di intensità: ascoltando il disco si prova la stessa sensazione - artefazione,
mancanza di qualcosa - che si prova guardando una foto
in bianco e nero che sai essere stata scattata a colori.
Datato, compiaciuto, leggermente soporifero (i momenti
efficaci galleggiano in mezzo a sessantacinque minuti che
sembrano molti di più) e conservatore.(6.1/10)
Sightings - City Of Straw (Brah,
Aprile 2010)
G enere : industrial - nowave
Non dall'inizio, ma dalla seconda traccia proviamo ad approcciare il nuovo album dei Sightings. Jabber Queens
è un incubo analiticamente tutto interno a New York
(DNA, su tutti), ma in qualche modo ecumenico. È pur
vero che il disco è stato registrato a Brooklin, NY (la patria stessa della band), nello studio degli Oneida, e pubblicato dalla Brah Records, costola brooklin-iana di Jagjaguwar. E che in sostanza sentire suonare i Sightings vuol
dire prestare orecchio a un suono in tutto e per tutto
newyorkese. Ma, saranno gli anni che passano (e i dischi
con essi, trattandosi del settimo della ragione sociale)
e sarà l'equivalenza sempre più circostanziata e sempre
più imitata del noise di marca NYC, si sente un tentativo
di linearità, nel disco. Qualcosa che faccia il punto, e con
ordine, seppure in un fracasso micidiale, as usual.
Sono gli elementi che compongono il tutto di City Of
Straw a farcelo dire: l'analisi, non la sintesi, e quindi lo
smontaggio pezzo per pezzo. La voce - per iniziare - è
un filo conduttore fin troppo continuo, un timbro che
rischia di diventare discorso scontato, per la band. Un
lamento impostato e costruito, un po' distaccato, nell'orrore che vuole esprimere. La cavalcata di Saccharine Traps
ci mostra l'unica variante all'ugola monolitica di Mark
Morgan, qui rimpiazzata da un declamatorio noise-core
strindentissimo. Eppure questa stessa traccia mette in
grandissima evidenza la centralità della chitarra, che a
livello di riconoscibilità figurativa emerge in tutti i pezzi
come appiglio quasi salvifico, timbricamente solido. Una
certezza per l'ascoltatore, che tiene ancora la scena ancorata a sé, tracciando un lungo dilatatissimo solo, in We
All Amplify, così come battendo continue staffilate sul tessuto industriale di Hush. La title-track è - ancora - un
inceppo continuo tra una rhythm box rotta e una chitarra con aperture quasi cosmo-noise. Un incaponimento
che alla fine (dopo nove minuti) convince, nel delirio di
rumore bianco che ne germoglia, come una primavera
malatissima.
Eppure, nel tentativo di trovarsi uno spazio - peraltro
brillantemente preso in affitto e abitato negli album
precedenti, da Arrived In Gold a Through The Panama
- nell'impero del noise / industrial della grande mela, i
Sightings perdono mordente e acquistano in caricatura.
Ma forse, semplicemente, dopo quasi tre anni ci aspettavamo qualcosa di più dal trio di Brooklin.(6.6/10)
Gaspare Caliri
Gabriele Marino
75
Sleep Whale - Houseboat (Western
Vinyl, Novembre 2009)
G enere : F olk
Joel North (chitarra e cello) e Bruce Blay (macchinari e
violino) un bel giorno sono partiti da Denton, Texas, e
sono andati a vedere il mare. In quel periodo probabilmente lì da qualche parte nel Golfo del Messico nuotavano tranquille delle balene. Ne è venuta fuori una musica
marina, a tratti proprio cetaceologica, un incantamento
panistico che all'epopea di Melville preferisce il naturalismo di un Thoreau deciso ad imbarcarsi per scoprire la
parte acquea del mondo.
Ma sulla nave l'equipaggio è atipico: Bert Jansch e le sue
prose acustiche, qualcuno dei Can, poi Steve Reich in
persona, e ad occuparsi di sonar e aurore Sigur Ros, Mogwai e di passaggio per qualche giorno addirittura Fennesz. Fatta la somma pensate ad una base psych-folk di
chitarre, archi e filamenti kraut dove crescendo e attitudini paesaggistiche entrambi tenuti leggermente a freno
sono le vele della barca. Detto così pare un capolavoro,
ed in effetti alcuni episodi che lasciano libero seppur solo
a tratti qualche vagito tra l'ambient e lo sperimentalismo
quasi lo sono (We were dripping, Still drumming). Sulla lunghezza di tredici tracce il discorso è però abbastanza
ripetitivo ed arrivati in fondo si ha come l'impressione
assai paradossale che gli Sleep Whale osino poco. Forse devono semplicemente riprovarci.(6.7/10)
Luca Barachetti
Songdog - A Life Eroding (One
Little Indian, Marzo 2010)
G enere : folk rock
E sono cinque gli album per i Songdog, trio inglese da
Blackwood con tanta America nel cuore. Meno lirici e
visionari, se volete più dimessi rispetto a quelli del predecessore A Wretched Sinner's Song, gli undici pezzi
di A Life Eroding si disimpegnano tra ballate soffici
e indolenzite come potrebbe un John Mellencamp
parecchio giù di corda (la title track, Shaman) o degli
Okkervil River col cuore in ambasce (3:30 AM, oppure
quella Obediah's Waltz al sapor di Tom Waits).
La sobrietà delle composizioni è sorretta da arrangiamenti ben commisurati,
elettricità, fiati, fisarmoniche, archi e quant'altro
sono segni che colorano
con garbo il mood delle
varie situazioni: ascoltare
per credere quei gioiellini
di 1979 e I Got Drunk And I
Wrote You A Poem. Si ripete
76
quindi il miracolo del folk (più o meno country), che
forse non ha più nulla d'inedito da proporre ma nei casi
migliori riesce a trovare comunque qualcosa di bello da
dire. (7/10)
Stefano Solventi
Stereo Total - Baby Ouh! (Disko B,
Marzo 2010)
G enere : E lectro pop
Chiamatela coerenza, se volete. La verità è che sono più
di quindici anni che Françoise Cactus e Brezel Goring ci
deliziano con la loro formula a base di trash pop, canzone
d'autore, punk e attitudine cosmopolita. Nel frattempo,
le mode sono cambiate e la formula che agli inizi dello
scorso decennio sembrava la più cool in circolazione ha
subito più imitazioni della Settimana Enigmistica.
La progressiva normalizzazione, iniziata col pur valido
Musique Automatique, aveva fatto sì che l'ultimo Paris Berlin procurasse qualche mal di pancia ai fan della
prima ora, e Baby Ouh, l'ottavo album di inediti giocato
anch'esso al ribasso, non sarà certo quello che riporterà
indietro le lancette dell'orologio. Negli anni Françoise,
da suadente chanteuse ha finito per assomigliare a quella
gattara della mia vicina di casa, mentre Goring è sempre
più il moscone da bar di bukowskiana memoria. Morale
della favola: il punk è solo un ricordo di gioventù. I nuovi
brani risultano tanto più convincenti quanto più volano
bassi sui binari di un freschissimo easy listening e di un
electropop danzereccio.
In questa appiccicosa verve troviamo l'appeal immediato
di Illegal (il guilty pleasure a cui difficilmente rinunceremo) e la cover di No Controles dei one hit wonder Flans
(una cosetta dalla melodia infantile che canticchiavo a
dodici anni e che ora, accidenti a loro, non riesco più a
togliere dalla testa). Sul versante pilota automatico invece c'è sicuramente l'europop della title track, con tutto
che quando tirano improvvise zampate (come nel caso
dell'electro a 8-bit di Alaska o della frenesia da patchinko di Elles Te Bottent,Mes Bottes?), i nostri dimostrano
d'essere vecchi leoni con le unghie ancora ben affilate.(6.5/10)
Diego Ballani
Thomas Dybdahl - Thomas Dybdahl
(Last Suppa, Aprile 2010)
G enere : C ountry - folk pop
In attesa del quinto album di studio, è uscita già da un
po' questa retrospettiva della carriera dello stimato exQuadraphonics in cerca di conferme internazionali
dopo gli anni d'oro (quando non di platino) nella nativa
Norvegia.
In dieci anni circa di carriera, il nostro ha infatti messo
insieme un songbook che potrebbe tranquillamente scavarsi una nicchia due passi più lontana dal pop rispetto
ai conterranei Kings Of Convenience, o due più vicina rispetto al Jeff Buckley cui viene paragonato spesso
(nemmeno a torto a sentire per es. Adelaide o A Lovestory).
Con gli afieri del NAM condivide la sommessa delicatezza
generale e i paragoni con Nick Drake, e può ricordarli
sulle spazzole a treno di Cecilia o di Something Real, ma
se ne distingue per uno spettro sonoro non altrettanto
terso sia strumentalmente (vedi i tormenti-Cave di I
need love baby, love, not trouble), sia per il pathos dei falsetti
Jeff-iani, ma anche per un rapporto col pop che passa per
gli USA di un certo folk bianco venato soul, come l'ottima
apertura di From Grace e che sa anche far dialogare steel
guitar e jazz in One day You'll Dance For Me New York City,
sdraiarsi sui Pink Floyd altezza Meddle di If We Want It,
It's Right e Rise In Shame o scrivere una Dice che sarebbe
perfetta per Isobel Campbell.
Lo scopo artistico di mostrare gli indubbi talenti dell'autore lo raggiunge, per quello commerciale vedremo. I numeri ci sarebbero.(7.1/10)
lunghezze come i 7:10 minuti di A More Perfect Union,
il loro nuovo manifesto).
Vale quanto detto per The
Airing Of Grievances, il
disco d'esordio, ovvero un
giudizio non senza riserve.
I Titus Andronicus hanno
fatto piazza pulita di tutto e si propongono con una coerenza estetica che, più che naif, questa volta sembra furba.
L'unica condizione per non essere ridicoli è avere penna
e cimentarsi con una determinazione da cavalli, cioè coi
paraocchi. Questo sono i Titus Andronicus. E The Monitor è un album lungo, che si manifesta come tale, ma che
tiene all'ascolto. A conti fatti, un altro pareggio tendente
alla vittoria.(6.6/10)
Gaspare Caliri
Tre Allegri Ragazzi Morti Primitivi del futuro (La Tempesta
Dischi, Marzo 2010)
G enere : punk - reggae - dub
Scorrono uno dopo l'altro i brani di Primitivi del futuro.
Giulio Pasquali Con La ballata delle ossa che scalda i pneumatici mescolando Jamaica e vecchi TARM, in vista di una quarantina
Titus Andronicus - The Monitor (XL, di minuti di tornanti tra reggae e dub come non ci si
aspettava proprio.Tanto che inizialmente si cerca qualche
Marzo 2010)
rassicurazione nei brani a venire, almeno per giustificare
G enere : irish - punk
I Titus Andronicus puntano al sodo, anche per il so- la ragione sociale che campeggia in copertina.
phomore. Recuperano la formula che inizialmente ave- E invece, niente. Inflessibile, disciplinata, stravolta nell'esteva dato loro visibilità, cioè la declinazione punkish delle tica e ben diretta dallo specialista Paolo Baldini (B.R.
folk-songs tirate all'irlandese. E in The Monitor portano Stylers, Africa Unite, Dub Sync), la band di Pordenone
la formula all'eccesso, cioè all'estremo protagonismo. Di mastica ritmi in levare e sputa tribalismi. Un'immersione
certo questa è una scelta fatta per godere del favore che consapevole in un primitivismo musicale che vorrebbe
si dà alle cose vere, a quelle senza troppi fronzoli, a quel- fare il paio con i testi "a tema" di Toffolo, questi ultimi in
le che affrontano un discorso autentico e come tale lo bilico tra critica sociale (Prendi a calci il tuo padrone / non
restituiscono - basti pensare che i testi imbastiscono un lo fai / parla dei tuoi desideri / non lo fai / metti a fuoco la nablando concept sulla guerra civile USA. I Titus Androni- zione / non lo fai / smettila di comperare / non lo fai / stacca
cus hanno l'indubbia capacità di vendere una autenticità la televisione / non lo fai) e riferimenti alla natura (guardate
pronto consumo che oggi non ha neanche più bisogno che sbagliate / se il grillo torna al campo anche voi ci guadagnate / hanno ammazzato i grilli /sterminato le formiche /
dell'alone wavey per fare successo.
Cavalcate alla Pogues che si animano di corse, sgolate esiliato talpe e topi ed impiccato me), riflessione (Il mondo
punk, arpeggi che sanno d'arpa verde, toni anthemici, ri- è mio mi sembra / sarà che ho ventotto anni / e mi distraggo
partenze nel più classico dei copioni, e diremmo anche ancora molto / perché figli non ne ho / ne ho avuto un tempo
una innegabile conoscenza del mezzo espressivo (che in uno / me l'hanno sequestrato / parlar da solo in tribunale /
queste vesti non è neanche così difficile da conoscere, questo è il mio reato) e impegno (La memoria che non è /
ammettiamolo). A Pot In Which To Piss è una ballata rapida- quello che ricordi della storia passata / è qualcosa di più promente trasformata nell'ormai distintivo inno punkish. E, in fondo / che ha a che fare con la memoria del mondo).
generale, i brani sforano la soglia del minutaggio punk (o Fine dell'amata adolescenza, fine degli Occhi bassi, fine dei
folk) per diventare innesti di canzoni su canzoni, di inni fratellini che scoprono il rock'n'roll. Eppure, nonostante
su inni, in atteggiamento quasi narrativo (e determinando una freddezza generalizzata sconosciuta ai ritmi giamai77
cani ma giustificabile chiamando in causa il DNA originale della band, c'è personalità. Anzi lo stile TARM emerge
ancora più forte, a tener le redini di una virata stilistica
riuscita proprio perché consapevole di rappresentare
idealmente - e paradossalmente - un continuum con la
produzione precedente.(7/10)
Fabrizio Zampighi
Unfolk - The Venetian Book Of The
Dead (Diplo, Marzo 2010)
G enere : avant - folk
Dieci moderne protest songs e sei interludi strumentali
avvolti in un packaging di una bellezza e ricercatezza unica con copertina cartonata e immagine presa dall'Ecce
Homo di Delvaux. Si presenta così il comeback di uno dei
progetti più oscuri e trasversali del panorama italiano.
Unfolk, termine eterodosso che un paio d'anni addietro dava il nome al primo disco di Alessandro Monti e che ora, sulla scia di quel che successe con Carla
Bozulich/Evangelista, si trasforma in moniker a sé stante.
Quasi come una calamita, Unfolk attira a sé, oltre al succitato capopopolo, anche Kevin Hewick, misconosciuto
artista del primo post-punk
inglese e cantante dal pathos
inimmaginabile, e una moltitudine di artisti e musicisti
(Gigi Masin, Bebo Baldan,
Riccardo De Zorzi, ecc.).
Tuxedomoon e Current
93, experimental-folk sui
generis e elettronica bislacca, free-prog canterburiano e wave coltissima, musica
etimologicamente industriale e emotivamente ricercata.
Genericamente, e in misure variabili e umorali, è ciò che
si può rintracciare nel libro veneziano dei morti, sorta di
Bardo Thodol della città lagunare. The Venetian Book
Of Dead è infatti un concept che sotto le spoglie gentili
di una musica elegante e raffinatissima, in alcuni tratti elegiaca come può essere quella di Mr. Tibet, trattiene una
natura forte, pregna di odore di morte. Centrale nelle
liriche è la denuncia sociale legata alle vicende del petrolchimico di Marghera: le malefatte di chi impunemente dirigeva quel luogo e il silenzio che ha accompagnato, vera
e propria colonna sonora di un universo in disfacimento,
le molte morti succedutesi in zona.
Unfolk propone dunque un modo, ormai quasi dimenticato, di coniugare impegno civile e musica, mettendo la
seconda al servizio del primo per poter oltre che dilettare anche risvegliare qualche coscienza assopita. Nello
stesso tempo chi vorrà approfondire la storia dietro questo concept scoprirà che The Venetian… è un sentito,
78
appassionato "tributo alla città, ai lavoratori e ai cittadini
scomparsi e all'amato vinile".(7.5/10)
Stefano Pifferi
Unwinding Hours (The) - The
Unwinding Hours (Chemikal
Underground Records, Febbraio
2010)
G enere : pop post - rock
Knut è un pettinatissimo crescendo verso l'inevitabile deflagrazione (Mogwai? Sigur Rós? Fate voi). Poi una serie
di ballate tra il pop orchestrale, una volta mood primi
Elbow (Tightrope), un'altra con coralità eteree e melassa
(Little one), e il bozzetto acustico con archi o senza (Solstisce) su cui si spande un'incursione rumoristica che definire inutile è carità (There are worse things than being alone).
Nella seconda parte invece parziale cambio di registro:
inquietudini e chiaroscuri Peter Gabriel in salsa indierock (Peaceful liquid shell: non manca un'altra mezza botta
finale) o su profondità di basso (Child), albeggiamenti con
rifrazioni di luce che rimangono un po' lì così a mezz'aria
e una chiusura, The Final Hour, che inizia sussurrata e lontana e quindi esplode giusto un attimo prima che ci si
addormenti.
Diabete e noia con gli ex Aereogramme Craig B e
Ian Cook, i quali ripartono esattamente da dove erano
rimasti con il gruppo originario per fare una bella dozzina
di passi indietro e sprofondare verso il baratro. Ok, sono
fuori tempo massimo, ma non sarebbe niente se le canzoni fossero almeno decenti. Invece no, sembrano accanirsi apposta contro chi come il sottoscritto è costretto
ad arrivare in fondo al disco almeno una volta. Chissà
cosa avrò fatto di male per meritarmelo.(4.2/10)
Luca Barachetti
Up, Bustle And Out - Soliloquy
(Echo Beach, Marzo 2010)
G enere : W orld D ub
Tornano dopo tre anni i bristoliani, campioncini e ormai
storia (questo è infatti l'undicesimo album per il combo)
di un sentire world che nei Novanta spopolava pure in
casa Ninja. Da un po' di tempo quelle istanze di rivoluzione e combat non vanno più di moda, ma il produttore
Rupert Mould e il DJ Clandestine Ein continuano lo
stesso a pescare featuring dagli angoli più disparati del
mondo: due membri dei Portishead (Jim Barr e Andy
Hague), la percussionista argentina Eugenia Ledesma, la
cantate turca Sevval Sam e altri personaggi del loro giro
giusto.
Il risultato viaggia tra melodie downtempo che ricordano
i '90 della band di Beth Gibbons (Satie's Atelier) innestati
di elementi turchi (Absent
Crowds, Littered Dreams), ricordi arabi (bello il feat. di
Amal Murkus in Sho Beto'l
Alreh), reggae puro (Popcorn
Delights), condimenti colombiani (Beach Combing) e
altre spezie global. Un disco
piacevole all'ascolto, senza troppe pretese.
Gli UB&O continuano la loro contaminazione del suono
bristoliano con amici e conoscenti: in barba alle tendenze,
si conquistano a buon titolo la rispettabilità, dopo quasi
un ventennio di onorata carriera.(6.7/10)
Victor Démé - Deli (Naive, Aprile
2010)
G enere : world
Come fai a dare un seguito a un disco favoloso che ti ha
proiettato dal Burkina Faso al successo, prima oltralpe e
poi nel resto d'Europa? Dopo che ne hai vendute 40.000
copie in tempi di magra come questi, per di più proponendo un folk acustico che parte dal retaggio griot? Finisce
che pubblico e critica si aspettano qualcosa di eclatante
e il rischio è che rimangano delusi, per quanto di buono
e magari ottimo tu possa proporre. L'impressione è che
Victor, al momento di offrire queste quattordici composizioni, abbia voluto essere se stesso e basta: evoluzione
Marco Braggion - sotto forma di arrangiamenti più elaborati - inclusa.
Se vi interessa, c'è la generosità di una voce che spazia
dalla gioia alla malinconia e una produzione arricchita
Upsilon Acrux - Radian Futura
senza snaturare l'insieme. Ascoltate il blues del Delta
(Cuneiform, Marzo 2010)
(Maa Gaafora) riallacciarsi per l'ennesima volta - non ci
G enere : free - jazz - prog - rock
In giro da dieci anni almeno a violentare jazz, prog e rock si stufa mai, però - a una delle sue origini, mentre la dicon propulsione -core, gli Upsilon Acrux non sembra- mensione raccolta dell'esordio giova di un accresciuto
no perdere un colpo o cedere di un passo dalle proprie spessore strumentale (batteria e basso affatto invadenintransigenti posizioni. Radian Futura è il sesto album ti, corde acustiche ed elettrice ben intrecciate, violini al
e reitera in maniera ancora più corposa il math-free-jazz- posto giusto) gestito dall'abile Sodi, produttore esperto
prog-rock strumentale, insano e schizzato che ne è cifra già con Fela Kuti. Ne sortisce una tradizione affrontata
caratteristica da quando, nel 1997, il fondatore e leader con l'autorevolezza del maestro (in Ibe Siran Munlea più
che altrove) e azzeccate, benvenute deviazioni da essa
Paul Lai battezzò la formazione.
Molti riferimenti uguale nessun riferimento, si potrà a (come l'afro-funk - benedetto proprio dal sax di Femi
ragione obiettare, ma la musica della band di San Die- Kuti - Wolo Baya Guéléma o il morbido soul Keeba Sekougo è realmente un miscuglio ondivago e in continua (ri) ma).Tutto semplice e spontaneo, con un artista autentico
definizione/mutazione/fusione dei generi su elencati. nell'accezione più profonda.(7.1/10)
Per chi non li conoscesse ancora, come vago riferimenGiancarlo Turra
to si può suggerire un arco musical-temporale che da
King Crimson, Henry Cow e Magma passando per Virginiana Miller - Il primo lunedì
lo Zorn meno dispersivo arrivi fino a mostriciattoli per del mondo (Zahr, Marzo 2010)
indie-kids come Ahleuchatistas, Hella, Orthrelm o G enere : pop - rock d ' autore
a colti tentativi di rileggere l'indie in chiave sperimentale La vulgata sui Virginiana Miller li vuole songwriters
come succede coi label-mates Cheer Accident. Tempi valorosi ma incompresi per troppo spessore musicale e
dispari, slanci strumentali, strutture elaborate che sono soprattutto letterario. Non ci opponiamo, giacché segneinsieme delicati origami e massicce cattedrali di suoni, remmo Gelaterie sconsacrate e La verità sul tennis
su cui si staglia l'imponente Transparent Seas (Radio Edit): tra gli episodi da avere in un'ideale discoteca dell'italico
28 minuti e passa di "tutto", in cui convivono passaggi rock d'autore degli ultimi quindici anni. Eppure Il primo
ambient-jazz e assoli di batteria, interplay matericamente lunedì del mondo non ci convince del tutto, perché
prog tra le due chitarre e le tastiere e cerebrali (de)co- cercando una legittima sterzata pop - non che prima i
struzioni math, senza mai un secondo di noia.
nostri fossero dei carpentieri, s'intenda - traballa a metà
Musica cerebrale, quella di Upsilon Acrux, ma che nul- del passo pur arrivando saldo a terra.
la ha di artefatto o di accademicamente freddo. Anzi, è I livornesi dal canto loro fanno tutto come deve essere
l'(auto)ironia a farla da padrona in titoli-calembour come fatto: rotondità sparse ovunque a calmierare una tensioIn-A-Gadda-DeVito o pittoricamente canzonatori come ne Smiths-Luigi Tenco focale nel precedente Fuochi
Landscape With Gun And Chandelier. Consigliatissimo a chi fatui d'artificio, innesti d'archi e fiati ad ingentilire o
ama la follia su pentagramma.(7.2/10)
inquietare melodie da sempre comode ed evocative, la
Stefano Pifferi solita buona sostanza lirica nei testi di Simone Lenzi. A
79
mancare invece sono le canzoni, quelle presenti sparse
tra alti senza picchi e bassi senza sfracelli che fatta la media stanno comunque sopra la norma.
è che i Virginiana sono quelli di Tutti al mare, Altrove, La verità sul tennis, Uri Geller (chi ignora segni i titoli e scartabelli
sul tubo) e qui mancano tracce capaci di simili traiettorie,
anche se alcune ballad puntinate di rhodes (La risposta) o
gravide di quello spirito pop tra il Franco Battiato anni
ottanta (L'inferno sono gli altri) ed un imprevisto scheletro Police (Oggetto piccolo (a)) stanno giusto un passo
indietro dai titoli citati prima. Ma noi i Virginiana li vorremmo sempre come quelli di Cruciverba o anche meglio:
intellettuali in miscugli d'alto e basso, doloranti e ironici,
alteri eppure così gustosamente pop(olari): «resto come
1. Orizzontale / che era stato appeso al chiodo fisso delle
sue stesse parole/ quindi deposto dal cruciverba sul giornale quotidiano d'agosto».(6.7/10)
Luca Barachetti
We Have Band - WHB (Naive, Aprile
2010)
G enere : E lectro pop
Year Long Disaster - Black Magic:
All Mysteries Revealed (Volcom
Entertainment, Marzo 2010)
G enere : H ard R ock revival
La notizia è che il leader dei Year Long Disaster è il
figlio di Ray Davies. Non rallegratevi, perché della magnifica capacità di scrittura del leader dei Kinks in Black
Magic: All Mysteries Revealed non v'è traccia. Per
tutta la scaletta si agitano stanchi e vetusti stilemi hard
rock, conditi da piccole incursioni psichedeliche e massaggi cardiaci a canovacci grunge morti da un pezzo. I Led
Zeppelin dei poveri, la caricatura degli Audioslave - e
già lì c'era poco da stare allegri - e della magia sbandierata dal titolo manco l'ombra. Prescindbile.(4/10)
Giampaolo Cristofaro
Zeitkratzer - John Cage
(Zeitkratzer Records, Marzo 2010)
G enere : A vanguardia
Zeitkratzer è più di un dubbio, più di un elemento, più
di un collettivo o di una label. Zeitkratzer è comunque
Reinhold Friedl, e meglio ancora Berlino. Zeitkratzer
Apparentemente niente di nuovo, né nel percorso (hype è l'Europa, la presa della Badopo meno di una manciata di canzoni tra singoli e com- stiglia di un AMM contempilation, qualche remix, passaparola sui social network) poranea, il bisogno se non
né nel genere (synth-pop anni '80 innervato dagli USA la necessità di un ensemble
dei soliti Devo e Talking Heads e rinfrescato da qual- organizzabile sulle ceneri
della vecchia Europa imche goccia di electroclash e TV On The Radio).
Ma il trio mancuniano con base a Londra ha un suo modo provvisativa non-canonica.
di accogliere le influenze, sciogliendole in un amalgama E poiché il contemporache tende a nascondere i sapori originali mediante un neo non ha nemmeno più il
approccio all'insegna dell'obliquità: quella che li porta ad tempo di misurarsi col suo dissanguamento, poiché è più
aprire un disco da dance-floor con i due "lenti" (i 3/4 anni veloce di un corto circuito e non lascia alcuna possibilità
'50 di Piano e la riflessiva Buffet), quella di certe melodie, di pensarsi, avran pensato bene i tipi di Zeitkratzer di
ma soprattutto quella che fa loro evitare i tratti più sput- ripensare, non si sa bene se per l'importanza del nome o
tanati dei modelli, salvandoli così dalla caduta nel caldero- le soluzioni aleatorie, John Cage, che qui viene ripescato nel tardo periodo (mancavano 6 anni alla sua morte)
ne della koiné p-funk anni '00 più manierata.
I singoli, reali e potenziali, come detto ci sono, funzionano quando il filo tra indeterminazione e determinazione si
e con quella scena condividono ovviamente parecchio, faceva non solo più impreciso ma gli permetteva di vivere
tra malinconie Human League, vitalità B-52's e Kraf- su commissioni ed esercitare un grande influsso teorico
twerk riciclati via LCD Soundsystem; ma c'è anche sul senso dell'esecuzione della partitura.
altro, che se rischia ingiustamente di passare in secondo Tralasciando questi argomenti, che a noi poco interessapiano è proprio per la stratificazione equilibrata dell'amal- no, il punto è che se Zeitkratzer lo si può trovare più in
gama messa a punto dalla produzione di Gareth Jones una discografia accanto ai Vibracathedral Orchestra
(già con Depeche Mode e Interpol, per rimanere in o Omit più che accanto a Bach, sta nel fatto che l'aleaargomento), ottimo nell'assecondare il gruppo sia sul lato toria di Cage, strafiticata sul ricorso della non-musica e
catchy che su quello più elaborato, ma soprattutto nel far del rumore catartico, confluisce qui dentro in una molto
sì che, più per spessore e forza che per una cifra stilistica personale e deprecabile avventura da fine dei tempi. Da
inconfondibile o particolarmente personale, il disco rie- qui, l'interesse all'ensamble di Friedl da parte di persone
assai vicine alla fine del suono come Alva Noto, e da qui
sca a spiccare all'interno del genere.(7.1/10)
Giulio Pasquali il ricorso del collettivo a ricomposizioni merzbowiane e
80
musicisti rock dediti al rumore ed all'improvvisazione.
Così le prime due traccie del disco si rincorrono su
soluzioni di non continuità droniche dove i confini tra
orchestrale e contemporaneo, visto il mescolamento,
quasi si annullano; e l'ultima traccia, a dire il vero quella
più interressante, più che richiamare il Cage ultimo, si
squaderna tra elementi "rubati" dal Morton Feldman
più astratto, e vanno avanti per mezz'ora riescendo a
catturare l'ascolto, racchiudendolo in uno spazio quasi
esistenzialista.
Zeitkratzer è dunque un bivio ancora più di un dubbio: da
un lato promettente collettivo di auto-continuazione dialogica di una tradizione europea fortemente dispersa ed
impelagata per probabili finanziamenti statali, e dall'altro
un collettivo le cui scelte stilistiche in nome degli scheletri celebri della composizione riesce ad infittire ed estendere l'asfissiante musica di ricerca persa da più di venti
anni nell'accademismo forzato e senza sbocchi.(5.8/10)
Salvatore Borrelli
Zeitkratzer - James Tenney
(Zeitkratzer Records, Marzo 2010)
G enere : A vanguardia
Zeitkratzer è come già detto, un dubbio, ancor prima
di un collettivo. Zeitkratzer è ora James Tenney, sotto
la serie Old School, come nel caso dell'altro tassello dedicato a John Cage.
Old School sia chiaro, perché nelle intenzioni del collettivo capitanato da Reinhold Friedl, la causalità, cioé
ciò che viene prima e ciò che viene dopo, ha un ruolo
perlomeno decisivo nel fare di una serie, appunto la Old
School, lo specchietto per le allodole in fieri di un nuovo
suono. Un suono che passa da un collettivo sempre in
movimento, il cui intento attuale è quello di rivitalizzare,
o reinterpretare, con un gusto non si sa fino a che punto
puro, l'essenza di quanto di buono c'è stato tra i compositori della vecchia guardia. E di farlo quasi alla stessa
maniera dei migliaia di musicisti dronico-sinfonici in giro
per il mondo. L'unica differenza è che qui c'è di mezzo
la dizione "musica colta" che fa, in parole povere, l'unica
differenza... (anche se si tratta di una differenza di pura
forma).
Bisognerebbe dare un taglio d'articolo non tanto ai suoni contenuti in ogni dischetto di Zeitkratzer, quanto agli
intenti da repertorio ed alla necessità di reinterpretare
degli autori certamente non-dissimili né unilaterali come
Tenney e Cage per comprendere fino a che punto il gioco
al ripescaggio sia adeguato e quanto in questo bisogno di
contemporanizzare certi autori non vi sia che uno stanco
quanto furbo richiamo alla monetizzazione o alla ricerca
di crediti per festival internazionali spesso commissionati
con cangianti risarcimenti. James Tenney è conosciuto
per i suoi celebri crescendo e decrescendo per climax,
picchi dinamici, spazializzazioni strumentali e la sua musica perlopiù potrebbe venir letta come l'immanenza stessa, la ricerca di una forma narrativa immanente basata sul
bisogno di gravità o di sintesi di opposti bilanciamenti,
spesso dettati dal circolo delle quinte, o da overtones
strutturati su triadi in C.
Quello che più fa pensare in questi casi è che autori come
Tenney o Cage, avevano basato tutti gli sforzi sonori ed
extra-sonori sul tentativo di fuoriuscire dal soffocante
universo accademico con argomentazioni di natura extrasensoriale ed extrateorica contenuta in buon parte già
nella loro musica, quantomeno disallineata dall'universo
chiuso delle accademie. Stupisce che Zeitkratzer, sia nelle
otto pagine di libretto, sia nella linea formale ed informale
dei pezzi si ostini ad imprimere con un rigido sistema
calligrafico dalla natura quasi ritorsiva.
Più che sdoganamento sembra respingimento. Respingimento per una New School molto più pretenziosa, spocchiosa e sterile di quanto gli autori presi in considerazione non siano stati mai.(5.5/10)
Salvatore Borrelli
Zola Jesus - Stridulum EP (Sacred
Bones, Marzo 2010)
G enere : G oth P op
Dopo il debutto The Spoils dell'anno scorso, Nika Danilova in arte Zola Jesus ritorna con un'uscita che solleverà
gli scettici delle precedenti release. Accanto ad un sound
ripulito (senza per questo risultare inefficace), i sei brani del mini mostrano il lato più cristallino della tenebra
della ragazza del Midwest
ora residente a NY. Night
e I Can't Stand virano verso lidi radio-friendly quasi
new age, mentre il resto
gira intorno all'umbratilità
della casa: Trust Me è una
preghiera raccolta, Run Me
Out una tensione struggente, e la conclusiva Manifest Destiny richiama i clamori industriali dei primi singoli. Senz'altro un disco di passaggio
nella migliore delle accezioni.(7.2/10)
Andrea Napoli
81
— libri
— live report
Fenomenologia di Battiato
E nzo D i M auro (A uditorium E dizioni , 2010)
C'è stato un tempo, ero giovane, molto giovane, nel quale anche io facevo parte di quella schiera umana definibile
sotto il nome di “fans di Franco Battiato”. Che cosa differenzi un “fan di Franco Battiato” dal mero “ascoltatore di
Franco Battiato”, magari anche appassionato, è presto detto. Religiosismi sincretici a parte (eh sì, ognuno ha i suoi
scheletri nell'armadio: il mio tutt'oggi tiene l'Adelphi di Siddharta di Herman Hesse sotto il braccio), del cantautore
siciliano l'ascoltatore semplicemente ascolta le canzoni, il fan invece si beve tutta d'un fiato qualsiasi cosa egli dica,
senza freno.
L'introduzione è necessaria per capire il senso di questo volumetto di Enzo Di Mauro, poeta, critico letterario,
nonché speaker per tanti anni di Radio Popolare. Il quale traccia in una ventina di capitoletti una Fenomenologia di
Battiato che lontana da qualsiasi intento meramente biografico o agiografico (le due solite direzioni di quasi tutti i
volumi dedicati al Maestro usciti fino ad oggi) cerca invece di delineare con evidente lucidità e una buona dose di
(serio) cazzeggio le molteplici espressioni del rapporto tra Battiato e l'esterno, pubblico e giornalisti in primis.
Partendo dal presupposto che l'opera battiatiana si fonda sulla «sineciosi»,
una figura che «consente agli opposti di convivere e anzi ce ne rimanda, di
questo sfrigolare, tutto il bagliore, la mattanza di senso, la disarmonia, l'incipit
continuamente rinviato o negato», Di Mauro analizza in passaggi agili e densi
(che rendono fondamentale una conoscenza almeno buona dell'argomento
trattato) alcuni dei nuclei essenziali della poetica del cantautore, dalla spiritualità sincretica alla Sicilia, passando per lo stile di scrittura e lo sperimentalismo
musicale.
Quello che ne risulta è una dissertazione in grado di scovare attraverso
una serie di intuizioni davvero feconde il significato (filosofico? Sociologico?
Addirittura politico?) del nostro negli ultimi quindici anni di cultura e dunque
di show-business italiano, con un piglio che a fronte di una certa impudicizia
intellettuale (tale solo a causa di una critica sempre troppo bendisposta nei
confronti del cantautore) non dimentica mai di illuminare la dialettica in qualche modo tragica tra l'artista e chi lo segue/venera.
«Battiato è come una sentinella che, avendo dimenticato la parola d'ordine,
alla fine è costretto a far entrare tutti» afferma ad un certo punto l'autore, ed
è forse la sintesi più efficace – ma meno comprensibile se non si è letto il libro: e non a caso, bensì come stimolo, la
inseriamo – di ciò che Battiato è riuscito ad attuare non del tutto volontariamente in oltre quarant'anni di carriera.
Oltre al mini-saggio, un'introduzione di Claudio Chianura, un bel saggio fotografico di Roberto Masotti, un'intervista
al cantautore risalente ai tempi de L'Imboscata, una biografia e una discografia completano il volume. Tutto materiale
di contorno rispetto all'importanza del testo principale per farsi un'idea un po' meno incantata, ma non per questo
negativa, su un personaggio capace di «portare la propria sconfitta sulla scena».
Come quella volta, Brescia doveva essere, che a noi quattro o cinque fans in sua attesa terminato il check di un
concerto ci salutò con due o tre frasi in tedesco. Nessuno capì nulla ovviamente, ma ci sembrò una specie di benedizione. Sì, proprio così, una benedizione. Anche se in realtà era un'evidente, bonaria, presa per in giro...
Calibro 35
I Candelai, Palermo (20 Marzo)
Per descrivere cosa sono e cosa fanno i Calibro 35,
basta riportare il lancio «Italian jam band performing golden age soundtracks and original compositions». Aggiungi
che sono davvero bravi e hai detto praticamente tutto.
Gli ingredienti della miscela li conosciamo dai dischi, e
ci piacciono assai, la curiosità per il concerto insomma
è quella classica del test su palco, vedere se e come
una proposta così particolare (leggi vintage funk-rock
strumentale), soprattutto nel contesto dell'indie italiano, riesce a coinvolgere e fare atmosfera anche fuori
dalle spire ovattate del ciddì.
Gabrielli si dichiara febbricitante (e sono queste due
delle tre parole che spiccica in tutta la serata), armeg-
Gabriele Marino
Josephine Foster
Bronson, Ravenna (21 Marzo)
© Davide Salvato
Luca Barachetti
82
gia con tastiere, xilofono, sax e flauto traverso - spesso
due strumenti alla volta - e si muove (ondeggia) come
farebbe una corista degli anni Sessanta. Martellotta
suona la chitarra senza plettro, pulitissimo, un paio di
soli spacey eccezionali. Viene fuori lo spirito da jam
band del progetto, esercitato su riff hard-funk, poliziottesco-style e ovviamente Morricone (si parte con
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), con
sfoghi praticamente prog. C'è anche qualcosa del Lupin
III più ipercinetico. E nei bis fanno capolino anche altri
riferimenti: super italo beat e anni Cinquanta tra Ventures e Shadows.
Andiamo alle cose che non ci sono piaciute. I frammenti di dialoghi da film usati come intro per alcuni
pezzi. L'interazione col pubblico, zero o quasi. Pubblico
che invece interagisce alla grande: si finisce con uno
spilungone che sale sul palgo inginocchiandosi davanti
al batterista e poi si appolipa a Gabrielli chiedendo
chissà quale pezzo (degli Afterhours?).
Tiriamo le somme. I pezzi spaccano su disco come su
palco, loro sono bravissimi e non si discute, padronanza, interplay e tutto. Ma manca la componente "evento" del concerto, il lato propriamente spettacolare,
quel dippiù, o comunque quella differenza, uno scarto
rispetto al disco. E il set viene impostato in maniera
così serrata da sembrare più breve di quanto non sia
in realtà. Diciamo, sei e mezzo.
Calibro 35
L'ultima volta eravamo al Locomotiv Club di Bologna.
Ai tempi si parlava di This Coming Gladness e per
farlo, oltre alla Foster, c'erano sul palco a mescolare
folk arcaico e inflessioni elettriche Alex Neilson e
Victor Herrero. Un set efficace, dedicato a un pubblico estremamente “selezionato” e attento. Lo stesso
che ritroviamo al Bronson – si e no sessanta persone
sedute sulle comode poltroncine messe a disposizione
dall'organizzazione – in religioso silenzio per tutta la
durata del concerto.
Anche perché questa volta non c'è nessuno ad ac83
compagnare Josephine – come prevede il copione del
recente Graphic As A Star -, a parte un pianoforte
verticale nero, uno sgabello e la solita chitarra classica:
elementi che stabiliscono con largo anticipo i confini di
un set che si rivelerà più una questione di sensazioni
che un live dall'approccio convenzionale. Con una Foster solitaria e intransigente, lentissima e trasparente,
impegnata a impacchettare le naturali fioriture di una
voce eterea su qualche accordo abbozzato. L'effetto
è curioso, dalle parti di un intimismo domestico che
evita i contatti esterni con la variabile “pubblico pagante” preferendo un'autoghettizzazione volontaria. In
un luogo fuori dall'ufficialità dell'evento in cui non ci si
cura delle imperfezioni e ci si affida esclusivamente a
una vocalità estemporanea, catartica, ingovernabile, distante. L'espressione assorta dipinta sul viso dell'artista
americana la dice lunga sullo scarto quasi incolmabile
che c'è tra chi suona e chi ascolta, tanto che fatichiamo
non poco ad andare oltre la semplice ammirazione per
il canto virtuoso. Coadiuvati da un impianto strumentale ridotto all'osso che fa un pò rimpiangere l'obliquità
strumentale del passato recente.
Fabrizio Zampighi
Iosonouncane
Arterìa, Bologna (12 Marzo)
Stando a quanto si dice dalle parti della Trovarobato –
l'etichetta che dovrebbe occuparsi della pubblicazione
del disco -, per l'esordio ufficiale ci sarà da attendere
almeno fino a fine anno. Intanto, però, Jacopo Incani
aka Iosonouncane continua a far parlare di sé girando l'Italia con un live-set incentrato sull' EP – anzi, sul
pacchetto tematico – che trovate in download gratuito
sul My Space dell'artista. Poco male, verrebbe da dire.
Anche perché nel caso del musicista sardo più che in
altri, il disco e il concerto rimangono due entità separate. Al primo il compito di definire le linee guida di suoni
e contenuti stabilendo punti fermi da cui partire e a cui
fare riferimento in un live che è anche improvvisazione;
al secondo la responsabilità di far passare quella che
è forse la parte più importante del progetto, ovvero
un Teatro Canzone sotto psicofarmaci, provocatorio,
frammentario, situazionista, anarchico.
Accostarsi a un concerto di Iosonouncane con la leggerezza di chi cerca un semplice svago, non ha alcun
senso. è necessario mettersi in gioco, sottostare all'attrito naturale che si sviluppa tra musicista e spettatore,
accettare di vedersi sbattuta in faccia la pochezza della
nostra quotidianità accendendo un minimo di pensiero
critico. Un magma di illusioni scoperchiato da un tripudio di lo-fi esistenziale e limiti tecnici auto-imposti,
84
violenza uditiva e ingorghi verbali, intensità catartica e
antagonismo. Jacopo Incani ci ricorda che siamo tutti
polli di allevamento - lui per primo, dipendente di un call
center – e lo fa con un sarcasmo che non promette
alcuna assoluzione. Magari non indovinando sempre i
tempi giusti per i monologhi o cedendo in qualche caso
a una certa retorica - stiamo comunque parlando di
un musicista agli esordi -, ma sempre con l'obiettivo di
scuotere e far riflettere grazie a un peso specifico che
evita i luoghi comuni da anni zero.
Un pugno di brani che parla delle facezie e dei successi
di una società fallimentare: la nostra. Con la barrettiana
Il sesto Stato una spanna sopra a tutto il resto e una
Macarena su Roma che vedremmo bene come epitaffio
per Buona Domenica. Tenetelo d'occhio.
Fabrizio Zampighi
Adam Green
Covo, Bologna (27 Febbraio)
Di blasonati cantautori indie americani ritrovatisi con
quattro gatti ne abbiamo piene le agende e da questo
Covo targato Adam Green non ci si aspettava niente
di speciale. A scattare, piuttosto, erano i ragionamenti
più bislacchi. Valori reali dati dalla differenza tra i voti
ricevuti sulle riviste e il numero degli astanti: quale sarà
l'anello mancante tra il successo e un disco di successo
o tra il sold-out da spinta mediatica e la fede di un pubblico di profilati intenditori? Pensiamo che a un Adam
Green, a cui non manca nulla, inevitabilmente mancherà
il pienone. E sarà colpa di Facebook, dei promoter, dei
blogger e dell’Italia.
Ce la si prende comoda, dato che siamo lontani dai "bulironi" di New York dove il ragazzo miete puntualmente
applausi e successo grazie a presenza, stile, canzoni e
un certa dose di faccia tosta. Pure con quell’ultimo lavoro che lo consacra come uno di quei cantautori da
punti di partenza: Lou Reed, la Blank Generation, il
glam, Elvis Presley, l’Iggy Pop francese e, perché no, la
stessa Grande Mela. Tutte carte nel mazzo di un quasi
trentenne che con Minor Love le canzoni se le firma
nome e cognome, e sarebbe come minimo giusto che
il pubblico a capirlo ci arrivasse da solo, senza filtri né
etere.
All’arrivo nel cortile del locale il cancello è chiuso. Sold
Out. Il bambolotto americano ha chiuso le porte del
locale che non sono neppure le undici e la gente fuori
è nervosa come ai grandi eventi. Dentro, nella scatola nera, Adam pulsa, scalpita e in un mix di droghe ed
adrenalina è pronto a inondare di sorrisi un posto ben
più adatto a truci figuri come El Guapo e Xiu Xiu. Ed
è forse davvero la prima volta che vediamo un artista
indie, spacciatosi come folk-rocker, atteggiarsi a consumata rockstar e vivere una parodia con così tanto
successo.
Altro che i dischi. Adam è un tracotante e incontenibile spaccone. Un Ben Stiller terra terra con la voglia di
fare casino e soprattutto di andare oltre; di partire dalla rockstar finta e dall’orchestrina da avanspettacolo
(che è la band) per arrivare allo show irresistibile che
mescola la commedia e il rock, il trash show televisivo
e il concerto. Quattro ragazzi che traducono le canzoni originali in pantomime e Green a "crooneggiarci"
sopra con quel vocione che mette tutti d’accordo. Pure
quando glielo leggi in faccia che di fare il canzoniere
proprio non ne ha voglia. Due brani con la chitarra a
tracolla, di cui uno lasciato a metà. Un concerto fatto
di stage diving che manco i Jesus Lizard, inarrestabile
delirio ormonale concluso con una plateale fuga dal
palco. In mezzo, un duetto con una ragazza chiamata
sul palco giusto per limonare e, a concerto finito, un
continuo saliscendi dalla scala del backstage dove ad
ogni picchiata piovono altre pominciate a compiacenti groupie noncuranti del sudore colato copioso sul
chiodo.
Anche il pubblico, eccitato da tanta passione, non si
risparmia: brani a memoria e cori di refrains, manco
fosse l'ultimo dei dinosauri del rock. E per fortuna che
l’ultimo album parlava del fallimento del suo matrimonio. Rock'n'roll.
Edoardo Bridda
Pontiak, White Hills
Bronson, Ravenna (01 Marzo)
rispettate ma ci si dimentica di inserirle in una progettualità seria. Per intenderci, quella che nei Black Angels
inventa una successione di spaccati lerci ma credibili,
nei Dead Meadow raschia il fondo del barile dei Black
Sabbath più onirici, nei Pontiak genera fraseggi granitici e inossidabili. Spogliati dai marchingegni illusori
dello studio di registrazione, i White Hills si rivelano
per quello che sono: un corto circuito lancinante da
due accordi a brano lontano dalla sperimentazione e
invischiato in un suono che è reiterazione e accatastamento. E che accontenta giusto quel "rocker" col
giubbotto di pelle nera e gli stivali che ognuno di noi
nasconde segretamente in cuor suo.
Il confronto con i Pontiak è impietoso. Dove i newyorkesi sono autoreferenzialità e sovrastruttura il terzetto Carney è interplay, affilatura, pulizia, capacità di
offrire all'hard psichedelico una chiave di lettura personale e riconoscibile. Nessuna concessione alla teatralità, nessun vezzo estetico, per un immaginario lisergico
che sta tutto in quei tre biondini stempiati e barbuti
piegati sui loro strumenti. Del resto se un brano come
Laywayed posto a chiusura dei tempi regolamentari ci
sconvolge anche dopo un anno di ascolti ci sarà pure
un motivo; se l'ultimo Sea Voids rientra ancora nella nostra playlist a tre mesi dall'uscita qualcosa vorrà
poi dire. Reinterpretare non è inventare, è vero, ma i
Pontiak convincono comunque grazie a un'essenzialità che vive per la sostanza, in un live set impeccabile.
Nonostante l'ora scarsa di concerto e nonostante un
Bronson del lunedì sera con un tasso di presenze ai
minimi storici.
Fabrizio Zampighi
Hippie fuori tempo massimo lui, col viso dipinto, la camicia a fiori e un paio di pantaloni rosso fuoco; femme
fatale lei, con tanto di seconda pelle in latex da maiden
dell'heavy metal, stivali viola e lustrini in stile Kiss. Se
il rock fosse soltanto una questione di forma, al basso
di Ego Sensation e alla chitarra elettrica di Dave W.
andrebbe tutta la nostra ammirazione. E invece solo
forma non è. Tanto più se ti chiami White Hills, sei
una delle formazioni più chiacchierate del momento e
te ne esci con una psichedelia hard che invece di trasformarsi in un trip con tutti i crismi - come promesso
dall'ultimo, omonimo, album - rimane a tergiversare
sulla porta di casa. C'è una batteria possente e animalesca a nobilitare un prodotto altrimenti stereotipato
– su disco se ne occupa Kid Millions degli Oneida – e
questo è tutto. Nonostante un suono magmatico ai limiti del dolore fisico, un pulsare indistinto di feedback
e i soliti wah wah affamati di pose rock'n'roll.
Le ultime direttive in fatto di musica acida vengono
85
Gimme Some
Inches #4
Stavolta affondiamo gli ascolti nel mondo dello split. Protagonisti in ordine
sparso Blessure Grave e On Fillmore,
Cold Cave e Satantango, Above The
Tree e molti altri ancora.
Siore e siori, stavolta a Gimme
Some Inches è il mese dello split.
Pratica comune da sempre per i
formati vinilici, quella di dividersi a
metà incombenze e lati di uno stesso supporto fonografico è stata poi
traslata a cassette e formati digitali,
senza grossi traumi né impacci. In
questi ultimi anni, però, la scelta del
vinile ha vissuto una seconda giovinezza, spesso e volentieri prediligendo i formati grandi, tanto che esperienze fondamentali per la diffusione
del rock in Italia come la Wallace
ne hanno fatto personale cavallo di
battaglia. Ci riferiamo alla serie che
prende il nome dall’interazione con
SoundMetak, negozio di strumenti
ma anche laboratorio/spazio performativo gestito da Xabier Iriondo: la
PhonoMetak Series, 10” con identica cover e splittati tra realtà avantimpro nazionali e non, dopo aver
visto transitare sotto il suo vessillo
Ovo e Sinistri, Damo Suzuki e
86
Talibam!, Jealousy Party e Zu, aggiunge una nuova perla. Nel vol. 7 è
la volta degli On Fillmore, il duo
basso batteria formato da Glenn
Kotche (già con Wilco e Loose Fur)
e Darin Gray (Dazzling Killmen) e
già utilizzato da Jim O’ Rourke
come sezione ritmica. I due propongono una lunga suite (Fever Dream)
che parte da una sorta di blues disidratato alla Bachi Da Pietra per poi
ripiegare su panorami jazz-post-rock
alieni. Notturni, allucinati e stimolanti. Dall’altro lato si va di impro-jazz
con l’estemporaneo trio capeggiato
da Massimo Zu Pupillo e i nippos
Yoshigaki Yasuhiro e Uchihashi Kazuhisa: è la chitarra sharrockiana
di quest’ultimo a tirare le fila di un
suono teso, vibrante e, verso la fine
del lungo pezzo, decisamente esagitato. I panorami dell’impro non conoscono confini geografici, né tanto
meno soste.
Gli altri due split italici che girano questo mese qui a Gimme
Some Inches sono invece in formato vinilico grande e coinvolgono
esperienze giovani ma agguerrite
dello stivale. Il primo vede protago-
nisti Musica Da Cucina e Above
The Tree, al secolo Matteo Bernacchia, disposti a scontrarsi partendo
da prospettive a dir poco diversissime: blues catacombale in modalità
fingerpicking post-faheyiana per il
secondo (splendidamente emotiva
l’opener Blues2) e concretezza domestica con una certa predilezione
per dilatazioni quasi ambient, per il
primo. Egregiamente registrato nelle
stanze del castello medievale di Itri
(Latina), testimonia la bontà dei progetti e, insieme, la vitalità musicale
del basso Lazio. Il secondo 12” invece gioca sull’asse lombardo-marchigiano e mette uno di fronte all’altro
il blues deforme dei Satantango
e il rock lercio e marcio di Jesus
Franco & The Drogas. Tre pezzi
per uno più due live in cui i gruppi
si fondono nel supergruppo Jesus
Tango & The Satan Drogas per
dimostrare che il rock più viscerale
e malsano ha ancora adepti e grandi
esecutori nello stivale. I pezzi in proprio nulla aggiungono al già noto, ma
quelli in joint-venture forniscono un
ottimo scarto: sul lato A, Crazy Baby
(cover dei misconosciuti Steel Tips)
con la voce roca e invasata di Massimo Audia (chitarra di Satantango)
e sull’altro, Motel Sex, col duetto orgiastico tra i frontmen Refo e Anna
Poiani, mostrano ottime prospettive
per eventuali dischi lunghi in formazione aperta. Entrambi vedono la
luce per un wild bunch di etichette nostrane come Brigadisco, Musica Per Organi Caldi, Bloody Sound
Fucktory,Valvolare e altre ancora.
Infine, targato Sturmundrugs è
invece un cd-r splittato tra il padrone di casa Donato Epiro, nel giro
Maisie e reduce da una ottima performance in solo al Kraak festival,
e i due berlinesi d’adozione Alberorovesciato. Questi ultimi ripropongono il loro estenuante tour de
force tribal-percussivo-concreto in
Catapultati Dalle Montagne, Spigoli Di
Pietra Nelle Costole, suite che mette
a dura prova l’ascoltatore col suo
sciamanico procedere; Donato Epiro
invece, dopo il bellissimo Sounding
The Sun su Stunned, non si discosta
dall’ambientazione neo-pagana dei
compagni di split e risponde col paesaggio sonoro fluttuante tra psych
ossianica e primitivismo abrasivo di
La Guerra Dei Fiori.
Muovendoci fuori dai patri confini verso il nord Europa, questo mese
ci imbattiamo in una serie di succose uscite del famigerato giro Utmarken. In primis, dopo un paio di
cassette, i giovani Lust For Youth
debuttano ora su Release The Bats
con un 7 pollici split con Blessure
Grave. Il duo di San Diego continua
la sua rilettura dei classici del punk
più oscuro: dopo Human Eye dei
Cramps sul lato B del singolo uscito per Holidays, è la volta di Skulls
dei Misfits, rallentata e narcotizzata
a dovere. Gli svedesi dalla loro rilasciano Another Night, un piccolo
sunto a base di synth liquidi, riverberi industriali e moribonde melodie simil-pop. Sempre Lust For Youth
usciranno a breve su Sound Holes
con una tape condivisa con Street
Drinkers (Viktor degli Ättestupa)
che si preannuncia molto gustosa,
se vi è chiaro che qua i canoni di
bellezza sono esattamente ribaltati.
Ancora, proprio quest’ultimo ha da
pochissimo licenziato una cassetta,
questa volta in solo, per Goaty Tapes
in cui propone il suo materiale più
strutturato ad oggi e che farà la gioia
dei fan degli Ättestupa: nenie litur-
giche, lamenti funebri e traballanti
preghiere agli dei della notte. Rimanendo in ambito di collaborazioni estreme, ma spostandoci al di là
dell’Atlantico, va segnalata la stampa
in vinile per Hospital di Stars Explode, collaborazione niente meno
che tra Cold Cave e Prurient,
precedentemente uscita solo su nastro, come quella di The History Of
Aids, l’album del progetto solista di
Dominick Fernow targato 2002. Ancora una volta, il sottobosco di questi atti è sempre più agitato. Stefano Pifferi
Andrea Napoli
87
Re-Boot
F lussi
#3
e riflussi
Il domani è dietro le spalle, è più
raccolto che ricerca, è un flusso di
riflussi che tentano di coniugarsi al
futuro e a volte ci riescono. Che dire,
siamo un popolo che fatica a chiudere i conti col passato, troppe parentesi lasciate aperte, dimenticate,
disperse. Qualcuna magari avremmo
potuto evitarcela con la convinzione messa in gioco dagli Zidima nel
loro Cobardes (7.2/10).Ad esempio,
la sentenza sulla scuola Diaz, che qui
diventa un tesissimo atto d'accusa
noise tra Marlene Kuntz e Massimo Volume spronati hardcore
(“possa il carnefice / strapparvi il cuore
e poi mostrarmelo / perché il mio niente ora difende solamente / ciò che meritate: l'odio”). Di rabbia ne hanno un
sacco, questi quattro milanesi: rabbia
vitale e inferocita come il personaggio nella Giara di Pirandello che fa da
moniker, e di compattezza nervosa e
lirica pronta a sbottare. Sono inevitabilmente anni novanta, ma ci mettono passione e verità come pochi.
Bravi davvero. A proposito di bravura, ma a sproposito di rabbia: parlare
bene oggi di un disco di indietronica,
88
Un mese di ascolti
emergenti italiani
sbilanciata glitch e aspersa di astrazioni folk, può sembrare un esercizio
di mera e cocciuta ucrònia. Nel caso
di The Winter Season (7.0/10) del
padovano Marcello Spolverato AKA
Errnois, ce lo concediamo volentieri, perché è un disco che si fa carico
eccome dei modelli noti - da Autechre a Dntel passando per Mùm
e Boards Of Canada - ma tiene al
centro un'idea estetica propria, impressionista e puntigliosa, zeppa di
trovate mai fini a se stesse. Un quasi
capolavoro uscito con quei 7-8 anni
di ritardo.
Senso di differita anche per i Lisagenetica da Cuneo, che hanno il non
trascurabile pregio di rappresentare
un'insolita via di mezzo tra rock anni
Novanta in chiave noise e una verve
cantautorale che ricorda Ivan Graziani. Melodia e rumore, costruita su un citazionismo Afterhours periodo Non è
per sempre (Irreversibile) e pop acustico
leggero (Strega), Radiohead prima maniera (Croce) e vaghi richiami dEUS (La
tua creatura). Nonostante un approccio
tutto sommato convenzionale, i brani di
Ex vuoto (Latlantide, 6.9/10) funzionano alla grande, evitando con stile le clas-
siche ingenuità da prima prova discografica sulla lunga distanza. Non ingenuità
ma calcolo fin dal moniker vagamente
poliziottesco per i FilmDaFuga, il cui
Calippo Generation (6.8/10) promette fin dal titolo strali al curaro invero
un po' spuntati. Friulani, giovanissimi, imbastiscono un funk-pop assai gustoso e
perfetto per prepararsi al caldo. Deglitterano Prince, si ricordano di George
Clinton, ma soprattutto innestano chitarre, synth e fiati su un'attitudine che è
di base melodica assai italiana e spleen
piuttosto spensierato (In bici). Vista anche la provenienza, che siano gli eredi
dei Carnifull Trio? Staremo a vedere,
in particolare l'evoluzione della voce
oggi un po' acerba.
Quanto a discendenza, deve più di
qualcosa al cantautorato rock di Cristina Donà la proposta dei La Materia
Strana, trio fiorentino al debutto con
l'ep Raptus (6.6/10). Però non fai fatica a scorgere barbagli di qualcos'altro,
da un lato frenesie soniche che forse
pescano qualcosa tra gli archetipi della
gloriosa wave toscana, dall'altro malìe
melodiche che guardano al canzonettismo "alto" dei sessanta e settanta, conditi con sovrapposizioni vocali e acuti
quasi Matia Bazar. Solo un gustoso
antipasto, immagino. Pasto completo
invece per i Captain Mantell, a base
di frequentazioni elettro-rock ostaggio
di synth anni Ottanta tipo quello con
cui trafficano formazioni quali Wora
Wora Washington. Tra citazioni Daft
Punk (A Little Shit) e new wave lancinante (As The Night Decides), post-punk
meccanizzato (My Radar) e certi Depeche Mode in salsa Primal Scream
(Turn Your Head Around), la band veneta
confeziona questo Rest In Space (Irma,
6.9/10) - secondo disco ufficiale - tarato
sulle lunghezze di una coolness da dancefloor. Con un occhio al punk e uno a
un mercato estero pronto a fagocitare
produzioni sul genere.
A questo punto però ci chiediamo:
cosa ci fa Ivano Fossati in un giardinetto glitch? Tale è l'effetto della traccia d'apertura di E intanto fuori piove EP (6.7/10), seconda prova del duo
romano Bon.not. Poi le coordinate si
spampanano, la barra del cantautorale
piega verso lidi diversi, come la narcosi
quasi CSI di Tra i denti o il De Gregori
contagiato Offlaga Disco Pax di Dal
fango, mentre ne L'indifferenza scorgi echi - addirittura - Radiohead. Tutto
ciò ferme restando le grinze sintetiche
che un po' straniano e un po' unificano
la proposta, cui manca forse un po' di
mordente tra le parti, ma intanto è già
capace di considerevoli suggestioni. Che
sono il pane ed il companatico dei Démodé, il cui mood da orchestrina fuori tempo massimo malcela uno spirito
miscelatore che tutto ingoia e rigetta a
mo' di strumentale succulento. In Démodé EP (7.0/10) prendono jazz, colta
contemporanea, klezmer e tango, tutto
a spizzichi, e lo accordano ad un'anima
che viene fuori cinematica con perfetti
rallentamenti drammatici (Il Teatro dei
gatti) se proprio non si pone l'obiettivo di accompagnare, ma per rapirci con
violino tagliente alla gola (Tango). Difficile definire le possibilità di espansione
di una proposta del genere, però attenzione: questi sanno suonare e, seppur su
traiettorie del tutto diverse, i Calibro
35 potrebbero aver insegnato qualcosa.
Il cerchio si chiude con i Le Mal D'archive, almeno a giudicare da una formula un po' confusionaria che vorrebbe
mettere sullo stesso piano cantautorato
e sperimentazione elettronica minimalista. Premesso che il gruppo avrebbe
bisogno di un produttore serio e forse
anche di una chiarezza progettuale maggiore, resta il fatto che quanto si ascolta
nel demo La Chanson De Mai (6.2/10)
non dispiace affatto, per una sensibilità che riesce a unire, senza forzare la
mano, la musicalità del francese e certe
atmosfere ombrose d'oltralpe. A rileggerci il mese prossimo.
Fabrizio Zampighi
Stefano Solventi
Luca Barachetti
89
Rearview Mirror
—ristampe
highlight
Jawbox - For Your Own Special Sweetheart (De Soto, Aprile 2010)
G enere : post hc
AA.VV. - Brazilian Guitars Fuzz
Bananas (World Psychedelic Funk
Classics, Marzo 2010)
G enere : tropical psych
Non si presta mai sufficiente attenzione a quanto e come
fosse diffuso, negli anni Sessanta, il fenomeno psichedelia.
Che fu sul serio globale come un'epidemia - positiva per
cultura e costume, però - e vieppiù stupisce come ciò accadde senza che vi fossero dei media onnipresenti come
li intendiamo oggi. Dall'Est Europa al Sudamerica e l'Asia
non mancarono emuli dei pionieri del trip chitarristico
e dell'impeto garagista, per quanto furono pochissimi a
esprimere carattere. Questione di approccio, giacché
per aggiungere qualcosa al canone bisogna accostarsi alla
materia originale traducendone il significato nel proprio
contesto.
Cosa che fecero in Brasile i Tropicalisti e per questo uno
o più Lp di Os Mutantes non possono mancare in una
collezione che si rispetti. Erano e restano i migliori, dunque non ce ne vogliano i loro connazionali qui radunati
se non posseggono la medesima caratura. Lo scopo della
raccolta è un altro: scoprire Pebbles appartenenti al decennio 1967-1976, le quali
si rivelano curiose senza
inscenare reali rielaborazioni. Tre quarti d'ora - dal
sontuoso apparato iconografico: foto, interviste e un
documentario video - che
scorrono mediamente godibili tra stramberia e lisergia, rare grooves e passi hard, (easy) pop, funk. Mancano
però brani memorabili, e tocca tenerne conto.(6.7/10)
Giancarlo Turra
Jimi Hendrix - Valleys of Neptune
(Legacy, Marzo 2010)
G enere : rock blues
Dodici pezzi inediti di Jimi - dove inedito va tradotto alla
lettera come non pubblicato in questa forma - registrati
nel '69 e nel '70 (ce n'è anche uno del '67) tra i Record
Plant di NY e gli Olympic di Londra, con l'Experience
originale ma anche con Billy Cox al basso (tre brani
soltanto, prime avvisaglie di quella che sarà la Band of
Gypsys).
è l'Hendrix post-Electric Ladyland che cerca nuove
vie, poca psichedelia e molto hard blues sporcato ora
di negritudine funk ora di appetibilità pop-rock. Il suono è buono, non eccezionale, e le performance - anche
queste, non eccezionali - tradiscono spesso la natura di
prove in studio rimaneggiate in vario modo: che orrore leggere che ci sono due
overdub del 1987.
Niente di nuovo su Jimi,
pezzi storici suonati con arrangiamenti diversi da quelli stranoti, ma non troppo
diversi da alcune rese live
(Stone Free, Fire, Red House); esercizi di blues elettrico
in scioltezza, con molto autoriciclo (Mr. Bad Luck, Lover
Man, Crying Blue Rain, una Hear My Train a Comin che è
praticamente un mash con Voodoo Chile); la title track è
un pezzo carino che ricorda vagamente la seconda parte
di Stairway to Heaven; Bleeding Heart di Elmore James è
forse quello più divertente; Lullaby for the Summer quello
più interessante. Sunshine of Your Love delude (molto meglio le versioni, cantate, dal vivo), niente fuoco e fiamme.
Confermata insomma la sensazione che tutti i dischi postumi (non live) pubblicati a nome di Jimi siano degli apocrifi. Per completisti e nostalgici acritici.(5.9/10)
Gabriele Marino
90
Sedici anni dopo l'originale pubblicazione, vede di nuovo la luce uno dei gioielli minori del post-hc. Definizione
quest'ultima da prendere con le molle onde evitare fraintendimenti. I quattro Jawbox - Kim Coletta al basso,
l'ex Government Issue J. Robbins alla chitarra, Bill Barbot alla chitarra e Zac Barocas alla batteria - infatti, non
fecero mai parte di quel calderone hc al limite del metal che caratterizzò la seconda metà degli anni '90, ma
piuttosto di quella generazione di hc evoluto (dai Nation Of Ulysses ai Fugazi post-In On The Kill Taker)
che cominciò a flirtare con il noise-rock, sul versante dei volumi e delle strutture, e con il pop, su quello delle
melodie vocali.
A supportare la band nella produzione di questo For Your Own…, fu chiamato Ted Nicely, all'epoca produttore di grido per la scena trasversale che dai Fugazi arrivava fino al noise-rock newyorchese dei Girls
Against Boys. E la scelta non fu casuale, visto che con questo album i Jawbox
riassumevano il riassumibile e mettevano definitivamente la freccia su generi e
sottogeneri allora in voga, uscendosene con un album "classico" di rock insieme
potente, melodico, dissonante, abrasivo. D'altronde l'uscita per la major Atlantic e
il conseguente "tradimento" della indie per antonomasia Dischord, se da un lato
evidenziava la facilità post-Nevermind di raccattare contratti a 6 cifre, dall'altro
dava la misura delle potenzialità della band di Washington.
L'incedere convulso e insieme intricato di FF=66 e Chicago Piano, lo stoppato
robotico e disilluso di Savory, le melodie post-grunge di Cooling Card, l'indolenza
indie di Green Glass, le caleidoscopiche aperture a gomito di Jackpot Plus! stanno
lì a dimostrarla. Non è perciò solo per l'ep Savory posto in coda all'album come bonus che For Your Own… va
riscoperto, quanto piuttosto per capire da quale calderone presero idealmente le mosse gruppi come, tanto
per fare due nomi a caso, At The Drive In o 90 Day Men.(7/10)
Stefano Pifferi
Phantomband - Phantomband/
Freedom Of Speech (Bureau-b,
Aprile 2010)
G enere : etnofunk / avant - garde
In un periodo di girotondi attorno al mondo stando
comodamente in cameretta, rinnovati interessi groove
nell'elettronica contaminata (Four Tet e Caribou), imperiture declinazioni PiL e tanta voglia di jazz esotico
(Mulatu Astatke), le due ristampe della Phantom Band
sembrano quanto mai illuminaanti. Il quartetto, nato dalle ceneri dei Can e forte della rinnovata intesa tra i due
principali protagonisti, il batterista Jaki Liebezeit e l'ex
bassista dei Traffic Rosko Gee, è quanto di meglio per
scoprirne l'origine di certi incastri krauti di black music
come il funk e jazz e ripercorre certe strade avantgarde
dei primi Ottanta.
Tra i due album l'omonimo è senza dubbio quello più ordinario e post-Can giocato com'è sui velluti (You Inspired
Me), levare cangiante (For M), ballad tinte pastello (Rolling)
afro beat (I'm The One e Latest News), jazz-funk (Absolutely
Straight); di tutt'altra pasta invece il successivo Freedom
Of Speech nel quale un Gee dimissionario lascia il combo ad una svolta post punk dai tagli dub (da sottolineare che in quei giorni lo stesso Liebezeit pianificava Full
Circle con Holger Czukay e Jah Wobble) evidenti fin
dall'opener Gravity (monotonia di marca PiL).
In pratica sembrano un combo On-U Sound che gioca a
fare i Suicide (il cantato di Sheldon Ancel in Brain Police e Dream Machine) ricordandosi nel mentre la propria
missione (il dub straniante di Experiments). A distanza di
trent'anni (il debutto è del 1980, il successivo del 1981) è
Freedom Of Speech a suonare ancora fresco e brillante
laddove l'opera omonima, già anacronistica (ma con gusto) ai tempi, ha il merito di inaugurare l'avventura.
Tutto rientra nel progetto di ristampe Bureau B, a cui
purtroppo, limitandosi al solo catalogo Sky, non è per91
messo il recupero di Tarot di Walter Wegmuller, una
reissue che i seguaci kraut attendono quanto attendevano la Phantom Band.(7/10)
Gianni Avella
Plimsouls - Live! Beg, Borrow
& Steal (Alive Naturalsound
Records, Marzo 2010)
G enere : vintage power
Sarebbe riduttivo confinare i Plimsouls nell'angusto
ambito della parrocchia power pop losangelina. Senza nulla togliere, essere ricordati come una delle formazioni
migliori - qualora non LA migliore - di una nota a piè
di pagina del romanzo rock può bastare a chi coltiva gli
orticelli e si perde dentro
le nicchie. Gli altri hanno
bisogno di qualcosa di più:
la cerniera tra il dopo '77
e la riscoperta estetica dei
"favolosi Sessanta", magari,
e saltando a pie pari la new
wave. Hai detto niente, e
aggiungi per tramite di ciò
l'anticipo involontario del Paisley Underground e, di conseguenza, la posa delle prime fondamenta college rock.
Non è allora un caso che i Fleshtones al gran completo
siano ospiti di un incontrollabile bis rock 'n' soul, e che
spesso - lungo un live torrido ed esaltante, eppure ricco di raffinatezze e stile - si colgano i Replacements
della maturità con due stagioni d'anticipo. Momenti in
cui assapori melodie chitarristiche pop mai scontate che
acquistano potenza grazie a un'espressività frutto della
rivoluzione punk. Gente dalla calligrafia troppo appuntita per le classifiche, i Plimsouls, nonostante un contratto Geffen che giungerà non molto dopo questa sera di
Halloween 1981 trascorsa al Whisky A Go Go. Ancora
innocente e beata come quell'epoca riusciva a essere.
E niente lacrimuccia, per favore, che qui s'ha da roccare.(7.4/10)
Giancarlo Turra
Six Minute War Madness - Full
Fathom Six (Wallace Records,
Marzo 2010)
G enere : noise - rock
In quest'Italia anni '00 sempre più priva di memoria, le
esperienze seminali giacciono laggiù, in fondo al contenitore e bisogna stare molto attenti a non ritirarle fuori,
perchè significherebbe fare i conti col proprio passato.
Meno male che spiritelli beffardi come il trittico Wallace/
Il Verso del Cinghiale/Santeria si divertono a scombinare
92
la carte in tavola ripescando uno dei dischi (e indirettamente, uno dei gruppi) fondamentali nell'evoluzione
di certo out-rock italiano. Andando in ordine Full Fathom Six è l'album, i Six Minute War Madness la
band. L'anno di grazia è il 1999 (quasi 2000, in verità),
punto di svolta di un secolo e insieme di un millennio,
oltre che data della swansong per SMWM, in procinto
di rilanciarsi sotto le forme ancor più avant di A Short
Apnea (a ben vedere però Illu Ogod Ellat Rhagedia
è coevo per gestazione e pubblicazione).
Full Fathom Six è l'album che chiude definitivamente i
conti con un periodo, storicizzando il primo, reale
rock (e dopo-rock) italiano
e slanciandosi verso una
fase di maturità sbalordente per risultati e prospettive (gli anni '00, appunto). La
lussuosa ristampa, oltre l'album, propone ottime note
a margine in due cd con live, scampoli di prove, demo,
che ci offrono una vista a volo d'uccello sul potenziale
del combo tra Novanta e Duemila. Necessario.(7.2/10)
Stefano Pifferi
Terry Fox - The Labyrinth Scored
for 11 Cats (Choose, Dicembre
2009)
G enere : S ound A rt
Pare che un certo Jean-Yves Gauchet, veterinario e
giornalista scientifico di Tolosa, abbia prodotto e messo
in vendita su internet un cd contenente il tipico suono
delle fusa del suo gatto Rouky, convinto della valenza
terapeutica che tali misteriose frequenze, ascoltate in
stato di relax, avrebbero sull'equilibrio psichico dell'essere umano.
Chissà se il fantasioso Gauchet è a conoscenza di un
esperimento molto simile condotto, più di trent'anni fa,
da Terry Fox (1943-2008), uno dei protagonisti della
scena artistica post-minimalista statunitense a cavallo tra
fine '60 e inizio anni '70.
Non utopico rimedio da fantamedicina, ma seriosa declinazione di performance art, l'opera di Fox fa parte di
quella serie di lavori (perlopiù sculture sonore) che tentarono di fronteggiare una vera e propria ossessione del
geniale sound-artist: decriptare le leggi matematiche che
regolano la composizione del labirinto di Chartres, figura
geometrica circolare inscritta in larghezza sul pavimento
della navata centrale della cattedrale. Questo per quanto
riguarda l'architettura del brano: il materiale sonoro di
partenza essendo, invece, come spiega calligraficamente
il titolo della originaria performance, il suono delle fusa
di undici differenti felini.
Nulla da eccepire sulla bontà dell'operazione filologica,
condotta con zelo e passione da Jorg Hiller (aka Konrad
Sprenger) e dalla sua Choose Records: in programma
la riedizione completa - rigorosamente in vinile - di tutte
le opere di sound-art del performer scomparso due anni
fa.
Il rischio, però - sempre dietro l'angolo in operazioni di
riscoperta che sono in grado di riportare in vita solo
una parte dell'intera situazione artistica - è che l'ascoltatore non informato finisca ben presto per sviluppare
un vero e proprio senso di disgusto per quello che è, in
fin dei conti, un angosciante, interminabile susseguirsi di
sistole e diastole sonore difettose o - per passare dalla
patogenesi alla sessuologia animale, forse più consona
- l'equivalente in musica di un maldestro amplesso tra
pachidermi. Solo per storici dell'arte e masochisti all'ultimo stadio.(5.8/10)
Vincenzo Santarcangelo
Triffids (The) - Wide Open Road: The
Best Of (Domino, Aprile 2010)
G enere : eighties indie
A due anni di distanza da un terzetto di ristampe che
riportava in qualche modo alla ribalta gli australiani Triffids, la Domino immette adesso sul mercato un "meglio
di" sul quale vi è poco da dire e da giudicare. Nel senso
che non può e non vuole aggiungere nulla a una vicenda
sfortunata che ha lasciato in dote musica meravigliosa,
tutt'uno di folk e rock, wave e sixties, blues ed emozione. La storia di un gruppo che andò pian piano soccombendo sotto la ricerca
di un successo mai giunto,
scivolando dopo gli inizi indipendenti in una seconda
metà di carriera su Island
di inopportuna e impacciata magniloquenza.
Un "la va o la spacca" da
immigrati in Inghilterra che
fruttò loro la copertina del NME e un pugno di primi
dischi indimenticabili, già riediti integralmente e da possedere senza riserve. Cosa che non puoi dire di Wide
Open Road, raccolta destinata ai neofiti d'indole pigra e
appesantita da un terzo di scaletta posteriore a In The
Pines, ultimo LP di David McComb e soci davvero imperdibile. Dall'uscita del quale è trascorso - mamma mia!
- un quarto di secolo, portandosi via lo stesso David e un
sacco pieno di bei ricordi.(6.8/10)
Zu - The Way Of The Animal Powers
(Public Guilt, Marzo 2010)
G enere : impro - avant - jazz
Pochi agli albori della carriera discografica degli Zu
avrebbero scommesso che, di lì a un decennio, sarebbero stati storicizzati. Invece rieccoci a magnificare le lodi
di una band che per connessioni, collaborazioni e portato musicale si può tranquillamente definire il gruppo
italiano più importante del terzo millennio.
The Way Of The Animal Powers vide la luce originariamente nel 2005 per la defunta Xeng e, come di consueto, allargava la formazione a quartetto: della partita
era il chicagoano Fred Longberg-Holm, impegnato a
duettare col violoncello col
sax di Luca Mai. Ad un lustro buono dalla pubblicazione, la Public Guilt provvede alla ristampa in vinile
gatefold a 180 grammi, con
relativa rimasterizzazione
per mano di James Plotkin
(Old, Khanate e mille altre cose ancora).
The Way... è un album concreto, essenziale, che procede
"per sottrazione" esponendo il suono di base degli Zu,
fino ad allora esplosivo e deragliante, ad una sorta di
introspezione/repressione. Un ripiegamento in se stesso che segnò all'epoca, e segna a tutt'oggi, lo spessore
caleidoscopico di una grande band dalle infinite possibilità.(7/10)
Stefano Pifferi
Giancarlo Turra
93
Rearview Mirror
—speciale
Adi Newton
Magiko umanesimo, per sconfiggere gli automi
Intellettuale armato di sax e cinismo nei Clock Dva;
scienziato del suono coi Tagc. Adi Newton si racconta,
in vista di un nuovo progetto e del box rimasterizzato con l'intero catalogo Dva
94
Testo: Filippo Bordignon
Benedetta la coscienza che si rallegra
Nella grandezza della coscienza altrui (Manly P. Hall)
ssieme a Cabaret Voltaire e ai primi Human
League i Clock Dva formano un triumvirato
made in Sheffield che, agli inizi degli Anni '80, seppe musicare la propria indolenza ridefinendo i generi popolari
allora emergenti. Se nei primi due casi il prosieguo di
carriera virò verso cadute dance o svolte synth-stupidpop, la storia di Adi Newton, che dei Dva fu fondatore,
leader e paroliere, risuona per la fedeltà a un ingegno
senza concessioni. Le conseguenze, com'è logico, furono
la dimenticanza del mercato e, con esso, la disaffezione
dei fan meno perspicaci, convinti che il loro idolo avesse esaurito le frecce al proprio archetto. Oggi Newton
torna a parlare e lo fa con la voce salda di chi non nutra
dubbi sulla propria onestà intellettuale; l'eredità artistica
alle sue spalle gli consentirebbe di crogiolarsi nella facile posa dell'artista maudit: egli preferisce invece, e qui
sta una ragione aggiuntiva della sua grandezza rispetto
ad altri colleghi, rimettere in gioco la propria reputazione tentando il superamento di quanto finora prodotto
con una rischiosa uscita in coppia con la moglie. A ciò si
aggiunga la preziosa uscita di un box rimasterizzato per
la Mute con l’intera discografia Dva, di cui si anticipa un
restyle decisivo nella dinamica sonora dei lavori cyberpunk.
Ci sono luoghi che, proprio in virtù del loro anonimato, contengono i presupposti affinché nasca e si sviluppi
una leggenda; Sheffield, che nella seconda metà degli Anni
’70 non ha molto da raccontare se non la crisi del fino
ad allora trainante settore siderurgico, è uno di questi.
Qui un ragazzo matto per il punk assieme a un certo
Paul Bower (leader dei fatui 2.3, primo gruppo punk del
circondario) decide di fondare Gunrubber, fanzine musicale naufragata dopo poche settimane e prontamente
sostituita dalla volontà di suonare in una band. Dopo
alcuni tentativi in formazioni votate allo scioglimento,
l'irrequieto Adolph ‘Adi’ Newton, sceglie di associarsi
agli amici Martyn Ware e Ian Craig Marsh, sperimentando attivamente la passione comune per Kraftwerk e
Avanguardie Storiche. Il nome prescelto risponde spocchiosamente a The Future e la formula, ben lontana dal
rock-sputacchiera allora in voga, non entusiasma neppure le neonate etichette indipendenti londinesi, tanto
che le uniche registrazioni di questa formazione saranno
raccolte trent’anni più in là nell’entusiasmante The Golden Hour Of The Future (Black Melody). Adi sceglie
perciò una strada diversa, un ibrido elettro-acustico con
il bassista Steven 'Judd' Turner, lasciando gli amici al
loro destino (e cioè assoldare il bel Philip Oakey in veste
A
di cantante e originare così gli Human League).
Il nuovo progetto si rivela da subito ambizioso:‘Clock’
omaggia l’Arancia Meccanica di Burgess e Kubrick;
‘Dva’ sottolinea in russo (cabala e numerologia a parte)
la presenza di due menti unite per un solo scopo, ovvero
contribuire al superamento del punk preservandone indole e prepotenza. Tra il '78 e il '79, una serie di registrazioni casalinghe documentano un approccio elettronico
diy bagnato nelle acque di un rumorismo cerebrale; ma
è la voce di Newton a emergere, strumento monocorde e minaccioso pronto a dimostrare la sua efficacia in
un contesto meglio strutturato. L'occasione è offerta da
Genesis P-Orridge: l'esordio su musicassetta White
Souls In Black Suites (1980, Industrial) asciuga le intuizioni nate in cantina proponendo un funky bianchissimo
e distorto, soffiato fuori da un sax malvagio e sostenuto,
oltre dal binomio Newton-Turner, da 3 comprimari di
relativa importanza (David J. Hammond, Robert Quail e
Charlie Collins).
Alle improvvisazioni acide di White Souls fa seguito
il primo capolavoro Dva: Thirst ('81, Fetish), incanto di
nichilismo jazz-rock. Uncertain introduce a una crudeltà
intellettuale punteggiata da un divagar di chitarra beefheartiana e un sax a sfiatare vapori tossici su un paesaggio
industriale. Il riff di clarinetto in Sensorium omaggia Terry
Riley per poi cacciarsi in una cavalcata machista, mentre episodi come White Cell e North Loop pulsano di una
sensualità viscosa e prossima al trabocco. Il rumore bianco generato dai nostri in Moments, più che dell’imberbe
movimento industrial, è figlio del free jazz balbettante di
Coleman e Shepp. Con 4 Hours i Dva riusciranno là
dove i concittadini Cabaret Voltaire e Human League hanno fallito: concepire una canzone in perfetto
equilibrio tra pop-rock e sperimentazione (poco importa la scarsa diffusione nel circuito alternativo). Il testo di
Newton amplifica uno spleen di rara eleganza: Questa
potrebbe essere New York o Londra: non m’importa più.Vesto
questo completo nero, indosso questa cravatta nera, trascino
questa cassa nera (…) un piano precipita dall’alto, fracassandosi ai miei piedi.
Di qui le complicazioni: nonostante una serie di concerti entusiasmanti Newton e Turner, al fine di non lasciarsi ingabbiare nel limbo della scena industrial, optano
per un cambio di line-up. Ma un'overdose di eroina priva
Adi del fidato compagno, al quale dedicherà l'Ep Passion
Still Aflame ('82, Polydor), opera di transizione verso
uno stile apparentemente più commerciale. Riassestato
il gruppo a quintetto la seconda fatica in studio per la
Polydor a titolo Advantage ('83) convince solo in parte
i fan della prima ora, insospettiti dall’ammorbidimento
in odore di major. Meno drasticamente, canzoni come
95
Beautiful Losers, il buon singolo Resistence (con tanto di
videoclip) o Eternity In Paris parlano il linguaggio di una
new wave elegante e noir, arrangiata con originalità e
interpretata a denti stretti da Newton sul quale aleggia
funereo lo spettro di Turner. Oltre a ciò, l'insoddisfazione
lo attanaglia: al termine del tour europeo scioglie la band
per rifugiarsi ad Amsterdam alla ricerca di un nuovo inizio. In Olanda si concretizza così il progetto ideato con
il compianto amico, The Anti Group Communications (Tagc).
Al di là dei loro intenti le uscite Tagc si dividono prosaicamente in 2 categorie: opere di innegabile valore musicale, persino superiori sotto alcuni aspetti al repertorio
Dva, e altre di soporifera indulgenza post-industrial. Alla
96
prima categoria appartengono The Delivery ('85, Atonal), Digitaria ('86, Sweatbox) e la compilation di singoli
e rarità Audiophile ('94, Side Effects). Digitaria, in particolare, riassume al meglio le potenzialità del collettivo:
si va dalla concrete music per riti esoterici Blood Burns
Into Water al jazz paranoico Balag Anti, dal neo-tribalismo
Dog Star al no-swing rumorista Pre-Eval. Alla seconda categoria rispondono Meontological Research Recording-Record 2 Teste Tones (’88, Side Effects) e Burning
Water (’94, Side Effects). La prevedibile degenerazione di
questo percorso raggiungerà lo zenit a nome Psychophysicist e titolo Psychophysicists ('96, Side Effects) in
collaborazione con Andrew M. McKenzie, mente di The
Hafler Trio: un minimalismo strumentale in bilico tra
noia e presunzione scava nella mente dell'ascoltatore,
sperando d'inventare una 'suonoterapia' elettronica per
tecnomaniaci.
Nel frattempo, nella seconda metà degli Anni '80 nascono 2 generi destinati a cambiare la storia: techno a
Detroit e acid house a Chicago. L'inghilterra reagisce
con entusiasmo preparando la culla per una cultura rave
estremizzata nei contenuti e prontamente rinnovata
nelle droghe. Il ritorno dei Dva non può che risentirne,
bagnato com'è dei ritmi neri rielaborati straordinariamente nel full-lenght Buried Dreams ('89, Interfisch);
sintesi innegabilmente bianca in bilico tra letteratura
cyberpunk e dance costruttivista, l'album descrive con
spietata lucidità un futuro disumanizzato e prossimo al
collasso, calciando l'ironia kitch dei Kraftwerk uominimacchina, sostituita dal rigore matematico di un trio
(Newton, Paul Browse e Dean Dennis) interamente votato all'elettronica. Nella complessità di un concept che
affronta la rivoluzione elettronica nell'epoca della neonata internet, c'è spazio perfino per la glorificazione di
Karl Koch (The Hacker): l'hackeraggio viene letto come
possibilità aggiuntiva per, citando P-Orridge nel film
Decoder, "Distruggere quelli che detengono e tengono nascosta l'Informazione". Per fugare il dubbio che si
tratti di un capriccio momentaneo viene dato alle stampe in tutta fretta il live bolognese Transitional Voices
('89, Interfisch), contenete solo pezzi del nuovo corso,
estremizzati da un cipiglio ossessivo e glaciale fino alla
cristallizzazione.
Le 3 opere successive per l'italiana Contempo confermano il perdurare dello stato di grazia, pur stemperando la stupore iniziale riguardo quei 'sogni sepolti' e
subito trafugati da una schiera di non indispensabili continuatori. Man-Amplified ('91) focalizza l'attenzione sugli arrangiamenti, complicati da soluzioni di spiccata raffinatezza (la titletrack e Techno Geist) ma pur ricondotti
a una drammaticità stilizzata e austera (Dark Attractor e
Memories Of Sound). La colonna sonora virtuale Digital
Soundtracks ('92) segna una battuta d'arresto, accontentandosi di una serie di schizzi pur godibili ma dall'annacquato valore artistico. Sign ('93), nella commovente
Return To Blue, consegna un grido d'amore post-atomico
in bilico tra Vangelis e i Suicide di A Way Of Life,
dove a prevalere è il versante europeo.
Al termine delle collaborazione con McKenzie come
Psychophysicist Newton si dilegua. Almeno fino a
oggi.
Una vita spesa aderendo alle sole etichette della propria genialità; "Per aspera sic itur ad astra", concluderemo, certi che per affrontare le tribolazioni dell’arte il
solo rimedio sia continuar a sognare le stelle del proprio
cielo. L' intervista
Adi, esiste un antidoto contro il lavaggio mentale
al quale siamo sottoposti dai media oggigiorno?
Nel mio archivio conservo un documentario che tratta
la nocività delle radiazioni elettromagnetiche. Affrontando l’inizio degli Anni '60 si menzionano degli studi sugli
effetti collaterali provocati dai televisori; il documentario
non specifica però la ragione per cui non furono disposte ulteriori indagini, vista la diffusione di quella tecnologia. Se non iniziamo a ribellarci a questa dipendenza
dalle varie tecnologie emerse a partire da allora non
avremo alcuna possibilità di evitare il lavaggio mentale
di cui sopra. Computer, cellulari, lettori mp3, consolle
per videogiochi: prodotti messi sul mercato e programmati per distrarre le masse attraverso contenuti labili
e spesso fuorvianti. Il fatto è che necessitiamo, citando
l’inventore Buckminster Fuller, di un consumismo
sostenibile: dobbiamo imparare a conoscere quello che
consumiamo anche in relazione al suo processo di produzione. Dobbiamo imparare a costruire prodotti con
un'effettiva utilità che non ci rendano loro schiavi. Per
Baudrillard, uno dei maggiori teorici marxisti, l'umanità
si è emancipata allo stesso tempo da marxismo e capitalismo pervenendo a un sistema economico frammentato
dove scopi e modalità sono fuori controllo; vaghiamo
così, tra le sue tante facce, senza intendere una chiave di
lettura unitaria e comunque senza un codice per poterla
eventualmente interpretare.
Riesci a distinguere un messaggio specifico, analizzando la tua opera nella sua completezza?
Auspico in una serie di contenuti diversificati, legati assieme da una qualità comune che riguardi sia i concetti
espressi che le musiche. Non credo sia possibile ricondurre la totalità del mio lavoro a un unico messaggio ma
mi auguro che le mie idee riescano a trascendere i ge-
neri nei quali sono espresse, significando qualcosa anche
per le nuove generazioni.
Qualcuno sostiene che "Una barca non va lontano se il mare è calmo"; hai mai necessitato una
tempesta per rinvigorire la tua creatività?
C'è un innegabile elemento di verità in questo; i turbamenti che affrontiamo durante periodi di esaltazione o
di depressione ci cambiano, permettendoci di osservare le cose da un'angolazione spesso impensabile. Erich
Fromm ha detto "L'incertezza è la condizione ideale
per incitare l’uomo a scoprire il suo potenziale". In quei
momenti di estrema sensibilità dobbiamo approfittarne
per esplorare noi stessi; quando tutto si fa incerto è allora che, agendo secondo le nostre intuizioni, possiamo
scovare modi inediti di creare e nuovi livelli per essere,
azioni queste che sono la forma ideale per esprimere ciò
che è trascendentale.
Che ricordi delle registrazioni di Thirst?
Jacobs Studio, nello Surrey: ho degli sprazzi, tipo quando
registrai il pianoforte per Piano Pain e i momenti magici
in cui improvvisammo Moment. Eppoi il basso dirompente di Steve in White Cell e 4 Hours e ancora le session
per Uncertain nelle quali non riuscivo a trovare l’intonazione per il clarinetto. Una volta capitarono lì anche gli
U2 a dare un’occhiata: in tutta onestà non sapevamo chi
diavolo fossero ma ricordo la poderosa stretta di mano
di Bono. Fu un bel periodo; c'erano poche discussioni
di carattere tecnico anche se si delineava una divisione
tra Charlie, Roger e Paul da una parte e Steve e me
dall’altra. Non importa quanto comprensivo ti dimostri
o quanta libertà venga concessa nell'esecuzione: gli antagonismi sembrano inevitabili in un gruppo. Arrivi sempre
a un punto in cui pretendi di essere il regista del film
piuttosto che un semplice attore. A controllare la realizzazione della maggior parte dei progetti artistici di una
certa importanza è la visione forte di un solo artista.
Anche se è impossibile pensare a un equivalente visivo
di Thirst, l’immagine elaborata insieme a Neville Brody
oggi mi sembra l’unica possibile per rappresentare quelle
canzoni. Anche l’introduzione scritta da P-Orridge per
molti aspetti riassume bene il nostro discorso sonoro.
Nietzsche sosteneva, e a ragione, che la vera amicizia è
possibile solo tra persone che si somigliano.
Come vuoi ricordare Steven 'Judd' Turner?
Come Neil Cassidy nella sua autobiografia "I vagabondi". Come Dean Moriarty, Jacques Vaché, Jacques Rigaut: uno spirito dionisiaco che resterà sempre giovane
nel ricordo di chi l'ha conosciuto. Era un ragazzo snello ma nervoso, affascinante, una sorta di Iggy Pop che,
bruciando da ambo i lati, si spense prima degli altri. Era
il mio migliore amico e niente potrà mai rimpiazzare il
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vuoto che ha lasciato.
C'è qualcosa che ti rimproveri?
A posteriori c'è sempre qualcosa che vorremo aver fatto diversamente. Per me vale in particolar modo per il
periodo di Advantage, in cui mi sarei dovuto comportare con maggiore avvedutezza. Di tutta la gente con cui
collaboravo allora solo uno si è dimostrato un vero amico e, ovviamente, come tutti i migliori, è mancato prematuramente. Mi riferisco al batterista Nick Sanderson,
morto nel 2008. I giorni successivi alla tragica overdose
di Steve furono per me drammatici. Dopo alcuni mesi
finì anche la relazione con la mia compagna e cominciò
una stagione nella quale non pensavo che a fuggire da
tutto. Non so come spiegarlo, mi sentivo svuotato e, in
un certo qual modo, è ancora così: anche se lo spirito
non muore quelli che restano non possono dimenticare
le perdite che hanno subito.
A conti fatti siamo veramente artefici della nostra fortuna?
Non abbiamo un effettivo controllo sugli eventi, a partire dalla nostra stessa nascita e perciò siamo soggetti a
circostanze al di fuori della nostra portata. Pensa alla differenza che intercorre, a esempio, nel nascere da genitori intelligenti abbastanza da incoraggiare i nostri interessi
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o, al contrario, da gente ottusa.
Jane Radion Newton, tua moglie. Una collaboratrice preziosa, tua partner nei rinati Dva...
Una donna indipendente e molto acuta; le interessa venire percepita nella sua individualità, evitando quella situazione di fama riflessa di cui soffrì inizialmente Yoko Ono
durante il matrimonio con Lennon. Come artista può
vantare su di un intuito estetico di alta caratura, oltre a
una profonda conoscenza sia delle implicazioni simboliche che psicologiche/filosofiche insite nell’atto artistico.
Sono suoi gli ansimi nel brano Buried Dreams?
No, ma il suo contributo sia per le musiche che per certe scelte visive è stato determinante nell’esperienza Dva
e anche per quella Tagc.
A breve uscirà finalmente tutta la discografia rimasterizzata dei Dva...
Ci sono voluti 4 anni per portare a termine la faccenda. Un problema di non poco conto è stato venire a
patti con alcuni ex membri della band: solo questo mi
ha rubato un anno affinché tutti fossero convinti che
la proposta della Mute era la migliore sul tavolo. A essere onesti ci sono stati momenti nei quali, a causa di
certi problemi burocratici, sono stato tentato di considerare quegli album come parte del mio passato e di
lasciar perdere, per evitarmi stress e frustrazioni. Io e
Jane abbiamo anche dovuto difenderci da una serie di
accuse assolutamente false emerse su internet. Alla fine
però, l’abbiamo spuntata con questo box che contiene
gli 8 album rimasterizzati, veste grafica perfezionata, un
libretto di 120 pagine e, soprattutto, un album inedito
dal titolo Horology che testimonia le nostre sperimentazioni negli anni ‘77-’79. Da queste registrazioni inedite emerge un sound ben diverso da quello industrial di
White Souls. Ci sono delle sperimentazioni più vicine a
Buried Dreams nelle quali abbiamo fatto largo uso di
drum machine, synth, campionamenti ecc.. Spuntano così
alcune delle nostre prime influenze: in ambito performativo l’azionismo di Otto Muehl, Günter Brus, Rudolf
Schwarzkogler e Kurt Kren; l’arte figurativa con De
Chirico, Bacon, Kubin, Dix, Paul Delvaux come pure
gli esperimenti di Duchamp, Man Ray e Beuys; per la
letteratura Beckett, Rabelais, Artaud. E poi ci sono i
pionieri dell’elettronica: Schaeffer, Cage, Earle Brown
e via dicendo. Al di la di tutto questi pezzi incarnano per
me il sound originale dei Dva e, oltre a ciò, evidenziano
il prezioso apporto di Judd. Recentemente ho letto in un
libro scritto poco dopo la sua morte una frase attribuita
al nostro primo chitarrista, Paul Widger, il quale mette in
discussione l’abilità di Judd. Egli dimentica però, come la
maggior parte dei musicisti, che per un vero artista non
è tanto importante il livello di tecnica raggiunto quanto piuttosto l’ingegno e l’anima trasmessi con le proprie
esecuzioni/composizioni.
è imminente l’uscita del nuovo album a nome
Dva...
Per me creare significa reinventarmi: non trovo soddisfazione nel riproporre ciò che ho già fatto. Inventare
oggi è davvero una sfida: ormai ognuno, con un pc, può
generare un pattern e comporre un brano. Quella che
può sembrare l’abilità di un individuo nella maggior parte di questi casi però è attribuibile alla capacità della
macchina. Il nostro intento deve essere dunque quello
di individuare nuove strade, aprirsi al possibile. Secondo
il maestro Shunryu Suzuki la mente di un principiante è come uno spazio illimitato che possiamo esplorare,
mentre quella dell’esperto è limitata da scelte ben precise. La musica che accetta la sfida dell’imprevedibilità è
ovviamente più difficile e conseguentemente di non facile
'appeal' commerciale. Henri L. Bergson sostiene che
utilizzando un metodo prettamente razionale si riduce la
comprensione di un oggetto a elementi già noti mentre
affidandosi all'intuizione riusciamo a venire in contatto
con la sua parte più indefinibile. Concordo inoltre, sotto
questo profilo, con Coleridge, il quale evidenziava la necessità di un elemento incomprensibile per dare efficacia
all’opera. Ho trascorso gli ultimi 10 anni lontano dalla
musica poiché volevo reimmergermi nell'esplorazione
del mio primo medium, l'arte. Ora è una vera sfida tornare nell'arena. Diciamo che avevo bisogno di ritrovare
la mia voce più vera per dare nuova autenticità a questa
nuova fase creativa.
In cosa si differenzia concettualmente il progetto
Tagc rispetto all'esperienza Dva?
Tagc venne concepito da me e Steve verso la fine del
'78 come un progetto collettivo multimediale di cui sono
stato il 'direttore'. Il primo lavoro che pianificammo fu
una serie di nastri terapeutici; questi esperimenti verranno distribuiti solo quando avrò individuato un formato
adatto che li sappia rappresentare nella loro complessità. Alla base di tutto c'è la ricerca sistematica in merito
all'esplorazione delle potenzialità concernenti la composizione del suono, sue possibilità e sviluppi. Per espandere
la Co(no)scienza abbiamo utilizzato computer, tecnologie audiovisive e sistemi arcani derivati dalla tradizione
magica o da altre scienze occulte. Le ultime registrazioni
hanno investigato la stimolazione cerebrale sonora e in
lavori come Meontological Recordings-Record 2 Teste
Tones ci siamo spinti ancora più profondamente nell'analisi del ruolo di frequenze e ritmi, con particolare interesse nella codifica delle strutture ritmiche utilizzate nei
rituali Voodoo per indurre la trance. Il fulcro principale
del lavoro comunque, si basa sugli esperimenti pioneristici condotti dall'occultista Michael Bertiaux dell'ordine iniziatico Otoa (Ordo Templi Orientis Antiqua) e del
Couleuvre Noire.
Cosa ti schifa nel mondo della musica?
Il doppiogiochismo e la falsità della maggior parte di
quelli che ne fanno parte: gente genuina ce n'è, ma sono
eccezioni che confermano la regola. Nella mia carriera
ho incontrato anche case discografiche interessate, oltre
al proprio guadagno, a promuovere al meglio delle loro
possibilità gli artisti che rappresentano ma, triste a dirsi,
restano una sparuta minoranza.
Tornando a Nietzsche: "Il visionario mente a se
stesso, il bugiardo solo agli altri". La tentazione è
di considerarci alla stregua di una menzogna...
Arduo rispondere. Meglio di me avrebbe detto Baudrillard
che, nel saggio "Sul mondo nella sua profonda illusorietà",
definisce l’idea filosofica come un concetto semplice e
radicale nella sua impossibilità, confutabile nella non-esistenza di un mondo oggettivo. Noi siamo parte di questa
rappresentazione e sua immagine riflessa, al contempo.
Non esiste solo l'illusione oggettiva dunque ma anche
quella speculare-soggettiva. Ecco il fulcro del mistero: il
mondo non esiste per essere conosciuto, non è concepito per sottostare alla nostra conoscenza anche se essa
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è parte del mondo per quanto concerne l’illusorietà del
tutto e cioè il fatto che non ci sia necessariamente una
spiegazione. Poi c'è questo miracolo: che un frammento
di questo Tutto, la mente dell’uomo, decide di arrogarsi il privilegio di divenire Sua rappresentazione. Ciò non
porterà certo a una soluzione oggettiva, almeno fino a
quando lo specchio continuerà a essere parte di ciò che
riflette. Oggi le microscienze hanno svelato l'illusione in
maniera definitiva, il che non riguarda solo l'inganno di
un'oggettiva verità mancata, ma l’inestricabile complicità
delle due, le quali vanificano ogni pensiero metafisico teorizzabile. Questa è la trappola che la natura ci riserva.
Internet ci condurrà verso un'insperabile forma
di liberazione o saranno nuove catene?
è un'arma a doppio taglio: da una parte puoi accedere
a informazioni altrimenti di ardua reperibilità; dall’altra
questa democratizzazione del mezzo informativo può diffondere notizie non vere, plagiando chi non sa scegliere
fonti attendibili. Aggiungici anche che internet attua una
sorta di separazione dalla realtà: oggi abbiamo persone
che vivono esistenze virtuali dove possono far accadere
le proprie fantasie. Tutti a volte necessitiamo di una sorta
di rifugio mentale, un po’ come nei sogni: il problema
emerge quando il mondo virtuale prende il sopravvento
sulla propria esistenza, sul genere dei romanzi di Ballard.
Con la diffusione esponenziale di questa tecnologia il fenomeno è destinato a espandersi. È una situazione 'faustiana': preferendo la finzione alla realtà perdiamo il controllo su quest'ultima. Mi preoccupa inoltre che la quasi
totalità delle risorse e delle attività nella nostra società
passi attraverso un cavo elettrico.
Qual è la tua paura più grande rispetto al futuro
del mondo?
Per risponderti mi rifaccio a "Psicanalisi della società
contemporanea" di Fromm; stiamo andando incontro a
un processo nel quale creiamo macchine che fanno il lavoro degli uomini e, di per contro, uomini che si comportano come perfetti automi. In breve questa alienazione
porterà a un graduale indebolimento delle nostre facoltà
mentali: la vita perde significato e parole come 'fede', 'felicità' o 'realtà' finiscono per non significare nulla. Tutti si
dicono felici pur avendo scordato cosa significhi provare
questa sensazione. Nel diciannovesimo secolo fu teorizzata la morte di Dio: il ventesimo secolo ha testimoniato la morte dell’uomo. Prima l’uomo veniva visto come
un’entità crudele e pericolosa; oggi egli è sinonimo di una
schizoide auto-alienazione. Il pericolo del futuro non sarà
più la schiavitù ma l’automazione di chi non sarà capace
di rivoltarsi contro questo processo. Il residuo di umanità
in questi automi impedirà loro di vivere pacificamente:
si trasformeranno in delle specie di golem e tenteranno
100
di distruggere il mondo, come risposta alle loro empie
esistenze. L'unica alternativa che ha l'uomo per evitare
automazione e guerre è di abbandonare in blocco questa
tendenza e mettersi in cammino verso la propria autorealizzazione.
Puoi menzionare un artista che ti ha influenzato
quand'eri giovane ma che neanche il tuo fan più
acceso potrebbe sospettare?
Negli anni della mia formazione, prima di approcciarmi
attivamente alla musica, leggevo moltissimo Eugène Ionesco, membro del Collegio della Patafisica e unanimemente considerato come uno dei fondatori del Teatro
dell'assurdo.
La tua risaputa cinefilia mi spinge a chiederti quali siano le tue preferenze rispetto ai maestri italiani...
Sono un gran culture dell'opera di Pasolini anche in virtù
della sua ecletticità, decisamente un artista imprevedibile
e controverso. Un intellettuale dai tanti paradossi. Il tema
dominante nella sua opera, così come nelle sue esperienze personali, è il Potere, del quale analizzò le forme più
oscure. Tra libri e film collezionò più di 30 denunce per
blasfemia e oscenità. Il suo confronto col Potere lo portò
ai margini della società così come al centro della vita pubblica in Italia. Un dissidente del mainstream contro la cui
convenzionalità e ortodossia si scagliò impetuosamente. Omosessuale, comunista, ateo: rifiutando la maggior
parte dei dogmi che altri accettavano, poté votarsi alla
ricerca di una verità che finì col plasmarne vita, opere e
convinzioni politiche. Ebbe a dire che si può comprendere una persona solo dopo la sua morte. Promosse nella
sua opera il concetto di 'sacralità naturale', l’idea cioè
che tutto fosse sacro di per se stesso, senza bisogno di
una legittimazione soprannaturale. Amo anche Visconti
e, naturalmente Fellini e Antonioni.
Te ne frega delle nuove leve dell'elettronica?
Per essere onesti mi interessano altre aree sonore e, sebbene per alcuni anni abbia abbracciato un modus legato
all’evoluzione tecnologica di questo medium, non mi ci
sono mai calato completamente, pur venendo a contatto con questa o quella situazione interessante. Ci sono
artisti che mi piacciono ma non sono famosi; sto considerando la possibilità di collaborarci per farli conoscere
a un pubblico più vasto.
Qual è il limite principale dell'atto improvvisativo?
Va compresa, la necessità dell'improvvisazione. Determina un processo che può ridefinire una forma conosciuta
o generarne nuove. Per i surrealisti si trattava di automatismo psichico allo stato puro, una situazione nella
quale corpo e mente si esprimono in totale libertà. Le
informazioni fluiscono liberamente e allora diventiamo
loro tramite. Quando funziona può consegnarci risultati brillanti, come nel caso di Thirst o Digitaria, ma le
va riconosciuta una misura e una corretta collocazione.
Forse si tratta del bisogno di organizzare, in opposizione al caos di altre forme di creazione che non possiamo
determinare.
Ho annotato una dichiarazione di Jello Biafra:
"Se ami Dio brucia la chiesa". La tua posizione
in proposito a religioni e questioni dogmatiche?
In un modo o nell'altro la religione ha sempre diviso
le persole. È stata causa di immensi spargimenti di sangue, perpetrando e permettendo crimini atroci, fin dai
tempi in cui gli sciamani persero il controllo sui loro
poteri e sulla dottrina della magia. Avvenne perciò che
il significato originario delle scienze occulte fu pervertito. Ricordo, a proposito, uno stralcio di una lettera
dello scienziato e occultista Jack Parsons indirizzata
alla moglie, la sua 'Donna Scarlatta', Marjorie Cameron:
"Duecento anni fa, alla base della vittoria del cristianesimo sullo gnosticismo, troviamo il fatto che il primo, pur
nella sua falsità, era 'diretto', comprensibile da persone
semplici. La 'semplicità' è un concetto chiave per assicurarsi la vittoria in ogni forma di guerra e, ancor oggi, la
Magia, non possiede questo requisito".
Qual è la tua opinione su Crowley? Non è che
'l'uomo più cattivo del mondo' fosse un abile
ciarlatano o poco più?
Era, secondo il suo sistema magico, un 'magus', un grado iniziatico conseguibile da pochi individui. Si trattò di
un pensatore originale in anticipo sui tempi per alcune
questioni. Sicuramente fu un pioniere che schiuse molte
porte poi attraversate, dopo di lui, da altri pensatori e
occultisti. La gente da sempre esprime giudizi negativi
su Crowley: era un personaggio dotato di grandi ascendente sugli altri e una figura indubbiamente ambigua.
Puoi dirti un uomo sereno?
Il più delle volte sì ma ci sono alcune occasioni che mi
fanno andare il sangue alla testa. A parte questo ultimamente sembra che le ore di una giornata non bastino
mai: sono diviso tra l'amministrazione dei miei progetti
e il lavoro artistico. L'ideale sarebbe non doversi accollare anche la parte gestionale ma il fatto è che ora
siamo solo io e Jane, non abbiamo collaboratori e c'è
una mole infinita di lavoro da sbrigare.
Qual è l'aspetto più straordinario dell'essere un
artista?
Realizzi che ogni cosa è transitoria e che creiamo al di
là di noi stessi esprimendo, nel migliore dei casi, qualcosa di altrimenti inesprimibile, qualcosa di straordinario
che, di volta in volta, cattura l'immagine di ciò che deve
essere stato, il rigenerarsi degli atavismi, della gnosi, così
come la consapevolezza che non porteremo nulla con
noi dopo la morte. È solo l'artefatto di questa esistenza
che rimarrà, imbevuto con lo spirito e le motivazioni di
chi l'ha generato. Si perpetua così una connessione tra
quelli che furono e quelli che saranno e che potranno
percepire la trascendenza del tutto.
101
(GI)Ant Steps #37
classic album rev
Sun Ra
Godflesh
The Heliocentric Worlds of Sun Ra, Volume Two
(ESP Disk, Gennaio 1966)
Streetcleaner (Earache, Novembre 1989)
Sun Ra come Michael Jackson: un vero mistero e uno
dei musicisti più influenti di sempre. Per Wu Ming 1 (Roberto Bui), il maestro della new thing più influente, persino più di Ornette Coleman e di John Coltrane. Forse perché, oltre alla musica, tradotta in una discografia
sterminata e disordinata (e pluridecennale, 1956-1993),
Herman "Sonny" Blount aveva dalla sua anche un immaginario - immagine e pensiero - assolutamente unico. E
ingombrante. Sun Ra è l'epicentro di quello che sarebbe
diventato l'afrofuturismo, un'eredità raccolta da George
Clinton prima, dalla techno detroitiana poi, per giungere fino alla scena new hip hop anni Duemila.
La musica di Sun Ra aveva preso avvio con la swing
era, lui cresciuto nel culto della big band di Duke Ellington, e aveva attraversato le più importanti ondate stilistiche del jazz per trovare poi una via personale basata
sull'improvvisazione, l'uso insistito delle percussioni e la
sperimentazione con tastiere elettriche ed elettroniche
(suonate con uno stile che catapulta la lezione di Thelonious Monk, che peraltro avrà modo di esplicitare il
proprio apprezzamento per la musica di Ra, nell'universo
free/impro). Quale istantanea scegliere allora, tra le tante
possibili, per dare un'immagine chiara - e quindi opportunamente ambigua e misteriosa - dell'uomo e della sua
phre e space music? Il club elegante di Jazz In Silhouette
(1958), non privo di chiare anticipazioni delle eccentricità di là da venire; il camerismo sghembo per tastiere
(il clavinet) e percussioni, da una parte, e l'orgia a tratti
quasi noise, dall'altra, dell'esotico ed esoterico Atlantis
(1969); l'apoteosi afrofuturista del film e del disco blax
Space Is The Place (1972; titolo divenuto un vero motto); il flirt fusion col languido funk di Lanquidity (1978);
l'incontro/scontro con un altro maestro dell'improvvisazione come John Cage (1986); l'azzeccatissimo remake
della psichedelia grottesca de La danza degli elefanti rosa
102
di Dumbo (nell'omaggio alle musiche disneyane coordinato da Hal Willner e intitolato Stay Awake; 1988)?
Tanto vale non scegliere affatto e abbandonarsi alla montagna di 28 cd che testimoniano i concerti per il capodanno 1981 al Detroit Jazz Center (2007)?
Vince il buon senso e vince pure ai punti il secondo volume della saga dei Mondi Eliocentrici (secondo album registrato per la ESP Disk di Bernard Stollman). è uno dei
titoli più rappresentativi del periodo newyorkese di Ra,
caratterizzato dall'esplorazione delle possibilità dell'improvvisazione eterodiretta (quella che Butch Morris
codificherà come conduction) ed è una delle sue performance in studio migliori (e meglio registrate; si senta di
contro l'impasto da bootleg di Atlantis), in compagnia di
alcuni dei suoi più fidati accompagnatori (i fiatisti Marshall Allen, John Gilmore, Pat Patrick e il contrabbassista Ronnie Boykins). Sono tre pezzi errabondi
che tracciano vie sbilenche a metà tra il free jazz e la musica cameristica-contemporanea, animati dalla dialettica
tra i vuoti e i pieni, il discreto e il continuo, coi classici
momenti esclusivamente percussivi e quelle tastiere dai
suoni bizzarri (qui il clavioline, un proto-sintetizzatore
monofonico).
Quella che ne viene fuori è l'immagine più appropriata per descrivere un'estetica in fondo ancora tutta da
decifrare: il pezzo conclusivo, un flusso continuo che si
fa avanti per blocchi distinti, si chiama Cosmic Chaos. Caos
cosmico ma anche caso ordinato e organizzato, un qualcosa
di drammatico e giocoso allo stesso tempo. Come la vita
e l'arte tutta di Sun Ra. Ed è solo una goccia nel mare.
Anzi, un granello di polvere nello spazio.
è innegabile che l'importanza del Pop Group fu capitale
quanto il lascito dei progetti paralleli, così che parlare
del dopo Napalm Death comporta ragionamenti non
troppo dissimili. Il triumvirato Harris, Dorian e Broadrick
forgiò nomi il cui peso non fu meno rilevante di Pigbag,
Rip Rig & Panic o del più famoso Mark Stewart & Maffia.
Scorn fu la creatura horror dub del primo, Cathedral la
bestia nera del secondo e Godflesh l'incubo del terzo,
Justin Broadrick, un ragazzo che dopo la presenza nei
fondamentali Head of David di Dustbowl fondò la band
nel 1988 chiamando a sé l’amico G. C. Green, compagnone ultra navigato e conosciuto ai tempi dei Fall Of
Because (epiteto di Killing Joke-iana memoria).
A pigliarli fu la fida Earache che già aveva nelle sue
fila gli stessi Napalm e maturava direzioni innovative. In
particolare, il manager Digby Pearson voleva scollarsi di
dosso la nomea di uomo del grind (o del death) e Streetcleaner era la risposta. Con iconografia raffigurante
delle crocifissioni su di uno sfondo in fiamme, ovvero
una delle prime allucinazioni del professore Eddie Jessup
(William Hurt) protagonista di Stati Di Allucinazione
di Ken Russell; e still di Eraserhead di David Lynch e un
altro cut up preso dal corto Hold Me While I’m Naked di George Kuchar, la creatura Godflesh si apre con
cadenze marziali e muri malsani di chitarre di Broadrick
sorrette dal basso perfido di Green (Like Rats).
Entrambi alle macchine, i due subiscono il mood
plumbeo di Birmingham come vent’anni prima fu per i
Black Sabbath, eppure nei Godflesh il doom si fa white
noise monocorde e disperato e Swans-iano (Devastator),
tra vedute Killing Joke (Christbait Rising) e rimandi ad
una formazione che sottotraccia stava, nello stesso periodo, ridisegnando le geografie rock albioniche: i Loop
di Robert Hampson (seppur meccaniche e chirurgiche,
Dream Long Dead e Pulp lì vanno a parare). Dialettica
wave, asperità noise, la cifra dei Godflesh scorre come
un intenso e martellante stream of consciousness che
annulla la distinzione tra i singoli episodi: è l’insieme a
spaventare, come il ritrovarsi spalle al muro mentre un
magma lavico si avvicina.
Come la Title Track, episodio claustrofobico dove il
growl di Broadrick, storpiato e assistito dalla chitarra del
guest Paul Neville, pare proferito da una creatura Lovercraft-iana. Corre l’anno 1989, e per la prima volta la
parola metal viene accostata al suffisso industrial. Tutto
quello che verrà dopo in ambiti heavy - Fear Factory in
testa - acuirà la componente cyber lasciando spazio ad
una facciata tanto perfetta da risultare artefatta. Semmai
occorrano eredi, li si cerchi nei Neurosis di Through
Silver in Blood.
Gianni Avella
Gabriele Marino
103
la sera della prima
Alice In Wonderland
T im B urton (USA, 2010)
Il nuovo film di Tim Burton è insipido. Sa troppo poco
di Tim Burton e troppo di mamma Disney. L’universo
carrolliano potenzialmente infinito non viene percorso
in profondità: dopo la caduta nella tana del Bianconiglio,
ci si attesta su una scelta di comodo piena di spunti, ma
priva di slanci effettivi che vadano a percorrere e sviluppare una delle funamboliche e pazze possibilità offerte
dall’universo del romanzo.
Da Tim Burton mi sarei aspettato un riadattamento mo’
di American McGee’s Alice, videogame che ha saputo
conferire a pieno al ritorno adolescenziale di Alice (Mia
Wasikowska) nella terra incantata sfumature gotiche,
plasmare felini incubi anoressici, lepidotteri narcolettici
e beniamine con tanto di benzodiazepine e mannaia. Freaks veri. Invece. Servono a ben poco le intuizioni visise,
le raffinatezze con cui vengono cesellate le scenografie
in computer grafica, i costumi ed il trucco di una grossa
masquerada di corte che ricorda le caricature di strada
o i più gaudenti effetti cazzari da Photoshop. Burton gioca con il corpus carrolliano, compie un salto triplo letterario tra i romanzi con la beniamina dal capello sauro,
e fino a questo punto si lamenterebbero solo i talebani
della filologia romanza. Poco importa.
La cosa che proprio non si può digerire è l’inspiegabile
virata fantasy. Potrei capire se il testo di partenza fosse
povero. Ma è il Paese delle meraviglie! Stiamo parlando
104
laio Depp che Burton ricalca mo’ di cartoon vivente dal
suo Beetlejuice (1988). Spartaco di una clinica a cielo
aperto, il melanconico malpelo guida la rivolta di umiliati
e offesi contro la Regina Rossa (Helena Bonham Carter), irresistibile Villain della storia. L’outsider è la acida e
deforme sorella maggiore dell’ebete e accidiosa Regina
Bianca (Anne Hathaway) per movenze controfigura
fiabesca della Norma Desmond di Wilder, per atteggiamenti figalessa pleistocenica dal trucco dark cadaverico.
Qui lo dico e qui lo nego: a questo punto avrei preferito
vedere un’Alice del genio inconcludente di Terry Gilliam, perché se non altro la lente psichedelica, i funghi
allucinogeni, gli oppiacei ci sarebbero stati. Eccome. E
non avremmo necessitato di una stereoscopia tra l’altro
pleonastica per il 70% del film, ormai semplice ammennicolo commerciale.
—recensioni
di una cosmogonia. Chi se ne frega dei draghi, dei paladini, delle spade e delle armature, quelle lasciamole agli ortodossi di Tolkien, ai ciccioni panzoni dei tornei di D&D
che si eccitano con gli item dei loro elfi silvani. Invece il
sentore evidente è che la signora Linda Woolverton, già
sceneggiatrice di alcuni must disneyani come La Bella e
la Bestia (1991) e Il re Leone (1994), abbia consegnato
un copione blindato che ammicca a La Bussola d’oro
(P. Pullman, 1995) con la sua galoppata urside – e già si
dovrebbe cercare di capire perché mai rievocare anche
lontanamente uno dei più grossi flop del cinema recente - e i vari Narnia di C.S. Lewis, che per l’appunto con
Carroll ha solo il Lewis in comune.
Non solo si attinge ad un universo completante differente, ad un bacino semantico che con quello lisergico di
Carroll non ha niente in comune, ma si scelgono anche
gli stereotipi più scontati ed esautorati della scuola di
Propp applicata alla deriva del mythos in veste fantasy:
la lotta tra consanguinei per il trono con tanto di profezia, l’aiutante e l’oggetto magico, il dragone sigfridiano.
La follia che diventava genio anarchico di matrice nietzchiana per Carroll, l’azzeramento dell’intelletto e il cedimento al fascino illogico della volontà primigenia, qui si
vestono di un’inutilissima quanto fiacca verve che fanno
del Cappellaio (l’istrionico Johnny Depp) un crociato
e che sembrerebbe autorizzare la pericolosa triangolazione sillogistica in cui la follia diventa termine medio tra
genialità e melanconia. Perché «i migliori sono sempre mat-
Luca Colnaghi
Invictus - L’invincibile
C lint E astwood (USA, 2010)
ti» come diceva il papà di Alice e perché la melanconia
dell’uomo di genio aristotelica sembra il tratto saliente
della personalità del cappellaio e degli altri protorivoluzionari.
Ma la pazzia che ne deriva è una schizofrenia compulsiva che impedisce al film di essere sottoscritto ad un
universo di riferimento e ad Alice di riconoscersi e di
essere riconosciuta come tale. E le cose non sembrano
di certo migliorare nel finale con lo slancio brianzolo da
giovane imprenditrice, che fanno della nostra beniamina
prima una Giovanna d’Arco in difesa dello status-quo,
poi una femminista ante-litteram e una socia onoraria di
Confindustria. Come in una vecchia canzone: «Alice non
abita più qui».
Una schizofrenia che modella il film in continuazione
senza interruzione e senza meta, vittima di un’ossessiva
bulimia di pozioni astringenti e biscottini nandrolonici
che se sottolineano alcune piacevoli parentesi come
la sequenza della scacchiera, non evitano interminabili
parentesi trash come quella d’appendice della deliranza
(forse il punto più basso del cinema di Burton e Depp),
che vezzeggiano sulle partiture orchestrali di Danny Elfman (garanzia di casa Burton) per tutto il film per poi
chiudere con Avril Lavigne.
Nonostante l’esergo da giovane forzista in odore di quote rosa, il vero protagonista morale del film è il Cappel-
In una scena di Invictus il capitano della nazionale Francois Pienaar, interpretato da Matt Damon, guarda
all’imbrunire dalla finestra della sua camera; è la sera che
precede la giornata dell’incontro con gli All Blacks e il
suo pensiero, presumibilmente, corre in avanti per cercare la giusta concentrazione. La battuta successiva, invece,
ci dimostra che siamo in errore: sta pensando al passato
di un altro uomo, un suo nemico, che ora sta facendo il
tifo per lui. Che importanza ha, quindi, quella partita di
rugby che si deve disputare il giorno dopo di fronte alla
forza portentosa della vita di quell’uomo? Il suo perdono, dopo 27 anni di carcere?
Nessuna impresa sportiva può eguagliare la forza di
quella vita che spinge in avanti, imperterrita, intrepida.
Allo stesso modo dovremmo intendere questo film: ben
lungi dall’essere cinema sportivo, questo è un film sulla
salvezza e sulla riconciliazione rappresentate dalla vita
di un uomo. Il suo insegnamento, radicalmente rivoluzionario, di “porgere al nemico l’altra guancia“ - ovvero
playing the enemy – è, prima ancora che astuto e sottile,
anticonformista e scandaloso. Lo scandalo del suo pensiero lo si vede dipinto sulle facce dei suoi stessi sostenitori quando Nelson Mandela irrompe, con la consueta
gentilezza, alla riunione della confederazione sportiva dei
neri. Mettere da parte la rabbia, le offese, le intolleranze,
la misera strategia della “tifoseria contro“ ha la forza rivoluzionaria di abbattere una barriera.
Utilizzare strategicamente lo sport per fare una rivoluzione equivale a spezzare una catena e astutamente
lavorare al fianco il nemico. Le armi sono la ferocia della
gentilezza e il potere carismatico della calma. Non è, for105
se, questo, un insegnamento da cui dovremmo tutti trarre giovamento, soprattutto oggi? Non è, forse, molto più
rivoluzionaria questa lotta? Così stupisce la fiducia che
Mandela nutre nella forza e nell’unione del suo popolo
da lui definito “famiglia“. E come è attraente e carismatica la sua compostezza quando, per esempio, all’inizio
del film ci aspettiamo che il furgoncino che si muove
concitato nasconda un pericolo. Invece il furgoncino
porta solo giornali i cui titoli, in prima pagina, echeggiano
i repentini cambi d’opinione cui è sottoposto un leader
(in questo caso il pensiero vola all’America di Obama,
prima osannato poi già criticato). Smart lad, to slip betimes
away/ from fields where glory does not stay/ and early though the laurel grows/ it withers quicker than the rose scriveva
A. E. Housman per consolare dalla morte prematura di
un giovane atleta che poteva così risparmiarsi il destino
di perdere altrettanto velocemente la fama che si era
procurato. Del resto l’America attuale sembra essere
invocata anche dai riferimenti alla situazione economica
e sociale stagnante nella quale Mandela si trova ad operare all’inizio degli anni 90. I parallelismi – lo sappiamo
- spesso portano ad una visione troppo superficiale della
Storia, si limitano agli effetti e, quel che è peggio, diventano ideologia. Ma non credo che Clint Eastwood abbia
ceduto a questo meccanismo. Così mi sembra che, in
106
fondo, il nostro regista – aiutato da Morgan Freeman –
abbia voluto soprattutto, umilmente, raccontare la storia
di un Uomo più che la Storia. Una figura che possa funzionare come un punto di riferimento e una speranza in
un contesto storico soffocato da paure (ecco il riferimento ai possibili attentati) e cedimenti, debolezze e atti
di forza tanto arroganti quanto inutili. Dopo Gran Torino una poetica del genere spiazza e nello stesso tempo,
paradossalmente, porta a compimento, si fa segno di un
percorso registico che continuamente ci sorprende e
non finisce mai di evolvere.
Non confondiamo umiltà (classicismo, rigore) con senilità. Invictus non manca di scelte forti di regia: nella prima
scena, per esempio, vediamo i due campi sportivi divisi
dalla strada dove passa l’auto con a bordo Mandela, appena uscito di prigione. Basta un solo, dolce e sinuoso
movimento di macchina per scoprire due mondi completamente opposti che andranno lentamente a fondersi
l’uno nell’altro nel corso del film. Le note musicali sottili
e cadenzate rappresentano perfettamente questo gentile
lavoro di continua ispirazione. Il ralenti finale che dilata
il tempo prima sincopato. La scenografia luminosamente
bianca come a ribadire la superiorità di un colore; quella
luce che nelle scene finali è quella del sole che illumina
la partita e la coppa sollevata. Riusciamo ancora a distinguere il nero dal bianco, o è solo luce? …but the Horror of
the shade/ and yet the menace of the years/ finds, and shall
find me, unafraid (William Ernest Henley).
Costanza Salvi
Shutter Island
M artin S corsese (USA, 2010)
Attenzione: chi ha già visto il film può leggere la recensione, chi, invece, non l’ha visto – e ha in progetto di farlo
- farebbe meglio a passare ad un’altra lettura perché il
bello di questo film è proprio saperne il meno possibile.
Dai commenti carpiti en passant dalle persone all’uscita
del cinema dovrei, in realtà, arrivare all’opposta conclusione: “Ma allora, alla fine, è un pazzo o è il più saggio di tutti?!” oppure: “Ma che vuol dire la frase finale meglio vivere
da mostro o morire da brava persona?!”; in sostanza non ci
si capisce molto e siccome il problema principale di uno
spettatore è capire la storia e lo sviluppo degli eventi si
dovrà pur trovare un punto finale, una conclusione dirimente del problema.
Eh sì, perché, nonostante tutto, siamo ancora attaccati
a quel vecchio, stantio finché si vuole ma osservato con
una certa nostalgia, problema della verità. È proprio questo il tema del film. Dove sta la verità? Chi ha la ragione?
Non è forse più assurdo di qualunque tipo di comportamento deviato quel progetto di legittimazione dell’omici-
dio che è la guerra? Come riuscire a giudicare insano un
certo comportamento? Che metro di giudizio abbiamo
la pretesa di formulare per giudicare i comportamenti
degli altri se a molte delle nostre manifestazioni insane (violenze, soprusi, ingiustizie) abbiamo dato parvenza
di rettitudine morale e legittimità? Il tema che solleva
questo film è, in un certo modo, il lato anarchico delle
più profonde e personali convinzioni di un individuo. "La
verità non è che un esercito mobile di metafore, metonimie
e antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane…" diceva quel mattacchione di Nietzsche. Chi sono
i veri pazzi? È un tema kafkiano, dice ad un certo punto
la psichiatra Rachel Solando che lui trova, attraverso una
serie di segni premonitori, nella caverna a riscaldarsi al
calore del fuoco (temi archetipici entrambi). Le tue paure giustificate appaiono, agli occhi degli altri, ossessioni di
una mente malata, i tuoi dolori saranno traumi insanabili,
le ragioni più profonde, farneticazioni. Che poi, alla fine,
tutto si ribalti e quelli che sembravano scienziati votati
alla pratica della lobotomia e fascistoidi (gli americani
fascisti?! Che fanno peggior cose dei loro nemici?!
Martin Scorsese azzarda questo parallelo con l’attualità e accenna alle opposizioni di potere politico…) siano in realtà psicanalisti giocherelloni che inscenano cure
all’avanguardia come il role play che cosa cambia? La
mezz’ora finale - che è fin esagerata nella sua lunghezzanon cambia nulla della tesi centrale: difficile e doloroso
rimane il rapporto tra l’individuo e l’istituzione sociale.
Più che una parabola su un uomo che deve accettare il
suo dolore, il film sembra una denuncia dell’inadeguatezza – o responsabilità - della società rispetto a quel
dolore. Impossibile, spesso, il compromesso. Mostri o
brave persone?
Finita la parte seria avrei da dire qualcosa sul film: mi
sembra che Scorsese si sia fin troppo innamorato del suo
lavoro, mette troppa carne al fuoco e finisce per essere
deludente. Ci sono scene girate con maestria: la prima
apparizione del battello nella nebbia (calma piatta, bianca, lattea, nauseante più di una tempesta), la panoramica
della fucilazione dei fascisti a Dachau. Ci sono le scenografie di Dante Ferretti e Lo Schiavo, i contrasti di luce
e ombra (Orson Welles), l’ambientazione claustrofobia
dei corridoi e dei padiglioni (infiniti, labirintici, cangianti
come la mente umana), la natura selvaggia e archetipica
fuori, i soprassalti al fulmicotone, i buchi neri (la chiesetta gotica, l’incontro con George Noise, la caverna). Eppure si esce dal cinema intossicati: Scorsese strafà. Poi mi
irritano i riferimenti cinephile: passi Vertigine di Otto
Preminger, vada anche Jacques Tourneur (l’isoletta
misteriosa e l’ambientazione gotica, Le catene della
colpa) ma non stonano le vagonate di riferimenti alla
storia del cinema spesso citate a sproposito? Commenti
che s’addicono al film: il troppo stroppia. Sono d’accordo
con Giona Nazzaro (Film Tv n.9): Il processo di Welles è
il suo (taciuto) più diretto riferimento.
Costanza Salvi
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