battaglia nel cielo
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battaglia nel cielo
FESTIVAL DI CANNES 2005 in concorso LUCKY RED presenta BATTAGLIA NEL CIELO un film di Carlos Reygadas durata 98 minuti www.luckyred.it Ufficio Stampa Via Chinotto,16 tel +39 06 37352296 fax +39 06 37352310 Georgette Ranucci (+39 335 5943393 [email protected]) Alessandra Tieri (+39 335 8480787 [email protected]) MESSICO: UN PAESAGGIO URBANO Oggi, il Messico è una megalopoli di oltre 20 milioni di abitanti quando negli anni ’40 ne contava solo un milione. All’epoca, pare che lì la vita fosse gradevole. CAST ARTISTICO Marcos Ana Moglie di Marcos David Viky Ispettore di polizia Marcos Hernández Anapola Mushkadiz Berta Ruiz David Bornstein Rosalinda Ramírez Juan Soria “El Abuelo” CAST TECNICO Regia e Sceneggiatura Fotografia Suono Montaggio Montaggio suono Musica Direttore di produzione Produttori Produttori associati Con il sostegno di Carlos Reygadas Diego Martínez Vignatti Gilles Laurent Benjamin Mirguet, Adoración G. Elipe, Nicolas Schmerkin Sergio Díaz (ZTRACKZ), Ramón Moreira John Tavener, J.S. Bach, Marcha Cordobesa (Anomino XVI° secolo) Gerardo Tagle Philippe Bober, Carlos Reygadas, Jaime Romandía, Susanne Marian Hamish McAlpine, Tarantula Belgique Joseph Roushop, Essential Filmproduktion, Mackeyco, Juano Córdova, Universidad de Guadalajara (Messico), ZDF/arte, arte Francia Hubert Bals Found, Fonds Sud Cinéma, Communauté Française de Belgique. SINOSSI Marcos, autista di un generale, e sua moglie, hanno rapito un bambino che è morto accidentalmente. In un altro mondo, Ana, la figlia del suo capo, si prostituisce per puro piacere. Ossessionato dalla sua coscienza, Marco le confessa l’accaduto, cercando conforto. Alla fine, la sua ricerca di redenzione lo porta a seguire un pellegrinaggio in onore di Nostra Signora di Guadalupe. IL REGISTA Carlos Reygadas è nato nel 1971 in Messico. Dopo i suoi studi di diritto, parte per Bruxelles nel 1997 e decide di dedicarsi ad un'altra sua passione, il cinema. Per due anni, mette insieme un equipe di tecnici composta essenzialmente da principianti per girare il suo primo lungometraggio, “Japón”. Il film, autoprodotto, viene presentato nel 2002 ai festival di Rotterdam e di Cannes dove riceve una menzione speciale per la Camera d’Or. Battaglia nel cielo è il suo secondo lungometraggio. La produzione, per la maggior parte francese, comprende oltre a Mantarraya e Carlos Reygadas, coproduttori messicani, anche un coproduttore belga. FILMOGRAFIA 2005 2002 Battaglia nel Cielo (Festival di Cannes – in concorso) Japón 2002 (Camera d’Or – Menzione Speciale Festival di Cannes) INTERVISTA CON CARLOS REYGADAS Trae ispirazione da personaggi reali? Marcos Hernandez ha lavorato con mio padre presso il Ministero della Cultura. Gli ho chiesto di interpretare un piccolo ruolo in “Japón”, ed è stato allora che ho pensato a lui per il mio nuovo film. Mi ha ispirato molto nella concezione della storia di Battaglia nel Cielo come già era accaduto con Alejandro Ferretis per “Japón”. Marcos era perfetto per incarnare questo personaggio tormentato da un conflitto interno perché avevo bisogno di qualcuno di introverso, dotato di una forte presenza e di un vero mistero. Mi piace prendere gli attori dei miei film così come sono, come se fossero una luce nell’acqua, un albero o un bel quadro. È la telecamera che in seguito catturerà l’interiorità degli esseri. Marcos non rappresenta nulla, si accontenta di essere. Il mio attore ideale. Cerca degli attori che non “recitano” ma che si rivelano? Marcos non rappresenta un’idea perché credo che ci si avvicini maggiormente all’Uomo quando ci si mette semplicemente di fronte alla telecamera, senza cercare di trasmettere un senso. Gli attori di Battaglia nel Cielo non hanno letto la sceneggiatura e quindi non conoscono le intenzioni dei loro personaggi. Mi piace ottenere una recitazione il più naturale possibile – o più precisamente l’assenza di recitazione. Nel caso di Ana, interpretata da Anapola Mushkadiz, mi piace modificare il ruolo in funzione della sua personalità e del suo modo di essere. Quando qualcosa mi attira in un personaggio, costruisco il personaggio attorno a ciò che ha scatenato questa attrazione. La cosa principale è l’essere umano. Mi piacciono anche le situazioni impreviste e spesso la spontaneità degli attori non professionisti mi sorprende. Si avvicina al corpo per rivelarne il mistero? Quando scrivo una sceneggiatura, immagino le cose come le sento. È vero per il personaggio di Marcos come anche per Città del Messico ed i suoi panorami sonori. Mostro la carne, i capelli, i liquidi e la luce. E il film ruota attorno a questo desiderio “anhelo” in spagnolo – di sentire, conoscere, essere lì, essere consapevole. Non cerco di dare delle risposte, ma di porre delle domande, e mi accontento di constatare i misteri della vita, che poi è la nostra esistenza e la nostra coscienza. Attraverso il corpo, si cerca di entrare in questo mondo. E alla fine del film, una nuova scena ci ricorda che siamo anche questa carne che un giorno dovremo lasciare. Ognuno di noi è effimero, ma siamo anche, tutti, allo stesso tempo, un dio. Come influenza i suoi personaggi la società messicana? Oggi i rapimenti sono molto frequenti in Messico. Questo fenomeno mi è servito come punto di partenza per parlare di cose più universali. In effetti, il personaggio di Marcos potrebbe benissimo essere tedesco o cinese. Il mio film si svolge in un contesto sociale difficile, ma non è affatto politico: si tratta innanzitutto del conflitto di un essere umano, combattuto tra le sue azioni e la sua natura. Per Marcos, il rapimento è una necessità? La mia intenzione è mostrare la complessità della vita e delle nostre scelte attraverso questa storia di rapimento. Marcos non è povero. Ha una casa propria, una sua famiglia. Questo rapimento non gli è indispensabile per sopravvivere, ma gli offre un mezzo facile ed efficace per fare un po’ di soldi, per comprare una macchina, per esempio. Sceglie una vittima non troppo benestante perché è molto più facile che rapire un ricco circondato dalle guardie del corpo. Il film descrive il degrado morale nella sua città? Ad un primo sguardo, i personaggi di Battaglia nel Cielo potrebbero apparire immorali: la moglie di Marcos rapisce un bambino, Ana lavora in un bordello. Non sono delle “anime perdute”, perché ai loro occhi, il loro comportamento è perfettamente normale. Marcos, al contrario, è molto tormentato. Nella sua discesa agli inferi, finisce per essere toccato da qualcosa di superiore. Marco non si colpevolizza in maniera razionale, ma le sue viscere si oppongono al suo crimine: è il suo corpo a ribellarsi. Perché la religione occupa un ruolo così centrale? In Messico, il fondamento del cattolicesimo sta nel rituale più che nella spiritualità. Nostra Signora di Guadalupe è considerata la madre di tutti i messicani, il suo amore è incondizionato e noi, messicani, siamo contentissimi di restare vita natural durante i suoi figli. Il pellegrinaggio nel film è anch’esso più un fatto sociale che religioso. La moglie di Marcos vi si reca come gli altri, per riscattarsi, pensando: perché non peccare e poi pentirsi in seguito, come fanno tutti? Da dove proviene la corrente di nero romanticismo del suo film? Mi piace lavorare sui sentimenti forti e sul modo in cui si esprimono nei momenti culminanti come ha fatto Rossellini con Pompei, alla fine di “Viaggio in Italia”. Inoltre, mi piace molto la pittura romantica tedesca. Descrive una natura esplosiva, molto più grande e vasta dell’uomo, ma che ciononostante ne richiede la presenza. Si sente attratto dalla trasgressione e dalla provocazione? Vedere una bella ragazza benestante (Ana) fare una fellatio ad un uomo più vecchio e povero (Marcos) può disturbare seriamente una parte del pubblico. A livello superficiale, lo choc è estetico, ma il tabù è in realtà più profondo. Risiede nella differenza sociale. Se l’uomo fosse stato un ricco trafficante di droga, nessuno si stupirebbe, la ragazza passerebbe per una prostituta. Non provoco gratuitamente ma per scatenare delle sensazioni forti nello spettatore. Cerca lo choc estetico in particolar modo nelle scene d’amore? No, trovo molto bello il corpo dei miei personaggi. Vediamo la loro pelle scura sudare, delle curve magnifiche, dei bei corpi umani. Cerco sempre di mostrarli in maniera aperta e rispettosa perché la maggior parte degli esseri umani assomigliano a quei corpi e non alle grandi star del cinema. Personalmente, preferisco vedere Marcos e sua moglie fare l’amore liberamente, in modo sensuale e realistico che immaginare Tom Cruise o uno dei suoi colleghi all’opera. Il mio scopo non è eccitare o schifare gli spettatori. In questa scena, i corpi si fondono con la luce e la fragilità commovente dei personaggi. Trovo completamente assurdo vedere una coppia che fa l’amore con le lenzuola che coprono accuratamente i seni ed i sessi! Preferisco riprendere il sesso così come lo viviamo: questa bellezza naturale traduce per me la sensazione che possiamo provare facendo l’amore. Siamo anima e corpo. Il sesso è rivelatore per i suoi personaggi? All’inizio e alla fine del film, l’atto sessuale è legato alla fede. Invece, il rapporto sessuale tra Marcos e sua moglie è soprattutto l’espressione dell’amore erotico. Per concludere, nella relazione tra Marcos e Ana, il sesso diventa un’arma di manipolazione. Ana crede di controllare il bisogno sessuale di Marcos, ma si sbaglia perché egli ha più bisogno di comunicare e di essere ascoltato. La fellatio stilizzata mostra che il sesso ha una dimensione metafisica? Avevo voglia di cominciare il film con un volto, il riflesso del nostro essere interiore, la presentazione più diretta di un individuo. Poi di allargarmi e svelare poco a poco con uno stesso movimento una donna ed un uomo – come se rappresentassero l’umanità. L’atto intimo e caloroso di una fellatio può essere estetico. Allontanandomi dalla pornografia che cerca di eccitare lo spettatore, volevo filmare questa fellatio in maniera singolare ed inattesa perché si potesse essere toccati da questo momento di intimità. L’inizio riassume il film: Un uomo e una donna si toccano in una situazione idealmente vicina, ma non riescono a comunicare. C’è uno scarto e ne soffrono. La sessualità e sempre doppia, carnale e metafisica, banale e profonda. Mostro la fellatio come un atto sessuale ed un atto di fede. Nel sesso, si può ritrovare la fede. In che modo la campagna e la città influenzano il suo stile visivo? In “Japon”, il paesaggio era un personaggio a tutto tondo con l’idea che un ambiente circostante forte potesse essere d’aiuto al risveglio dell’uomo perduto. In Battaglia nel Cielo, la città agisce costantemente sui personaggi come Marcos che porta su di sé il carico drammatico del racconto. Volevo caricare l’ambientazione del Messico con le sensazioni di dolore e di stress. Alle volte la vita urbana domina i personaggi, cosa che ho tentato di mostrare in alcune scene utilizzando uno stile documentaristico e nervoso. Poi le ho alternate con delle scene più ricche a livello visivo. Per esempio, quando Marcos lascia la città per fermarsi alla stazione di servizio, la luce e la musica creano un momento magico: si entra in un mondo più poetico in cui il tempo sembra sospeso. Ciononostante non si dimentica mai che Marcos si trova lì per fare il pieno! Pensa di peccare talvolta per un uso eccessivo dei movimenti di macchina? Mi piace lanciare la telecamera come fosse un pennello, per vedere i colori che traccia nello spazio. Dopo “Japon”, ho imparato a lasciare la telecamera un po’ più tranquilla e a “calmarmi”. In Battaglia nel Cielo, ho preferito costruire il linguaggio del film principalmente con il montaggio. Poiché lo spazio è limitato nella città, anche nel film esso appare ritagliato. Alla fine ho conservato uno solo dei movimenti panoramici a 360° che avevamo girato ed ha una funzione precisa. Si apre sul tempo e sullo spazio mentre la scena d’amore si svolge proprio lì accanto. Alle volte, guardiamo il mondo attraverso alla musica: lo spazio, il tempo e la materia si mettono a danzare. La realtà può essere brutta, neutra o stilizzata. Tutto dipende dal nostro sguardo che può cambiare da un momento all’altro. Quanto si sente vicino al mondo che filma? Anche se la storia di Marcos in Battaglia nel Cielo mi sembra forte e singolare, in alcuni momenti bisogna sapersene staccare. Il distanziamento non è molto popolare al cinema perché gli spettatori amano farsi “prendere” dalla storia ed immergersi nei sentimenti. Preferisco invitare lo spettatore a trovare nel mio film un tempo ed uno spazio che gli siano propri- e dargli la possibilità di lasciarsi prendere invece dalle sensazioni. Quali sono stati i riferimenti per questo film? Per Battaglia nel Cielo, mi sentivo libero da qualsiasi influenza. Eppure, durante le riprese, ho pensato a Rossellini ed al suo modo di lavorare in “Roma, città aperta”. Costruiva una finzione usando la realtà del dopoguerra. A livello visivo, pensavo alla pittura di Tiziano e del Tintoretto, ai loro soggetti e ai loro colori. In che modo le sue immagini sono legate ai suoni e alla musica? Per me, il cinema è molto vicino alla musica. In alcuni momenti, non vuoi altro che il suono di due flauti e poi quello di un insieme di corde e di cembali. Mi piace che un film alterni il piccolo al grande – crea un movimento, come in una sinfonia. Il suono è spesso soggettivo perché ci mostra il modo in cui Marcos guarda e comprende il mondo. Utilizzo allo stesso modo l’inquadratura soggettiva, potente ma mai altrettanto nobile del suono nel farci scoprire ciò che accade dentro un personaggio. Quando Marcos lascia la città, si ferma ad una pompa di benzina e la musica sacra di Bach sublima la scena: non cerco di essere realistico. Mi piacciono i contrasti in una logica paradossale. La bellezza talvolta si trova proprio accanto alla bruttezza. Così, quando Marcos ascolta una bella musica in un posto orrendo, viene preso da una sensazione magnifica. Si sente più vicino ad un “realismo magico”? Con il realismo magico lo sfalsamento dal reale si esprime unicamente attraverso la materia. Mostrare una ragazza con un vestito lungo sette chilometri è lontano dal mio universo. Preferisco l’universo kafkiano con la sua forte dimensione metafisica. Cerco di svelare una bellezza sorprendente nella realtà o meglio ancora nella materia così come la conosciamo. Lavoro affinché si possa scoprire la bellezza dovunque. Ci può spiegare il titolo “Battaglia nel Cielo? È ironico, perché Città del Messico è più vicina all’inferno che al cielo. Proprio come “Japon” il titolo del mio film resta aperto. Si può immaginare che evochi la lotta di Marcos in una città infernale o ancora la battaglia delle divinità greche, lassù, che si disputano il destino degli uomini o ancora… ci sono tante interpretazioni quanti sono gli spettatori. Nel suo film c’è speranza? La fine del film è paradossale. Il corpo di Marcos muore, ma resta un mistero. Trovo che il mio film sia ottimista malgrado la sua storia tragica. È attraversato da una bellezza soggiacente e dal desiderio di Marcos di crescere, di conoscersi meglio, più profondamente. Non per questo bisogna credere che Marcos andrà in paradiso... INTERVISTA CON ANAPOLA MUSHKADIZ Carlos Reygadas si è ispirato alla sua vita per creare il personaggio di Ana? Il mio personaggio mi assomiglia molto. Nella vita, sono ancora più eccessiva, incapace di star ferma, mi piace stare in movimento. Nel film invece sembro più calma, la mia recitazione è controllata. Carlos Reygadas voleva che la sua recitazione venisse espressa dal corpo? Carlos sapeva perfettamente ciò che voleva da me. Non avevo letto la sceneggiatura del film ed ignoravo la cronologia della storia. Le riprese mi sembravano molto spontanee e non avevo il tempo di starci a pensare troppo. Alcune volte, al mattino, Carlos mi diceva solo che sarei stata nuda in una scena d’amore. Questa forma di improvvisazione mi ha permesso di aprirmi a tutte le esigenze del film. Carlos sa come rassicurare gli attori, trasmettergli fiducia. Con lui non avevo mai paura e non mi sentivo mai in imbarazzo. Come ha affrontato le scene di sesso? Mi è piaciuto lavorare con Marcos Hernandez sin dall’inizio delle riprese perché è un uomo speciale, impressionante e timido. Le scene di sesso erano molto più difficili da interpretare per lui che per me, visto che è sposato. Dopo aver ripetuto le scene d’amore per il film, avevo questa strana sensazione di essere stata veramente a letto con Marcos. La nudità non mi infastidisce perché i corpi umani sono belli e commoventi. Mi piaceva la sensazione di aver una fiducia tale da permettermi di recitare nuda ed essere me stessa. Era eccitante. Carlos ci ha preparati in modo intelligente e le riprese sono iniziate con la scena più difficile. Il seguito è stato quasi un gioco da bambini. Marcos ed io ci eravamo già scoperti. Come ha fatto a conservare la sua naturalezza? Carlos ci ha dato l’impressione che tutte le scene, anche le più oniriche, avrebbero potuto svolgersi nella nostra vita. Ad un tratto, niente più ci appariva surreale. E ci sentivamo naturali. INTERVISTA CON MARCOS HERNANDEZ Come ha conosciuto Carlos Reygadas? Ci conosciamo da 15 anni. Ho anche interpretato un piccolo ruolo in “Japon”. Ha avuto qualche esitazione prima di accettare la parte? Assolutamente no. La mia vita è molto diversa da quella di Marcos. Interpretarlo non era così complicato. Mi fidavo di Carlos. Come ha lavorato? Caros spiegava molto bene quello che voleva da me. Allora mi lasciavo dirigere. Pensa che la storia del film sia realistica? Sì, le cose si svolgono un po’ come nella realtà in Messico. Fare questo film ha cambiato qualcosa nella sua vita? Per adesso, assolutamente no. Durante le riprese, ho smesso di lavorare per tre mesi. Al mattino, mi svegliavo abbastanza presto, la sera rientravo sul tardi. Ne ho parlato a poche persone. Ma quando vedranno il film, molti mi faranno delle domande. Siccome la storia del film è molto forte, probabilmente avrò qualche problema con la mia famiglia… Le piacerebbe continuare a fare l’attore? Prima voglio vedere il film finito. Poi vedremo. Non avevo pensato di fare cinema, ma mi è piaciuta l’esperienza con Carlos Reygadas ed ora ne sono fiero. Frammenti di un ritratto incompiuto: Città del Messico nel cinema 1 di Susana Lopez Aranda Caspita, che cannonata abitare a Città del Messico! (El Bruto, Luis Buňuel) Frammenti di un ritratto incompiuto Difficile compito quello di tracciare una mappa dettagliata è esauriente di Città del Messico nel cinema. Un ritratto parziale è quello che qui si offre, frammentario e variegato, tanto quanto multiforme e complessa è la città stessa. La ragione salta agli occhi: dar conto delle centinaia di film in cui la città compare in uno dei suoi innumerevoli ruoli sarebbe non solo faticoso per l’autore, ma anche tedioso per il lettore. Tanto più che l’immagine della nostra città nel cinema rimane comunque qualcosa di incompiuto, giacché se i nostri occhi stupiti riescono a cogliere soltanto fuggevolmente la metamorfosi quotidiana della città, anche il cinema è una testimonianza transitoria di suoi continui mutamenti. Finché la città avrà un soffio di vita, la sua immagine cinematografica continuerà a trasformarsi. Città inventata, ricreata, immaginata dal cinema, Città del Messico, presta i suoi infiniti e affascinanti volti come scenario, cornice e specchio del paese e dei suoi abitanti. Nel bene come nel male. Gli spazi dell’immaginazione La città offre lo scenario. I suoi spazi, i suoi ambienti – per quanto contraffatti in studio – i suoi stati d’animo, si trasformano sullo schermo cinematografico in una presenza totalizzante, simbolo complesso e contraddittorio(di perdizione, di progresso), ambito da ricreare, inventare, scoprire, recuperare, cosmo in cui convergono le vite individuali e le energie del paese. Da società eminentemente agricola, il Messico, aggiogato all’ideale del progresso, si trasformava in un paese moderno. La vita cittadina sembrava offrire le migliori opportunità: istruzione, salute, lavoro, intrattenimento. Divenuta meta e destinazione per un vasto numero di messicani, la città cresceva senza potersi fermare. Popolati da immigrati giunti da ogni punto del paese, i quartieri urbani diventano microcosmo e crogiolo i cui si fondono costumi, parlate, tipi umani. La vita nella città contiene e rappresenta, in un certo senso, quella dell’intero Paese, e l’immagine di quest’ultimo si voleva avere. Testimone fedele del cambiamento, il cinema rispose facendo sua la città che lo ospitava. Anche se per molto tempo, a partire dall’avvento del sonoro, si ricominciò a girare negli studi, dove vennero riprodotti, o addirittura reinventati, gli scenari urbani. In modo non dissimile, i personaggi che popolavano le vie della città (il peladito, il tassista, l’operaia, il tabaccaio, la domestica) vennero formando una nutrita fauna tipologica: la loro parlata – il cantadito della capitale – si definì in modi di dire e accenti caratteristici – il tepileňo, l’apochado, per esempio – mostrando nel suo differenziarsi il mosaico umano della capitale. Ormai incontrollabile, la crescita della città produsse anche i propri mostri: bassifondi, immondezzai, delinquenza, sovraffollamento, miseria… riflesso concentrato dei problemi del paese, il volto oscuro, reale della vita urbana trovò anch’esso espressione nel cinema. Conseguenza di un innegabile centralismo, i film che ritraggono i diversi tipi fisici cittadini, o che ambientano le loro storie a Città del Messico, sono troppo numerosi per essere registrati in queste pagine. Tuttavia una rassegna, per quanto sommaria, degli spazi, dei tipi e dei toni della capitale privilegiati dal cinema, è ciò che qui viene proposto, a guisa di invito e catalogo che ciascuno completerà con la propria cinefilia. 1 Tratto da Le età d’oro del cinema messicano 1933-1960, a cura di Andrea Martini e Nuria Vidal, Ed. Lindau, 1997, pp.203-210. Il miraggio della grande città. L’attrazione irresistibile esercitata dalla capitale costituiva un pericolo per la più sacrosanta delle istituzioni sociali: la famiglia. I giovani più intraprendenti della provincia erano tentati a cercarvi il successo sognato, i buoni guadagni e le emozioni forti. Se Del rancho a la capital (Dal rancho alla capitale, Raúl de Anda, 1941) riassume lapidariamente il concetto, la vera summa sull’argomento è Cuando lo hijos se van (Quando i figli se ne vanno, Juan Bustillo Oro, 1941). In questo film la città riassume il più alto livello di astrazione: non la si vede mai, ma la sola idea di città costituisce una minaccia costante, anche se lontana. Riguardo a questo tema la rappresentazione più curiosa è quella delirante di Maldita ciudad (Maledetta città, Ismael Rodríguez, 1954), in cui tutte le possibile sventure di un emigrante sono soltanto immaginate da un giovane di paese che sogna di diventare… sceneggiatore nel cinema! Cuando los padres se quedan solos (Quando i padri restano soli, Juan Bustillo Oro, 1948), La familla Pérez (La famiglia Pérez, Gilberto Martinez Solares, 1948), e Cada hijo una cruz (Ogni figlio una croce, Juan Bustillo Oro, 1957) si diffusero ampiamente sull’argomento, le cui più sorprendenti propaggini si possono rintracciare ancora oggi, sotto altro segno, in film come Hasta morir (Fino alla morte, Fernando Sariñana, 1994), soltanto per fare un esempio. La vita dissipata. Opposta come valore morale all’idilliaco rancho (grande, medio o piccolo) e alla virtuosa vita di provincia, la capitale, fin dagli inizi del cinema, fu ammantata del fascino inconfessabile del peccato. Sdrucciolevole china per innumerevoli ingenue, la grande città albergava tentazioni e pericoli negli antri dei locali notturni, delle sale da ballo, dei bar malfamati, e spesso conduceva fino alla caduta irreparabile nel fango della casa d’appuntamenti, del lupanare… La via crucis di Santa, la peccatrice sofferente - portata sugli schermi, oltre che da Federico Gamboa e Antonio Moreno, anche da Norman Foster nel 1943 con Esther Fernandez e da Emilio Gómez Muriel nel 1968 con Julissa; e palesemente parafrasata in Hipólito, el de Santa (Hipolito, quello di Santa, Fernando de Fuentes, 1949) – innalzata alla dignità di dramma esemplare, fu la formula perfetta per lo sviluppo di uno dei generi urbani più nutriti del cinema nazionale. Da De pecado en pecado (Di peccato in peccato, Chano Urueta, 1947) a Flor de fango (Fiore di fango, Juan J. Ortega, 1941), a Perdida (Perduta, Fernando A. Rivero, 1949), la parabola di questi Angeles de arrabal (Angelo dei bassifondi, Raúl de Anda, 1949) caduti sotto gli artigli del melodramma, risultava tanto più attraente – e redditizia – quanto più era scabrosa. La città non era altro che Perdición de mujeres (Perdizione di donne, Juan Orol, 1950). E benché la buona (e ipocrita) coscienza deprecasse il destino delle innocenti Victimas del pecado (Vittime del peccato, Emilio Fernández, 1950), i luoghi dove veniva dato libero sfogo alla licenziosità diventavano, grazie al fascino del proibito, sempre più invitanti e pieni di piaceri. Uno dei momenti culmine del melodramma postribolare, che ebbe il suo apogeo negli anni dello sviluppo del modello tedesco, è la sequenza in cui la donna perduta Ninón Sevilla (in Victimas del pecado) recupera dalla spazzatura il bebé della collega sullo sfondo del Monumento alla Rivoluzione. Si poteva dire di più? Il cabaret. Passaggio obbligato dell’ampia via del peccato, il cabaret offriva alla peccatrice – quasi sempre ben dotata non solo di un bel fisico, ma anche delle doti necessarie per cantare e ballare la rumba alla perfezione – l’opportunità di raggiungere la fama e la fortuna sottraendosi a El Suavecito (Lo sdolcinato, Fernando Méndez, 1950) o al pappone di turno. In questi cabaret immaginati dal cinema messicano c’erano grandi e impossibili palcoscenici per l’orchestra dei ballabili, su cui si esibivano grandi celebrità (Agustín Lara, Pedro Vargas, Pérez Prado, Lo Panchos), circondati da graziosi tavolinetti con piccola lampade, assolutamente irreali. Lì fiorivano le grazie di ragazze come Meche Barba, Maria Antonieta Pons, Rosa Carmina e Ninón Sevilla, per ricordarne solo alcune. Ma non tutto fu mistificazione: in Mientras México dorme (Mentre il Messico dorme, 1938) Alejandro Galindo mostrò, in una storia dai toni estremi, una vita notturna molto più realistica, il vero volto oscuro e nascosto della città. Distinto amanecer (Un’alba diversa, 1943), interessante opera di Julio Brancho, a confronto con l’artificiosità imperante “parve svelare la vera capitale (le poste centrali… la stazione ferroviaria); l’ambiente di un cabaret di livello popolare era verosimile e riuscito, con le sue marchette e i suoi magnaccia” 2 . Il cabaret – nelle sue diverse versioni – e il postribolo, come ambienti urbani per antonomasia, sopravvivono ancora oggi nel cinema messicano, nei più deteriori tentativi di resuscitare il genere: Bellas de noche (Belle di notte 1974) e Las ficheras (Le marchette, 1976) di Mauricio M. Delgado, ma anche in film del livello di Inicio y fin (Inizio e fine, 1993), capolavoro di Arturo Ripstein, in cui gli elementi caratterizzanti del melodramma sono condotti fino alle loro estreme e terribili conseguenze. La sala da ballo. In teoria al Colonia, al California (dancing club, per essere precisi) e al Los Angeles si andava molto per ballare – il mambo, la rumba, il cha cha cha – senza nessun secondo fine. Se questo può essere vero nel fiabesco Danzón (Danzón, Maria Novaro, 1991), non lo era certo nel Salón México (Salón México, 1948) di Emilio Fernandez, dove l’abnegata Marga López – che con i proventi della sua professione manteneva la sorella in un collegio per ragazze di buona famiglia – giungeva fino in fondo all’abisso della sofferenza. Fra le altre cose il suo protettore, Rodolfo Acosta, le sottraeva il denaro vinto con il concorso al ballo. Bisogna dire che il quarto d’ora di ballo di Acosta, e la densa atmosfera captata da Gabriel Fuigueroa e dall’Indio, bastano a giustificare l’intero filone. Luoghi sacri. Non tutto era dissolutezza. La grande città offre alle anime traviate anche luoghi di redenzione, soprattutto la Basilica de Guadalupe. Con la Virgen que forjó una patria (La Vergine che forgiò una patria, 1942) Julio Brancho tratteggia, per di più in modo approssimativo, l’importanza del culto di Nuestra Senora de Guadalupe in Messico e in tutto il Sudamerica. Già nel periodo del muto, una moltitudine di film fervidamente devoti come Tapeyac (Tapeyac, Juan M. Ramos, 1917) e El milagro de la Guadalupa (Il miracolo della Madonna di Guadalupe, P.S. Earle, 1925) si erano profusi nel celebrare l’apparizione. Un singolare esempio è quello del semidocumentario – con trama melodrammatica, naturalmente – e semiprofessionale Alma de America (Anima d’America, A. Bustamante Moreno, 1941), che incornicia con numerose riprese della città e dei suoi monumenti e oceaniche celebrazioni in onore della Virgen Morena (Vergine bruna), titolo, quest’ultimo, di un altro film del periodo (Gabriel Soria, 1942). La Villa de Guadalupe (la basilica dedicata alla patrona dell’America Latina nel luogo dell’apparizione), come scenario di effusione religiosa (e patriottica), fece da sfondo a La Reina de México (La Regina del Messico, Fernando Méndez, 1940), a Las rosas del milagro (Le rose del miracolo, J. Soler, 1959) e a La Virgen de Guadalupe (La Vergine di Guadalupe, A. Salazar, 1976), per citare solo alcuni dei film girati presso il santuario. La vecchia Basilica, con un’atmosfera di segno diametralmente opposto, fu portata sugli schermi nel commovente finale di Matinée (Matinée, Jaime Humberto Hermosillo, 1976) e nel tumultuoso inseguimento di La Cabeza de la hindra (La testa dell’idra, Paul Leduc, 1981). Del resto il santuario più venerato del Messico ha un ruolo di primo piano anche in El (El, 1952), opera magistrale di Luis Bunuel sull’alienazione (dal campanile di un’altra chiesa, probabilmente la Cattedrale metropolitana, il protagonista paragona la folla giù in basso alle formiche e prova il desiderio di essere Dio “per schiacciarle”). Per concludere non possiamo non ricordare la bella facciata e le torri della Cattedrale trasformate in irriverente supporto per le gesta esilarati dell’”uomo mosca”, impersonato da Tin Tan in El Rivoltoso (Il ribelle, Gilberto Martίnez Solares, 1951). Gli scenari del ricordo. La più grande creazione dello spirito conservatore – costante del cinema nazionale – fu il filone identificato con l’etichetta di añoranza porfiriana (nostalgia porfiriana). Per questa originale impresa fu immaginata l’esistenza di una belle époque autoctona (coincidente con i regime di Porfirio Díaz), popolata unicamente da simpatici rappresentanti della classe media e medio-alta, i cui drammi romantici si dipanavano di canzone in canzone all’ombra del benevolo dittatore 3 . Inaugurato alla fine degli anni ’30 con grande successo di pubblico, il filone porfiriano si vede ben presto rappresentato da modelli come En tiempos de Don Porfirio (Ai tempi di Don 2 Emilio García Riera, Historia documental del cine méxicano, Università di Guadalajara, Governo di Jalisco, Segreteria della Cultura, Consiglio Nazionale per la Cultura e le Arti, Istituto Messicano di Cinematografia, México, D.F. 1994, vol III, p.54 3 Cfr ivi, p.109 Porfirio, Juan Bustillo Oro, 1939) e ¡Ay, qué tiempos, senor don Simón! (Ah, che tempi, signor don Simon!, Julio Bracho, 1941). La nostalgia dei tempi andati, questa volta gli anni ’40, e di stili di vita in via di estinzione, ritorna anche nell’affettuosa rievocazione dell’atmosfera di Roma, dell’Hipodromo e della Condesa in Mariana, Mariana (Marianna, Marianna, Alberto Isaac, 1987). Alla stessa epoca, e ai suoi personaggi emblematici, fanno riferimento altri film importanti: Frida (Frida, Paul Leduc, 1984), che ricrea con immagini fortemente evocative gli ambienti bohémiens in cui vissero Frida Khalo e Diego Rivera e La Reina de la noche (La Regina della notte, Arturo Ripstein, 1994), che ripercorre in grande stile la tragica storia della cantante Lucha Reyes, facendo del centro di Città del Messico uno scenario di grande e sordida bellezza. Il paesaggio riconoscibile. Quanti film messicani cominciano con una panoramica della capitale? Mentre una voce nasale recita: «nelle viscere di questa immensa e tumultuosa città, migliaia di piccole storie…», la macchina da presa giunge finalmente a destinazione, isolando una persona qualsiasi la cui vicenda diventerà il centro di un film, come in Una famiglia de tantas (Una famiglia come tante, Alejandro Galindo, 1948), che in quanto opera di qualità fece a meno della voce nasale. I simboli della modernità e della prosperità di Città del Messico sono inevitabilmente la Torre Latinoamericana, da Del suelo no paso (Non scendo più in basso, Chano Urueta, 1958), a Sólo con tu pareja (Solo con il tuo partner, Alfonso Cuarón, 1991), il Monumento alla Rivoluzione o quello alla Madre, il Palacio de Bellas Artes, la Colonna dell’Indipendenza (detta confidenzialmente “El Angel”) e naturalmente la sinuosa silhouette della Diana cacciatrice, ispirata, secondo il film La Diana cazadora (La Diana cacciatrice, Tito Davison, 1956), all’estatico nudo di Aña Luisa Peluffo (ammesso dalla censura moralista di quegli anni soltanto per la sua immobile artisticità). Questa stessa generosa statua sarebbe stata in seguito dissacrata, come altri luoghi e simboli cittadini, nella gazzarra interclassista di Los caifanes (Gli uomini crudeli, J. Ibánez, 1966). Da parte sua, lo sguardo insolito e affilato di Rubén Gámez riscopre e recupera nelle sue indefinibili prove filmiche, La fórmula secreta (La formula segreta, 1964) e Tequila (Tequila, 1991), immagini della città che si ergono a metafore del Messico e della sua storia. Il quartiere. Quasi sempre ricreato in studio, il popoloso quartiere popolare fu il cuore (anche in termini puramente sentimentali) di un dovizioso filone dl cinema di ambiente urbano. Il melodramma arrabalero, di borgata, fece del vicinato un’istituzione filmica, in cui le difficoltà economiche (leggasi miseria) alimentavano il fiorire di molte virtù: la nobiltà d’animo, la solidale condivisione della sofferenza, una dignitosa ingenuità, il “siamo poveri ma onesti”. Attenendosi al modello offerto da Nosotros los pobres (Noi poveri, Ismael Rodríguez, 1947), gli abitanti del Barrio Bajo (Quartiere basso, Fernando Méndez, 1950) e del Quinto patio (Quinto patio, Raphael J. Sevilla, 1950) finivano per comprendere che la vita era molto meglio (più divertente e più pura) nel loro poverissimo quartiere, e che il denaro è causa di ogni male, Ustedes los ricos (Voi ricchi, Ismael Rodríguez, 1948); Ahora soy rico (Ora sono ricco, Rogelio A. González, 1952). Le donne, quelle buone, erano angeliche massaie o giovani impiegatine (quelle cattive, o “traviate”, finivano nei cabaret); gli uomini per bene esercitavano mestieri onorati, seppur sottopagati. Si videro falegnami - Pepe el Toro (Pepe il Toro, Ismael Rodríguez, 1952) -, meccanici – da Mientras México duerme (Mentre il Messico dorme, 1938) a Los Mécanicos ardientes (I fervidi meccanici, 1985) - , macellai – El bruto (Il bruto, 1952), altro gioiello misconosciuto di Bunuel - , autisti ¡Equina bajan! (Scendono all’angolo!, 1948), Confidencias de un ruletero (Confessioni di un giocatore d’azzardo, Alejandro Galindo, 1949) e La ilusión viaja en tranvía (L’illusione viaggia in tranvai, Luis Bunuel, 1953) -, ferrovieri – El rey del barrio (Il re del quartiere, Gilberto Martínez Solares, 1949), divertentissima versione comica del tema, perché qui Tin Tan è a capo di una banda di ladruncoli)… Boxe e lotta libera. Se si eccettua il Santo e il suo laboratorio fantastico, gli eroi degli sport più rudi erano la gloriosa metamorfosi dei più ambiziosi abitanti del quartiere popolare, e della borgata, da Campéon sin corona (Campione senza corona, Alejandro Galindo, 1943) e La bestia magnifica (La bestia magnifica, Chano Urueta, 1952) in avanti… Il commercio. Nel cinema nazionale gli esercizi commerciali erano quasi sempre in mano agli stranieri, ad eccezione del settore gastronomico-sfizioso: salumerie, torterias – Acá las tortas (Passami i panini, Juan Bustillo Oro, 1951) - taquerías, banchetti di quesadillas e sopes, che potevano anche essere gestiti da connazionali. Il caffellatte era, e continua a essere, monopolio dell’Oriente. Nel quartiere periferico c’era sempre una piccola tabaccheria, punto di incontro o posto telefonico, in genere di proprietà di un cittadino originario della “madre patria”, la Spagna, che si chiamava don Venancio: Los hijos de don Venancio (I figli di don Venancio, Joaquín Pardavé, 1944). Mentre nei vecchi quartieri del centro c’era un negozio di commestibili, il cui vecchio padrone libanese – El basano Jalil, Joaquín Pardavé, 1942 – come il suo compatriota abonero – El Barchante Neguib (L’ambulante Neguib, Joaquín Pardavé, 1945) – non facevano che ringraziare la sorte di vivere in Messico. I quartieri residenziali. «O tempi, o costumi!», avrebbe detto Cicerone. In effetti qui si entra in un altro momento della storia della Città. Dagli anni ’60 in poi non è più una disgrazia essersi lasciati alle spalle Lagunilla, mi barrio (Lagunilla, quartiere mio, R. Araiza, 1980), Tepido o La Merced, né soffrire perché Los Fernandez de Peralvillo (I Fernandez di Peralvillo, Alejandro Galindo, 1953) sono ormai molto lontani sulla mappa emotiva e topografica della città. Ora, a Las Lomas e a Polanco, è di moda ballare in bikini intorno alla piscina, assomigliare alle sorelle Velásquez e avere come maggiordomo o couturier il picchiatore Maurizio Garcés… Il microcosmo abitativo. Le grandi concentrazioni umane richiedono grandi soluzioni. In D.F. (Città del Messico, Rogelio A. Gonzalez, 1979) la grande capitale, il vicinato – in senso orizzontale – e La Casa del ogro (Colpa che uccide, Fernando de Fuentes, 1938), cedono il passo al palazzo di miniappartamenti - Departamento de soltero (Appartamento da scapolo, René Cardona, 1969), sempre con Mauricio Garcés – al condominio, orizzontale e verticale, - Conserje en condominio (Portiere di condominio, Mauricio M. Delgado, 1973) – e alle dimensioni smisurate dell’unità di abitazione. Tlateolco è un punto di riferimento obbligato, come scenario reale della sanguinosa repressione del movimento studentesco del ’68, in Rojo amanecer (Alba rossa, Jorge Fons, 1989), e con la potente metafora del mare che ne sferza gli edifici, habitat della classe media urbana, in Naufragio (Naufragio, Jaime Humberto Hermosillo, 1977). La gioventù. Se il cinema messicano aveva saputo inventare i locali notturni, interi quartieri e ricordi di una mai esistita arcadia porfiriana, perché mai non avrebbe dovuto inventare anche una gioventù, tanto ipotetica quanto urbana? Questi fratelli minori, messicani e apocrifi, del James Dean di Rebel without a Cause (Gioventù bruciata, Nicholas Ray, 1955), cantavano canzoni melense – El cielo y la tierra (Il cielo e la terra, Alfonso Corona Blake, 1962) – o ballavano Al compás del rock’n roll (A tempo di rock’ n’ roll, J. Díaz Morales, 1956), entravano tra colpe e conflitti nella Edad de la tentación (L’età della tentazione, Alejandro Galindo, 1958) e avevano i volti e le voci di Angélica Maria, César Cuesta o Enrique Guzmán. Con loro entrarono nel cinema i libri di studio e gli incontri di football (americano), la città universitaria e certi stranissimi e improbabili caffè cosiddetti per giovani. Il colmo delle varianti di questa ondata giovanileimmaginaria fu naturalmente El Fantástico mundo de los hippies (Il fantastico mondo degli Yippy, 1969), in cui l’impagabile Juan Orol dimostra di non aver mai visto da vicino un giovane, e tanto meno un hippy, in tutta la sua vita. L’altra Città del Messico. Nonostante gli artifici, le ricostruzioni in studio e il tenace mascheramento di cui fu oggetto nel cinema, Città del Messico conservò sempre un suo volto nascosto, il volto minaccioso e sordido che era, ed è, parte ineliminabile della sua complessa totalità. Se in Los olvidados (I figli della violenza, 1950) Luis Bunuel aveva mostrato la vera durezza della miseria, dopo di allora molti altri film del miglior cinema messicano hanno esplorato il volto in ombra della vita urbana. I tentacoli della malavita e della corruzione poliziesca percorrono Cadena perpetua (Catena perpetua, Arturo Ripstein, 1978) e Lolo (Lolo, F. Athié, 1991); il clima repressivo e l’intollerabile crudeltà della prigione sono fotografati in El apando (La prigione, Felipe Cazals, 1975) il vecchio Palacio Negro de Lecumberri; la realtà disumana della miseria in Los albañiles (I falegnami, Jorge Fons, 1971) e quella del labirinto burocratico in Caridad (Carità, Jorge Fons, 1972). Altri luoghi e atmosfere. La città, serbatoio inesauribile, si presta ad essere esplorata dalle più diverse prospettive e attraverso i più vari tipi di spettacolo: il teatro di rivista; i tendoni del varietà; il genere horror (i mostri degli Estudios Churubusco, oggi praticamente scomparsi); a partire dal cinema sugli aztechi e sulle leggende coloniali; usando come riferimento il linguaggio dei suoi abitanti; oppure prendendo a oggetto i cinema come spazi fisici… di possibilità ce ne sono tante, e la città le offre a piene mani. (Susana López Aranda, La ciudad de México en el cine, in Ensayos sobre la Ciudad de México, Ed. DDF, Universidad Iberoamericana / Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, México D.F. 1994, vol. V, pp 119-136 LA PRODUZIONE DEL FILM Philippe Bober ha creato nel 1987 The Coproduction Office, una società di produzione e vendite internazionali di film d’autori basati su ricerche estetiche e ricerche innovatrici. Si occupa di finanziamento, produzione e vendita di film. Filmografia: “Europa”, “The Kingdom (Il Regno)” e “Breaking the Waves( Le Onde del Destino) ” di Lars Von Trier, “Suzhou River” di Lou Ye, “Chansons du deuxième étage” di Roy Andersson, “Lovely Rita” e “Hotel” di Jessica Hausner, “Pleasant Days” e “Johanna” di Kornél Mundruzcò, “Nòi Albinòi” di Dagur Kàri, “Japon” e “Batalla en el cielo” di Carlos Reygadas Mantarraya Producciones fondata in Messico nel 1998 da Jamie Romandia, funge da piattaforma di lancio per una nuova generazione di cineasti. Filmografia: “Caminos” di Pablo Aldrete, “Shirgo” di Rodrigo Lebrija, “Sangre” di Amat Escalante, “Japon” e “Batalla en el cielo” di Carlo Reygadas, No Dream Cinema è la società di produzione fondata da Carlo Reygadas. Filmografia: “Japon”, “Batalla en el cielo” di Carlo Reygadas. Tarantula è una rete europea di società indipendenti e autonoma riunite sotto uno stesso nome. La società è presente in Belgio, Francia, Lussemburgo, e Gran Bretagna. Filmografia: “Batalla en el cielo” di Carlo Reygadas, “Folie Privée” di Joachim Lafosse, “La Blessure” di Nicolas Klotz, “Folle Embellie” di Dominique Cabrera, “Une Part du Ciel” di Bénédicte Liénard.