battaglia nel cielo

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battaglia nel cielo
FESTIVAL DI CANNES 2005
in concorso
LUCKY RED
presenta
BATTAGLIA NEL CIELO
un film di
Carlos Reygadas
durata
98 minuti
www.luckyred.it
Ufficio Stampa
Via Chinotto,16 tel +39 06 37352296 fax +39 06 37352310
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MESSICO: UN PAESAGGIO URBANO
Oggi, il Messico è una megalopoli di oltre 20 milioni di abitanti quando negli anni
’40 ne contava solo un milione.
All’epoca, pare che lì la vita fosse gradevole.
CAST ARTISTICO
Marcos
Ana
Moglie di Marcos
David
Viky
Ispettore di polizia
Marcos Hernández
Anapola Mushkadiz
Berta Ruiz
David Bornstein
Rosalinda Ramírez
Juan Soria “El Abuelo”
CAST TECNICO
Regia e Sceneggiatura
Fotografia
Suono
Montaggio
Montaggio suono
Musica
Direttore di produzione
Produttori
Produttori associati
Con il sostegno di
Carlos Reygadas
Diego Martínez Vignatti
Gilles Laurent
Benjamin Mirguet, Adoración G. Elipe,
Nicolas Schmerkin
Sergio Díaz (ZTRACKZ), Ramón Moreira
John Tavener, J.S. Bach, Marcha Cordobesa
(Anomino XVI° secolo)
Gerardo Tagle
Philippe Bober, Carlos Reygadas,
Jaime Romandía, Susanne Marian
Hamish McAlpine, Tarantula Belgique Joseph
Roushop, Essential Filmproduktion, Mackeyco,
Juano Córdova, Universidad de Guadalajara
(Messico), ZDF/arte, arte Francia
Hubert Bals Found, Fonds Sud Cinéma,
Communauté Française de Belgique.
SINOSSI
Marcos, autista di un generale, e sua moglie, hanno rapito un bambino che è morto
accidentalmente. In un altro mondo, Ana, la figlia del suo capo, si prostituisce per
puro piacere.
Ossessionato dalla sua coscienza, Marco le confessa l’accaduto, cercando
conforto.
Alla fine, la sua ricerca di redenzione lo porta a seguire un pellegrinaggio in onore
di Nostra Signora di Guadalupe.
IL REGISTA
Carlos Reygadas è nato nel 1971 in Messico. Dopo i suoi studi di diritto, parte per
Bruxelles nel 1997 e decide di dedicarsi ad un'altra sua passione, il cinema.
Per due anni, mette insieme un equipe di tecnici composta essenzialmente da
principianti per girare il suo primo lungometraggio, “Japón”. Il film, autoprodotto,
viene presentato nel 2002 ai festival di Rotterdam e di Cannes dove riceve una
menzione speciale per la Camera d’Or. Battaglia nel cielo è il suo secondo
lungometraggio.
La produzione, per la maggior parte francese, comprende oltre a Mantarraya e
Carlos Reygadas, coproduttori messicani, anche un coproduttore belga.
FILMOGRAFIA
2005
2002
Battaglia nel Cielo (Festival di Cannes – in concorso)
Japón 2002 (Camera d’Or – Menzione Speciale Festival di Cannes)
INTERVISTA CON CARLOS REYGADAS
Trae ispirazione da personaggi reali?
Marcos Hernandez ha lavorato con mio padre presso il Ministero della Cultura. Gli ho
chiesto di interpretare un piccolo ruolo in “Japón”, ed è stato allora che ho pensato a lui
per il mio nuovo film. Mi ha ispirato molto nella concezione della storia di Battaglia nel
Cielo come già era accaduto con Alejandro Ferretis per “Japón”.
Marcos era perfetto per incarnare questo personaggio tormentato da un conflitto interno
perché avevo bisogno di qualcuno di introverso, dotato di una forte presenza e di un vero
mistero. Mi piace prendere gli attori dei miei film così come sono, come se fossero una
luce nell’acqua, un albero o un bel quadro. È la telecamera che in seguito catturerà
l’interiorità degli esseri. Marcos non rappresenta nulla, si accontenta di essere. Il mio
attore ideale.
Cerca degli attori che non “recitano” ma che si rivelano?
Marcos non rappresenta un’idea perché credo che ci si avvicini maggiormente all’Uomo
quando ci si mette semplicemente di fronte alla telecamera, senza cercare di trasmettere
un senso.
Gli attori di Battaglia nel Cielo non hanno letto la sceneggiatura e quindi non conoscono le
intenzioni dei loro personaggi.
Mi piace ottenere una recitazione il più naturale possibile – o più precisamente l’assenza di
recitazione. Nel caso di Ana, interpretata da Anapola Mushkadiz, mi piace modificare il
ruolo in funzione della sua personalità e del suo modo di essere.
Quando qualcosa mi attira in un personaggio, costruisco il personaggio attorno a ciò che
ha scatenato questa attrazione. La cosa principale è l’essere umano. Mi piacciono anche
le situazioni impreviste e spesso la spontaneità degli attori non professionisti mi sorprende.
Si avvicina al corpo per rivelarne il mistero?
Quando scrivo una sceneggiatura, immagino le cose come le sento. È vero per il
personaggio di Marcos come anche per Città del Messico ed i suoi panorami sonori.
Mostro la carne, i capelli, i liquidi e la luce. E il film ruota attorno a questo desiderio “anhelo” in spagnolo – di sentire, conoscere, essere lì, essere consapevole.
Non cerco di dare delle risposte, ma di porre delle domande, e mi accontento di constatare
i misteri della vita, che poi è la nostra esistenza e la nostra coscienza.
Attraverso il corpo, si cerca di entrare in questo mondo. E alla fine del film, una nuova
scena ci ricorda che siamo anche questa carne che un giorno dovremo lasciare.
Ognuno di noi è effimero, ma siamo anche, tutti, allo stesso tempo, un dio.
Come influenza i suoi personaggi la società messicana?
Oggi i rapimenti sono molto frequenti in Messico.
Questo fenomeno mi è servito come punto di partenza per parlare di cose più universali.
In effetti, il personaggio di Marcos potrebbe benissimo essere tedesco o cinese. Il mio film
si svolge in un contesto sociale difficile, ma non è affatto politico: si tratta innanzitutto del
conflitto di un essere umano, combattuto tra le sue azioni e la sua natura.
Per Marcos, il rapimento è una necessità?
La mia intenzione è mostrare la complessità della vita e delle nostre scelte attraverso
questa storia di rapimento. Marcos non è povero. Ha una casa propria, una sua famiglia.
Questo rapimento non gli è indispensabile per sopravvivere, ma gli offre un mezzo facile
ed efficace per fare un po’ di soldi, per comprare una macchina, per esempio. Sceglie una
vittima non troppo benestante perché è molto più facile che rapire un ricco circondato dalle
guardie del corpo.
Il film descrive il degrado morale nella sua città?
Ad un primo sguardo, i personaggi di Battaglia nel Cielo potrebbero apparire immorali: la
moglie di Marcos rapisce un bambino, Ana lavora in un bordello. Non sono delle “anime
perdute”, perché ai loro occhi, il loro comportamento è perfettamente normale. Marcos, al
contrario, è molto tormentato. Nella sua discesa agli inferi, finisce per essere toccato da
qualcosa di superiore. Marco non si colpevolizza in maniera razionale, ma le sue viscere si
oppongono al suo crimine: è il suo corpo a ribellarsi.
Perché la religione occupa un ruolo così centrale?
In Messico, il fondamento del cattolicesimo sta nel rituale più che nella spiritualità. Nostra
Signora di Guadalupe è considerata la madre di tutti i messicani, il suo amore è
incondizionato e noi, messicani, siamo contentissimi di restare vita natural durante i suoi
figli. Il pellegrinaggio nel film è anch’esso più un fatto sociale che religioso. La moglie di
Marcos vi si reca come gli altri, per riscattarsi, pensando: perché non peccare e poi
pentirsi in seguito, come fanno tutti?
Da dove proviene la corrente di nero romanticismo del suo film?
Mi piace lavorare sui sentimenti forti e sul modo in cui si esprimono nei momenti culminanti
come ha fatto Rossellini con Pompei, alla fine di “Viaggio in Italia”.
Inoltre, mi piace molto la pittura romantica tedesca. Descrive una natura esplosiva, molto
più grande e vasta dell’uomo, ma che ciononostante ne richiede la presenza.
Si sente attratto dalla trasgressione e dalla provocazione?
Vedere una bella ragazza benestante (Ana) fare una fellatio ad un uomo più vecchio e
povero (Marcos) può disturbare seriamente una parte del pubblico. A livello superficiale, lo
choc è estetico, ma il tabù è in realtà più profondo. Risiede nella differenza sociale.
Se l’uomo fosse stato un ricco trafficante di droga, nessuno si stupirebbe, la ragazza
passerebbe per una prostituta. Non provoco gratuitamente ma per scatenare delle
sensazioni forti nello spettatore.
Cerca lo choc estetico in particolar modo nelle scene d’amore?
No, trovo molto bello il corpo dei miei personaggi. Vediamo la loro pelle scura sudare,
delle curve magnifiche, dei bei corpi umani. Cerco sempre di mostrarli in maniera aperta e
rispettosa perché la maggior parte degli esseri umani assomigliano a quei corpi e non alle
grandi star del cinema.
Personalmente, preferisco vedere Marcos e sua moglie fare l’amore liberamente, in modo
sensuale e realistico che immaginare Tom Cruise o uno dei suoi colleghi all’opera. Il mio
scopo non è eccitare o schifare gli spettatori. In questa scena, i corpi si fondono con la
luce e la fragilità commovente dei personaggi.
Trovo completamente assurdo vedere una coppia che fa l’amore con le lenzuola che
coprono accuratamente i seni ed i sessi!
Preferisco riprendere il sesso così come lo viviamo: questa bellezza naturale traduce per
me la sensazione che possiamo provare facendo l’amore. Siamo anima e corpo.
Il sesso è rivelatore per i suoi personaggi?
All’inizio e alla fine del film, l’atto sessuale è legato alla fede. Invece, il rapporto sessuale
tra Marcos e sua moglie è soprattutto l’espressione dell’amore erotico. Per concludere,
nella relazione tra Marcos e Ana, il sesso diventa un’arma di manipolazione. Ana crede di
controllare il bisogno sessuale di Marcos, ma si sbaglia perché egli ha più bisogno di
comunicare e di essere ascoltato.
La fellatio stilizzata mostra che il sesso ha una dimensione metafisica?
Avevo voglia di cominciare il film con un volto, il riflesso del nostro essere interiore, la
presentazione più diretta di un individuo. Poi di allargarmi e svelare poco a poco con uno
stesso movimento una donna ed un uomo – come se rappresentassero l’umanità.
L’atto intimo e caloroso di una fellatio può essere estetico.
Allontanandomi dalla pornografia che cerca di eccitare lo spettatore, volevo filmare questa
fellatio in maniera singolare ed inattesa perché si potesse essere toccati da questo
momento di intimità.
L’inizio riassume il film: Un uomo e una donna si toccano in una situazione idealmente
vicina, ma non riescono a comunicare. C’è uno scarto e ne soffrono. La sessualità e
sempre doppia, carnale e metafisica, banale e profonda. Mostro la fellatio come un atto
sessuale ed un atto di fede. Nel sesso, si può ritrovare la fede.
In che modo la campagna e la città influenzano il suo stile visivo?
In “Japon”, il paesaggio era un personaggio a tutto tondo con l’idea che un ambiente
circostante forte potesse essere d’aiuto al risveglio dell’uomo perduto. In Battaglia nel
Cielo, la città agisce costantemente sui personaggi come Marcos che porta su di sé il
carico drammatico del racconto. Volevo caricare l’ambientazione del Messico con le
sensazioni di dolore e di stress. Alle volte la vita urbana domina i personaggi, cosa che ho
tentato di mostrare in alcune scene utilizzando uno stile documentaristico e nervoso.
Poi le ho alternate con delle scene più ricche a livello visivo.
Per esempio, quando Marcos lascia la città per fermarsi alla stazione di servizio, la luce e
la musica creano un momento magico: si entra in un mondo più poetico in cui il tempo
sembra sospeso. Ciononostante non si dimentica mai che Marcos si trova lì per fare il
pieno!
Pensa di peccare talvolta per un uso eccessivo dei movimenti di macchina?
Mi piace lanciare la telecamera come fosse un pennello, per vedere i colori che traccia
nello spazio. Dopo “Japon”, ho imparato a lasciare la telecamera un po’ più tranquilla e a
“calmarmi”.
In Battaglia nel Cielo, ho preferito costruire il linguaggio del film principalmente con il
montaggio. Poiché lo spazio è limitato nella città, anche nel film esso appare ritagliato. Alla
fine ho conservato uno solo dei movimenti panoramici a 360° che avevamo girato ed ha
una funzione precisa. Si apre sul tempo e sullo spazio mentre la scena d’amore si svolge
proprio lì accanto. Alle volte, guardiamo il mondo attraverso alla musica: lo spazio, il tempo
e la materia si mettono a danzare. La realtà può essere brutta, neutra o stilizzata. Tutto
dipende dal nostro sguardo che può cambiare da un momento all’altro.
Quanto si sente vicino al mondo che filma?
Anche se la storia di Marcos in Battaglia nel Cielo mi sembra forte e singolare, in alcuni
momenti bisogna sapersene staccare. Il distanziamento non è molto popolare al cinema
perché gli spettatori amano farsi “prendere” dalla storia ed immergersi nei sentimenti.
Preferisco invitare lo spettatore a trovare nel mio film un tempo ed uno spazio che gli siano
propri- e dargli la possibilità di lasciarsi prendere invece dalle sensazioni.
Quali sono stati i riferimenti per questo film?
Per Battaglia nel Cielo, mi sentivo libero da qualsiasi influenza. Eppure, durante le riprese,
ho pensato a Rossellini ed al suo modo di lavorare in “Roma, città aperta”.
Costruiva una finzione usando la realtà del dopoguerra.
A livello visivo, pensavo alla pittura di Tiziano e del Tintoretto, ai loro soggetti e ai loro
colori.
In che modo le sue immagini sono legate ai suoni e alla musica?
Per me, il cinema è molto vicino alla musica.
In alcuni momenti, non vuoi altro che il suono di due flauti e poi quello di un insieme di
corde e di cembali. Mi piace che un film alterni il piccolo al grande – crea un movimento,
come in una sinfonia.
Il suono è spesso soggettivo perché ci mostra il modo in cui Marcos guarda e comprende il
mondo. Utilizzo allo stesso modo l’inquadratura soggettiva, potente ma mai altrettanto
nobile del suono nel farci scoprire ciò che accade dentro un personaggio.
Quando Marcos lascia la città, si ferma ad una pompa di benzina e la musica sacra di
Bach sublima la scena: non cerco di essere realistico. Mi piacciono i contrasti in una logica
paradossale. La bellezza talvolta si trova proprio accanto alla bruttezza. Così, quando
Marcos ascolta una bella musica in un posto orrendo, viene preso da una sensazione
magnifica.
Si sente più vicino ad un “realismo magico”?
Con il realismo magico lo sfalsamento dal reale si esprime unicamente attraverso la
materia. Mostrare una ragazza con un vestito lungo sette chilometri è lontano dal mio
universo.
Preferisco l’universo kafkiano con la sua forte dimensione metafisica. Cerco di svelare una
bellezza sorprendente nella realtà o meglio ancora nella materia così come la conosciamo.
Lavoro affinché si possa scoprire la bellezza dovunque.
Ci può spiegare il titolo “Battaglia nel Cielo?
È ironico, perché Città del Messico è più vicina all’inferno che al cielo. Proprio come
“Japon” il titolo del mio film resta aperto. Si può immaginare che evochi la lotta di Marcos
in una città infernale o ancora la battaglia delle divinità greche, lassù, che si disputano il
destino degli uomini o ancora… ci sono tante interpretazioni quanti sono gli spettatori.
Nel suo film c’è speranza?
La fine del film è paradossale. Il corpo di Marcos muore, ma resta un mistero. Trovo che il
mio film sia ottimista malgrado la sua storia tragica. È attraversato da una bellezza
soggiacente e dal desiderio di Marcos di crescere, di conoscersi meglio, più
profondamente. Non per questo bisogna credere che Marcos andrà in paradiso...
INTERVISTA CON
ANAPOLA MUSHKADIZ
Carlos Reygadas si è ispirato alla sua vita per creare il personaggio di Ana?
Il mio personaggio mi assomiglia molto. Nella vita, sono ancora più eccessiva, incapace di
star ferma, mi piace stare in movimento. Nel film invece sembro più calma, la mia
recitazione è controllata.
Carlos Reygadas voleva che la sua recitazione venisse espressa dal corpo?
Carlos sapeva perfettamente ciò che voleva da me. Non avevo letto la sceneggiatura del
film ed ignoravo la cronologia della storia. Le riprese mi sembravano molto spontanee e
non avevo il tempo di starci a pensare troppo. Alcune volte, al mattino, Carlos mi diceva
solo che sarei stata nuda in una scena d’amore.
Questa forma di improvvisazione mi ha permesso di aprirmi a tutte le esigenze del film.
Carlos sa come rassicurare gli attori, trasmettergli fiducia. Con lui non avevo mai paura e
non mi sentivo mai in imbarazzo.
Come ha affrontato le scene di sesso?
Mi è piaciuto lavorare con Marcos Hernandez sin dall’inizio delle riprese perché è un uomo
speciale, impressionante e timido.
Le scene di sesso erano molto più difficili da interpretare per lui che per me, visto che è
sposato.
Dopo aver ripetuto le scene d’amore per il film, avevo questa strana sensazione di essere
stata veramente a letto con Marcos.
La nudità non mi infastidisce perché i corpi umani sono belli e commoventi. Mi piaceva la
sensazione di aver una fiducia tale da permettermi di recitare nuda ed essere me stessa.
Era eccitante. Carlos ci ha preparati in modo intelligente e le riprese sono iniziate con la
scena più difficile.
Il seguito è stato quasi un gioco da bambini.
Marcos ed io ci eravamo già scoperti.
Come ha fatto a conservare la sua naturalezza?
Carlos ci ha dato l’impressione che tutte le scene, anche le più oniriche, avrebbero potuto
svolgersi nella nostra vita. Ad un tratto, niente più ci appariva surreale. E ci sentivamo
naturali.
INTERVISTA CON
MARCOS HERNANDEZ
Come ha conosciuto Carlos Reygadas?
Ci conosciamo da 15 anni.
Ho anche interpretato un piccolo ruolo in “Japon”.
Ha avuto qualche esitazione prima di accettare la parte?
Assolutamente no. La mia vita è molto diversa da quella di Marcos.
Interpretarlo non era così complicato. Mi fidavo di Carlos.
Come ha lavorato?
Caros spiegava molto bene quello che voleva da me.
Allora mi lasciavo dirigere.
Pensa che la storia del film sia realistica?
Sì, le cose si svolgono un po’ come nella realtà in Messico.
Fare questo film ha cambiato qualcosa nella sua vita?
Per adesso, assolutamente no. Durante le riprese, ho smesso di lavorare per tre mesi. Al
mattino, mi svegliavo abbastanza presto, la sera rientravo sul tardi. Ne ho parlato a poche
persone. Ma quando vedranno il film, molti mi faranno delle domande. Siccome la storia
del film è molto forte, probabilmente avrò qualche problema con la mia famiglia…
Le piacerebbe continuare a fare l’attore?
Prima voglio vedere il film finito. Poi vedremo.
Non avevo pensato di fare cinema, ma mi è piaciuta l’esperienza con Carlos Reygadas ed
ora ne sono fiero.
Frammenti di un ritratto incompiuto: Città del Messico nel cinema 1
di Susana Lopez Aranda
Caspita, che cannonata abitare a Città del Messico!
(El Bruto, Luis Buňuel)
Frammenti di un ritratto incompiuto
Difficile compito quello di tracciare una mappa dettagliata è esauriente di Città del Messico nel
cinema. Un ritratto parziale è quello che qui si offre, frammentario e variegato, tanto quanto
multiforme e complessa è la città stessa.
La ragione salta agli occhi: dar conto delle centinaia di film in cui la città compare in uno dei suoi
innumerevoli ruoli sarebbe non solo faticoso per l’autore, ma anche tedioso per il lettore.
Tanto più che l’immagine della nostra città nel cinema rimane comunque qualcosa di incompiuto,
giacché se i nostri occhi stupiti riescono a cogliere soltanto fuggevolmente la metamorfosi
quotidiana della città, anche il cinema è una testimonianza transitoria di suoi continui mutamenti.
Finché la città avrà un soffio di vita, la sua immagine cinematografica continuerà a trasformarsi.
Città inventata, ricreata, immaginata dal cinema, Città del Messico, presta i suoi infiniti e
affascinanti volti come scenario, cornice e specchio del paese e dei suoi abitanti. Nel bene come
nel male.
Gli spazi dell’immaginazione
La città offre lo scenario. I suoi spazi, i suoi ambienti – per quanto contraffatti in studio – i suoi stati
d’animo, si trasformano sullo schermo cinematografico in una presenza totalizzante, simbolo
complesso e contraddittorio(di perdizione, di progresso), ambito da ricreare, inventare, scoprire,
recuperare, cosmo in cui convergono le vite individuali e le energie del paese.
Da società eminentemente agricola, il Messico, aggiogato all’ideale del progresso, si trasformava
in un paese moderno. La vita cittadina sembrava offrire le migliori opportunità: istruzione, salute,
lavoro, intrattenimento. Divenuta meta e destinazione per un vasto numero di messicani, la città
cresceva senza potersi fermare.
Popolati da immigrati giunti da ogni punto del paese, i quartieri urbani diventano microcosmo e
crogiolo i cui si fondono costumi, parlate, tipi umani. La vita nella città contiene e rappresenta, in
un certo senso, quella dell’intero Paese, e l’immagine di quest’ultimo si voleva avere. Testimone
fedele del cambiamento, il cinema rispose facendo sua la città che lo ospitava. Anche se per
molto tempo, a partire dall’avvento del sonoro, si ricominciò a girare negli studi, dove vennero
riprodotti, o addirittura reinventati, gli scenari urbani.
In modo non dissimile, i personaggi che popolavano le vie della città (il peladito, il tassista,
l’operaia, il tabaccaio, la domestica) vennero formando una nutrita fauna tipologica: la loro parlata
– il cantadito della capitale – si definì in modi di dire e accenti caratteristici – il tepileňo, l’apochado,
per esempio – mostrando nel suo differenziarsi il mosaico umano della capitale.
Ormai incontrollabile, la crescita della città produsse anche i propri mostri: bassifondi,
immondezzai, delinquenza, sovraffollamento, miseria… riflesso concentrato dei problemi del
paese, il volto oscuro, reale della vita urbana trovò anch’esso espressione nel cinema.
Conseguenza di un innegabile centralismo, i film che ritraggono i diversi tipi fisici cittadini, o che
ambientano le loro storie a Città del Messico, sono troppo numerosi per essere registrati in queste
pagine. Tuttavia una rassegna, per quanto sommaria, degli spazi, dei tipi e dei toni della capitale
privilegiati dal cinema, è ciò che qui viene proposto, a guisa di invito e catalogo che ciascuno
completerà con la propria cinefilia.
1
Tratto da Le età d’oro del cinema messicano 1933-1960, a cura di Andrea Martini e Nuria Vidal, Ed. Lindau, 1997,
pp.203-210.
Il miraggio della grande città. L’attrazione irresistibile esercitata dalla capitale costituiva un
pericolo per la più sacrosanta delle istituzioni sociali: la famiglia. I giovani più intraprendenti della
provincia erano tentati a cercarvi il successo sognato, i buoni guadagni e le emozioni forti. Se Del
rancho a la capital (Dal rancho alla capitale, Raúl de Anda, 1941) riassume lapidariamente il
concetto, la vera summa sull’argomento è Cuando lo hijos se van (Quando i figli se ne vanno, Juan
Bustillo Oro, 1941). In questo film la città riassume il più alto livello di astrazione: non la si vede
mai, ma la sola idea di città costituisce una minaccia costante, anche se lontana. Riguardo a
questo tema la rappresentazione più curiosa è quella delirante di Maldita ciudad (Maledetta città,
Ismael Rodríguez, 1954), in cui tutte le possibile sventure di un emigrante sono soltanto
immaginate da un giovane di paese che sogna di diventare… sceneggiatore nel cinema! Cuando
los padres se quedan solos (Quando i padri restano soli, Juan Bustillo Oro, 1948), La familla Pérez
(La famiglia Pérez, Gilberto Martinez Solares, 1948), e Cada hijo una cruz (Ogni figlio una croce,
Juan Bustillo Oro, 1957) si diffusero ampiamente sull’argomento, le cui più sorprendenti propaggini
si possono rintracciare ancora oggi, sotto altro segno, in film come Hasta morir (Fino alla morte,
Fernando Sariñana, 1994), soltanto per fare un esempio.
La vita dissipata. Opposta come valore morale all’idilliaco rancho (grande, medio o piccolo) e alla
virtuosa vita di provincia, la capitale, fin dagli inizi del cinema, fu ammantata del fascino
inconfessabile del peccato. Sdrucciolevole china per innumerevoli ingenue, la grande città
albergava tentazioni e pericoli negli antri dei locali notturni, delle sale da ballo, dei bar malfamati, e
spesso conduceva fino alla caduta irreparabile nel fango della casa d’appuntamenti, del
lupanare…
La via crucis di Santa, la peccatrice sofferente - portata sugli schermi, oltre che da Federico
Gamboa e Antonio Moreno, anche da Norman Foster nel 1943 con Esther Fernandez e da Emilio
Gómez Muriel nel 1968 con Julissa; e palesemente parafrasata in Hipólito, el de Santa (Hipolito,
quello di Santa, Fernando de Fuentes, 1949) – innalzata alla dignità di dramma esemplare, fu la
formula perfetta per lo sviluppo di uno dei generi urbani più nutriti del cinema nazionale. Da De
pecado en pecado (Di peccato in peccato, Chano Urueta, 1947) a Flor de fango (Fiore di fango,
Juan J. Ortega, 1941), a Perdida (Perduta, Fernando A. Rivero, 1949), la parabola di questi
Angeles de arrabal (Angelo dei bassifondi, Raúl de Anda, 1949) caduti sotto gli artigli del
melodramma, risultava tanto più attraente – e redditizia – quanto più era scabrosa. La città non era
altro che Perdición de mujeres (Perdizione di donne, Juan Orol, 1950). E benché la buona (e
ipocrita) coscienza deprecasse il destino delle innocenti Victimas del pecado (Vittime del peccato,
Emilio Fernández, 1950), i luoghi dove veniva dato libero sfogo alla licenziosità diventavano,
grazie al fascino del proibito, sempre più invitanti e pieni di piaceri.
Uno dei momenti culmine del melodramma postribolare, che ebbe il suo apogeo negli anni dello
sviluppo del modello tedesco, è la sequenza in cui la donna perduta Ninón Sevilla (in Victimas del
pecado) recupera dalla spazzatura il bebé della collega sullo sfondo del Monumento alla
Rivoluzione. Si poteva dire di più?
Il cabaret. Passaggio obbligato dell’ampia via del peccato, il cabaret offriva alla peccatrice – quasi
sempre ben dotata non solo di un bel fisico, ma anche delle doti necessarie per cantare e ballare
la rumba alla perfezione – l’opportunità di raggiungere la fama e la fortuna sottraendosi a El
Suavecito (Lo sdolcinato, Fernando Méndez, 1950) o al pappone di turno. In questi cabaret
immaginati dal cinema messicano c’erano grandi e impossibili palcoscenici per l’orchestra dei
ballabili, su cui si esibivano grandi celebrità (Agustín Lara, Pedro Vargas, Pérez Prado, Lo
Panchos), circondati da graziosi tavolinetti con piccola lampade, assolutamente irreali. Lì fiorivano
le grazie di ragazze come Meche Barba, Maria Antonieta Pons, Rosa Carmina e Ninón Sevilla, per
ricordarne solo alcune. Ma non tutto fu mistificazione: in Mientras México dorme (Mentre il Messico
dorme, 1938) Alejandro Galindo mostrò, in una storia dai toni estremi, una vita notturna molto più
realistica, il vero volto oscuro e nascosto della città. Distinto amanecer (Un’alba diversa, 1943),
interessante opera di Julio Brancho, a confronto con l’artificiosità imperante “parve svelare la vera
capitale (le poste centrali… la stazione ferroviaria); l’ambiente di un cabaret di livello popolare era
verosimile e riuscito, con le sue marchette e i suoi magnaccia” 2 . Il cabaret – nelle sue diverse
versioni – e il postribolo, come ambienti urbani per antonomasia, sopravvivono ancora oggi nel
cinema messicano, nei più deteriori tentativi di resuscitare il genere: Bellas de noche (Belle di notte
1974) e Las ficheras (Le marchette, 1976) di Mauricio M. Delgado, ma anche in film del livello di
Inicio y fin (Inizio e fine, 1993), capolavoro di Arturo Ripstein, in cui gli elementi caratterizzanti del
melodramma sono condotti fino alle loro estreme e terribili conseguenze.
La sala da ballo. In teoria al Colonia, al California (dancing club, per essere precisi) e al Los
Angeles si andava molto per ballare – il mambo, la rumba, il cha cha cha – senza nessun secondo
fine. Se questo può essere vero nel fiabesco Danzón (Danzón, Maria Novaro, 1991), non lo era
certo nel Salón México (Salón México, 1948) di Emilio Fernandez, dove l’abnegata Marga López –
che con i proventi della sua professione manteneva la sorella in un collegio per ragazze di buona
famiglia – giungeva fino in fondo all’abisso della sofferenza. Fra le altre cose il suo protettore,
Rodolfo Acosta, le sottraeva il denaro vinto con il concorso al ballo. Bisogna dire che il quarto d’ora
di ballo di Acosta, e la densa atmosfera captata da Gabriel Fuigueroa e dall’Indio, bastano a
giustificare l’intero filone.
Luoghi sacri. Non tutto era dissolutezza. La grande città offre alle anime traviate anche luoghi di
redenzione, soprattutto la Basilica de Guadalupe. Con la Virgen que forjó una patria (La Vergine
che forgiò una patria, 1942) Julio Brancho tratteggia, per di più in modo approssimativo,
l’importanza del culto di Nuestra Senora de Guadalupe in Messico e in tutto il Sudamerica. Già nel
periodo del muto, una moltitudine di film fervidamente devoti come Tapeyac (Tapeyac, Juan M.
Ramos, 1917) e El milagro de la Guadalupa (Il miracolo della Madonna di Guadalupe, P.S. Earle,
1925) si erano profusi nel celebrare l’apparizione. Un singolare esempio è quello del
semidocumentario – con trama melodrammatica, naturalmente – e semiprofessionale Alma de
America (Anima d’America, A. Bustamante Moreno, 1941), che incornicia con numerose riprese
della città e dei suoi monumenti e oceaniche celebrazioni in onore della Virgen Morena (Vergine
bruna), titolo, quest’ultimo, di un altro film del periodo (Gabriel Soria, 1942). La Villa de Guadalupe
(la basilica dedicata alla patrona dell’America Latina nel luogo dell’apparizione), come scenario di
effusione religiosa (e patriottica), fece da sfondo a La Reina de México (La Regina del Messico,
Fernando Méndez, 1940), a Las rosas del milagro (Le rose del miracolo, J. Soler, 1959) e a La
Virgen de Guadalupe (La Vergine di Guadalupe, A. Salazar, 1976), per citare solo alcuni dei film
girati presso il santuario. La vecchia Basilica, con un’atmosfera di segno diametralmente opposto,
fu portata sugli schermi nel commovente finale di Matinée (Matinée, Jaime Humberto Hermosillo,
1976) e nel tumultuoso inseguimento di La Cabeza de la hindra (La testa dell’idra, Paul Leduc,
1981). Del resto il santuario più venerato del Messico ha un ruolo di primo piano anche in El (El,
1952), opera magistrale di Luis Bunuel sull’alienazione (dal campanile di un’altra chiesa,
probabilmente la Cattedrale metropolitana, il protagonista paragona la folla giù in basso alle
formiche e prova il desiderio di essere Dio “per schiacciarle”). Per concludere non possiamo non
ricordare la bella facciata e le torri della Cattedrale trasformate in irriverente supporto per le gesta
esilarati dell’”uomo mosca”, impersonato da Tin Tan in El Rivoltoso (Il ribelle, Gilberto Martίnez
Solares, 1951).
Gli scenari del ricordo. La più grande creazione dello spirito conservatore – costante del cinema
nazionale – fu il filone identificato con l’etichetta di añoranza porfiriana (nostalgia porfiriana). Per
questa originale impresa fu immaginata l’esistenza di una belle époque autoctona (coincidente con
i regime di Porfirio Díaz), popolata unicamente da simpatici rappresentanti della classe media e
medio-alta, i cui drammi romantici si dipanavano di canzone in canzone all’ombra del benevolo
dittatore 3 . Inaugurato alla fine degli anni ’30 con grande successo di pubblico, il filone porfiriano si
vede ben presto rappresentato da modelli come En tiempos de Don Porfirio (Ai tempi di Don
2
Emilio García Riera, Historia documental del cine méxicano, Università di Guadalajara, Governo di Jalisco,
Segreteria della Cultura, Consiglio Nazionale per la Cultura e le Arti, Istituto Messicano di Cinematografia, México,
D.F. 1994, vol III, p.54
3
Cfr ivi, p.109
Porfirio, Juan Bustillo Oro, 1939) e ¡Ay, qué tiempos, senor don Simón! (Ah, che tempi, signor don
Simon!, Julio Bracho, 1941). La nostalgia dei tempi andati, questa volta gli anni ’40, e di stili di vita
in via di estinzione, ritorna anche nell’affettuosa rievocazione dell’atmosfera di Roma,
dell’Hipodromo e della Condesa in Mariana, Mariana (Marianna, Marianna, Alberto Isaac, 1987).
Alla stessa epoca, e ai suoi personaggi emblematici, fanno riferimento altri film importanti: Frida
(Frida, Paul Leduc, 1984), che ricrea con immagini fortemente evocative gli ambienti bohémiens in
cui vissero Frida Khalo e Diego Rivera e La Reina de la noche (La Regina della notte, Arturo
Ripstein, 1994), che ripercorre in grande stile la tragica storia della cantante Lucha Reyes, facendo
del centro di Città del Messico uno scenario di grande e sordida bellezza.
Il paesaggio riconoscibile. Quanti film messicani cominciano con una panoramica della capitale?
Mentre una voce nasale recita: «nelle viscere di questa immensa e tumultuosa città, migliaia di
piccole storie…», la macchina da presa giunge finalmente a destinazione, isolando una persona
qualsiasi la cui vicenda diventerà il centro di un film, come in Una famiglia de tantas (Una famiglia
come tante, Alejandro Galindo, 1948), che in quanto opera di qualità fece a meno della voce
nasale. I simboli della modernità e della prosperità di Città del Messico sono inevitabilmente la
Torre Latinoamericana, da Del suelo no paso (Non scendo più in basso, Chano Urueta, 1958), a
Sólo con tu pareja (Solo con il tuo partner, Alfonso Cuarón, 1991), il Monumento alla Rivoluzione o
quello alla Madre, il Palacio de Bellas Artes, la Colonna dell’Indipendenza (detta confidenzialmente
“El Angel”) e naturalmente la sinuosa silhouette della Diana cacciatrice, ispirata, secondo il film La
Diana cazadora (La Diana cacciatrice, Tito Davison, 1956), all’estatico nudo di Aña Luisa Peluffo
(ammesso dalla censura moralista di quegli anni soltanto per la sua immobile artisticità). Questa
stessa generosa statua sarebbe stata in seguito dissacrata, come altri luoghi e simboli cittadini,
nella gazzarra interclassista di Los caifanes (Gli uomini crudeli, J. Ibánez, 1966). Da parte sua, lo
sguardo insolito e affilato di Rubén Gámez riscopre e recupera nelle sue indefinibili prove filmiche,
La fórmula secreta (La formula segreta, 1964) e Tequila (Tequila, 1991), immagini della città che si
ergono a metafore del Messico e della sua storia.
Il quartiere. Quasi sempre ricreato in studio, il popoloso quartiere popolare fu il cuore (anche in
termini puramente sentimentali) di un dovizioso filone dl cinema di ambiente urbano. Il
melodramma arrabalero, di borgata, fece del vicinato un’istituzione filmica, in cui le difficoltà
economiche (leggasi miseria) alimentavano il fiorire di molte virtù: la nobiltà d’animo, la solidale
condivisione della sofferenza, una dignitosa ingenuità, il “siamo poveri ma onesti”. Attenendosi al
modello offerto da Nosotros los pobres (Noi poveri, Ismael Rodríguez, 1947), gli abitanti del Barrio
Bajo (Quartiere basso, Fernando Méndez, 1950) e del Quinto patio (Quinto patio, Raphael J.
Sevilla, 1950) finivano per comprendere che la vita era molto meglio (più divertente e più pura) nel
loro poverissimo quartiere, e che il denaro è causa di ogni male, Ustedes los ricos (Voi ricchi,
Ismael Rodríguez, 1948); Ahora soy rico (Ora sono ricco, Rogelio A. González, 1952). Le donne,
quelle buone, erano angeliche massaie o giovani impiegatine (quelle cattive, o “traviate”, finivano
nei cabaret); gli uomini per bene esercitavano mestieri onorati, seppur sottopagati. Si videro
falegnami - Pepe el Toro (Pepe il Toro, Ismael Rodríguez, 1952) -, meccanici – da Mientras
México duerme (Mentre il Messico dorme, 1938) a Los Mécanicos ardientes (I fervidi meccanici,
1985) - , macellai – El bruto (Il bruto, 1952), altro gioiello misconosciuto di Bunuel - , autisti ¡Equina bajan! (Scendono all’angolo!, 1948), Confidencias de un ruletero (Confessioni di un
giocatore d’azzardo, Alejandro Galindo, 1949) e La ilusión viaja en tranvía (L’illusione viaggia in
tranvai, Luis Bunuel, 1953) -, ferrovieri – El rey del barrio (Il re del quartiere, Gilberto Martínez
Solares, 1949), divertentissima versione comica del tema, perché qui Tin Tan è a capo di una
banda di ladruncoli)…
Boxe e lotta libera. Se si eccettua il Santo e il suo laboratorio fantastico, gli eroi degli sport più
rudi erano la gloriosa metamorfosi dei più ambiziosi abitanti del quartiere popolare, e della borgata,
da Campéon sin corona (Campione senza corona, Alejandro Galindo, 1943) e La bestia magnifica
(La bestia magnifica, Chano Urueta, 1952) in avanti…
Il commercio. Nel cinema nazionale gli esercizi commerciali erano quasi sempre in mano agli
stranieri, ad eccezione del settore gastronomico-sfizioso: salumerie, torterias – Acá las tortas
(Passami i panini, Juan Bustillo Oro, 1951) - taquerías, banchetti di quesadillas e sopes, che
potevano anche essere gestiti da connazionali. Il caffellatte era, e continua a essere, monopolio
dell’Oriente. Nel quartiere periferico c’era sempre una piccola tabaccheria, punto di incontro o
posto telefonico, in genere di proprietà di un cittadino originario della “madre patria”, la Spagna,
che si chiamava don Venancio: Los hijos de don Venancio (I figli di don Venancio, Joaquín
Pardavé, 1944). Mentre nei vecchi quartieri del centro c’era un negozio di commestibili, il cui
vecchio padrone libanese – El basano Jalil, Joaquín Pardavé, 1942 – come il suo compatriota
abonero – El Barchante Neguib (L’ambulante Neguib, Joaquín Pardavé, 1945) – non facevano che
ringraziare la sorte di vivere in Messico.
I quartieri residenziali. «O tempi, o costumi!», avrebbe detto Cicerone. In effetti qui si entra in un
altro momento della storia della Città. Dagli anni ’60 in poi non è più una disgrazia essersi lasciati
alle spalle Lagunilla, mi barrio (Lagunilla, quartiere mio, R. Araiza, 1980), Tepido o La Merced, né
soffrire perché Los Fernandez de Peralvillo (I Fernandez di Peralvillo, Alejandro Galindo, 1953)
sono ormai molto lontani sulla mappa emotiva e topografica della città. Ora, a Las Lomas e a
Polanco, è di moda ballare in bikini intorno alla piscina, assomigliare alle sorelle Velásquez e
avere come maggiordomo o couturier il picchiatore Maurizio Garcés…
Il microcosmo abitativo. Le grandi concentrazioni umane richiedono grandi soluzioni. In D.F.
(Città del Messico, Rogelio A. Gonzalez, 1979) la grande capitale, il vicinato – in senso orizzontale
– e La Casa del ogro (Colpa che uccide, Fernando de Fuentes, 1938), cedono il passo al palazzo
di miniappartamenti - Departamento de soltero (Appartamento da scapolo, René Cardona, 1969),
sempre con Mauricio Garcés – al condominio, orizzontale e verticale, - Conserje en condominio
(Portiere di condominio, Mauricio M. Delgado, 1973) – e alle dimensioni smisurate dell’unità di
abitazione. Tlateolco è un punto di riferimento obbligato, come scenario reale della sanguinosa
repressione del movimento studentesco del ’68, in Rojo amanecer (Alba rossa, Jorge Fons, 1989),
e con la potente metafora del mare che ne sferza gli edifici, habitat della classe media urbana, in
Naufragio (Naufragio, Jaime Humberto Hermosillo, 1977).
La gioventù. Se il cinema messicano aveva saputo inventare i locali notturni, interi quartieri e
ricordi di una mai esistita arcadia porfiriana, perché mai non avrebbe dovuto inventare anche una
gioventù, tanto ipotetica quanto urbana? Questi fratelli minori, messicani e apocrifi, del James
Dean di Rebel without a Cause (Gioventù bruciata, Nicholas Ray, 1955), cantavano canzoni
melense – El cielo y la tierra (Il cielo e la terra, Alfonso Corona Blake, 1962) – o ballavano Al
compás del rock’n roll (A tempo di rock’ n’ roll, J. Díaz Morales, 1956), entravano tra colpe e
conflitti nella Edad de la tentación (L’età della tentazione, Alejandro Galindo, 1958) e avevano i
volti e le voci di Angélica Maria, César Cuesta o Enrique Guzmán. Con loro entrarono nel cinema i
libri di studio e gli incontri di football (americano), la città universitaria e certi stranissimi e
improbabili caffè cosiddetti per giovani. Il colmo delle varianti di questa ondata giovanileimmaginaria fu naturalmente El Fantástico mundo de los hippies (Il fantastico mondo degli Yippy,
1969), in cui l’impagabile Juan Orol dimostra di non aver mai visto da vicino un giovane, e tanto
meno un hippy, in tutta la sua vita.
L’altra Città del Messico. Nonostante gli artifici, le ricostruzioni in studio e il tenace
mascheramento di cui fu oggetto nel cinema, Città del Messico conservò sempre un suo volto
nascosto, il volto minaccioso e sordido che era, ed è, parte ineliminabile della sua complessa
totalità. Se in Los olvidados (I figli della violenza, 1950) Luis Bunuel aveva mostrato la vera
durezza della miseria, dopo di allora molti altri film del miglior cinema messicano hanno esplorato il
volto in ombra della vita urbana. I tentacoli della malavita e della corruzione poliziesca percorrono
Cadena perpetua (Catena perpetua, Arturo Ripstein, 1978) e Lolo (Lolo, F. Athié, 1991); il clima
repressivo e l’intollerabile crudeltà della prigione sono fotografati in El apando (La prigione, Felipe
Cazals, 1975) il vecchio Palacio Negro de Lecumberri; la realtà disumana della miseria in Los
albañiles (I falegnami, Jorge Fons, 1971) e quella del labirinto burocratico in Caridad (Carità, Jorge
Fons, 1972).
Altri luoghi e atmosfere. La città, serbatoio inesauribile, si presta ad essere esplorata dalle più
diverse prospettive e attraverso i più vari tipi di spettacolo: il teatro di rivista; i tendoni del varietà; il
genere horror (i mostri degli Estudios Churubusco, oggi praticamente scomparsi); a partire dal
cinema sugli aztechi e sulle leggende coloniali; usando come riferimento il linguaggio dei suoi
abitanti; oppure prendendo a oggetto i cinema come spazi fisici… di possibilità ce ne sono tante, e
la città le offre a piene mani.
(Susana López Aranda, La ciudad de México en el cine, in Ensayos sobre la Ciudad de México,
Ed. DDF, Universidad Iberoamericana / Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, México D.F.
1994, vol. V, pp 119-136
LA PRODUZIONE DEL FILM
Philippe Bober ha creato nel 1987 The Coproduction Office, una società di produzione e
vendite internazionali di film d’autori basati su ricerche estetiche e ricerche innovatrici. Si
occupa di finanziamento, produzione e vendita di film.
Filmografia:
“Europa”, “The Kingdom (Il Regno)” e “Breaking the Waves( Le Onde del Destino) ” di Lars
Von Trier,
“Suzhou River” di Lou Ye,
“Chansons du deuxième étage” di Roy Andersson,
“Lovely Rita” e “Hotel” di Jessica Hausner,
“Pleasant Days” e “Johanna” di Kornél Mundruzcò,
“Nòi Albinòi” di Dagur Kàri,
“Japon” e “Batalla en el cielo” di Carlos Reygadas
Mantarraya Producciones fondata in Messico nel 1998 da Jamie Romandia, funge da
piattaforma di lancio per una nuova generazione di cineasti.
Filmografia:
“Caminos” di Pablo Aldrete, “Shirgo” di Rodrigo Lebrija, “Sangre” di Amat Escalante,
“Japon” e “Batalla en el cielo” di Carlo Reygadas,
No Dream Cinema è la società di produzione fondata da Carlo Reygadas.
Filmografia:
“Japon”, “Batalla en el cielo” di Carlo Reygadas.
Tarantula è una rete europea di società indipendenti e autonoma riunite sotto uno stesso
nome. La società è presente in Belgio, Francia, Lussemburgo, e Gran Bretagna.
Filmografia:
“Batalla en el cielo” di Carlo Reygadas, “Folie Privée” di Joachim Lafosse, “La Blessure” di
Nicolas Klotz, “Folle Embellie” di Dominique Cabrera, “Une Part du Ciel” di Bénédicte
Liénard.