ACCADEMIA PLATONICA DELLE ARTI

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ACCADEMIA PLATONICA DELLE ARTI
Rivista Il Ruolo Terapeutico. Anno 2001 fascicolo 86
Domenico Marcolini
L’adolescenza: un passaggio verso che cosa?
Relazione presentata il 15 aprile 2000 all’Accademia Platonica delle Arti di Padova
Quando ho cominciato a riflettere su cosa avrei potuto proporre nell’odierno incontro,
confesso di aver provato un certo imbarazzo rispetto al compito indicato dal titolo della
relazione propostomi dal dott. Perella, pur avendolo subito trovato, a suo tempo, molto
stimolante.
Cosa avrei saputo dire, rispondendo alla domanda in esso contenuta, considerando la quantità
e qualità di pensiero prodotto dalla ricerca psicologica e psicoanalitica sul processo evolutivo
adolescenziale e sui modelli di comprensione dell’adolescenza?
Cos’altro avrei potuto aggiungere sul percorso adolescenziale, oppure sulla problematica
incertezza che alcuni adolescenti esprimono in questa fase di transizione?
Mi è allora venuta in soccorso una frase di Antonio Machado: “Viandante, non c’è la via, la
via si fa andando”.
Forse quest’associazione contiene già in sé un punto di vista che può orientare la risposta alla
domanda iniziale.
Di sicuro mi consente di poter entrare nella tematica adolescenziale da una porta, per me più
agevole e rassicurante, che è quella offertami dalla mia quotidiana attività con gli utenti più
giovani in cura presso il Ser.T di Trento.
Vorrei quindi condividere con voi alcune tappe del mio percorso nel vivo dell’approccio
terapeutico
con questi pazienti, rappresentate da una serie di dubbi e quesiti clinici, con i relativi tentativi
di risposta, così come mi pare di poterli oggi sintetizzare.
Ho subito sperimentato, ad esempio, l’importanza della raccomandazione, largamente
condivisa dai vari contributi teorici, di considerare le manifestazioni dell’adolescenza come
espressione di un processo evolutivo per definizione molto aperto, dove la deformazione
della realtà esterna ed il ricorso ad agiti anche di particolare gravità sintomatica, come ad
esempio il problematico uso di sostanze stupefacenti o la tossicodipendenza, assume in molti
casi un significato difensivo transitorio rispetto al processo di cambiamento in corso.
Ma se è una considerazione scontata sul piano teorico, non mi sembra lo sia sul versante
dell’operatività.
Mi colpisce molto, ad esempio, la frequenza con la quale, ancor oggi, la paura del sintomo
tossicomanico schiaccia sul nascere molte concrete possibilità di presa in carico
dell’adolescente in difficoltà, inducendo risposte terapeutiche che negano quell’apertura che
la letteratura raccomanda, incasellando viceversa l’adolescente e le sue espressioni all’interno
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di categorizzazioni, ad esempio “i tossicodipendenti”, pensate per un’utenza più adulta e
maggiormente definita rispetto alla scelta sintomatica.
Mi viene in mente una situazione di cui sono stato testimone proprio in questi giorni e che in
modo emblematico esemplifica tale tendenza.
Mi telefona un’ assistente sociale che opera a livello territoriale in una valle del Trentino e mi
racconta, con ansia e apprensione, di un caso che le è stato “passato” dallo psicologo del
distretto scolastico. Si tratta di una ragazza di 16 anni, che frequenta la 2° superiore e che,
con difficoltà, attraverso la mediazione di un’amica, incontra lo psicologo della scuola e
riesce a dirgli del suo problematico rapporto con l’eroina. Il movimento del collega, ed è
questo l’elemento che mi pare importante sottolineare è, appunto, quello di ritirarsi
immediatamente dal caso, investendo l’assistente sociale della responsabilità di informare i
genitori affinché si attivino per un tempestivo inserimento della minore in una comunità
terapeutica per tossicodipendenti.
Questa situazione, che esprime in termini quasi caricaturali la paralisi indotta da
comportamenti, come quello tossicomanico, destinati a suscitare un elevato impatto emotivo,
racchiude nel contempo una problematica con la quale sento di imbattermi frequentemente.
Quello che voglio dire è che, se vedere il sintomo come una ricerca di adattamento che
segnala un potenziale possesso di forza e salute piuttosto che espressione di deficit o
mancanza, rappresenta un atteggiamento prezioso per ogni terapeuta, ancor più lo è per chi si
occupa dell’adolescente in difficoltà, dove il sintomo si propone quale risultato di
un’evidente contraddizione fra comportamenti e desideri.
Penso in proposito alla frequenza delle situazioni in cui la “malattia” dell’adolescente si
presenta come espressione della sua ribellione contro le domande impossibili dei genitori:
quando il suo poter dire di no sembra impedito dalla mancanza di spazi intermedi ed il suo
sano desiderio di emancipazione si trasforma in un comportamento sintomatico che è causa di
sofferenza sia per lui che per i familiari.
Valgano quale esempio le “classiche” situazioni, così frequenti nel disturbo di area
tossicomanica, in cui l’assunzione di droga risulta protettiva dell’equilibrio emotivo fra i
genitori e fra i genitori ed i figli, o laddove il sintomo, esprime chiaramente una difficoltà ad
individuarsi e separarsi.
Penso ad una coppia di genitori che si è rivolta al nostro servizio per un problematico uso di
cannabici da parte del figlio adolescente. La madre dice, quasi per caso e come se la cosa
fosse poco significativa “Claudio è stato riformato dalla visita di leva per timidezza….lui è
contento perché così non fa il militare e altrettanto lo sono io perché così rimane in casa e
siamo tutti più tranquilli…”.
Altra importante questione legata alla presa in carico dell’adolescente mi pare essere quella
rappresentata dalla tendenza al passaggio all’atto, così tipica in questa fase della vita.
Nelle condotte più gravi, sia esso utilizzato come strategia di interazione con l’adulto
piuttosto che come meccanismo di difesa, quasi sempre l’agire si caratterizza per la
particolare tumultuosità sul piano sociale, creando all’adolescente non poche difficoltà con la
scuola, il lavoro o la legge.
Succede allora che le aspettative di cui è fatto oggetto chi è chiamato ad intervenire con un
ruolo di cura siano indotte a privilegiare l’aspetto del controllo piuttosto che quello
terapeutico.
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Ciò che mi pare interessante segnalare è come tale posizione non appartenga solamente agli
adulti che generalmente si mobilitano per primi (genitori, insegnanti, servizi territoriali), ma
sia sovente fatta propria, specularmente, dall’adolescente stesso.
Nel primo caso chi, direttamente o indirettamente, si sia occupato di tossicodipendenza ha
chiaramente presente quanto ancor oggi prevalgano, già in prima battuta, ipotesi d’intervento
rassicuranti e contenitive quali, ad esempio, la proposta del più urgente ricovero in comunità
terapeutica, come abbiamo visto nella concreta situazione che vi ho esposto precedentemente.
Sul piano della più diretta presa in carico, possiamo invece pensare a quelle situazioni in cui
l’adulto, chiunque esso sia, ci porta, spesso “trascinandolo”, l’adolescente in difficoltà,
chiedendoci consigli ed interventi per normalizzarne condotte e comportamento.
Mi vengono in mente tre casi che ho iniziato a trattare nello scorso anno e curiosamente
accomunati da una serie di analogie: l’assenza per morte della figura paterna, la tenace
iniziativa della madre nei primi contatti con il Servizio, il desiderio che io entri nel ruolo del
padre, dell’autorità, veicolato dalla madre, o almeno così pare a me di poter dire, attraverso il
gesto simbolico di portarmi tutte, dopo alcune sedute, la foto del figlio, del figlio come era, di
come sarebbe dovuto tornare ad essere.
Altra cosa è quando questa delega sbilanciata e sbilanciante, che definisce l’interlocutore
quale passivo destinatario dei nostri interventi, è appunto fatta propria dall’adolescente
stesso.
Nella mia esperienza ho infatti imparato che è più facile rispondere, senza assumere nelle
nostre mani il destino dei nostri interlocutori, quando la domanda iniziale è del tipo “ecco il
paziente ci pensi Lei”, tanto più quanto chi la porta è distante dal paziente designato (per
esempio l’educatore piuttosto che il genitore).
Diverso è invece trattare una domanda del tipo “mi mandano (o mi portano) i miei genitori”,
domanda che presuppone da parte dell’adolescente la sottomissione ad una posizione
caratterizzata da dolorosa rassegnazione e polemica accettazione, impotenza, mancanza di
speranza, quando non indegnità.
A proposito di quest’ultimo sentimento, Luca, uno dei ragazzi delle foto, mi ha aiutato a
capire quanto sia importante non accontentarsi delle spiegazioni che più frequentemente ci
vengono proposte e che attribuiscono i vissuti di indegnità al comportamento tossicomanico.
Luca che diceva:”non riesco a guardare in faccia mia madre per la vergogna di quanto sto
combinando con la droga” e che più avanti mi dice:”mi mette a disagio ricevere
regali…ricordo che dopo un regalo importante da parte dei miei cugini sono scoppiato a
piangere”. Capiamo insieme che per lui sentirsi immeritevole dei regali rimanda in realtà ad
un sentimento di indegnità molto più profondo e persistente la tossicodipendenza stessa, dove
l’elemento in gioco e di natura squisitamente affettiva: non merito di essere amato!
Tornando al carattere frequentemente passivo delle iniziali modalità di presentazione, dove
non è secondario il fatto di trovarsi di fronte a minorenni anche se spesso alle soglie della
maggiore età, mi pare forte il rischio di rispondere a tale atteggiamento assumendo il punto di
vista della società, piuttosto che quello del nostro giovane interlocutore, sentendoci
conseguentemente chiamati ad impersonare di volta in volta i ruoli del Super-io, del padre,
dell’autorità.
Ma se accettiamo questo ruolo rischiamo di porci in una posizione dalla quale possiamo solo
colludere con la parte malata del nostro interlocutore, impediti nell’alleanza con la sua parte
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sana, tentazione tanto più presente a fronte di un sintomo, come quello tossicomanico, che
favorisce fantasmi con i quali è difficile reggere il dubbio.
Perché, nell’affannarci a nostra volta rispondendo conformemente alle attese dando
indicazioni e prescrizioni, chiudiamo subito, e forse definitivamente, il nostro incontro con
l’adolescente in uno spazio che non può appunto dare accoglienza alle valenze emancipatorie
che sottendono il suo comportamento.
Perché dentro questo vicolo stretto non c’è per lui altra possibilità di scelta al di fuori del fare
o non fare quello che tutti, pur da ruoli diversi, gli chiedono, confermandolo di fatto nelle sue
parti di inadeguatezza ed incapacità.
Se si accettano queste condizioni non mi pare esistano, prospetticamente, possibilità
realmente evolutive.
C’è quindi bisogno di un patto d’altra natura, un patto che presupponga l’accettazione del suo
“no”, perché così facendo cambiamo posizione, mettendoci in grado, per quello che dipende
da noi, di prendere la sua negazione sul serio, riconoscendole dignità ed intrinseca salute.
Si entra forse allora in una relazione in cui l’adolescente può essere mio alleato, dove,
lavorando con lui e non su di lui, posso proporre reciproche condizioni di libertà e
responsabilità, pur nell’assimetria della relazione, fuori dei vincoli di un mandato genitoriale
e/o sociale.
Per quanto ho potuto verificare nel lavoro terapeutico, che per mia formazione privilegia il
rapporto con il singolo o la coppia, a volte svolto anche in parallelo con genitore/i e figlio (e
laddove non è possibile, o non ancora possibile, insufficiente o controindicato un lavoro di
area sistemica, per il quale esiste una specifica opportunità nel nostro Servizio), un patto
come quello sopra auspicato difficilmente può essere siglato se non viene prima affrontato, e
per quanto possibile risolto, il cruciale problema delle alleanze.
L’ovvia centralità dell’agire ed interagire degli adulti di riferimento nel percorso
adolescenziale, penso soprattutto ai genitori, impone infatti scenari di particolare complessità
relazionale.
Abbiamo già considerato, dal punto di vista dell’adolescente, perché egli sia portato ad
interpretare il patto con noi come un patto contro i genitori e le ragioni per le quali è invece
importante poter proporre un patto con lui e non contro qualcun altro.
Rispetto alla posizione dei genitori ho più volte sperimentato come lo svilupparsi di
un’alleanza di lavoro sia osteggiato dal fatto che il terapeuta è da loro pensato come il
genitore capace, ideale, che metterà in evidenza la loro inadeguatezza, i loro difetti, oppure
dal fatto che il contesto terapeutico è percepito come minaccioso per gli equilibri della coppia
genitoriale, oppure dal fatto che la terapia è pensata come magicamente risolutiva
nell’intervenire sui figli secondo le loro aspettative.
Ne conseguono allora, inevitabilmente, vissuti di ostilità, delusione e rabbia che devono poter
essere sciolti, pena l’impossibilità di proseguire nel lavoro terapeutico.
Penso che possiamo farlo solo partendo da un’idea della funzione terapeutica che eviti la
trappola della dinamica affettiva dell’onnipotenza-impotenza, proponendo un curante quale
accompagnatore partecipe e competente (Erba 1995), che può affiancarsi ai genitori nella
misura in cui, a loro volta, si individuano come responsabili protagonisti della ricerca, per
aiutarli a comprendere senza giudicare.
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Penso alla madre di Paolo che dice al figlio “non prendere per oro colato quello che ti dice lo
psicologo” o anche “se ti mette in testa certe cose è meglio se non ci vai” e “io sono in pace
con me stessa perché non ho colpe”. Quando, successivamente, incontro la signora
accogliendo la sua esplicita richiesta di parlare con me, avverto un clima carico di diffidenza,
competitività, velata rancorosità. Ad un certo punto mi racconta piangendo della sua
sofferenza nel confrontarsi con la tossicodipendenza del figlio e della dolorosa delusione
rispetto alle aspettative riposte in lui e del senso di inadeguatezza da lei vissuto, lei che,
vicina alla laurea, ha abbandonato l’università per poter essere una madre più presente. Nel
momento in cui questi sentimenti trovano un riconoscimento e accoglimento fuori dal temuto
giudizio, il clima emotivo via via si scioglie, consentendo l’ inizio di un mutamento di
prospettiva dove il “lui” riferito al figlio lascerà il posto all’”io” riferito a se stessa.
Quando si stabilisce un’ atmosfera che consente una rilettura e trattabilità delle dinamiche
relazionali familiari, dando ascolto alla comune sofferenza, si rende possibile un percorso
d’individuazione anche quando la domanda iniziale sembra escluderlo, ottenendo nel
contempo, da parte dei genitori, una sorta di autorizzazione che permette al membro più
debole l’evoluzione del suo processo di crescita.
Autorizzazione che risulta decisiva, per un positivo sviluppo della terapia, quando, e così
frequentemente nelle tossicodipendenze, ci incontriamo con legami a connotazione
simbiotica.
Ritornando al tema generale e all’idea di passaggio insita nel percorso adolescenziale,
proposta nel titolo della relazione, mi pare di poter dire che se esiste un tema che accomuna le
storie di più grave sofferenza adolescenziale che ho conosciuto, questo è rappresentato dal
fatto che tale passaggio è condannato al passaggio all’atto di area patologica quando i
protagonisti segnalano un’impossibilità a rappresentarsi il futuro, al saper guardare lontano,
al saper assumere un’ampia prospettiva.
Lo ha detto molto bene Vittorio Cigoli (1998): “ Perdendo un sogno si è senza trama e così
senza risorse per vivere….Il futuro è improponibile, la situazione è di stallo. C’è agitazione e
grande turbolenza che però, mentre lo richiede, rischia di non sfociare in un cammino”.
Alle ragioni di questo futuro negato mi sembra concorrano, intrecciandosi, concause di varia
natura, sia sul piano politico-sociale, sia su quello più specificatamente psicologico e
relazionale.
Rispetto alle prime mi pare convincente l’analisi relativa ai paradigmi della cultura giovanile
proposta da Vittorino Andreoli, laddove segnala come, a seguito di una serie di mutamenti
sociali, sia oggi presente una contraddizione fra un futuro prestabilito e quindi ipotizzato, e la
sua incerta percezione.
“Vi è cioè da parte dei giovani una percezione del futuro totalmente diversa da quella della
generazione di poco precedente che si caratterizzava per il mito della ricostruzione. Per i
giovani d’oggi il futuro è troppo carico di incertezze per poter diventare riferimento capace di
orientare in prospettiva le azioni attuali….La perdita della dimensione del futuro riporta il
mondo giovanile all’hic et nunc e quindi ad un vissuto senza tempo e di conseguenza senza
progetti e persino senza speranza. Anche la speranza è funzione del tempo.”
Quanto possono apparire lontane (ma è poi così ?) le riflessioni di Tolstoj sul rapporto fra i
giovani ed il futuro!
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Scriveva infatti, più o meno 150 anni fa: ”Nella giovinezza tutte le forze dell’anima sono
dirette all’avvenire e quest’avvenire assume forme così diverse, vive ed incantevoli sotto
l’influsso della speranza, fondata non sulle esperienze del passato, ma su immaginarie
possibilità di gioia, che già soltanto i sogni compresi e condivisi di un avvenire felice
costituiscono la felicità vera di quell’età.”
Certo oggi ci pare di assistere , quantomeno, ad un più diffuso disincanto.
Ma basta questo a spiegare le esperienze di grave rottura nel percorso di crescita, come il
ricorso ad agiti estremi tra i quali la tossicodipendenza, che è ovviamente cosa diversa dal
diffuso uso, apparentemente trasgressivo in realtà sempre più spesso omologante, di sostanze
quali i cannabici tra i giovani, in contesti gruppali ed al di fuori di una condizione sintomatica
o di dipendenza?
Evidentemente non nel nostro ambito di osservazione ed azione, se non altro per i limiti
intrinseci ad ogni considerazione basata unicamente su di una logica lineare di causa ed
effetto.
Se infatti è probabilmente vero che la sofferenza giovanile di area patologica esprime in
maniera limite una condizione che si estende a tutti i giovani, credo altresì che le diverse
intensità percettive di tale sofferenza siano condizionate da fattori di natura psicologica e
relazionale che appartengono all’esperienza individuale.
Per quanto ho potuto osservare, relativamente all’ambito delle tossicodipendenze, mi ha fin
dall’inizio molto colpito la frequenza con la quale nelle storie familiari, soprattutto dei
pazienti più giovani, comparissero i personaggi rappresentati dal genitore che ha pensato il
figlio come strumento progettuale del proprio sogno ed ha assimilato l’altro a sé, ed il
personaggio del paziente designato che, nel rivendicare l’esercizio dei propri diritti e della
propria libertà, la teme nel contempo.
Mi pare qui ritorni sul piano dei vissuti individuali, quella tormentata, quando non impedita,
raffigurazione del futuro che abbiamo visto prima poter appartenere a parte dell’astratta
categoria rappresentata dall’universo giovanile.
Riesco ora più chiaramente a ritrovare questo tema dentro varie storie familiari perché ho
trovato di grande aiuto il contributo teorico di Ettore Perella, proposto nel suo libro sulle
dipendenze, un testo che trovo assolutamente prezioso per chi opera nel nostro campo.
Ne cito un breve passaggio che mi pare qui esserci particolarmente utile: “…ogni processo di
crescita comporta l’elaborazione della perdita non solo delle figure che sono state essenziali
per noi nei momenti precedenti, ma anche dell’immagine che essi si erano fatta di noi. Questo
processo, invece, viene radicalmente impedito da qualunque formazione patologica (e da
ciascuna in modo diverso), perché ogni patologia, come abbiamo visto, non è altro che un
arresto nel percorso formativo.”
Per la mia esperienza mi pare di poter dire che, nel caso degli adolescenti con problematiche
nell’area delle dipendenze, tale arresto viene frequentemente rappresentato dall’impossibilità
a futurizzarsi.
Una delle madri delle foto: “avevo paura dell’adolescenza di mio figlio prima ancora della
gravidanza”, per dirmi poi dopo alcune sedute “ho sempre provato una profonda tristezza in
primavera nel vedere i fiori e le gemme sbocciare, ricordo che fin da adolescente ho odiato il
solstizio d’estate perché annunciava l’accorciarsi delle giornate” e ancora “perché tutto
finisce?… non è giusto!”. Capisco che per lei l’adolescenza non è anche l’adulto che nasce,
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ma solo il bambino che muore, in un funzionamento psicologico che non consente di
elaborare l’esperienza del lutto. Ma quando dice “ecco, sono riuscita a dirglielo che per me
mio marito non è morto…” si apre nella relazione la possibilità di esprimere l’indicibile della
morte, uno spiraglio di trattabilità, un primo passo oltre la negazione e la ribellione al lutto.
Un’incapacità a futurizzarsi quindi, tornando ad assumere il punto di vista dell’adolescente,
non tanto o non solo per vincoli di natura sociale, quanto perché il processo psicologico di
individuazione e separazione è impedito, perché impedita è l’affermazione della realtà
individuale del paziente designato.
Infatti, sia l’essere dentro ad una relazione che vive come troppo minaccioso il naturale
avvicendarsi delle varie fasi evolutive, sia l’ essere la proiezione del desiderio di un altro,
nell’età in cui è necessario intraprendere un personale percorso verso l’autonomia, non può
che tradursi in un conflitto apparentemente irrisolvibile e nella soggettiva sensazione di non
poter andare da nessuna parte.
Se così è per aiutare il nostro interlocutore al diritto ed alla responsabilità del proprio
desiderio, del proprio cammino, penso sia necessario poter riconoscere, ciascuno per la propri
parte, una posizione di partenza che possa sopportare il fatto di non sapere dove si sta
andando, dove, come nell’iniziale citazione di Machado “..non c’è la via, la via si fa
andando.”
Mi piace pensare allora al luogo della terapia con l’adolescente ed il giovane paziente come
ad un’ area intermedia che può essere affettivamente ed emotivamente frequentata e che, nel
dare accoglienza, rispetto e condivisione al presente, permette di gettare un ponte verso il
futuro.
Un’ area intermedia diversa da quella onnipotente ed illusoria rappresentata nelle dipendenze
dalla sostanza, dove la presenza del terapeuta, dentro un patto che garantisce stabilità e
continuità, permette di sperimentare possibilità inedite di relazione, dove la differenziazione e
la separazione non sono percepite, almeno nella persona del terapeuta, come minacciose o
distruttive.
“Non deve dispiacersi…non serve lo faccia….non voglio rubarle un sentimento…”
Così ha risposto una giovane tossicodipendente di fronte al mio partecipe dispiacere per un
suo serio problema organico.
Per lei, che si confronta con un’ingiunzione materna del tipo “se muori mi uccido”, il mio
movimento empatico poteva solo essere accolto come un sentimento soffocante la sua
libertà. Infatti mi dice “se lei si dispiace le faccio del male”.
Credo in tal senso, riprendendo quanto appena detto, che il lavoro con questa paziente abbia
tratto un buon vantaggio dalla possibilità di sperimentare l’area della terapia come un luogo
in cui la propria sofferenza non è distruttiva per l’altro e, soprattutto, non uccide nessuno.
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