Le Rime di Lorenzo Stecchetti
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Le Rime di Lorenzo Stecchetti
Progetto Iperteca – Provincia di Napoli “Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve Contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado vedo venire.” Memorie di Adriano Olindo Guerrini Le Rime di Lorenzo Stecchetti Si ringrazia l’Associazione Liberliber dal cui sito: www.liberliber.it questo testo è stato prelevato " il sapere condiviso è una utopia possibile" TITOLO: Le Rime di Lorenzo Stecchetti AUTORE: Guerrini, Olindo TRADUTTORE: CURATORE: NOTE: DIRITTI D'AUTORE: no LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/ TRATTO DA: Le rime di Lorenzo Stecchetti. - Bologna : Zanichelli, stampa 1964. - XXIII, 630 p. ; 21 cm. CODICE ISBN: informazione non disponibile 1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 15 maggio 2008 INDICE DI AFFIDABILITA': 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Catia Righi, [email protected] REVISIONE: Paolo Alberti, [email protected] PUBBLICATO DA: Claudio Paganelli, [email protected] Le Rime di Lorenzo Stecchetti Zanichelli editore Bologna INDICE DELLE POESIE INDICE DELLE POESIE SALUTO FAC-SIMILE I. AL LETTORE POSTVMA I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV Poveri versi miei gettati al vento Natalizio Era una notte come questa e il vento Primavera, che tu sia maledetta! Medio Evo Vieni, Nerina! Siediti E pur mi sento nel cervello anch'io Ben ritornato, carneval giocondo; Come il ricordo vago e mal distinto No, non chiamarmi giovane Nel sonno mio credei di rivederla Io morirò, chè la fatal mia sera Quando nacque Gesù dal sen fecondo Quando cadran le foglie e tu verrai Noia Nella capanna in fondo al mio cortile Ebbro Io non voglio saper quel che ci sia Questa notte allungai la passeggiata Quando tu sarai vecchia e leggerai Caffè concerto Ci siamo amati in faccia al sol raggiante I filosofi salariati In morte di un molto reverendo strozzino Quando scesi di botte al Vaticano Lazzaro Nell'aria della sera umida e molle Domani ella verrà! – Domani è certo Magre virtù che vi scandolezzate La guardi – mi diceva il sagrestano – Conosco un vagabondo Sozzo di fango come un animale Penelope sei tu che il ciglio china Questa notte in battello, in alto mare 3 XXXV XXXVI XXXVII XXXVIII XXXIX XL XLI XLII XLIII XLIV XLV XLVI XLVII XLVIII XLIX L LI LII LIII LIV LV LVI LVII LVIII LIX LX LXI LXII LXIII LXIV LXV LXVI LXVII LXVIII LXIX LXX LXXI LXXII LXXIII LXXIV LXXV LXXVI LXXVII LXXVIII LXXIX LXXX LXXXI LXXXII LXXXIII LXXXIV Quando nell'ombra de' tuoi negri occhioni A Venezia Conosci tu il paese Memorie bolognesi Ira Il canto dell'odio Scritto sopra un sasso Nozze S'io fossi ricco, d'oro e di gioielli Quando, al fuggir della stagion nevosa Nozze Il guado Spes, ultima dea Quando schizzan le sorche innamorate A Carolina Noi sentiamo il furor delle baccanti Brindisi Ella dicea: tu non sei mai giocondo Emma, ti lascio a tavola Forse una volta al tuo balcon seduta Memento Caro fior di gaggia, dove sei nato? Ad una giovinetta cieca Ci si sta tanto bene accanto al fuoco Le tue carezze le conosco io solo Chi potesse ridir quanto l'amai T'ho fatto il precettore Neerland Era d'inverno, tardi, e sedevamo Dopo le nozze Restituendo un riccio di capelli biondi La grigia nebbia di novembre ammanta «Per amor di Dio» Quando scroscia la piova e fischia il vento O fiorellin di siepe all'ombra nato A Raffaele Belluzzi Gretchen Un organetto suona per la via Ad un poeta Resurrexit Mendica Ad Emma Io mi volli levar dal reo letame Il Castello di Polenta Voce da una tomba sulla via Appia Fuori di porta Io piangeva ai suoi piedi e le chiedea Dove sei, dove sei tu che m'hai detto Donna, vorrei morir, ma confortato Preghiera della sera LXXXV October II. AD OTTO HOFFMEISTER PROLOGO POLEMICA I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXXVII Ed anche a me da l'innocente cuna Idealisti saggi, ho molto amato Il nome di Maria A Giosuè Carducci Apostata, marrano e rinnegato A Felice Cavallotti Se nasco un'altra volta a questo mondo Quando vedrai cader le foglie morte Giovannin Bongèe e detti L'idea pura A certi farisei Alla musa Wiener Blut Per nozze No, sgualdrina non è perchè ricusa In musica In mare Candide tortorelle innamorate O bianche nubi che ne '1 ciel turchino Clam Esser donna vorrei, gobba, schifosa Là su, là su dove salir non anche A i poeti pinzocheri Proposta (di A. Guerrieri Gonzaga) Risposta Iustitia A Ugo Bassini Alle ostriche All'albergo Nell'album della baronessa C. Gravina Palinodia L'Annunciazione Poveri uccelli, che al giardin volate Presto il giorno verrà che per le strade Cambia la moda Dies irae Congedo III. ADJECTA 5 I. LIBER CAIAPHAS I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXXVII XXXVIII XXXIX XL XLI XLII XLIII Ahimè! Benedicimus te Caiaphas 1900 Festeggiandosi la Vergine di S. Luca Sermone di Natale Epifania Due voci Alla città di Fermo Chi sa perchè? Vissute invano Per laurea Egoismo Rime Le ballate del processo Fu vero? Tra una udienza e l'altra Per un «numero unico» Anniversario Mentre tuona De re rvstica Predica Meditazione Fidentiana Pellegrini Ciarle Dal vero De profundis XX Settembre Festa degli alberi Svb sydera poli Paretaio cruschevole Legenda trium sociorum Leggendo un'enciclica Divorzio Elegia Elezioni Serenata elettorale Pei liberali pentiti Pei liberali ripentiti Pei liberali pentitissimi La goccia Via Crucis II. INTERLUDIUM I II Il mio ritratto Dicembre III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXVII XXXVIII XXXIX XL XLI XLII XLIII XLIV XLV XLVI XLVII XLVIII XLIX L LI LII Anno nuovo Meridies Partenza Ai colleghi Natale di bimbi Natale di vecchi Veglia romantica A certi giornalisti pudicissimi Ronzio d'insetti Ruth Sogni Tristia Attesa Novembre Lettura serale Al veglione Neve Trittico Non domandate mai Serenata Destino Nord Notte Avventura Al cospetto delle genti Per sempre Mammona Post prandium Perchè In memoria di Cesare Dalla Noce Disse... Morbvs Visione L'idillio d'Orlando Presso Tivoli Dies Nox Nel mille Nel settecento Apennino Adriatico Parole Musica Saffo: a Venere genitrice Scrive donna Elvira Fantasia egiziana Iris Florentina Linn Lavda nouissima de la stella chometa Altra serenata Via Æmilia 7 LIII LIV LV LVI LVII LVIII LIX LX LXI LXII LXIII LXIV LXV LXVI LXVII LXVIII LXIX LXX LXXI LXXII LXXIII LXXIV LXXV LXXVI LXXVII LXXVIII LXXIX Le ballate dell'Autunno I sonetti Studentesse Nel 54° anniversario della mia venuta al mondo Romanze Allora ed ora In memoria Giovedì grasso Sole d'inverno Pedalando Di nuovo in bicicletta In bicicletta ancora Canta Madonna e si dispera ? Vita Parabola Amore Et in terra pax! Natale in città Nevica! Romanza Finis asini… Ora triste Testamento Novembre ancora Il mio cuore Requie III. CIVILIA I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX Tra due secoli 1897 Alla bandiera Memento! Pace! In morte di Manlio Garibaldi Per un'amnistia Banca Romana Il fico disse – Biondo al mar correva Da capo Notte d'autunno Boxers Anarchico Resurrexit III Novembre Affrica – Mentre partono In anticamera Alpini Ultime notizie Alle madri XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXXVII XXXVIII XXXIX XL XLI XLII XLIII Agli eroissimi Ai reduci dallo Scioa Arri! 4 Ottobre 1899 in Palermo Quando si disse «non se ne parli più» Quando l'amico mio Felice Cavallotti fu scannato Primo anniversario della morte di Felice Cavallotti Secondo anniversario della morte di Felice Cavallotti Ancora? Per le cannonate italiane alla Canea Due ombre Presagio Primo Maggio Sciopero in risaia A S. R. Domenico Svampa A Tito Livio Cianchettini A Giuseppe Mazzini Processo celebre Natale al Transvaal Non io Hunyadi Jànos Aurora Fine 9 SALUTO Lascio stampare questo volume di rime senza correggere le vecchie, benchè ne vegga le grinze e non mi sfugga la reazione cristiana che, velata di impalpabilità liliali, vuol ridurci ad una rinuncia buddistica e rassegnata, cui la vita sembri ignobile e la verità immorale. Nè avrei faticato molto ad aristocratizzarle facendole men piene, od a rammodernarle diluendo il colore sino alle nebulosità del simbolo; ma avrei mentito a me stesso e debbono rimanere così, perchè così furono sentite da me e, al tempo loro, non sgradite a tutti; anzi, o m'illudo, aiutarono già a vincere qualche pregiudizio o inconsapevole ipocrisia di forma, asserendo che non è da schivare la schiettezza, sebben cruda, della parola o della frase là dove si voglia dire e rappresentare la verità. E se questo fu, anche in piccola parte, mi basta per esser contento di me e del libro. Nè i versi aggiunti son meno sinceri dei primi. Indifferente al biasimo ed alla lode per una impassibilità forse morbosa ma non orgogliosa, pei migliori di me ebbi rispetto sempre, amicizia spesso, invidia mai. Scrissi come dettò il breve ingegno quel ch'io credetti verità, sincero anche quando fui o parvi traviato. Ed ora, giunto oramai dove dovrò fermarmi, guardo serenamente la via percorsa e saluto i giovani che mi seguono nel tempo e mi sorpassano nell'arte. Giovani, a voi! Non sdegnate di raccogliere questa bandiera ch'io credetti di verità nello scrivere, di libertà e di giustizia nel vivere. Raccoglietela da queste povere mani, stanche ma fedeli, deboli ma non vili, e portatela voi, migliore e più bella, in alto in alto, nella radiosa gloria dell'avvenire! Addio! Marzo 1903. OLINDO GUERRINI I. AL LETTORE A me che pongo il mio nome sotto queste poche righe d'introduzione come ad uno de' più intimi amici dell'autore ed a lui congiunto per sangue; a me che più di tutti fui a parte delle sue gioie e de' suoi dolori, è toccato il triste incarico di tesserne la biografia. Non abuserò certo della pazienza di chi legge, tanto più che le vicende del mio povero amico non offrono nulla di così straordinario da tentare il narratore od il lettore. La sua storia è tutta in quattro parole: morì a trent'anni. Lorenzo Stecchetti mio cugino (le nostre madri furono sorelle) nacque il 4 ottobre 1845 in Fiumana, piccolo comune del Forlivese, che giace in una di quelle fertili valli cui sovrastano i primi contrafforti dell'Appennino e precisamente nel villino chiamato Casella. Di famiglia non ricca ma agiata, nel 1847 gli mancò il padre, nel 1850 la madre, e mio padre assunse la tutela dell'orfano. Fu educato nel Collegio Municipale di Ravenna, quindi, dopo il 1859, nel Nazionale di Torino Ne uscì nel 1863, e compì gli studi in quel Liceo Cavour, allora del Carmine, per venire finalmente nel 1865 ad intraprendere il corso di Giurisprudenza in questa Università di Bologna. La nostra conoscenza, che non aveva altro legame se non le poche e quasi dimenticate memorie dell'infanzia, si riannodò qui a Bologna tanto da divenire vera ed intima amicizia. Qui vivemmo dal 1865 al 1868 la vita lieta e spensierata dello studente, meno nei pochi mesi del 1866 nei quali altri doveri ci chiamarono; e qui egli dimenticava troppo spesso il codice per Byron, Heine e De Musset, che egli chiamava la sua Trinità. Dopo la laurea rimase a Bologna. In una notte d'inverno del 1870, che non saprei precisare (era carnevale), nella sua cameretta in via Zamboni, egli mi leggeva qualcuno dei canti che ora si trovano in questa raccolta, e, poichè io lo confortavo a pubblicarli, mi rispose scherzando che il farlo sarebbe stata mia cura quando egli fosse morto. Pur troppo lo scherzo divenne profezia. In quello stesso inverno sputò sangue. Lo sapemmo tardi perchè in principio egli nascose quasi con pudore la sua malattia, ma pur lo sapemmo, e noi tutti che lo amavamo fummo ben dolorosamente sorpresi. Egli no; e quando gliene parlai per la prima volta, sorrise amaramente dicendo: – Tanto a che servivo io? Meglio così. – Era già rassegnato. Cosa strana per un tisico, egli non ebbe mai illusioni sul proprio stato. Continuò tuttavia il suo solito metodo di vita ed agli estranei non parve mutato nè al fisico nè al morale. Solo diventò meno gaio. Alle volte interrompeva a mezzo il riso incominciato e diventava improvvisamente serio. Molte cose che prima amava con tutto l'ardore della sua bella giovinezza, gli divennero indifferenti. Anche l'anima si ammalava. Viaggiò. Gli avevano prescritto il clima di Napoli, ultimo rimedio che si consiglia ai disperati per tisi, a fine di prolungar loro l'agonia. E questa agonia fu per lui orribile, straziante. Non si potranno mai dire le profonde disperazioni di un'anima che a poco a poco si sente mancar tutto d'intorno. Ed egli che non sperava, cercava d'illudersi, voleva far credere a sè stesso di sperare ancora. Scriveva ad una donna: Mi si spezza la testa. Io son malato E la febbre mi brucia entro le vene. Sono debole, giallo, dimagrato, Ma quando penso a te mi sento bene. Ma quando penso a te cessa il dolore E la speranza mi ritorna in core. Per non soffrir così vorrei morire, Ma quando penso a te voglio guarire.1 1 Taccio per ragioni troppo facili a capirsi, tutto ciò che riguarda ad amori del povero defunto. Del resto il lettore ne troverà molte tracce in questo libro. I versi qui sopra citati furono scritti sul dorso di un biglietto da visita ed inviati da Napoli ad una persona che ce li volle gentilmente favorire con altre cose pubblicate in questa raccolta. L'autore diceva di non aver tempo di esser poeta e non aveva alcuna stima dei propri lavori che gettava qua e là sopra foglietti volanti che durammo molta fatica a riunire. Così il sonetto – Forse una volta, ecc. – fu scritto col lapis sulla balaustrata di una villa nei dintorni di Bologna. La persona cui era 11 Ma anche la speranza era fuggita. Questa crudele agonia si prolungò per molto tempo con una lunga vicenda di miglioramenti e di peggioramenti. Pareva che la morte, condannandolo a questo lento martirio, gli dicesse come Vitellio alle sue vittime: voglio che tu senta di morire. In una sua breve dimora in Bologna prese parte ad una lotta personale che ebbe luogo nei fogli pubblici. Assunse in quell'occasione il pseudonimo shakespeariano di Mercutio e combattè colla penna audacemente, sì che quel pseudonimo non è forse dimenticato in Bologna, ed abbiamo creduto bene di trovargli posto sul frontispizio di questo canzoniere. Ci asteniamo però dal riprodurre i versi amari che l'autore scrisse in quei giorni: prima perchè di argomento troppo municipale, poi perchè la persona contro la quale erano diretti ha pagato in ben altra guisa, i suoi debiti colla società. Finite queste lotte, finì anche l'energia momentanea che lo aveva sostenuto, peggiorò, e dovette cercare aure più miti. Finalmente, sul finire del 1875, lo vedemmo improvvisamente ricomparire a Bologna, bianco, macilento, curvo come un vecchio; gli occhi soli erano vivi. Non ascoltò gli amici che lo pregavano di ritornare a Napoli od a Pisa, e volle inesorabilmente ritornare ai suoi monti, dove l'inverno incrudeliva. Io ho sempre pensato che avesse deciso di finirla una volta. Il 2 febbraio 1876 mi giunse un telegramma che diceva – Vieni a vedermi morire – Renzo. – Il giorno dopo partii e lo trovai in letto alle prese colla morte. Il freddo era acuto ed il suo triste paesello coperto di neve, velato di nebbia. Quando entrai non disse altro che – grazie. – Mi aspettava e mi tese la mano umida ed agghiacciata, dove non erano più che le ossa e la pelle. La notte lo vegliai io, seduto al suo scrittoio, frugando fra le sue carte, povere foglie cadute da una pianta moribonda prima di portare i suoi frutti. Che cuore fu il mio, povero amico, leggendo i tuoi canti d'amore vicino al tuo letto di morte! Venne il giorno e la morte si avvicinava a gran passi. Il parroco faceva uffici per salire ad esercitare il suo ministero. Ne parlai al moribondo: rispose, no. Verso il mezzodì la sua voce sfinita e fioca era ridotta ad un soffio, tanto che per udire le sue rare parole dovevo chinarmi sopra di lui, quasi coll'orecchio sulle labbra. Fece aprire la finestra per vedere il sole, quest'ultimo desiderio dei moribondi: ma il sole non c'era. Alle due pomeridiane mi prese per mano. A poco a poco le forze lo abbandonarono. Intesi la parola fine, poi più nulla. È sepolto nel cimitero del suo paese sotto al quinto cipresso a sinistra di chi entra. La pietra funeraria non porta che i nomi e le date. I suoi averi li lasciò tutti alla beneficenza. Non ci dissimuliamo che questi versi escono alla luce in un'epoca poco propizia. L'individualismo ha fatto ormai una virtù dell'egoismo. Per questo nessuno bada a ciò che pensa o soffre il suo vicino e la massima ognuno per sè e Dio per tutti è diventata il canone della vita sociale. Le gioie e i dolori del poeta non ci riguardano più, non ci commuovono, spesso anche ci fanno ridere scetticamente. Questo pensiero ci ha spesso tormentato nell'attendere alla pubblicazione dei canti del nostro povero amico; ma tuttavia ci sorrise la speranza che il libro potesse pure incontrare qualche anima aduggiata dall'egoismo; ci sorrise la speranza che un nome a noi caro fosse pure imparato a conoscere da qualcheduno, che il nome dell'amico nostro non passasse ignoto sulla terra. Ci siamo ingannati? Sperando che no, abbandoniamo il libro alle tempeste della pubblicità. Potremo aver errato credendo questi canti non indegni di essere conosciuti; ma se l'affetto che portammo all'autore ci fece velo agli occhi, voglia il lettore perdonarci, e quell'affetto stesso ci valga di scusa. Se errore c'è, è tutto nostro, e per nostro lo accettiamo. Bologna, 8 febbraio 1877. DOTT. OLINDO GUERRINI diretto lo trascrisse, lo conservò e ce ne diede copia. POSTVMA 13 I. Poveri versi miei gettati al vento, Della mia gioventù memorie liete, Rime d'ira, di gioia e di lamento, Povere rime mie, che diverrete? Ahi fuggite, fuggite il mondo intento A flagellar chi non l'amò: premete L'inculto sì ma non bugiardo accento, Conscie dell'amor mio, rime discrete. E se la donna mia ritroverete Per cui le angoscie della morte io sento, Voi che il segreto del mio cor sapete, Voi testimoni del perir mio lento, Quanto, quanto l'amai voi le direte, Poveri versi miei gettati al vento. II. NATALIZIO .....Così nel mondo Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce PETRARCA. Triste chi errando in quella notte cieca Col terror dell'ignoto alle calcagna Per queste selve, udì strider la bieca Voce del gufo ed ulular la cagna. Tutti i fantasmi che la notte arreca Sceser qui tutti, e dalla sua montagna Solo il cupo ladron che al giorno impreca Non calò quella notte alla campagna. Come nembo di furie agitatrici De' satanici amplessi al rito immondo Sceser le streghe dalle lor pendici. Triste colui che in quel terror profondo Trasse della sua vita i primi auspici! In quella notte io son venuto al mondo. 15 III. Era una notte come questa e il vento Scuoteva urlando la mia porta invano: Lunga come un lamento Mezzanotte battea lontan lontano, Cadea la pioggia a rivi Dalle gronde sonore e tu partivi. Tu partivi per sempre ed io sul letto, Col viso in giù, la còltrice mordea: Mi strideva nel petto Il singhiozzo del pianto e non piangea. Così tu m'hai lasciato E il bacio dell'addio non me l'hai dato. Da quella notte non t'ho più veduta E più nulla di te non seppi mai. Forse tu sei caduta Nel vitupero ed aspettando stai, Seduta sulla porta, Chi compri il bacio tuo; forse sei morta. Forse, e questo pensier più mi tormenta, Non ti ricordi più del tuo passato, E godendo contenta La casta pace d'un imen beato, Baci col labbro pio I figli d'un amor che non fu il mio. Nel tempo anch'io sperai che pur conforta, Che spegne pure ogni dolor più greve. Ti volli creder morta Perchè scordarsi degli estinti è lieve, E dissi al cor mio gramo, Dissi all'anima mia: dimentichiamo. Invan. Da quella notte io porto in core Come una piaga che guarir non vuole; Chiuso nel mio dolore Odio la terra, maledico il sole, Maledico la vita, Perchè non spero più; tu sei partita. E partita per sempre! e pur se sento La piova ancor che dalle gronde scroscia E a mezza notte il vento Sonar come un lontano urlo d'angoscia, Dal mio guanciale il volto Levo e le voci della notte ascolto. Così mal desto le tue bianche forme, Velate come in sogno, io veggo in mente: Tace per poco e dorme Il tarlo roditor che lentamente La mia vita divora, E mi par quasi d'aspettarti ancora. Può la mente scordar tutto un passato, Ma la mia carne non li scorda mai I baci che m'hai dato, I misteri d'amor che t'insegnai, Le notti mie più liete, E le tue voluttà le più segrete. Ahi, ma dal mio sopor tosto destato, L'atroce verità riveggo intera! Ignudo e forsennato Levo le braccia nella notte nera E sulla coltre sola Spasimo e il pianto mi s'annoda in gola. Pianger non posso. Maledetto Iddio, Se favola non è come l'amore, Egli che il pianto mio Come una pietra mi saldò nel core, Egli che ci ha diviso E che il pianto mi nega e il tuo sorriso! Oh, se pianger la morte mi facesse, Se una lagrima sola, un'ora sola De' gaudi tuoi mi desse, Ricada sovra me la mia parola Se la casa di grida Non risonasse già pel suicida! 17 IV. Maudit printemps reviendras-tu toujours? BÉRANGER Primavera, che tu sia maledetta! Chè fra i rami de' tigli io la vedea Allor che sola al suo balcon sedea L'inverno a far l'amore e la calzetta. Baciandoci cogli occhi, alla vedetta Sempre stavamo il dì, nè fronda rea L'innocente baciar ci contendea... Già il difetto del tempo è la gran fretta! E il mal tornato sole ora discioglie L'amica neve e i tigli alla leggiera Aura del novo april metton le foglie. Un fitto vel di fronde, una severa Siepe di rami i baci suoi mi toglie. Che tu sia maledetta, primavera! V. MEDIO EVO Eran folte le tenebre Ed ogni cosa nel castel tacea, Ma il biondo paggio in carcere, Solo col suo dolor, così piangea: «Ahi, troppo in alto, misero, Ho la speranza e l'amor mio levato! Amai del re la figlia E vivo in questo avel m'han sotterrato. «Oh, se una sola lacrima Io le fossi costato, un sol pensiero, Questo sepolcro squallido Io non lo muterei con un impero!» Quando una bianca immagine Improvvisa comparve in sulla porta E trepidando il giovane Le domandò: — «Chi sei, povera morta?» — «Morta non son – gli mormora La parvenza gentil – guardami, tocca!... Non sai? Le scolte dormono: Son la figlia del re: baciami in bocca». 19 VI. Si fractus illabatur orbis Impavidum ferient ruinae. HORAT. Vieni Nerina! Siediti Lieta sui miei ginocchi E ti scintilli cupida La voluttà negli occhi; Vieni, ed il collo cingimi Con le soavi braccia, Io nel tuo sen che palpita Nasconderò la faccia. Squarci la terra i fumidi Visceri suoi profondi, Crollino i cieli e riedano Infranti al nulla i mondi, A me non cal! Se il roseo Labbro sul labbro mio Serri, Nerina, impavido Sfido la morte e Dio. VII. E pur mi sento nel cervello anch'io Qualche cosa che vive e che lavora, E pur quest'aura che il mio volto sfiora L'alito par dell'agitante Iddio! Talor cedendo a' sogni miei m'avvio Pe' floridi sentier che il mondo ignora; Salgono i canti alle mie labbra allora E spero e credo nell'ingegno mio. Ma quando il dubbio mi risveglia, quando Via per la nebbia del mattin tranquille Sfuman le larve che seguii sognando, Colle man mi fo velo alle pupille E mi guardo nel core e mi domando: Sono un poeta o sono un imbecille? 21 VIII. Ben ritornato, carneval giocondo; Eccomi serio: ecco ripiglio, o mondo, La maschera bugiarda. Oh, non tradire il mio dolor segreto, Pallido aspetto mio! Mostrati lieto, Chè la folla ti guarda. Nelle feste giulive ognun m'addita E dice: vedi un cor che non ha vita! Guarda un uom senza fede! Ed io sorrido fra la turba sciocca, Ho la morte nel core e il riso in bocca, Ma il cor nessun lo vede. Oh, se sapeste ciò che si nasconde Sotto al mio lieto viso e che profonde, Sanguinanti ferite M'han lacerato il core, oh se sapeste Tutto il martirio mio, voi torcereste Le pupille atterrite! E tu, ribelle cor, perchè al villano I muscoli robusti, il sangue sano E l'ignoranza invidi? Eccoti danze, fior, chiome fluenti, Candidi petti, voluttà cocenti... Ridi una volta... ridi! IX. Come il ricordo vago e mal distinto D'una speranza giovanil caduta, Come il ricordo d'un affetto estinto Nel mio vano sognar tu sei venuta. E m'hai messo nel sangue un novo istinto Che scalda il cor tediato e lo trasmuta; Sul mio cammin la speme hai risospinto, La tentatrice ch'io credei perduta. L'anima mia così lascia la stolta Piuma dove ingrassò ne' sonni tardi E attenta il suono de' tuoi passi ascolta. Lasciar per te potrebbe i suoi codardi Ozi ed amar la vita un'altra volta, Ma tu le passi accanto e non la guardi. 23 X. No, non chiamarmi giovane Perchè i capelli miei son lunghi e biondi E le mie guancie floride Di molli carni e di color giocondi. Son come il frutto fradicio Dentro e che serba il suo color di fuora. Donna, ti sembro giovane E sono un morto che cammina ancora. Chiusa per sempre ho l'anima Alle dolci lusinghe ed ai conforti. Donna, non mi sorridere; Donna, non mi tentar; rispetta i morti. XI. Nel sonno mio credei di rivederla Angel di paradiso Coll'ali del color di madreperla Sfiorarmi il viso. Era bianco vestita, e il crin disciolto Scendea sino ai ginocchi: Luce d'amor piovea dal suo bel volto, Piovea dagli occhi. Ahi, ma quando un sorriso errar le vidi Sulle labbra frementi, Dissi: imago gentil, se mi sorridi, O sogno, o menti! 25 XII. Io morirò, che la fatal mia sera Volando giunge e il tempo non s'arresta E già la tomba spalancata e nera A divorar la carne mia s'appresta. Quando tutto ritorna a primavera Io sol non tornerò. Sulla mia testa, Dalla materia mia già tanto altera La maggiorana crescerà modesta. Là vieni, o donna: il tuo fedel t'invita. Là sulla tomba mia cògli commossa L'erba che amavi dal mio cor nudrita. Oh non negarle un bacio, e liete l'ossa, Come a' tuoi baci già soleano in vita, Fremeranno d'amor dentro la fossa. XIII. I. Soulary. Quando nacque Gesù dal sen fecondo Della vergine ebrea, l'orrida vesta Scosse l'inverno e rinverdì giocondo E Betlemme adorò di Dio la gesta. Sorse un inno d'amor dal ciel profondo, Iddio s'unì degli uomini alla festa; Osanna, ognun gridò, redento è il mondo, Ma l'asino ed il bue scosser la testa. L'asino disse: o spalle mie, saprete A suon di verghe se redente siete Quando a Gerusalemme il condurrete! Ed il bue: le mie costole sapranno Un giorno a Cana se redente l'hanno Quando in bistecche me le mangeranno! 27 XIV. Quando cadran le foglie e tu verrai A cercar la mia croce in camposanto, In un cantuccio la ritroverai E molti fior le saran nati accanto. Cògli allora pe' tuoi biondi capelli I fiori nati dal mio cor. Son quelli I canti che pensai ma che non scrissi, Le parole d'amor che non ti dissi. XV. NOIA Aria ferma e corrotta, acque stagnanti, Biscie, zanzare e rane, Sabbie senza confin, corvi vaganti, Donne brutte e villane, Gente ignorante gialla e discortese: Ecco questo paese. Sbadigliando languir solo soletto Lunghi tediosi giorni, Dormire e ricader disteso in letto Finchè il sonno ritorni, Sentir la mente e il core in etisia, Ecco la vita mia. È la vita che move il tenerume Del polipo natante; È il vegetar del verro entro al pattume Del brago ributtante; Un medico direbbe: è un caso bello D'atrofia di cervello. E pur così sempre non vissi, e torna Il mio pensiero ai lieti, Ai cari monti che la vite adorna, Ai tranquilli oliveti, All'innocente riso, alla gaiezza Della mia fanciullezza. Odorati rosai, dov'è rivolta Ogni speranza mia, Dove il mio core amò la prima volta E che l'estrema fia, Questo vi giunga almen lontano addio, Rosai dell'amor mio! Ahi trascinando nella pigra noia Questa vita inamena, Vie più m'è duro il rimembrar la gioia Spensierata e serena Che non curante delibai nel fiore Del mio tempo migliore! O mia Venezia! Allor non conoscea Questi tedi mortali Quand'io soletto in gondola correa 29 La notte i tuoi canali, Da' miei sogni cullato e dalla bruna Onda della laguna! E mirando nell'acqua il tremolio De' pallidi lampioni, E tendendo l'orecchio al mormorio Di lontane canzoni, Io gustavo l'arcana ed infinita Voluttà della vita. O Napoli! O Palermo! O rimembranza De' miei cari vent'anni, O larve liete della mia speranza Di cui piango gl'inganni. Deh, perchè tormentar quest'agonia Che fortuna m'invia? Lasciate consumar stupidamente L'ozioso viver mio Tanto ch'io possa addormentar la mente Nel tedio e nell'oblio: Così riposerò notti tranquille, Così morrò imbecille. S. MARIA DEL SALICE (Maremma toscana) La notte dal 4 al 5 aprile 1870. XVI. Nella capanna in fondo al mio cortile Il luppolo alle canne s'attorciglia; Nell'aria fresca c'è un odor gentile, Odor di gelsomino e di vainiglia. Un'Ebe quasi nuda, alta e sottile, Sorride e spia con le marmoree ciglia De' palombi gli amor sotto al sedile: E il vento del mattin passa e bisbiglia. Bisbiglia e narra di lontane aiuole Gli amor lontani a un popolo giocondo Di gerani fiammanti e di vïole. Quanto amor, quanta gioia in questo mondo Di pochi passi che si desta al sole! Oh quanta vita! Ed io son moribondo. 31 XVII. EBBRO Noi d'Epicuro i sacerdoti siamo, Noi la face d'amor lieta rischiara, Noi l'opulenta mensa abbiam per ara E i cantici di Bacco al ciel leviamo. Frine con noi sacerdotessa abbiamo Che i misteri del Dio calda c'impara, E di Pafo alla Dea libera e cara I canti, i baci, i sacrifici diamo. Noi non abbiam per rito altro che il riso, E non sognamo il travaglioso acquisto D'una noia infinita in Paradiso; Ma l'uggia debelliam del secol tristo In un femineo sen celando il viso, Bevendo in fresco e bestemmiando Cristo. XVIII. Io non voglio saper quel che ci sia Sotto la chioma al bacio mio donata E se nel bianco sen, ragazza mia, Tu chiuda un cuor di santa o di dannata. Che cosa importa a me se una bugia Tra una promessa e l'altra t'è scappata? Che cosa importa far la notomia A quell'ora d'amor che tu m'hai data? Non cercherò se dentro al vin bevuto Ci fosse qualche droga forestiera: Il tuo vino era buono e m'è piaciuto. Io non voglio saper quanto sei casta, Ci amammo veramente un'ora intera, Fummo felici quasi un giorno e basta. 33 XIX. Goethe. Questa notte allungai la passeggiata Sino al balcon della fanciulla mia E vidi un'ombra bianca ed agitata Accennar di lassù verso la via. Un brivido mi corse sotto ai panni: «È un'ora che ci amiamo e già m'inganni! «Perchè, perchè questa finzione orrenda? «Amor mio, che t'ho fatto...?» Era la tenda. XX. Quando tu sarai vecchia e leggerai Questi poveri versi accanto al fuoco Rivedrai colla mente a poco a poco, I giorni in che t'amai. E ti cadrà sul petto il viso smorto, Per la memoria del tuo tempo lieto: A me ripenserai nel tuo secreto, A me che sarò morto. E ti parrà d'udir la voce mia Nel vento che di fuor suscita il verno, E ti parrà d'udir come uno scherno, Una bieca ironia. E la voce dirà: — «Te ne rammenti, Te ne rammenti più? Com'eran belli I tuoi capelli d'oro, i tuoi capelli Sul bianco sen fluenti! Oh come il tempo t'ha mutata! Oh come T'ha impresso in viso i suoi deformi segni! Dove son dunque i tuoi superbi sdegni E le tue bionde chiome? Sola al tuo focolar siedi piangendo La giovanil tua morta leggiadria: Io piango solo nella tomba mia: Vieni dunque: t'attendo! Vieni e se in vita mi fallì la speme Di viver teco i giorni miei sereni, Ci sposeremo nella tomba. Vieni: Vi marciremo insieme». — 35 XXI. CAFFÈ CONCERTO Non più lo scherno di Prometeo suona Superbo in faccia al Dio che lo percuote; Non più sfregia i codardi in sulle gote Il verso che flagella e non perdona: Non più, terror di regi, Eschilo tuona Dalla libera scena e il ferro scuote; Dormono l'ossa del tragedo ignote Lungi dal verde pian di Maratona. Ma Taide mima a sazïar la fame Tenta le reni de' moderni ciacchi Levando il piede nella danza infame; Ma noi giacciamo, nauseati e stracchi Senza un affetto in cor, sul reo letame Di questa sozza età. Noi siam vigliacchi. XXII. Ci siamo amati in faccia al sol raggiante Nel giugno azzurro tra le spiche bionde: Quelle quercie laggiù steser le fronde Sopra le audacie tue, gentil baccante. Le parole più dolci e le più sante Ce le dicemmo tutte, e le gioconde Arti di voluttà ch'altri nasconde Noi le mostrammo tutte al dì fiammante. Ma l'autunno tornò, ma in largo stuolo Tornano i corvi, ed alle selve usate, Dove salimmo insiem, ritorno solo: Ma dal vento d'ottobre assiderate Cadon le foglie delle quercie al suolo... Ahi, l'amor tuo durò quanto l'estate! 37 XXIII. I FILOSOFI SALARIATI2 Or non più tra le rabbie e le contese Povera e nuda va filosofia, Ma fa la ruota a scuola e per la via, Tira la paga e noi facciam le spese. Se regnano la forca e il crimenlese Di San Tomaso fa l'apologia, Se torna in alto la democrazia Inneggia alla repubblica francese. Ah, panciuta camorra di ruffiani Che della verità strame vi fate. Ogni giorno che splende ha il suo domani! A rivederci, maschere pagate, A rivederci, illustri mangiapani, A rivederci sulle barricate! 2 Vedi Les Philosophes salariés, vecchio pamphlet del compianto senatore Giuseppe Ferrari, dalla cui lettura questo sonetto fu ispirato. Ciò per tranquillizzare i filosofi che potrebbero credersi feriti, e poi perchè è la verità. O. G. XXIV. IN MORTE DI UN MOLTO REVERENDO STROZZINO Curia romana non petit ovem sine lana; Dantes exaudit: non dantibus ostia claudit. Antico distico leonino. Intendi tu il lugubre Lamento de' bronzi Sì dolce agli ipocriti Sì bello pe' gonzi? Il tempio rigurgita De' colli più torti Che lieti borbottano La prece dei morti. Requiescant in pace, Requiescant in pace. Imploran que' cantici La pace al banchiere Che pria d'esser nobile Barò al tavoliere. Non dice l'epigrafe Le infamie sepolte, Ma è noto che in Svizzera Scappò sette volte. Requiescant in pace, Requiescant in pace. Rubando al postribolo, Rubando al convento, Prestando al suo prossimo Al cento per cento, Sul ricco e sul povero Stendendo la mano In barba al decalogo Morì da cristiano. Requiescant in pace, Requiescant in pace. Ed ora chinandosi In umile aspetto I preti gorgogliano Battendosi il petto: «Gesù, ricevetelo «Nel coro de' santi; «Gli eredi ci pagano 39 «A pronti contanti! Requiescant in pace, Requiescant in pace. «Pagare! all'intendere «Quest'aurea parola «Il core ci palpita «Di sotto alla stola! «A noi, ricchi e poveri, «La borsa recate; «Sta scritto ne' Canoni «Pagate, pagate! Requiescant in pace, Requiescant in pace. « Di preci e di lagrime «Il ciel non si appaga, «Ma il sommo pontefice «Assolve chi paga. «È ver che gli apostoli «Sprezzavano l'oro; «È ver, ma tenevano «La serva costoro? Requiescant in pace, Requiescant in pace. «De' cieli alla gloria «Volete il diritto? «Pagate, cattolici, «Pagate l'affitto! «È forza che l'anime «Passando Acheronte «Ammansin coll'obolo «Chi fa da Caronte. Requiescant in pace, Requiescant in pace. «Venite, la celebre «La santa Bottega «A prezzi di fabbrica «Vi scioglie, vi lega, «Fa spaccio di meriti, «Cancella peccati... «Venite! I solvibili «Saranno beati!» Requiescant in pace, Requiescant in pace. XXV. Quando scesi di botte al Vaticano Lo svizzero di guardia raffreddato Sternutiva in un modo così strano Che dissi – piove! – e mi tirai da un lato. Egli intese e muggì – Mein herr taliano, Da che paese star ti capitato? Io pronto replicai: Son di Milano: E lei, di grazia, in che cantone è nato? Lo svizzero levò le man pelose, M'afferrò, mi sbattè contro al portone, Ed arrotando i denti mi rispose: – Ti, puzzurre, star nato in un cantone Ma mia città star crande e star craziose: Sso, Ffrascatano, sso, prute pufone! 41 XXVI. LAZZARO I. Soulary. I sozzi lini dal sepolcro scossi, Ancor mal desto Lazzaro piangea E il cupo Rabbi dai capelli rossi Dell'osanna volgar si compiacea. – In che peccai che sì punito io fossi? Il risorto discepolo dicea: – In che dunque peccai che tu m'addossi Tutte le colpe della gente ebrea? Mi dovevi salvar quand'io moria, Ed al sepolcro la mia carne hai tolta Or che nel suo dormir più non soffria. E tu, Rabbi che amai, perchè la stolta Turba in te riconosca il suo Messia, Mi condanni a morire un'altra volta! – XXVII. Nell'aria della sera umida e molle Era l'acuto odor de' campi arati E noi salimmo insiem su questo colle Mentre il grillo stridea laggiù nei prati. L'occhio tuo di colomba era levato Quasi muta preghiera al ciel stellato; Ed io che intesi quel che non dicevi M'innamorai di te perchè tacevi. 43 XXVIII. P. Coppée. Domani ella verrà! – Domani è certo Che il tempo mi parrà lungo, mortale, Quando commenterò sull'uscio aperto Ogni passo che suoni in sulle scale. Verrà! Verrà! Ma perchè dunque incerto Palpito e tremo come un collegiale? Ah, purchè tutto non sia già scoperto! Purchè la mamma non sospetti il male! Dentro una voce sussurrarmi sento: Verrà... doman verrà! Chi più l'aspetta Lo ritrova più dolce il gran momento! Come calda sarà la prima stretta Della sua man tremante e lo spavento De' primi baci dietro alla veletta!3 3 Veramente sull'ultima parola di questo sonetto nell'originale è una cancellatura; ma nessuna parola fu sostituita. Sappiamo bene che veletta nel senso di piccolo velo e specialmente di quello che portano le donne sul cappellino, non è voce ortodossa, anzi gallicismo atroce, ma non oseremmo mettere le mani in roba d'altri. Chi in queste cose soffre il solletico, chiuda gli occhi e immagini una filza di puntini. O. G. XXIX. Magre virtù che vi scandolezzate Se una donnina mostra un po' le spalle, Verginità feroci e stagionate Dai denti lunghi e dalle labbra gialle, Chiudete la finestra e non guardate In questa nostra lacrymarum valle, Tornan col maggio alle nequizie usate I fior, gl'innamorati e le farfalle. Chiudete gli occhi! Tornano ai capelli Delle fanciulle i fior, tornano al prato Fino l'agne di Cristo a far gli agnelli. Chiudete il libro mio scomunicato Che vi potrebbe dir come son belli Maggio, le peccatrici ed il peccato. 45 XXX. La guardi – mi diceva il sagrestano – La guardi un poco qui questa pianeta Con questi sbuffi di velluto in seta, Se son cose da semplice piovano! Ma che le pare! Un parroco, un cristiano Lisciarsi a mattutino ed a compieta Colla delicatezza d'un poeta Quando il papa è prigione in Vaticano! Un anno fa ci venne un monsignore, Un personaggio illustre, un letterato Che scrive appunto nell'Osservatore. Quello sapeva andar come va andato! Era tutt'unto, povero signore, E intabaccato, veda, intabaccato!!... XXXI. Conosco un vagabondo De' più straordinari Che sciupa i suoi denari Senza un costrutto al mondo. Disutilaccio e tondo Viaggiando senz'affari, Ozia in tutti i più vari Siti del mappamondo. Certe lingue di fuoco Che nel mese passato Lo chiamavan dappoco, Ora l'han battezzato... Indovinate un poco? Francobollo di Stato! 47 XXXII. Sozzo di fango come un animale, Poco vestito come un africano, Incontrai di Ripetta in sulle scale Il padre Tebro con un piego in mano, E gli gridai: – Ma che pazzia t'assale Così col fresco, gran fiume romano, D'andare a zonzo per la capitale Con questi calzoncini di pantano? – Nella sua bianca barba d'eremita In tono d'ironia ghignò il vecchione, E mi rispose: – O che? non l'ha capita? Col biglietto che vuol l'educazione Porto l'augurio d'una lunga vita A quei signori della Commissione. – 1 gennaio 1874. XXXIII. Penelope sei tu che il ciglio china Ma che non china il viso intemerato, Che la calunnia, i proci ed il peccato Sfida colla virtù quasi divina. Te delle amiche tue fin la caina Lingua e l'invido dente han rispettato. Tu non sembri di carne. Iddio t'ha dato La sacra maestà d'una regina. La veste meno che il pudor ti vela Quando superba nelle danze vai, Ed un tuo sguardo il desiderio gela. Penelope sei tu, che tesser sai A mezzogiorno la tua bianca tela E meco a mezzanotte la disfai. 49 XXXIV. Questa notte in battello, in alto mare Del mondo ci eravam dimenticati: Ci dicevamo le parole care Che san soltanto dir gl'innamorati. E sentivam la voluttà cullare I lieti sogni, i sogni nostri usati, Ed alle labbra su dal cor montare Quei discorsi d'amor che son peccati. Quand'ella tacque da un pensier colpita E dall'omero mio la testa bionda Improvvisa levò come atterrita, E colla faccia stranamente fissa, Nella notturna tenebra profonda, Taci – mi sussurrò – laggiù c'è Lissa. Rimini, luglio 1869. XXXV. Quando nell'ombra de' tuoi neri occhioni Improvvise balenano e procaci Le cupidigie che arrossendo taci E mi tenti e mi sgridi e mi perdoni; Quando, fingendo di negar, mi sproni Co' tuoi sorrisi alle carezze audaci Ed alle mie lascivie ed a' miei baci L'umida bocca e l'anima abbandoni; Quando a' ginocchi delirar mi vedi, E il silenzio ci avvolge e il dì s'invola E non contendi più, ma sol concedi; Oh, se d'amore eterno una parola M'esce dal labbro allor, credila, credi, Poichè s'ama così una volta sola. 51 XXXVI. A VENEZIA Sei pur bella, Venezia, in mezzo all'onde Specchio tranquillo ai monumenti alteri! Sei pur bella, canzon de' gondolieri, Cui dal Lido muggendo il mar risponde! Amo, Venezia, le tue vie gioconde, Già testimoni dei domati imperi, Amo i palagi tuoi superbi e neri E le tue donne dalle treccie bionde. V'amo, templi ove splende ogni tesoro E d'arti e di memorie, ove Tiziano Pingea fanciulle dai capelli d'oro. V'amo, trofei rapiti al mussulmano Di Candia e di Morea: v'amo e v'adoro, Sogliole fritte e vin di Conegliano. XXXVII. Kennst du das Land...? GOETHE. Conosci tu il paese Dove non s'è mortali, Dove alla fin del mese Non scadon le cambiali? Quell'Eden ben pasciuto Pieno di facce grasse Che non han mai veduto L'agente delle tasse? Conosci tu il paese Che non conosce i preti, Le bettole, le chiese, Le ciarle dei poeti? Dove non c'è soldati, Dove non c'è catene, Dove gl'innamorati Si voglion sempre bene? Ivi nessun ha detto Che donna dice danno, Perchè lassù l'affetto Esse scontar non sanno. Oh, chi trovar sapesse Un'anima cortese Qualunque, che potesse Mandarti a quel paese! 53 XXXVIII. MEMORIE BOLOGNESI4 A Giovanni Vigna Dal Ferro. Vigna, nel mio cortil nereggia un fico L'albero sarto del gran padre Adamo: Io pranzo all'ombra de' suoi rami e dico: – Vecchia Bologna, t'amo! T'amo, del senno antico antica madre, E un tesoro d'affetti in cor rinchiudo Per le tue donne dalle occhiate ladre Pel tuo gigante nudo. O San Michele, anch'io ci son passato Per le tue strade solitarie e belle E mi scorgeva un luccicar velato Di lucciole e di stelle, Nell'ora queta in cui l'odor de' prati Umido sal da' tuoi valloni foschi, Nell'ora in cui le serve ed i soldati Spariscon ne' tuoi boschi. Sul tuo monte tessei romanzi anch'io, Profumati di cinnamo e di mirra E il salario pagai dell'amor mio Con un bicchier di birra. Fu all'ombra de' tuoi viali, o San Michele, Ch'io la trovai la donna del mio core, La giovinetta che mi fu fedele Quasi ventiquattr'ore! Coi gomiti sul ponte ella volgea, Come una santa, al ciel le luci belle, Ed io, poichè l'amor già mi tenea, 4 Questa poesia diretta a G. Vigna Dal Ferro, ora nell'America del Nord, è la sola di argomento esclusivamente bolognese che ci permettiamo di inserire in questa raccolta. Ai non bolognesi che non conoscono il Nettuno del Giambologna che il popolino chiama il gigante ed ignorano le ombre della Villa Reale di San Michele in Bosco, non sarà inutile dire che Sant'Isaia e Via Toschi sono due strade bolognesi: che il Caffè delle Scienze possedeva una fioraia arrivata alla celebrità per aver rappresentato la moglie di un Lucumone Etrusco in una mascherata; che in piazza della Pace nei venerdì sera d'estate la banda musicale cittadina rallegrava il numeroso pubblico coi suoi concerti. In quell'epoca fanatizzavano i brani dell'opera I Goti del Gobatti, così ingegnosamente difesi dall'illustre critico Enrico Panzacchi. Quanto al biondo Ottone è un buon birraio vürtemburghese, biondo così così, poichè l'emistichio è rubato al Carducci, e che vende la birra di Vienna appunto in piazza della Pace. — Le spiegazioni sono lunghe, ma volendo inserire la poesia già stampata nel giornale bolognese La Patria, allora diretto dal Vigna Dal Ferro, erano troppo necessarie. O. G. Chiesi – guarda le stelle? – Ella chinando gli occhi di colomba, Gli occhioni di colomba innamorata, Rispose – no: sto qui a sentir la tromba Suonar la ritirata. – Era bionda e pareva un'angioletta, Una cosa di ciel che non ha nome E come un casto odor di mammoletta Uscìa dalle sue chiome. Io le dissi – fanciulla, Iddio ci sente: La gran parola in faccia a lui diciamo! Di', giovinetta bionda ed innocente, Di', vuoi tu amarmi? Io t'amo. – Ella rispose – come sei gentile! Stiamo in Sant'Isaia, numero tale La porticina in fondo del cortile, Su due rami di scale. – . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Basta così. – Non posso più badarvi, Care memorie del mio tempo antico: Ci leggono le mamme e per velarvi Dovrei sfogliare il fico. E tacerei – ma tu, Vigna, mi scrivi: – Mercutio, a che ti duoli? Lascia strillare noi bruciati vivi Da questi atroci soli: Noi che cuociamo, noi dobbiam strillare Diventati frittura; Tu vivi al fresco, in faccia al cielo, al mare, All'immensa natura! – Tu dici ben, Giovanni mio, fedele E poliglotto amico: Veggo nel glauco mar le bianche vele Pranzando sotto al fico, M'allegran gli occhi la marina azzurra E le campagne opime: Freddo un ruscel nel bosco mio susurra: 55 La natura è sublime! Ma questa carne di somaro infame La pago per vitella, Questo carton lo pago per salame... Oh, cara mortadella! D'acqua e di poesia gonfio il ruscello Fugge laggiù nei boschi, Ma il rigagnolo mio com'è più bello Che passa per via Toschi! E come cambierei questa ficaia, Questa vista divina, Col Caffè delle Scienze e la fioraia Degli Etruschi regina! Canta sul fico mio la capinera, Ma se non ti dispiace Io preferisco un bel venerdì sera In piazza della Pace, Quando Antonelli col cheppì alla sgherra E lo spadon sui tacchi Cava gli applausi e i bis di sotto terra Coi Goti del... Panzacchi. O bei venerdì sera! Il biondo Ottone Versa birra gelata, Gli zerbinotti vanno in processione Dietro la fidanzata; E le ragazze van dove c'è chiaro Per mostrare il vestito E pescar colle occhiate il pesce raro Che chiamano marito. Questa è la poesia, la vita, il moto Che le mia mente sogna... È pieno il mio bicchier – senti? – Lo vuoto Per te, vecchia Bologna! Per te, Bologna mia! Canti chi vuole La natura, le pecore, i pastori, Questo feroce sole E questo bosco pien di raffreddori. Venga l'arcadia a strimpellar canzoni All'infinito mare, al ciel turchino, Ai naufraghi mosconi Cascati ad annegar dentro al mio vino. Io nato ai gaudi del consorzio umano, Alle battaglie dell'intelligenza, Del robusto villano Non invidio le spalle e l'innocenza: Ma invidio voi che per le arroventate Vie cittadine a lavorar movete, Voi che m'invïdiate, Voi che siete felici e nol sapete. Non gridate cogli Arcadi e coi preti: – Lungi dalle città, lungi dal vizio. – Son ciarle di poeti: L'innocenza dei campi è un pregiudizio. Ecco una donna là, sull'erba verde Laggiù lungo la via che al bosco adduce, E il suo profil si perde Sfumato nell'azzurro e nella luce. Chi sarà? dove va? La chioma bionda Saettata dal sol da qui si vede: Ella guata sull'onda, Guata pei campi, origlia e poi procede. È la più bella bimba del villaggio, La più cara di tutte e la conosco; Perchè questo viaggio? Che diavol cercherà laggiù nel bosco? Che si tratti d'amor? No certamente: Troppo il pudor sul volto suo si vede, Ella è troppo innocente... No, no, mi sbaglio!.. Oh Dio, che mai succede? Esce un uomo dal bosco... è un uom davvero!.. Io che nel fuoco avrei messo la mano! Madonna, come è nero! Ah... corpo d'una bomba!... è il cappellano! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Basta, basta così – Non è più al trotto. È alla carriera che si va – Fermiamo – E tu mio bel strambotto Vanne a Bologna e per me dille: – Io t'amo, T'amo ed affretto il dì del mio ritorno, 57 T'amo, t'adoro, t'idolatro e dico: S'io ti scordassi un giorno Ch'io dondoli appiccato a questo fico! – Falconara, 1874 XXXIX. IRA Cieco! e il balen d'un'ironia feroce Non ti vedea sul viso E ti chiedevo colle mani in croce La pietà d'un sorriso. Come un bambino a te davanti gli occhi Trepidando chinai, Come un can flagellato a' tuoi ginocchi, Vile, mi trascinai; China l'altera fronte, io t'ho baciato Il lembo delle vesti, Ho sofferto l'inferno, ho bestemmiato, Ho pianto... e tu ridesti. Mi levo adesso dal codardo oblio, Le mie catene spezzo, Mi vergogno di te, dell'amor mio: Mi levo e ti disprezzo. Or di', se il vuoi, che per te sola ho pianto, Vinto, curvato, umíle! Io, te straziando nell'audace canto, Dirò quanto sei vile. 59 XL. IL CANTO DELL'ODIO Quando tu dormirai dimenticata Sotto la terra grassa E la croce di Dio sarà piantata Ritta sulla tua cassa, Quando ti coleran marcie le gote Entro i denti malfermi E nelle occhiaie tue fetenti e vuote Brulicheranno i vermi, Per te quel sonno che per altri è pace Sarà strazio novello E un rimorso verrà freddo, tenace, A morderti il cervello. Un rimorso acutissimo ed atroce Verrà nella tua fossa A dispetto di Dio, della sua croce, A rosicchiarti l'ossa. Io sarò quel rimorso. Io te cercando Entro la notte cupa, Lamia che fugge il dì, verrò latrando Come latra una lupa. Io con quest'ugne scaverò la terra Per te fatta letame E il turpe legno schioderò che serra La tua carogna infame. Oh, come nel tuo core ancor vermiglio Sazierò l'odio antico, Oh, con che gioia affonderò l'artiglio Nel tuo ventre impudico! Sul tuo putrido ventre accoccolato Io poserò in eterno, Spettro della vendetta e del peccato, Spavento dell'inferno: Ed all'orecchio tuo che fu sì bello Sussurrerò implacato Detti che bruceranno il tuo cervello Come un ferro infocato. Quando tu mi dirai: perchè mi mordi E di velen m'imbevi? Io ti risponderò: non ti ricordi Che bei capelli avevi? Non ti ricordi dei capelli biondi Che ti coprian le spalle E degli occhi nerissimi, profondi, Pieni di fiamme gialle?... E delle audacie del tuo busto e della Opulenza dell'anca? Non ti ricordi più com'eri bella, Provocatrice e bianca? Ma non sei dunque tu che nudo il petto Agli occhi altrui porgesti E, spumante Licisca, entro al tuo letto Passar la via facesti? Ma non sei tu che agli ebbri ed ai soldati Spalancasti le braccia, Che discendesti a baci innominati E a me ridesti in faccia? Ed io t'amavo, ed io ti son caduto Pregando innanzi e, vedi, Quando tu mi guardavi, avrei voluto Morir sotto a' tuoi piedi. Perchè negare – a me che pur t'amavo – Uno sguardo gentile, Quando per te mi sarei fatto schiavo, Mi sarei fatto vile? Perchè m'hai detto no quando carponi Misericordia chiesi, E sulla strada intanto i tuoi lenoni Aspettavan gl'inglesi? Hai riso? Senti! Dal sepolcro cavo Questa tua rea carogna, Nuda la carne tua che tanto amavo L'inchiodo sulla gogna, E son la gogna i versi ov'io ti danno Al vituperio eterno, A pene che rimpianger ti faranno Le pene dell'inferno. 61 Qui rimorir ti faccio, o maledetta, Piano a colpi di spillo, E la vergogna tua, la mia vendetta Tra gli occhi ti sigillo. XLI. SCRITTO SOPRA UN SASSO Voi che salite questo verde monte E il silenzio cercate Dov'è più folto il bosco e chiaro il fonte, Anime innamorate, Pietà di me! Sul margin della via Seggo soletto e gramo: Ahi grave, amanti, è la sventura mia! Pietà di me! Non amo. 63 XLII. NOZZE No, non chinar pensosa Gli occhi e la fronte onesta; Ecco la stanza ascosa, L'ara d'amore è questa. Qui la ghirlanda posa, Scingi la bianca vesta, E sul guancial di sposa Piega, gentil, la testa. Apri all'amor le braccia E gli spaventi insani Del tuo pudor discaccia; No, colle bianche mani Non ti velar la faccia... Arrossirai domani. XLIII. V. Hugo. S'io fossi ricco, d'oro e di gioielli Ti vorrei ricoprir da capo a piede: Se fossi Papa, per quest'occhi belli In Vatican rinnegherei la fede: S'io fossi Imperator del mondo intero, Sol per un bacio tuo darei l'impero: S'io fossi Dio, con me ti condurrei Ed in ginocchio in ciel t'adorerei. 65 XLIV. Quando al fuggir della stagion nevosa Il verde april saluterai risorto, Nel tuo giovane cor più rigogliosa Palpiterà la vita. Io sarò morto. Amor trascorrerà di cosa in cosa Fino al fior della tomba ov'ei m'ha scorto: Dal cor mi crescerà per lui la rosa Come vivendo il verso mio v'è sorto. I canti del mio cor li hai colti, è vero, Ma i fiori, ohimè, non li raccoglierai! Chi li raccoglie i fiori in cimitero? Tu di novelli amor lieta, darai Domani ad altri il bacio ed il pensiero, E più di me non ti ricorderai. XLV. NOZZE E la rosa dicea: baciami, o sole, De' tuoi più caldi e più fecondi baci, Suscita ne 'l mio sen vie piú vivaci Le fragranze di maggio: io son tua prole. Fammi la più gentil di queste aiuole Chè non de le farfalle a le fallaci Carezze ed a 'l desio de l'api edaci Primavera mi crebbe: amor mi vuole. D'una dolce fanciulla io son disio, Al dì de le sue nozze io son serbata, E ne la notte estrema al viver mio Da la sua fronte verginal staccata Su 'l talamo gentil vittima anch'io, Con l'innocenza sua morrò beata. 67 XLVI. IL GUADO IDILLIO Fiume che scendi giù dal Bolognese, Fiume dall'acqua cristallina e cheta, O caro fiumicel del mio paese, Tu sol m'hai fatto diventar poeta: Tra i floridi giuncheti e la cortese Delle tue fresche rive ombra segreta, Tra la verdura tua serrata e folta Ho conosciuto amor la prima volta. Sovra la sabbia d'or della tua sponda Con un fruscìo gentil l'acqua fuggiva, E là dov'è più chiara e men profonda Noi dovevam passar sull'altra riva. Ella cantava e la canzon gioconda Laggiù, laggiù tra i salici moriva: Ella era bionda, bella ed io l'amavo: Glielo volevo dire, e non l'osavo. Stretti, serrati insiem come due sposi Delle prime carezze all'indomani, Soli camminavan per misteriosi Silenzi, all'ombra delle querce immani: E dalle vesti sue, dagli odorosi Capegli usciano quei profumi arcani, Quei profumi di carne e di salute Che vanno al cor per vie non conosciute. Al margine del guado alfin venuti Un pensiero ci colse all'improvviso, E così ci fermammo irresoluti, Così tra la vergogna e tra il sorriso. Eravamo soletti e non veduti Ed arrossendo ci guardammo in viso; Con un fruscìo gentil l'acqua fuggiva E dovevam passar sull'altra riva. Pur mi feci coraggio e dissi: vieni, Vieni, ti porterò tra le mie braccia: Ella disse di sì, rise e i sereni Occhi mi fisse arditamente in faccia. Io mi sentii fuggir su per le reni La voluttà come una lama diaccia; La lingua ribellossi alla parola E il cor parea che mi saltasse in gola. Chinato sopra l'erba io mi scalzai; Ella avea gli occhi bassi e pur guardava; La presi in braccio e dentro all'acqua entrai... Io me la presi in braccio, io che l'amava! Così la prima volta mi serrai Forte contro al suo sen che palpitava Come una colombella spaurita Palpita nella man che l'ha ghermita. O bei piedini così ben calzati, Per non guardarla in viso io vi guardava, Per non veder quegli occhi spaventati Dove il sorriso col timor lottava! Sotto a' miei diti stretti ed agitati Cedea la carne e il busto scricchiolava E l'alito gentil del suo sorriso Caldo e procace mi saliva al viso; E si serrava al petto mio, mettendo Ad ogni passo un riso di spavento, Ed una ciocca di capegli, uscendo Di mezzo all'altre, m'irritava il mento. Le vidi in viso balenar fuggendo Il riflesso dell'acqua, e in quel momento Divenni forte e non v'ho più guardati, O bei piedini così ben calzati! Ebbi il coraggio di guardarla in faccia, Di guardarla negli occhi e non tremai; La sua carne fremea tra le mie braccia, Eravam sulla riva e mi fermai; E la mal chiusa veste aprìa la traccia Di candidi misteri e li guardai, Finchè mi vinse amor... Caddi a ginocchi, La baciai sulla bocca e chiusi gli occhi. Che cosa avvenne poi? Vide ed intese L'acqua del fiume cristallina e cheta, E tu fiume lo sai del mio paese, Tu che m'hai fatto diventar poeta; Lo sanno i tuoi giuncheti e la cortese Delle tue fresche rive ombra segreta E la verdura tua serrata e folta Dove conobbi amor la prima volta. 69 XLVII. SPES, ULTIMA DEA Ho detto al core, al mio povero core: – Perchè questo languor, questo sconforto? – Ed egli m'ha risposto: – È morto amore! – Ho detto al core, al mio povero core: – Perchè dunque sperar se amore è morto? E m'ha risposto: – Chi non spera, muore. – XLVIII. Quando schizzan le sorche innamorate Dalle tue fogne, o Roma, ed alla smorta Luce de' tuoi fanali, in sulla porta Pipan le cortigiane inverniciate, E giù per le straduccie addormentate Urlano gli ubrïachi e nella morta Nebbia che il sacro fiume al Ghetto porta Fermentan le immondizie accumulate: Memorie di grandezza e di spavento, Moli di gloria e di vergogna piene, Io vi passo vicino e non vi sento. Altro amor che di voi m'arde le vene! Collatino non c'è, Bruto è contento E Lucrezia m'aspetta e mi vuol bene. 71 XLIX. A CAROLINA Ah, vile! vile! Il tuo sereno riso, L'onesto detto, il verecondo viso, Furon dunque menzogna! Nè t'acciecò la disperata fame, Nè d'un amante la lusinga infame Ti spinse alla vergogna, Quando la prima volta al bacio osceno Nudo porgesti il giovanil tuo seno E la guancia rosata, Quando la veste verginal scingesti Sulle coltri del ricco e ti facesti Cortigiana sfacciata! Ma nel cor basso e nella mente rea Libidinosa cupidigia ardea Allor che in orgie liete Non arrossisti al nome vil di druda E, calda Frine, spasimasti ignuda In lascivie secrete! Strisciati dunque d'una donna ai piedi, O giovinetto, e delirando chiedi Baci, carezze, amori; Piangi, sanguina, impreca e derelitto Trascinati alla tomba od al delitto: Ecco l'idol che adori! Ecco la donna! Il duol tuo disperato Per lei sarà trionfo e le fia grato Il rider de' tuoi pianti, Il novellar dell'amor tuo tradito Nelle impudiche veglie e nel convito Tra le tazze spumanti. Deh, guardate! L'amor che le sfavilla Nel molle tremolar della pupilla Ella non l'ha nel core: I blandi detti suoi sono mendaci, Il sorriso è bugiardo, i lunghi baci Non son baci d'amore! Ecco il pudor vantato, ecco la bella Modestia femminil che il mondo appella Alito sovrumano! O invocata virtù, dove t'ascondi? Ti chiedemmo all'istoria, al cielo, ai mondi, Ma ti chiedemmo invano. Quasi un candido vel tu ci parevi, Quasi un dolce mistero, e contendevi Alle mortali brame Un'incognita Dea; ma ti strappammo, Ma dietro al bianco vel non ritrovammo Che una baccante infame. 73 L. Noi sentiamo il furor delle baccanti, L'estasi santa degli anacoreti Siamo i martiri noi, siamo i profeti Noi che gridiamo al mondo, avanti, avanti! Parliam coi fiori e colle stelle erranti, Amor ci disse tutti i suoi segreti: Solo a noi, nati all'Arte, a noi poeti, Prorompono dal cor gl'inni sonanti. O banchieri, o droghieri, a più dannose Arti lo sprezzo e l'ironia serbate; Noi non cerchiam le utilità dolose, Noi non falsiamo i pesi e le derrate. Che colpa c'è nel preferir le rose Alle candele, al pepe, alle patate? LI. BRINDISI Minister vetuli puer Falerni Inger mi calices amariores. CATULLI. Carm. — Di lunghi canti la notte suona, Dal crin mi pende rosea corona E nel convito tendo il bicchiere... Servo, da bere! Folle! d'amore tentai la via, Amai con tutta l'anima mia, Per lunghe notti cupo vegliai, Piansi, pregai... Folle! Chi brama femineo core Serrar ne' lacci del vero amore, Abbia sul labbro lusinghe infami, Menta e non ami. Morì la fede, la speme, tutto, E di me stesso io porto il lutto. Riposo ai morti... non al bicchiere: Servo, da bere! — 75 LII. Ella dicea: tu non sei mai giocondo, Io non t'ho mai veduto inginocchiato: Perchè il tuo sguardo par così profondo E il tuo riso beffardo ed agghiacciato? Io le dicea: sovra il tuo capo biondo L'atroce dubbio non ha mai pesato; Io con questa ironia sorrido al mondo Da che la prima volta ho dubitato. Ella dicea: l'anima tua non crede Al Cristo, al tuo custode angelo pio? L'occhio della speranza in te non vede? Io le dicea: tu sei l'angelo mio, Tu sei la mia speranza e la mia fede: Parla d'amore e non parlar di Dio. LIII. Emma, ti lascio a tavola Ed io ritorno a casa a prender fiato. Bevi, bevi a tuo comodo, Sta tranquilla, chè il conto è già pagato. Son diventato pallido? Ci son avvezzo: non è nulla, taci. M'han guastato lo stomaco Le polpette dell'oste ed i tuoi baci. 77 LIV. Forse una volta al tuo balcon seduta, Delle tremule stelle ai bianchi rai, Lontan lontano per la notte udrai Un grido che si spegne e ti saluta: Qui tra i fior dove prima t'ho veduta Una lacrima un dì ritroverai, Ma ti parrà rugiada e coglierai Pe' tuoi capelli i fior dov'è caduta. No, rugiada non è che al tremolío Del sol biancheggia come vivo argento, Ma le vestigia son del pianto mio; No, quel grido, non è grido del vento, Ma son io che mi muoio e che t'invio L'ultimo bacio e l'ultimo lamento. LV. MEMENTO IN UN ALBUM Quando lettrice mia, quando vedrai Impazzir per le strade il carnovale, Oh non scordarti, non scordarti mai Che ci son dei morenti all'ospedale! Quando bella e gentil, tu salirai Di liete danze alle sonanti sale, Volgiti indietro e la miseria udrai, La miseria che piange in sulle scale. Quando ti riderà negli occhi belli, Come un raggio di sol giocondo, amore, Pensa che amor non ride ai poverelli. Quando ti specchierai, ti dica il core, Che una perla rapita ai tuoi capelli, Solo una perla può salvar chi muore. Carnovale del 1869 79 LVI. Caro fior di gaggìa, dove sei nato? Forse nell'orticel d'una beghina Che la tua piuma d'oro intabaccava Quando beatamente ti covava Col naso ogni mattina? O non piuttosto, di', non sei sbocciato Sulla finestra della donna mia? Dimmi, l'alito suo non t'ha sfiorato, Il suo labbro gentil non t'ha baciato, Caro fior di gaggìa? LVII. AD UNA GIOVINETTA CIECA Oh, non dolerti, no, bella infelice, Se veder non t'è dato il nostro mondo. Così bello non è, così giocondo, Povera cieca, come il cor ti dice! Tu la bestialità fornicatrice Ghignar non vedi agli occhi nostri in fondo. A te il desìo brutal, l'istinto immondo, La nostra infamia a te veder non lice. Scorda i fantasmi che la mente sogna, E il perduto veder di che ti duole: La beltà cui tu credi è una menzogna. Tra l'erba verde e le fiorite aiuole Trascina il rospo vil la sua vergogna; Beati gli occhi che son chiusi al sole! 81 LVIII. Ci si sta tanto bene accanto al fuoco, In casa mia, coi piè sovr'al tappeto, Con un libro che sfoglio a poco a poco, Il caffè sul camino e il polso cheto! Come nel mio pensier contento evoco Le fatiche del dì; come ripeto Basso dentro di me, quasi per gioco: «Sei pur felice tu nel tuo segreto!» Egoista! dirai tu che di savi Sillogismi ti pasci e di fastidi; Ma mentre tu ti sdrai ne' libri gravi, Guarda, ridon per me sereni e fidi Gli occhi dell'amor mio, gli occhi soavi: Egoista! dirai... ma tu m'invidi. LIX. Le tue carezze le conosco io solo E il tuo guancial per me non ha segreti: Viviam di notte come il rosignolo E come lui cantiam sotto i roseti. Guai se potesse dir quel letticciolo, Se potessero dir queste pareti Che baci ardenti come il vetriolo, Ch'ebbrezze, che follie tu non mi vieti! Guai se sapesse alcun fino a che cosa Ti trascina la carne e che certami, Che strane voluttà tenti furiosa! E pur tu che mi cerchi e che mi chiami Sol ch'io ti manchi un'ora, e sei gelosa E soffri e piangi e bruci, e pur non m'ami! 83 LX. Chi potesse ridir quanto l'amai Questa bianca beltà che par di cera, Questa beltà che non sorride mai, Che mai non piange e s'abbandona intera! Quante volte a quest'occhi domandai Un lampo sol di voluttà sincera, E quante volte l'anima cercai Nel bacio suo, ma l'anima non c'era; E quante volte nel secreto letto Questo foco fatal che mi divora, Folle, tentai di suscitarle in petto; E quante volte del dolor nell'ora, Quando sanguina il cor, l'ho maledetto Questo spettro d'amore, e l'amo ancora! LXI. T'ho fatto il precettore, Ragazza, e ne son stanco; Non t'ha fatta migliore La scuola e me nemmanco. Io mi volea l'amore, Non la lussuria al fianco, Io ci voleva un core Sotto al tuo seno bianco; Ma tu la poesia La cerchi nei conviti Grassi alla trattoria. Dunque finiam le liti: Scappa, ragazza mia, Noi non ci siam capiti. 85 LXIII. NEERLAND Vorrei stare in Olanda Ad Harlem, a Nimega od a Groninga, Perdermi nella pace veneranda Della vita fiamminga. Gli aranci m'han seccato, M'annoiano i gelati e il vin di Chianti; I giornalisti poi m'han stomacato E i frati zoccolanti. Oh, questo sol di brace, Quest'odio senza fin come mi stanca! Datemi un po' di nebbia, un po' di pace E una casetta bianca, Una casetta, e il mare Vicino all'uscio e cacio in abbondanza, Una raccolta di bottiglie rare E la santa ignoranza. Oh, come i dì modesti In quella dormirei pace profonda, E tu, ragazza mia, come saresti Grassotta e rubiconda! Porterei le brachesse Colla bonarietà d'uno scabino: Tu m'accompagneresti alla kermesse In cuffia e gamurrino. Ivi seduti accanto, Parleremmo d'amor tranquillamente; La birra bionda spumerebbe intanto Nel boccal rilucente. Tu colla tua gioconda Voce sussurreresti una ballata, Io succhierei con maestà profonda La pipa smisurata. E in quest'ozio sublime Tabacco fumerei, non porcheria, Non il pelo, gli stracci ed il concime Della nostra Regia. Là non ci son contese Di neri, di scarlatti e di turchini: Là nella sabbia del natio paese Dormono i contadini. Là nessun vi domanda Impieghi, dividendi o beveraggi... Oh, benedetti della mite Olanda Pacifici villaggi! Villaggi fortunati Che non avete nè carabinieri, Nè superbia di sindaci avvocati, Nè preti cavalieri! 87 LXIII. Era d'inverno, tardi, e sedevamo Accanto al fuoco, soli, imbarazzati, E, parlando del tempo, arrossivamo Come due collegiali innamorati. Ella chinava gli occhi al suo ricamo, Verso il soffitto io li tenea levati; Non si direbbe, eppur ci vedevamo Meglio che se ci fossimo guardati. Ed io pensava – Sol per un sorriso Ti darei dell'ingegno i fior più belli E il sangue giovanil delle mie vene... – Quand'ella si levò pallida in viso, Mi cacciò le due man dentro ai capelli E – senti – rantolò – ti voglio bene! – LXIV. DOPO LE NOZZE Iam pulcra quidem Diana, Iam Pleiades occiderunt, Iam nox media est et hora Iam praeterit: ipsa vero Ah! sola cubo misella! SAPHO: Fragm. apud Ephest. Dal tuo fiume regal sulla fiorente Riva natia, te bionda ed innocente E bella un dì mirai Seguir bambina le farfalle al volo. Ed io fanciullo disamato e solo Quel giorno t'invidiai. Ma ti rividi. Alle bugiarde feste Pensierosa salivi e fra le teste Chinate a te d'intorno Forse una fronte amica in van cercavi E libero sol io fra tanti schiavi Ti compiansi quel giorno. Quando, invocata dagli amanti, in cielo Spiega la notte l'ingemmato velo, Quando per ogni cosa Un alito d'amor tepido vola, Nel talamo regal forse tu sola Piangi, negletta sposa. Deh, quante volte forse, ignudo il petto, Tu ti levasti sul tradito letto E l'orecchio tendendo Ai notturni rumor – viene! – dicesti – Ecco il suo passo! – e sola ricadesti Sull'origlier piangendo! Deh, quante volte forse alla stagione In che sboccian le rose, al tuo balcone Vegliasti palpitando! E la luna splendea come d'argento E nella selva sussurrava il vento Tra le fronde aleggiando. Teco forse pensavi: – Oh se potessi Tra l'ombre anch'io vagar di quei recessi Al braccio d'un amante! 89 Su quei fiori posar, presso quell'onde E sentirmi baciar le treccie bionde Da una bocca tremante! Deh, perchè lieta d'un natal modesto Disposata non fui lunge da questo Talamo lacrimato, Dove ignota è d'amor la gioia pura, Dove il bacio si pesa e si misura Colla ragion di stato! T'amaron tutti un dì, fior del mio nome, Ma del fiore che ier ci ornò le chiome Oggi chi si sovviene? Povero fior che porti il nome mio, Non senti tu venir l'estate? Anch'io Sento l'odio che viene. – Invan piangendo amor che t'abbandona Sotto il peso fatal della corona Pieghi la fronte bianca Qual margherita che nel maggio ardente China il pallido fior chiuso, morente, Poichè l'umor gli manca. A' tuoi servi pietà domandi invano: Te calunnia ghignando il cortigiano: Te copre il vil di fango: Sol io che libertà difendo e bramo, Sposa e figlia di re t'odio, non t'amo, Ma donna ti compiango. LXV. RESTITUENDO UN RICCIO DI CAPELLI BIONDI Questi capelli tuoi ch'oggi ti rendo Quando dal vecchio scrigno io li levai, Forse tu non lo credi, io li baciai... Tu non lo credi, io li baciai piangendo, Chè l'eco ancor della tua voce intendo Fremer fra queste mura ove t'amai. E tu quei dì non li ricordi mai, I bei dì che vivemmo insiem ridendo? Tu dicevi d'amarmi e in fe' del vero Protendevi le palme in faccia a Dio... Oh, il giuramento tuo com'è sincero! Ma forse più tu nol ricordi, ed io Per cancellarlo alfin dal mio pensiero Bacio questi capelli e te li invio. 91 LXVI. La grigia nebbia di novembre ammanta Del paterno villaggio i casolari, Stridono i tizzi verdi in sugli alari, Geme il vento di fuori e il corvo canta. Oggi le donne pie disser la santa Prece dei morti a piè de' bruni altari, Ogni pietra, ogni croce oggi è compianta Dove dormon sepolti i nostri cari. Ma sono agli altri questi dì men gravi, Ma lieto il padre narra oggi al figliuolo Le antiche gioie e le virtù degli avi, Ma l'amor, la famiglia ad ogni duolo Recan oggi conforto e più soavi Sono i sorrisi, i baci... ed io son solo. LXVII. 'PER AMOR DI DIO' 'Signor la carità per un pezzente! Veda, ho fame... son nudo!... Per amor del suo Dio' – 'Non ti do niente!' – 'Per gli occhi del suo amor!' – 'Prendi uno scudo'. 93 LXVIII. Quando scroscia la piova e fischia il vento E nella notte latra la tempesta, Se dal freddo origlier levo la testa Chiamarmi da lontano un urlo sento; E sui cubiti allor pien di spavento Mi levo, ascolto e il respirar s'arresta... Ahi, la conosco, la conosco questa Implacabile voce di lamento! Eppur nella città dorme ogni cosa, Eppur l'eterno oblio l'ossa conforta Sotto le pietre bianche alla Certosa. Sola tu, sola tu, dietro la porta Del monumento tuo vegli gelosa E mi chiami e mi vuoi, povera morta. Bologna, 1872. LXIX. O fiorellin di siepe all'ombra nato, Povero fiorellin non conosciuto, Tu come l'amor mio sei disgraziato, Tu come l'amor mio non sei veduto. Senza un riso di sol morrai serrato Tra queste spine dove sei cresciuto; E senza un riso di speranza muore Ignoto l'amor mio!... povero amore! Castellamare, 1872. 95 LXX. A RAFFAELE BELLUZZI Et rose elle a vécu ce que vivent les roses, L'espace d'un matin. Amico mio, fra le viltà pompose Di questa rea Babel, traggo la vita Disutile, tediata, imbecillita, Maledicendo gli uomini e le cose. Amico mio, se il fato in me ripose Qualche forza d'ingegno or m'è fuggita; La giovinezza mia giace sfiorita, Giace e visse un mattin come le rose. Invan tu parli a questo cor mio gramo Chiuso alle gioie ormai, chiuso alle pene: Non credo più, non spero più, non amo. E, dolorando, il primo nostro bene, Amore, amore, ne' miei sogni chiamo... Guarda! Invece d'amor la morte viene! Napoli, 1872. LXXI. GRETCHEN MEPHISTOPHELES. – Sie ist gerichtet STIMME (von oben). – Ist gerettet! GOETHE. Faust, Erster Theil. Sull'uscio della chiesa, orrida e nera Come le streghe che il demonio abbraccia, Vidi seder nel fango una megera, Col marchio del bordello impresso in faccia. Pur tra le grinfe della fattucchiera D'antichi fasti trasparia la traccia, Tal ch'io le domandai – Qual sorte fiera A vender santi qui, vecchia, ti caccia? – – Fui Margherita – disse – ed a contanti Ho venduto i miei baci e le scipite Carezze, dopo Fausto, a mille amanti; Ma le mie carni all'ospedal marcite M'hanno ridotta a vender Cristo e i santi Per comprarmi due soldi d'acquavite. – 97 LXXII. Un organetto suona per la via, La mia finestra è aperta e vien la sera, Sale dai campi alla stanzuccia mia Un alito gentil di primavera. Non so perchè mi tremino i ginocchi, Non so perchè mi salga il pianto agli occhi. Ecco, io chino la testa in sulla mano, E penso a te che sei così lontano. LXXIII. AD UN POETA Deh, perchè levi nel tumulto il canto E sveli disperato il tuo dolor? Ride il mondo, nol sai? del nostro pianto. Premi l'angoscia del tradito amor. Piangi, ma piangi sol nel tuo segreto, Poichè menzogna è l'amistà quaggiù, Il nome di fratello è un nome vieto, Una fola bugiarda è la virtù. Al tuo martirio cupida e feroce Questa turba feroce accorrerà; Ti verranno a veder sulla tua croce Tutti, e nessuno ti compiangerà. Oh, menti, menti! Il viso tuo giocondo Celi, maschera turpe, il tuo soffrir; La verità non è di questo mondo, È un imbecille chi non sa mentir! 99 LXXIV. RESURREXIT Dall'arida cenere Rinasce il mio core, Ritorna la cetera Ai canti d'amore. Ai canti che narrano Le chiome fluenti Le labbra ridenti Che il labbro baciò. Veleggio un oceano Di luci, di suoni; Mi fremon nell'anima Giulive canzoni, Soavi memorie D'amplessi, d'amori, Olezzo di fiori Che il tempo seccò. Le turbe mi lancino Lo scherno crudele, Il mondo m'abbeveri D'aceto e di fiele, La croce m'apprestino, A me non importa; La Musa è risorta, Rinato è l'amor! Del mondo, degli uomini Le rabbie non curo, Io vivo in un aere Più dolce, più puro: La bava del rettile A spegner non vale La fiamma immortale Che m'arde nel cor. Anch'io vana polvere D'un idolo infranto Nel dì dell'angoscia T'ho dato il mio pianto, T'ho svelto dall'anima, Tradito amor mio, T'ho dato l'addio Che ai morti si dà; Ed oggi resusciti Più lieto, più bello: Ti strappi il sudario, Infrangi l'avello... Oh riedano i cantici Del tempo migliore, Risorto è l'amore, Che più non morrà. Amica, ridonami L'affetto gentile, Nel crine t'olezzano Le rose d'aprile, Di baci son avide Le labbra frementi, Negli occhi lucenti Scintilla il desir! Son queste di Venere Le forme divine, Son queste le rabide Carezze di Frine! Ritornino al talamo, Ritornin più liete, Le smanie secrete Del nostro gioir! 101 LXXV. MENDICA Mentre la ricca imbandigion levata Tranquillo io me ne uscia, Vidi una fanciulletta inginocchiata Nel fango della via. Colla veste cadente a brano a brano, Pallida e macilente, Implorava col pianto e colla mano La pietà della gente. In grembo le gittai qualche moneta E dissi: – «o poveretta, Torna alla madre tua che forse inquieta Per te piange e t'aspetta». Tremulo e mesto errar vidi un sorriso Sulla sua bocca smorta, E al ciel volgendo lo stremato viso Disse: – «mia madre è morta». Disse: – «mia madre è morta: io son digiuna E la stagione è cruda, In terra a me non pensa anima alcuna: Sono orfanella e ignuda». Io sentii che talvolta ancor bisogna Pianger dell'infelice, E innanzi alla miseria ebbi vergogna D'esser quasi felice. LXXVI. AD EMMA Perchè della tua porta, Emma gentile, La vergogna mi ferma al limitar? Perchè sei tanto bella e tanto vile? Perchè ti bacio e non ti posso amar? Lieta tu pur m'accogli e ne' giocondi Occhi di voluttà trema un balen: Piovon disciolti i tuoi capelli biondi Sulle giunonie spalle e il nudo sen. Oh, le lunghe carezze e l'infocate Strane lascivie tue chi dir le può? Chi l'ha baciate, di', chi l'ha baciate Le tue labbra frementi e le scordò? Oh quante volte stanco io chiusi gli occhi Poichè la forza al mio desir fallì, E il capo riposai sui tuoi ginocchi Desiderando di morir così! Ma quando sull'aurora una lontana Squilla di bronzi entrambi ci destò, Pagai le tue carezze, o cortigiana, E la vergogna in cor mi ritornò. Torna, sordida cagna, al tuo covile, Sotto ai bruti irruenti a spasimar, Torna all'infamia tua; sei troppo vile, Sei troppo vile; non ti posso amar! 103 LXXVII. Io mi volli levar dal reo letame Dove marcisce la mia gioventù. Ti sputai sulla faccia un nome infame E mi giurai di non amarti più. Ahimè, la primavera oggi è fiorita, Vibra per l'aer novo un acre odor Ed un possente palpito di vita M'agita il sangue e mi fluisce al cor! Ah, de' tuoi baci e delle tue promesse Il secreto ricordo ecco m'assal: Della tua bionda testa ancora impresse Ecco le forme sovra il mio guancial! Sento l'anima mia che si ribella, E le vampe dell'odio in me bruciar; Io t'odio ancora, ma sei troppo bella, Io t'odio ancora e non ti so scordar. Vieni, ritorna e vadano in oblio La speranza, la gloria e la virtù, Suggi co' baci tuoi l'ingegno mio: T'odio, ma torna e non fuggirmi più. LXXVIII. IL CASTELLO DI POLENTA L'aquila di Polenta... DANTE, Inf. XXVII. O passeggier che per la via deserta Affretti il passo, Leva la fronte tua verso quell'erta, Guarda quel sasso. Là sulla vetta nereggiava un giorno Bieco un castello Ed il signor de' suoi villani intorno Facea macello. Il sangue che versò chiese vendetta E Dio la fece: Cadde il castello ed un'umil chiesetta Surse in sua vece. Ma il loco è maledetto! I fati avari Pace n'han tolta; Regna la strage ancor ne' casolari Come una volta. Di sangue il reo baron più non colora Valli e colline, Ma il parroco bestial decima ancora Le contadine. 105 LXXIX. VOCE DA UNA TOMBA SULLA VIA APPIA Populus Romanus... moritur et ridet. SALVIAN: De Gub. Dei, Lib. VII. Vissi anch'io che ti parlo e vivo amai I sorrisi d'amor beati e belli; Di pampini e di rose inghirlandai Ne' tripudi di Bacco i miei capelli. Nè, come suoli tu, solingo errai Qui nella notte a interrogar gli avelli; Qui dubitoso e vil non meditai Biechi misteri alla ragion ribelli. Il tuo Cristo non m'ebbe e sorridendo Dissi alla vita che dal cor m'uscìa L'ultimo vale. Tu morrai piangendo. Di semprevivi e di malinconia Galleggia il vostro cemeterio orrendo: Crescon le rose sulla tomba mia. LXXX. FUORI DI PORTA Glauche le luci, bionde le chiome, A me davanti lieve passò; Tutta tremante disse il mio nome Ed arrossendo mi salutò. Ebbe negli occhi come un desio, Un verecondo lampo d'amor... Oh, dimmi, dimmi, dell'amor mio, Presago forse parlotti il cor? De' miei sospiri forse parlotti? Ti disse il primo de' miei pensier? Ti disse i sogni delle mie notti, E i vani amplessi dell'origlier? Disse che solo, solo una ciocca De' tuoi capelli vorrei baciar? Che per un bacio della tua bocca Potrei la morte lieto sfidar? Oh, se una voce nel tuo pensiero Così parlando ti fe' arrossir, Credilo, bella, ti disse il vero: T'amo e l'amore non sa mentir. 107 LXXXI. Io piangeva ai suoi piedi e le chiedea Pietà, curvato e vinto. Annodandosi un nastro ella dicea: – «Mi sta come dipinto». – Il dì dipoi d'un'altra donna in traccia, Io correa per la via, Ed ella mi chiamò, m'aprì le braccia, M'amò per gelosia. LXXXII. Dove sei, dove sei tu che m'hai detto Che ne' tuoi baci l'anima mi davi E mi stringevi all'anelante petto Con parole d'amor così soavi? Ultima mia speranza, ultimo affetto, Se volevi mentir, perchè giuravi? Perchè m'hai preso il cor, perchè m'hai stretto Nelle lascivie tue se non m'amavi? Guarda: il mio cor, la gioventù t'ho dato E la mia gioventù teco s'invola E il mio povero cor me l'hai schiantato. Ahi, rendimi un sorriso, una parola: Fammi riviver tu del mio passato Una notte soltanto, un'ora sola! 109 LXXXIII. Donna, vorrei morir, ma confortato Dall'onesto tuo amor, Sentirmi almeno una sol volta amato Senza averne rossor. Vorrei poterti dar quel po' che resta Della mia gioventù; Sovra l'omero tuo piegar la testa E non destarmi più. LXXXIV. PREGHIERA DELLA SERA Libera nos a malo. De' miei semplici padri antico Iddio, Se vana ombra non sei, Dio di mia madre in cui fanciullo, anch'io Innocente credei; Se pur tu scruti col pensiero augusto De' nostri cori il fondo, Se menzogna non è che tu sia giusto Con chi fu giusto al mondo, Guarda: dell'agonia patir gli orrori Ogni giorno mi tocca: Guarda l'anima mia di che dolori E di che fiel trabocca! Abbrevia tu, se puoi, le maledette Ore del mio soffrire, Avventami, mio Dio, le tue saette: Mio Dio, fammi morire! 111 LXXXV. OCTOBER Muoio. Cantan le allodole Ferme sull'ali nel profondo ciel. E il sol d'ottobre tepido Albeggia e rompe della nebbia il vel. Caldo di vita un alito Sale fumando dall'arato pian. Muoio. Cantan le allodole E le giovenche muggon di lontan. La vostra lieta porpora, Roselline d'inverno, io non vedrò, Le carni mie si sfasciano... Domani al mio balcon non tornerò. II. 113 AD OTTO HOFFMEISTER BIRRAIO IN VIA FARINI MXLVI BOLOGNA Mio caro, questo libro è tuo. Te lo dedicai quando vide la luce la prima volta in quattordici paginette, e poichè tu, non guastato dalla lode, continui fedelmente a mescermi birra ottima, fedelmente ti ridedico il libro cresciuto quattordici volte e ristampato. Te lo meriti. Non aspettarti però di sentirlo lodare. Ahimè, mio buon Otto, ho dei vecchi conti da pagare a certi critici, ed il libro che ti dedico è stato e sarà il capro emissario! Molti mi credettero morto e portarono il mio cadavere al Campidoglio per tumularlo con tutti gli onori; ma poichè videro che feci il morto, poichè mi veggono saltar fuori dalla bara, non dubitare, ritenteranno precipitarmi dalla rupe Tarpea. Eppure, mi vedrai tutte le sere seduto tranquillamente nella tua bottega, mi sentirai fare le consuete chiacchiere cogli amici, giuocare l'eterno tresette e, quel che più ti preme, mi guarderai bere la solita razione di birra. Tant'è, nè le lodi sperticate nè le villanie letterarie mi leveran mai l'appetito. Sarà colpa della mia tendenza a metter pancia, ma è così. Rallegrati dunque che, per quanto i critici mi flagellino, non mi vedrai bere un bicchiere di meno. Dico di certi critici e non della critica. Tu sai che, se mi piace la birra, non mi piacciono certe birrarie. Non creder dunque che io confonda le due cose. Aborro certe critiche beghine e certe birre marcie: venero invece la critica, i critici onesti, il buon re Gambrino, ed i bravi birrai. Non confondiamo. Il libro è dedicato a te, ma leggerai nel frontispizio un pro domo sua ciceroniano il quale vuol dire al lettore di non arricciare il naso se nelle pagine che seguono si parla troppo in prima persona del singolare. È necessità di difesa, e poichè le critiche furono fatte a me, proprio a me, io non potevo certo rispondere in altra persona. Otto mio, ti raccomando questo libro. Non lo lasciare sul banco tra i bicchieri e il salame. I miei buoni critici diranno abbastanza che il libro è sporco. Non dar loro ragione. Amami e sii meno idealista nel mescermi la birra. Te l'ho già detto: dammi più liquido e meno spuma. PROLOGO Si autem de veritate scandalum sumitur, utilius permittitur nasci scandalum, quam veritas relinquatur. S. GREGOR. MAGN. Homiliae. Lib. I. Hom. VII, § 5. 115 Eccoti, lettor maligno, la ristampa di un libro che ti farà rizzare la chioma in capo, se l'hai; intendo la chioma, non il capo. Il libro è cresciuto di mole e d'insolenza, e sento di qui le accuse che tu mi scagli di corrompitore della gioventù e di introduttore di nuovi iddii. Appunto l'accusa del virtuoso Anito contro Socrate. Ma io non sono Socrate e tu non sei virtuoso. Intanto, lettor maligno, sentiamo i peccatacci di questa scuola che tu chiami nuova, benchè abbia la barba lunga come il Cantico dei Cantici. Prima di tutto, dici, non crede a Dio. È proprio vero? Può darsi, non te lo nego, che al Dio personale, che al Dio comestibile sotto le specie del pane azimo e del vino puro ci creda così e così; ma di qui all'ateismo c'è tanto di strada. Lo so anch'io che tra gl'inni elzeviriani ce ne son pochi de' sacri; ma pare a te che un disgraziato perchè ha il viziaccio di scriver versi sia obbligato a credere nella immortalità dell'anima? Ma Lucrezio non ne scrisse dei bellini senza crederci? E Guido Cavalcanti che cercò se Dio non fosse? E centomila altri? E poi, vedi, tra questi elzeviriani che ti fanno l'effetto del rosso ai tacchini, ce ne sono degli scettici, dei panteisti, degli hegeliani, dei materialisti, e chi più n'ha ne metta. Tu intanto ti cavi il cappello al Kant, allo Schelling, all'Hegel, al Moleschott e chi più n'ha ne metta. Credi che i loro studi, comunque la pensi tu, siano un progresso del pensiero umano, ed hai ragione: ma lo credi perchè scrissero in prosa. Se dubitavano della esistenza di Dio in tante ottave, poveri a loro! Tu, buon Geremia, saresti ancora seduto sulle rovine dell'arte a piangere come la fonte del Tettuccio. Dubitare di Dio in prosa, passi. La scienza, l'umanità ed altre belle cose, ne hanno bisogno pel loro avvenire. Ma dubitarne in un sonetto! Sacrilegio, non è vero? Sei logico. Ma se invece di esser logico tu fossi cattolico, credi pure alla Immacolata che il regno de' cieli te lo sei meritato e presta un paio di occhiali a Luigi Alberti. Critico, una volta educato, ha però il brutto vizio di non leggere il titolo dei sonetti. Ne ha portato in giro uno de' miei, quello che finisce Bevendo in fresco e bestemmiando Cristo, come meritevole di un giudizio severo. Non dico di volere un bene sviscerato alla seconda persona della Santissima Trinità, ma il titolo faceva pur vedere che il sonetto era il canto di un ebbro e la chiesa ammette pure l'advocatus diaboli! Sallustio fu un birbante, ma non è giusto giudicarlo dalla orazione che mette in bocca a Catilina. Dopo questo, signor Alberti, non scriva più versi emetici al Rospo, e pazienza se non vuol stringermi la mano che è pulita, quantunque a lei paia non lo siano le pagine che scrisse. Lasciva nobis pagina sed vita proba est. Tollera questa massima, amico mio Gnoli, che non è poi così delittuosa come tu credi e che certo è verissima. Tu poi, lettor maligno, che ci vorresti vedere coi pugni in faccia, brontola pure, ma questo gusto non te lo cavi. Dunque la scuola nuova non è cattolica. Ma chi è il cattolico che infili un sonetto leggibile? Non citarmi il Manzoni. Infecondo da quarant'anni, è morto senatore e scomunicato. No, non vogliamo essere nè cattolici, nè luterani, nè ebrei. Lasciaci sognare o il vago teismo de' francesi, o il materialismo scientifico dei tedeschi, o il nichilismo buddista de' russi. Lasciaci pensare a modo nostro, credere a quel che ci pare, anche non credere, o fammi comprare un po' di fede da chi la vende, ma che non sia sofisticata, ed allora rinuncerò al mondo ed alla carne. Ma finchè trottando per la via di Damasco non cascherò da cavallo, lasciami andare. Se la scuola nuova non è cattolica, ha millanta ragioni per non esserlo. Fagliene invece aver millanta per esserlo e mi farò frate, magari gesuita, e confesserò le educande che me ne vorranno insegnare delle belline, le povere innocenti, quantunque per libro di premio non ricevano i nostri. Altra scusa. La scuola nuova non parla mai della patria. Ah, lettor maligno, come brilli, come capisci bene che questo è un punto delicato e mi aspetti al varco col fucile alla gola! Sentimi. Dato che noi facciamo professione di dir le cose come sono, non parlare della patria può an- che essere carità. Altre volte facemmo il dover nostro e certo non fummo austriacanti prima del cinquantanove per diventare guelfi dappoi e rimpiangere la santa lirica del trentuno e del quarantotto. Ora il meglio da farsi è tacere. Il Carducci un giorno scagliò un verso che rimarrà storico in faccia a chi spinse i Cairoli al calvario di villa Glori e li abbandonò alla ferocia dei crocifissori. L'indignazione gli fece saettare giambi infocati contro la commissione araldica, il battesimo delle navi, i piccioletti ladruncoli bastardi. Di' un poco, credevi tu che il nostro bel paese producesse tante mele fradice quante ne furono scagliate addosso al povero Enotrio? Ma dovremo dunque ricantare Italia mia, dovremo mettere in rima il Primato del quale Massimo d'Azeglio si vergognava? Dovremo cantare le glorie di Lissa, le libertà di villa Ruffi, la opulenza de' bilanci, la moralità dei ministri, la sapienza de' Parlamenti, i trionfi che riportammo dal congresso di Berlino? Facemmo professione di verità e mancammo alla promessa tacendo; ma tacere è patriottismo. E non rimproverarci, noi piccini, se non abbiamo le audacie dell'Alighieri che trattò a quel modo gli uomini del suo tempo e la sua patria stessa. Non rimproverarci se, per carità del natio loco, abbiam chiuso Giovenale con sette suggelli. Grato m'è il sonno. Il resto lo sai. E poi, chi ti dice che come Cassio non aspettiamo anche noi gli Idi di marzo bevendo il cecubo? Chi ti dice che nel mirto sacro a Venere non sia nascosta la spada d'Armodio? Ricordati, lettore morigerato, che la etèra Leena fu l'amante di Aristogitone e che gli ateniesi, proprio ne' forti tempi della potenza loro, le eressero una statua. Non c'è bisogno d'essere Catone per amare la patria e si può cantarla senza essere Catone. Il Béranger diceva: Aux drames du jour Laissons la morale; Sans vivre à la cour J'aime le scandale. ............... Paix, dit à ce moi Caton, qui fait rage; Mais il prêche en sot. Moi je ris en sage. Bon La farira dondaine Gai La farira dondè. Senti, Catone, che bella voce aveva il vecchio patriotta? Parliamo male delle donne; parliamo di loro come se fossero tutte... non so come dirlo idealmente, ma si capisce bene. Questa accusa poi, questo è il più bello, viene spesso dalle donne, e spessissimo dagli uomini che dovrebbero esser donne. Logica benedetta! Le accusatrici, qualunque sia il loro sesso, sono poi quelle che strillano perchè nella civil società alle donne non si fa la parte che meriterebbero; che lamentano, ed a ragione, la inferiorità voluta del sesso femminile; che protestano colle più efficaci forme della rettorica contro la tendenza mussulmana dell'epoca, la quale fa della femmina un istrumento di piacere pel maschio e null'altro. E il livello abbassato e l'istruzione e l'educazione e Cornelia madre dei Gracchi e tutti gli altri luoghi topici logori fino alla trama, sono iscritti per lungo e per largo ne' libri polemici, gridati nelle orazioni accademiche, strillati nei convegni, urlati nei caffè. Ma che santa Maria Maddalena vi aiuti le mie donne, quando voi riconoscete che i maschi tiranni tengono abbassato il famoso livello apposta perchè non vi mettiate le brache; quando dallo Stuart Mill a Salvatore Morelli tutti riconoscono che c'è molto da fare per voi altre; e che adesso non siete il tipo della migliore delle donne nel migliore dei mondi possibili, perchè diavolo poi volete che diciamo il contrario e che mettiamo in rima le vostre perfezioni? Dobbiamo affermare come nei libretti d'opera che la donna è un angelo? Possiamo anche farlo e la ret117 torica ci scuserà. Ma volete poi che diciamo che la donna non ha debolezze, non ha capricci, non ha istinti e muscoli brutali come quelli del maschio e forse peggio per cagione di quel solito livello abbassato? Grideremo calunniosa l'affermazione che molte donne profondano pel capriccio di un vestito quanto basta ad un operaio per vivere un anno e che quelle che non si cavano questo capriccio è perchè non se lo possono cavare? Diremo dunque che la signora A. è la più casta donna del mondo quando i giornali citano persino il numero della porta misteriosa dietro la quale multorum absorbuit ictus? Diremo che la signora B. è il modello delle spose quando vive con un amico divisa dal marito? O che la signora C..., ma non basterebbero le lettere dell'alfabeto, e voi tutte che queste cose le conoscete, sapete ancora che se una volta erano l'eccezione, ora fanno dei gran passi verso la regola. Dica un buon giudice, il signor Bodio che dirige l'ufficio centrale di statistica, se sono i matrimoni che crescono o le case... soggette a certi speciali regolamenti. E voi reclamate per questo la rigenerazione della donna e per questo anche quello della donna è diventato, come si dice adesso, un problema. E perchè vi lamentate dunque quando diciamo quel che sapete? Siate sincere, donnine mie, e rispondete per noi a quei signori che ci accusano di cercare le modelle nostre nei fornici della Suburra, che non c'è bisogno di scendere fin laggiù per questo. Si capisce che non vi piaccia vedervi così fatte, ma noi non sappiamo far le funzioni della pezzuola che con tanta intelligenza svolazza sul centro degli angioletti dipinti nelle chiese: noi non sappiamo velare colle massime di Sant'Ignazio le ulceri aperte, come fanno con tanta vocazione certi collitorti, i quali, quando peccano, voltano verso al muro l'immagine della Madonna. Additiamo francamente, sfacciatamente se volete, il male che vediamo e che avete sott'occhio anche voi. Ci troverà rimedio il medico, ma alla poesia non spettò mai filtrar decotti di legno santo. Ci badi chi ci deve badare, e quelli che piangono a calde lagrime sulla decadenza della donna, si lascino dire che non sono galantuomini quando rimproverano a noi di mostrarla decaduta. Qui saltano sul palo i critici e gridano che tutte le donne non sono così. Grazie tanto! A chi lo dite? Amo Griselda anch'io, ma parmi che anche la Belcolore possa stare nell'arte. Urlano i critici: voi ci parlate solo della Belcolore! Non so se sia vero, ma se lo fosse, scomunichiamo noi Griselda per questo? Cantatela voi e noi canteremo l'altra e tutti pari. Non vogliamo escludere Beatrice, vogliamo che sia accettata anche Fiammetta. Questo è ciò che voi non volete. E qui dovrei parlare di un certo signor Galassini, egregio cattolico ed insegnante nel collegio S. Carlo a Modena, il quale (il Galassini non S. Carlo) ha trovato che la natura al suo primo offrirsi allo sguardo dell'uomo è pura e vergine; vergine alle prime ore del mattino e più tardi, ed ha trovato una filza di altre belle cose ed alcuni argomenti che non sono però da prendere a gabbo, ma ai quali tutti era già fatta la risposta nel primo getto di questo Prologo e che in fondo non si appoggiano che sopra un facile rovesciamento di tesi. Ma lascio stare anche perchè non uso trattare con chi mi dà del voi che non si dà oggi nemmeno alle Guardie di Pubblica Sicurezza; con chi dopo avermi dato, letterariamente s'intende, dell'asino e del porco per quaranta pagine infilate, dichiara poi di amarmi e di stringermi la mano. Grazie tante, ma le mani io me le lavo. Accusa quarta. L'arte nuova è carnale, oscena, brutale. Nientemeno! C'è davvero una reazione forte contro le svenevolezze degli amori poetici passati che tendevano a fare dell'arte un mare di latte e miele. La donna era esclusa dalla poesia e solo ci si ammetteva un ideale di lei aereo, sentimentale, salice piangente. Questo cant, questa ipocrisia erano innalzati agli onori di canoni d'arte. Il Vittorelli trionfava, e Nice, Silvia, l'amica lontana erano le perpetue modelle. I più audaci arrivarono sino alla Elvira del Lamartine. La donna vera colle sue debolezze, la figlia d'Eva come la fece madre natura, era esclusa dal tempio dell'arte come gli scomunicati una volta; e quando ha tentato di entrarci, i leviti hanno gridato allo scandalo; e la vacuità pomposa del Guerzoni, le professeur malgré lui, la manzonaggine accapponata di cento ipercritici che sbagliarono mestiere, la stitichezza dogmatica di mille dilettanti illetterati, si sono inacidite come le pulzellone al cospetto delle nozze altrui. Hanno lordato gli Dei e inverniciato frate Cristoforo: hanno trullato che il gran Pane è morto proprio nel giorno della sua risurrezione, brontolando che la sposa era brutta perchè natura negò loro la capacità di esser mariti sul serio. Povero ideale sceso agli uffici del mantello di Noè, tolga il senno italiano che Sem e Jafet a forza di trascinarti piamente su tutte le vive li- bertà del secolo, facciano di te un cencio, spregiato anche dai rigattieri e dai preti! Il rimedio, lo ammetto, è radicale; ma diceva il Botta, per raddrizzare un arboscello storto non basta costringerlo alla linea verticale, bisogna piegarlo dalla parte opposta; ed a chi ha lo stomaco pieno di schifo per abuso di dolciumi, un po' di pepe di Caienna glielo accomoda ed un sorso di gin vince più nausee che non faccia il laudano. Oh, non ci rinfacciate l'Aretino! Non siamo noi che scriveremo la Vita di Maria Vergine e la Parafrasi dei sette salmi penitenziali. Giulio III e Carlo V non penseranno mai a farci cardinali. Ad altri le sacre elucubrazioni e le simpatie della chiesa. È facile inquinare gli album con versi squisitamente macaronici come questi: Ed è perciò, caro signor Stecchetti, Che per quanto in bei versi il sudiciume Vo' che si spazzi e dal balcon si getti. Ma la onesta scopa non bada che ne spazza anche di quelli che per la loro innocenza meritarono l'inserzione nei giornali pedagogici tra le favolette ed i problemi d'aritmetica. Non bada, la pia scopa, che spazza quattro quinti delle letterature europee antiche e moderne. Quasi tutta la poesia greca dovrebbe cedere allo spazzatore, tutta la latina, compreso Virgilio ed il famoso pastore Alessi, quasi tutto il nostro trecento, tutto il Risorgimento. Cari miei, ci vuol altro che una scopa benedetta, ci vuol altro che tirare in ballo il Giusti che scrisse anche lui la Mamma educatrice e l'Ave Maria, o il Parini che fece tanti versi per nozze.... Leggeteli. Ma lo scopatore santissimo qui m'interrompe. Nella sua virginea modestia egli crede che tutto questo libro sia stato scritto contro di lui. Nella sua cattolica morale crede lecito sparger copie di un sonetto scritto contro di me, ma non crede che io possa stampare la chiusa. Nella sua manzoniana rassegnazione scrive lettere dolciastre dove si mostra in aspetto di S. Sebastiano martire, ma non dice se le freccie che ha in corpo siano di acciaio buono. Che cosa rispondere a chi non risponde? Amen. Ma quel che gli scotta più di tutto è il sentir dire che il suo sonetto è macaronico. Eppure quel sonetto non è la sua cosa migliore. La migliore è l'Ode alla regina fatta a concorrenza del Carducci, l'Ode dove il poeta sparge il crine di una donna nientemeno che di fronde, siano pure apollinee e dove si trovano versi di così squisita fattura ed armonia come quello che comincia — Voi pur pugnaste per la patria ecc. — Fattura però che non riesce nuova a chi ricorda — Pietro Paolo pittor pinse pittura Per poco prezzo ecc. — Via, via, scopatore santissimo, Enotrio almeno i versi li sa fare. Vittorio Imbriani e lei stanno di casa molto più sotto, molto più basso. Lo creda.... oh, lo creda! Un altro idealista militante grida: Lungi questa del secolo Smania del ver proterva Che a la terrestre Venere L'arte e la vita asserva. Benone! e tre strofe dopo: O viva, viva il turbine Che l'anime frementi Rapisce insiem nell'estasi D'ingenui abbracciamenti! Come negli occhi tremuli, 119 O amore, folgoreggi; Ne' baci ardenti ed umidi O amor, come spumeggi! E avanti di questo passo. Ma intendiamoci bene, per amor di Dio! Volete degli amori ideali che spumeggino ne' baci umidi! Ebbene, ci stiamo anche noi! Volete, ebbri d'amore, ....................vivere Tra le carezze e i canti? E noi lo stesso. Ma allora perchè ci chiamate poi sacerdoti di un putrido verismo? E voi che cosa siete dunque? Come fa, per esempio, il signor Vitale (Jacopo del Fanfulla) a fulminare i poveri veristi nella prefazione della sua Primavera e poi a scrivere un volume di versi, molti dei quali perfettamente veristi con le sue brave donne così così, i letti osceni, i mariti cornuti e tutti gli accessori ormai andati a male del teatro dove recito anch'io? Mi sembra che non stia bene inalberare una bandiera bianca per coprire un carico di pepe come quello e farlo passare franco alla dogana. Ma che cosa è questo? È paura di saltare il fosso? Saltatelo, benedetti voi, che avete le gambe buone; non restate di là cogli spedati. L'arte nuova è corruttrice. Baie! L'arte non ha mai corrotto nessuno; e, in caso, è sempre l'ambiente sociale che corrompe l'arte. Non è il Meissonier che ha messo alla moda i quadri piccoli; sono i committenti che grandi non li vogliono. È forse decaduta la pittura perchè non si fanno più affreschi con cinquecento figure come Michelangelo li faceva? Ma nessuno li cerca. Non si scrivono più opere melodiche come le scrivevano il Cimarosa ed il Rossini? Ma il pubblico fischia le cabalette. Non ci sono più architetti? Ma oggi si contentano di un maestro muratore. Non si scrivono poemi? Ma non li leggerebbe nessuno. Non si fanno tragedie? Ma le fischiano. Ah no, non è colpa dell'arte se il pubblico divora certe edizioni e certe altre non zoppicano fino alla terza che coll'aiuto de' professori compari i quali le fanno comprare agli scolaretti come libri di testo. No, non è colpa dell'arte se il pubblico legge più volontieri una brutta traduzione dell'Assommoir che i sempiterni Promessi sposi. Non è colpa dell'arte se si applaudono i proverbi seminudi, se si comprano i quadretti di genere e le statuette senza foglia di fico. Anzi chi vuol andare contro la corrente è immediatamente e ferocemente punito. Così al mio Cavallotti toccò lo sfregio immeritato di sentirsi lodare dal (con licenza) Barone Mistrali per l'ode che precede la traduzione di Tirteo e per la lettera al Prati. Un'altra lode della stessa fabbrica di concimi è toccata a Leopoldo Marenco che scrive al Bersezio dolendosi che i critici non parlino a modo suo e che il pubblico legga gli scrittori che non piacciono a lui. L'autore di tanti celebri idilli comici chiama mostricciattoli questi poveri autori e li copre con un monte di contumelie biliose per finire dicendo che «i critici di maggior sapere e di maggiore acume, quando non tristi per natura o per cieca passione, sono i meglio riguardati a giudicare le opere altrui. La loro stessa severità non è scevra di rispetto: franchezza, non brutalità; gentilezza di forma, non villanie». Se fosse vero, padre Zappata! E non vi domanderemo quali siano i sani e forbiti scrittori che nessuno legge e che i librai non tengono in bottega. I libri del De Amicis non peccano di verismo e le donne che ci sono dentro sono scrupolosamente vestite; eppure quei libri si comprano e leggono. Perchè non accade lo stesso degli altri sani e forbiti scrittori? C'è dubbio che la corruzione umana sia giunta fino a non amar più l'arte noiosa? Ci pensino i sani e forbiti scrittori che si dolgono di non trovar più un cane che li legga. Potrebbe darsi che, una volta almeno, avessi ragione io. In Italia pochi anni fa non si leggevano che libri francesi, ed il nostro paese era lo sbocco pel quale i romanzieri di terza e di quarta classe scolavano i loro libri ebeti. I lettori vivevano d'importazione e papa Gregorio, buon'anima sua, era entusiasta dei romanzi di Paolo de Kock. Libri italiani non se ne vendevano e non se ne vedevano. Perchè? Come sta invece che un po' di emancipazione dal gran mercato di Parigi, un po' di risveglio letterario è venuto appunto quando gli scrittori non si sono più ostinati di andare contro la corrente a forza di tragedie, idilli, romanzi storici ed inni sacri? Come è dunque che la gran morta, l'arte italiana, dà segni di nuova vitalità e non solo combattiamo noi, ma i seminaristi sconquassati dai superiori mi scrivono asinità anonime o pseudonime e dalle case di salute per le malattie che sapete, o dalle prigioni, mi vengono sonetti in difesa della morale? Come è dunque che bisogna essere alienati per non gridare eppur si muove! e il pubblico, il pubblico stesso, così indifferente una volta, prende gusto persino a queste inutili polemiche d'arte e legge i giornali fatti apposta, anche quelli (copio dal vero) che sostengono la letteratura plasmatrice dei popoli, che combattono i mirmilloni da trivio e da bordello ed il cinismo spudorato ed altre galanterie, segno della educazione degli scrittori?5 È perchè gli artisti hanno cominciato a capire che il segreto del trionfo sta nel sapersi ispirare all'ambiente in cui si vive, alla verità di oggi non a quella di cinquant'anni addietro. Hanno capito che in arte bisogna essere del proprio tempo o morire. Poco importa se l'ambiente non è l'ottimo; in quello bisogna vivere. Poco importa se la società non è sana; nel morbo stesso è il segreto della evoluzione, la genesi dell'avvenire. Ogni anello della catena deve essere al suo posto sotto pena di soluzione di continuità. Fate il pubblico raffinatamente bestiale ed avrete Anacreonte e Batillo; fatelo religioso e guerriero ed avrete i cicli cavallereschi; dategli entusiasmi ed odi patriottici ed avrete Rouget de l'Isle, Riego, Körner, Berchet; ma non tentate mai di rammodernare Omero, di correggere il Decameron, di processare Madame Bovary. Perderete il tempo, poichè in verità vi dico che non è l'arte che fa la società, ma la società che fa l'arte a sua imagine e somiglianza. E poi, dov'è questa gran corruttela? Via, si può giurare che Gustavo Droz colle sue allegre descrizioni di notti matrimoniali non ha corrotto e non corromperà nessuno. Ma intanto i buoni Filistei proibiscono alle ragazze di leggere le poesie dello Stecchetti e le conducono invece a vedere le nudità nei musei, dove, poverine, benedicono l'autunno che fa cascar le foglie. Siate logici come lo fu Ferdinando II e seppellite la Venere Callipygos e la Danae del Tiziano. Bruciate le vanità come il Savonarola e laudate con cembali bene sonanti chi mise le brache ai dannati di Michelangelo e la camicia di rame alla Giustizia del sepolcro di Paolo III. Anche qui il Nettuno di Giambologna fa pompa della sua virilità in piazza; perchè non gli mettete almeno le mutandine che la Questura prescrive ai bagnanti? Un cardinale logico lo fece, ma voi proibite alle ragazze la Fernanda del Sardou e le conducete a prendere il fresco all'ombra della virilità del Nettuno! No, Filistei carissimi, Michelangelo, Tiziano, Guglielmo della Porta, Giambologna, non corruppero nessuno e, fatte le dovute proporzioni, non corrompiamo nessuno nemmeno noi. La corruzione non nasce dalle nostre nudità, ma dalla vostra ignoranza. Ci son delle ragazze a questo mondo: debbo riconoscere questa dolorosa verità. Ma perchè ci sono, si dovrà scrivere soltanto per loro e soltanto in modo che nel leggerci non si sentano l'acquolina in bocca? È pretender troppo. Disse bene Ferdinando Martini: maritatele una volta queste benedette ragazze, che possiamo finalmente dire le cose come sono! Il meglio poi è questo, che, se facciamo dei libri tanto innocenti da poter esser letti da queste eterne ragazze, ecco che i babbi non li comprano più; i babbi pudicissimi che nel Furioso cercano solo il canto XXVIII e chiusi in una biblioteca studiano minutamente le sole incisioni dei trattati di ostetricia. Salvo, si capisce, ad urlar poi che libri di quella fatta dovrebbero star chiusi a chiave e che il Furioso non può essere tollerato che nelle sconciature dell'Avesani. 5 «... i titoli di sgualdrina e donna da bordello col resto, sono le solite villanie di monna pezzente, di monna sucida contro le ornate e splendide cittadine; fra le quali se alcuna è di mal costume, non è onesto però l’appiccare a tutte il sonaglio e gridar per le vie che la città è tutto un postribolo. E se questo modo di ragionare non fosse ancora ben chiaro, il faremo più manifesto dicendo: Che in niun tempo penuria di cattivi scrittori non fu giammai; ma che quando entrasi a giudicare dei vizi letterari di un secolo, non è sano discorso il tirare le conseguenze dal particolare al generale; nè giustizia il confondere i tristi coi buoni; nè onestà il crederli tutti tristi; nè modestia il tener in pregio unicamente sè stesso. E aggiungeremo, che, nel supposto naufragio universale delle buone lettere, reputarsi il Noè della italiana Letteratura, e colla piccola sua famiglia mettersi tutto solo, come il solo innocente, nell'arca di salvazione, e gridar corrotta tutta la immensa generazione degli scrittori, e volerla tutta sommersa, è tal carità, che, non sapendo noi come appellarla, aspetteremo che il pubblico la battezzi». VINCENZO MONTI, Appendice al trattato Degli Scrittori del Trecento del Perticari, nella Proposta. L’Alberti prende per epigrafe della sua Polemica novissima l'ultima frase: ma, s'intende, non parla di quel che le sta sopra. 121 Purtroppo le ragazze ci sono, ma per educarle alla castità immacolata ed alla meritoria ignoranza del mondo e delle sue pompe ci sono educandati apposta. Credo anzi che il professore Giovanni Rizzi (giacchè bisogna che gli diamo la soddisfazione di nominarlo, dice il Chiarini), uno de' più strenui e continenti avversari della scuola nuova, diriga qualche cosa di simile. Mandatele da lui le ragazze, in nome di Dio, che le educherà e troverà loro un casto marito, ma lasciateci parlare coi babbi a modo nostro. E siate sinceri, Filistei, ditelo una volta che la virtù per voi è l'ignoranza del vizio. Ditelo una volta che per voi, quando la benedetta ignoranza se n'è andata, non c'è altro rimedio che l'isolamento, l'infibulazione e les maudits engins, fermoirs ecc. vituperati dal signor di Brantôme. Audio quid veteres olim moneatis amici: Pone seram, cohibe. Sed qui custodiet ipsos Custodes? Cauta est, et ab illis incipit uxor6. La verità vera è che siamo tornati alla battaglia dei romantici e dei classici, (c'è anche l'avvocato Stoppani di Beroldinger7) con questo di guadagnato che la polemica non è più un cas pendable e che nessuno dei combattenti, per ora almeno, cerca di fare intervenire in suo favore la Polizia8. Meno, s'intende, quegli ingegnosi avvocati di Genova che, non avendo cause da difendere, fanno istanza al Procuratore del Re perchè sequestri i libri ed i giornali veristi, pronti poi a difendere gli autori e i gerenti in tribunale. Si dice che a tanto eccesso di comica furberia abbia riso persino il crocifisso della Corte d'Assise. Figuriamoci i veristi! Eppure anche il buon Stoppani di Beroldinger e gli amici Demosteni del foro genovese dovrebbero ca6 GIOVENALE. — Sat. VI. 7 Vedi nell'Emporio Pittoresco, anno XV (1878, n. 714) il seguente sonetto ideale: Odi, canzoni, satira, stornello, Che siete or voi per quella Diva ascrea, Che improntata di Vero, e fida al Bello, Dalla Grecia nel Lazio si spandea? Scordate d'Ugolino e di Sordello Il gran cantor, che ai secoli schiudea Quel dritto senno, a Libertà fratello, Onde il Vivo a Staglien fra noi splendea. Levaste a realtà novello altare; La fiaccola febea, pura, divina, Spegnendo tra l'asfite lupanare. Con questa ippocrenea tetra piscina, Castalie dive, andatevi a celare, Schife del lezzo, che v'ammorba e inquina. In questa edizione ho dovuto lasciare tutto quel che stava nella prima, ma avrei lasciato indietro volentieri questo sonetto e l'allusione. L'unico avversario che mi abbia risposto da persona educata è appunto questo che ho maltrattato più degli altri e lo ringrazio e lo ammiro. (Vedi l'Emporio Pittoresco, anno XVI, 1879, n. 757). 8 Adagio un poco! Non chiamano la Questura ma... sentite questa. Il professore P. E. Guarnerio stampa dallo Zanichelli (orrore!) alcuni suoi sonetti che intitola Auxilium e che dedica allo Stecchetti (abominazione!) e che combattono per questa scuola che dicono nuova (ahi! sventura! sventura! sventura!). Sentite ora un poco come un certo signor X nel numero 6673 della Perseveranza finisce un articoletto mezzo melenso e mezzo peggio: «Lavoriamo a insegnare a farne di simili (sonetti) ai giovinetti dei ginnasi, dei licei del bel regno d'Italia? È un genere di lavoro che mi pare, lo confesso, alquanto pericoloso ecc. Il Guarnerio professa in un liceo e qui c'è la personalità astiosa che tende a metterlo in sospetto, benchè il sospetto sia proceduto da un mi pare vestito da reverendo Padre. Ecco, questa sarà un'azione ideale, ma da noi, quaggiù, la chiamiamo una cattiva azione; in lingua povera poi... acqua in bocca. Intanto il professor Guarnerio per le conseguenze di quell'articolo morale ha avuto tali tribolazioni da dover buttar via il pane: e non è un signore e non ha sposato una signora. Il critico (questa volta bisogna dargli la soddisfazione di non nominarlo, perchè si chiama X) il critico conosce benissimo l'arte di accoltellare la gente nella schiena e l'adopera, ma badate però che è un critico virtuoso, oh, è uno specchio di virtù. Santa pudicizia, quanti delitti si commettono in tuo nome! pire che c'è qualche cosa che si rinnova dappertutto, anche nella letteratura del nostro paese. Si sente pure che il mosto fermenta e vuol diventar vino, perchè quello degli anni passati è diventato aceto. La fermentazione è tumultuosa, è vero; si sviluppano gas malsani, ma l'intimo lavoro c'è, e il vino lo berremo. Se non sarà Falerno, pazienza; almeno sarà vino schietto. Lo sanno tutti che nelle battaglie non si misurano le sciabolate: e' colpi non si danno a patti, disse il Cellini. I romantici esageravano gli scheletri, i classici esageravano gli Dei. I nostri idealisti rifuggono adesso con orrore sacro dal mangiar carne il venerdì, i veristi affettano di mangiarne per dispetto il venerdì santo. Questi, per necessario istinto, badano solo alla apparenza delle cose senza sillogizzarci sopra e cercano appunto gli argomenti e le forme che valgano a far spiccare la loro reazione contro l'abuso del sentimentalismo. Quelli si attaccano a quegli antichi, a quel Manzoni, che alla lor volta furono gridati rivoluzionari e corruttori dell'arte. Dimenticano che anche il Metastasio a' suoi tempi fu un ribelle e pronosticano la fine del mondo ad ogni tentativo: si chiudono nella loro ortodossia con un non possumus intransigente e sognano un Sillabo letterario cogli anatemi di rito. Dove andiamo? grida spaventato Luigi Alberti. Alle battaglie della libertà. Arcadia nuova. Ma chi in Italia ha il coraggio di parlare d'Arcadia? Ma non è in Italia che le accademie hanno lasciato un tipo, un campione monetario al quale si ragguagliano ancora tutti i valori del mercato artistico? In letteratura la moneta tipo è ancora il ducato del secolo XVI o lo zecchino del XVIII. E nelle altre arti, chi non conosce i pittori che hanno per unità di valore Raffaello Sanzio, gli scultori che ragguagliano tutto al Buonarroti o al Canova, i musici che adorano il solo Rossini forse perchè ignorano la Messa di Papa Marcello e il Palestrina? E questo accade pure in Italia, nel paese già dichiarato ingovernabile e dove regna ancora sovrano delle lettere Sua Santità Papa Leone X! Disse Hegel che tutto diventa, ma qui non lo sa nessuno. Le dottrine evoluzioniste, venute da poi, rimasero lettera morta pei nostri critici, i quali si ostinano a misurare il Carducci colle unità lineari del tempo del Manzoni, senza capire che perdono il tempo, proprio come quella brava gente (perdonami Galileo Galilei) che sciupava la carta confrontando l'Ariosto col Tasso. Possibile che non si capisca come le donne moderne non possono star dentro alle forme cavate sulla Venere Capitolina, che il modo di sentire di Garibaldi non può esser quello di San Francesco d'Assisi, che il misurare con la misura stessa le opere vecchie e le nuove è come misurare l'anno col computo di Giulio Cesare dopo la riforma gregoriana? Le accademie stabiliscono la fede artistica come i concilii la religiosa, senza vedere che anche in arte la fede uccide la ragione. Ci rimproverano di non aver nessuna fede e poi ci dicono accademici: urliamo che ci vuole un po' di libertà, ce la prendiamo, e ci dicono arcadi. Santa pazienza! L'amico mio De Gubernatis, che s'immagina anche lui (chi sa perchè?) di essere cordialmente odiato da questa scuola nuova, ci avverte che siamo fuori del seminato. Infatti l'anno 1878, così fecondo di lieti e tristi avvenimenti, non produsse che pochissimi versi buoni sopra le cose accadute. Ma non erra egli credendo la poesia d'occasione scaduta in Italia? Eppure non c'è matrimonio, non c'è laurea, non c'è guarigione, non c'è messa nuova o quaresimale vecchio che non faccia cantare molti poeti e parecchi bene. Deve però ridursi a questo la poesia? Questa non sarebbe Arcadia della peggiore? Gli epigoni della santa e benemerita Arcadia sono quelli che non vogliono adattarsi a credere che ci sia qualche cosa al mondo capace di cambiare. Costoro non possono supporre che oggi ci sia una tendenza ad un paganesimo riformato, ad un naturalismo, ad un panteismo materialista, al quale possono scagliar coppie di calci tutti i gesuiti del mondo, ma che cresce tutti i giorni, ingigantisce e rovescierà i templi e gli idoli dei nonni. Pare eresia agli accademici il sostenere che il cristianesimo muore e che ogni religione rivelata è bugiarda. Tornano piangendo ai lontani ricordi dell'infanzia quando la mamma li faceva inginocchiare sulla culla bianca e sussurravano colle mani in croce i misteri della salutazione angelica. Tornano ai sogni beatifici che rallegrarono la loro prima comunione e si chiudono nella memoria de' sentimenti passati come se solo in quelli potesse trovarsi la poesia e la bellezza. E c'è nella religione e nell'arte un mare di laudanum dove le 123 anime pie che non hanno forza di combattere le tempeste di altri mari cercano la pace rassegnata, la rinuncia quietista del Deus dedit, Deus abstulit. Annegano là i cattolici desiderosi dell'ozio del pensiero e gli islamiti che aspirano alla eternità del kief. E quando gli uomini e la società si destano e si muovono, queste religioni immobili e fataliste declinano insieme e rovinano, meteore pallide, pianeti spenti, colle arti da loro ispirate. Ma per gli accademici nostri tutto questo non è vero. La religione cattolica guadagna anzi proseliti ogni giorno, s'inalzano chiese, appaiono Madonne e la signorina Luisa Lateau ha le stimmate. Certuni poi che hanno le carie del rispetto umano nell'ossa, cattolici che si vergognano di esserlo, che il giorno credono di essere tretragoni ai pregiudizi, e la notte quando tuona, si fanno il segno della croce sotto ai lenzuoli, cercano altrove che nella religione i sillogismi per confonderci e per convincere il prossimo che è opera scellerata il pensare fuori delle massime cristiane ed il ribellarsi alla teosofia del Rosmini. Non credono che nell'arte latina e cattolica, e se vi provate a dire che anche i ribelli hanno affetti, gioie e dolori li vedrete levarsi e gridare che il Manzoni, il Giusti non pensarono, non sentirono, non soffersero così. Sentirete gridare che non ci può esser arte materialista, che non si può concepire il bello colle teorie dello Spencer, che il sublime non può esser capito dagli allievi dello Schiff. Cosi Orazio è darviniano e gli arcadi siamo noi! E gli accademici si sfiatano e sudano. Per loro non muta nulla, per loro non ci può esser arte fuori delle tesi accademiche e ne conosco parecchi che, a letto, scrivono commoventissime canzoni sui dolori dell'esilio perchè l'accademia trovò che dopo il Berchet l'esule era un bell'argomento. Ma non vedete dunque come galoppano le idee che vituperate? Non vi accorgete che c'è qualche cosa che vi trascina pei capelli (ne avete?), che vi trascina nelle lotte di Satana? Non vedete le transazioni che fate tutti i giorni colla vostra fede, le toppe che tutti i giorni dovete ricucire alle vostre candide stole? Ecco l'autore della Morale cattolica morto fuori dell'ortodossia cattolica, ecco il povero Aleardi che cantava l'immortalità dell'anima costretto a nominare professori che non ci credono, e il Prati farsi un Dio che vada d'accordo col regolamento del Senato e lo Zanella ammalare per la necessità di cantare fuori del Sillabo e tutti, tutti, tutti, fino ai minimi, fino ai pedagoghi di ragazze, dover scappare dalle prigioni della fede cieca, intera, romana, per vivere e per scrivere. Esiste l'arte anche fuori dalle formole del Gravina e del Soave e c'è tanta poesia nella coda di un fauno quanto nel piviale di un arcivescovo. Properzio è poeta quanto e più del Manzoni, e voi, cavalieri crudeli, non potete più caricar di legnate i puledri che vogliono correre i prati, trovar nuovi pascoli e nuove vie. Maledite pure il dottore in zooiatria che li lasciò stalloni, ma persuadetevi che poeti laureati non ce ne sono più e il Senatore di Roma non può incoronare nè il Petrarca nè il Baraballo. È il popolo che incorona oggi e dovete adattarvi ai suoi gusti, alle sue libertà, ai suoi costumi per quanto vi spiaccia. Dovete scendere in campo a viso aperto e non protetti, come una volta, dal baluardo della fede, e dovete scendere in campo, qui, con noi, e non potete più disprezzare o interdire, ma dovete combattere. Venite, cattolici, a vedere che in Roma stessa vi tocca disputare sulla venuta di San Pietro: venite, figli dell'Aquinate, a disputare col Renan e collo Strauss: venite, idealisti, a sentire quanti figli ebbe l'angelica Laura: venite, venite, poichè anche voi dovete combattere per l'esistenza ed il bargello non può più definire le questioni di fede e d'arte. Non ci potete più schiacciare col silenzio e coll'indice e condannarci come parricidi perchè non accettiamo le convinzioni dei padri. Combattiamo e il Dio vostro v'ispiri la lealtà, la franchezza di chiamarvi crociati per Gesù, paladini per la croce. Combattiamo, voi per la fede, noi per la libertà, poichè anche noi abbiamo un'arte, un pubblico, una speranza, un pudore. Ma il pudore nostro non è quello santificato dal vostro Stanislao Kostha e chiosato dal vostro Sanchez. Abbiamo un'arte anche noi, ma, come la bocca d'Ezechiele, anche la nostra non rifugge dalle lordure. Siamo chirurghi, non Dame del Sacro Cuore. Oramai però anche i poveri idealisti l'hanno capita e, disperati del loro avvenire, si danno affatto alla religione che mi pare in brutte acque anche lei. È il destino delle peccatrici che diventano vecchie. E pazienza lodassero l'Altissimo e la morale cattolica, ma si mettono alle pratiche del culto esterno. E pazienza anche questo, ma rubano il mestiere ai carlisti ed alla Gioventù Cattolica. La scolaresca dell'Accademia scientificoletteraria di Milano, guidata da quel comico perfetto che è Paolo Ferrari, accompagnata da una rappresentanza di altri istituti e da due illustri professori dei quali non ricordo il nome, si recò, in pio pellegrinaggio, alla casa del Manzoni. Uno che pretende di aver fatto parte della spedizione, grida nel giornale (con licenza) del barone Mistrali: — «...io vi assicuro che sul primo entrare nella modesta casetta mi sentii come compreso di devozione profonda, proprio come quando una tacita prece si leva a Dio nel silenzio di un tempio sull'imbrunire della sera. » Con trepidante curiosità ho voluto vedere i minimi particolari. Non istarò a dirvi che i mobili della casa si trovano ancora al medesimo posto che occupavano quando il grande poeta era vivo e fiorente: vi dirò bensì che a un certo punto non potetti rattenermi e piansi: piansi vedendo l'umile scrittoio e il calamaio e il tagliacarte e la penna di Alessandro nostro; la penna che ha vergato eterne pagine! » Ecco sopra un tavolo il cappello di paglia e il bastoncino su cui il buon vecchio reggevasi negli ultimi anni. Ecco nell'anticamera del piano superiore un altro cappello e un mantello appesi in un angolo: si entra poi nella cameretta da letto, dove tutto è semplice e modesto, il letticciuolo, le sedie: non v'è la menoma ombra di lusso e di affettazione». — Ci manca la paglia della prigione alla quale questi scomunicati realisti hanno condannato il pover'uomo per tanto tempo, e poi siamo proprio ai pellegrinaggi spagnuoli e belgi quando Pio IX era ancora al mondo! Dopo lo squarcio qui sopra c'è la tirata d'obbligo contro i veristi nani e pomposi, i quali, a quanto pare, non adoperano cappelli di paglia, mantelli, tagliacarte ecc., ma si adagiano nel lusso più sardanapalesco, dormono sulla porpora e sui petti delle donne, mangiano ananassi con salsa di tartufi, ballano il cancan dodici volte il giorno e bevono sangue di idealisti in crani di parroci. Che porci! Ha ragione quel signore di piangere dirotto come la cascata del Niagara! Così gli idealisti come i credenti delle religioni ammalate, cominciano i pellegrinaggi! Presto vedremo l'obolo. Intanto davanti al cappello di paglia del Manzoni — «uno degli scolari, il giovine Costa, prese la parola per esprimere, interprete dei propri condiscepoli, i sensi d'ammirazione verso l'opera del poeta e di adesione ai suoi principii di moralità e di castigatezza nella letteratura. A lui rispose il prof. Ferrari, facendo plauso ai sentimenti manifestati e affermandoli più altamente, come una protesta concorde e solenne contro le intemperanze d'una nuova scuola letteraria che si compiace del lezzo d'un verismo inverecondo.» — Sembra la parodia di uno squarcio di Tito Livio! Vedete di qui il giovanetto Annibale che giura odio eterno ai romani e sull'ara sta il cappello di paglia del Nume ed il gran sacerdote squassa orribilmente le famose bende candide, vestite con tanta disinvoltura dai coristi druidi della Norma. Lo studente Costa avrà certo avuto il premio in fine d'anno e certissimamente poi questa farsetta annuncia una seconda giovinezza di vis comica nell'autore della Bottega del cappellaio. Con un po' di musica potevamo augurarci di assistere al natale del vaudeville in Italia; ma non si potè, perchè il municipio non concesse la banda e poi la tesi non la richiedeva. Peccato! Ma via, buona gente, non è già l'idealismo che ci irriti i nervi. Ohibò! Accettiamo tutta l'arte del nostro paese, vecchia e nuova, cattolica anche, da Fra Iacopone ad Alessandro Manzoni, per quanto non siamo cattolici, nè vecchi, nè nuovi. Ma veneriamo il Petrarca, non i petrarchisti. Ben venga l'ideale quando non sia una ricetta, una falsariga, uno stampo; quando non rimpianga, come fa ne' sonetti del prof. Rizzi, la voce armoniosa de' cigni antichi e non ci mostri, con sale più inglese che attico, la cuoca che medita di tirare il collo al canoro augello. Queste stampiglie erano vecchie sino al tempo del Pervigilium Veneris dove: Loquaces ore rauco, Stagna cycni perstrepunt: non ce le date ora come le colonne d'Ercole dell'arte. Dateci pure dell'ideale, ma non modelli da sarto per tagliarci sopra le giubbe agli studenti di liceo. Dateci dell'ideale, non del brodo lungo. E non adoratelo in una chiesa fuori della quale non ci sia salute, non lo fate lo czar di tutte le lettere che sono una repubblica. C'è posto per tutti, pel Cavalca e pel Boccaccio, pel Tasso e per l'Ariosto, pel Montaigne e pel Bossuet, pel Dryden e per lo Shakespeare, pel Klopstock e pel Goethe, e noi nell'arte non cederemo mai nè un palmo della nostra terra, nè una pietra delle nostre fortezze. Siamo gelosi di Bice come di Fiammetta, del Metastasio come dell'Alfieri; non abbiamo casta, non abbiamo tribù, non abbiamo chiesa. Tutti i poeti li accettiamo purchè siano poeti e non saremo noi che scomunicheremo le Odi barbare in nome della rima, per applaudire poi ai versi troppo sciolti del primo scalzacane che ci lecchi le scarpe. 125 Tutta dunque questa ribellione contro la tirannia dell'ideale, tutte queste scritture polemiche goccianti giù assiduamente dai torchi, vanno intese nel senso loro. Non è già che i combattenti vogliano la testa del nemico, non è che in nome della fotografia vogliano bruciare le madonne del beato Angelico, o in nome della sensazione rinnegare il sentimento. No. Ma anzi dicono coi fratelli De Goncourt, non sospetti certo di meteorismo ideale: «Le réalisme se répand et éclate alors que le daguerréotype et la photographie démontrent combien l'art diffère du vrai». Ma tutto questo accade perchè anche nell'arte si è voluto distinguere nell'uomo la materia dallo spirito, l'anima dalla carne, mentre l'uomo è uno; ed è perciò che noi lo vogliamo rappresentato tutto intero, nella bellezza e nella deformità, negli istinti sublimi e nei bassi, com'è, come l'hanno fatto i tempi, le religioni, le virtù ed i vizi. Vorremmo che l'amore si cantasse come tutti lo sentono, non aspirazione platonica ad un tipo, ma desiderio sublime di una donna intera, spirito e carne; di una donna vera e viva, santa o peccatrice che sia. Cercare la deformità, accarezzarla, compiacersene, è caso patologico; ma lo è altrettanto fingere che la deformità non esista. È vizio l'eccesso come il difetto, la lussuria come la castità, e poichè il nostro secolo lo sa e lo dice, vogliamo essere del secolo nostro. Vogliamo l'arte del presente, non quella del passato, non quella dell'avvenire. Vogliamo sentire come i nostri nervi ed il nostro cervello comportano, non attraverso al diaframma delle sensazioni altrui. Vogliamo amare come sappiamo amar noi, non come amarono i nostri nonni. Vogliamo insomma essere del nostro tempo, e se il tempo non è bello, non lo abbiamo fatto noi e non ce ne abbiamo colpa. Questa ribellione non si fa dunque per detronizzare l'ideale e ghigliottinarlo, ma per farne tutt'al più un re costituzionale che divida i suoi poteri, chiuda la Bastiglia e si lasci costringere a largire la Carta. Almeno almeno come gli spartani ed i siamesi, ammetta un collega agli onori del trono: il vero. Ed ecco il Cavallotti che ci crede: Carichi di saette pei pedanti, Di crani e feti e aborti d'ospedal, Di vermi per mangiar le proprie amanti, D'upupe per cantarne il funeral; ed egli, l'uomo delle generose illusioni, dice: Portiam le mode del vecchio Parini Le mode rococò d'Ugo e Manzon. In questi versi intanto no di sicuro. E poi, adagio. Dobbiamo fare come i chinesi che ai morti illustri erigono templi dove pregano e sacrificano? Dobbiamo pellegrinare anche noi col bordone e il sanrocchino fino al cappello di paglia del Manzoni? Ci condanneremo all'immobilità di Budda e di Confucio? Ma no, Cavallotti; i grandi uomini vogliamo onorarli, studiarli, ma adorarli e copiarli, no. Non ti ricordi dunque che i crani e l'ossa da lungo tempo hanno acquistato la cittadinanza italiana e fino da quando il tuo Berchet traduceva e chiosava nel Conciliatore la Eleonora del Bürger con grave scandalo delle parrucche italiane? Non ti ricordi dunque che proprio l'upupa che svolazza sulle croci fu uno dei rimproveri che si fecero ai Sepolcri del Foscolo, ai quali gli idealisti d'allora preferirono la cattolica risposta del Pindemonte? Non ti ricordi quel che dice il Ranalli dei Promessi Sposi ne' suoi Ammaestramenti? E bada che gli Ammaestramenti sono libro di testo in troppi licei di questo povero regno d'Italia. Non ti ricordi di una poesia di un certo Cavallotti nella quale certi scheletri salgono sulla carrozza di certi principi? Perchè dunque tante ire? Forse perchè vuoi vestirti come il vecchio Parini? Bada, non è carnevale ed i vestiti rococò ti solleverebbero contro tutti i torsoli di cavolo che vegetano in val d'Olona. Ogni tempo ha i suoi vestiti: tanto è vero che tu non ti vesti affatto come il Parini, ma tu solo sei il sarto de' tuoi versi e, se ti dicessero il contrario, te ne avresti a male. Pare impossibile! Mentre dappertutto si cammina in libertà, noi sentiamo prescriverci la lunghezza dei passi come i coscritti! E non sempre i passi li vorrebbero fatti avanti. Tutti sanno che l'adorazione cieca, la superstizione, è difetto italiano. Quando l'idolo fu il Leopardi, guai a non maledire la vita ed il sole in strofe libere! Quando l'idolo fu il Manzoni, fu dovere il cucinare inni sacri in settenari; e i plagi dei Promessi Sposi! Guai a scostarsi dai modelli! Guai ad uscire dal campo arato, seminato, esaurito dai vecchi! Abbiamo ancora nelle ossa l'antica lue dei petrarchisti. Ma ditemi, per Dio, non era proprio ora di muoversi? Ma non vedete che noi, rivoluzionari, scapigliati, sanculotti, siamo ancora alle cinquantenni prefazioni del Cromwell e di Mademoiselle De Maupin? Immaginate dove sono gli altri! E con tutto questo si sentono alte le grida per la mancanza del romanzo, del teatro, della lirica, della storia, della pittura, dell'arte italiana insomma! Lo credo, io! Guardate per esempio Leone Fortis, che ringrazio pubblicamente, intanto, pel bene che m'ha fatto scrivendo intorno alle cose mie, sia credendomi morto che sapendomi vivo. Guardate Leone Fortis che ha intelletto d'arte, quantunque nella furia delle battaglie gli avversari glielo neghino. Ebbene, è del mio parere in teoria; ma in pratica? Nell'Illustrazione italiana uno che scriveva in vece sua e con idee che egli certo non rinnegherebbe, accettava l'arte purchè fosse arte e non sconciatura, protestava di ammirare una donna scollacciata purchè bella. Ma dunque perchè combattiamo? Tutto l'odio dei nostri avversari cade dunque soltanto sui versi falsi? Ma credono che la scuola nuova sia la scuola de' versi falsi? Ma tanti idealisti non ne fanno dunque dei così scrofolosi che gli ospizi marini non li guarirebbero? S'intende che il maggior numero de' versi storpi sono dei veristi; poichè oggi il verismo è opposizione e chi ha qualche lite colla legge è sempre coll'opposizione e non coi carabinieri. Quando i manzoniani erano opposizione, il maggior numero di versi degni d'essere gettati giù dal Taigeto li facevano i manzoniani (ahimè! ne fanno ancora); ma era forse quella la scuola de' versi falsi? I versi del Carducci tornano pure. Perchè il Fortis, accecato anch'egli dalla furia del combattimento, li trascina alle Gemonie? E poichè sono col Fortis, ci sto. Una donna di mala vita fu macellata e sparata da un beccaio in Milano. Ed ecco il Fortis che nella Illustrazione reputa responsabili dell'atroce beccheria, immaginate chi? Il realismo ed il borghesismo! È proprio il caso di ricantare: Je ne suis pas notaire, C'est la faute à Voltaire. Je suis petit oiseau, C'est la faute à Rousseau! Tali accuse furon già fatte agli enciclopedisti ed ai romantici. Oggi le si fanno ai veristi. Ah, ma dunque il beccaio era realista e borghese? Leggeva dunque questi maledetti elzeviri? Povero me, che credevo di essere un buon avventore pel mio beccaio ed invece m'accorgo che il beccaio è il mio miglior avventore! Leggo in un giornale milanese — «Cronaca nera. Ieri furono eseguiti sei arresti: due per ubbriachezza, uno per contravvenzione all'ammonizione, due per rapina ed uno in persona di una donna per infrazione ai regolamenti di sanità pubblica». Questi son dunque tutti veristi? Quanti ne arrestarono in un sol giorno ed in una sola città! E come è antico il verismo! Caino dovette esser verista perchè accoppò Abele, e Giuda certo tradì Cristo per comprare un volume elzeviriano coi trenta denari. Pel verismo Milziade tradì la patria, Appio Claudio insidiò Virginia, Nerone bruciò Roma, Teodorico ammazzò Simmaco, Ravaillac pugnalò il Re! Furon dunque veristi Gasparone, il Boggia, il Verzeni ed altri assassini illetterati! E il Passanante? Oh, se gli avessero trovato in tasca il Polemica, che belle ore mi avrebber fatto passare! Invece gli trovarono un volume del Giannetto a maggior onore e gloria dell'arte educativa! Che rivelazione! Je suis tombé par terre, C'est la faute à Voltaire. Le nez dans le ruisseau, 127 C’est la faute à Rousseau. Lasciamo lo scherzo. Il Fortis porta un esempio, Giorgio Pallavicino. Il venerato patriota, nel suo ideale della patria una, trovò la forza di resistere persino a Giuseppe Garibaldi. Vedete, si dice, come l'ideale produca gli eroi mentre il verismo non produce che beccai, squartatori di donne! Siamo sempre lì. Siamo sempre all'errore del prendere gli effetti per le cause. Nel 1860 si poteva, si doveva avere l'ideale della Italia una. Ora che questa unità non è più nè discussa nè minacciata, come faremo ad avere lo stesso ideale e cantarlo? Forse dovremo fare dei meetings per l'Italia irredenta? Ma e allora che cosa direbbero il Pungolo e la Perseveranza? Il verismo ed il borghesismo che cosa sono dunque se non effetti di uno stato sociale, momenti di una evoluzione civile? Cercate più in alto le cause che li produssero, discutete quelle, ma consentite che verismo e borghesismo esistono ora per necessità ineluttabile, che sono un prodotto di organismi sociali sbagliati, se volete, ma esistenti. Non possiamo avere alcun ideale perchè non ne troviamo più nessuno presente ed i vecchi non sarebbero più al loro posto in questo Stato, in questa società, in questa famiglia. Fate che scatti fuori una idea nuova, santa e che risponda al bisogno dell'epoca, scatterà fuori anche il cantore di questa idea, e ci saranno i confessori ed i martiri come ci furono per gli altri ideali. Ora il verismo ed il borghesismo sono al loro posto necessario e non saranno cacciati di seggio se non quando i successori saranno maggiorenni. Lasciate dunque di attribuire ai versi de' veristi i delitti dei beccai e gli arresti per oltraggio al pudore, perchè non otterrete altro che di farli ridere questi veristi e di farli cantare: On est si laid à Nanterre, C'est la faute à Voltaire, Et bête à Palaiseau, C'est la faute à Rousseau. Mi hanno anche rimproverato nella Illustrazione italiana la fanciullesca bizza che mi fece cacciare in un verso i fiori bianchi, i quali, a quanto pare, si possono ricordare con applauso di mezzo mondo in un epigramma alla marchesa di Pompadour, ma non in un sonetto ai critici, che non sono poi intangibili e belli come lo fu la marchesa. Ma, domando io, come si fa a non prender cappello quando un idealista stampa queste incredibili parole: «Anche a me piace il vero, ma il bello mi piace più, fosse anche un po' discosto dal vero» e da questa eresia trae la conseguenza che è un peccato che certi libri vadano per le mani dei giovani «i quali non hanno bisogno che gli scrittori mettano loro sott'occhio il vero nella sua nudità più desolante, avendo anche troppo spesso l'occasione d'incontrarlo nella società in cui vivono». Vale a dire che l'arte deve tacere perchè i giovani non perdano l'ignoranza del male; e non solo, ma deve dipingere eternamente il bello, anche se un po' discosto dal vero, ossia, in lingua povera, deve rimar bugie. Un altro, più franco, sentenzia: «Certo il vero è un grande maestro, ma spesso poco sincero». Cioè il vero spesso non è vero! Si dovrà ricorrere dunque non solo alla reverenda scopa di cui dissi più sopra, ma scientemente tradire la verità per rispetto alle innocenti orecchie degli studenti di liceo. E pazienza si portassero in giro soltanto questi strampalati canoni che tutta l'arte da Omero in qua smentisce assolutamente; la bizza fanciullesca passerebbe subito. Ma quando nella Illustrazione, proprio nella Illustrazione Italiana, sotto gli occhi del Fortis, si commettono sacrilegi come quello che vi si commise poche settimane fa, altro che bizza, c'è da sentirsi addosso le furie d'Oreste. In quella sconcezza (non trovo vocabolo più parlamentare), in quella sconcezza di quattordici versi un signore aveva il... aveva la... insomma osava domandare scusa alle signore ed alle signorine pel povero Dante Alighieri infetto anche lui di qualche taccherella di verismo!! Ombra del padre Bettinelli D. C. D. G. riposa in pace: anche i tuoi allori sono invidiati! No, qui non hanno che fare nè la pretesa Arcadia dei giornali ebdomadari, nè la pretesa côterie de la réclame di casa Treves: ci ha che fare qualche cosa che è meglio tacere, altrimenti la bizza fanciullesca mi torna addosso: e domando se non ho ragione? Ma torniamo alla calma. L'amico mio Gnoli in una recensione della prima edizione di questi Polemica, inserita nel primo fascicolo di Giugno della Nuova Antologia, si maraviglia quasi che lo Stecchetti abbia scritto un sonetto dove c'entrano affetti famigliari, dimenticando che anche nei Postuma ce n'erano dei moralissimi, e gli fa press'a poco queste domande — «Se sei galantuomo, perchè ti fingi briccone scrivendo? e se scrivi versi da briccone parlando in prima persona del singolare, non ho io diritto di crederti quale ti dipingi?» — Qui, prima di tutto, c'e un errore di memoria, poichè era da ricordare come i Postuma uscirono alla luce in persona d'altri e che, soltanto dopo, l'autore, compiaciutosi della creazione della sua fantasia, si tenne il pseudonimo come un secondo nome, allo stesso modo che, fatte le debite proporzioni, Ugo Foscolo firmò molte lettere col nome dell'amico di Jacopo Ortis, Lorenzo Alderani. Non credo poi che in quel libro ci sia nulla che una onesta persona possa desiderare di non aver fatto e scritto. Almeno io, all'infuori della morte del protagonista, accetto tutto sulle mie spalle senza arrossirne punto, e non credo che ci sia così frigido critico a questo mondo il quale ne' suoi anni verdi non abbia condotto nei cabinets particuliers del suburbio qualche dozzina di Emme o di Caroline. Anzi credo che si dovrebbe arrossire di non averlo fatto, e Catone, che non fu di manica larga, non biasimò il giovane che usciva di dove sapete, come farebbe certo qualche Catoncino schifiltosino che m'intendo io. Ma c'è poi altresì uno di quei pregiudizi critici che gli scrittori, anche coscienziosi come il Gnoli, accettano troppo spesso belli e fatti per pigrizia di pensiero e per incosciente conseguenza di teoriche già accettate. È moda, e dirò col Gnoli, è teorica adesso il giudicare le opere d'arte come se fossero tante autobiografie. Il Byron fu già accusato di conoscere per prova le delittuose sensazioni di Lara e del Corsaro, benchè gridasse pure: judge me by my acts. Per questo pregiudizio il Satyricon sarebbe l'autobiografia di Petronio Arbitro, il Metamorphoseos liber quella di Apuleio, il Werther quella del Goethe, e così si dica per tutti quelli che scrissero in prima persona. È proprio il caso delle donnicciuole di Verona che credettero Dante tornato davvero dall'inferno perchè scrisse in prima persona ed ebbe il viso fuligginoso. Non vi pare che si abusi di queste deduzioni per la fregola di ricostruire un uomo intero dall'opera sua, come il Cuvier si vantava, conosciuto un solo ossicino, di ricostruire un intero megaterio scomparso? Non vi pare che queste teoriche confinino con quella del Desbarolles che dalla calligrafia di una persona pretende di indovinarne il carattere morale? Gli Inglesi si sono pentiti da un pezzo di quel Shakespeare ipotetico che s'erano immaginati, gabellando per sentimenti del poeta molti squarci messi in bocca ad un eroe qualunque: ma noi intanto facciamo peggio, considerando come storia della vita vera di Dante le allucinazioni mistiche della Vita nuova. Questo sbaglio mi pare che derivi da una interpretazione troppo assoluta dell'oraziano: …... Si vis me flere dolendum est Primum ipsi tibi; tunc tua me infortunia laedent. Non si bada che qui si dice soltanto quello che tutti gli autori comici sanno bene, cioè che per trascinare il pubblico agli applausi bisogna sentire la parte, non già averla fatta per davvero nella vita. Oh, allora lo Schiller che razza di birbone sarebbe stato, egli che ha pur sentito e scolpito il Franz Moor ne' Die Rauber? E la signora Virginia Marini quando recita con tanta verità la Messalina del Cossa, per chi la prendete dunque con questa teoria? Ma date voi alla parola verità lo stesso significato nell'arte che le dà il computista ne' suoi libri? Allora siete più veristi di noi; allora sì che c'è da gridare: arte mia, buona notte! Non diciamo che si debba scrivere soltanto quello che s'è visto, ma che si deve scrivere soltanto come se si fosse visto. Alle altre obiezioni del Gnoli ho già risposto più in su in questa predica e confesso d'aver risposto molto prima che egli scrivesse la sua recensione. 129 Le obiezioni infatti, come le risposte, sono press'a poco quelle stesse che sul cadere della Restaurazione francese scambiavano tra di loro i classici ed i romantici. Il postulato dell'arte educativa, dal quale scendono tutti i corollari critici dei conservatori nell'arte, è troppo controverso per essere accettato così ad occhi chiusi, e per me, l'ho già detto, non credo tutt'al più che ad una influenza riflessa dell'arte sulla società, molto causale e molto tenue. Ho già quasi detto, che se è vero che la Marsigliese fece vincere molte battaglie, fu però la rivoluzione che fece la Marsigliese. Se non mi ammettete come causa gli entusiasmi francesi del 1792, non potrete mai, mai e poi mai, aver l'effetto di quel magico inno, nato dall'entusiasmo e non da altro, poichè l'autore, raffreddato l'ambiente, non arrivò più a tale altezza lirica, per quanto ci si provasse. E scelgo appunto il massimo esempio dell'arte educativa, perchè, quanto al resto, nessuno mi leva di capo che i giuochi si sarebbero fatti in Olimpia anche senza Pindaro, e il quarantotto sarebbe stato quello che è stato, anche senza il canto Fratelli d'Italia. L'effetto educativo di Omero, di Sofocle e di Virgilio, mi pare molto problematico, a meno che non si ficchi tra gli effetti educativi anche la stabilità che gli autori illustri danno alla grammatica di una lingua, nel qual caso il Boccaccio e il Rabelais sarebbero molto più educativi del Segneri e del Bossuet. Nego dunque assolutamente e recisamente questa affermazione del Gnoli — «La nostra letteratura e specialmente la nostra poesia hanno un gran merito e impareggiabile, quello di aver preparato e condotto la libertà e l'unità della patria» — Nego, nego, nego. Prova, amico mio, a pensare la letteratura di cui parli, portata indietro, per esempio, mezzo secolo nella storia. Che effetti avrebbe potuto ottenere ed a che libertà avrebbe potuto condurre nell'ambiente in cui si trovava? Non solo, ma come avrebbe potuto esistere fuori dell'ambiente proprio? O meglio ancora, è possibile concepire l'anacronismo di uno spostamento simile? Dunque non fu la letteratura che preparò e condusse l'Italia allo stato presente, ma furono le aspirazioni italiane che prepararono e crearono la letteratura patriottica della quale tu parli. Letteratura poi, che, salvo le opere di pochi sommi, non fu certo quella del secol d'oro come arte, e che se ottenne qualcuno degli effetti riflessi di cui parlavo, non li ottenne per la sua perfezione intrinseca, ma per l'entusiasmo che trovò bello e preparato negli ascoltatori. Ed oggi la rettorica del quarantotto ci fa sorridere, appunto perchè quell'entusiasmo giovanile non c'è più, e non c'è arte al mondo, che lo possa resuscitare colla sua sola forza, per quanto grande la si voglia credere. L'arte non ha mai modificato le aspirazioni di un popolo o di una società, ma è sempre accaduto il contrario. L'arte non ha mai condotto a nulla, tutt'al più ha condotto qualche artista all'ospedale. Ma vedete. L'arte di Giovenale fu ben terribile, e pure non guarì nessuno. L'arte de' padri della chiesa fu ben misera, e pure il cristianesimo cangiò faccia al mondo. Ecco dunque che non è l'arte quella che corregge, che educa, che rinnova. Ma tutto questo non è che inutile ripetizione e ne domando scusa. L'ho già detto che l'arte non fa le rivoluzioni, ma le subisce e le segue. Dico adesso, che è poi inutile volerci costringere ad essere educativi per progetto. Non solo l'arte non fermerà nessun cassiere che scappi colla cassa, e non dissuaderà alcun baggeo dal comprare cartelle del prestito Bevilacqua, ma, se ci si prova, si farà fischiare dal colto pubblico e dall'inclita guarnigione. Non ci sono le favole del Pignotti e quell'aureo libro che è il Codice penale per tenere i cittadini sulla via diritta? Lasciateci dunque in pace, e poichè ho ricordato Orazio ed una citazione latina fa un bell'effetto, specialmente ai novecento novantanove critici che non la capiscono. …... Sit jus liceatque perire poetis, Invitum qui servat, idem facit occidenti. Un signore di vista corta dice che soltanto «lavoriamo e studiamo a far l'amore», e ci rimprovera di scordare i contadini e gli operai e insomma le questioni più gravi del nostro tempo. Pover uomo! non stuzzichi i cani che dormono, e dorma lui, sognando a suo comodo che i nostri cuori non siano capaci che di spasimare per donnine ignude. E preghi il suo Dio di non destarsi quando finite queste inutili scaramuccie verranno le battaglie vere, quando questa società ipocrita, frolla e senza cuore che noi tiriamo alla berlina nei nostri poveri canti, si troverà in faccia alla rivoluzione della giustizia. Allora egli potrebbe accorgersi che non abbiamo lavorato solo a far l'amore e che colle nostre picciolette mani abbiamo ca- vato anche noi una pietra delle sue fortezze. Allora egli sentirebbe quelle bocche stesse che oggi narrano freddamente le vigliaccherie e le turpitudini di un mondo in decadenza, cantare ben altri canti, levare ben altri peana! È curioso! Critici che vogliono una tesi anche in una farsa, che meritano l'Epitaffio di Atta Troll, ... Tendezbär, sittlich Religiös: als Gatte brünstig; Durch Verführtseyn von dem Zeitgeist: Waldursprünglich Sanskülotte, non s'accorgono poi di quello che sta sotto a questa scuola verista, non vedono dove si va e dove vogliamo andare, non sentono che siamo serbati a vedere trionfi ben diversi da quelli della chiesa e della scuola del Manzoni! Non capiscono a qual rinnovamento sociale tendano concordi le scuole positive nelle scienze e nell'arte, e sognano ancora la risurrezione del cattolicismo e della metafisica! Ciechi! Volete dunque che ve li cantiamo in faccia gl'inni nichilisti? Volete dunque voi, che discutete sentimentalmente il divorzio, la cooperazione, il diritto di sciopero, volete dunque che vi cantiamo in tanti endecasillabi dove noi corriamo sapendolo, e dove, inconsci, correte anche voi? Cari miei, non vi sembrerebbe di avere abbastanza voce in corpo per invocare l'ausilio del Procuratore del Re e della Benemerita Arma come fanno gli amici giureconsulti genovesi. Uno de' miei canti è già stato in Corte di Assise per questo, o brava gente, cui è facile gridare che lavoriamo solo a far l'amore! Ma non c'importa di esser martiri a così buon mercato. Vogliamo fare qualche cosa di meglio. Siamo giovani abbastanza per rivederci di qui a parecchi anni. Allora ci saprete dire se sotto al verismo c'era soltanto l'oscenità, o se non c'era qualche cosa di più grave. Allora ripeterete, se vi sentirete abbastanza lena addosso, sacro a tutti è il lavoro; ma badate che bisognerà lavorare sul serio. E dopo tutte queste chiacchiere abbiate pazienza se mi resta ancora qualche cosa da dire. Ruppi la lancia pei veristi, feci un bel castelletto di carte dove fortificai gli argomenti della scuola nuova. Ma la lancia fu di legno dolce ed il castello con un soffio rovinerà. Infatti, tutte queste distinzioni di veristi, realisti, idealisti, scuola nuova, scuola del Manzoni, e simili sonanti parole, non sono che vane apparenze, flatus vocis, imaginati e fatti apposta per leticarci sopra e sfogare il vapore battagliero che, dal Caro in qua, fuma su dai fegati letterati in Italia. Chiacchiere. Altro è l'intento d'un libro, altro è l'arte con cui fu scritto. Mi pare che se facciamo una critica di intenzione siamo fuori del campo letterario. Mi pare che sia lecito il dire che le commedie del Sardou sono perniciose alla frigidità delle ragazze, ma mi pare anche che questa non sia critica d'arte. Invece le logomachie fra i veristi e gli idealisti pretendono proprio di esser critiche d'arte, mentre sono, se pur lo sono, dispute di sole tendenze. Ma che cosa c'entra la moralità, nell'arte di un libro? Ma io nego l'arte morale, educativa, pudica, perchè la moralità, l'educazione, il pudore non sono niente affatto tropi, ritmi, ornamenti, rettorica; sono ben altro! Non confondiamo l'arte di uno scrittore co' suoi concetti. Quando leggete i Dialoghi de' massimi sistemi, è il sistema copernicano che vi piace, o lo stile del Galilei? Se vogliamo fare una critica d'arte diremo quindi che l'arte dell'Aretino è più grande di quella del Vico. Se facciamo una critica etica diremo invece che il Vico è un grande filosofo e l'Aretino un gran porco. Non confondiamo dunque la forma colla sostanza. Dico bene? Invece quegli uomini buoni che partono armati in guerra come il Marlbourough della canzonetta (mironton, mirontaine), trovano comodo rimescolare ogni cosa e nei loro consigli di guerra giudicare le tendenze invocando il nome dell'arte. La confusione è utile ma non è giusta, e il cornuto dilemma della forma e della sostanza sarà sempre là pronto a rovesciare i loro scanni curuli e i nostri castelletti di carte. Ci sono degli autori che hanno delle cattive intenzioni? Sta bene. Ma non ne fate una scuola letteraria per carità! Non li battezzate veristi, realisti, anticristi, perchè qui l'arte non c'entra. Dite che Caio segue il Darwin, che Tizio studia lo Spinoza, che Sempronio ricorda Epicuro, ma non conduceteli al giudizio dei let131 terati, mentre dovreste condurli a quel dei filosofi. Dite che l'etica di molti è sbagliata, ma non dite che la poetica è spregevole solo perchè l'etica di molti non è la vostra. Cercate ne' libri del Mamiani, nel Codice, nel Galateo, nella Dottrina cristiana gli argomenti da opporre ai loro argomenti. Cercate nell'ingegno e nella fantasia dei vostri catecumeni gli ornamenti e le vesti pei vostri filosofemi, e le poesie verginali ed i romanzi ortodossi da contrapporre agli altri. Fate commedie, racconti, giornali a tesi, ma non confondete la tesi coll'arte. Le tesi delle commedie di Paolo Ferrari sono molto più morali di quelle di A. Dumas figlio. Ma le commedie sono più belle? Se farete questa distinzione fra la critica d'arte e quella di tendenza, ecco tutte queste controversie bizantine fra scuola e scuola cadono da sè. Guardate. Se la critica si fa all'assunto di un libro e non all'arte, ci sono degli scomunicati che dovrebbero esser beati e viceversa. Ma se confondete tutto e sentenziate che gli idealisti sono gli autori morali ed i veristi gli immorali, dirò che le tragedie dell'Alfieri, piene zeppe di pugnali, di veleni e d'incesti, sono veriste in sentenza vostra, e le canzonette dell'abate commendator Scavia sono il prototipo dell'idealismo. E vi dirò che il rispetto, non idolatra ma giusto, che sentiamo pel Manzoni, può far dimenticare a noi ma non al Settembrini che i Promessi Sposi predicarono la rassegnazione all'Italia assassinata, ed i padri gesuiti, forse per questo, ne raccomandarono la lettura alle loro penitenti9. Vedete subito dove ci condurrebbero i confronti, per esempio, colle Confessioni di un ottuagenario del Nievo: vedete subito i bizantinismi che nascerebbero dal confronto del Jacopo Ortis con le Mie Prigioni. E se pensiamo alle teorie linguistiche dello stesso Manzoni, cresce a dismisura l'imbroglio. Dice bene l'Ascoli — «Prima si aveva l'ideale della tersità classica, ora sorge l'ideale della tersità plebea». — Tutti sappiamo che questa tersità plebea, ossia la lingua fiorentina, fu l'ideale del Manzoni. I sacerdoti galli che anatemizzano le nostre pretese falloforìe, dovrebbero vedere di non leticare prima in casa e di saldare insieme il Manzoni idealista nelle tendenze col Manzoni verista nei mezzi, prima di giudicare noi poveri piccini con criteri critici che non stanno nè in cielo nè in terra. E con questi criteri dove si andrebbe? Nè dite che certi autori vollero appunto disgustare dal vizio dipingendolo orrido o schifoso, poichè questo fu appunto l'argomento col quale il vescovo Bandello volle scusare la sudiceria delle sue novelle e, ragionando così, sarebbe morale ed idealista anche lui. No, dite piuttosto che nelle questioni d'arte la moralità non c'entra affatto e che non è da confondere la critica della tesi colla critica della forma. A nessuno dei più sfegatati veristi cadde mai in mente che la parola d'ordine dell'arte nuova sia il rimar porcherie per convertire il mondo alla fede degli adamiti olandesi od alle pratiche di Aloysia Sigea Toletana. Se ce ne sono che scrivono così, non scrivono perchè il credo di una scuola artistica lo imponga, ma perchè a loro, come individui, quegli assunti etici paiono buoni da rimare. Non fate dunque i rimproveri vostri agli artisti, ma agli uomini; non ad una scuola che non c'è, ma ad una perversione di coscienza e di istinti che ci può essere, benchè io, miope, non la vegga. Non invocate l'epistola ai Pisoni, ma il titolo VII, articolo 420 e segg. del Codice Penale e la legge su la stampa; e credete che le scuole artistiche, se ci sono, badano solo all'arte e non alla tesi, poichè a quest'ultima ci badano la filosofia, la politica, l'economia ed altre amene scienze inventate per rompere le capaci tasche dei poveri contribuenti. Vogliamo invece fare una critica d'arte? Non parliamo allora di moralità, di tendenze, di tesi, che non furono mai cose d'arte; ma diciamo, questo verso è zoppo, questo aspro, questa immagine falsa, questa linea sbagliata, questo colore convenzionale, questa sinfonia piena di riminiscenze, e così via. Ma non dite, come fate purtroppo, questa poesia è brutta perchè c'entra una donnaccia; poichè questa non è critica d'arte. La statua di Frine potrà essere stata immorale, ma fu bella; e le madonne del Margaritone potranno essere state moralissime, ma furor brutte. E poi si vede da lontano, che stando nel campo dell'arte e analizzando bene queste scissioni causistiche di scuole, ci sarebbero degli idealisti più veristi di Courbet. 9 Vedi le Lettere scritte a Giacomo Leopardi, Firenze, Success. Le Monnier, 1878, pag. 158. È noto che Monaldo Leopardi era amico del generale dei gesuiti p. Roothan. A che cosa si riduce dunque tutto il fracasso che si fa ora nella turbolenta repubblica delle lettere? Al titolo di una commedia di Shakspeare: Much ado about nothing. È verissimo che ci sono alcuni, specialmente giovani, che hanno tolto per impresa i bei versi del Carducci: Odio l'usata poesia. Concede comoda al vulgo i flosci fianchi e senza palpiti sotto i consueti amplessi stendesi e dorme; e per togliersi dalle rime consuetudinarie hanno stimato, come Quintiliano, che tutte le parole sian dette bene al loro luogo ed hanno cercato appunto quei luoghi dove i conservatori non osavano mettere le parole ed i sentimenti veri giusto per far vedere più chiaramente la loro intenzione. Furono chiamati veristi solo per questo, che usavano la parola propria dove gli altri usavano la metafora, ed accennavano al sentimento vero dove gli altri velavano il proprio. Ma può essere una scuola questa? Se c'è chi ha cantato un'osteria colle parole necessarie a dipingerla, chiamando litro e non nappo il recipiente che si usa più spesso, direte che si è messo in una scuola piuttosto che in un'altra? Potete nell'abito dell'arte trovare che il quadro è mal dipinto: potete nel calcolo delle intenzioni deplorare che si frequentino e si cantino le osterie dove il vino è buono, ma non potete dire che quell'opera sia brutta perchè c'entra una osteria. Allora dove mi ficcate i pittori fiamminghi? E dove mi ficcate la traduzione della Pucelle d'Orléans fatta dal Monti e venuta in luce da pochi mesi? Bel caso fu questo! Il Monti, assunto già sugli altari dell'ideale, sta per esserne precipitato, ed i filistei si alzano già in punta di piedi per gridargli raca. Bel caso! E pure quella traduzione è fatta per bene, tanto come quella delle Satire di Persio, filistei pudicissimi. Scandalizzatevi pure, pusilli, che noi non ci metteremo al collo la pietra molare poichè, se voi svolgete quelle pagine per trovarci gli amori dell'asino con Giovanna, noi non cerchiamo sì fatte cose. Cerchiamo là quel sale attico che Aristofane versò a piene mani nelle sue libere commedie e che gli ateniesi gustarono plaudendo, essi che di quel sale attico probabilmente se ne intendevano. Quel sale attico che conservava le opere d'arte vive e fresche, mentre i dolciumi vostri passano così presto allo stantìo. Ben venga magari anche la traduzione della Guerre des Dieux di quel Parny che il Rapisardi conosce molto. Se fosse ben fatta diremmo bene; diremmo male se fosse mal fatta. Voi inorridireste in tutti i modi leggendola avidamente cogli occhi fosforescenti. Ecco intanto secondo i vostri bei canoni critici il Monti diventato verista perchè tradusse un poema allegro, non è vero? Vorreste forse negarlo? Ma se lo negate, allora, che cosa vuol dire verista? Che copia il vero forse? No, perchè nessuno dei più scamiciati ribelli vuole abbassare l'arte all'ufficio della fotografia. Che cosa vuol dire idealista? Che cerca al di là del vero qualche cosa di impalpabile, di spirituale, come salsa per il vero stesso? Vuol dire prendere una fornaia e modificarne il ritratto sino a farne la Madonna della Seggiola? Ma tutti gli artisti, anche il Courbet, fanno a questo modo. C'è solo differenza nel modo di far la salsa; chi la fa cattolica e chi pagana, chi dolce e chi piccante, e tira via. Ideale! Ma se questa parola significa quella cucinatura speciale del vero che fa l'artista nei suoi fornelli, tutti sono idealisti. Non lo sono più tutti quando si vuol dare una interpretazione restrittiva a questa parola e intendere per idealismo la maniera di Caio o di Tizio e per ideale la sola salsa dolce. Guardate un poco il preteso idealismo dei pittori trecentisti, quel sentimento religioso e contemplativo che si vuol vedere per forza nelle loro opere. Non è altro che ignoranza del tecnicismo dell'arte. Il signor Toschi nella Nuova Antologia riduce alle proporzioni volute questo preteso idealismo. Ci guardino i battaglieri manzoniani, che c'è da imparare molto e da correggere i molti e i vecchi pregiudizi accademici che tutti abbiamo ancora in corpo. 133 Dunque? Dunque non vi sono nè veristi nè idealisti. Se mi dite che l'esser galantuomo, l'amare la patria, l'ammirare l'arte del Manzoni sono i caratteri indelebili degli idealisti, nessuno è più idealista di me. Se mi dite che ammirare le donne belle, bere il vino buono ed amare l'arte del Carducci sono i caratteri dei veristi, nessuno è più verista di me. Ma ognuno vede la verità coi propri occhi ed ha un ideale proprio. Per esempio, l'ideale della mia donna non è quello che il Vittorelli espose nelle sue anacreontiche; il mio ideale porta un vestito grigio che costa 4,50 al metro. Il mio ideale della patria non è l'Italia mia melodrammatica, ma un'Italia nella quale sono elettore ed ineleggibile. Il mio ideale dei bimbi non è quello che si trova nei santini di Francia col suo bravo angelo custode che li cova sotto le ali bianche, ma è invece in due bimbi che mi tirano i capelli quando li prendo in braccio. Saranno ideali meno sublimi, ma non meno nobili, non meno degni dell'arte, e nell'arte mi pare che ci si possa star bene anche senza frasi fatte, lucidi entusiasmi artificiali, e pudicizie d'uniforme. Il Napoleone tutto nudo che fu modellato dal Canova colla sua brava foglia ideale, non mi pare che debba escludere dall'arte i Napoleoncini del Meissonnier; e la Trasfigurazione, con tutti i suoi apostoli, non esclude nessuna Kermesse con tutte le sue donnaccie. Perchè vituperarci l'uno coll'altro mentre siamo in fondo d'accordo? Il Salmini finisce il suo Polycordon colla obiurgazione d'obbligo alle serve che mostrano le coscie veriste e poi è un ribelle anch'egli nella sostanza, nella forma e sino nel titolo. Dove sono dunque i limiti di queste pretese scuole? Quando lo Zanella, frugando tra le ceneri scaligeriane, acchiappa il tizzo che accese già le guerre letterarie per Cicerone e scrive una panzana a certi filologi tedeschi che fa veder proprio la inanità di queste battaglie idiote fra Varo ed Arminio ascriveremo il peccato ad una scuola? Non ci mancherebbe altro! State attenti all'aforismo che vi dico e tenetelo a mente. Non ci sono nè veristi nè idealisti. Ci sono degli autori che scrivono bene e degli altri che scrivono male; ecco tutto. Perchè dunque questi due campi senza ragione? Chi lo sa? Non lo so nemmeno io che con tutta la persuasione delle loro inanità scrivo un libro contro i pretesi idealisti come già el ingenioso hidalgo si rompeva le corna contro i mulini a vento. Non può esserci altra spiegazione che nell'istinto battagliero fatalmente necessario alle epoche di preparazione e di transizione, il quale pervade tutto, dal mestiere alla scienza, dalla politica all'arte. Respiriamo tutti l'ossigeno ad alta dose. Domani avremo le vertigini e dopo domani o saremo guariti dai mali vecchi o diverremo l'humus necessario alla vita delle generazioni avvenire. Che Bismark ce la mandi buona! Basta; è ormai ora di finire. E poi a che prò discutere? Per drizzare le gambe ai critici? Ci vuol altro! Sono essi che hanno vituperato il Carducci che è il Carducci. Sono essi che parlarono a fior di labbra del Panzacchi affettando di metterlo dopo gli altri. Sono essi che m'hanno applaudito quando mi credevano morto e due giorni dopo mi hanno gridato pericoloso ed immorale perchè hanno saputo che son vivo! Al morto dissero: peccato che non sia vivo! Al vivo dicono: era meglio che fosse morto! Chi l'indovina con loro? Si disse che questa è l'età della critica, e mi pare impossibile negarlo quando si vede un formicaio di critici così numeroso. Già chi non ha nulla da fare a questo mondo fa il critico, e quasi si potrebbe dire che la critica è la madre dei vizi come l'ozio ne è il padre. Questa stravagante tendenza e questi ritrattini deliziosi di critici furono già molte volte descritti, ed il Carducci ne fece un quadro che il simile non lo fece Apelle. Il più bello, il più caro, il più esilarante di tutti è il ritratto del critico dogmatico, che altri fece ed io non voglio copiare. Solo ne voglio dir qualche cosa perchè è proprio il critico dogmatico quello che regna sovrano in quasi tutti i licei di questo felice regno d'Italia e ne' giornali più larghi e più pesanti. Si sa. Oggi la critica è necessaria. Si vive presto, non si ha tempo di leggere che un giornale appena, ed il lettore ha bisogno di trovar belli e fatti nel suo giornale i giudizi sulle opere d'arte che escono alla luce, per non esser poi reputato ignorante nei colloqui col suo prossimo, il quale studia anche lui la letteratura nel suo giornale e giudica e manda secondo il critico avvinghia. Gli avvocati, a forza di ragionamenti, sono già arrivati a persuadersi che tutte le cause debbono esser difese, anche le più spallate, e che è dovere sacrosanto il sacrificarsi a difenderle. Lo Strepsiade di Aristofane troverebbe anche oggi, e dappertutto, chi crede dovere di coscienza l'adottare il ragionamento giusto o l'ingiusto secondo la causa, ed insegnare l'arte di non pagare i debiti a forza di dialettica. Ma siccome la legge economica della domanda e della offerta ha fatto che ormai sia più grande la produzione degli avvocati che quella delle cause da difendere, accade che molti giurisconsulti, non avendo clienti, nemmeno per le cause spallate, si sono fatti critici ed hanno portato nella critica tutto il bagaglio dei sofismi curiali. Le logodedalìe furono così innalzate alla ennesima potenza, e perchè avessero pure un fondamento di severa logica, si inventò la trionfante, la piramidale distinzione fra il bello ideale ed il bello reale. Lo disser già quei meravigliosi sofisti che furono gli scolastici: saepe nega, concede parum, distingue frequenter. Non è facile camminar spediti nello spinaio piantato da costoro. Pure si vede, così tra il fosco e il chiaro, che il bello ideale è una specie di bello assoluto, l'idea di un tipo sopra sensibile e perfetto, mentre il bello reale è relativo, sensibile e perfettibile. Questa distinzione fu certo una delle più felici applicazioni dell'arte sognata da Strepsiade, alla necessità delle cause spallate. Infatti questo bello ideale ed assoluto nessuno l'ha visto, nessuno l'ha sentito e — che vi sia ciascun lo dice — dove sia nessun lo sa. È più facile scriverne un trattato come fece il Gioberti che darne una definizione chiara ed esatta in modo che tutti la capiscano. Ecco dunque come è facile, a questi critici metafisici l'aver sempre ragione. Sentenziano essi che un'opera è più o meno bella, secondo che si accosta più o meno a questo bello ideale ed assoluto. Ammesso questo postulato, tutto è finito. Mancando un termine di confronto, poichè questo bello assoluto è l'araba fenice, la via pei difettivi sillogismi e per le sentenze dogmatiche è già spianata. Così la Pizia rispondeva invece del Nume e così certi critici seggono sul tripode ed eiaculano l'oracolo da bravi sacerdoti dell'assoluto metafisico. Così sappiamo soltanto da loro quando un'opera si accosta o si allontana dal bello ideale ed assoluto, ed il buon lettore che studia le loro sentenze dopo pranzo, non potendo far confronti per mezzo del giudizio proprio, perchè il bello assoluto non lo conosce neppur di vista, per forza deve credere al critico che fa le mostre di conoscerlo lui così bene e di esserne intimo. Speriamo che il progresso dell'arte critica e la crescente produzione di avvocati senza cause, perfezioni questo metodo sempre vittorioso, tanto da applicarlo non solo al bello, ma a tutte le altre qualità dei corpi e delle loro forme. Speriamo di veder introdotto nella critica d'arte il verde assoluto, la sonorità ideale ed altre amene concezioni che mostreranno la fecondità del cervello umano nell'immaginare sciocchezze; fecondità non superata che dalla ingenuità di chi se le beve. Benedetti avvocati! E pensare che sono laureato in legge anch'io! E benedetti critici! Sono diventati tutti quaqueri Si vede bene che se avessero le idee chiare e dovessero esprimerle chiaramente, descriverebbero l'ideale dell'arte a questo modo: Un grande prato magari nella classica valle di Tempe, pieno di letterati pecore e di critici mastini. Quando un agnello scapestra, ecco il mastino lo azzanna alle orecchie e lo riconduce entro i termini segnati dall'erma del Manzoni (priva s'intende degli ornamenti che Alcibiade troncò alle erme ateniesi). Il buon pastore intanto ammazza il tempo recubans sub tegmine fagi, soffiando nelle rustiche avene o allacciando le brache di precauzione ai montoni innamorati. Sublime ideale! Fuori dal gregge chi non crede ai dogmi! Abbaiate, mastini, alle calcagne di chi non crede possibile un identico sistema di pesi e di misure per tutte le opere d'arte da Zeusi al Morelli, da Jubal al Verdi: da Omero al Carducci. Abbaiate!... Il sogno è arcadicamente bello, ma pur troppo calano i montoni colle brache e si moltiplicano i lupi 135 sanculotti. Ma, via, perchè discutere? È ora di fare. Cessiamo dalle chiacchiere che fanno perdere il tempo e lasciano ognuno nel proprio parere. Concludo. È vero che non siamo cattolici apostolici e romani, ma non è vero che siamo corruttori, fabbricatori di veleni, Canidie, Locuste, Borgia o Brinvilliers. Eccederà la ribellione, ma eccede la reazione, e ribellione e reazione non sono che la tesi e l'antitesi dalle quali trionfante e gloriosa la sintesi proromperà. Oh, lettor maligno, dove sei? Ti dimenticavo, poverino! Vieni qui e guardami. Ho il polpastrello del pollice sulla punta del naso ed agito le dita distese. Così ti saluto. 30 settembre 1878 POLEMICA Paedicabo ego vos et inrumabo, Aureli pathice et cinaede Furi, qui me ex versiculis meis putastis quod sint molliculi, parum pudicum. Nam castum esse decet pium poetam ipsum: versiculos nihil necesse est. C. VAL. CATULL. Carm. XVI. 137 Ed anche a me da l'innocente cuna ridon due bimbi che l'amor mi diede e quei due bimbi son la mia fortuna, la mia bella speranza e la mia fede. Anch'io, ne' chiostri che la notte imbruna, anch'io singhiozzo d'una tomba a 'l piede: anch'io soffro, lavoro, amo, ed alcuna vergogna a 'l famigliar desco non siede. L'anime intanto castigate e buone che confondon gli apostoli e i poeti, l'anime pie mi credono un briccone perchè gli affetti miei cari e segreti non portai tutti quanti a processione ragliando salmi come fanno i preti. Idealisti saggi, ho molto amato de la mia gioventù ne 'l facil corso: chi molto amò ne 'l mondo è perdonato tal de 'l vostro Gesù suona il discorso. Così, critici miei, tutto lavato, senza la macchiolina d'un rimorso, da la gran voce de 'l Signor chiamato a 'l cielo salirò con l'ali a 'l dorso. Ivi la donna mia sovra le stelle, angelo bianco, arcangelo giocondo, bellissima vedrò tra l'altre belle; e furtiva verrà de 'l cielo in fondo a farmi le carezze e le frittelle che mi fa tanto buone a questo mondo. 139 IL NOME DI MARIA Non per tempo che passi o lunga via che da te mi divida o m'allontani, non per mutarsi de gli eventi umani potrò dimenticarti, anima mia; e ne lo spasimar de l'agonia, giunto a la sera che non ha domani, pensando a questi dì fatti lontani il nome tuo singhiozzerò, Maria. E diranno di me: — l'ora de 'l pianto ecco vinse il ribelle: ecco l'aiuto chiese d'un nome benedetto e santo. — Ma no. Su 'l letto funeral caduto quel dolce nome lo dirò soltanto in memoria de 'l ben che m'hai voluto. A GIOSUÈ CARDUCCI E su 'l ginocchio, come il gladiator tirreno, Poggiato, io, fra le chiome E ne 'l rïarso seno La fresca aura sentendo Morirò combattendo. G. CARDUCCI Enotrio, dormi ed alte a 'l ciel le grida de la battaglia vanno, e la bandiera, la tua bandiera dispiegata a i venti sta ne la pugna. Stretti a coorte, giovani soldati, a lei d'intorno, combattiam per lei: tu nostro duce intanto e forza nostra, Enotrio, dormi. Non senti dunque de l'incenso il puzzo e il canto fermo e d'Escobar la voce? Antiche l'armi a le novelle pugne porta il nemico; e il buffon Mena, da 'l tuo forte schiaffo segnato il viso, le tue laudi canta, ma co 'l pugnale di ferirti cerca dietro le spalle. Oscenamente dondolando l'anca Bavio spadone d'assalir si vanta l'arte tua bella e di tenerla sotto ferma, domata; e Lesbia, usata a glubere i nepoti floschi di Remo sotto gli angiporti, getta il tuo libro e con la lingua infame turpe lo dice. Ecco i nemici, e tra di lor gli onesti, canuti o pigri, che scordar non sanno gli antichi santi, cari a la lontana lor giovinezza. Ecco il nemico. Destati. Le chiavi, le chiavi d'oro stan ne 'l suo vessillo. Ecco, ne gl'inni lacrimosi invoca 141 papa Leone. Le forti strofe contro lui saetta, prorompan gl'inni da 'l possente petto, gl'inni civili e il giambo avvelenato come una volta, e vinceremo. Su 'l sudato campo erigeremo il memore trofeo: la fronda sacra cingerem, Poeta, a la tua fronte. Intanto Marsia a 'l vergognoso tronco udrà, legato, de 'l trionfo il canto, Marsia che indisse co 'l sottil belato a te la sfida. Co 'l suo coltello le caprine corna e il vello infame gli trarrem di dosso: ad Evio sacro ne faremo un vasto otre pe 'l Chianti. Apostata, marrano e rinnegato ecco bestemmierò l'arte che amai, de 'l mansueto ovil saggio castrato belerò madrigali a' macellai, farò poemi casti a buon mercato, rogiti in versi sciolti pe' notai, e mi confesserò da 'l mio curato tre volte al giorno se peccassi mai: maledirò la carne di maiale, farò un bambino con la fantasia d'un platonico amor frutto ideale: e ne 'l nome di Cristo e di Maria amerò, servirò l'arte morale se mi saprete dir che cosa sia. 143 A FELICE CAVALLOTTI Sarà il caso di vedere se per ritemprarci al gusto antico vi sia bisogno di farci dare anche gli abiti a prestito dai nostri nonni. F. CAVALLOTTI, Prefaz. alla traduz. di TIRTEO. Ma, per l'amor di Dio, ma che t'han fatto questi disgraziatissimi elzeviri perchè tu me li tiri per gli orecchi e li sferzi ad ogni tratto? Perchè son piccolini di natura me li vuoi prender tutti a scappellotti? Ma, mio buon Cavallotti, vorresti de gli in-foglio a dirittura? Dio che a i sindaci dà prestiti a premi, tartufi a l'amor mio, pomate a i calvi, Dominedio ci salvi da i libri troppo lunghi e da i poemi! Lo so, costano troppo e son piccini, pieni di fregi e d'altre gherminelle, ma son tanto bellini! Piacciono tanto a le donnine belle! C'è il budellame, già, l'osso che crocchia, anatomie rubate a lo spedale orgie di carnovale, donne scollate sino a le ginocchia, c'è tutto quel che vuoi: ma se un po' d'arte, se un po' d'ingegno, se un pochin di vita calda, vera, sentita, palpita e ride ne le tenui carte, non lapidarci, non gridarci abbasso; perchè amammo anche noi, soffrimmo, e il pianto lo tramutammo in canto quando i vecchi giocavano a 'l ribasso. Non badare a' trochei se il verso torna, non contar le minuscole a 'l Carducci che in viso a Vanni Fucci de 'l giambo archilocheo squadra le corna. Tu che di libertà segui la parte, che ne la pugna sua ti sei scagliato non ultimo soldato, non ci negar la libertà de l'arte. Anche l'arte cammina e per adesso lascia che gli elzevir vadano avanti: se ce n'è de' calanti, l'arte d'Italia camperà lo stesso. Sai, sessant'anni fa, quanto spavento, che vaticini orribili e diversi perchè si disse in versi barba a la barba e non l'onor de 'l mento! L'arte, si disse, casca ruzzoloni: tornano i Goti, i Visigoti e il resto! E dopo tutto questo che cosa capitò? Venne il Manzoni. 145 Se nasco un'altra volta a questo mondo vi dò parola che mi farò prete e sarò così ciuco e così tondo che mi faranno vescovo. Vedrete. E vescovo, sarò tanto iracondo che il Papa, per lasciar la chiesa in quiete, mi farà cardinale e in fondo in fondo non sbaglierà così come credete. Poi sarò Papa. Allora, oh, staran freschi i poveri poeti petrarcheschi da i pudori cattolici e frateschi! Ch'io crepi adesso se cacciar non faccio con una bolla lunga mezzo braccio cent'anni d'indulgenza ne 'l Boccaccio. Quando vedrai cader le foglie morte ed il lunario predirà la neve, allungherai le tue maniche corte, mia freddolosa, e vestirai di greve. Le beltà velerai che bianche ho scorte e le scultorie braccia e la man breve e il seno, il sen che palpitò sì forte a 'l primo bacio mio timido e lieve. Pur qualche volta forse, e non invano, per gli occhi pregheran le mie parole e i veli getterai per me lontano; e tolto il guanto che serrarla suole nuda ti bacierò la bianca mano... il braccio no. La critica non vuole. 147 GIOVANNIN BONGÈE E DETTI Barborin, Barborin, te l'ho già ditt fa no la cialla che son dree a dormì. Te vedet no che te me fee i gallitt? Te vedet no... Salamm?... Salamm a chi? Ma cossa l'è sta razza de petit che te veut mangià carna el venerdì? L'è semper venerdì? Che bel delitt! Mi son minga verista, cara tì. Hin i verista quii che fan sti coss, sti balossad inscì strasordenari, sti peccaa de tirass l'inferna adoss! Ma mi, l'idealista leggendari, tutt in d'un bott deventaroo un baloss? Brava, e la religion? Brava, e el salari? L'IDEA PURA «Saliam, fanciulle, per la via fiorita, su per la via che in alto ci conduce. C'è una selva lassù, verde e romita, un tripudio d'augelli, un mar di luce. Venite meco se il desìo v'invita di conoscer l'idea che mi seduce. Lassù vivono i cor d'un'altra vita a i fortunati un altro sol riluce. Leviam le penne a i cieli alti e lontani, poi che puro l'amor là si conserva da la bassezza de gli istinti umani». – Il poeta così caro a Minerva canta, pieno de 'l Nume, e a l'indomani rumina un terno e dorme con la serva. 149 A CERTI FARISEI O piccoli pedanti slattati l'altro ieri che fate gl'importanti, ed i cacapensieri, armento d'ignoranti, seme di cavalieri, lievito di birbanti fatti carabinieri, censoruzzoli savi che le forbici avete ne le zampine gravi, meglio usar le potete al mestiere de gli avi che tosavan monete. ALLA MUSA ... si nonnulla tibi paulo petulantiora videbuntur, erit eruditionis tuae cogitare summos illos et gravissimos viros qui talia scripserunt, non modo lascivia rerum, sed ne verbis quidem nudis abstinuisse. C. PLINI CAEC. Sec. Ep. IV, 14. I. Povera Musa mia, te l'han pur detto il nome che a le donne è villania perchè t'han visto nuda in un sonetto senza la foglia de l'ipocrisia! E pur mi torni ed il divino aspetto concedi sempre al cor che lo desia, e mi lasci dormir sovra il tuo petto e mi lasci sognar la gloria mia. Ahi, ma de 'l lauro tuo non mi si abbella, Musa, la fronte che su 'l carme suda; orïente non v'ha per la mia stella. E sia, purchè su 'l petto ancor ti chiuda come l'amor superbamente bella, come la verità candida e nuda. 151 II Libero il seno eretto, a 'l vento davi ne 'l notturno mister la chioma bionda ed, urgendo la Dea, lungo la sponda de 'l sacro Ilisso, Adone, Adon chiamavi; o tra le messi d'oro ebbra levavi l'inno sonante a Cerere feconda, o Menade sfrenata e furibonda ignuda al sol la tua beltà mostravi. Io t'inseguia tra gl'inni e tra le faci ed un foco m'ardea le vene e i polsi, il foco di quel nume in cui mi piaci, finchè le man ne le tue chiome avvolsi e ti tenni su l'erba e i caldi baci e la vittoria su 'l tuo labbro colsi. III O pallida Eloisa, anch'io salivo tante volte di notte a la tua cella ed il segreto de 'l mio cor t'aprivo e ti chiamavo benedetta e bella. A l'onda de 'l tuo sen vergine e vivo, palpitando obbedia la tonacella, e i brividi de 'l senso errar sentivo ne la tua carne e ne la tua favella. Livida sotto a la pupilla stanca non t'appariva più l'orma segreta de la virtù che a poco a poco manca, quando su 'l molle altar, vittima lieta, abbandonavi la persona bianca sorridendo a l'amor de 'l tuo poeta. 153 IV. Nè mai l'orgoglio tuo, come Torquato, bella duchessa, delirando offesi, quando co' baci che non m'hai negato ambo le chiavi de 'l tuo cor mi presi. Con la candida man tu m'hai guidato a giocondi misteri altrui contesi... O talamo ducal, come beato, come superbo a la tua gloria ascesi. Duchessa bionda, i versi miei novelli così furon per te, pe 'l roseo fiore de le pompose forme e gli occhi belli. Cantai le notti in cui lasciommi amore ne 'l profumo dormir de' tuoi capelli, fra le tue braccia bianche e su 'l tuo core. V. Piedini che guizzate impertinenti fuori da le gonnelle inamidate, labbra color di rosa e sorridenti, riccioli biondi e provocanti occhiate, amor cheti de l'alma e confidenti intimità su l'origlier cambiate, spasimi, voluttà, gaudii, tormenti che l'amor de la carne accompagnate, rendete a 'l labbro mio la fiamma chiusa entro l'accidia de l'ingegno gramo; vita fatela voi ne 'l carme infusa. Palpitate ne 'l ritmo a cui vi chiamo, candide nudità de la mia Musa: v'odian Tartufo e gl'impotenti: io v'amo. 155 WIENER BLUT WALZER DI JOHANN STRAUSS ᾷ δἐ πῶλοι ταὶ ϰόραι πὰρ τὸν Εὐρώταν ἀμπάλλοντι πυϰνὰ ποδοῖν ἀγϰονίωαι ταί δἐ ϰόμαι σείονϑ' ᾷπερ ϐαϰχᾶν ΑΡΙΣΤΟΦ., Λυσιστράτη, 1308-12. Senti le note di Strauss che vibrano chiare, giulive ne l'aria tepida, l'olezzo de' fiori e la molle voluttà che ne' volti traluce! In ampi giri le vesti seriche rotando, ascosi candor tradiscono. Non vedi? Un delirio sublime gonfia i petti e prorompe da gli occhi. Dammi la mano, la mano candida; chinami il biondo capo su l'omero e insieme ne 'l vortice lieto de la danza, fanciulla, voliamo. Come sei bella! Come ti brillano socchiusi gli occhi sotto le ciglia! oh, come la gioia sorride su 'l tuo labbro gentil, ne 'l tuo viso! Voliam leggieri, voliam ne 'l turbine: gustiam l'ebbrezza de la vertigine. Immote su l'ali distese così volano in ciel le palombe. O fortunata questa camelia che bianca muore tra i veli candidi de 'l seno, socchiusi, agitati da 'l pulsar de le turgide forme! O fortunata che muore, il palpito de la bellezza la morte allevia! Oh, un'ora piacerti e morire, come un fiore morir su 'l tuo petto! Voliam, voliamo! Tra le mie braccia ti stringo tutta, materia ed anima. Sei mia, mia, come in sogno, non lo sai? tra le braccia ti tenni. Voliam, voliamo insiem ne l'aere lassù fin dove s'amano gli angeli, fin dove ci assume l'amore ne l'azzurro infinito de' cieli... Ahi, ma le note giulive cessano; fermarci è forza, dobbiam dividerci... O sogni, così mi fuggite! O mia gioia, così m'abbandoni! Tu maledetta voce de l'odio, perchè mi suoni bieca ne l'anima! La pace de 'l sogno m'hai tolto! Ecco urlando a la pugna ritorno. Scherno a l'immane naso de' critici, ne 'l ritmo audace di un'ode alcaica, delirio de l'anima mia, inneffabil delirio, t'incido. 157 PER NOZZE Quando la donna de 'l tuo cor l'avrai ne la stanza segreta, ove la festa co' rumor non t'insegue, e da la testa la ghirlanda ed il vel le scioglierai, de l'ignoto a 'l terror tu la vedrai rabbrividir ne la virginea vesta ed il viso chinar tutta modesta poichè a l'orecchio le susurrerai: — Hanno promesso tutto un paradiso a la verginità fredda e dimessa, a la carne domata, a 'l senso ucciso: ma tu, mia donna, a 'l talamo t'appressa, donati tutta quanta in un sorriso, ed io sbugiarderò la rea promessa. — No, sgualdrina non è perchè ricusa le comode bugie de l'ideale, no, sgualdrina non è la nostra Musa perchè i voti non ha de la vestale. Non l'accusate se velar non usa de 'l tempo suo l'oscenità brutale; il vero è quello, il vero è la sua scusa, peggio per voi se lo faceste tale. O donnine da l'anima di ghiaccio che cantate Gesù su la spinetta, sprangate l'uscio a doppio catenaccio; passar Mirrina, Lalage, Fiammetta, l'arte de 'l Venosino e de 'l Boccaccio... Curate i fiori bianchi e la calzetta. 159 IN MUSICA Lasciali dir; tu m'ami, tu che mi stai nel core, nè per calunnie infami potrai fuggir da me. T'ho dato tutto: il canto, la gioventù, l'amore... Voglio morirti accanto, voglio morir con te. IN MARE Pobre barquilla mia entre peñascos rota, sin velas desvelada, y entre las olas sola. LOPE DE VEGA. La Barquilla, Oda I. Passa la nave mia cupa tra i sibili de' farisei che su la riva seggono. Vien la tempesta. Ne le negre nuvole i lampi azzurri strisciano. Schiumano l'onde che la prua schiaffeggiano, fra le corde distese urla la raffica: laggiù, laggiù ne l'orizzonte livido è scomparsa la patria. Solo ne l'ampio mar, solo ne 'l turbine, navigo arditamente a rive incognite. La mia bandiera l'ho inchiodata a l'albero come una sfida a 'l fulmine. Passa la nave mia, tutte le candide vele de l'aquilon donate a l'impeto; passa cacciata ne le dense tenebre da 'l fato inesorabile. Ahi, vola forse destinata a frangersi su le scogliere che da' flutti emergono! Volo forse con lei, cosciente vittima, a l'agonia de' naufraghi! Vedrò morendo de gli squali orribili gli occhi feroci dove brucia il fosforo, le aguzze scane sentirò configgere ne le mie carni lacere: co 'l tenerume de le bocche viscide a 'l moribondo aderiranno i polipi, sentirò di morir, sentirò suggermi lentamente le viscere, ma non mi pentirò, ma ne gli spasimi de 'l mio lungo morir non voglio piangere, ma voglio il Dio de' farisei deridere 161 con l'ultima bestemmia. Candide tortorelle innamorate, delizia e cura de la donna mia, che de 'l costante amor l'inno tubate contente assai de la prigion natia, candide tortorelle che ignorate l'uggia, la sazietà, la gelosia e il vecchio nido fedelmente amate, senza stanchezza e senza ipocrisia, emblemi sacri de' tranquilli affetti, simboli de l'amor serio e composto, de gli amplessi periodici e corretti, dite a' critici miei che ad ogni costo vi vogliono veder ne' miei sonetti, che mi piacete sì, ma cotte arrosto. 163 O bianche nubi che ne 'l ciel turchino come fiocchi di lana il vento spinge, perchè nova un'angoscia il cor mi stringe, quando lassù vi guarda il mio bambino, ed un desio mi assal che ne 'l divino azzurro a figger gli occhi mi costringe, un desio di tentar l'ignota sfinge che l'avvenir conosce e il mio destino? Ma no, bambino mio, non ci diranno queste nuvole bianche il gran mistero, e, come noi, se viva Iddio non sanno. Io stanco scenderò ne 'l cimitero, i tuoi riccioli biondi imbiancheranno, povero bimbo, e non sapremo il vero. CLAM Sentio sub me validum flatum, vox mihi salda est: quid erit, Philippe, si meae laudes canimus Zaninae? Accipe pivam. MERL. COCCAI, Zanitonella. Ecl. I. O deliciae deliciarum solve comam, deme avarum, tegumentum papillarum, abiice subuculam. Absit metus, nam censores frustra rimant extra fores, nec blanditias, nec lepores nostros capiunt auribus. Pande brachia, pande sinum, cane carmen fescenninum: nesciunt critici latinum quamvis macaronicum. Ecce manet nos paratum, hic sub umbris molle stratum; ecce vocat nos peccatum, ecce vocant praelia. Flos labiarum, flos amoenus flos amoris mellis plenus, Io, quam dulcis ridet Venus in labellis roseis! Io, quam fortis, quam formosa Cinthia mea pruriginosa, tendis ilia illecebrosa amatorio impetu! Io peccatum, Io blanditiae, Io convicium pudicitiae; Io postremus, Io, letitiae apex ineffabilis! Iam demissi sunt lacerti nuper collo meo conserti; languescentes et incerti ecce pallent oculi. 165 Prostat pulvinar fucatum flecte caput fatigatum, sterne, Cinthia, sterne latum, prostat conscia culcita. Dum en carmen susurrabo, tibi somnum conciliabo, tuam flabello ventilabo nuditatem candidam. Dicam nunc amoris laudes, dicam basia, amplexus, fraudes quibus tu, mea Cinthia, gaudes, quibus ego pereo. Euge, impelle in hymni sonum rabiem frigidam spadonum, stilum, censor, sume bonum: Euge. Rido ad lacrimas. Esser donna vorrei, gobba, schifosa, ricca di scudi e di ribalderie, seccante peggio de le litanie, puzzolente befana e scandalosa, perchè l'arte pudica e virtuosa lodasse tanto le bellezze mie che tra i marenghi e le vigliaccherie d'un poeta ideal fossi la sposa. Io, mucchio di sporcizia e di letame, il mio poeta da gli amor divini lo metterei tra il vizio e tra la fame per far vedere a i critici norcini chi la vincesse ne la lotta infame, se la sua pudicizia o i miei quattrini. 167 Là su, là su, dove salir non anche fu dato a 'l nostro desiderio intenso forse un dì voleremo, anime stanche, spiriti vani e liberi da 'l senso, Là su, là su, dove le stelle bianche fan la notte più bella e il ciel più denso, anime volerem giulive e franche, raggi di luce ne l'azzurro immenso. Volerem a delizie interminate in alto, in alto luminose larve eternamente libere e beate. Scorderemo là su l'antico errore e questo mondo vil dove ci parve balsamo l'odio e tossico l'amore. A I POETI PINZOCHERI Plus les moeurs s'altèrent, plus on devient délicat sur les décences. Par cette raison, plus les hommes deviennent vicieux, plus ils applaudissent à la peinture des vertus. CHAMFORT. I. O paffutelli e morbidi sonetti a Fillide, a Licori, o zampogna d'Arcadia, o lascivetti canonici pastori, de l'astigian bizzarro il duro stile non v'ha, no, sterminati; ritornano le agnelle a 'l pingue ovile, rifioriscono i prati, e voi tornate, Tirsi e Melibeo, su 'l carro trionfale a l'antico mestier de 'l cicisbeo cattolico e morale, e l'arte femminil che fu mezzana a l'abate Trapassi, l'arte severa, pia, casta, cristiana, vi fa beati e grassi. Damine pie, no, il parroco no 'l vieta; ricamate per loro le papaline di velluto in seta con un fregio d'alloro. È questa, è questa di confetti piena la vostra poesia! Fate per la sua gloria una novena, o figlie di Maria. Ah se co' versi tuoi di miel già pregni e di cold-cream francese, non sali, Arcadia, a i nobili convegni de le vecchie marchese, se i madrigali de' pastori abati 169 l'età mal ti consente, eccoti idealisti inzuccherati e poesia decente. Vieni ed impera ne 'l visin patito, ne le graziette smorte de le ragazze che cercan marito pestando il pianoforte. Vieni a sdraiarti su i giornali gravi di cristiano furore e su 'l tavol da notte a le soavi dame de 'l Sacro Cuore. Cantaci, canta, poesia custode de l'Italia morale la solitaria venere che gode d'un amore ideale. Diventeremo forti e costumati ritornando a 'l Vangelo. Beati quelli che si son castrati per il regno de 'l cielo. II. Ma noi non ci curviamo de la rinuncia umíle a le dottrine, ma noi non ci crediamo a 'l tisico Gesù de le beghine. Non han prodigi i santi e l'inferno per noi non ha paure. Avanti, avanti, avanti, con la fiaccola in pugno e con la scure. Tutto un passato muore, tutto un mondo rovina intorno a noi; è morto, è morto il fiore de' poeti di Cristo e de gli eroi. De la giudaica fola e di Sion su la rovina immane, forte, superba, sola, la nostra Dea, la Verità, rimane: la Dea che a poco a poco il mister de la vita a noi disserra. Per lei donammo il foco, per lei donammo i fulmini e la terra. Ecco, sino a le stelle gl'inni e le grida de 'l trionfo vanno. Ha vinto il gran ribelle e le porte de 'l ciel non prevarranno! Cadon gli altari infranti, sfuman le larve de 'l passato impure. Avanti, avanti, avanti, con la fiaccola in pugno e con la scure. No, non lordate il biondo capo, fanciulle, con la cener vile; venite; è bello il mondo; oggi rinasce con le rose aprile. No, su le aiuole brulle non incombon più il freddo e lo squallore, venite a noi, fanciulle, oggi rinasce con le rose amore. Dolce amor de' ribelli venite a rallegrar la nostra danza 171 co 'l tirso e co' i capelli coronati de' fior de la speranza. Schiera festante, andiamo là dove il vero come il sol risplende; lassù, lassù corriamo dove giocondo l'avvenir ci attende. A i liberi, a i costanti le vie de l'avvenir s’apron secure. Avanti, avanti, avanti, con la fiaccola in pugno e con la scure! PROPOSTA Non ego; nam satis est equitem mihi plaudere, ut audax Contemptis aliis, explosa Arbuscula dixit. HORAT., Sat. Come in grembo del suol tacito dorme Il seme, e poi si svolge in foglia e in fiore, Così sonnecchia del poeta in core L'opra sua che poi veste eccelse forme. Natura attinge in sè le proprie norme, E l'arte educa inconscio il suo cultore, Entrambe mosse dallo stesso amore, Che dell'eterna idea rintraccia l'orme. Or più rapide vie schiude al poeta Il così detto vero: or la Bellezza, Ch'era di pochi visïon segreta, Cerca il plauso de' molti, e li accarezza, E si prodiga al par d'una moneta Che più si spende, quanto più si spezza. ANSELMO GUERRIERI GONZAGA 173 RISPOSTA Insani sapiens nomen ferat, aequus iniqui, Ultra quam satis est virtutem si petat ipsam. HORAT., Ep. I, 6. Triste colui che santamente dorme ne 'l vacuo letto e de' suoi canti il fiore crescer non sa co 'l sangue de 'l suo cuore... Guai se il verso per lui non ha che forme. Non è poeta chi le avare norme serve de gli avi e se ne tien cultore e quando la sua carne arde d'amore d'una frigida idea ricerca l'orme. E tra di noi non v'ha cor di poeta che tradisca del ver l'aspra bellezza per qualche molle visïon segreta. Lusinga di sognar non ci accarezza. La bella verità non è moneta, nè re la falsa, nè giudeo la spezza. IVSTITIA Amen, with all my heart! SHAKESPEARE, Otello, V, 2. Alla signorina Vera Zassoulitch. Vorrei che questa mia povera penna fosse un ferro rovente per bollarvi tra gli occhi la cotenna canaglia prepotente. E quando in faccia a i miseri ruttate la vostra infame gioia, perdonatemi voi che m'ascoltate, vorrei essere il boia e compir sopra voi la gran vendetta di chi per fame langue. Vorrei vedervi con la gola stretta da 'l singhiozzo de 'l sangue. Io che pur soglio lacrimar di pièta de' vati su le carte, io ch'ho in petto il gentil cor de 'l poeta, se me ne manca l'arte, che piango insino gli scordati eroi d'Ilio combusto e domo, io non ho senso di pietà per voi, non ho viscere d'uomo. Nè voi n'avete cui non basta a 'l gusto stracco la carne ignuda per chi stentando il pane a frusto a frusto, sangue, lacrime suda; per chi senza speranza e senza amore vive ed invidia il cane, per chi miniere a voi scavando, muore senz'aria e senza pane. Ridan le vostre donne a cui ne 'l petto de l'òr brucia la sete: ridan beate che ne 'l vostro letto coniaron le monete, 175 e su 'l talamo altrui de le figliole vendean la bianca vesta; a la virtù che vender non si vuole, ecco, il delitto resta. E grida, udite, il volgo macilente: — «Noi, plebe, non morremo, ma ne 'l gran giorno, in faccia a 'l sol lucente giustizia ci faremo. Da le città, da gli abituri foschi che il sol mai non abbella, giù da i monti, da 'l mar, da gli aspri boschi che l'aquilon flagella, innumeri, feroci e disperati, noi plebe maledetta, incontro a voi discenderemo armati di ferro e di vendetta. Siete voi che rideste allor che invano pietà per Dio pregammo ed una pietra ci metteste in mano quando un pan mendicammo. Non sperate pietà dunque ne 'l santo giorno de l'ira eterna. Troppo, dinanzi a voi, troppo abbiam pianto. Vigliacchi, a la lanterna!» — A UGO BASSINI T'ho promesso un sonetto e t'ho promesso di fartelo decente ed ideale. Eccolo qui che te lo faccio adesso: leggilo che non c'è niente di male. Vedi, qualunque petrarchista smesso te lo farebbe appunto tale e quale ed io lo taglio, poichè m'è concesso, su 'l modello cattolico e morale. Ma se qualche maligno ti osservasse, esempligrazia, che codesto imbratto è il più sciocco che mai si perpetrasse, di' pure, amico mio, di' che t'ho fatto un sonetto ideal di prima classe, giusto perchè non dice niente affatto. 177 A LE OSTRICHE EPICEDIO Wir mahlen mit Augen der Liebe: und Augen der Liebe müssten uns auch nur beurtheilen. LESSING, Emilia Galotti, I, 4. Ostriche ghiotte che aderiste a i pali dove i nonni legarono le navi trionfali, intelligenti e nobili animali, incarnazione e simbolo di sublimi ideali, poichè i vati piagnoni, ahi sconoscenti! ne' flosci endecasillabi non v'ebber mai presenti nemmeno quando a' pranzi succulenti di voluttà grugnirono biasciandovi contenti, ostriche verdi, a i miei bizzarri canti deh, spalancate docili le valve stravaganti. Ecco il pepe, il limone, il vin di Chianti. I versi miei rallegrino gli ultimi vostri istanti. Come i piagnoni, v'incrostate forte, a quell'antico scoglio che v'assegnò la sorte, ed il moto v'uccide, e mezzo morte a 'l mercato vi comprano per le feste di Corte. Come i poeti onesti a Dio più grate, d'un casto e solitario amor vi contentate e senza voluttà prolificate, fredde, mute ed immobili o bestie costumate! E quando il glauco mar non vi nasconde le nozze de i cetacei maschiamente gioconde, sigillate le valve pudibonde in faccia a tanto scandalo; o bestie vereconde. Nelle nicchie romite e tenebrose, dando l'anima piccola a larve paurose, la vanità de 'l mondo e de le cose meditate in silenzio, o bestie religiose. O bestie, bestie, imagine e modello de' vati neo cattolici, che san castrare il bello, questo ingrato mondaccio è un gran bordello! Non c'è nemmeno un critico che v'abbia ne 'l suggello! Non c'è un pedante che sbagliando schiumi ne i libri del suo prossimo un paio di volumi, che dica schietto senza tanti fumi: signori, io sono un'ostrica d'ingegno e di costumi. E il peggio è questo, che v'è capitato dopo millanta secoli l'elogio meritato, ma in un ritmo così sconclusionato che l'Arcadia, buon'anima, m'avrebbe strangolato! Prendete quel che c'è. Tanto quei tali che vi biasciano a tavola de' preti sensuali, non sanno che belar salmi ideali. Mangiano il proprio simile! Moralisti immorali! Basta. Affogate ne 'l propizio vino, a morir ne 'l mio stomaco vi condanna il destino. Quanto a 'l prossimo vostro, poverino, è andato a farsi friggere, e lo frigge Pasquino. 179 ALL'ALBERGO Io li guardavo da la serratura. Ella faceva molti complimenti, egli schizzava apostrofi eloquenti e le diceva — non aver paura. — Ed in lei de 'l pudor l'estrema cura, l'istintive repulse ed innocenti e le caste ignoranze e gli sgomenti a 'l destarsi cedean de la natura. Così a l'audacia de la mano amata l'ultimo de 'l pudor velame frale concedea vergognosa e rassegnata: e tutto cadde, ed ella apparve quale un asse d'acajou liscia, piallata... Canchero — disse lui — troppo ideale! NELL'ALBUM DELLA BARONESSA COSTANZA GRAVINA Se un giorno rivedrò Pizzofalcone e lo scoglio di Frisio e Mergellina mi voglio travestir da lazzarone e camminar così fino a Resina. Ivi de l'amor mio sotto a 'l balcone canterò la Ciccuzza e l'Inglesina con tanto affetto e tanta commozione da far piangere i pesci a la marina; e il canto mio sarà così perfetto, tipo de l'ideale in poesia, che la mia bella s'alzerà di letto e ne l'ombra verrà fuor de la via, a pregar Dio con me perchè il Prefetto non ci mandi a dormire in Vicaria. 181 PALINODIA Poi sdraia nel porcil l'anima sazia E — vigliacchi siam noi — si mette a urlare. Potrà darsi benissimo. Ma... in grazia... Se parlaste un pochino al singolare? F. CAVALLOTTI, nel giornale La Ragione, Anno IV, n. 232. Dissi — noi siam vigliacchi — e me ne pento. Errai. È il secolo de' Gracchi questo che bestemmiai; ma voi vi siete accorti che siamo tutti forti, forti, forti. L'evo romano, l'evo eroico è ritornato ed io non lo sapevo. Ma forse sarà stato, Bruto me lo perdoni, perchè non vado a le dimostrazioni. Già. In Italia nasciamo Catoni e Cincinnati. Ladri? Ma non ne abbiamo e i poveri avvocati per non morir di stento vanno a farsi le leggi in Parlamento. Oh, no, non ci son vili tra un popolo d'eroi, ma le virtù civili son sì fitte tra noi che fin gli appaltatori li abbiam dovuti far commendatori. Ipocrisia? Davvero non ci si può pensare! Siamo un po' furbi, è vero, ma ipocriti? vi pare! Oh, li abbiamo aboliti (leggete il Curci) i padri gesuiti! Deh, patria mia, felice come ti veggo e lieta, spregiar la corruttrice copia de la moneta! L'ebbe di ferro Sparta: più spartana di lei tu l'hai di carta. Su 'l tuo beato suolo che ci fanno gli uscieri? A che serve lo stuolo de' tuoi carabinieri? In Svizzera, nol sai? cassieri e casse non ne scappan mai. E le donne? Oh, le donne! Che modelli di spose, di ragazze, di nonne! Che virtù portentose! Se questo tempo dura, non c'è più corna per la iettatura. Uomini puri e forti, a Monaco ci andate per compiangere i morti de le cinque giornate? Ma questo si può fare anche a Milano. Al club si può giocare. Uomini forti e puri, perchè, perchè scendete ne gli angiporti oscuri e ne l'ombre discrete de le strade lontane? Cercate le virtù repubblicane? Oh, non tocche da 'l male virtuose persone, voi siete l'ideale sognato da Platone, la semente novella de la santa città de 'l Campanella, ed io per ritornare in grazia vostra, o puri, parlerò a 'l singolare e scriverò su i muri l'aforisma novello che c'è un corrotto solo ed io son quello. 183 L'ANNUNCIAZIONE Erat autem Maria instar columbae educata in templo Domini. PROTEVANGELION IACOBI VIII. In FABRICII Cod. Apocr. Le faci impallidiscono ne 'l tempio de 'l Signor vivente e vero. Giganti dietro le cortine immobili vegliano lo spavento ed il mistero. Un silenzio terribile pesa ne l'aria di profumi carca. Ritti ne l'ombra, l'ala immane stendono i cherubini d'oro intorno a l'Arca; ed una bruna vergine, cui l'immenso mister non ispaura, ne la penombra de' fuggenti portici le faci a risvegliar scende secura. Secura ne le tenebre passa costei de 'l suo signor ne 'l nome; chiude il tenero piè ne 'l breve sandalo, stillan di nardo le fluenti chiome. Ella non sa che inconscio ne gli occhi di gazzella amor le dorme, ella non sa come la stola candida l'onda tradì de le virginee forme. Bruna ma bella. Il tumido labbro ricorda il fior de 'l melograno. Bruna ma bella. I curvi lombi ondeggiano come su i colli di Samaria il grano. Ecco da l'alto un pallido raggio di luna sovra lei discende; un azzurro baglior come di fosforo, gli sculti enigmi de l'altare accende. Ecco ne l'aria tepida un cantico lontan palpita e muore. Bella è la notte. Le fanciulle cantano sotto le palme la canzon d'amore. Come una bianca statua, ne le pieghe de 'l vel candido avvolta, ritta su i gradi de l'altar, la vergine gl'inni che fremon ne la notte ascolta. Respira i molli balsami che da lontani fior le porta il vento, guarda pe' vani de l'intercolonnio le stelle scintillar come d'argento. Ne' grandi occhi le passano le fiamme de 'l desìo come un baleno; commosse quasi da un arcano spirito turgide pulsan le beltà del seno. Ella sente ne l'anima il fremito passar de la tempesta, ella sente bollir ne 'l sangue giovane la potenza d'amor che in lei si desta; ed ecco da le complici ombre che fascian d'Adonai l'altare sì come un angel di bellezza splendido, a l'aspettante un giovanetto appare. Apri le braccia, donati a le carezze de l'amor Maria... Noi leviamo a 'l Signor l'osanna, o popolo: tra nove mesi nascerà il Messia. 185 Poveri uccelli, che a 'l giardin volate de' poeti morali e religiosi e tra le frasche pudibonde ascosi il biscottino solito aspettate, poveri uccelli, non ve ne fidate, poveri uccelli, siate men golosi. Se gli uomini con voi son maliziosi, fingono i vati per mestier. Badate. Conosco più d'un arcade patito che d'adorarvi ne' sonetti ostenta, ne' sonetti di zucchero candito, ma quando l'eco de' suoi gridi è spenta, si rassegna a pranzar con appetito e gli piacete assai con la polenta. Presto il giorno verrà che per le strade così ricche quest'oggi e così belle, come fiumana che la messe invade proromperà l'esercito ribelle. Fiammeggeranno in alto allor le spade tinte ne 'l sangue d'una gente imbelle, ed il clamor de la fraterna clade, orrendo salirà fino a le stelle. E tutto suonerà d'urla e di pianti e la vendetta veglierà fatale de la città su i ruderi fumanti. O correttori de l'altrui morale quello il tempo sarà di farvi avanti a predicar Manzoni e l'ideale. 187 CAMBIA LA MODA I. Ah, queste donne bionde amor de gli Stecchetti, che porgon l'anche tonde e gli insolenti petti, sgualdrine invereconde che, abbandonando i letti, mostran le pance immonde ne 'l mezzo de i sonetti, la smetteranno ormai di distillar la loia in tanti calamai, Taidi venute a noia, scarti di fiaccherai, cittadine di Troia! II. Or de le bionde non sappiam che farne ma le dame cerchiam di pelle scura, che sian marchese almeno e che mostrarne possano i quarti de la figliatura. Debbono esser spolpate e debbon darne prove provate a la letteratura con l'esser senza petto e senza carne, ossa, pelle, merletti e imbottitura. Debbono andar con le pupille basse e non dar confidenza alle persone, chè la critica mai non le sgridasse, e come già sognò re Faraone, dopo il passaggio de le vacche grasse, le vacche magre andranno in processione. 189 DIES IRAE POEMA Oh, quand j'aurais une langue de fer Toujours parlant, je ne pourrais suffire, Mon cher lecteur, à te nombrer et dire Combien de saints on rencontre, en enfer! VOLTAIRE, La Pucelle, c. V. CANTO I. Quando parton le rondini e gli ozi lascio de l'autunno anch'io, mi prende un desiderio di conciliarmi co 'l Signore Iddio, e mi raccolgo e medito su la fragilità di tante cose... Dio di misericordia, come fan presto ad appassir le rose! Solo il cipresso, il simbolo de l'umana miseria e de 'l dolore, solo il cipresso vegeta anche ne 'l freddo, e il verde suo non muore. E ripenso a i Novissimi, specialmente a 'l Giudizio Universale, quando le trombe angeliche ci romperanno il sonno sepolcrale. O buon Gesù, che imbroglio quando mi desterò dentro la fossa e ne le fredde tenebre, povero me, non troverò più l'ossa! — Destatevi, destatevi e ditemi, vicini, in cortesia, il mio povero cranio, ditemi un po', chi l'ha portato via? Era una testa giovane piena di sogni e spesso innamorata, d'Emma su le ginocchia io non la posso aver dimenticata. C'è forse qualche critico che sia venuto qua senza la testa ed abbia detto: diavolo, perchè la mia non l'ho, prendiamo questa? Avrebbe preso un granchio facendo il suo mestiere anche da morto. Non s'adatta a le vertebre, la testolina mia, d'un collo torto. Lo scopriranno subito, lo manderanno ad arrostir co' rei. Il mondo de gli spiriti, come l'altro non è pien di baggei. Ahi non potrò più leggere, perchè con gli occhi non ho più gli occhiali, i sermoni clorotici che laudano Gesù dentro i giornali. Non vedrò più le candide verginità che ne' sonetti ho viste e i poeti che sudano per salvar la virtù de le modiste. — 191 CANTO II. Quando la testa mia l'avrò spiccata da 'l collo a qualche critico e sopra il mio l'avrò bene attaccata, me ne anderò al Giudizio. Ahi, fedeli di Cristo! ahi questa scena come sarà terribile! Tutti staremo nell'immensa arena, de la valle di Josaphat. E nudi ci starem. Calzoni e gonne quel giorno non si portano. Ignudi tutti quanti; uomini e donne! Che immenso colpo d'occhio! Ma poichè ne 'l gran dì ci sveglieremo belli, ben fatti e giovani, le nostre nudità le guarderemo senza rossori ipocriti. Solo i poeti casti e purgativi, morali fino a l'ultimo, imiteranno co' gli attucci schivi la Venere de' Medici. Poeti magri, amor segreto e cura de le donnine isteriche, ci rivedremo senza imbottitura, e guai per i rachitici, oh, guai! Le verità pericolose e le pance cattoliche nude vedranno alfin le vostre spose che mai non ve le videro. Che disinganni allor, poveri voi! Che pioggia di rimproveri! Basta: verremo a consolarle noi, se saranno passabili. Seduto intanto su l'immenso trono starà l'ultimo Giudice ed uscirà da la sua bocca il tuono e da' suoi occhi il fulmine. A 'l segnal degli angelici trombetti farem due schiere súbito. A la destra di Dio staran gli eletti, a la sinistra i reprobi. Curvi sotto l'eterna onnipotenza, ne 'l silenzio terribile, attenderemo l'ultima sentenza e l'ultima giustizia. Ma, sorridendo, un'anima sorella mi spingerà co 'l gomito... Emma bionda, sei tu? Come sei bella! Ma sei nuda... Vergognati! 193 CANTO III. Come si stava comodi, come si stava bene a l'altro mondo! Ti ricordi le liriche che scrivevo per te, demonio biondo? E tu matta, le forbici cacciavi sempre dentro a' miei sonetti. Le mie più belle pagine diventaron modelli a' tuoi colletti. Ti ricordi le lucciole che inseguimmo lassù lungo le mura? Quante stelle brillavano ne 'l cupo azzurro de la notte oscura! E l'inverno? E le maschere? Te lo ricordi l'ultimo veglione, e il povero geranio che di freddo morì sul tuo balcone? Ed i racconti eretici sovra i capricci de le nostre notti che misero lo scandalo ne la santa tribù de' paolotti? Care memorie! Tornano così lieti a quel tempo i miei pensieri! Eran parecchi secoli che stavo a la Certosa. E tu dov'eri? Emma, perchè promettermi che non m'avresti abbandonato mai? Oh, laggiù ne 'l mio tumulo, povera donna, m'annoiavo sai? Quanti, quanti cadaveri calaron giù ne la mia fossa muta, ed io povero scheletro, cercavo il tuo, ma non ci sei venuta. Dimmi, sei morta in maschera cenando co gli amici in carnevale? Sei forse morta tisica in un autunno triste a l'ospedale? Oh, se almeno t'avessero a 'l vecchio amico tuo sepolta accanto! Là nella terra fracida avevo freddo e m'annoiavo tanto! Zitti! L'eterno Giudice urla da l'alto le parole estreme. Siam dannati. Rallegrati. Ecco, a l'inferno ci anderemo insieme. Oh, non invidio gli angeli, perchè teco laggiù sarò felice. Vieni, mia bella! Il diavolo così brutto non è come si dice. 195 CANTO IV. Squadra le fiche a 'l ciel. Vadano i santi e i poveri di spirito in quel fetor di frati zoccolanti che rivolta lo stomaco a goder le graziette tabaccose de le beghine sudice, ed a baciar le stimmate schifose de le badesse idropiche. Ivi ne 'l cielo che non ha mai notte, dormir non è possibile. Ivi su 'l capo de' beati, a frotte i cherubini ronzano. Perchè Dio non li acciechi, a 'l guardo schermo fan de l'ala gli arcangeli, e cantano in latino a canto fermo i salmi del breviario. A l'eterno rumor de' tamburelli, de' cembali e de' timpani, friggon de' santi i poveri cervelli sotto a i nimbi che scottano, ed abbagliati de 'l Signore il viso eternamente guardano... Che rottura di tasche il Paradiso! Che divina seccaggine! Talor compreso da 'l bisogno ardente di un po' di refrigerio, Iddio permetterà, ma raramente una qualche accademia. Con lieti squilli l'aspettato avviso daran le tube angeliche; immenso tuonerà ne 'l paradiso un clamore di giubilo. Abbandonato l'inginocchiatoio dove stavan da' secoli, voleranno i beati a 'l Serbatoio de la celeste Arcadia. Con l'ala a 'l dorso, dentro l'ampia sala pioveranno le monache e i gesuiti co 'l cappel di gala, e i poeti virginei. Sopra un palco di stelle, in lunga schiera aspettan gli accademici. I cherubini accendon la lumiera. Comincia lo spettacolo. Zitti, zitti! Lisciandosi il ciuffetto e i baffi aristocratici, un bel signore recita un sonetto morale in questi termini: 197 CANTO V. «Noi siam felici ne l'eterna calma a cui la grazia di Gesù ci assunse, L'anima nostra fortunata, giunse a coglier de la fe' l'eterna palma. »Deposto il peso de l'antica salma, d'inni soavi un bel desio ci punse, e cantiamo il Signor che si congiunse a noi ne 'l gineceo casto de l'alma. »Così levando il cantico fraterno, ne l'infinito ciel spiegando l'ali, voliamo incontro a 'l refrigerio eterno. »Gl'inni santi, pudichi e celestiali invidiateci pur giù ne l'inferno, voi che cantate il ver, brutti maiali!» CANTO VI. Ma da gli abissi un cantico fino a le case de 'l Signor si leva. — Sia benedetto Satana che porse il pomo de 'l peccato ad Eva; e lodato l'Altissimo che seppe giudicar l'anime tutte e liberò gli eretici da 'l paradiso de le donne brutte. Qua giù tra noi non scesero de l'antico vangel gli antichi errori, e il parroco ed il sindaco non torcono il capestro a' nostri amori. Salìro a 'l ciel la monaca morta di tabe e il francescano immondo, ma qui tra noi calarono le migliori beltà vissute a 'l mondo, e son belle, son giovani, e noi ne amiam quanto possiam amarne e pecchiam senza scrupoli, de l'anima ribelli e de la carne. Contemplate lo splendido viso di Dio co' gli occhi abbarbagliati: andate, andate in estasi cantando salmi, poveri beati: trïonfate co gli angeli de 'l paradiso ne le sante chiostre, ma le pompe di Satana sono più belle de le pompe vostre! Abbiamo sano il fegato e l'invidia di voi non ci tormenta: la compagnia de' diavoli ci tien chiara la bile e ci contenta. Qui de 'l tempo saturnio rifioriscon i gaudi e i miti amori; puton d'incenso gli angeli, olezzan qui per le dannate i fiori. Voi di Dio ne la faccia tutto il passato e l'avvenir leggete, ma l'onda sua benefica 199 largisce a noi l'oblivïoso Lete. Da' santi suoi l'Altissimo chiede la prece, l'umiltà, la fede; a' figli suoi Lucifero ogni più cara libertà concede. Ma voi l'ingiurie solite, santi soprani, a i reprobi cantate!... Deh, poveri di spirito, deh, se sapeste che pietà ci fate! — CANTO VII ED ULTIMO. Va, poema infernale e paterino, dove ti porta il caso: e se t'ingiuria mai qualche scaccino, fagli tanto di naso. 201 CONGEDO Intro hinc abeamus, nunc jam saltatum satis pro vino' st. Vos spectatores, plaudite, atque ite ad vos comisatum. PLAUT. Stichus, vv. 755-56 Voce che in cor mi parli, che bieche parole mi dici perchè mi mordi come un rimorso antico? China la stanca fronte su i libri vegliati, t'ascolto e il ciel s'imbianca de 'l giorno a 'l primo lume. Cantano su le gronde destate le rondini a l'alba, da' campi arati bianca la nebbia fuma, canta ne' boschi il vento fragrante di freschi profumi, color di rosa ride là giù l'aurora, tutto rivive a 'l mondo ne' baci de l'alba e d'amore, io solo, io solo, misero me, non amo! L'odio che in me fermenta ne' i versi maligni trabocca, mi brucia il sangue, m'empie di fiele il core. Oh maledette queste battaglie che l'odio avvelena! Sia maledetta questa fatica mia! Voce che in cor mi parli, che i giambi feroci mi detti, solo un momento, solo un momento taci! Ecco da 'l sol destati che allegra le candide cune i miei bambini mi tendono le braccia. Splende ne' ricci biondi il tremulo raggio de 'l sole e su le bocche vermiglie il riso splende. O miei bambini, orgoglio, speranza de l'anima mia, o miei bambini, voi mi guarite. Prendi, prendi il mio libro, Mevio, inchiodalo pur su la croce da queste cune sorrido e ti perdono. III. ADJECTA 203 I. LIBER CAIAPHAS Et misit eum Annas ligatum ad Caiapham pontificem. JOH. XVIII, 24 AHIMÈ! O forte Romagna de i tempi passati, nudrice, compagna d'eroi, di soldati, il sangue ti stagna ne i polsi gelati e sei la cuccagna de i preti e de i frati. Co 'l seno possente, gentil leonessa, nudristi un serpente ed or genuflessa, pentita e piangente ascolti la messa! BENEDICIMUS TE Forme divine, su l'are candide liete di fiori, benedicevano i Numi. Ne' sacri laureti suonavan gl'inni giulivi, gl'inni a la bellezza. Fuggìano a i salici le driadi bianche, mal de le splendide nudità vietando a i mortali la dilettosa vista e il trionfo, e da 'l sereno ciel sorridevano miti su l'uomo gli dèi benefici; e l'uomo signor de la terra si sentìa forte, si sentìa grande, allor che un vento nero, da gli aridi monti di Giuda, soffiò su i popoli, curvò le loro teste a 'l suolo, rovesciò i templi, distrusse l'are, e i simulacri giocondi caddero de gli arsi lauri sopra le ceneri. Cessaron gl'inni e il dolore pesò su 'l mondo de i penitenti. Dove le ninfe procaci tesero, chiedendo amore, le braccia rosee, fu visto ghignare il Nimico, furon sentite grida d'inferno, e l'uomo pianse stancando gli omeri sotto la croce per lunghi secoli, non più regnator de la terra, ma servo abietto di vane fole; quando là dove l'onda cerulea de 'l Reno a 'l Tauno corre più rapida, là dove ne' fonti e ne' cori viveano ancora le bianche ondine, un uomo curvo sopra le tessere di piombo, assorto ne la nova opera de 'l torchio, rinvenne il segreto, trovò la forza liberatrice. A poco a poco, su da le pagine 205 impresse, vivo levossi l'alito d'una giovinezza novella e il santo grido de la rivolta. A poco a poco gli dèi rivissero, mentre i fantasmi giudei svanivano, e l'uomo, gittato il cilicio, si sentì ancora signor de 'l mondo. Te benedetto, per cui siam liberi, per cui siam grandi, torchio di Guttemberg! Benedetto il tuo sacro legno, poi ch'egli vinse quel de la croce! CAIAPHAS Numeri e palpi l'oro con la mano che liscia ed accarezza. La vista de 'l tesoro è la tua voluttà, la tua dolcezza e chi sa da che fogna a le fauci de 'l reo scrigno è colato! Chi sa da qual vergogna con la fetida man l'hai razzolato! Ma per chi l'ha raccolta la moneta non pute e non ha orecchi. L'usura non ascolta pianto di bimbi o gemito di vecchi. L'onor de le fanciulle, il lavoro de i padri, il pan de i figli, tombe, talami, culle, ghermiscon tutto i tuoi rapaci artigli. Che importa se il denaro fu salario di ladri o d'omicidi? È molto, e con l'avaro occhio a goder lo torni e gli sorridi. Ma quando il tuo sorriso mostra più il gaudio de 'l desìo satollo, ecco, a notte, improvviso, Satana viene che ti torce il collo. 207 1900 Dice l'anno che muore a quel che nasce – Povero figlio mio, càpiti male! Il mondo è triste come un funerale perchè soffre la fame o mal si pasce. Mangiano pochi furbi a due ganasce, ma digiunano troppi a l'ospedale, mentre, povero figlio, a 'l tuo natale il prete ed il questor tesson le fasce! Io saluto così l'ultima sera, larga lasciando eredità di pianto e tu nasci tra il nembo e la bufera. Ma crescerai de' sacerdoti a 'l canto, ne 'l fresco educator de la galera e ne 'l timor di Dio. Sei l'anno santo! – QUANDO IL MUNICIPIO DI BOLOGNA FESTEGGIÒ LA B. V. DI S. LUCA ESPONENDO I CENCI ANTICHI PER INVITO DEI CLERICALI MASCHI E FEMMINE Dicono – Gesù mio, quanto schiamazzo per due vecchi tappeti! Nemmen se ritornassero in Palazzo gli Svizzeri ed i preti! I contadini a non vederli esporre ci credevan birbanti; sono elettori anch'essi e quando occorre votan pei ben pensanti. Che v'importan quei cenci o i Credi fatti recitar ne le scuole? Siam liberali. Non badate agli atti, badate a le parole. – Rispondiamo – I tappeti a la ringhiera non son stracci e cimosa: cencio di pochi palmi è una bandiera, ma vuol dir qualche cosa. Confessatelo, via, siate leali, poichè non siete scaltri: voi pascete di fumo i liberali e d'arrosto... quegli altri. – E v'è chi dice poi – Bisanzio ancora con le ciarle si regge de i cento legulei de la malora che gli falsan la legge. Lasciamoli cianciar de 'l più e de 'l meno, lasciamoli garrire; noi guardiamo più in alto, ad un sereno, ad un santo avvenire. Noi guardiamo più in alto e questa bassa miseria non ci tange. Con ben altra eloquenza il cor ci passa la voce di chi piange! 209 Ma quando il pianto cesserà e verranno feste più sante, allora quelle coltri lassù, riscalderanno il letto a chi lavora. – SERMONE DI NATALE O Messia profetato a i sofferenti, pietoso un dì consolator de 'l mondo, inutilmente ormai torni a le genti, bambino biondo! Non è più il tempo in cui l'amor potea illuminar le menti e intender l'alme, in cui per te Gerusalemme avea osanna e palme. O dilettose a 'l cor notti stellate de' colli galilei su i dolci clivi, tra il canto de le donne innamorate, sotto gli ulivi; o susurranti a 'l sol gaie fontane, di solinghi riposi allettatrici, cui salìa la canzon de le lontane spigolatrici; o vigne d'Israel che i dolci frutti maturaste a l'umìl schiera seguace, voi non l'udrete più chieder per tutti giustizia e pace! E tu, benigno, che a cercar scendevi l'agnel che si smarrì ne la campagna e l'Evangelo de l'amor dicevi su la montagna, guarda! un'idolatria cauta e discreta a gli apostoli tuoi cresce l'entrate. Pietro che ti negò, batte moneta; Tommaso è frate. Il sangue che grondò da la tua croce oggi feconda l'odio e non l'amore. Presso a 'l complice altar veglia feroce l'inquisitore. L'astuta ipocrisia de l'egoismo che la ragione a l'util suo sommette, distilla le bugie de 'l catechismo ne le scolette e ne la Chiesa che chiamar non sdegna 211 santo l'inganno e la menzogna pia, angelico Dottor, Barabba insegna teologia. Perchè tornar se a la novella pena oggi trarresti inutilmente il fianco? Più carezze non ha la Maddalena pe 'l rabbi stanco. Non si ricorda più d'averti amato, ma, isterica romea, co 'l bacio scende a 'l laido piè che, de 'l tuo nome ornato, Caifa le stende; e colei che chiamar madre ti piacque e ne 'l sepolcro il corpo tuo compose, or vezzeggia i clienti e vende l'acque miracolose. Fuggi, fuggi da noi, bambino biondo: torna piangendo da 'l presèpe a 'l cielo. Il Sillabo di Pio cacciò da 'l mondo il tuo Vangelo. Da l'avarizia vinta e da 'l peccato la tua fede morì povera e nuda. Oggi ne 'l nome tuo regna Pilato, governa Giuda. EPIFANIA Nella profonda tenebra passava il disperato urlo del vento; sulla terra pesavano la neve, la miseria e lo spavento, quando una fiamma vivida arse nel ciel come una immensa face e un santo coro d'angeli cantò: «A Dio gloria ed alla terra pace!» Lieti i pastor salirono sotto quel lume per la via deserta e doni assai recarono, poichè fede non v'ha senza l'offerta. Ma quando i Magi udirono l'inno di pace andar per l'universo, ebber paura e dissero: «Se l'inno canta il vero, il regno è perso!» E sui cammelli posero molt'oro, poca mirra e meno incenso ed a Betlemme vennero in carovana, pel deserto immenso. Giunti i Re dentro al misero presèpe, albergo dell'Amor divino, i doni anch'essi offrirono, adorando la Madre ed il Bambino: ma pur curvati ed umili, volsero gli occhi attentamente intorno e, visto quel che vollero, ripresero la via col nuovo giorno e consolati dissero: «Finchè l'asin digiuna e il bue lavora, » per noi non c'è pericolo » e i nostri figli regneranno ancora! 213 DUE VOCI «Pace, Cristo dicea, pace al fecondo solco in cui dorme la futura messe, all'officina che mugghiando tesse, alla nave che varca il mar profondo, al vecchio bianco ed al bambino biondo, ai re possenti ed alle plebi oppresse, pace! Dio manterrà le mie promesse. Il mio regno non è di questo mondo!» Ma il prete dice – «Ah, no, tu non avrai un istante di pace, o mondo indegno, finchè il tuo Cristo mi rinfaccerai. Ferro, sangue, velen sarà il mio sdegno finchè pentito non mi renderai l'oro, i gendarmi, la mannaia, il regno». ALLA CITTA DI FERMO CHE RIDESTA ED ONORA LA MEMORIA DI GIUSEPPE CASELLINI, IGNAZIO ROSETTANI ENRICO VENEZIA DECAPITATI IN OLTRAGGIO ALLA GIUSTIZIA IN VITUPERIO DELLA RELIGIONE DA PIO IX PONTEFICE MASSIMO .... non inane Auspicium pietas renascens. LEO XIII Nobil città che spregi e che detesti chi giustizia non rende all'innocente, or che ai martiri tuoi liberamente pietosa come sei ti manifesti, consegna i traditori e i disonesti all'istoria che prova e che non mente, ma prostra i capi mozzi e grida – O gente, gli assassini, per Dio, non furor questi? Qui, fatto forte delle altrui paure, non ministro di Dio ma suo flagello, Pio strinse il freno con le mani impure. Il prete, qui, che decretò il macello, venne per scherno a benedir la scure e Fermo disse – L'assassino è quello! – 215 CHI SA PERCHÈ? Nel tempio il buon Gesù vide un abietto branco di mercatanti e di mezzani che, come i nostri preti e sagrestani, vendevan l'amuleto e il moccoletto. Acceso allor di santo sdegno il petto, prese un randello colle sante mani e giù legnate che nemmeno ai cani... Sia lodato in eterno e benedetto! Di reliquie n'ho visto in ogni canto, il vin di Cana, l'acqua del costato, il sudore, il prepuzio, il sangue, il pianto. Eppur per quante chiese abbia frugato, nessun frammento del randello santo, preti, chi sa perchè? non l'ho trovato. VISSUTE INVANO Povere suore, chiudete il core, coprite gli occhi col vel raccolto, chinate il volto sino ai ginocchi! Dal vizzo petto l'ultimo affetto v'hanno strappato e il vóto forte come la morte v'ha mutilato. Il cereo viso senza un sorriso s'affila e langue; malsano e bianco nel vacuo fianco vi stagna il sangue. I dolci canti cari agli amanti non li sapete; tolte al fecondo gaudio del mondo donne non siete. E pur qui fuori ci son dei fiori per chi li coglie e trilli e gridi salgon dai nidi sotto le foglie. Passan col vento tepido e lento baci e parole e sul creato innamorato fiammeggia il sole. E pur, non vinto, l'umano istinto veglia e v'aspetta e la parola 217 – tu vivrai sola – Dio non l'ha detta, ma tra gli ulivi verdi, pe i clivi di Galilea, il Cristo biondo la vita e il mondo benedicea! Deh, penitenti pe i godimenti che non provaste, perchè, spietate, martirizzate le carni guaste? Ah, è vero! Eterno brucia l'inferno per chi è felice e Monsignore se sboccia un fiore lo maledice. PER LAUREA Quando il ciuco sentì lenta la briglia, come tra i ciuchi avvien, divenne ardito, digrignò i denti ed inarcò le ciglia, ragliando che il saper morìa fallito; e l'altre bestie della sua famiglia d'ogni pel, d'ogni razza e d'ogni sito, si trovaron d'accordo a meraviglia tutte nell'applaudir lo scimunito. Ma tu che ormai con l'occhio e col pensiero vedi quel che veder non può costui e della vita intendi il gran mistero, or deridendo l'ignoranza altrui per la via del saper raggiungi il vero e mostri al ciuco che il fallito è lui. 219 EGOISMO O fortunato chi sa viver bene, mangiar, bere, dormire allegramente, intento solo a canzonar la gente che i vizietti e le donne gli mantiene, non lavorare e aver le tasche piene, esser somaro e comparir sapiente, non pagar punto ed incassar sovente, esser birbante e comparir dabbene e sapersi cavar tutte le voglie senza soffrir di scrupoli indiscreti; curar la pancia e non sentirci doglie, tutti saper del prossimo i segreti, esser caro al marito ed alla moglie... Ah, come l'hanno indovinata i preti! RIME I. Fitte nel capo mio ronzan le rime come nell'alvear d'api uno sciame, che colse il miel dalle corolle opime nel vagabondo errar da stame a stame. Lo colse per le valli e per le cime, senza fren di regina o di reame, e se il libero vol non fu sublime, l'ala fu pari alle modeste brame. L'alba le vide uscir col primo lume e la sera tornar nell'ore estreme, pel seren, per la piova e per le brume; ed io che tutte le conosco a nome, le veggo lavorar ronzando insieme e poi fuggir di nuovo e non so come. 221 II. Api vestite d'òr, strette in cintura, senza posar giammai da mane a sera, sotto il bacio del sol l'ala leggera aprono spensierate alla ventura; nè, se ben picciolette, hanno paura, chè ciascuna di lor fatta guerriera, sa una lama snudar sottile e fiera, che gocciola velen nella puntura; e guai se l'offensor non si ritira, poichè tutte su lui volano a gara e non lo lascian più finchè respira. Chi le stuzzica dunque in sua malora sappia che presto ed a suo danno impara che la rima è velen, che il verso fora! LE BALLATE DEL PROCESSO I. Verità, libertà, luce, progresso, voi mi conciaste bene che mi trovo per voi sotto processo! L'affare andò così. Pietro pescava cercando con la rete il suo profitto. Giù per l'acqua corrente io me n'andava ed ei mi prese per godermi fritto, poichè all'arrosto non ci ha più diritto dal dì che tra le pene il rogo, grazie a Dio, non ce l'han messo. Ma il santo pescator che m'afferrava, dalle mie spine si sentì trafitto. L'altrui rabbia cristiana e la pia bava mutaron la puntura in un delitto; ed è per questo che son tanto afflitto che, se ben mi sovviene, non ho mai riso come rido adesso! 223 II. Quando per l'arsa Galilea passava Gesù, lungo il tragitto, d'amor, di carità così parlava: – «Fratelli, il regno mio non è concesso » a chi, assalendo, la vendetta ottiene. » È il triste Fariseo che genuflesso » chiede pel fratel suo ceppi e catene » e va nel tempio con le tasche piene!...» – Disse, e in croce confitto, benedicea morendo e perdonava. E gli Apostoli suoi dicean lo stesso abominando le viltà terrene: ma inchiodato che fu, chieser sonnnesso: – «Quanto guadagno dai carismi viene?» – Quindi molti a Gesù volser le schiene; poichè si trova scritto: Quando il gallo cantò, Pietro negava. FU VERO? Pace! pei lunghi secoli lento l'amor procede, ma dove pone il piede germoglia in pace il grano, e le messi maturano pingui al lavoro umano. Lente le idee si movono e noi moviam con loro, compagni nel lavoro e nell'amor fratelli; tardano assai, ma spezzano gli scettri ed i coltelli. Pace!... Ma indarno aspettano i sofferenti ancora che sorga in ciel l'aurora; e il Rabbi che bandiva la gran novella agli uomini, forse anche lui mentiva! 225 TRA UNA UDIENZA E L'ALTRA Ecco, torno al silenzio ed alla pace della mia cameretta or che per poco a me d'intorno tace l'urlo della vendetta. E nel bacio de' miei, sincero e sacro, il cor torna giulivo e l'anima si monda in un lavacro d'amor perenne e vivo. Dal famigliare asil passa lontana l'ira delle tempeste; non qui, non qui della malizia umana può fermentar la peste. Qui, sulla fronte affaticata, un raggio santo d'affetto piove, qui riprendo la forza ed il coraggio per le battaglie nuove; le battaglie del ver colla menzogna, dell'ombra con la luce, dove il prete di Dio senza vergogna l'odio a pugnar conduce. Ma se lungi dal campo e dal nemico oggi venni a posarmi, domani all'ombra del vessillo antico pronto sarò con l'armi. Tu santa libertà, se ancor lo puoi, mi sarai guida e scorta. Se vinco, il vero vincerà con noi e se cadrò, che importa? Soldato umil che nel combattimento le rime al verso intreccia, ammazzato da un prete a tradimento morirò sulla breccia. PER UN «NUMERO UNICO» VENDUTO PER BENEFICARE Quando la Carità stende la mano pietosa e per chi soffre ausilio implora, la politica ladra e traditora la spia cupidamente da lontano, indi sfodera l'ugna e piano piano ruba l'oro raccolto e lo divora; Calabria il sa che se ne duole ancora e grida il nome de' suoi ladri invano! Ma qui, perchè temer? Non hanno impero qui de' preti le fraudi o la rapina, ma il cor non mente e l'animo è sincero. Ciò che ai dolenti carità destina va per aperta via, dritto ed intero, dove il pianto l'aspetta e la rovina. 227 ANNIVERSARIO I. Or compie l'anno e Monsignor gradiva lieto, de' figli suoi l'omaggio e il dono e nobilmente dall'altar bandiva la parola di Dio: – «pace e perdono! » Cristo ci perdonò quando moriva, Cristo l'agnello mansueto e buono. Con Giuda egli cenò che lo tradiva, e di Pietro sorrise all'abbandono. » Io son l'Unto di Lui che con la mano e col cor generoso ha benedetto l'adultera, lo scriba e il pubblicano. » Io son fonte d'amor, fiamma d'affetto! io sono il Padre rinnegato invano; son la pace e il perdono. Iddio l'ha detto!» – II. Iddio l'ha detto e della sua parola, preti di Cristo, mi ricordo anch'io, che m'insegnaste da bambino a scuola, a suon di nerbo la bontà di Dio. Ma, col crescer degli anni, il tempo invola all'anima il candor credulo e pio e se dal petto vostro alzai la stola, sempre un cor vi trovai peggio del mio. Perdono e pace! E pur, se bene ho visto, non confuse l'amor con la loquela, ma il sangue sparse perdonando il Cristo. Perdono e pace! Ma se un verso cela l'ombra d'un cenno che ti sembri tristo, sacerdote di Dio, mi dài querela! 229 MENTRE TUONA I. La mia povera vigna è così fatta che la devo vangar tre volte l'anno, potarla com va, pari ed esatta, per legarla di poi, sempre a mio danno: e non appena il sol me l'ha rifatta, ci rimetto del mio sapone e ranno tra zolfo e rame a mantenerla intatta dalla nebbia, dal male e, dal malanno. Quando i grappoli poi diventare neri, tutta l'ira di Dio nel cielo accolta sopra ci si rovescia e volentieri. Ed allor buona notte! Addio raccolta, addio tasse pagate, addio panieri, serbati sempre per quest'altra volta! II. La vigna del Signor – quella; s'intende, che piantata non fu dal Nazareno – non chiede al possessor tante faccende e compensa di più chi spende meno. Sicuro il frutto dal suo tralcio pende ingrossando alla nebbia ed al sereno ed il mille per cento e meglio rende per poco che le sia dolce il terreno. Si coltiva in poltrona e senza costo, non ci crescon l'ortica o la gramigna, la grandine le sta sempre discosto. e se chi passa, nel guardar, sogghigna, c'è il Tribunale che' lo mette a posto... Oh, la vigna di Dio, che bella vigna! 231 DE RE RVSTICA Gallus in sterquilinio suo plurimum potest. SENECA, Apocol. I. È mio quel gallo che alla prima luce coll'ingrato cantar saluta il giorno e già vecchio, spennato e disadorno, pur la cresta insolente al sol produce. Devasta i seminati e s'introduce tra le siepi a rubar tutto il contorno, indi all'usato sterquilinio intorno le sue galline a razzolar conduce. Poi quando vien la sera e son già sorte pallide in ciel le prime stelle accese, appollaiato sulle gambe storte dice alle sue galline: – «Ora è palese ch'io son tremendo, rispettato e forte e la bestia maggior del mio paese!» – II. Io penso intanto: – «Se tirassi il collo, per non vedermi guasto il seminato, a questo gallo vecchio e spennacchiato che quanto mangia più, meno è satollo? E poi che ne farò? Se fosse un pollo, benedetto l'arrosto e lo stufato! Ma un demonio malsano ed arrabbiato sul far di questo, non sarà mai frollo. Lasciamolo campar! Vada all'inferno se lo voglion le volpi o le faine, o, se piace al Signor, viva in eterno!» – Schiva il gallo così l'ultimo fine e in virtù dello sprezzo e dello scherno regna sovra i capponi e le galline. 233 PREDICA I. Sacerdote d'un Dio che non hai visto ma di cui nel tuo rito il sangue bevi, sacerdote di Dio che in alto levi l'Ostia di pace simbolo di' Cristo: se tu ci credi e se all'eterno acquisto dei battezzati affaticar ti devi, perchè, se il giusto al bacio tuo ricevi, scacci l'errante e maledici al tristo? Dolce del Figlio di Maria la voce al nemico parlò come al fratello; clemente all'offensor, mite al feroce. Si tolse in grembo lo smarrito agnello il buon Pastor che perdonava in croce, e se la frusta usò, non fu per quello. II. Morremo entrambi e, se dicesti il vero, al di là della terra e della vita nella luce suprema ed infinita ci troveremo in faccia al gran Mistero. Nessun labbro facondo e lusinghiero venderci allor potrà l'arte scaltrita, nè mantel di monarca o di levita potrà coprir la carne od il pensiero. Io Gli dirò: – Dalla tua legge appreso ho sol l'amore ed ho nel mondo amato. – Tu dirai: – Maledissi e fui difeso. – Io dirò: – Se soffersi, ho perdonato. – E tu dirai: – Quando mi tenni offeso, la Giustizia del Re m'ha vendicato – 235 MEDITAZIONE I. Nella valle giudea di Giosafatte, nel dì che nuda mostrerem la pelle, vescovi (che bellezza!) e pecorelle, vecchie fetenti e giovani ben fatte, in quel rimescolio di tante schiatte diverse di colori e di favelle, se Dio n'aiuti, ne vedrem di quelle da restar con le ciglia esterrefatte! Come? Il vivo color di quella faccia ci parve giovinezza e fu pittura? Come? Il tumido sen fu carta straccia? Come? Colui che già facea paura scagliando l'anatema e la minaccia, era fatto con questa architettura? II. E peggio poi sarà quando vedremo non solo ignuda la mortal carogna, ma l'anima salir come alla gogna senza l'ipocrisia d'un velo estremo, e dolorosa innanzi a noi l'udremo intera confessar la sua vergogna scoprendoci il mister della menzogna ch'ebbe l'impero e meritava il remo. Oh, sciagurato allor chi la mercede numerò del peccato e fu convinto che ben s'acquista in vendicar la Fede! Oh, nel giorno tremendo e nel recinto della valle fatal, per chi ci crede, misero il vincitor, beato il vinto! 237 FIDENTIANA I. Se contingesse mai che da 'l Pontefice fussi Episcopo facto in Concistorio, dormiterei pedendo in faldistorio, potato et pasto abunde et honorifice; inde, concusso, erigerei mirifice le Spezie di Jesù ne l'Ostensorio et quidem la Sequenza e 'l Responsorio pulcre concinnerei come un artifice. De l'util Fede il sacro sancto semine infunderei così cum diligentia parum ne' maschi et salde ne le femine; Sed heu! che non son io quella Excellentia che preme il throno cum le cluni gemine et li psalmi di Dio cane in Faventia! II. Cane ducendo le capelle al pabulo per lo itinere sacro et infallibile, sì che, flexo, il propinquo hirco terribile non quate più le corna e 'l tintinnabulo. Mite cum Beniamin come cum Zabulo, la dulcedine Sua pare impossibile; ma ne 'l prelio di Dio, mile invincibile, co 'l solo aspecto fa spavento a 'l Diabulo. Sed mox, alfin la Sua Mansuetudine il petaso vedrà d'Eminentissimo evadendo di poi Beatitudine... Ehu, tunc; Te quaeso, Pastor mio sanctissimo, cedimi el pallio tuo per gratitudine et San Jovese havrà culto dignissimo!! 239 PELLEGRINI I. Non un'ombra di palme all'orizzonte, sul candor delle sabbie arroventate, non una nube in ciel, non una fonte per le povere turbe affaticate! Come il Profeta volle, accorser pronte, lacere, macilenti ed assetate, ma con la speme in cor, la fede in fronte, benedicendo Iddio che l'ha chiamate. E i pellegrini dell'Amor superno, i docili al voler del Sovrumano, hanno le piaghe del martirio a scherno. Che val se d'ossa è seminato il piano? Chi muore nel Signor, vive in eterno... Questa è la fede falsa ed è il Corano. II. Monsignor che s'annoia in prima classe a sbadigliar coi salmi dell'Uffizio, dice: – I fedeli miei pagan le tasse perchè la ferrovia faccia il servizio ed invece il cuscino è come un'asse, l'imbottitura è peggio d'un cilizio e, senza molle, le mie parti grasse non me le sento più. Sono al supplizio! E poi, la cioccolata era brodosa, il consommé pareva stato in gelo... Ah, che martirio, giurammio, che prosa! Certo che il pellegrin soffre pel cielo, ma il comodaccio suo, che bella cosa!... – Questa è la fede vera ed è il Vangelo. 241 CIARLE Mi son lasciato dir: – «Ma, non t'avvedi che non ci garban, più questi sonetti, questi epigrammi a coppia, in cui ci metti quel sempiterno Monsignor tra i piedi? La storia è lunga ormai più che non credi, le tue son rifritture e non concetti. Altro vogliam da te, vecchio Stecchetti, e le fischiate avrai se non provvedi». Via, non avete torto, anzi consento che vi cominci a diventar stantìo questo reverendissimo argomento; ma se del poco e vil denaro mio, Monsignor che lo palpa è pur contento, lasciate un po' che me lo goda anch'io. II. Era un duello. Egli m'avea sfidato prefiggendomi l'armi, il luogo e l'ora. Io, povero babbeo, ci sono andato, ma il prode sfidator non venne fuora. Vidi un procurator, qualche avvocato e i Giudici del campo in mia malora. Han discusso, han dormito, hanno sudato, ma il prode sfidator l'aspetto ancora. Solo i padrini suoi disser: – «Sentite: il condottier che le Romagne ha dome, oggi non può venir. Soffre d'otite». – Otite? Io le darei tutt'altro nome e se siamo d'accordo, acconsentite ch'io mi diverta col malato... e come! 243 DAL VERO Ieri conobbi la Giustizia. Stava in un tugurio lurido ed infetto, su certe sedie reduci dal ghetto che la pidocchieria contaminava. Tra la veglia ed il sonno interrogava dei cafoni col gergo e col dialetto e, miagolando in tono di falsetto, se stessa, gli altri e il Tribunal seccava. Poi ghignando mi disse: «Io t'ho legato le man, la lingua, i piedi e del tuo scritto nulla davanti a me voglio provato. Io t'ho messo il bavaglio e t'ho prescritto che non possa nemmen tirare il fiato. Or difenditi pure. È il tuo diritto» DE PROFUNDIS Poveri morti miei, che mi chiamate con voi dalla remota oscurità, vorrei vivere ancor poche giornate per questi figli e poi venir costà. Il mio santo dover sarà compiuto quando il nido potranno abbandonar, quando nel dì dell'ultimo saluto tranquillamente li potrò baciar. Allora, oh allora chiuderò contento gli occhi che il sol non rivedranno più e il capo piegherò senza un lamento per questa vita che crudel mi fu. Poveri morti, e voi m'accoglierete come il figlio lontan che ritornò: quel che avviene quassù domanderete e come in sogno vi risponderò. Nel mondo che lasciai, poveri morti, l'uomo e la donna son malvagi ancor, portan la croce i deboli pei forti, la vita è piena d'odio e non d'amor. È segno di virtù l'esser crudele, segno di debolezza è la bontà. Si mangia in ogni casa il pan col fiele, agro di bile e di perversità. L'istinto del dover più non rimane dove la Borsa le sue porte aprì. Se lavoro non c'è, rincara il pane e se il volgo ne muor, meglio così. La terra pei ladroni è paradiso e le commende fan rubar di più. Il ministro di Dio s'è circonciso e tien banco all'insegna di Gesù. Che se tarda dal ciel vien la saetta e il Sant'Ufficio mal si regge in piè, i vescovi oramai chiedon vendetta, per uno scherzo, ai Giudici del Re. Fino al Genio latin sincero e sano, 245 che vivea di giustizia e verità, Zaratustra parlò che al Sovrumano dice bello il delitto e la viltà. La rea fortuna e le stagion mutate han guasto l'aria ed hanno infetto il suol, l'inverno è caldo e nevica l'estate, la terra è stanca e si raffredda il sol. Così la vita non ha più conforti di fede, di bellezza e carità... Oh, meglio, meglio assai, poveri morti, dormir nel buio de l'eternità. Meglio dormir dove il silenzio serba la maestà solenne del dolor, meglio dormir con voi, là dove l'erba cresce tacendo e non si coglie il fior. Eppure... ahimè, felicità perfetta nemmen tra i morti ritrovar si può! Non conoscono ancor la bicicletta e allora non c'è gusto! Aspetterò. XX SETTEMBRE Diceva un Monsignor: – «Se il calendario non segna una bugia, oggi è il Venti Settembre, anniversario solenne a Porta Pia. Oggi l'alloro, l'inno e l'orifiamma trastullano i Romani ed oggi il Re spedisce il telegramma pei fogli di domani. Come tutto mutò! L'istessa breccia che pareva un tracollo fu rovina di pietre alla corteccia che non toccò il midollo. Prima, s'intende, facevamo i morti, ma lavorammo poi e quando i furbi se ne sono accorti, comandavamo noi. Ma ce ne volle! I Santi e le Madonne furono il primo saggio, col Viva il Papa-Re delle pie donne giunte in pellegrinaggio. Congressi, banche, fraterie, giornali, ci dieder poi buon frutto. Guadagnammo Consigli e Tribunali, entrammo da per tutto. Ora insegnam de' framassoni ai figli di Don Bosco i prodigi e solitari a Mondragone i gigli cresciamo a San Luigi. Ah, il vecchio regno, il piccioletto mostro, ormai chi più lo stima? Oggi l'Italia intera è regno nostro e stiam meglio di prima! Manca soltanto un po' d'Inquisizione, ma la vedremo presto... Sia benedetta la rivoluzione, la breccia e tutto il resto!» – Ah, Monsignore, attento alle voltate, 247 se no l'asino casca. Di questo calmo ciel non vi fidate; può venir la burrasca. Badate, Monsignor, che la grandezza non vi serva d'intoppo. Il soverchio tirar la corda spezza e voi tirate troppo! Badate, Monsignor, che se a raccolta la vecchia tromba suona, se apriremo la breccia un'altra volta, sarà la volta buona! FESTA DEGLI ALBERI Le piante giovinette, o madre terra, noi commettiamo al tuo grembo fedel. Salvale tu dal foco e dalla guerra, dalla rabbia degli uomini e del ciel. Fa che crescano al sol tra i fior vermigli, simbolo di fortezza e di beltà. Alleva, o madre terra, ai nostri figli l'albero santo della libertà! 249 SVB SYDERA POLI I. Dalle brume del ciel, sottili e fioche, le stelle guardan la deserta ghiaccia; nell'ombra sepolcral taccion le roche volpi, strisciando alla notturna caccia. Dormon l'anatre bianche in sulle poche alghe del nido che la neve agghiaccia; sul desolato pian russan le foche poi che lungi dell'uomo è la minaccia. Candida l'orsa scivola tra i massi del ghiaccio secolar, quasi per tema d'esser tradita dal fruscìo dei passi: e in fondo alla polar pace suprema, nessun urlo di Vescovo che passi il raca vomitando e l'anatema! II. O pura, eterna ed ineffabil pace che drizzasti da noi sì lunge il volo, dunque più non vorrai l'ala fugace volger benedicendo al nostro suolo? Dunque il Verbo di Dio parlò mendace se a regger l'alme l'Iscariota è solo, se il tuo viso immortal s'asconde e tace nella deserta immensità del polo? Ah no, torna con noi! Lascia l'incanto dei silenzi nevosi, ove natura par che in ghiaccio converta il nostro pianto! Torna! Brillan le falci alla pianura e sale al ciel de' mietitori il canto... la sacra messe a chi sperò, matura! 251 PARETAIO CRUSCHEVOLE Ad Alberto Bacchi Della Lega. I. Avacciati, Masin; le ragne appanna e i giochi assetta, imperocchè non piove. Appaia il Ribaltone e il Montegiove dietro la vite della salamanna. Che se lo mio volume or non m'inganna, oggi si vuol passar sessantanove... zirlano i tordi!... o tu lo vedi?... o dove?... Ha fatto il campanil, sorte tiranna!! Guata, guata, Masin. Dietro lo spazzo quiritta, tra la quercia e tra l'abete, hacci covelle! Scopri lo stiamazzo! Deh, Masino, che stai? Tira la rete, c'è!... come è nero!... com'è grande!... ah... pazzo, m'era sembrato un tordo ed era un prete! II. – Dica, Don Pietro, mi doventa matto che aiato se ne va per la mia tesa? – – Oh, scusi! Andava al mattutino in chiesa e così, per la via, sono distratto. – – Vien dal ròccolo suo? Quanti n'ha fatto? – – Eh, mica troppi. Trenta in una presa. – – Poffare Iddio! Di qui, con tanta spesa, non riesco a fermar nemmeno il gatto! – – Lo so, ma glielo dico apertamente; ella non ferma un pigliamosche al volo perchè questo mestier vuole altra gente. Dottor mio caro, per tirar l'aiuolo, lo stampi pure e se lo metta in mente, val per cento di loro un prete solo. – 253 LEGENDA TRIUM SOCIORUM Corpulento, paffuto e crapulone dice a' compagni suoi frate Giocondo: «Credo che la miglior carne del mondo sia quella del cappone». Ma ritto e sodo come una colonna, con l'occhio incantator del basilisco, frate Lupo risponde: – «Io preferisco la carne della donna»; e fra' Leon, che tra le zampe sue stringe il boccal ricolmo e lo carezza, conclude: – «Quanto a me, nell'incertezza le adopro tutt'e due». LEGGENDO UNA ENCICLICA Dice la quarta pagina: – Lettori, la nostra inalterabile tintura restituisce alla capigliatura il lucido, la forza ed i colori. Approvata da tutti i professori è inoffensiva, pratica e sicura; una bottiglia basta per la cura. Guardarsi bene dai contraffattori. Dice il Papa: – Il rimedio radicale, brevettato e premiato con medaglia, è il mio che sana ogni e qualunque male. Rinforza i buoni, purga la canaglia e rende al Papa Roma e il Temporale. Effetto garantito. Unire il vaglia. 255 DIVORZIO Gridano i preti: «Ecco un novello sfregio alla sposa di Dio l'inferno appresta! La legge sul divorzio è un sacrilegio! La ricerca del padre è disonesta!» Indi chiaman le donne, onore e pregio di Santa Chiesa, a scriver la protesta contro l'infamia del Governo Regio... Ma la ragione degli sdegni è questa: che se un prete, quest'oggi, a fin di bene, genera un figlio con la moglie altrui, c'è un marito che paga e lo mantiene. Ma se la legge libera costui, se il figlio può cercar di dove viene, povero prete! allor chi paga è lui! ELEGIA – Amici, addio! Col vostro amaro pianto, col fraterno dolor non contristate questo ch'io vi consacro estremo canto! Al tragico destin m'abbandonate serenamente! Siate forti e grandi! Nessun per me deve morir. Giurate! O chiaro sol, che su la terra spandi il calor della vita e con i santi raggi le fiamme dell'amor ci mandi, o chiaro sol, che i tuoi sublimi incanti agli occhi de' mortali hai conceduto, che dài polline ai fior, baci agli amanti, che nel profondo ciel fermo hai veduto i secoli passar come giornate, o sole, o dolce sole, io ti saluto! Ah, moglie, ah, figli miei, non lagrimate! Forse, chi sa? ci rivedremo ancora. È più clemente Iddio che non pensiate! Un bacio, figli, un altro bacio! Ed ora mi stringa il birro le catene ai polsi e de' rei mi trascini alla dimora! – Così parlai nel punto in che mi sciolsi dai replicati amplessi e d'esser forte più che Regolo istesso in me risolsi. Fieramente portai le mie ritorte, superbamente al cielo alzai la fronte, regalmente sorrisi alle mie scorte. La turrita prigion s'ergea sul monte squallida e cupa ed allorchè v'entrai udii levarsi cigolando il ponte. Nel fondo della torre ivi calai, e solo, stanco, pesto e scorticato, sul fracido terren mi coricai, ma non aveso ancor ripreso il fiato che mi si fece addosso un aguzzino 257 con un nerbo di bue ben lavorato. Come per forza mi cacciò supino e con quel nerbo me ne diede tante che qui, guardate, sono ancor turchino. Poi sulla carne rotta e palpitante mise per condimento aceto e sale, il manigoldo! e mi dicea: – Birbante, sei dunque tu che osasti in un giornale empio, scomunicato e maledetto, un Vescovo trattar come un mortale? Sei tu, bestemmiator, che in un sonetto offendesti la sua Magnificenza e parlasti di lui senza rispetto? Disinteresse, carità, prudenza, a farti condannar l'han consigliato: or degli scherzi tuoi fa penitenza. Starai qui fra le biscie incatenato, in questa buca sozza e nauseante, nudo, sempre allo scuro e bastonato. Avrai per cibo scarso e rinfrescante la simbolica fava, il duro cece e il fagiolo canoro e petulante. Qui legger libri non potrai, ma invece mai non ti mancherà la Santa Messa. Accidenti ai sonetti e a chi li fece! Non c'è pietà per chi non si confessa e se non chiedi a Monsignor perdono, la colpa mai non ti sarà rimessa! – Disse ed uscì. Di quella voce al suono io mi tenni perduto e disperai e in un'ora di strazio e d'abbandono piansi, come vedete, e m'impiccai. ELEZIONI Musa mia dolce, che le alterigie de' carmi arcigni non hai sul viso, tu che rallegri l'ore mie grigie di stravaganti scoppi di riso e volentieri mostri la pelle dai larghi strappi de le gonnelle, musa mia dolce, vieni, discendi alla solinga mia cameretta; avida ai baci le labbra tendi, libera i lacci della fascetta, sciogli la chioma bruna e ricciuta e chiudi l'uscio. L'ora è venuta, l'ora in cui l'odio fermenta e invade, lurida peste, le menti e i cuori; in cui la gente giù per le strade rutta bestemmie, rece rancori e, masticando laide querele, inghiotte o sputa veleno e fiele. Ognuno in queste turpi giornate morde o calunnia, froda o minaccia. Lo sterco e il fango colto a manate all'avversario si scaglia in faccia. Riddano in piazza, lerci e impudichi, spie, deplorati, ruffiani e plichi: e i giornalisti, tinta di loia la meretrice penna d'acciaio, pur che sia piena la mangiatoia vendon la feccia del calamaio per imbrattarne l'onore altrui, quasi superbo che paghi Lui. Indi, nell'ora concessa al vóto, cupi, nervosi, san gli elettori, parlando basso con viso immoto, guatando come cospiratori e in ogni canto dice un cartello: Votate questo!... Votate quello!... Entro la sala buia e fetente, sozza la gromma vernicia i muri e intorno a un desco men che decente seduti in cerchio cinque figuri 259 veglian con l'occhio cogitabondo l'urna di vetro dal doppio fondo. S'apre la chiama. Nel pigia pigia vota ciascuna pecora sciocca. Ardono alcuni di cupidigia, ad altri l'ira torce la bocca, ma quasi tutti, dopo votato, palpano il prezzo del lor mercato; e tutti, uscendo, da un reo contagio attossicato sentono il cuore. Chi entrò dabbene n'uscì malvagio, chi entrò ribaldo n'uscì peggiore, chi vinse, il turpe bottino aspetta, chi perse, spera nella vendetta. Ecco i comizi! Di quando in quando, se non accade qualche sinistro, dall'urna falsa sbuca onorando un frodolento caro al Ministro, o un imbecille pien di commende; e l'un si compra, l'altro si vende. Or perchè debbo far da mezzano all'ingordigia di Calandrino? Perchè mi debbo lordar la mano scrivendo il nome d'uno strozzino? Perchè gettarmi nella battaglia sotto gli sputi della canaglia? Musa mia dolce, sulla tua faccia ride un giocondo color di rosa. Passerò lieto fra le tue braccia il giorno laido, l'ora schifosa. Sciogli la chioma bruna e ricciuta e chiudi l'uscio. L'ora è venuta. SERENATA ELETTORALE È notte. Il conte Gròsoli si desta in una posa, che non è ordinaria, cioè coi piedi al posto della testa e le reni per aria. In camicia così, cogitabondo, dice il rosario e medita l'impresa di convertir, non che Ferrara, il mondo ai dogmi della Chiesa; quando, ad un tratto, ascolta per la via un coro di lamenti e di preghiere... Son fedeli che vanno in compagnia cantando il Miserere! Dio sia lodato! Il conte allor s'affaccia al balcone in sottile abbigliamento e, spalancando le gagliarde braccia, grida: «o stelle, che sento? » Chi siete, o pellegrini, e dove andate? A Roma forse, a Roma pontificia? O fratelli, per Dio (Bacco), parlate presto! Sono in camicia!» Risponde il coro: «Ahimè! Fummo galletti fatti capponi per comun vergogna e fu, purtroppo, il Cavalier Minghetti che ci castrò a Bologna! » Quando il libero Stato era di moda peccammo, come Lui, malvolentieri e qualche penna della nostra coda donammo ai bersaglieri. » ma il grano era per noi; ma nella stia noi dettavam la legge al popol fido, quando i ribelli ci cacciaron via e siam fuori del nido! » Così nel grembo dell'antica fede tornando e al culto de' ministri suoi, a maggior gloria della Santa Sede veniamo a' piedi tuoi. » Miserere, Signor, dei nostri falli 261 e nella immensità de' tuoi poteri, se di capponi non puoi farci galli, facci almen Consiglieri! » Deh, conte, ora che sai le nostre pene, aiutaci ad uscir dal ginepraio ed insegnaci, tu che la sai bene, la strada del pollaio!» Udendo il conte dei pentiti il duolo, ebbe un sorriso arguto e perspicace, poi, moderando alla camicia il volo, disse: «me ne dispiace! » La strada è questa, ma evitate il bosco e andate dritti per la via maestra. Del resto, mascherine, io vi conosco!!!» E chiuse la finestra. PEI LIBERALI PENTITI Lodiamo Iddio col cuore e col midollo dell'anima e dell'ossa. I penitenti con la corda al collo ritornano a Canossa! Pei fangosi sentieri e per le vie già poste in abbandono, con un lungo alternar di litanie vanno a chieder perdono ed il Pastor che lega e che discioglie il cielo a suo talento, apre le braccia e nell'ovil raccoglie il ravveduto armento. Il terror della colpa e del peccato aperse gli occhi a tutti. Oh, il prete che di notte ha seminato, coglie di giorno i frutti! Al tuo piè genuflesso eccoti a squadre il popol tuo devoto; deh, non negargli, o male offeso Padre, la carità del vóto. Scorda il venti settembre e le bandiere e i discorsi imprudenti. Già i tappeti eran pochi alle ringhiere e i lumi quasi spenti. Non lo faranno più: ma poi che reggi le sorti d'Israele, non far che salga del Comune ai seggi il popolo infedele. Scegli tra i penitenti! Abbandonati lascieranno i migliori, contenti assai se gli ultimi soldati godranno i tuoi favori, e benedetti poi dal Santo Erede e Successor di Pietro, se sono indegni di baciargli il piede, gli bacieran... didietro! 263 PEI LIBERALI RIPENTITI Dunque sui nostri colli, e me n'incresce, dunque nel piano antico, non si torce più corda e più non cresce un albero di fico? Eppur c'è Giuda che gli artigli avari apre all'ingordo acquisto; c'è il prete che gli dà trenta denari perchè gli venda Cristo! Ma no. La corda, per mestiere antico, dovete farla voi e insaponarla bene. In quanto al fico, ci penseremo noi. Lo pianteremo colle nostre mani presso la vostra porta, come simbolo e stemma, oggi o domani, che il tempo non importa: ma l'onor vostro e delle vostre schiere vi penderà impiccato, patriottardi dalle due bandiere, e onesti... a buon mercato. E sia! L'Italia offriste al Sant'Ufficio come bagascia ed ora chi vergogna non ha del meretricio, lo vóti, in sua malora! PEI LIBERALI PENTITISSIMI Non è più il tempo di tramar congiure in congreghe notturne. Ora chi vuol tradir, tradisca pure nel segreto dell'urne; ma chi non volle arruffianar promesse o trafficar parole, chi non seppe mentir per interesse, parli – ed in faccia al sole – e dica: ora tu sai, vecchia Bologna, la verità dov'era! or conosci la frode e la menzogna di chi voltò bandiera! Eccoli! Guarda! Barattando i pegni, combinaron l'affare coi Padri Gesuiti. Ecco i sostegni del trono e dell'altare! Li credesti campioni e cavalieri de' tuoi colori santi, mentre il core, la faccia ed i pensieri eran di zoccolanti; ed or che infido si mostrò al comando l'esercito fuggiasco, ritornano all'ovil, cappuccinando per la via di Damasco e riprendono il basto e la catena colla fronte dimessa... Ah, liberali dalla pancia piena, andate a servir messa! Noi no! Noi colla fronte alta e diritta, dopo il dover compito, non curiam la vittoria o la sconfitta! Noi non abbiam tradito! 265 LA GOCCIA DA V. HUGO La sorgente cadea giù per la roccia, giù nel tremendo mare, a goccia a goccia, e il mar tremendo che le navi infrange, disse: – che vuol da me costei che piange? Io sono la tempesta e lo spavento! giungo dove finisce il firmamento. Io son l'immensità dell'orizzonte, che bisogno ho di te, povera fonte? – E la fonte rispose al mar tremendo: – l'amara immensità non ti contendo, ma ti do quel che non sapresti avere: una goccia ti do che si può bere. – VIA CRUCIS Se un infame ladron dalla montagna cala co' suoi pidocchi alla pianura e trafficando della sua compagna ne cava assai da esercitar l'usura, al primo scudo che così guadagna insegna l'arte alla progenitura: la cresce ladra, sordida, taccagna nei coperti sentir dell'impostura. Poi la veste da prete e l'accompagna passo passo dal trivio alla tonsura, fino a che giuri il falso in cappa magna. Così per forza d'arte e di natura uno scagnozzo reo d'ogni magagna ottiene i fiocchi della prelatura. 267 II. INTERLVDIVM ... Minuentur atrae Carmine curae. HORAT. IV, II. IL MIO RITRATTO Io conosco l'applauso e la fischiata, lo schiaffo e la carezza, il bacio e il morso, il velen del pensiero e del discorso, la calma della fede intemerata. La strada del dolor l'ho insanguinata, il sentier della gioia io l'ho percorso, ho bevuto la vita a sorso a sorso e depongo la tazza ormai vuotata. E pur se con la mente alla passata età ritorno ed al cammin trascorso, la mia serenità non è turbata. Seguon l'anima e l'occhio in alto il corso lieve del fumo con la pace usata e in fondo del bicchier non c'è rimorso. DICEMBRE Nel ciel grigio e sonnolento è una gran malinconia, e la neve senza vento muor nel fango della via. Un mortale increscimento assalì l'anima mia; agghiacciato il cor mi sento nel sudor dell'agonia. Muore il giorno e al mondo invia un addio che fa spavento, un singhiozzo d'elegia. Muore l'anno e lento lento nel languor dell'etisia l'amor nostro, ecco, s'è spento! 269 ANNO NUOVO Ecco nel plumbeo ciel mesto s'avvia verso i regni del nulla un anno ancora e men triste a se stesso ognun desia l'anno che nasce con la nova aurora, ma indarno. Ai sogni della fantasia benigno il cielo non sorride un'ora. Della vita mortal dura è la via e il tempo per passar non la migliora. L'anno che nasce una speranza porta sempre con sè che a confidar c'invita e l'anno vive ancor quand'ella è morta. Una miseria non è ancor finita che viva dal suo ceppo un'altra è sorta... Sperare e disperar, questa è la vita! MERIDIES Al sol di luglio disperatamente friniscon le cicale; dagli arsi prati vaporar si sente una fragranza calda e sensuale; nel meriggio fulgente aleggiano l'idillio e il madrigale. Gentil beltà da la fiorente gota, ascolta. Ecco, risuona nel deserto sentier la voce nota che sì spesso d'amor teco ragiona. Gitta l'anfora vuota, accorri sorridendo e t'abbandona. Egli ti dice: a che più tardi? Andiamo de l'ombre amiche in traccia. Il piccioletto piè posa sul ramo che il rimoto sentier sbarra ed impaccia. Varca sicura. Io t'amo e ti riceverò nelle mie braccia. Con la cupida man, senti? t'ho stretto i fianchi baldanzosi. Avidamente nel formoso aspetto figgo, ardenti d'amor, gli occhi bramosi, mentre porgendo il petto su l'omero il gentil braccio mi posi. Sotto la forte man che ti sostiene come ti batte il core! Come di fiamme le pupille hai piene! Come le guance tue mutan colore! Apri a l'amor che viene, apri le braccia e de la bocca il fiore! Vedi? Il bosco, laggiù, fido nasconde chi nel suo sen ricetta. A quelle oscurità fresche e profonde il desìo non ti chiama e non ti alletta? Vieni! Sotto le fronde, entro l'ombre silenti amor ci aspetta! 271 PARTENZA Sotto le rosee brume laggiù scomparve il sol, s'è desto l'usignol, mormora il fiume e sovra il pian dell'onda in cui si specchia il ciel, leggero il navicel lascia la sponda. Densa tra poco e fida la notte il coprirà, ma in porto giungerà; l'amor lo guida. AI COLLEGHI Tangheri di poeti che, se andate in amore, raccontate i segreti di tutte le signore, siate meno indiscreti negli affari di cuore e imparate dai preti che non fanno rumore. Chi spiffera in tribuna quello che il cor gli detta, non farà mai fortuna. Le donne non han mica scrupoli a darvi retta: temono che si dica. 273 NATALE DI BIMBI Innocenti fanciulli, che non suggeste ancora il velen della vita; gioconda età, fiorita nel riso dell'aurora, nel gaudio dei trastulli; anime ignote al male, coscïenze serene, bocche senza segreti, tornano i giorni lieti ed il dicembre viene col ceppo di Natale; speme di forti padri, gioia dei dì fugaci, gloria ed amor del mondo, porgete il capo biondo alle carezze, ai baci delle festanti madri. Ahi, come triste è l'ora per l'anime inquïete, pei cuori avvelenati! O bimbi, o voi beati, perchè non intendete, perchè ignorate ancora! NATALE DI VECCHI O vecchi dolorosi, o cuori affaticati, occhi che avete pianto desiderando il santo sonno dei trapassati e il giorno dei riposi, ecco l'estremo verno batte alle vostre porte nell'ombra densa e bieca. È il verno che vi reca il sonno della morte ed il silenzio eterno. Tolta dai rami suoi la foglia inaridita torna alla terra antica. Lo strazio e la fatica della dolente vita finiscono per voi! Ecco, profonda tace la notte in camposanto, la notte senza fine! Chiudete gli occhi alfine, gli occhi che pianser tanto!... Pace, vegliardi; pace! 275 VEGLIA ROMANTICA Disse il fantasma – «Non mi ravvisi? eppure io piansi tanto per te; eppure un giorno per te m'uccisi e il sangue corse fino a' tuoi piè! M'avevi dato la tua promessa quando al meriggio saliva il dì e la tua porta, la sera istessa, ad un amante nuovo s'aprì. Dormono i morti, ma veglia il fato che nella notte li fa levar e il giuramento dimenticato ti vien dai lieti sogni a destar. Hai pur giurato che mi saresti eternamente sposa fedel: or la parola che me ne desti tener la devi dentro l'avel. Lascia le piume, sali la groppa meco di questo nero corsier che nella chiara notte galoppa verso le croci del cimiter. Gli occhi di fuoco schizzano lampi sotto la frusta, sotto lo spron; passa le case, vola sui campi, ma i piè leggieri non danno un suon. Perchè alla briglia stendi la mano? Perchè, mia bella, gridi così? Il mio sepolcro non è lontano, vi giungeremo prima del dì. Oh, come bene vi posan l'ossa nella mollezza del pingue suol! Che larghi fiori sopra la fossa sotto gli ardenti baci del sol! Tumuli, croci, colonne mozze, per noi l'umano dolore alzò... Ah, che giocondo letto di nozze, bella, il tuo sposo ti preparò! Ecco, la pace del cimitero la tua promessa mi manterrà. Senza memoria, senza pensiero, vi dormiremo l'eternità!» 277 A CERTI GIORNALISTI PUDICISSIMI Pornografia? Sta bene: ma siete voi sicuri che il fine ognun misuri dalle apparenze oscene? E appunto a voi conviene d'esser sprezzanti e duri quando lo sanno i muri che fondo vi mantiene? Tartufi rugiadosi, quanto prendete al mese per essere virtuosi? O di candor modello, chi vi rifà le spese del gioco e del bordello? RONZIO D'INSETTI I. Nell'arso mezzodì, nella feroce vampa del sol che brucia e par che getti fiamme sul mondo, parlano gl'insetti cautamente fra loro e sottovoce; e dicon: sia lodato il sol che cuoce dell'uom le membra, le campagne e i tetti, poi che viver ci fa senza sospetti del pericolo nostro e non ci nuoce. L'uomo riposa ed or non ci molesta con la falce ne' prati o nelle messi e il suo terribil piè non ci calpesta. Peccato il nascer piccoli e dimessi! Fossimo grandi, o sorte disonesta, noi non vivremmo timidi ed oppressi! 279 II. Ma un saggio scarabeo che discendeva dagli adorati scarabei d'Egitto e l'uomo e i fatti suoi ben conosceva, pallottole facendo a suo profitto, disse: o popol minuto, e che rileva il chiacchierar di torto e di diritto, quando, se alcuno a ragionar si leva, viene la forza che lo fa star zitto? Che importa all'uomo della nostra razza? Ei sortì da natura il cor brutale e la speranza di mutarlo è pazza. L'uomo non ha pietà dell'animale. Guardate come frusta e come ammazza fino il prossimo suo! Dico il maiale. RUTH Hic autem erat mos antiquitus in Israel. RUTH, IV, 7. Disse Noemi: «O nuora, » le mie parole ascolta. » Nella tua chioma folta » la giovinezza odora, » sul fior della tua bocca » la voluttà s'accende » e dalle colme bende » candido il sen trabocca. » Beato chi sul bianco » tuo viso avrà la faccia, » chi cingerà le braccia » al tuo superbo fianco! » No, puro fior di neve, » no, vivo fior di rosa, » la tua beltà, nascosa » così morir non deve! » Se Iddio non ci concesse » delle dovizie il dono, » vedi quei campi? Sono » pingui di bionda messe » e, se li vuoi, sagace » l'arte d'averli trova, » poichè beltà non giova » se nell'inopia giace». E Ruth mondò nel fonte le rigogliose forme, torse la treccia enorme come corona in fronte, al mobil fianco cinse larga la fascia bruna ed a cercar fortuna mossa da Dio s'accinse. Arse dai raggi estivi tacean le fronde stanche, dormìan le agnelle bianche al rezzo degli ulivi, ombre chiedeano ai muti boschi le cavrïole, 281 era al meriggio il sole e i campi eran mietuti, allor che Ruth discese giù dal pendìo deserto e sovra il piano aperto l'avido sguardo stese. Rattenne il passo, intenta a noverar le biche delle recise spiche, poi seguitò contenta. Ridea la giovinetta col labbro e le pupille, sonavano le armille sulla caviglia schietta, e le diè un balzo il core e le diè l'occhio un lampo quando scoprì nel campo la tenda del signore. Al piano addormentato cauto lo sguardo volse, il breve piè disciolse dal sandalo annodato, gittò la negra benda che la stringea sull'anca e seminuda e bianca entrò sotto la tenda. Oh, il bel meriggio! Ardeva il sol nel chiaro azzurro, nè un soffio, nè un susurro sull'arso pian fremeva e sulle stoppie gialle gli stanchi buoi posando sognavan, ruminando, il buio delle stalle. Oh, il bel meriggio! Ascoso, al cor giungeva un senso grave, solenne, immenso, di calma e di riposo. Immersa in un languore di voluttà infinita parea dormir la vita, ma non dormìa l'amore. Popol di Dio, riposa nel sonno tuo profondo; sul talamo fecondo ecco salì la sposa! Oh, il bel meriggio! Hai chiesto e Dio t'ha benedetto, poichè sul santo letto il Patrïarca è desto. Ma quando un roseo velo, come un vapor di gemme, sui colli di Betlemme mutò colore al cielo, Ruth, con le gote accese e il petto ansante ancora, verso la sua dimora lenta il cammin riprese e al tetto suo venuta, pensando al dì trascorso sentì come un rimorso della virtù perduta, e ricordò il marito a cui le braccia aperse quando se stessa offerse sul talamo fiorito. E Ruth disse a Noemi: «Ecco, io ti tenni fede. » Quei campi son mercede » ai favor miei supremi; » ma se le spighe d'oro » ti porto fra le braccia, » come alzerò la faccia » innanzi al Dio che adoro?» Disse Noemi:«Bada, » non fu il consiglio mio, » ma fu il voler di Dio » che ti segnò la strada. » L'ombra del sacro ulivo » coperse il fior di rosa » e nel tuo sen di sposa » il Re di Giuda è vivo!» 283 SOGNI I. Gocciava dai rami bagnati la nebbia salita dal piano e l'umida stesa dei prati non era che un largo pantano. Il vento ne' lunghi ululati avea qualche cosa d'umano; gracchiavano i corvi affamati lontano, lontano, lontano. Ma pur se, cedendo al destino, morivan le tarde vïole anch'esse nel nostro giardino; in faccia alle squallide aiuole, nel buio del nembo vicino, sognavo la gloria del sole. II. Sognavo che il sol trionfante salìa nell'azzurro profondo. La terra schiudeva all'amante le valve del grembo fecondo; ne' boschi olezzavan le piante fiorite all'aprile giocondo; un fiotto d'amor spumeggiante bollìa nell'arterie del mondo. In cielo cantavan gli uccelli, un'aura di nozze saliva aulente dai bocci novelli e in faccia alla festa giuliva de' sogni più cari e più belli, la speme nel cor mi moriva. 285 TRISTIA La tristezza il vol spalanca sulle squallide contrade. Tace il vento, il giorno manca, ogni cosa il tedio invade. Oh, la neve bianca bianca, lenta lenta, come cade adagiando l'ala stanca sovra i tetti e per le strade! Non è un'ora e già ravvolta nel suo funebre mantello la città dorme sepolta. Ma quant'è che, fredda e greve come il marmo d'un avello, sul mio cor pesa la neve? ATTESA Son tre giorni che vivo in sulle spine, son tre notti che veglio, aspetto e spero. Sento che sovra me passa un mistero carico di tempeste e di rovine. Dove siete oramai lunghe mattine in pace date all'operar severo, giorni sereni senz'alcun pensiero, notti liete di voi, Muse divine? Ora livido è il cielo e tace il vento ed in silenzio la natura aspetta che il primo lampo accenda il firmamento. A me d'intorno la famiglia stretta, palpitando d'angoscia e di spavento, attende lo scrosciar della saetta. 287 NOVEMBRE Nei dì grigi e dolenti in cui piange ogni cosa, torna la dolorosa folla degli studenti che van, sforzati e lenti nell'alba freddolosa, ad inghiottir la prosa dei testi e dei commenti e, chiusi nell'oscura scuola che al sonno invita, subiscon la tortura.... Così, dalla fiorita età, comincia e dura la lotta per la vita! LETTURA SERALE Gela di fuori. Lenti, curvi, di mal umore, entrano gli studenti nel tepido chiarore de l'aule graveolenti, tratti a sciuparvi l'ore più da la cruda brina che dal puro desio de la dottrina; e il capo rassegnato abbassan sul volume che l'uso ha verniciato di secolare untume, ma il gergo avviluppato del giuridico acume affatica ben presto l'ingegno ancor giovenilmente onesto. Quindi sul libro chiuso il gomito si posa con un senso confuso di tristezza penosa e il tanfo di rinchiuso in quest'aria vischiosa scende nei petti e pesa come la coltre sovra i morti stesa; ma i migliori, a gli sciocchi lasciando il ghigno insano, inerte sui ginocchi lascian cader la mano, mentre levando gli occhi guardan lontan lontano, e, immemori del mondo, sognano desti un avvenir giocondo; se pur ne l'alta calma de l'atmosfera immota chinata su la palma la giovinetta gota, coi fissi occhi de l'alma non veggon la remota, la memore casetta, dove la madre pia prega ed aspetta, od il veron coperto 289 dai fior di primavera, da cui, nel raggio incerto de la morente sera, rise ne l'aere aperto la bocca lusinghiera che all'inesperto core prima insegnò che cosa fosse amore. Ahimè, che il sogno lieve come un soffio è passato e ognun riprende in breve il libro abbandonato! Vincendo il tedio greve del lavoro forzato, la lotta per la vita a sè le menti giovanili invita. O vita mal concessa, che dura legge è questa se su la soglia istessa bieco il dolor ci arresta, se, già dai fati oppressa, l'anima che si desta mentre dispiega il volo, sente l'ala spennarsi e cade al suolo? Ecco. Non han vent'anni e covan l'odio in seno. D'ansie, d'error, d'affanni il core han già ripieno. Di meditati inganni distillano il veleno e del torvo interesse han già le rughe su la fronte impresse! E pur così li vuole l'età bassa ed indegna che da le fredde scuole la cupidigia insegna, che nega un posto al sole a chi servirla sdegna ed i giovani avvezza a gittar la virtù per la ricchezza! Ah no, giovani, uscite! L'aria di fuori è sana. Qui stagna la mefite de la tristizia umana, qui le carte erudite puton di cortigiana ed il cavillo appesta con l'ulcera venal l'anima onesta! Uscite! Io vecchio e stanco qui veglierò soletto, chinando il capo bianco sul libro prediletto. Ecco: su questo banco, rimango solo e aspetto da la benigna sorte il riposo e... chi sa? forse la morte. 291 AL VEGLIONE Non sentite in mezzo al canto come l'eco d'un lamento come un grido di spavento entro cui singhiozza il pianto? Non sentite? È lunga tanto una notte di tormento senza pane, a foco spento, quando il cor sanguina infranto, quando un lungo struggimento fa pensare al camposanto come termine allo stento!... Ah, pietosi! in questo incanto non scordatevi un momento che la fame urla qui accanto! NEVE Nelle soffitte squallide fra i cenci desolati, morde la fame i visceri dei bimbi assiderati, ma le innocenti lacrime fredda la terra beve... quante miserie piangono sotto la bianca neve! Traggon l'oscene maschere i passi titubanti all'osterie che ruttano urli, bestemmie e canti; brucia l'ebbrezza ignobile come una fiamma breve... quanti coltelli uccidono sotto la bianca neve! Scalzo nel fango, un lacero stuolo di forme umane chiede il diritto a vivere, vuole lavoro e pane; ma l'onta ed il rimprovero e non il pan riceve... quante vendette covano sotto la bianca neve! Guata su l'acque livide il vecchio pensieroso e l'acque gli promettono la gioia del riposo. Ai vinti, ai mesti, ai deboli, gittar la vita è lieve... quanti sepolcri s'aprono sotto la bianca neve! 293 TRITTICO I. AMATA Mentre di fuori tremando le fronde gemono al vento autunnal che le miete, pupille larghe, pupille profonde, che lieto maggio sognando vedete? Mentre il silenzio de' vespri diffonde il suo languor nelle stanze segrete, labbra di rosa per chi sorridete, ghiotte di baci e d'amor sitibonde? Pupille nere che dolci splendete, labbra di rosa fiorenti e gioconde, felici voi che l'amor conoscete, l'amor che il pianto del vero v'asconde con un tumulto d'imagini liete, con un delirio d'ebbrezze feconde! II. SPOSATA Poi che la bianca ghirlanda riposa sul casto velo lasciato piangendo e delle nozze al mistero tremendo t'affacci bella, innocente, amorosa, sei vinta e già colla bocca di rosa tutta te stessa concedi ridendo, mentre lo sposo t'avvinghia cogliendo l'intatto fior de la forma vezzosa. Sei vinta! È lui che tentavi fuggendo, lui che con l'occhio cercavi pensosa, lui che la notte sognavi dormendo; ed or che il labbro sul labbro ti posa, suggi il suo bacio ed impara arrossendo le voluttà benedette di sposa. 295 III. LASCIATA Suonan tra i rami del bosco spogliato canzoni e risa che passano a volo; va su le nevi d'amanti uno stuolo e amor trionfa del verno gelato. E tu che avevi creduto ed amato, povero core che sanguini solo, povero uccello pigliato al lacciolo, non sarai dunque mai più consolato? Dormono i fior sotto il bianco lenzuolo, ma nel tripudio del maggio aspettato uscir dovranno più belli dal suolo. Ma le dolcezze del tempo passato, ma le speranze recise dal duolo, chi più le rende ad un cor disperato? NON DOMANDATE MAI... Non domandate mai perchè le stelle ritornano a vegliar ne 'l ciel sereno, non domandate mai perchè son belle nè perchè così lieto è il lor baleno. Sotto quegli occhi de la notte, a quelle veglianti faci, l'uno a l'altro in seno cadon gli amanti e l'anime sorelle mesconsi a 'l lume lor soave e pieno. Fino a l'alba così, fino a domani più gioconde le stelle e scintillanti sorrideranno in ciel. Lungi, o profani! Non vi diranno mai le stelle erranti queste dolcezze di fecondi arcani noti a loro soltanto ed agli amanti. 297 SERENATA Se il canto e le parole salgono fino a te sorriderai per me, raggio di sole! Se nel tuo bianco petto trova l'amor mercè, olezzerai per me, fior di mughetto! e se al fedel cantore sordo il tuo cor non è, risplenderai per me, stella d'amore! DESTINO O felici del mondo, a cui la sorte porse la chioma fortunata in mano, a cui natura diè l'anima forte, il gaudio della vita, il sangue sano, improvvisa dal ciel piomba la morte sulla miseria dell'orgoglio umano: col dito traditor segna le porte e chi spera fuggir, lo spera invano; e là dove il piacer prodiga e spande le voluttà più caramente liete, di quel segno l'orror sembra più grande. Come un gocciar di lagrime segrete ivi cadono i fior dalle ghirlande, ivi cessa la danza ed entra il prete. 299 NORD Poichè, Anfitrite, di lasciar ti piacque il tepor delle miti aure tirrene e l'incanto dell'acque che sanno la canzon delle Sirene, visita dunque l'iperboreo gelo dove il pallido sol male tramonta e sotto al plumbeo cielo le nevi eterne senza umana impronta. Di novelle Nereidi e di Tritoni non conosciuti ancor vedrai le schiere, i candidi alcïoni, i trichechi giganti e l'orche nere. Ivi nel balenar di strane aurore coronata sarai del mar regina e nel rosso bagliore biancheggerà la forma tua divina. Va, poichè la canzon delle Sirene più sul tuo mar natio non alza il volo, poichè Roma ed Atene sognan le freddolose arti del polo; e non tornar mai più. Su questi liti inaridì spregiato il fior dei canti, gli Dei sono fuggiti, veleggiano il tuo mar solo i mercanti. NOTTE Lento lento sul canale il crepuscolo discende, non un remo l'acqua fende, non un canto, un grido sale. Sotto il raggio d'un fanale l'acqua immobile risplende; ampio intorno si distende il silenzio sepolcrale. Ma sul piano sonnolento, ad un tratto, un'amorosa melodia fremer io sento, e sull'acqua che riposa passa il brivido del vento come il bacio d'una sposa. 301 AVVENTURA S'erano amati troppo e poi divisi, lei per dispetto e lui per gelosia e quando ella partì, tra due sorrisi disse – «Tu mi farai l'anatomia». Ei ritornò ai maestri, ai lieti visi de' compagni, allo studio, all'allegria, ma i rimorsi profondi ed improvvisi lo tormentavan come una malia. Un dì, sul marmo a cui miseria guida l'umana carne non ancor sepolta perchè il coltello indagator l'incida, la trovò morta, in un sudario avvolta, e il viso bianco della suicida sorrideva per lui come una volta! Stabant autem iuxta crucem. JOH. XIX, 25. Al cospetto delle genti l'Aspettato alzò la voce: «Pace ai buoni, ai sofferenti » che confessano la croce » da cui sparsi moribondo » l'innocente sangue mio » e pagai dinanzi a Dio » tutto il debito del mondo! » Sono il verbo del Signore, » son la vita e son la luce » che feconda il campo in fiore, » che riscalda e che produce. » Sovra il culmine dei monti » cresco l'ilice superba, » movo il sommolo dell'erba » lungo il margine dei fonti. » Pace agli umili aspettanti » il giudizio che promisi; » pace all'anime penanti » degli oppressi e dei derisi. » Per l'abbietto è la mia gloria, » pel caduto il mio perdono. » Tutti a me venite! Io sono » la giustizia e la vittoria!» Così disse. Affettuosa discendea sui cor la voce, quando un'ombra mostruosa si levò dietro la croce e in quell'ombra un ceffo immondo con la bocca spalancata fuoco e tabe attossicata vomitò sul triste mondo. Indi l'acqua inverminita brulicò di biscie attorte; sulla terra inaridita stette l'ombra della morte; arse il ciel di vampe immense e levossi un ululato furibondo, disperato, che in un rantolo si spense, ed il mostro audacemente 303 affermò: «Sono il Nemico! » Io soltanto, umana gente, » ti governo e t'affatico. » Son la peste, son la guerra, » sono il fulmine improvviso... » Regna Iddio nel paradiso » ed io regno in questa terra!» PER SEMPRE Il mostro s'allungava come un serpe schifoso, e viscido di bava, gonfio, gelatinoso, aprìa larghi ed attenti gli occhi fosforescenti, trascinandosi lento sulla ventraia oscena col pigro movimento ed il senso di pena del rospo impegolato nel motriglio gelato. Poi con la cauta insidia del polipo che caccia, simulando l'accidia cerchiava con le braccia cupidamente aperte l'umana preda inerte, la preda rassegnata che di levar non osa la mano incatenata, la vittima crucciosa che il suo destino accetta ed il martirio aspetta. Ah, guai per chi seguendo l'error del vizio abbietto, vedrà del mostro orrendo lo scellerato aspetto! Guai! Nelle sue ritorte starà fino alla morte. Oblio, riposo e pace invocherà, ma invano: la stretta è più tenace d'ogni contrasto umano ed aspettar soccorso non val contro il Rimorso! 305 MAMMONA Imagine deforme nel fosco ciel che tuona l'assirio Iddio Mammona erge in un nimbo enorme il capo di sparviero sordidamente nero. Scuote il flagello d'oro, forza, strumento e segno del suo ribaldo regno ed il flagel sonoro nella implacabil mano gronda di sangue umano. Dal pugno che la serra una catena pende che si disnoda e scende come una serpe a terra, quasi nasconder tenti i biechi avvolgimenti. E tu, secol civile, che l'onta tua non vedi, tu ti trascini ai piedi di questa imagin vile e strisci e baci e preghi e la pietà rinneghi! Or va! Poi che tu mostri del cor la lue profonda, va! Nella polve immonda bene al tuo Dio ti prostri. È il Dio dell'oro e ormai più degno Iddio non hai. Ma bada! Una saetta squarcia la densa notte. Mandan le nubi rotte un urlo di vendetta... Bada! Vedrai tra poco piovere sangue e foco e l'hai voluto! Ultrice l'ora t'incalza e stringe, la terra ti respinge, il ciel ti maledice e al colpo che t'uccide il tuo Mammona ride! 307 POST PRANDIUM Le laudi del convito canta l'adulatore ed urla il parassito gli evviva al suo signore. Le donne han lo scaltrito sguardo che finge amore e sovra il sen fiorito il vezzo tentatore. Ma intanto la cervice piega il signor trafitto nell'anima infelice e l'occhio torvo e fitto sovra la mensa, dice che il cor cela un delitto. PERCHÈ? Che dolci parole diceva! Che strette di mano mi dava! Ma quando la bocca parlava il core, il suo core taceva! Dormendo apparir la vedeva e un gaudio di baci sognava, ma quando l'aurora spuntava, il sogno, il mio sogno cadeva! Un ultimo fiore io nudriva di speme... ma venne la piova e il fiore, il bel fior mi moriva! O mar della vita, che giova varcarti, se giunti alla riva l'Amore, l'Amor non si trova? 309 IN MEMORIA DI CESARE DALLA NOCE Povero fascio d'ossa tribolate che recammo ier notte alla Certosa, per le vie desolate, sotto la pioggia fitta e freddolosa, povero fascio d'ossa ove la mente soffrì dell'infelice ora sepolto, riposi finalmente entro al sudario in cui t'abbiam raccolto? Ahimè che triste notte! Il freddo vento l'eco parea recar d'urli lontani, lungo come un lamento s'udìa pei campi l'uggiolar dei cani e seguivam per fracidi sentieri del carro funeral la pigra rota dietro al chiaror de' ceri che tremava sull'erba e sulla mota. La bara, come in lagrime, gocciava della gelida piova alla percossa e così se ne andava la giovinezza tua verso la fossa! Felice in questo almen che più non senti l'antico del dolor morso tenace! Noi restiamo ai tormenti, tu dormi il sonno dell'eterna pace. E pure... invan la verità ci mostra la fossa in cui per sempre avrai dimora, chè nell'anima nostra, nel memore pensier rivivi ancora e parliamo di te come aspettato negl'intimi colloqui a cui venivi... Perchè non hai bussato oggi a quest'uscio che una volta aprivi e con la faccia tua buona e sincera al fido crocchio tra le ciarle usate non vieni questa sera a dirci – Amici miei, mi ricordate? – Perchè coi motti dell'ingegno arguto non torni a rider più meco in disparte? Perchè non sei venuto almeno a dirmi addio, come chi parte? Ahi, quell'addio che dar tu mi dovevi io lo dissi alla tua memoria cara, ma tu non l'intendevi, povero fascio d'ossa entro la bara, povero fascio d'ossa tribolate che recammo ier notte alla Certosa, per le vie desolate, sotto la pioggia fitta e freddolosa! 311 DISSE... Cadde squarciato il velo dagli occhi del Veggente! Il fantasma giungea col capo al cielo, guizzava come un serpe il crine ardente, aprìa le fredde mani, stringea gli aguzzi artigli sovra i più sacri degli affetti umani, sulla vita dei padri e il cor dei figli. «A lagrime di sangue » piangete, o figli d'Eva! » Io son la forza che giammai non langue; » nulla placar mi può!» – Così diceva – «E per voler divino, » finchè sarete al mondo, » vi muterò in veleno il pane e il vino, » vi strazierò con l'ugna il cor profondo. » Non c'è tra voi chi possa » vincer la forza mia. » Io vi stritolerò le carni e l'ossa » dall'utero materno all'agonia. » No. Per staccar la fiera » ugna dal vostro core » non giovan le bestemmie o la preghiera, » ma bisogna morir. Sono il Dolore!» MORBVS Chi, quando il giorno muore, ode, seguendo il Gange, la tortora che piange sotto i roseti in fiore e, lungo l'acque stanche specchio alle palme nere, vede passar le schiere delle pagode bianche, lento discerne ancora fumar dal tardo fiume il denso putridume che in faccia al sol vapora, e galleggiar sull'onde carogne omai disfatte che l'acqua gialla sbatte sulle fangose sponde. Lungo i giuncheti pigri, nidi di serpi immani, piangono i caimani e ruggono le tigri, mentre nell'aria bassa del crepuscolo torvo gracchia sinistro il corvo sazio di carne grassa. Allor nel plumbeo cielo s'erge dall'acqua oscura d'un angiol la figura chiusa da un fosco velo, e sale a poco a poco sul livido orizzonte, gocciando dalla fronte sangue, veleno e fuoco. Sale gigante e solo dell'universo in faccia, tende le negre braccia, apre l'immenso volo... Ah, invan chiudi le porte, trista progenie d'Eva; ecco, su te si leva l'angelo della morte! E passa infaticato 313 sulle città fastose, sovra le ville ascose, sovra il castel merlato, sul casolar che ride di sue virtù contento... Passa solenne e lento e dove passa, uccide. Sul suo cammin, segnato dai morti e dai morenti, alto le umane genti mandano un ululato. L'orror dell'ecatombe fin la speranza scaccia e mancano le braccia per iscavar le tombe... Del cor premendo i moti, sbarrando gli occhi tardi inchiodano i vegliardi le bare dei nipoti; col pianto sulle gote le madri moribonde piegan le teste bionde sopra le culle vote. Dubita l'uom che venga il mondo all'ore estreme e guata in alto e teme che il sole in ciel si spenga, mentre gli grida il prete: «Guai nel gran giorno all'empio! » Portate l'oro al tempio, » poichè doman morrete!» Sul sacro limitare cadono allor gli oranti; lordan gli agonizzanti le pietre dell'altare e pur la turba stolta che ciecamente adora, inginocchiata implora Iddio, che non l'ascolta. Turba, che il vacuo gelo della tua fede or tocchi, muori, volgendo gli occhi inutilmente al cielo. Alle pupille offese il vero or si disserra: non ti mentì la terra quando per lei ti chiese. Non ti giurò promesse d'un avvenir mal certo, ma dal suo fianco aperto ti germogliò la messe. Giovin, dell'odio invece, l'amor ti accese in seno, e per un giorno almeno miglior di Dio ti fece. 315 VISIONE Et vidi Angelum fortem predicantern voce magna. APOC., V, 2. Passò rapidamente nel silenzio solenne un batter d'ala, un fremito di penne sul capo del Veggente. Sovra la terra stava freddo di nebbia un velo e nella grigia immensità del cielo l'Angiol di Dio parlava. «Sorgi, o Veggente – disse – » e annuncia i dì novelli: » ecco il Verbo spezzò sette suggelli » e aprì l'Apocalisse. » Vedi? A Colui che vuole » l'abisso apre le porte » e nel freddo, nel vuoto e nella morte » spento s'affonda il sole, » indi, senza governo, » la terra insterilita » senza fior, senza luce e senza vita, » cade nel buio eterno. » Non più campagne arate, » non più selve sui monti, » non più riso d'aurore e di tramonti, » non più bocche baciate! » Umanità superba, » che le saette hai dome, » domani morirai, strappata come » una festuca d'erba » e sul detrito e sulla » maestà dell'oblio, » solo idea non bugiarda e solo Iddio » starà per sempre il Nulla». Sovra la terra e l'acque passò ruggendo il vento, s'alzò un urlo d'angoscia e di spavento e l'Angelo si tacque. 317 L'IDILLIO DI ORLANDO Che non può far d'un cor ch'abbia soggetto Questo crudele e traditore amore, Perchè ad Orlando può levar dal petto La tanta fè che debbe al suo Signore! ARIOSTO, Orl. Fur., c. IX, I. Apparia tremolando all'orizzonte la tenue luce della nuova aurora e la vaghezza delle rosee impronte crescea più viva coll'andar dell'ora, quando, sul fido Brigliadoro il Conte uscì pensoso di Baldacco fuora e d'ignoti sentier sull'erba molle lentamente discese il verde colle. Come giovine sposa, allor che il sole fra le cortine del balcon s'affaccia, lascia lenta le coltri e volger suole al conscio letto con desìo la faccia, ma, rivestita poi, non più si duole rimemorando i baci e il sonno scaccia, indi lieta intrecciando il crin disciolto canta allo specchio e amor le ride in volto, la natura così malvolentieri dai notturni riposi uscir parea semivelata dai vapor leggeri che lenta l'aura del mattin movea, ma poi ridesta e de' color primieri rifiorendo col dì, tutta fremea in un gaudio fecondo, in una ebbrezza di gioventù, d'amore e di bellezza. Non sgomentati del cavallo ai passi l'inno di gioia ripetean gli augelli. Pareano susurrar tra l'erbe e i sassi giocondi epitalami anche i ruscelli e i caprifogli penduli dai massi, scotendo i rami a guisa di capelli, gocciavan perle di sottil rugiada sulle nozze de' fior lungo la strada. Nel tripudio d'amor ringiovanita la natura parea tutto un giardino che vaporasse tepida e squisita la fragranza de' fiori al ciel turchino, sì che pien di desìo, gonfio di vita, s'apriva il chiuso cor del Paladino e conquisa cedea l'anima fiera alle lusinghe della primavera. Dimenticò Re Carlo e i suoi baroni e il santo gonfalon del fiordaliso, i giganti, le fate e gli stregoni, Gano schernito ed Agramante ucciso. Dimenticò gli assalti e le tenzoni tra lo stuol battezzato e il circonciso e vide col pensier mille rosate imagini di donne innamorate. Rivide Olimpia, offerta all'esecrando mostro, chieder mercè nuda e tremante e passar sorridendo e sospirando Fiordispina, Isabella e Bradamante. Vide Marfisa non curar pugnando le salde nudità del petto ansante e d'Angelica sua gli occhi procaci languir di gaudio di Medoro ai baci. Allor si sentì solo e in cor gli scese gelida un'onda di malinconia, tal che a se stesso dubitando chiese se la gloria non fosse una pazzia; ed una voce in fondo al core intese dirgli: «che val la tua cavalleria, » che valgon le tue gesta e il tuo valore » senza un bacio di donna e senza amore?» Discendeva così fantasticando intorno a questa sua doglia novella e sospirava fieramente, quando vide dal bosco uscire una donzella che raccogliendo fior venìa cantando soavemente, e la persona bella di tal vivo desìo lo prese e punse che spronò Brigliadoro e la raggiunse. Si trasse l'elmo, dall'arcion si sporse e con voce tremante amor le chiese. Lentamente a mirarlo il viso torse la giovinetta ed a sorrider prese. L'occhio le scintillò, ma quando scorse la croce sull'usbergo e sul palvese, la scintilla si spense ed il sorriso subitamente le sparì dal viso. 319 E disse: «Cavalier, tu porti in petto » del Dio che adori il segno e la dottrina. » Tu segui Gesù Cristo, io Maometto; » tu sei di stirpe franca, io Saracina; » io cingo fiori al capo e tu l'elmetto, » tu sei nato possente ed io tapina; » vanne e ti basti sol ch'io ti confessi » che t'amerei se tu a Macon credessi». Deh, come lieti tra le verdi fronde cantavano gli augelli i novi amori, come all'aura d'april le rubiconde corolle aprivan tripudiando i fiori, come splendeano al sol le chiome bionde, come ridevan gli occhi incantatori, allor che il Paladin vinto si diede e per un bacio rinnegò la fede! PRESSO TIVOLI A voi, fecondi clivi sabini, a voi vestiti di frondeggianti viti e di feraci ulivi tra cui muggendo viene il turbolento Aniene, a voi, nel roseo incanto del moribondo sole, sante d'amor parole disse d'Orazio il canto, ma del tripudio il giorno passò senza ritorno. Oggi, ai pendii fiorenti dove ridean le vigne, germoglian le gramigne agli sparuti armenti e Roma guarda e ride perchè il suo fiato uccide! 321 DIES Il sole brucia implacabile, uguale, le stoppie gialle del pian vaporoso, l'azzurra volta del ciel luminoso riflette in terra la fiamma estivale. Non move foglia. La vita animale langue in un grave sopor neghittoso: turba la pace al meriggio affannoso solo un molesto frinir di cicale. Sull'erba verde, nel bosco frondoso, fresco t'ho fatto di fiori un guanciale e tu vi adagi le membra al riposo. Dormi discinta nell'ombra ospitale ed io contemplo con l'occhio bramoso l'onda del petto che scende e che sale. NOX Dell'alta notte la negra magia m'empie il cervello, mi filtra nel core; un soffio passa sull'anima mia, un freddo soffio che m'empie d'orrore. Sente di fuori, l'orecchio che spia, strani bisbigli che metton terrore, ma nelle case la vita s'oblia come annegata in un denso stupore. Solo nel buio, laggiù, della via, dietro una tenda, l'immobil candore un lume fioco da lungi m'invia. Rischiara forse quel tardo bagliore lo spasimar d'un'atroce agonia od il gioir d'una notte d'amore? 323 NEL MILLE Al suo balcone s'affaccia beata la dama, tratta dal maggio fiorente. Il sol carezza la treccia dorata, la rosea gota ed il labbro ridente. Il giovin paggio da lunge la guata e tutto caldo d'amore si sente, nè gli par cosa terrena e creata, ma ben di cielo angioletta vivente. Correr vorrebbe a battaglie cruente, soffrir pugnando una morte spietata sol per averne uno sguardo clemente; e pur la dama dagli occhi di fata, e pur la bianca angioletta piacente dal dì che nacque non s'è più lavata! NEL SETTECENTO Mormora l'arpa toccata in sordina lento un motivo che par minuetto. Lenta la dama danzante s'inchina, tutta eleganza, sussiego e belletto. Di nei segnata, la pelle argentina manda un profumo sottil di zibetto: sotto una nebbia di candida trina ansano i bianchi segreti del petto. Danza e sul molle tappeto trascina la ricca veste ed il piè piccioletto col portamento d'altera regina. Tutti scoraggia col rigido aspetto, con l'occhio pieno di calma divina, e lo staffiere l'attende nel letto. 325 APENNINO O monti, albergo di pace infinita, ancor nel vivo ricordo rimane il susurrar delle chiare fontane tra la fragranza dell'erba fiorita e il tremolar della luce salita coll'alba fresca alle cime lontane nel rado vel delle nebbie montane sui boschi pieni di canti e di vita e nel tepor della rorida mane fioco il belar dell'agnella smarrita od il rintocco di meste campane.... Oh, nel mister della selva romita fuggir con lei dalle cure mondane e tra i capelli sentir le sue dita! ADRIATICO Il mar lambendo instancabile, lento, la sabbia fina dell'umida sponda, con ritmo uguale mandava un lamento, quasi un singhiozzo, alla notte profonda. Occhi benigni, le stelle d'argento guardavan fisse la terra feconda. Amor vagava nel ciel sonnolento ed io sperai la fortuna seconda. Il cor t'apersi con timido accento, sfiorai col labbro la chioma tua bionda ed al trionfo credetti un momento.... Addio, fantasmi d'un'ora gioconda, sogni d'amore dispersi dal vento, care speranze cadute nell'onda! 327 PAROLE Dolci parole d'amor, susurrate presso i cespugli fioriti di rose, parole dolci, parole gioiose, appena dette che mai diventate? Salite al cielo col vento e volate degli angioletti alle labbra amorose, o, come accade dell'ottime cose, parole dolci, nel nulla tornate? Ahi, che piuttosto all'inferno dannate sì come streghe mendaci e schifose, forma e veleno di biscie pigliate e, tra i cespugli nativi nascose, mordete al core gli amanti e li fate vittime e strazio di cure gelose! MUSICA L'ultime note languenti, velate, muoiono come sospiri sonori in un tripudio di mazzi di fiori in un profumo di donne scollate, e il sangue tende le arterie gonfiate, passan su gli occhi fugaci bagliori; tutta la vita prorompe di fuori sotto l'impulso di forze ignorate. Allor le forme ci sembran mutate e ridipinte di strani colori, quasi fantasmi di cose sognate. Poi tutto passa; ma resta nei cuori come un rimpianto di gioie passate, come un presagio di nuovi dolori. 329 SAFFO A VENERE GENITRICE In lectulo meo per noctes quaesivi quem diligit anima mea: quaesivi illum et non inveni. CANT. CANTICOR. III, I. – «Guarda, mortal, le fiamme de' larghi occhi lucenti e le chiome fluenti sulle superbe mamme. Guarda! L'estremo lembo gittai che ti copriva la pubertà giuliva che mi fiorisce in grembo. Vieni e sui fior ti giaci e me sui fior ricevi; tra le mie labbra bevi il dolce miel de' baci, i lombi miei circonda con le possenti braccia, stringimi al sen la faccia e l'amor mio feconda» – Così parlò e sorrise la Dea, porgendo il fianco soavemente bianco al giovinetto Anchise, poi volse le parole in gemiti sommessi e dei divini amplessi fu testimonio il sole. Vittima anch'io d'Amore omai dispero aita poi che la sua ferita mi sanguina nel core, nè lacrimar mi vale nè maledir, costretta a spasimar soletta sul vergine guanciale. Che se fugaci istanti di pace al sonno chiedo, mille fantasmi vedo pel rosso ciel vaganti. Passa sul campo arato caldo di nozze il vento e in sè recar lo sento la febbre del peccato. Desta così all'ebbrezza del germinar, la terra le viscere disserra del sole alla carezza e con le carni e il core arsi da fiamme arcane, urlan le genti umane «Amore, amore, amore!» Tra l'ombre e gli spaventi delle materne selve si stringono le belve in ciechi accoppiamenti e dalle fulve arene che il mar commosso esclude perfidamente ignude mi chiaman le Sirene, mentre di Bromio stanche, roche per gli ebbri canti, le lubriche Baccanti gittan le vesti bianche e sui compressi fiori curvan le rosee forme sotto l'impulso enorme dei Fauni assalitori. E allor mi desto sola sul letto immacolato coll'urlo disperato del mio martirio in gola... Deh, morrei pur gioiosa se fossi in quel momento segnata dal cruento stigma di nuova sposa, se nella gonfia mole dell'utero fecondo balzar sentissi il pondo della concetta prole, se, al fin delle mie pene, lieta chiudessi il ciglio addormentando un figlio 331 tra le mammelle piene! O Dea, Madre, Signora dei vivi e della vita, dal mar di Cipro uscita al bacio dell'aurora, che il premio a noi concedi nella tenzon gentile ed al vigor maschile il fior del sangue chiedi. se di perenni rose t'ornino ancor l'altare le verginelle ignare e le coscienti spose, se l'atra onda Letea il biondo Adon ti renda, pietà di me ti prenda, Madre, Signora, Dea! SCRIVE DONNA ELVIRA Zerlina mia, la neve turbina in alto e cade zitta, noiosa, greve, sui tetti e sulle strade. Invan la notte pesa sulla città che tace; la coltre bianca è stesa, ma nulla dorme in pace. Rugge di fuori il vento e l'urlo furibondo si spegne in un lamento di bimbo moribondo e uscir dall'ombre senti, dall'ombre paurose, il pianto dei viventi e il pianto delle cose. Ma dall'orror, dai lutti, dolce un pensier m'invola e tra il dolor di tutti sono felice io sola! Ah, degli umani affanni, Zerlina, a me che importa? Io sento Don Giovanni che batte alla mia porta! 333 FANTASIA EGIZIANA Al Nilo, al Nilo! Nasconderemo laggiù, mia bella, l'amor deriso, là sconosciuti noi ci faremo non una casa ma un paradiso, sul chiaro margine dell'acque calme dove si specchiano verdi le palme. Il chiosco vedi ch'io t'ho fiorito di cento rose come un giardino! Dentro ai bracieri d'oro brunito fuman le lagrime del benzoino e dal marmoreo balcone aperto vampe d'amore manda il deserto. Nera nel cielo color di rosa che nel tramonto caldo risplende, come una lupa libidinosa accoccolata la sfinge attende, e grave un alito di strani amori l'acre vivifica nozze dei fiori. Alle carezze molli del vento data la lunga cesarie d'oro, nell'onda tenue del vel d'argento nudo del bianco seno il tesoro, sarai mia sempre, mia tutt'intera, se non ci viene prima il colera. IRIS FLORENTINA LINN Fior dell'incanto, fior di giaggiolo azzurro e santo del ciel figliuolo, che come un manto ricopri il suolo al primo canto dell'usignolo, per me soltanto parli di duolo fior dell'incanto e muori solo sul cor che ha pianto, fior di giaggiolo! 335 LAVDA NOUISSIMA DE LA STELLA CHOMETA A l'ultima uentura parati esser conuene, perchè la stella uene per lo creato et per la creatura! Ohimei, chome faremo, donne piagenti et belle, quando chader uedremo la luna, el sol, le stelle et l'altre baghatelle che uan pel cielo a uolo? Deh, che a pensarlo solo, sento el core tremar da la paura! Ohimei, tapine donne, che balli danzarete quando sotto le ghonne arder ue sentirete et gli huomini uedrete per la terra et pe 'l mare, sanza le brache andare chome li fabricò madre natura? Chome fa la candela che abruscia sino al fondo, la chometa di Biela chosì strugerà el mondo et uedremo el profondo mare cum l'onde incese, quasi un punch inghilese facto col rhum et l'acquauite pura. Gratia, bellezza, moda, amor, letitia, tucto, da la tremenda choda arso sarà et destructo: piouerà dapertucto solpho bogliente et foco; haurassi in ogne loco puzo di mocholaia et di frictura. Sciolto dal caldo enorme et reducto in uapori, questo libro deforme non haurà più lectori e tucti gli scrittori, non escluso el presente, potranno finalmente hauer dirieto la litteratura et lieti del riposo andranno da qui uia et soura el prato herboso, ouero a l'hosteria, beueran tuctauia, espectando sereni lo apparir de i baleni et el prencipio de la schotatura. Ohimei, donne tapine, se uera è la nouella che siamo gionti al fine per chason de la stella, se pronta è la padella, che ue state tremando intorno a voi guatando se l'aria se fa chiara o se fa schura? Ahi no, donne piagenti, se 'l cielo è anchor sereno, quest'ultimi momenti godeteueli almeno et stringeteui al seno gli amanti che bramate. Amate, amate, amate et fate presto perchè c'è premura! A l'ultima uentura parati esser conuene, perchè la stella uene per lo creato et per la creatura! 337 ALTRA SERENATA Come col capo sotto l'ala bianca dormon le palombelle innamorate, così tu adagi la persona stanca sotto le coltri molli e ricamate. La testa bionda sul guancial riposa lieta pe' sogni suoi color di rosa e tra le larve care al tuo sorriso una ne passa che ti sfiora il viso. Passa e ti dice che bruciar le vene, che sanguinare il cor per te mi sento. Passa e ti dice che ti voglio bene, che sei la mia dolcezza e il mio tormento. Bianca tra un nimbo di capelli biondi dormi e sorridi ai sogni tuoi giocondi... Ah, non destarti, o fior del Paradiso, ch'io vengo in sogno per baciarti il viso. VIA ÆMILIA (IN BICICLETTA) Volavano le rote incontro al vento senza lasciar la traccia in sul terreno e dal pian taciturno e sonnolento tepido a me salìa l'odor del fieno. Nella profondità del firmamento cominciavan le stelle a venir meno; tremava una sottil riga d'argento su l'orizzonte limpido e sereno, quando, su da le case ormai destate, per le finestre aperte, al ciel saliva il canto delle donne innamorate e ne l'alba del dì, nella giuliva serenità de la feconda estate, bianca davanti a me la via fuggiva. 339 LE BALLATE DELL'AUTUNNO I. Giovani amanti e donne innamorate, se mi volete bene, vi sovvenga di me quando pregate. Quell'albero che resse alla bufera nella stagion nevosa e nell'asciutta, l'albero che fiorì di primavera e che d'agosto maturò le frutta, or che l'inverno viene sente cader le foglie assiderate. Non più nidi sui rami e tra le fronde, non più trilli d'amor nell'ombra densa. Or l'avvolge la nebbia e lo nasconde sotto un sudario di mestizia immensa e morir gli conviene senza speranza di veder l'estate! II. Oh come tristi son queste giornate e queste notti piene di cose morte e non dimenticate! Quell'albero son io che sotto il raggio mattutino del sol rinverdì tutto, che di rime fiorì nel dolce maggio, che maturò nel caldo agosto il frutto e nell'ore serene la speranza ospitò delle nidiate; ed or che il triste verno s'avvicina, perdo le foglie della poesia, sento venir la nebbia e la pruina ed il freddo agghiacciar l'anima mia... Oh, piangetemi bene, giovani amanti e donne innamorate! 341 I SONETTI I. Nel grigio ciel talvolta i miei sonetti come falchi solinghi alzano il volo; nell'azzurro talor, semplici e schietti, tripudian come le colombe a stuolo. Or si librano in alto ed or costretti dalla fralezza lor radono il suolo; ora tuban d'amor sotto i boschetti ed ora in cimiter piangon di duolo. E sen vanno così cercando il mondo, di pensiero in pensier, di lido in lido, col volo spensierato e vagabondo; ma quando a sera mugge il vento infido, quando la notte ingombra il ciel profondo, ecco, i sonetti miei tornano al nido. II. «Ben tornati, o sonetti, al dolce nido ch'io vi composi del mio core in fondo, ben tornati all'asil morbido e fido dove giunger non può voce dal mondo. Con che amor vi accarezzo e vi sorrido, figli d'un genitor troppo fecondo! Con che piena d'affetto io vi confido le rime tristi od il pensier giocondo! Rimanete con me, senza sospetti d'invidia, di malizia o di lacciuolo, entro il nido natìo sicuri e stretti! Non lasciatemi più deserto e solo, restate nel cor mio, cari sonetti...» E tornato il seren, prendono il volo! 343 STUDENTESSE I. Eccole curve, povere figliole, sulle pagine gravi e faticose a contender coi testi e con le chiose, a far l'anatomia delle parole. Eccole curve nelle chiuse scuole a domar pertinaci e coraggiose nel silenzio di lunghe ore penose l'anima che rifiuta, il cor che duole. Ed eccole intristir, stanche, nervose, sui saggi enigmi e sulle dotte fole dei versi antichi e delle antiche prose! Questa matrigna civiltà, che suole chiamarsi buona ed è crudel, le pose a combatter così, deboli e sole! II. E fuori, e fuori, ah come ride il sole sulle pianure verdi e luminose, baciando i fior dell'ultime vïole, aprendo i bocci delle prime rose! Come cantano al sol le boscaiole e cantano con lor le selve ombrose! Ecco Amor che trionfa e che rivuole l'inno dei fidanzati e delle spose. Amore, Amor, che a senno suo dispose dell'universo la feconda mole, anima dei viventi e delle cose! E voi qui senza nozze e senza prole, come la nuova civiltà v'impose, studiate il greco, povere figliole!! 345 NEL CINQVANTESIMO QVARTO ANNIVERSARIO DELLA MIA VENVTA AL MONDO QUESTI DVE SONETTI A ME STESSO BENE AVGVRANDO OFFRO I. In alto, in alto, de le bianche stelle per la divina e scintillante via, sopra i venti, le nubi e le procelle, in alto, in alto ascendi, anima mia. Gitta il carico reo d'ossa e di pelle, vesta di tradimento e di bugìa, poichè col latte de le sue mammelle te la incorrotta Verità nudrìa. E sali e sali nell'azzurro immenso dove il sol non ha più forza e governo; dove nulla è finito e nulla è denso; e nel salir del tramite superno, l'immortale vedrai, negato al senso, splendor della Giustizia e il Vero eterno. II. E pur, se l'occhio del pensier non erra scrutando il corso delle umane sorti, la Giustizia verrà dal cielo in terra a giudicar sovrana i vivi e i morti, dando il grano a colui che lo sotterra, lasciando il frutto a chi coltiva gli orti, l'ira cessando e la fraterna guerra che insanguina la spada in mano ai forti. O benedetti e lungamente attesi giorni santi di pace e d'abbondanza, fremer vicina l'ala vostra intesi! Lento, ma certo, il regno tuo s'avanza, Giustizia, o dei traditi e de gli offesi ultimo sogno ed ultima speranza! 347 ROMANZE I. (Sentimentale) Quando sento il suo passo per la via, palpito e volo alla finestra mia. Lo guardo di nascosto e non mi vede, non alza gli occhi e indifferente va. Gli ho dato la mia vita e la mia fede, gli voglio tanto bene e non lo sa! E se dinanzi a lui tremando passo, impallidir mi sento e gli occhi abbasso. Ch'io soffro per amor forse indovina e del martirio mio sente pietà. Lo porto fitto in cor come una spina; è lui che mi tormenta e non lo sa! E forse ora mi guarda ed è qui accanto e pensa che un mistero è nel mio canto. Sente la voce dal dolor turbata, intende che un segreto in cor mi sta, e, mentre chiede chi m'ha innamorata, io canto per lui solo e non lo sa! II. (Drammatica) Non ti ricordi quel che dicevi quando una volta mi stavi ai piedi? Tante lusinghe sul labbro avevi, pregavi tanto che il cor ti diedi; ma il cor l'hai preso per farlo a brani e il sangue gronda dalle tue mani. Non ti ricordi come ho pregato a mani giunte, supplice anch'io? Ma tu, che avevi dimenticato, hai riso e ridi del pianto mio. M'hai preso il core, l'hai fatto a brani e il sangue gronda dalle tue mani. Stammi lontano! Guai se mi tocchi! A te che importa del mio destino? Non mi guardare! T'arde negli occhi la bieca fiamma dell'assassino. M'hai preso il core, l'hai fatto a brani e gronda il sangue dalle tue mani. 349 ALLORA ED ORA I. Mi guardavan le donne anticamente colla faccia guardinga e mal sicura di chi nel bosco minacciar si sente dall'insidia del lupo ed ha paura. Parlavano arrossendo e cautamente, sorridevan con studio e con misura e i segreti del corpo e della mente m'interdicean con pudibonda cura. Ma il cor delle ritrose io combattei e ne tenni qualcun come in ostaggio a testimonio de' trionfi miei; ed or le donne han sovra me il vantaggio, poichè di quanto l'ardir mio perdei, d'altrettanto s'accrebbe il lor coraggio. II. Persuase oramai queste signore che l'uomo alla mia età non comprometta, mi dicon tutto come al confessore e mi voglion con loro in bicicletta. Stanno sole con me, parlan d'amore e s'allacciano il cinto alla calzetta senza pensare a mal, senza timore, poichè la mia virtù non è sospetta; e nei colloqui lunghi e confidenti una non ce n'è più che mi nasconda desideri, bellezze o sentimenti. Sempre così questa vitaccia immonda! Quando era scarso il pane avevo i denti, or che i denti se 'n vanno, il pane abbonda! 351 IN MEMORIA I. E. M Forse meglio così. Non aspettata la morte il capo giovenil toccava quando l'età dei sogni era passata ed il terribil vero incominciava. La bocca sua che non fu mai baciata al cortese mentir non si piegava: e candida, serena, intemerata, fra le lodi salìa, ma non guardava. Nulla il cor nascondea, nulla il pensiero, e la bontà che a bene amar costringe dal volto trasparìa calmo e sincero; e pur l'enigma che a cercar ne spinge oltre la vita ed al di là del vero, velava i luminosi occhi di Sfinge. II. Lottò la giovinezza inorridita, la giovinezza che morir non vuole, lottò col fato invano. Era finita! Nessuno udrà mai più le sue parole. La finestra per lei s'era fiorita di giacinti novelli e di vïole, quando, cogli occhi a cui fuggìa la vita, entrata in agonia, cercava il sole. Così, povero fior che piega e manca, nel silenzio seren d'un giorno cheto, chinata sul guancial la fronte stanca, s'addormentò nel sol tepido e lieto come una bimba nella cuna bianca e portò nella tomba il suo segreto. 353 GIOVEDÌ GRASSO I. Quando il giorno apparì, livido, lento, tra la nebbia del ciel rannuvolato, l'ultimo lume per le vie fu spento e l'ultimo cancan fu galoppato. Le mascherine allor, col sonnolento passo e col volto dalla veglia enfiato, luride di sudor, gialle di stento, usciron barcollando e senza fiato. Pierrot, disfatto che mettea spavento, mezzo briaco e mezzo addormentato, il ritratto parea del pentimento e Colombina intanto a lui da lato, balbettando dicea: «Bada... mi sento...» E con la testa al muro ha vomitato. II. Sotto i cenci di seta entrava il vento che le carni mordea freddo, spietato, e la lordura che cadea dal mento colava a fiotti dentro il sen slacciato. Il povero Pierrot tutto sgomento, tossendo le chiedea: «Che cosa è stato?» e guardava sorpreso il pavimento dalla compagna sua contaminato. Poi quando quell'orror fu terminato, la mascherina si frugò un momento in sen col fazzoletto ricamato: indi, ripreso un poco il sentimento, ruppe in un riso stridulo, ammalato e sparì urlando: «Ah, che divertimento!» 355 SOLE D'INVERNO (IN BICICLETTA) I. Nel pallido meriggio alle romite vie che corsi ed amai son ritornato ed ho visto fiorir le margherite bianche tra le tenaci erbe del prato. Un cinguettar di passere stordite nel tepor luminoso e profumato, come un canto di nozze acconsentite pel deserto sentier m'ha seguitato e le ruote leggere hanno volato sotto l'impulso mio, quasi rapite meco nel sogno dell'april rinato. Oh, col bacio del sol morbido e mite, quanti dolci pensier m'han visitato, quante rose nel cor mi son fiorite! II. E con le rose ho fatto una ghirlanda per la sepolta giovinezza mia, la giovinezza cara e memoranda ch'era saggezza e mi parea follìa. La riveggo nel sogno e mi domanda un buon ricordo, una parola pia, povera morta che si raccomanda nel nome santo della poesia! Corro così la solitaria landa e m'accompagna sol la fantasia che sospinge le ruote e le comanda e vivo e volo! Ah, benedetta sia quest'ora lieta che il destin mi manda, questo raggio d'amor che il sol m'invia! 357 PEDALANDO Tutte le case han le finestre aperte e i primi nidi cantan già sui tetti. Le campagne di fior sono coperte, l'aria odora di donna e di mughetti ed io rimo per te queste parole in bicicletta, respirando il sole. Chi d'Arcadia parlò? L'Arcadia è questa! Ecco le bianche agnelle ed i pastori, ecco la terra e l'uomo in una festa di profumi, di canti e di colori, ecco la maestà dell'infinito, la poesia, la gioia e l'appetito! DI NUOVO IN BICICLETTA Nel roseo lume della prima aurora, nella vermiglia pace dei tramonti, o nel meriggio che avvampando indora la messe al piano e la vendemmia ai monti, lungo la siepe che di salvie odora, lungo i verdi sentier, le fresche fonti, dove il guardo è intercluso e dove esplora meravigliosi e liberi orizzonti, presso il giardin ridente o il campo arato, entro le selve susurranti al vento, tra il canto degli uccelli e i fior del prato, sovra il ferreo corsier passo contento come a novella gioventù rinato e sano e buono e libero mi sento. 359 IN BICICLETTA ANCORA I. All'impulso del piè veloci e pronte consentono le rote e m'incammino mentre un lume rosato all'orizzonte annuncia il sole ad apparir vicino. L'ultima stella tramontò sul monte, i primi bocci aperse il biancospino, tepido il vento mi baciò la fronte, canta vigile il gallo. Ecco il mattino! E su dagli orti ancor mal desti e soli, nella nebbia sottil che si disperde, olezzano i mughetti ed i giaggioli. Fugge la strada e il mio pensier si perde nell'estasi del sogno e par che voli fra il ciel turchino e la campagna verde. II. Giunto quasi al meriggio il sole indora l'immenso piano e la deserta via da cui torno canuto alla natìa terra dove bambino ebbi dimora. Di qui mi tolsi giubilando ed ora vengo della tristezza in compagnia... O case bianche della terra mia, case de' miei, mi conoscete ancora? Ma chi mi chiama? Il camposanto inchina su me la vetta de' cipressi suoi e parla basso al cor che l'indovina. No, morti! Or lungi è la mia casa e poi non è sepolta qui la mia bambina, poveri morti, e non verrò tra voi! 361 CANTA MADONNA E SI DISPERA Si levan sospinti dal vento i bianchi vapori dei monti; nel cielo di piombo le nubi d'argento cacciate, travolte, nascondono il sol. Recendo la mota dei letti traboccan le torbide fonti; la piova scrosciando rovina dai tetti e un largo pantano contamina il suol. Languisce la terra sopita nel soffio del freddo aquilone; ai rami gelati non torna la vita, le gemme aspettanti non s'aprono ancor. O fosche giornate d'orrore, dov'è la novella stagione? Dov'è primavera fragrante d'amore che scalda e feconda le nozze dei fior? Deh, riedi e coi giorni più miti, o maggio, conduci il sereno! I canti dei nidi sui peschi fioriti, l'odor delle rose risveglia con te. Infondi coi baci del sole la vita nel freddo terreno, fiorisci le zolle di fresche vïole, ravviva i ligustri degli alberi al piè. O maggio, e doman tornerai dai fior salutato e dal canto; a tutti domani la gioia darai, io sola piangendo tornar ti vedrò. Io sola son morta all'affetto, io sola mi struggo nel pianto; letizia di vita non sento nel petto, germoglio d'amore nel sangue non ho. Il verno da me più non toglie l'orror delle bianche pruine; al sole di maggio il gel non si scioglie, il gelo di morte che il cor mi coprì. Il primo capello canuto quest'oggi mi svelsi dal crine... Ah, giovane tempo, sì presto caduto, con te la speranza quest'oggi morì! 363 ? Dal ciel smorto, dal piano freddo e grigio l'aria è fuggita e della vita non ride più vestigio. Tutto è morto! Ma improvviso il ciel rifulge d'oro, gigli e colombe copron le tombe e germinan l'alloro e il sorriso; tutto è in fiore nel piano sterminato e tra le foglie la Donna coglie il fiore insanguinato detto Amore! VITA Sale una bianca teoria di vergini ai poggi verdi e ne inghirlanda il culmine; nell'aria chiara vola il canto e palpita come un'ala di rondine. Scende dai poggi e, sotto ai densi pampini delle vitalbe, la sorgente mormora, carezza l'erbe, ride al piè dei salici e bacia i giunchi tremuli. Ed ecco i veli del tramonto scendono dal cielo grigio sulla terra livida e l'orizzonte nei vapor del vespero fuma, rosseggia, sanguina. Ed ecco il canto delle vinte vergini piange sui poggi come un coro funebre; geme nell'ombra il fonte e l'acque gocciano come stille di lagrime. 365 PARABOLA Doctrinam oris audite filii! ECCL. XXXIII. 7. Era pazzo? Digiuno e mal coperto, sognando un Dio d'amor, fuggì la gente e solo e ritto in faccia al sol rovente, inascoltato predicò al deserto. Ma dalla sua caverna uscì all'aperto il feroce leon che l'innocente squartò con l'ugna e maciullò col dente così che ai corvi non restò un lacerto. Ma il Dio che predicò ben lo soccorse se, finalmente consolata, l'alma dormì nel seno dell'eterno Forse. Che se nel nulla ritornò la salma, però la rena dove il sangue corse fu fecondata e generò la palma. AMORE Non senti tu rabbrividir le cime verdi de' pioppi ne 'l meriggio ardente e un alito passar quasi rovente su gli arsi campi e tra le messi opime? Senti ne l'aria immobil che ci opprime, senti tu ne 'l silenzio un dio presente, un mister che ci vede e che ci sente, qualche cosa d'ignoto e di sublime? È amor che vibra ne le cose, e desta del sol fecondo il vivido calore, che alle nozze notturne i fiori appresta. È amore in cui s'acqueta ogni desìo, che prorompe da tutto... Amore, amore, vita de 'l mondo ed anima di Dio. 367 ET IN TERRA PAX! I. Bianca vigilia del Santo Natale hai tu per tutti la pace e il ristoro? Cantan l'osanna per ogni mortale le note allegre dell'inno sonoro? Se i nidi ai nati non scaldano l'ale, non c'è la fame che strilla per loro e sulle soglie fastose del male mancan pezzenti che piangano in coro? Mancano ciuchi che credon lavoro esporre al riso l'aspetto regale della Giustizia nell'ozio invernale? E dalle mense, dai calici d'oro, dalle fragranze d'anguilla e d'alloro non senti l'odio che sale, che sale?... II. Ah no! Tu rechi, col fumo che sale, ghiotte fragranze d'anguilla e d'alloro e larghi lampi di porpora e d'oro sprazzan dai vetri nel buio invernale. Stende la neve il suo manto regale sulla città dove posa il lavoro, e intorno al fuoco, stringendosi a coro, cantano i bimbi che ignorano il male. Ridon le madri cantando con loro e in alto, in alto, dirizzano l'ale le note allegre dell'inno sonoro. Oh, benedetta, se ad ogni mortale rechi la gioia, la pace, il ristoro, bianca vigilia del Santo Natale. 369 NATALE IN CITTÀ Dentro, nell'aria sana ed olezzante, nel caldo allegro delle nostre sale, simbolo d'innocenza e di morale torna il ricordo del Divino Infante. Abbiam sul labbro le parole sante, abbiam nel cor la pace e l'ideale, suonano gli inni al mistico Natale, fuman le mense, brilla il vin spumante. Fuori, sibila il vento e per la via erran, fantasmi lividi e distrutti, la miseria, la fame e l'agonia. Guardan con gli occhi lucidi ed asciutti lo splendor dei balconi e l'allegria, chiedendo se Gesù nacque per tutti. NEVICA! Nel mio tempo miglior che fu sì breve, quando la gioventù m'ardea ne' polsi, spesso ignuda la fronte al ciel rivolsi bevendo il freddo come vin si beve, e quando vidi turbinar la neve nell'inverno crudel, non me ne dolsi, anzi sul ghiaccio e sulla neve colsi spesso la rima che l'idea riceve. Ma tutto in me cangiò cogli anni ed ora quando nel ferreo ciel sibila il vento, fuggon non che l'idea le rime ancora e la neve che amai mi fa spavento, poichè fiamma d'amor non mi ristora e il freddo della morte in cor mi sento. 371 ROMANZA I. La quercia poderosa che con le chiome dense e con le braccia immense copria la valle ombrosa, che al verno, agli aquiloni, come un leon ruggiva e al maggio si copriva di nidi e di canzoni, la quercia fulminata giace distesa al suolo e l'ultimo usignolo ha pianto e l'ha lasciata. II. Anch'io sento cadute ormai dal ramo verde le foglie e il tronco perde la forza e la salute. Anch'io, se ascolto il core, sento che m'è sfuggita la gioia della vita, la fiamma dell'amore. Tramonta e si scolora fin della speme il raggio... Ah, chiaro sol di maggio, potrò vederti ancora? 373 FINIS ASINI... I. Guardate l'asino! magro, slombato, tutto pillacchere, loia e marame, trascina il carico spropositato fin che gli durano le forze grame. Sovra il suo misero dorso piagato le mosche ronzano come uno sciame, povero scheletro di tribolato cui soli restano l'ossa e il corame! Fino che all'ultimo vinto, spossato, coperto d'ulceri, morto di fame, cade sul lastrico recendo il fiato. Tutti allor fuggono dal suo carcame, ma l'uom di spirito che l'ha ammazzato, sorride e mormora: «Quanto salame!» II. E come l'asino trascino anch'io la soma, povera bestia sfinita, su l'erta ripida, giù dal pendìo, male al discendere, peggio in salita. L'ore che passano, con un ronzìo d'insetti, frugano la mia ferita; il cor che sanguina non ha un desìo, l'ingegno e l'anima non han più vita; ed or che il ridere passato espìo e il mondo a vivere più non m'invita, io cado e rantolo nel pianto mio. Amici, ah, l'ultima prova è compita! Amici, datemi l'estremo addio! Questa terribile farsa è finita! 375 ORA TRISTE Quando tra la sottil nebbia serale vo con la folla anch'io ed i monelli vendono il giornale urlando il nome mio, mi sento dir vicino a voce bassa: « – Guarda: Stecchetti è quello! – » ed un occhio mi scruta e mi trapassa, freddo come un coltello. Anch'io mi volgo allora e leggo aperto nel cor di chi mi guarda; indovino il pensier chiuso e coperto dalla faccia bugiarda. E di dentro il dolor piange, ma fuori sorridon gli occhi asciutti; sanguina una ferita in tutti i cuori, ma la nascondon tutti. Ah no, fratelli miei, non c'è ferita che si possa coprire! Il destino è così, questa è la vita; soffrire e poi soffrire! Anche le spalle mie portan la croce, le spalle, ahi, non più forti! E dico spesse volte a bassa voce: « – Come stan bene i morti! – ». Son trascinato anch'io dalla mia sorte col guinzaglio al collare. Cammino come voi verso la morte... Lasciatemi passare! TESTAMENTO Quando morrò, lungo la terra mossa non piantate il cipresso e la mortella; io la mia tomba non la voglio bella, ma giovevole altrui più che si possa. A che servono i fior sopra la fossa se l'alito d'april non rinnovella le membra, il cor, la vita e le cervella, vestito un giorno ed anima dell'ossa? Piantateci una vite! Il suo giocondo, il suo celeste grappolo spremuto, diverrà vino ghiotto e rubicondo, e così, benchè morto, il mio tributo ai vivi pagherò, rendendo al mondo qualche goccia del vin che gli ho bevuto. 377 NOVEMBRE ANCORA Addio sorrisi dell'albe rosate, addio tramonti che d'oro parete! Novembre porta le tristi giornate e delle nebbie la bigia quïete! Gli uccelli migran in file serrate cercando a volo contrade più liete, ma noi restiamo, calcando immutate, sul fango vecchio, le vie consuete. Restiamo e sempre le stesse infinite noie e le stesse speranze remote c'infliggeranno le stesse ferite, finchè abbassando le teste canute, chinando al suolo le pallide gote, qui marcirem come foglie cadute. IL MIO CUORE I. Il mio cuore è uno scrigno di velluto che con sette sigilli è sigillato. Molti voller saperne il contenuto, ma nessuno finor l'ha indovinato. Lungamente il segreto ho mantenuto e il labbro come il cor tenni serrato, ma più a lungo tacer non ho potuto ed i sette sigilli ho lacerato. Sappiate dunque che nel cor segreto chiudo i ricordi del tempo remoto, i fiori secchi dell'april mio lieto, fra cui quest'oggi, e già ne son pentito scendo a frugar con l'animo devoto per cavarne un sonetto impallidito. 379 II. Un povero sonetto impallidito, fior dell'anima mia morto e seccato, che tra le foglie sue reca smarrito come un lontano odor del mio passato, come un ricordo vago e scolorito, un'eco lieve del tempo beato, un rimpianto profondo ed infinito di tutto quel che in giovinezza ho amato. Ed ecco che il sonetto esce discreto da la prigion dove dormiva ignoto e rivede tremando il mondo lieto. Va dunque, o mesto fior da me cresciuto, porta a chi m'ama del mio core il voto, ed a chi m'odia porta il mio saluto. REQUIE In mezzo al mar verdeggia, o l'ho sognato, fiorita sempre un'isoletta breve che non vide giammai fiocco di neve, nè saetta cader dal ciel turbato. Ivi una casa bianca in mezzo al prato dalle finestre aperte il sol riceve, le fontane son fresche, il vento lieve, il silenzio profondo, il suol beato. Nella pace dei libri e nella forte serenità che perdonando oblìa, ivi riposan l'anime risorte e se tanto sperar non è follìa, al di là della vita e della morte ivi riposerà l'anima mia. 381 III. CIVILIA Et si ceux qui vivent s'endorment, Ceux qui sont morts s'éveilleront. V. HUGO, Les Châtiments, I. TRA DUE SECOLI Scendi ne' limbi della storia, o secolo nato ad incoronar Napoleone, per morir tra le misere nenie che ti cantò papa Leone. Scendi ne' limbi della storia. Inutile fu domandar giustizia e non vendetta. Caldo il sangue dei martiri ancor vapora ed il giudicio aspetta. O morti combattendo, o dei patiboli vittime sante, indarno il ver sapremo e negli anni che vengono tutto da capo cominciar dovremo? Per le squallide vie l'urlo del popolo dovremo forse udir come una volta e nelle chiuse tenebre suonar le trombe al fuoco ed a raccolta? Ah no, non sia! Nasci più lieto, o secolo, più libero, più buono e men rapace per chi soffre e desidera un po' più di giustizia e un po' di pace! 1897 Ecco, già l'anno muore ignobile, triviale, e, come il malfattore, finisce in tribunale lasciando al disonore un ricordo immorale, mezzo commendatore e mezzo clericale. E pur non son corrotte tutte le menti ancora dalle iraconde lotte; e pur, dopo la mora della dolente notte, risorgerà l'aurora! 383 ALLA BANDIERA I. Bandiera, nostra forza e nostro orgoglio, che ci guidasti per la sacra via e da Castelfidardo a Porta Pia trionfante salisti al Campidoglio; bandiera tricolor, che sullo scoglio di Quarto fosti fiamma e poesia, non abbassata mai per codardia, non abbrunata mai che per cordoglio; bandiera santa, i lembi tuoi ripiega ormai sull'asta, contrattata e resa come cencio impegnato alla bottega, poichè sul capo al traditor non pesa nemmen più la vergogna e ti rinnega pel bianco e giallo della Santa Chiesa! II. Non da tutti però dimenticata, nè tradita sarai, vecchia bandiera, che salisti a Mentana insanguinata quando speranza d'acquistar non c'era. Pochi vivono ancor che incatenata ebber per te la mano alla galera; troppi son morti, ma dai morti è nata nuova una gioventù che attende e spera. E questa gioventù, sovra la traccia che il tuo cammin segnò, fedele avrai nella mente, nel core e nelle braccia. O sacro tricolor, levati ormai, libero segno, al Vaticano in faccia! Non mentirono tutti e lo vedrai. 385 MEMENTO! ANNIVERSARIO DELL'VIII AGOSTO 1848 IN BOLOGNA I Quando al cielo il clamor della battaglia col denso fumo andava ed il cannon ruggiva e la mitraglia per le vie grandinava, molti, volgendo ancor nella memoria il recente passato, supplicavano Iddio per la vittoria dell'invasor croato e nel segreto della chiusa stanza pregavano: – «Signore, » doma i ribelli nostri e la baldanza » che diventa valore. » Guida tu stesso il piombo e fa che infranga » il petto dei ribelli. » Se qualche madre ci sarà che pianga, » farà gli occhi più belli, » ma dacci ancora un popolo di schiavi » e lo scudiscio in mano; » rendi al vessillo delle sante chiavi » il suo poter sovrano!...». Passò vinto il nemico oltre i confini, la lunga ira è sepolta, ma molti – ah, nol scordate, o cittadini! – pregan come una volta! II. Son cinquant'anni ed il cannon tuonava vomitando la morte; il mite cuor di Pio così bussava, Bologna, alle tue porte. Son cinquant'anni ed or dormi secura, nè pensi al tempo antico. Non veglian più le scolte alle tue mura e pur veglia il nemico, e gran tempo non è – non l'hai veduto? – che ti guardava in faccia, ostentando, insolente e pettoruto, lo scherno e la minaccia. In quel giorno contò la numerosa schiera de' suoi soldati e pensò che c'è posto alla Certosa per altri fucilati; pensò che curve ancor sotto la piena possanza del Maestro, filan nell'ombra Marta e Maddalena per torcerti un capestro; pensò che a vendicar l'antico sfregio gli basta alzar la mano, ora che i figli tuoi vanno al collegio del Padre Flamidiano. E tu frattanto, leonessa ignava, dormi nel pigro covo! Son cinquant'anni che il cannon tuonava, ma può tuonar di nuovo. 387 PACE! Ardon le case. Le donne fuggono nel buio, urlando. Piangono gli orfani sui padri morti e calano i corvi sui cadaveri. Che importa? È l'Africa dove riboccano troppe ricchezze per gente libera! La nostra Europa è misera e le catene costano. Ardon le case. Di sangue corrono le strade, cadono nel freddo asiatico assassinati gli uomini che difendon la patria... Che importa? Brucino la Cina e l'Africa, noi civilissimi, nelle accademie gridiamo pace ai popoli e i gesuiti godono! IN MORTE DI MANLIO GARIBALDI Chiusa la tomba, nel silenzio eterno non dormiranno i morti e il giovinetto, dall'amplesso paterno riconfortato e stretto, – Padre – susurrerà – padre, mi senti? Io sono Manlio tuo, son la carezza che degli anni cadenti t'addolcì l'amarezza! Ma non mi domandar, dell'infelice terra che amammo, le sinistre sorti. Oh, tre volte felice chi riposa tra i morti! Meglio narrarmi come un dì lanciavi al fiero assalto le camicie rosse e le terga incalzavi delle schiere percosse. Dimmi Calatafimi ed il ciglione su cui la schiera degli eroi saliva, ricordami Digione e chi per lei moriva. Ricorda tu quel che soffrir conviene per mantener le libertà giurate e strappar le catene dalle braccia piagate... Oh, meglio in questa tomba, o padre mio, che vigile gendarme al Vaticano! Meglio l'eterno oblìo che lo sdegnarsi invano. Meglio anzi tempo reclinar la testa morta, della speranza in sulla soglia, che goder nella festa di chi la madre spoglia. Oh, padre, non temer! Parlami. È sorda questa plebe d'ingordi a' detti tuoi. L'Italia non ricorda nemmeno i morti suoi! – 389 PER UN'AMNISTIA Trasibulo che vinse alzò la mano sulle teste chinate e la Paura inorridì, ma invano quand'egli disse: andate! Indi la libertà rese ad Atene intera e non mendace, le colpe cancellò, tolse le pene e consacrò la pace. Fu giustizia o clemenza? E pur fu spento così l'odio il più vivo e vera gloria fu l'esser contento d'una fronda d'ulivo. BANCA ROMANA I. Meglio, Trento, per te se dalle mura sante aspettasti invano il vessillo che i patti e la paura respinsero lontano. Meglio, Trieste, indarno a queste sponde tener l'anima fissa; meglio indarno aspettar che lavin l'onde la vergogna di Lissa. Deh, non cercate della madre il petto, figlie aspettanti ancora, poichè il fracido cancro ond'egli è infetto o uccide o disonora. La madre, del vessillo a tre colori s'è fatta un origliere per fornicar co' suoi commendatori scappati alle galere. Vende l'onore de' suoi figli morti, gioca le glorie avite e fa copia di sè negli angiporti delle banche fallite. Questa, questa è colei per cui sperate cessar le vostre pene ed essa per paura ha patteggiate fin le vostre catene; ed essa; in Roma, penitente adora la fraude vaticana baciando la rea man che gronda ancora del sangue di Mentana... Ah no, questo di vizi ampio carcame che al bacio vil si prostra, ah no, per Dio, questa bagascia infame non è la madre nostra. Mentì chi 'l disse! O voi, dai fortunati sepolcri ove dormite, martiri nostri ormai dimenticati, levatevi e venite! 391 Voi che gridaste Italia e il piombo intanto vi rompea la parola, voi che ne confessaste il nome santo col capestro alla gola, smascheratela voi la svergognata che adulterò col prete; dite a questa carogna incoronata che non la conoscete. Altra è la sacra Italia, amor dei forti, che un dì fu vostra cura. Oh, destatela voi, poveri morti, se i vivi hanno paura! Fate che torni e nella destra rechi una spada infocata contro questi ladroni obliqui e biechi che l'han vituperata. Arda col foco suo fin che bisogna questa stalla d'Augìa, tagli col ferro la civil vergogna e la giustizia sia! II. Il fico disse – Biondo al mar correva il sacro Tebro, là dove al mio piede Acca la lupa, ritrovar doveva del regno d'Alba l'uno e l'altro erede. Deh, la mia foglia come piacque ad Eva, la breve foglia che il pudor le diede! Deh, come bene ai rami miei pendeva il traditor di Cristo e della fede! Or se presso di me passa il fallito o il reo che nell'altrui l'artiglio ficca, decorato, superbo ed arricchito, io, quasi donna che tentando ammicca, protendo il ramo mio come un invito... Passa il Commendator, ma non s'impicca. – 393 III. DA CAPO Consurgite et ascendamus in meridie. JEREM. VI. 4. Se nella mesta sera cinto di luce strana, lo scoglio di Caprera all'occidente levasi superbo sulla nera onda lontana, il marinar che passa sull'agile naviglio tien la bandiera bassa e tra le palme ruvide il duro capo abbassa e china il ciglio. Là, nella calma enorme della morente luce, sotto il granito informe, presso le acacie memori l'ultimo sonno dorme il nostro duce. Dorme il Messia invocato nel giorno del dolore, dorme il gentil soldato che amò come una vergine e col suo s'è fermato il nostro core. Quando il leon scoteva l'ampia cesarie d'oro, un popolo sorgeva bello, gagliardo e giovane che la pugna chiedeva e non l'alloro; sorgean gli eroi sublimi che il duce taciturno primo davanti ai primi guidava all'ardua carica contro Calatafimi e sul Volturno; poi, rotta nel cimento la schiera e pur non doma, cadea senza un lamento, mal vendicata vittima sul colle di Nomento in faccia a Roma. Nè alcun tendea la mano a mendicar mercede, nè per voler sovrano, nè per clamor di popolo mentiva il capitano alla sua fede, chè il duce ed il soldato chiudean ne' petti ardenti il cor di Cincinnato e ai solchi ritornavano del plauso non cercato assai contenti. Ed or che resta? O santo sangue versato invano, o fior d'Italia, pianto un dì con tante lacrime, or ti mette all'incanto il pubblicano! O gloria unica al sole, pura in tante vicende, alla crescente prole pura dovevi scendere e ti compra chi vuole e ti rivende! Tutto governa l'oro, tutto è sottil garrito di legulei nel foro e de' comizi il traffico frutta come tesoro al più scaltrito. Il suo veleno occulto ci mesce la menzogna e gli ebrei, nel tumulto dell'ira, si barattano la calunnia, l'insulto e la vergogna. Ahi, della prima schiera non resta alcuno in vita? Dunque laggiù a Caprera col biondo Cristo italico l'incolpevol bandiera è seppellita? Ah no! Sacra coorte, per l'ultima battaglia ti risparmiò la morte: inerme e pur terribile di Roma su le porte ancor ti scaglia. Non sangue essa ti chiede, 395 ma invoca i difensori. Schieratevi al suo piede, voi forti, e proteggetela con l'incorrotta fede e gli alti cuori. Trombe dal sonno scosse, sonate alla raccolta! Correte alle riscosse, salvate voi la patria, vecchie camicie rosse, un'altra volta! Alto il vessillo alzate de' traditori a fronte... Ma voi, deh, riposate nelle giberne lacere cartucce non sparate all'Aspromonte! IV. NOTTE D'AUTUNNO Infuria il vento e nella bieca notte fredda la piova incalza. L'acqua che scroscia dalle gronde rotte sui ciottoli rimbalza. Entro l'oscurità profonda e vuota delle vie taciturne guizzan, specchiate nell'immonda mota, le fiammelle notturne e nel sordido fango e nel pattume putrefatto del suolo, miserabile spettro, agita il lume e fruga il ciccaiolo. Quand'ecco dal silenzio esce il lontano scalpito d'una rozza e tra la pioggia, il vento ed il pantano, appare una carrozza che in un dirugginìo di chiavistelli trabalza oscenamente, col profilo dei birri agli sportelli e le lanterne spente. E il ciccaiol che vive razzolando nel brago e nel fetore, sente lo schifo e brontola sputando «Passa un commendatore!» 397 BOXERS Scendono le feroci orde alle valli, ai pingui campi nella pace assorti, il sangue corre e di sognati falli sugl'innocenti fan vendetta i forti. Accorron degl'incendi ai lampi gialli nuove stragi a recar nuove coorti e sotto al piè de' barbari cavalli crocchian le fracassate ossa dei morti. Plaudite al vincitor che ben confida delle battaglie nel possente Iddio e lieto ascolta di chi muor le strida, e udite. Al rosso ancor ferro natio tergendo il sangue, alteramente grida – «Guardami, Europa. Son civile anch'io!» ANARCHICO Lenta nei lunghi secoli la dea Giustizia incede, ma dove pone il piede germoglia in pace il grano e le messi maturano pingui al lavoro umano. Lente le idee si movono, ma noi moviam con loro compagni nel lavoro e nell'amor fratelli. Sono le idee che vincono le idee, non i coltelli. E ahimè. Tra i sogni torbidi della pazzia tu vedi l'odio soltanto e credi tra il sangue esser più forte se uccidi per uccidere e scherzi con la morte! Ah no, tu l'orde d'Attila re dominar dovevi se ai deboli volevi col ferro impor la fede, se il laccio del carnefice strozza chi a te non crede! Furtivo nelle tenebre rechi la morte e il foco e scavi a poco a poco sotto il terren la mina, che inghiottirà i cadaveri nell'ampia sua rovina. E che? Mostri di Ninive, templi d'Assùr lucenti, superbie di possenti, torri adunate a stuolo, chi vi ridusse in polvere, chi vi spazzò dal suolo? Non fu la rabbia o l'impeto della vendetta bieca, non fu la forza cieca che vi schiantò dal fondo, 399 ma un solo raggio, un palpito d'amor che scosse il mondo! Lungi di qui la livida ira ed i sogni orrendi! Negli ipogei discendi tra i mostri e le chimere. Giustizia e non carnefici, questo dobbiam volere! RESURREXIT Poichè le guardie han perso il sonno e il fiato a vigilar la banca d'Isacchetto ed il misero vuol dal fortunato la giustizia, la pace, il pane e il letto, povero vecchio Iddio, t'hanno chiamato sotto l'arme di nuovo e t'hanno eletto vice Mazzini a custodir lo Stato e a far da barbacane al Gabinetto. Vieni e se il guasto spirito moderno ha il principato de' borghesi a noia aiuta il Ministero dell'Interno, riconduci a guardar la mangiatoia i tuoi vecchi spaventi dell'Inferno, il diavolo, i tuoi preti ed il tuo boia. 401 III NOVEMBRE Ultimo fior dell'epopea romana, nato di sacrificio e di virtù, o fior di Villa Glori e di Mentana, la tua radice non germoglia più. Il vermiglio color di fiamma viva parve pericoloso alla viltà; troppo gagliardo il calice s'apriva ai primi baci della libertà e tosto i bocci sullo stel fiorente la moderata forbice castrò, poi l'italico bue stupidamente la sacra terra che ti crebbe, arò. Sotto il pungolo vil dell'interesse, dei martiri tra l'ossa il solco aprì; ma quando biondeggiò pingue la messe, il pubblicano se ne impadronì. E ben ci sta. Come la nebbia incombe sui colli sacri dove crebbe il fior, così, freddo l'oblio, copre le tombe dove riposa dell'Italia il cor, il generoso cor che non pesava nelle battaglie il quando ed il perchè, ma che del sangue suo crocesignava, crisma divino, sulla fronte i Re. Ed or, poveri morti, ai soddisfatti troppo la soma del dover pesò. L'istessa lingua che giurava i patti, ruppe la fede data e spergiurò, mentre voi che giuraste – o Roma, o morte – l'eterno sonno lo dormite qui, dove, quadrata, l'ultima coorte gittò l'ultimo grido e poi morì. Ultimo fior dell'epopea romana, nato di sacrificio e di virtù, o fior di Villa Glori e di Mentana, la tua radice non germoglia più! AFFRICA I. MENTRE PARTONO Tu che aprendo il mercato alla menzogna alto salir potesti e che senza pietà, senza vergogna, vivo, di noi ridesti, or nella tomba dormirai contento, buon vecchio di Stradella, che accompagnar solevi al tradimento l'arte di Pulcinella. Dormi, buon vecchio, ormai dimenticato dai servi e dai rivali e sogghigna se 'l puoi. T'han perdonato i morti di Dogali. A ben più grave e più feroce guerra l'Italia è condannata; nuovo sangue latin beve la terra dell'Eritrea bruciata. Nuove vittime ancor di rei consigli cadran sull'arse arene e nuove madri cresceranno i figli per ingrassar le iene! Lascia, scarno villan, lascia il sudato solco a te non diviso! Tu non devi morir dove sei nato, dove amor t'ha sorriso. La gentil civiltà de' tuoi signori ti spinge alla battaglia. Va, povero villano, uccidi e muori. Dopo, avrai la medaglia, e mentre i legulei ti lauderanno con sonanti parole, oh, come l'ossa tue biancheggeranno gloriosamente al sole! 403 Sulla sabbia deserta e funerale rotoleranno al vento, ma in qualche trivio della Capitale sorgerà un monumento, su cui tra i bronzi falsi e le sculture dell'arte a buon mercato sarà il tuo nome, o buon villan, se pure non l'han dimenticato. Piange intanto colei che la tua culla vegliò amorosa e forte, piange le tristi nozze una fanciulla, le nozze con la morte, ma il padre invece, al ciel rivolto il ciglio, giunte le palme grame, dice: – beato te, povero figlio, che non avrai più fame! – II. IN ANTICAMERA Il moretto in livrea che l'Eccellenze assedia e si gloria e si bea se un pranzo ci rimedia, chiama una grande idea questa brutta commedia di Colonia Eritrea che finisce in tragedia! L'oblio dei deplorati è giusto che si paghi col sangue dei soldati, e poi, laggiù, son vaghi d'esser civilizzati dal capitan Livraghi! 405 III. ALPINI Quando l'ora verrà, l'ora che deve esser l'estrema che vedrete al mondo, voi cercherete invan col moribondo occhio l'alpe natìa, bianca di neve e indarno de' ghiacciai la brezza lieve ricercherete nell'ansar profondo... Oh, quanto lungi al labbro sitibondo saran le fonti ove il camoscio beve! Ahimè, madri dolenti e fidanzate dolenti, dite voi se questo è il santo, il giocondo avvenir che sognavate? Vanno all'inutil sacrificio e intanto noi veneriam le vanità sfacciate cui piacque il sangue loro e il vostro pianto! IV. ULTIME NOTIZIE Le madri, nel tormento crudel d'un dubbio arcano, cercan con l'occhio intento qualche speranza invano. Non sale un noto accento dall'aspettante piano, non una vela al vento sul freddo mar lontano! Ed ecco, il messaggero nunzio della fortuna passa sul lor sentiero, e a lui chiede ciascuna, bianca d'angoscia, il vero: «Che novità?» – «Nessuna!!» 407 V. ALLE MADRI Dedicato ad Anna E.... Madri, lo ricordate il dì sereno in cui d'amore il pegno la prima volta nel fecondo seno vi diè di vita un segno? Con che orgoglio gentil del grembo incinto allor vi compiaceste! Come la culla col materno istinto morbida gli faceste! E poi che al suo vagir tacque il dolore del fianco insanguinato, con che speranze, o madri, e con che cuore benediceste il nato e nutrito di voi lo riscaldaste stringendolo sul petto e se morte il ghermìa, glielo strappaste col prepotente affetto! Lo cresceste così, bianco fanciullo, sovra i fidi ginocchi, vegliando il primo passo e il suo trastullo con l'anima negli occhi, e speraste veder l'ore supreme in braccio a lui più liete... Quanto amor, quanti baci e quanta speme, o madri che piangete! Ed ora? I vostri figli a mille a mille cadder lungi da voi perchè un ladro impazzito e un imbecille si son creduti eroi. E vi tentano ancor, gli scellerati, con le astute parole, ma i cadaveri nudi e mutilati si putrefanno al sole, ma già dai loro immondi antri, le iene calando irsute e scarne, leccano il sangue de le vostre vene, straccian la vostra carne! E il delitto cadrà nel grave oblio in che omai tutto langue? No, levatevi, voi, donne, perdio, raccogliete quel sangue, gettatelo ululanti e scapigliate dei colpevoli in faccia; quando il giorno verrà, non dubitate, ne troverem la traccia; e dite agli altri, o neghittosi, o incerti: «Pietà di noi vi prenda: » la nostra patria è qui, non nei deserti » dell'Abissinia orrenda. » Pietà, chiediam pietà, madri dolenti, » figlie, sorelle, spose; » pietà, per gl'insepolti e pei morenti » su l'ambe sanguinose! » Non tolga vite ai campi, a le officine » la conquista rapace: » la nostra patria è qui. Datele alfine » la giustizia e la pace!» Dite così. Ma se domani ancora tripudieranno i ladri e moriranno gl'innocenti, allora, o dolorose madri, non porgete più latte al mite Abele, che s'acconcia al destino, ma raccogliete ne le poppe il fiele per allevar Caino. 409 VI. AGLI EROISSIMI Giusti della fallita Apocalissi, Marci Porci Catoni, in questo errai che delle birberie forse ne scrissi, ma non ne feci mai. Oh se n'avessi fatte, e lo potevo, di che frasche m'avreste incoronato! Un'abiura e tra i grandi anch'io sedevo, illustre deplorato! Ma l'arte di lustrar le scarpe ai ladri curvando il dorso, mi negò natura; perciò gridate che incitai le madri a strillar di paura. Chi parla di viltà? Chi con gagliarde frasi, dopo il caffè, facil tribuno, povere donne, vi chiamò codarde perchè vestite a bruno? Chi, fumando in poltrona, empie i giornali di vendette, di stragi e di rovine, da la ciambella moderando l'ali dell'aquile latine? Chi dei debiti nuovi alla conquista le apostrofi all'onor guida in falange e soggioga lo Scioa dal liquorista, insultando chi piange? Ah, siete voi? Salute, o ben pensanti, in cui l'onor s'imbotta e si travasa; ma dite un po', perchè gridate «avanti!» e poi restate a casa? Perchè, lungi dai colpi e dai conflitti, comodamente d'ingrassar soffrite, baritonando ai poveri coscritti «armiamoci e partite»? Partite voi, se generoso il core sotto al pingue torace il ciel vi diede. O Baiardi, è laggiù dove si muore che il coraggio si vede, non qui, tra le balorde zitellone, madri spartane di robuste prose, che chieggon morti per compor corone d'alloro, ahi, non di rose! Ma no, non partirete! A questi tempi, se dovesse mancar la «parte sana», chi resterebbe a predicar gli esempi della virtù romana? Chi resterebbe a consolar coi detti le vedove beltà che il bruno adorna? Chi li farebbe i brindisi ai banchetti per chi parte o chi torna? Ah, forti Aiaci della guerra a fondo, ussari della morte, ah, non tentate d'uscir di qui per conquistare il mondo, perchè, se ve ne andate, forse la vigna che godeste voi fruttar potrebbe ad operai più scaltri... no, restate, restate a far gli eroi con la pelle degli altri! 411 VII. AI REDUCI DALLO SCIOA Quando spuntar vedrete a l'orizzonte questo suol benedetto e sospirato e la brezza natia su l'arsa fronte il bacio vi darà del ben tornato; quando in folla calar vedrete al lido i cari vostri a salutar le prore, e il dolce vento de la patria, il grido vi porterà de l'aspettante amore; quando nel cor di rimembranze pieno l'impeto cesserà de la tempesta e, consolati, sul materno seno riposerete alfin la stanca testa; se vi parrà d'udir fioco un lamento che seco il pianto e la tristezza porti, ascoltatelo pur senza sgomento; quella è la voce dei compagni morti che dice: – «A l'avvenir sorridevamo » quando il destino ci portò con lui » ed ecco che con voi non ritorniamo, » noi mal sepolti ne la terra altrui. » Ma, dite, la giustizia alzò il flagello » su gli eroi da poltrona e i paladini? » Chi come bestie ci cacciò al macello, » il supplizio subì degli assassini? – » Voi rispondete: – «Ahimè, dormite in pace » del triste campo nel silenzio enorme! » Qui dei delitti la memoria tace, » qui stipendiata la giustizia dorme. » Sovra i tumuli vostri erra feroce » la iena e ne la notte urla il leone, » ma gli eroi da poltrona hanno la croce » e gli assassini vostri han la pensione». VIII. ARRI! Ohimè, quanti scambietti! Oh Dio, quanti nitriti! I poveri muletti li veggo imbizzarriti! Che siate benedetti, muletti riveriti; ma che? Per due versetti strillate inferociti? Adoperate ingegno, badate! Non conviene mostrar così lo sdegno. Tirate calci? Ebbene, ma questo non è segno che v'ho frustato bene? 413 4 OTTOBRE 1899 IN PALERMO Che gli giovò l'oltracotante possa del pugno audace e forte? Guardatelo calar giù nella fossa sacro alla mala morte, guardatelo sparir, triste rovina d'una bugiarda gloria, censurato pigmeo che s'incammina ai limbi della storia. Ecco, la dura fronte ormai curvata, lotta col sonno eterno, e la canizie sua contaminata trema sotto lo scherno. E scherno ed ironia son le corone e gl'inni de' seguaci, cui la vergogna del passato impone di rimaner mendaci. Oh, se il morente all'opere nefande più non volge i pensieri, lasciatelo morir senza ghirlande e senza vituperi. Lasciate seppellir tranquillamente il cencio imputridito, e l'ala dell'oblio copra clemente la tomba del fallito. Fallito quando l'onor suo da prima si scontò sul mercato, e fallito all'orror d'Abba Carima che non ha mai pagato! Se vanno in pace il ladro e la bagascia all'ultimo riposo, lasciamolo morir come si lascia morire il can rognoso. Incoroni d'allòr l'oscena gogna chi volontier si prostra, e noi dimentichiam questa vergogna, che fu vergogna nostra. QUANDO SI DISSE «NON SE NE PARLI PIÙ!» Ieri, e fu tardi, si turò la fogna d'onde il lezzo ci venne e la sciagura; oggi si copre la comun vergogna come fa il gatto con la sua lordura. E sia! Si taccia; ma però bisogna che rimanga un ricordo a far paura e che del lungo error la rea carogna più non risorga dalla sepoltura. E se udrete talor chi quel passato difenda a viso aperto in suo linguaggio e si vanti costante ed immutato, quel che vi sembra fedeltà, coraggio, generoso sentir, petto indomato, non son che i fondi del malandrinaggio. 415 QUANDO L'AMICO MIO FELICE CAVALLOTTI FU SCANNATO Causa mali tanti.... VIRG. Aen. XI, 480. Ed or che in bocca la civil rampogna il ferro ti recide, Verre, beato nella sua vergogna, Verre, il ribaldo, ride e tripudia dicendo: – «In tuo malanno, » lingua troppo sincera, » ora i complici miei m'assolveranno » e non andrò in galera; anzi, grazie all'eroe che t'ha mandato » finalmente all'inferno, » la bigamìa, le corna e il peculato » torneranno al governo!» Verre, t'inganni! Nel mortal duello non fu tua la vittoria. Con un colpo di spada o di coltello non si uccide la Storia. Doma dallo scudiscio e dallo sprone l'Italia è cieca e sorda, ma il sangue che grondò per tua cagione la Storia lo ricorda ed ella sa che il labbro tuo sorrise gustando la vendetta, ella sa che la rea punta che uccise sei tu che l'hai diretta. Fuma di sangue la Sicilia, prima sempre alla gloria e al lutto, il sangue giovenil d'Abba Carima non è per anche asciutto ed ecco sangue ancora è scaturito dall'opre tue furtive; ma la Storia in quel sangue intinge il dito, apre il suo libro e scrive. Scrive – «L'uno a virtù volse l'intento, » l'altro fu disonesto» – Scrive – «Quegli lottò fin che fu spento » e chi l'uccise è questo!» Or va! – Superbo, com'è tuo costume, Verre, sorriderai, ma la scritta di sangue in quel volume non si cancella mai! 417 PRIMO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI FELICE CAVALLOTTI Pare un sogno bugiardo e compie l'anno, l'anno dai giorni mesti, che per l'altrui fortuna e il nostro danno nel sangue tuo cadesti. Specchio de' forti e fior de' generosi, anima fiera e buona, mal nella fredda eternità riposi or che la tromba suona; l'itessa tromba che a pugnar traeva i battaglion vermigli, quando l'oppressa libertà chiedeva il soccorso dei figli! Ed ecco il dì della battaglia venne quando non sei con noi. Chi al tuo detto tremò, chiese ed ottenne e tu parlar non puoi. Al tuo seggio deserto indarno gli occhi abbiam sperando alzato... Ahimè, la libertà strozzan gli sciocchi, ora che t'han scannato! SECONDO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI FELICE CAVALLOTTI Folla briaca e stolta che t'allegri al clamor del baccanale, turba d'ignavi, ascolta che triste voce dalle tombe sale e dice: – Ahi, d'altre grida sonavano le vie quando vivemmo! Sotto ben altra guida ben altre feste celebrar sapemmo! Soffrir ci parve poco quando l'amor d'Italia in cor ci nacque; sfidammo il ferro e il foco e per la libertà morir ci piacque. Reciso fior che langue, il furor ci mietè delle tempeste, ma voi, del nostro sangue, voi, della libertà che ne faceste? O patria sventurata, tu non sei dunque più che un nome vieto? O libertà giurata, ti si può confiscar con un decreto? Dunque in faccia vi suona del prete vincitor beffardo il canto e Roma vinta intuona le cupe salmodie dell'Anno Santo? Dunque l'onta e la fame son guadagno de' ladri alle masnade e come fango infame tutto la maffia e la camorra invade? – Ah, la tua tomba cheta che una spada t'aprì, lascia per noi; canta, civil poeta, di Leonida l'inno e degli eroi! Alla pazzia feroce scaglia le strofe tue come rampogna; la generosa voce alza in faccia agli eroi della vergogna. 419 Vieni, poeta, e canta la strofa di Tirteo viva e sonora... Chi sa? Forse la santa fiamma in Italia non è spenta ancora! ANCORA? There's blood upon thy face! SHAKESP. Mach. III. 4. Lady Macbeth fiutava l'odor del sangue caldo in ogni cosa e nella notte folta e paurosa come uno spettro errava. Ah, sciagura, sciagura! Ecco, un segno vermiglio ha sulla mano, un segno accusator, lavato invano con ostinata cura e quel segno non langue per volontà che duri a cancellarlo, tutta l'acqua del mar non può lavarlo... E chi lo lava il sangue? E pur chiese costui ai figli il sangue ed alle madri il pianto e, fatta d'ogni casa un camposanto, volle la roba altrui; ed or, lo sciagurato che nel fango giacea, si leva in piede, osa parlarci, vuol lavarsi e chiede il catino a Pilato! No! Se il ricordo langue per audacia, per forza o per fortuna, c'è chi conta le macchie ad una ad una... E chi lo lava il sangue? Basti all'ugne rapaci il relitto dei ladri e della fogna. Abbi prudenza se non hai vergogna, china la testa e taci! 421 PER LE CANNONATE ITALIANE ALLA CANEA Quando vividamente in ciel la sera le fiamme del tramonto accoglie in sè, e nel bacio del sol s'alza Caprera su l'onda rotta che le mugge al piè, il vigile nocchier volge le attente luci a la tomba che da lungi appar, l'orecchio intende ed una voce sente alta e sonora sul deserto mar, che dice: – O madre Italia, io t'ho lasciato un retaggio di gloria e di virtù: madre dei forti, dove l'hai gittato, che Garibaldi non ricordi più? E pure il vento un lungo suon di trombe, quasi chiedenti aiuto, a te recò! e pure un cupo brontolar di bombe su l'onda sacra dell'Egèo passò! Spenta è dunque l'idea che i forti mosse a ribellar le tue cento città? Dunque non ci son più camicie rosse per le battaglie della libertà? Dove dorme oramai chi la parola del tuo Vangelo al popolo bandì, e col capestro attraversato in gola benedisse il tuo nome e poi morì, o chi sul campo il sangue suo t'offrìa, il sangue generoso, e lo versò quando nel singhiozzar dell'agonia col viva dell'addio ti salutò? I miei Mille ove son, belli e giulivi tra la mitraglia, di Milazzo al piè?... No, se in tanta viltà giacciono i vivi, si leveranno i morti intorno a me! Venite, o morti miei! Sovra i fumanti spaldi, superba la bandiera sta. Carabinieri genovesi, avanti! La tromba squilla ed il nemico è là! Di questa Europa vil chi più si cura, che sui deboli scende ad infierir? Lasciatela affogar nella paura, la sozza vecchia che non sa morir. Che se cercasse alcun questa favilla spegner, che tanta fiamma accender può, forte città dove nascea Balilla, lèvati tutta per risponder – no! – Genova 1897. 423 DUE OMBRE L'infamia di Creti... DANTE. Inf. XII, 12. Non puoi dunque dormir, Re Ferdinando, tra i putridi antenati chè, il sozzo lembo del sudario alzando, levi la testa e guati? E dici – «Ah, se il Signor non mi prendeva, sarei pur degno anch'io di questa civiltà che mi diceva la negazion di Dio! Sovra i sudditi miei fatti ribelli piover le bombe io feci, ma l'Europa civil manda i vascelli al massacro dei Greci. Nel sepolcro che fai che non ti levi, general Filangieri? Vieni a veder come i tuoi degni allievi ammazzan volentieri; vieni a palpar, come a Messina, i buchi fumanti del bersaglio; vieni a veder quanti fedeli eunuchi fan la guardia al Serraglio; come sanno schiantar da la trincea la croce insanguinata, come ingrassano i corvi a la Canea di carne battezzata! Domani impiccheranno. Intanto i morti marciscon senza tomba... Eppure io non negavo il beccamorti e mi chiamavan Bomba!» Così ben dici, o vecchio Re, contento di questi tuoi nepoti, oggi birri del turco e, al buon momento, birri dei sacerdoti. Ben dici e sfreni con superba gioia il riso alto e sonoro, tu che, regnando con la forca e il boia, fosti miglior di loro. Ma questo almen ti affligga e dei ferini gaudi il tripudio arresti, che tra i bombardatori e gli assassini non c'è chi tu vorresti. Vedi? Quando le navi alzan la gala, manca la tua bandiera, e il tricolor che sventolò a Marsala non guida più la schiera; nè tra gli squilli che, salendo in alto, vibrano in ciel sublimi, s'ode la tromba che suonò all'assalto sotto Calatafimi. Memori ancora de la nostra istoria, del Gianicolo in vetta, cinta d'un trionfal nimbo di gloria, vediamo un'ombra eretta che, su la cima quirinal lontana figgendo le pupille, chiede: «Potresti ereditar Mentana e mitragliare i Mille?» 425 PRESAGIO L'ala molle del vento increspa l'onda, bacia e fa susurrar le selve al monte ed al signor che della messe bionda gode, accarezza la giuliva fronte; ma nella pace del seren profonda s'alza una nuvoletta all'orizzonte e quella nube, piccola e leggera, prima dell'annottar sarà bufera! PRIMO MAGGIO ... proximis idibus senties. CIC. Catil. I. Passano lenti. Un lampeggiar febbrile arde a ciascuno il ciglio. Passan solenni e da le dense file non si leva un bisbiglio. Toccandosi le mani ognun di loro cerca il vicin chi sia. Se i calli suoi non vi segnò il lavoro, quella è una man di spia. Sotto l'aspra fatica e il reo destino molti già son caduti, molti il carcer ne tiene od il confino, e pur sono cresciuti. Striscia il gran serpe de la folla oscura de i ricchi su le porte. Dentro, ne lo stupor de la paura, si ragiona di morte. Intanto il passo de la muta schiera allontanar si sente e nel silenzio de la fosca sera spegnersi lentamente. Ecco allora Epulon, vinto il terrore, socchiude l'uscio e guata e dice: «lode a Cristo ed al Questore, anche questa è passata!» *** È passata, ma invan te ne compiaci ne l'allegre parole, son gli antichi rancor troppo tenaci per tramontar col sole. Nel ferreo pugno non hai più la plebe che serva un dì schernivi: germina l'odio da le pingui glebe che mieti e non coltivi. Ne le officine fumiganti e nere 427 contro te si cospira: sotto la casa tua, ne le miniere, pronta a lo scoppio è l'ira e mal ti gioverà crescer guardiani a le porte sbarrate; l'armi, custodi del tuo aver, domani da chi saran portate? Chi ti difenderà domani, quando le turbe mal nutrite assedieranno le tue case, urlando «è il primo maggio: aprite»? Oh, ben gli sguardi noi tendiam levati a l'avvenir fecondo e tu chini la fronte! I tuoi peccati hanno stancato il mondo. SCIOPERO IN RISAIA Sull'argine fangoso e desolato, sotto il ciel che s'oscura, come ingiunto gli fu veglia il soldato e guarda la pianura. Non un canto lontan, non un susurro dai muti casolari; non un allegro fil di fumo azzurro s'alza dai focolari. Sol di bimbi affamati un gemer lento sembra morir lontano.... La fame, la miseria e lo spavento pesan sul triste piano! Pensa il soldato: – «Ahimè, lacrime umane, » noi vi freniam con l'armi! » Oggi, se a casa mia non c'è più pane » ci saranno i gendarmi!» 429 QVANDO IL PREFETTO DEL RE E IL SINDACO DEL COMVNE RENDEVANO OMAGGIO A SVA EMINENZA REVERENDISSIMA DOMENICO SVAMPA PRETE CARDINALE DEL TITOLO DI SANT'ONOFRIO ED ARCIVESCOVO DI BOLOGNA QVESTO CARME BENE AVGVRANTE FV DEDICATO Signor, poi che ti sta supplice ai piedi questa Felsina tua che un dì sdegnosa bacio di prete sofferir non volle, costei che, infranto il trono in cui tu siedi, cercando libertà tinse gioiosa del suo sangue miglior l'itale zolle, absolvi or la pentita e le concedi l'amplesso del perdono dimenticando dell'error l'audacia. Sii generoso e buono con chi come a Signor, la man ti bacia, e poi che piango ravveduto anch'io, misericorde ascolta il canto mio. Un tempo, e ben lo sai, morta di fame, schiava del tuo stranier temprò la plebe ceppi a sè stessa su la propria incude: pe' sacerdoti tuoi le turbe grame reser feconde le sudate glebe e sul solco natìo caddero ignude ai campi della Chiesa util letame; ma un Dio consolatore da' sacri templi a lor dicea: «Soffrite, turbe nate al dolore e che felici nel dolor morite, poi che v'aspetta in ciel di Dio il sorriso e sol de' tribolati è il paradiso». Dolci tempi, o Signor, ma triste il giorno in cui la libertà disse il suo nome la prima volta nella rea Parigi, poi che le turbe allor volsero intorno torbido l'occhio e scossero le some brandendo l'armi ad operar prodigi di che all'anime pie duro è il ritorno. Germogli del mal seme crebbe il tristo terren le idee novelle! Compresso indarno, freme tra i nuovi ceppi il popolo ribelle e poi che in cor gli agonizzò la fede non più la libertà, ma il pan ci chiede. E grida: «Senza gioia e senza luce, martiri del lavoro e degli stenti moriamo e il pane ancor ci si rifiuta. Aprimmo il solco e non per noi produce, altri ha le lane e noi guardiam gli armenti, altri ha la messe e noi l'abbiam mietuta. Nuovo un tiranno i servi suoi riduce a maledir la vita e, come bruti a litigar le ghiande, ci calca inferocita la gente nuova che facemmo grande, ma lieto il dì della riscossa arriva: corriamo all'armi e la giustizia viva!» Deh! soccorri, o Signor! Più non ci giova rinnovar le catene ed i tormenti o sfrenar birri alle cercate stragi. Troncata l'idra i capi suoi rinnova e i pubblicani ed i giudei dolenti tremano su gli scrigni e nei palagi dove il tripudio del goder si prova. La turba macilente accorre e di morir non ha paura poi che, soffrendo, sente che a lei la vita e non la morte è dura... Deh, Signor, ci soccorri e se al desio mancan le Guardie, ci difenda Iddio! E se il tuo Dio ci costa, a noi che importa quando i ribelli al timor suo riduce e delle turbe ci ridà il governo; quando agli eletti suoi l'ausilio porta, quando tra i volghi creduli conduce l'util minaccia ed il terror d'inferno ed ha il demonio pauroso a scorta? Ben venga Iddio se reca fede agli umili, securtà ai possenti, l'obbedienza cieca, il catechismo, i preti, i sacramenti, de' frati tuoi la sacrosanta loia, il Sant'Ufficio, la mordacchia e il boia. Ben vedi che timor, non cortesia, i magistrati nostri a' piè ti caccia inginocchiati a far debita ammenda. Ieri nemici, ognun di lor fuggìa 431 fino il pretesto di guardarti in faccia, ma la tema del poi gli animi emenda ed eccoli a gridar Gesù e Maria. Reca dunque, o Levita, benedetti dal ciel giorni soavi alla città pentita, al Senator che te ne dà le chiavi; stringi la briglia nella man paterna e questo popol tuo reggi e governa. Canzon, vanne alla sede del Pastor cui fu pòrto omaggio di paura e non di fede. Egli è saggio ed accorto e se ben tu lo guardi gli leggerai sul viso: «È troppo tardi!» PER UN GIORNALE CHE S'INTITOLAVA DA TITO LIVIO CIANCHETTINI MATTOIDE PERIPATETICO MORTO MISERO E LIBERO I. Vecchio, lacero, scalzo e rassegnato all'ingiurie del vento e della piova, dell'umana follìa misera prova, l'antico tribolar t'ha consumato. Nella nebbia dei sogni hai brancolato come fa l'ebbro, che il cammin non trova, inseguendo un'idea malcerta e nuova tortura e strazio al tuo pensier malato. Ludibrio de' pasciuti, ogni amarezza soffristi lungo la dolente via, senza un'ora di pace o di dolcezza. Lieve la poca terra ora ti sia dove riposi!... Dell'altrui saggezza era forse miglior la tua pazzia. 433 II. E tu pure una madre, o poveretto, avesti un dì che ti cullò cantando, che ti amò, che sperò, beata quando sorrider ti vedea sovra il suo petto. Povera madre! e t'abbracciava stretto, del torbido avvenir forse tremando; poi, moribonda, il viso tuo cercando, dal profondo del cor t'ha benedetto. Ben fortunata se nel suo materno sogno non divinò l'orror del vero e della vita tua tutto l'inferno, nè ti vide morir nel vitupero, nè ti seppe scagliato, ultimo scherno, nella fogna di tutti al cimitero! III. O Padre, ed anche a noi punse la mente la pazzia della stampa e del giornale, che se fortuna il nostro mal consente, anche noi moriremo all'ospedale. Per ciò l'imagin tua grama e dolente sempre negli occhi abbian, viva e vitale, povero stolto, povero innocente, che il ben cercavi e non facesti il male. Ah, negli oscuri dì vegliaci accanto come padre fedel, tu che soffrivi serenamente la miseria e il pianto, e il tuo lungo martirio in noi ravvivi, più luminoso e manifesto, il santo sogno di libertà per cui morivi! 435 A GIUSEPPE MAZZINI NELL'ANNIVERSARIO DELLA SUA MORTE Quando venivi, Apostolo sereno, a predicar la libertà nel mondo, pochi, alla Fede che ti ardeva in seno, aprivan docilmente il cor profondo. Fuggiva il ricco e, di paura pieno, s'ascondeva smarrito e tremebondo, mentre i re col capestro e col veleno t'inseguivan proscritto e vagabondo. Ora tu dormi e schizzan dal covaccio i conigli, giurando in sacramento d'averti dato, con la mente, il braccio; e poichè i morti non fan più spavento, la stessa man che t'apprestava il laccio porrà la prima pietra al monumento. PROCESSO CELEBRE Nel tanfo denso della sala e nella puzza che il caldo fuor dai corpi caccia, un branco d'avvocati alza le braccia e rece a gara la plebea favella. «Asino, camorrista, pulcinella,» urlano e sputa l'uno all'altro in faccia, mentre serpeggia intorno la minaccia della mafia che insidia ed accoltella. O Giustizia, sei qui? Lordi tu il piede calcando questo fango avvelenato che di menzogna vaporar si vede? O Giustizia, sei qui? Tace il Giurato, ma nel secreto suo pensier si chiede se ti ricordi più dell'ammazzato! 437 NATALE AL TRANSVAAL MCMI Un clamor d'ululati e di lamenti lungo nell'ombra sale e quel clamor per te – Britannia senti? – è il canto di Natale. Il canto dice: «Il sol mai non tramonta sul tuo impero, Inghilterra, e l'ugna tua crudel lasciò l'impronta sovra tutta la terra. Seminasti l'inganno e la discordia dove regnar volevi, nè conoscesti mai misericordia se guadagnar potevi. Ora l'Africa strazi e i scellerati campi di morte inventi dove le madri martirizzi e i nati uccidi cogli stenti. Su chi difende la sua terra invochi dal ciel rovina e morte e sterminando i deboli ed i pochi ti vanti d'esser forte! No, la forza non hai di che ti vanti; non hai che la moneta e il colosso sì caro ai tuoi mercanti ha i piè di fragil creta. Roma regnò così. Spiegò l'artiglio al par del tuo possente, ma dalla terra al ciel fumò vermiglio troppo sangue innocente, e vinta ed arsa, delle colpe orrende pagò nel sangue il fio. Piomba sovra colui che men l'attende la collera di Dio! Sia maledetto chi per primo ha tolto fuor dalla terra l'oro e chi primo la decima ha raccolto sopra l'altrui lavoro. Maledetto chi opprime e chi tormenta le creature umane e schernisce il meschin che si lamenta e gli rifiuta il pane. Maledetta la madre – e mai sorrida il figlio a lei sul petto – che ti sa crudelmente infanticida e non t'ha maledetto!...» O avara e rea Cartagine moderna, ascolta come sale nell'ombra, verso la Giustizia eterna, il canto di Natale! 439 NON IO I. Mi chiede la pagina bianca: perchè, sciagurato, non scrivi e i versi di cui mi fiorivi racchiudi nell'anima stanca? Riprendi coraggio, rinfranca la fiamma dei versi giulivi: ritorna nel mondo dei vivi che ai forti l'applauso non manca! Ed io sonnolento rispondo: Io vissi. De' morti nel regno riposo in un sonno profondo. Tu d'arte mi parli e d'ingegno ed io per l'applauso del mondo non ho che il fastidio e lo sdegno. II. Ah! l'arte! Ne' chiusi salotti lusinga le dame annoiate, abbrevia le lunghe giornate e il sonno concilia alle notti; o tenta gl'ignavi e i corrotti coi canti e le danze sfacciate, o chiede alle tazze vuotate il lercio profluvio dei motti. La disser già pura e modesta, ricinta di candide bende il vergine seno e la testa, e invece del ricco che spende rallegra le pompe e la festa... Ah, l'arte si compra e si vende. 441 III. Nel grigio tramonto il villano con l'impeto cieco del bruto incombe sul vomere acuto e squarcia i maggesi del piano. Vedrà biondeggianti di grano i campi che ignudi ha veduto, ma indarno! Sul solco mietuto ben altri distese la mano! Ah, i vinti! Parlate con loro dell'arte che i cieli spalanca tessendo ghirlande d'alloro! Non io. Qui, dinanzi alla stanca mia man che rifiuta il lavoro, rimanga la pagina bianca. HUNYADI JANOS Alla memoria del Signore ANDREA SAXLEHNER. Non più anelanti a i pascoli latini le barbare cavalle Attila caccia rivisse il fior de gl'itali giardini su la sua traccia. Tacque indarno il deserto e crebbe l'erba dove l'alta Aquilea fumando giacque; da le feconde ceneri superba Venezia nacque. Il Danubio lavò le curve spade grondanti di gentil sangue romano, ma di quel sangue mai goccia non cade versata invano, e con le stille che tingevan l'onde de 'l pescoso Tibisco e de la Drava di Roma il fato a fecondar le sponde barbare andava, e di messi la steppa e di vitigni rise, ed a 'l sol che civiltà conduce i biechi de i mongòli occhi sanguigni vider la luce; nè più l'Europa giudicò minaccia ma baluardo de' magiàri il petto, quando il Corvino alzò la spada in faccia a Maometto; nè più imprecò il latino in val di Pado a i varchi onde calò di Dio il flagello, ma l'unno che morì sotto Belgrado disse fratello. Oh, benedetto il suol che trepidava sotto il galoppo de la santa schiera se il vincitor Giovanni alto levava la sua bandiera! Oh, benedetto il suol che de la buona ausonia civiltà reca le impronte se de l'Unnìade in nome a noi sprigiona 443 salubre un fonte ne 'l cui salso licor Natura mise le virtù sue più santamente buone, se più genti salvò che non ne uccise Napoleone. Canti a gli sciocchi gli epinìci suoi chi l'umile bontà sprezza e deride e novera tra i grandi e tra gli eroi solo chi uccide: dica l'alta epopea le stragi orrende, le città divampanti e combattute; modesto io canterò l'acqua che rende vita e salute. Altri faccia sonar strofe ammirande, ch'io dirò sottovoce il canto umìle e il cantor degli eroi sarà più grande, io più civile. AURORA Muore l'antico mondo e pur l'invade la ferocia d'un tempo e ancor minaccia. Ardono i fuochi e a fucinar le spade mancano ormai le braccia, e i tardi vecchi, cui negli occhi ladri rosseggia un lampo di pensier cruenti, tolgon per forza ai baci delle madri i giovani fiorenti; segnan le schiere e dicon loro: «Andate! Vil chi piangendo volge indietro il viso! Dateci sangue e vivi non tornate se non avete ucciso». Ma tra le schiere un fremito si sente, un susurrar che cresce ad ora ad ora. Tutti appuntan lo sguardo all'orïente verso una nova aurora, e aspettano così l'astro fatale che le tenebre alfin farà sparire; aspettan rutilante e trïonfale il sol dell'avvenire! 445 FINE Son la fontana che nasce sui monti limpida e gaia tra i sassi sonanti, fresco ristoro di greggi vaganti, vergine ancora di mura e di ponti e che, ingrossata da torbide fonti, bagna e feconda le valli aspettanti, poi, ferma in larghe paludi stagnanti, vapora febbri nei grigi tramonti; indi travolta a città pestilenti, livida inghiotte le salme dei vinti e scalza e scuote le reggie possenti, finchè, gli spazi del mare raggiunti, tra i flutti eterni dal vento sospinti si perde e gode l'oblio dei defunti.