Le Rime di Lorenzo Stecchetti

Transcript

Le Rime di Lorenzo Stecchetti
Progetto Iperteca – Provincia di Napoli
“Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve
Contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado vedo venire.”
Memorie di Adriano
Olindo Guerrini
Le Rime di Lorenzo Stecchetti
Si ringrazia l’Associazione Liberliber dal cui sito: www.liberliber.it questo testo è stato prelevato
" il sapere condiviso è una utopia possibile"
TITOLO: Le Rime di Lorenzo Stecchetti
AUTORE: Guerrini, Olindo
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA:
Le rime di Lorenzo Stecchetti. - Bologna : Zanichelli, stampa 1964.
- XXIII, 630 p. ; 21 cm.
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 15 maggio 2008
INDICE DI AFFIDABILITA':
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Catia Righi, [email protected]
REVISIONE:
Paolo Alberti, [email protected]
PUBBLICATO DA:
Claudio Paganelli, [email protected]
Le Rime
di Lorenzo Stecchetti
Zanichelli editore Bologna
INDICE DELLE POESIE
INDICE DELLE POESIE
SALUTO
FAC-SIMILE
I.
AL LETTORE
POSTVMA
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
Poveri versi miei gettati al vento
Natalizio
Era una notte come questa e il vento
Primavera, che tu sia maledetta!
Medio Evo
Vieni, Nerina! Siediti
E pur mi sento nel cervello anch'io
Ben ritornato, carneval giocondo;
Come il ricordo vago e mal distinto
No, non chiamarmi giovane
Nel sonno mio credei di rivederla
Io morirò, chè la fatal mia sera
Quando nacque Gesù dal sen fecondo
Quando cadran le foglie e tu verrai
Noia
Nella capanna in fondo al mio cortile
Ebbro
Io non voglio saper quel che ci sia
Questa notte allungai la passeggiata
Quando tu sarai vecchia e leggerai
Caffè concerto
Ci siamo amati in faccia al sol raggiante
I filosofi salariati
In morte di un molto reverendo strozzino
Quando scesi di botte al Vaticano
Lazzaro
Nell'aria della sera umida e molle
Domani ella verrà! – Domani è certo
Magre virtù che vi scandolezzate
La guardi – mi diceva il sagrestano –
Conosco un vagabondo
Sozzo di fango come un animale
Penelope sei tu che il ciglio china
Questa notte in battello, in alto mare
3
XXXV
XXXVI
XXXVII
XXXVIII
XXXIX
XL
XLI
XLII
XLIII
XLIV
XLV
XLVI
XLVII
XLVIII
XLIX
L
LI
LII
LIII
LIV
LV
LVI
LVII
LVIII
LIX
LX
LXI
LXII
LXIII
LXIV
LXV
LXVI
LXVII
LXVIII
LXIX
LXX
LXXI
LXXII
LXXIII
LXXIV
LXXV
LXXVI
LXXVII
LXXVIII
LXXIX
LXXX
LXXXI
LXXXII
LXXXIII
LXXXIV
Quando nell'ombra de' tuoi negri occhioni
A Venezia
Conosci tu il paese
Memorie bolognesi
Ira
Il canto dell'odio
Scritto sopra un sasso
Nozze
S'io fossi ricco, d'oro e di gioielli
Quando, al fuggir della stagion nevosa
Nozze
Il guado
Spes, ultima dea
Quando schizzan le sorche innamorate
A Carolina
Noi sentiamo il furor delle baccanti
Brindisi
Ella dicea: tu non sei mai giocondo
Emma, ti lascio a tavola
Forse una volta al tuo balcon seduta
Memento
Caro fior di gaggia, dove sei nato?
Ad una giovinetta cieca
Ci si sta tanto bene accanto al fuoco
Le tue carezze le conosco io solo
Chi potesse ridir quanto l'amai
T'ho fatto il precettore
Neerland
Era d'inverno, tardi, e sedevamo
Dopo le nozze
Restituendo un riccio di capelli biondi
La grigia nebbia di novembre ammanta
«Per amor di Dio»
Quando scroscia la piova e fischia il vento
O fiorellin di siepe all'ombra nato
A Raffaele Belluzzi
Gretchen
Un organetto suona per la via
Ad un poeta
Resurrexit
Mendica
Ad Emma
Io mi volli levar dal reo letame
Il Castello di Polenta
Voce da una tomba sulla via Appia
Fuori di porta
Io piangeva ai suoi piedi e le chiedea
Dove sei, dove sei tu che m'hai detto
Donna, vorrei morir, ma confortato
Preghiera della sera
LXXXV
October
II.
AD OTTO HOFFMEISTER
PROLOGO
POLEMICA
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI
XXXVII
Ed anche a me da l'innocente cuna
Idealisti saggi, ho molto amato
Il nome di Maria
A Giosuè Carducci
Apostata, marrano e rinnegato
A Felice Cavallotti
Se nasco un'altra volta a questo mondo
Quando vedrai cader le foglie morte
Giovannin Bongèe e detti
L'idea pura
A certi farisei
Alla musa
Wiener Blut
Per nozze
No, sgualdrina non è perchè ricusa
In musica
In mare
Candide tortorelle innamorate
O bianche nubi che ne '1 ciel turchino
Clam
Esser donna vorrei, gobba, schifosa
Là su, là su dove salir non anche
A i poeti pinzocheri
Proposta (di A. Guerrieri Gonzaga)
Risposta
Iustitia
A Ugo Bassini
Alle ostriche
All'albergo
Nell'album della baronessa C. Gravina
Palinodia
L'Annunciazione
Poveri uccelli, che al giardin volate
Presto il giorno verrà che per le strade
Cambia la moda
Dies irae
Congedo
III.
ADJECTA
5
I. LIBER CAIAPHAS
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI
XXXVII
XXXVIII
XXXIX
XL
XLI
XLII
XLIII
Ahimè!
Benedicimus te
Caiaphas
1900
Festeggiandosi la Vergine di S. Luca
Sermone di Natale
Epifania
Due voci
Alla città di Fermo
Chi sa perchè?
Vissute invano
Per laurea
Egoismo
Rime
Le ballate del processo
Fu vero?
Tra una udienza e l'altra
Per un «numero unico»
Anniversario
Mentre tuona
De re rvstica
Predica
Meditazione
Fidentiana
Pellegrini
Ciarle
Dal vero
De profundis
XX Settembre
Festa degli alberi
Svb sydera poli
Paretaio cruschevole
Legenda trium sociorum
Leggendo un'enciclica
Divorzio
Elegia
Elezioni
Serenata elettorale
Pei liberali pentiti
Pei liberali ripentiti
Pei liberali pentitissimi
La goccia
Via Crucis
II. INTERLUDIUM
I
II
Il mio ritratto
Dicembre
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI
XXVII
XXXVIII
XXXIX
XL
XLI
XLII
XLIII
XLIV
XLV
XLVI
XLVII
XLVIII
XLIX
L
LI
LII
Anno nuovo
Meridies
Partenza
Ai colleghi
Natale di bimbi
Natale di vecchi
Veglia romantica
A certi giornalisti pudicissimi
Ronzio d'insetti
Ruth
Sogni
Tristia
Attesa
Novembre
Lettura serale
Al veglione
Neve
Trittico
Non domandate mai
Serenata
Destino
Nord
Notte
Avventura
Al cospetto delle genti
Per sempre
Mammona
Post prandium
Perchè
In memoria di Cesare Dalla Noce
Disse...
Morbvs
Visione
L'idillio d'Orlando
Presso Tivoli
Dies
Nox
Nel mille
Nel settecento
Apennino
Adriatico
Parole
Musica
Saffo: a Venere genitrice
Scrive donna Elvira
Fantasia egiziana
Iris Florentina Linn
Lavda nouissima de la stella chometa
Altra serenata
Via Æmilia
7
LIII
LIV
LV
LVI
LVII
LVIII
LIX
LX
LXI
LXII
LXIII
LXIV
LXV
LXVI
LXVII
LXVIII
LXIX
LXX
LXXI
LXXII
LXXIII
LXXIV
LXXV
LXXVI
LXXVII
LXXVIII
LXXIX
Le ballate dell'Autunno
I sonetti
Studentesse
Nel 54° anniversario della mia venuta al mondo
Romanze
Allora ed ora
In memoria
Giovedì grasso
Sole d'inverno
Pedalando
Di nuovo in bicicletta
In bicicletta ancora
Canta Madonna e si dispera
?
Vita
Parabola
Amore
Et in terra pax!
Natale in città
Nevica!
Romanza
Finis asini…
Ora triste
Testamento
Novembre ancora
Il mio cuore
Requie
III. CIVILIA
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
Tra due secoli
1897
Alla bandiera
Memento!
Pace!
In morte di Manlio Garibaldi
Per un'amnistia
Banca Romana
Il fico disse – Biondo al mar correva
Da capo
Notte d'autunno
Boxers
Anarchico
Resurrexit
III Novembre
Affrica – Mentre partono
In anticamera
Alpini
Ultime notizie
Alle madri
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI
XXXVII
XXXVIII
XXXIX
XL
XLI
XLII
XLIII
Agli eroissimi
Ai reduci dallo Scioa
Arri!
4 Ottobre 1899 in Palermo
Quando si disse «non se ne parli più»
Quando l'amico mio Felice Cavallotti fu scannato
Primo anniversario della morte di Felice Cavallotti
Secondo anniversario della morte di Felice Cavallotti
Ancora?
Per le cannonate italiane alla Canea
Due ombre
Presagio
Primo Maggio
Sciopero in risaia
A S. R. Domenico Svampa
A Tito Livio Cianchettini
A Giuseppe Mazzini
Processo celebre
Natale al Transvaal
Non io
Hunyadi Jànos
Aurora
Fine
9
SALUTO
Lascio stampare questo volume di rime senza correggere le vecchie, benchè ne vegga le grinze e non
mi sfugga la reazione cristiana che, velata di impalpabilità liliali, vuol ridurci ad una rinuncia buddistica e
rassegnata, cui la vita sembri ignobile e la verità immorale. Nè avrei faticato molto ad aristocratizzarle facendole men piene, od a rammodernarle diluendo il colore sino alle nebulosità del simbolo; ma avrei mentito a me stesso e debbono rimanere così, perchè così furono sentite da me e, al tempo loro, non sgradite a
tutti; anzi, o m'illudo, aiutarono già a vincere qualche pregiudizio o inconsapevole ipocrisia di forma, asserendo che non è da schivare la schiettezza, sebben cruda, della parola o della frase là dove si voglia dire e
rappresentare la verità. E se questo fu, anche in piccola parte, mi basta per esser contento di me e del libro.
Nè i versi aggiunti son meno sinceri dei primi. Indifferente al biasimo ed alla lode per una impassibilità forse morbosa ma non orgogliosa, pei migliori di me ebbi rispetto sempre, amicizia spesso, invidia mai.
Scrissi come dettò il breve ingegno quel ch'io credetti verità, sincero anche quando fui o parvi traviato.
Ed ora, giunto oramai dove dovrò fermarmi, guardo serenamente la via percorsa e saluto i giovani
che mi seguono nel tempo e mi sorpassano nell'arte. Giovani, a voi! Non sdegnate di raccogliere questa
bandiera ch'io credetti di verità nello scrivere, di libertà e di giustizia nel vivere. Raccoglietela da queste
povere mani, stanche ma fedeli, deboli ma non vili, e portatela voi, migliore e più bella, in alto in alto, nella
radiosa gloria dell'avvenire!
Addio!
Marzo 1903.
OLINDO GUERRINI
I.
AL LETTORE
A me che pongo il mio nome sotto queste poche righe d'introduzione come ad uno de' più intimi amici
dell'autore ed a lui congiunto per sangue; a me che più di tutti fui a parte delle sue gioie e de' suoi dolori, è
toccato il triste incarico di tesserne la biografia. Non abuserò certo della pazienza di chi legge, tanto più che
le vicende del mio povero amico non offrono nulla di così straordinario da tentare il narratore od il lettore.
La sua storia è tutta in quattro parole: morì a trent'anni.
Lorenzo Stecchetti mio cugino (le nostre madri furono sorelle) nacque il 4 ottobre 1845 in Fiumana,
piccolo comune del Forlivese, che giace in una di quelle fertili valli cui sovrastano i primi contrafforti dell'Appennino e precisamente nel villino chiamato Casella. Di famiglia non ricca ma agiata, nel 1847 gli mancò il padre, nel 1850 la madre, e mio padre assunse la tutela dell'orfano. Fu educato nel Collegio Municipale
di Ravenna, quindi, dopo il 1859, nel Nazionale di Torino Ne uscì nel 1863, e compì gli studi in quel Liceo
Cavour, allora del Carmine, per venire finalmente nel 1865 ad intraprendere il corso di Giurisprudenza in
questa Università di Bologna. La nostra conoscenza, che non aveva altro legame se non le poche e quasi dimenticate memorie dell'infanzia, si riannodò qui a Bologna tanto da divenire vera ed intima amicizia. Qui vivemmo dal 1865 al 1868 la vita lieta e spensierata dello studente, meno nei pochi mesi del 1866 nei quali altri doveri ci chiamarono; e qui egli dimenticava troppo spesso il codice per Byron, Heine e De Musset, che
egli chiamava la sua Trinità.
Dopo la laurea rimase a Bologna. In una notte d'inverno del 1870, che non saprei precisare (era carnevale), nella sua cameretta in via Zamboni, egli mi leggeva qualcuno dei canti che ora si trovano in questa
raccolta, e, poichè io lo confortavo a pubblicarli, mi rispose scherzando che il farlo sarebbe stata mia cura
quando egli fosse morto. Pur troppo lo scherzo divenne profezia. In quello stesso inverno sputò sangue.
Lo sapemmo tardi perchè in principio egli nascose quasi con pudore la sua malattia, ma pur lo sapemmo, e noi tutti che lo amavamo fummo ben dolorosamente sorpresi. Egli no; e quando gliene parlai per la
prima volta, sorrise amaramente dicendo: – Tanto a che servivo io? Meglio così. – Era già rassegnato.
Cosa strana per un tisico, egli non ebbe mai illusioni sul proprio stato. Continuò tuttavia il suo solito
metodo di vita ed agli estranei non parve mutato nè al fisico nè al morale. Solo diventò meno gaio. Alle volte
interrompeva a mezzo il riso incominciato e diventava improvvisamente serio. Molte cose che prima amava
con tutto l'ardore della sua bella giovinezza, gli divennero indifferenti. Anche l'anima si ammalava.
Viaggiò. Gli avevano prescritto il clima di Napoli, ultimo rimedio che si consiglia ai disperati per tisi,
a fine di prolungar loro l'agonia. E questa agonia fu per lui orribile, straziante. Non si potranno mai dire le
profonde disperazioni di un'anima che a poco a poco si sente mancar tutto d'intorno. Ed egli che non sperava,
cercava d'illudersi, voleva far credere a sè stesso di sperare ancora. Scriveva ad una donna:
Mi si spezza la testa. Io son malato
E la febbre mi brucia entro le vene.
Sono debole, giallo, dimagrato,
Ma quando penso a te mi sento bene.
Ma quando penso a te cessa il dolore
E la speranza mi ritorna in core.
Per non soffrir così vorrei morire,
Ma quando penso a te voglio guarire.1
1 Taccio per ragioni troppo facili a capirsi, tutto ciò che riguarda ad amori del povero defunto. Del resto il lettore ne troverà molte tracce in questo libro. I versi qui sopra citati furono scritti sul dorso di un biglietto da visita ed inviati da Napoli ad una
persona che ce li volle gentilmente favorire con altre cose pubblicate in questa raccolta. L'autore diceva di non aver tempo di esser
poeta e non aveva alcuna stima dei propri lavori che gettava qua e là sopra foglietti volanti che durammo molta fatica a riunire.
Così il sonetto – Forse una volta, ecc. – fu scritto col lapis sulla balaustrata di una villa nei dintorni di Bologna. La persona cui era
11
Ma anche la speranza era fuggita.
Questa crudele agonia si prolungò per molto tempo con una lunga vicenda di miglioramenti e di peggioramenti. Pareva che la morte, condannandolo a questo lento martirio, gli dicesse come Vitellio alle sue
vittime: voglio che tu senta di morire.
In una sua breve dimora in Bologna prese parte ad una lotta personale che ebbe luogo nei fogli pubblici. Assunse in quell'occasione il pseudonimo shakespeariano di Mercutio e combattè colla penna audacemente, sì che quel pseudonimo non è forse dimenticato in Bologna, ed abbiamo creduto bene di trovargli posto sul frontispizio di questo canzoniere. Ci asteniamo però dal riprodurre i versi amari che l'autore scrisse in
quei giorni: prima perchè di argomento troppo municipale, poi perchè la persona contro la quale erano diretti
ha pagato in ben altra guisa, i suoi debiti colla società.
Finite queste lotte, finì anche l'energia momentanea che lo aveva sostenuto, peggiorò, e dovette cercare
aure più miti. Finalmente, sul finire del 1875, lo vedemmo improvvisamente ricomparire a Bologna, bianco,
macilento, curvo come un vecchio; gli occhi soli erano vivi. Non ascoltò gli amici che lo pregavano di ritornare a Napoli od a Pisa, e volle inesorabilmente ritornare ai suoi monti, dove l'inverno incrudeliva. Io ho
sempre pensato che avesse deciso di finirla una volta.
Il 2 febbraio 1876 mi giunse un telegramma che diceva – Vieni a vedermi morire – Renzo. –
Il giorno dopo partii e lo trovai in letto alle prese colla morte. Il freddo era acuto ed il suo triste paesello coperto di neve, velato di nebbia.
Quando entrai non disse altro che – grazie. – Mi aspettava e mi tese la mano umida ed agghiacciata,
dove non erano più che le ossa e la pelle.
La notte lo vegliai io, seduto al suo scrittoio, frugando fra le sue carte, povere foglie cadute da una
pianta moribonda prima di portare i suoi frutti. Che cuore fu il mio, povero amico, leggendo i tuoi canti d'amore vicino al tuo letto di morte!
Venne il giorno e la morte si avvicinava a gran passi. Il parroco faceva uffici per salire ad esercitare il
suo ministero. Ne parlai al moribondo: rispose, no.
Verso il mezzodì la sua voce sfinita e fioca era ridotta ad un soffio, tanto che per udire le sue rare parole dovevo chinarmi sopra di lui, quasi coll'orecchio sulle labbra. Fece aprire la finestra per vedere il sole,
quest'ultimo desiderio dei moribondi: ma il sole non c'era.
Alle due pomeridiane mi prese per mano. A poco a poco le forze lo abbandonarono. Intesi la parola
fine, poi più nulla.
È sepolto nel cimitero del suo paese sotto al quinto cipresso a sinistra di chi entra. La pietra funeraria
non porta che i nomi e le date. I suoi averi li lasciò tutti alla beneficenza.
Non ci dissimuliamo che questi versi escono alla luce in un'epoca poco propizia. L'individualismo ha
fatto ormai una virtù dell'egoismo. Per questo nessuno bada a ciò che pensa o soffre il suo vicino e la massima ognuno per sè e Dio per tutti è diventata il canone della vita sociale. Le gioie e i dolori del poeta non ci
riguardano più, non ci commuovono, spesso anche ci fanno ridere scetticamente. Questo pensiero ci ha spesso tormentato nell'attendere alla pubblicazione dei canti del nostro povero amico; ma tuttavia ci sorrise la
speranza che il libro potesse pure incontrare qualche anima aduggiata dall'egoismo; ci sorrise la speranza che
un nome a noi caro fosse pure imparato a conoscere da qualcheduno, che il nome dell'amico nostro non passasse ignoto sulla terra. Ci siamo ingannati?
Sperando che no, abbandoniamo il libro alle tempeste della pubblicità. Potremo aver errato credendo
questi canti non indegni di essere conosciuti; ma se l'affetto che portammo all'autore ci fece velo agli occhi,
voglia il lettore perdonarci, e quell'affetto stesso ci valga di scusa. Se errore c'è, è tutto nostro, e per nostro lo
accettiamo.
Bologna, 8 febbraio 1877.
DOTT. OLINDO GUERRINI
diretto lo trascrisse, lo conservò e ce ne diede copia.
POSTVMA
13
I.
Poveri versi miei gettati al vento,
Della mia gioventù memorie liete,
Rime d'ira, di gioia e di lamento,
Povere rime mie, che diverrete?
Ahi fuggite, fuggite il mondo intento
A flagellar chi non l'amò: premete
L'inculto sì ma non bugiardo accento,
Conscie dell'amor mio, rime discrete.
E se la donna mia ritroverete
Per cui le angoscie della morte io sento,
Voi che il segreto del mio cor sapete,
Voi testimoni del perir mio lento,
Quanto, quanto l'amai voi le direte,
Poveri versi miei gettati al vento.
II.
NATALIZIO
.....Così nel mondo
Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce
PETRARCA.
Triste chi errando in quella notte cieca
Col terror dell'ignoto alle calcagna
Per queste selve, udì strider la bieca
Voce del gufo ed ulular la cagna.
Tutti i fantasmi che la notte arreca
Sceser qui tutti, e dalla sua montagna
Solo il cupo ladron che al giorno impreca
Non calò quella notte alla campagna.
Come nembo di furie agitatrici
De' satanici amplessi al rito immondo
Sceser le streghe dalle lor pendici.
Triste colui che in quel terror profondo
Trasse della sua vita i primi auspici!
In quella notte io son venuto al mondo.
15
III.
Era una notte come questa e il vento
Scuoteva urlando la mia porta invano:
Lunga come un lamento
Mezzanotte battea lontan lontano,
Cadea la pioggia a rivi
Dalle gronde sonore e tu partivi.
Tu partivi per sempre ed io sul letto,
Col viso in giù, la còltrice mordea:
Mi strideva nel petto
Il singhiozzo del pianto e non piangea.
Così tu m'hai lasciato
E il bacio dell'addio non me l'hai dato.
Da quella notte non t'ho più veduta
E più nulla di te non seppi mai.
Forse tu sei caduta
Nel vitupero ed aspettando stai,
Seduta sulla porta,
Chi compri il bacio tuo; forse sei morta.
Forse, e questo pensier più mi tormenta,
Non ti ricordi più del tuo passato,
E godendo contenta
La casta pace d'un imen beato,
Baci col labbro pio
I figli d'un amor che non fu il mio.
Nel tempo anch'io sperai che pur conforta,
Che spegne pure ogni dolor più greve.
Ti volli creder morta
Perchè scordarsi degli estinti è lieve,
E dissi al cor mio gramo,
Dissi all'anima mia: dimentichiamo.
Invan. Da quella notte io porto in core
Come una piaga che guarir non vuole;
Chiuso nel mio dolore
Odio la terra, maledico il sole,
Maledico la vita,
Perchè non spero più; tu sei partita.
E partita per sempre! e pur se sento
La piova ancor che dalle gronde scroscia
E a mezza notte il vento
Sonar come un lontano urlo d'angoscia,
Dal mio guanciale il volto
Levo e le voci della notte ascolto.
Così mal desto le tue bianche forme,
Velate come in sogno, io veggo in mente:
Tace per poco e dorme
Il tarlo roditor che lentamente
La mia vita divora,
E mi par quasi d'aspettarti ancora.
Può la mente scordar tutto un passato,
Ma la mia carne non li scorda mai
I baci che m'hai dato,
I misteri d'amor che t'insegnai,
Le notti mie più liete,
E le tue voluttà le più segrete.
Ahi, ma dal mio sopor tosto destato,
L'atroce verità riveggo intera!
Ignudo e forsennato
Levo le braccia nella notte nera
E sulla coltre sola
Spasimo e il pianto mi s'annoda in gola.
Pianger non posso. Maledetto Iddio,
Se favola non è come l'amore,
Egli che il pianto mio
Come una pietra mi saldò nel core,
Egli che ci ha diviso
E che il pianto mi nega e il tuo sorriso!
Oh, se pianger la morte mi facesse,
Se una lagrima sola, un'ora sola
De' gaudi tuoi mi desse,
Ricada sovra me la mia parola
Se la casa di grida
Non risonasse già pel suicida!
17
IV.
Maudit printemps reviendras-tu toujours?
BÉRANGER
Primavera, che tu sia maledetta!
Chè fra i rami de' tigli io la vedea
Allor che sola al suo balcon sedea
L'inverno a far l'amore e la calzetta.
Baciandoci cogli occhi, alla vedetta
Sempre stavamo il dì, nè fronda rea
L'innocente baciar ci contendea...
Già il difetto del tempo è la gran fretta!
E il mal tornato sole ora discioglie
L'amica neve e i tigli alla leggiera
Aura del novo april metton le foglie.
Un fitto vel di fronde, una severa
Siepe di rami i baci suoi mi toglie.
Che tu sia maledetta, primavera!
V.
MEDIO EVO
Eran folte le tenebre
Ed ogni cosa nel castel tacea,
Ma il biondo paggio in carcere,
Solo col suo dolor, così piangea:
«Ahi, troppo in alto, misero,
Ho la speranza e l'amor mio levato!
Amai del re la figlia
E vivo in questo avel m'han sotterrato.
«Oh, se una sola lacrima
Io le fossi costato, un sol pensiero,
Questo sepolcro squallido
Io non lo muterei con un impero!»
Quando una bianca immagine
Improvvisa comparve in sulla porta
E trepidando il giovane
Le domandò: — «Chi sei, povera morta?» —
«Morta non son – gli mormora
La parvenza gentil – guardami, tocca!...
Non sai? Le scolte dormono:
Son la figlia del re: baciami in bocca».
19
VI.
Si fractus illabatur orbis
Impavidum ferient ruinae.
HORAT.
Vieni Nerina! Siediti
Lieta sui miei ginocchi
E ti scintilli cupida
La voluttà negli occhi;
Vieni, ed il collo cingimi
Con le soavi braccia,
Io nel tuo sen che palpita
Nasconderò la faccia.
Squarci la terra i fumidi
Visceri suoi profondi,
Crollino i cieli e riedano
Infranti al nulla i mondi,
A me non cal! Se il roseo
Labbro sul labbro mio
Serri, Nerina, impavido
Sfido la morte e Dio.
VII.
E pur mi sento nel cervello anch'io
Qualche cosa che vive e che lavora,
E pur quest'aura che il mio volto sfiora
L'alito par dell'agitante Iddio!
Talor cedendo a' sogni miei m'avvio
Pe' floridi sentier che il mondo ignora;
Salgono i canti alle mie labbra allora
E spero e credo nell'ingegno mio.
Ma quando il dubbio mi risveglia, quando
Via per la nebbia del mattin tranquille
Sfuman le larve che seguii sognando,
Colle man mi fo velo alle pupille
E mi guardo nel core e mi domando:
Sono un poeta o sono un imbecille?
21
VIII.
Ben ritornato, carneval giocondo;
Eccomi serio: ecco ripiglio, o mondo,
La maschera bugiarda.
Oh, non tradire il mio dolor segreto,
Pallido aspetto mio! Mostrati lieto,
Chè la folla ti guarda.
Nelle feste giulive ognun m'addita
E dice: vedi un cor che non ha vita!
Guarda un uom senza fede!
Ed io sorrido fra la turba sciocca,
Ho la morte nel core e il riso in bocca,
Ma il cor nessun lo vede.
Oh, se sapeste ciò che si nasconde
Sotto al mio lieto viso e che profonde,
Sanguinanti ferite
M'han lacerato il core, oh se sapeste
Tutto il martirio mio, voi torcereste
Le pupille atterrite!
E tu, ribelle cor, perchè al villano
I muscoli robusti, il sangue sano
E l'ignoranza invidi?
Eccoti danze, fior, chiome fluenti,
Candidi petti, voluttà cocenti...
Ridi una volta... ridi!
IX.
Come il ricordo vago e mal distinto
D'una speranza giovanil caduta,
Come il ricordo d'un affetto estinto
Nel mio vano sognar tu sei venuta.
E m'hai messo nel sangue un novo istinto
Che scalda il cor tediato e lo trasmuta;
Sul mio cammin la speme hai risospinto,
La tentatrice ch'io credei perduta.
L'anima mia così lascia la stolta
Piuma dove ingrassò ne' sonni tardi
E attenta il suono de' tuoi passi ascolta.
Lasciar per te potrebbe i suoi codardi
Ozi ed amar la vita un'altra volta,
Ma tu le passi accanto e non la guardi.
23
X.
No, non chiamarmi giovane
Perchè i capelli miei son lunghi e biondi
E le mie guancie floride
Di molli carni e di color giocondi.
Son come il frutto fradicio
Dentro e che serba il suo color di fuora.
Donna, ti sembro giovane
E sono un morto che cammina ancora.
Chiusa per sempre ho l'anima
Alle dolci lusinghe ed ai conforti.
Donna, non mi sorridere;
Donna, non mi tentar; rispetta i morti.
XI.
Nel sonno mio credei di rivederla
Angel di paradiso
Coll'ali del color di madreperla
Sfiorarmi il viso.
Era bianco vestita, e il crin disciolto
Scendea sino ai ginocchi:
Luce d'amor piovea dal suo bel volto,
Piovea dagli occhi.
Ahi, ma quando un sorriso errar le vidi
Sulle labbra frementi,
Dissi: imago gentil, se mi sorridi,
O sogno, o menti!
25
XII.
Io morirò, che la fatal mia sera
Volando giunge e il tempo non s'arresta
E già la tomba spalancata e nera
A divorar la carne mia s'appresta.
Quando tutto ritorna a primavera
Io sol non tornerò. Sulla mia testa,
Dalla materia mia già tanto altera
La maggiorana crescerà modesta.
Là vieni, o donna: il tuo fedel t'invita.
Là sulla tomba mia cògli commossa
L'erba che amavi dal mio cor nudrita.
Oh non negarle un bacio, e liete l'ossa,
Come a' tuoi baci già soleano in vita,
Fremeranno d'amor dentro la fossa.
XIII.
I. Soulary.
Quando nacque Gesù dal sen fecondo
Della vergine ebrea, l'orrida vesta
Scosse l'inverno e rinverdì giocondo
E Betlemme adorò di Dio la gesta.
Sorse un inno d'amor dal ciel profondo,
Iddio s'unì degli uomini alla festa;
Osanna, ognun gridò, redento è il mondo,
Ma l'asino ed il bue scosser la testa.
L'asino disse: o spalle mie, saprete
A suon di verghe se redente siete
Quando a Gerusalemme il condurrete!
Ed il bue: le mie costole sapranno
Un giorno a Cana se redente l'hanno
Quando in bistecche me le mangeranno!
27
XIV.
Quando cadran le foglie e tu verrai
A cercar la mia croce in camposanto,
In un cantuccio la ritroverai
E molti fior le saran nati accanto.
Cògli allora pe' tuoi biondi capelli
I fiori nati dal mio cor. Son quelli
I canti che pensai ma che non scrissi,
Le parole d'amor che non ti dissi.
XV.
NOIA
Aria ferma e corrotta, acque stagnanti,
Biscie, zanzare e rane,
Sabbie senza confin, corvi vaganti,
Donne brutte e villane,
Gente ignorante gialla e discortese:
Ecco questo paese.
Sbadigliando languir solo soletto
Lunghi tediosi giorni,
Dormire e ricader disteso in letto
Finchè il sonno ritorni,
Sentir la mente e il core in etisia,
Ecco la vita mia.
È la vita che move il tenerume
Del polipo natante;
È il vegetar del verro entro al pattume
Del brago ributtante;
Un medico direbbe: è un caso bello
D'atrofia di cervello.
E pur così sempre non vissi, e torna
Il mio pensiero ai lieti,
Ai cari monti che la vite adorna,
Ai tranquilli oliveti,
All'innocente riso, alla gaiezza
Della mia fanciullezza.
Odorati rosai, dov'è rivolta
Ogni speranza mia,
Dove il mio core amò la prima volta
E che l'estrema fia,
Questo vi giunga almen lontano addio,
Rosai dell'amor mio!
Ahi trascinando nella pigra noia
Questa vita inamena,
Vie più m'è duro il rimembrar la gioia
Spensierata e serena
Che non curante delibai nel fiore
Del mio tempo migliore!
O mia Venezia! Allor non conoscea
Questi tedi mortali
Quand'io soletto in gondola correa
29
La notte i tuoi canali,
Da' miei sogni cullato e dalla bruna
Onda della laguna!
E mirando nell'acqua il tremolio
De' pallidi lampioni,
E tendendo l'orecchio al mormorio
Di lontane canzoni,
Io gustavo l'arcana ed infinita
Voluttà della vita.
O Napoli! O Palermo! O rimembranza
De' miei cari vent'anni,
O larve liete della mia speranza
Di cui piango gl'inganni.
Deh, perchè tormentar quest'agonia
Che fortuna m'invia?
Lasciate consumar stupidamente
L'ozioso viver mio
Tanto ch'io possa addormentar la mente
Nel tedio e nell'oblio:
Così riposerò notti tranquille,
Così morrò imbecille.
S. MARIA DEL SALICE (Maremma toscana)
La notte dal 4 al 5 aprile 1870.
XVI.
Nella capanna in fondo al mio cortile
Il luppolo alle canne s'attorciglia;
Nell'aria fresca c'è un odor gentile,
Odor di gelsomino e di vainiglia.
Un'Ebe quasi nuda, alta e sottile,
Sorride e spia con le marmoree ciglia
De' palombi gli amor sotto al sedile:
E il vento del mattin passa e bisbiglia.
Bisbiglia e narra di lontane aiuole
Gli amor lontani a un popolo giocondo
Di gerani fiammanti e di vïole.
Quanto amor, quanta gioia in questo mondo
Di pochi passi che si desta al sole!
Oh quanta vita! Ed io son moribondo.
31
XVII.
EBBRO
Noi d'Epicuro i sacerdoti siamo,
Noi la face d'amor lieta rischiara,
Noi l'opulenta mensa abbiam per ara
E i cantici di Bacco al ciel leviamo.
Frine con noi sacerdotessa abbiamo
Che i misteri del Dio calda c'impara,
E di Pafo alla Dea libera e cara
I canti, i baci, i sacrifici diamo.
Noi non abbiam per rito altro che il riso,
E non sognamo il travaglioso acquisto
D'una noia infinita in Paradiso;
Ma l'uggia debelliam del secol tristo
In un femineo sen celando il viso,
Bevendo in fresco e bestemmiando Cristo.
XVIII.
Io non voglio saper quel che ci sia
Sotto la chioma al bacio mio donata
E se nel bianco sen, ragazza mia,
Tu chiuda un cuor di santa o di dannata.
Che cosa importa a me se una bugia
Tra una promessa e l'altra t'è scappata?
Che cosa importa far la notomia
A quell'ora d'amor che tu m'hai data?
Non cercherò se dentro al vin bevuto
Ci fosse qualche droga forestiera:
Il tuo vino era buono e m'è piaciuto.
Io non voglio saper quanto sei casta,
Ci amammo veramente un'ora intera,
Fummo felici quasi un giorno e basta.
33
XIX.
Goethe.
Questa notte allungai la passeggiata
Sino al balcon della fanciulla mia
E vidi un'ombra bianca ed agitata
Accennar di lassù verso la via.
Un brivido mi corse sotto ai panni:
«È un'ora che ci amiamo e già m'inganni!
«Perchè, perchè questa finzione orrenda?
«Amor mio, che t'ho fatto...?» Era la tenda.
XX.
Quando tu sarai vecchia e leggerai
Questi poveri versi accanto al fuoco
Rivedrai colla mente a poco a poco,
I giorni in che t'amai.
E ti cadrà sul petto il viso smorto,
Per la memoria del tuo tempo lieto:
A me ripenserai nel tuo secreto,
A me che sarò morto.
E ti parrà d'udir la voce mia
Nel vento che di fuor suscita il verno,
E ti parrà d'udir come uno scherno,
Una bieca ironia.
E la voce dirà: — «Te ne rammenti,
Te ne rammenti più? Com'eran belli
I tuoi capelli d'oro, i tuoi capelli
Sul bianco sen fluenti!
Oh come il tempo t'ha mutata! Oh come
T'ha impresso in viso i suoi deformi segni!
Dove son dunque i tuoi superbi sdegni
E le tue bionde chiome?
Sola al tuo focolar siedi piangendo
La giovanil tua morta leggiadria:
Io piango solo nella tomba mia:
Vieni dunque: t'attendo!
Vieni e se in vita mi fallì la speme
Di viver teco i giorni miei sereni,
Ci sposeremo nella tomba. Vieni:
Vi marciremo insieme». —
35
XXI.
CAFFÈ CONCERTO
Non più lo scherno di Prometeo suona
Superbo in faccia al Dio che lo percuote;
Non più sfregia i codardi in sulle gote
Il verso che flagella e non perdona:
Non più, terror di regi, Eschilo tuona
Dalla libera scena e il ferro scuote;
Dormono l'ossa del tragedo ignote
Lungi dal verde pian di Maratona.
Ma Taide mima a sazïar la fame
Tenta le reni de' moderni ciacchi
Levando il piede nella danza infame;
Ma noi giacciamo, nauseati e stracchi
Senza un affetto in cor, sul reo letame
Di questa sozza età. Noi siam vigliacchi.
XXII.
Ci siamo amati in faccia al sol raggiante
Nel giugno azzurro tra le spiche bionde:
Quelle quercie laggiù steser le fronde
Sopra le audacie tue, gentil baccante.
Le parole più dolci e le più sante
Ce le dicemmo tutte, e le gioconde
Arti di voluttà ch'altri nasconde
Noi le mostrammo tutte al dì fiammante.
Ma l'autunno tornò, ma in largo stuolo
Tornano i corvi, ed alle selve usate,
Dove salimmo insiem, ritorno solo:
Ma dal vento d'ottobre assiderate
Cadon le foglie delle quercie al suolo...
Ahi, l'amor tuo durò quanto l'estate!
37
XXIII.
I FILOSOFI SALARIATI2
Or non più tra le rabbie e le contese
Povera e nuda va filosofia,
Ma fa la ruota a scuola e per la via,
Tira la paga e noi facciam le spese.
Se regnano la forca e il crimenlese
Di San Tomaso fa l'apologia,
Se torna in alto la democrazia
Inneggia alla repubblica francese.
Ah, panciuta camorra di ruffiani
Che della verità strame vi fate.
Ogni giorno che splende ha il suo domani!
A rivederci, maschere pagate,
A rivederci, illustri mangiapani,
A rivederci sulle barricate!
2 Vedi Les Philosophes salariés, vecchio pamphlet del compianto senatore Giuseppe Ferrari, dalla cui lettura questo sonetto fu ispirato. Ciò per tranquillizzare i filosofi che potrebbero credersi feriti, e poi perchè è la verità.
O. G.
XXIV.
IN MORTE
DI UN MOLTO REVERENDO STROZZINO
Curia romana non petit ovem sine lana;
Dantes exaudit: non dantibus ostia claudit.
Antico distico leonino.
Intendi tu il lugubre
Lamento de' bronzi
Sì dolce agli ipocriti
Sì bello pe' gonzi?
Il tempio rigurgita
De' colli più torti
Che lieti borbottano
La prece dei morti.
Requiescant in pace,
Requiescant in pace.
Imploran que' cantici
La pace al banchiere
Che pria d'esser nobile
Barò al tavoliere.
Non dice l'epigrafe
Le infamie sepolte,
Ma è noto che in Svizzera
Scappò sette volte.
Requiescant in pace,
Requiescant in pace.
Rubando al postribolo,
Rubando al convento,
Prestando al suo prossimo
Al cento per cento,
Sul ricco e sul povero
Stendendo la mano
In barba al decalogo
Morì da cristiano.
Requiescant in pace,
Requiescant in pace.
Ed ora chinandosi
In umile aspetto
I preti gorgogliano
Battendosi il petto:
«Gesù, ricevetelo
«Nel coro de' santi;
«Gli eredi ci pagano
39
«A pronti contanti!
Requiescant in pace,
Requiescant in pace.
«Pagare! all'intendere
«Quest'aurea parola
«Il core ci palpita
«Di sotto alla stola!
«A noi, ricchi e poveri,
«La borsa recate;
«Sta scritto ne' Canoni
«Pagate, pagate!
Requiescant in pace,
Requiescant in pace.
« Di preci e di lagrime
«Il ciel non si appaga,
«Ma il sommo pontefice
«Assolve chi paga.
«È ver che gli apostoli
«Sprezzavano l'oro;
«È ver, ma tenevano
«La serva costoro?
Requiescant in pace,
Requiescant in pace.
«De' cieli alla gloria
«Volete il diritto?
«Pagate, cattolici,
«Pagate l'affitto!
«È forza che l'anime
«Passando Acheronte
«Ammansin coll'obolo
«Chi fa da Caronte.
Requiescant in pace,
Requiescant in pace.
«Venite, la celebre
«La santa Bottega
«A prezzi di fabbrica
«Vi scioglie, vi lega,
«Fa spaccio di meriti,
«Cancella peccati...
«Venite! I solvibili
«Saranno beati!»
Requiescant in pace,
Requiescant in pace.
XXV.
Quando scesi di botte al Vaticano
Lo svizzero di guardia raffreddato
Sternutiva in un modo così strano
Che dissi – piove! – e mi tirai da un lato.
Egli intese e muggì – Mein herr taliano,
Da che paese star ti capitato?
Io pronto replicai: Son di Milano:
E lei, di grazia, in che cantone è nato?
Lo svizzero levò le man pelose,
M'afferrò, mi sbattè contro al portone,
Ed arrotando i denti mi rispose:
– Ti, puzzurre, star nato in un cantone
Ma mia città star crande e star craziose:
Sso, Ffrascatano, sso, prute pufone!
41
XXVI.
LAZZARO
I. Soulary.
I sozzi lini dal sepolcro scossi,
Ancor mal desto Lazzaro piangea
E il cupo Rabbi dai capelli rossi
Dell'osanna volgar si compiacea.
– In che peccai che sì punito io fossi?
Il risorto discepolo dicea:
– In che dunque peccai che tu m'addossi
Tutte le colpe della gente ebrea?
Mi dovevi salvar quand'io moria,
Ed al sepolcro la mia carne hai tolta
Or che nel suo dormir più non soffria.
E tu, Rabbi che amai, perchè la stolta
Turba in te riconosca il suo Messia,
Mi condanni a morire un'altra volta! –
XXVII.
Nell'aria della sera umida e molle
Era l'acuto odor de' campi arati
E noi salimmo insiem su questo colle
Mentre il grillo stridea laggiù nei prati.
L'occhio tuo di colomba era levato
Quasi muta preghiera al ciel stellato;
Ed io che intesi quel che non dicevi
M'innamorai di te perchè tacevi.
43
XXVIII.
P. Coppée.
Domani ella verrà! – Domani è certo
Che il tempo mi parrà lungo, mortale,
Quando commenterò sull'uscio aperto
Ogni passo che suoni in sulle scale.
Verrà! Verrà! Ma perchè dunque incerto
Palpito e tremo come un collegiale?
Ah, purchè tutto non sia già scoperto!
Purchè la mamma non sospetti il male!
Dentro una voce sussurrarmi sento:
Verrà... doman verrà! Chi più l'aspetta
Lo ritrova più dolce il gran momento!
Come calda sarà la prima stretta
Della sua man tremante e lo spavento
De' primi baci dietro alla veletta!3
3 Veramente sull'ultima parola di questo sonetto nell'originale è una cancellatura; ma nessuna parola fu sostituita. Sappiamo bene che veletta nel senso di piccolo velo e specialmente di quello che portano le donne sul cappellino, non è voce ortodossa,
anzi gallicismo atroce, ma non oseremmo mettere le mani in roba d'altri. Chi in queste cose soffre il solletico, chiuda gli occhi e
immagini una filza di puntini. O. G.
XXIX.
Magre virtù che vi scandolezzate
Se una donnina mostra un po' le spalle,
Verginità feroci e stagionate
Dai denti lunghi e dalle labbra gialle,
Chiudete la finestra e non guardate
In questa nostra lacrymarum valle,
Tornan col maggio alle nequizie usate
I fior, gl'innamorati e le farfalle.
Chiudete gli occhi! Tornano ai capelli
Delle fanciulle i fior, tornano al prato
Fino l'agne di Cristo a far gli agnelli.
Chiudete il libro mio scomunicato
Che vi potrebbe dir come son belli
Maggio, le peccatrici ed il peccato.
45
XXX.
La guardi – mi diceva il sagrestano –
La guardi un poco qui questa pianeta
Con questi sbuffi di velluto in seta,
Se son cose da semplice piovano!
Ma che le pare! Un parroco, un cristiano
Lisciarsi a mattutino ed a compieta
Colla delicatezza d'un poeta
Quando il papa è prigione in Vaticano!
Un anno fa ci venne un monsignore,
Un personaggio illustre, un letterato
Che scrive appunto nell'Osservatore.
Quello sapeva andar come va andato!
Era tutt'unto, povero signore,
E intabaccato, veda, intabaccato!!...
XXXI.
Conosco un vagabondo
De' più straordinari
Che sciupa i suoi denari
Senza un costrutto al mondo.
Disutilaccio e tondo
Viaggiando senz'affari,
Ozia in tutti i più vari
Siti del mappamondo.
Certe lingue di fuoco
Che nel mese passato
Lo chiamavan dappoco,
Ora l'han battezzato...
Indovinate un poco?
Francobollo di Stato!
47
XXXII.
Sozzo di fango come un animale,
Poco vestito come un africano,
Incontrai di Ripetta in sulle scale
Il padre Tebro con un piego in mano,
E gli gridai: – Ma che pazzia t'assale
Così col fresco, gran fiume romano,
D'andare a zonzo per la capitale
Con questi calzoncini di pantano? –
Nella sua bianca barba d'eremita
In tono d'ironia ghignò il vecchione,
E mi rispose: – O che? non l'ha capita?
Col biglietto che vuol l'educazione
Porto l'augurio d'una lunga vita
A quei signori della Commissione. –
1 gennaio 1874.
XXXIII.
Penelope sei tu che il ciglio china
Ma che non china il viso intemerato,
Che la calunnia, i proci ed il peccato
Sfida colla virtù quasi divina.
Te delle amiche tue fin la caina
Lingua e l'invido dente han rispettato.
Tu non sembri di carne. Iddio t'ha dato
La sacra maestà d'una regina.
La veste meno che il pudor ti vela
Quando superba nelle danze vai,
Ed un tuo sguardo il desiderio gela.
Penelope sei tu, che tesser sai
A mezzogiorno la tua bianca tela
E meco a mezzanotte la disfai.
49
XXXIV.
Questa notte in battello, in alto mare
Del mondo ci eravam dimenticati:
Ci dicevamo le parole care
Che san soltanto dir gl'innamorati.
E sentivam la voluttà cullare
I lieti sogni, i sogni nostri usati,
Ed alle labbra su dal cor montare
Quei discorsi d'amor che son peccati.
Quand'ella tacque da un pensier colpita
E dall'omero mio la testa bionda
Improvvisa levò come atterrita,
E colla faccia stranamente fissa,
Nella notturna tenebra profonda,
Taci – mi sussurrò – laggiù c'è Lissa.
Rimini, luglio 1869.
XXXV.
Quando nell'ombra de' tuoi neri occhioni
Improvvise balenano e procaci
Le cupidigie che arrossendo taci
E mi tenti e mi sgridi e mi perdoni;
Quando, fingendo di negar, mi sproni
Co' tuoi sorrisi alle carezze audaci
Ed alle mie lascivie ed a' miei baci
L'umida bocca e l'anima abbandoni;
Quando a' ginocchi delirar mi vedi,
E il silenzio ci avvolge e il dì s'invola
E non contendi più, ma sol concedi;
Oh, se d'amore eterno una parola
M'esce dal labbro allor, credila, credi,
Poichè s'ama così una volta sola.
51
XXXVI.
A VENEZIA
Sei pur bella, Venezia, in mezzo all'onde
Specchio tranquillo ai monumenti alteri!
Sei pur bella, canzon de' gondolieri,
Cui dal Lido muggendo il mar risponde!
Amo, Venezia, le tue vie gioconde,
Già testimoni dei domati imperi,
Amo i palagi tuoi superbi e neri
E le tue donne dalle treccie bionde.
V'amo, templi ove splende ogni tesoro
E d'arti e di memorie, ove Tiziano
Pingea fanciulle dai capelli d'oro.
V'amo, trofei rapiti al mussulmano
Di Candia e di Morea: v'amo e v'adoro,
Sogliole fritte e vin di Conegliano.
XXXVII.
Kennst du das Land...?
GOETHE.
Conosci tu il paese
Dove non s'è mortali,
Dove alla fin del mese
Non scadon le cambiali?
Quell'Eden ben pasciuto
Pieno di facce grasse
Che non han mai veduto
L'agente delle tasse?
Conosci tu il paese
Che non conosce i preti,
Le bettole, le chiese,
Le ciarle dei poeti?
Dove non c'è soldati,
Dove non c'è catene,
Dove gl'innamorati
Si voglion sempre bene?
Ivi nessun ha detto
Che donna dice danno,
Perchè lassù l'affetto
Esse scontar non sanno.
Oh, chi trovar sapesse
Un'anima cortese
Qualunque, che potesse
Mandarti a quel paese!
53
XXXVIII.
MEMORIE BOLOGNESI4
A Giovanni Vigna Dal Ferro.
Vigna, nel mio cortil nereggia un fico
L'albero sarto del gran padre Adamo:
Io pranzo all'ombra de' suoi rami e dico:
– Vecchia Bologna, t'amo!
T'amo, del senno antico antica madre,
E un tesoro d'affetti in cor rinchiudo
Per le tue donne dalle occhiate ladre
Pel tuo gigante nudo.
O San Michele, anch'io ci son passato
Per le tue strade solitarie e belle
E mi scorgeva un luccicar velato
Di lucciole e di stelle,
Nell'ora queta in cui l'odor de' prati
Umido sal da' tuoi valloni foschi,
Nell'ora in cui le serve ed i soldati
Spariscon ne' tuoi boschi.
Sul tuo monte tessei romanzi anch'io,
Profumati di cinnamo e di mirra
E il salario pagai dell'amor mio
Con un bicchier di birra.
Fu all'ombra de' tuoi viali, o San Michele,
Ch'io la trovai la donna del mio core,
La giovinetta che mi fu fedele
Quasi ventiquattr'ore!
Coi gomiti sul ponte ella volgea,
Come una santa, al ciel le luci belle,
Ed io, poichè l'amor già mi tenea,
4 Questa poesia diretta a G. Vigna Dal Ferro, ora nell'America del Nord, è la sola di argomento esclusivamente bolognese che ci permettiamo di inserire in questa raccolta. Ai non bolognesi che non conoscono
il Nettuno del Giambologna che il popolino chiama il gigante ed ignorano le ombre della Villa Reale di San Michele in
Bosco, non sarà inutile dire che Sant'Isaia e Via Toschi sono due strade bolognesi: che il Caffè delle Scienze possedeva una fioraia
arrivata alla celebrità per aver rappresentato la moglie di un Lucumone Etrusco in una mascherata; che in piazza della Pace nei venerdì sera d'estate la banda musicale cittadina rallegrava il numeroso pubblico coi suoi concerti. In quell'epoca fanatizzavano i brani dell'opera I Goti del Gobatti, così ingegnosamente difesi dall'illustre critico Enrico Panzacchi. Quanto al biondo Ottone è un
buon birraio vürtemburghese, biondo così così, poichè l'emistichio è rubato al Carducci, e che vende la birra di Vienna appunto in
piazza della Pace. — Le spiegazioni sono lunghe, ma volendo inserire la poesia già stampata nel giornale bolognese La Patria, allora diretto dal Vigna Dal Ferro, erano troppo necessarie.
O. G.
Chiesi – guarda le stelle? –
Ella chinando gli occhi di colomba,
Gli occhioni di colomba innamorata,
Rispose – no: sto qui a sentir la tromba
Suonar la ritirata. –
Era bionda e pareva un'angioletta,
Una cosa di ciel che non ha nome
E come un casto odor di mammoletta
Uscìa dalle sue chiome.
Io le dissi – fanciulla, Iddio ci sente:
La gran parola in faccia a lui diciamo!
Di', giovinetta bionda ed innocente,
Di', vuoi tu amarmi? Io t'amo. –
Ella rispose – come sei gentile!
Stiamo in Sant'Isaia, numero tale
La porticina in fondo del cortile,
Su due rami di scale. –
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Basta così. – Non posso più badarvi,
Care memorie del mio tempo antico:
Ci leggono le mamme e per velarvi
Dovrei sfogliare il fico.
E tacerei – ma tu, Vigna, mi scrivi:
– Mercutio, a che ti duoli?
Lascia strillare noi bruciati vivi
Da questi atroci soli:
Noi che cuociamo, noi dobbiam strillare
Diventati frittura;
Tu vivi al fresco, in faccia al cielo, al mare,
All'immensa natura! –
Tu dici ben, Giovanni mio, fedele
E poliglotto amico:
Veggo nel glauco mar le bianche vele
Pranzando sotto al fico,
M'allegran gli occhi la marina azzurra
E le campagne opime:
Freddo un ruscel nel bosco mio susurra:
55
La natura è sublime!
Ma questa carne di somaro infame
La pago per vitella,
Questo carton lo pago per salame...
Oh, cara mortadella!
D'acqua e di poesia gonfio il ruscello
Fugge laggiù nei boschi,
Ma il rigagnolo mio com'è più bello
Che passa per via Toschi!
E come cambierei questa ficaia,
Questa vista divina,
Col Caffè delle Scienze e la fioraia
Degli Etruschi regina!
Canta sul fico mio la capinera,
Ma se non ti dispiace
Io preferisco un bel venerdì sera
In piazza della Pace,
Quando Antonelli col cheppì alla sgherra
E lo spadon sui tacchi
Cava gli applausi e i bis di sotto terra
Coi Goti del... Panzacchi.
O bei venerdì sera! Il biondo Ottone
Versa birra gelata,
Gli zerbinotti vanno in processione
Dietro la fidanzata;
E le ragazze van dove c'è chiaro
Per mostrare il vestito
E pescar colle occhiate il pesce raro
Che chiamano marito.
Questa è la poesia, la vita, il moto
Che le mia mente sogna...
È pieno il mio bicchier – senti? – Lo vuoto
Per te, vecchia Bologna!
Per te, Bologna mia! Canti chi vuole
La natura, le pecore, i pastori,
Questo feroce sole
E questo bosco pien di raffreddori.
Venga l'arcadia a strimpellar canzoni
All'infinito mare, al ciel turchino,
Ai naufraghi mosconi
Cascati ad annegar dentro al mio vino.
Io nato ai gaudi del consorzio umano,
Alle battaglie dell'intelligenza,
Del robusto villano
Non invidio le spalle e l'innocenza:
Ma invidio voi che per le arroventate
Vie cittadine a lavorar movete,
Voi che m'invïdiate,
Voi che siete felici e nol sapete.
Non gridate cogli Arcadi e coi preti:
– Lungi dalle città, lungi dal vizio. –
Son ciarle di poeti:
L'innocenza dei campi è un pregiudizio.
Ecco una donna là, sull'erba verde
Laggiù lungo la via che al bosco adduce,
E il suo profil si perde
Sfumato nell'azzurro e nella luce.
Chi sarà? dove va? La chioma bionda
Saettata dal sol da qui si vede:
Ella guata sull'onda,
Guata pei campi, origlia e poi procede.
È la più bella bimba del villaggio,
La più cara di tutte e la conosco;
Perchè questo viaggio?
Che diavol cercherà laggiù nel bosco?
Che si tratti d'amor? No certamente:
Troppo il pudor sul volto suo si vede,
Ella è troppo innocente...
No, no, mi sbaglio!.. Oh Dio, che mai succede?
Esce un uomo dal bosco... è un uom davvero!..
Io che nel fuoco avrei messo la mano!
Madonna, come è nero!
Ah... corpo d'una bomba!... è il cappellano!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Basta, basta così – Non è più al trotto.
È alla carriera che si va – Fermiamo –
E tu mio bel strambotto
Vanne a Bologna e per me dille: – Io t'amo,
T'amo ed affretto il dì del mio ritorno,
57
T'amo, t'adoro, t'idolatro e dico:
S'io ti scordassi un giorno
Ch'io dondoli appiccato a questo fico! –
Falconara, 1874
XXXIX.
IRA
Cieco! e il balen d'un'ironia feroce
Non ti vedea sul viso
E ti chiedevo colle mani in croce
La pietà d'un sorriso.
Come un bambino a te davanti gli occhi
Trepidando chinai,
Come un can flagellato a' tuoi ginocchi,
Vile, mi trascinai;
China l'altera fronte, io t'ho baciato
Il lembo delle vesti,
Ho sofferto l'inferno, ho bestemmiato,
Ho pianto... e tu ridesti.
Mi levo adesso dal codardo oblio,
Le mie catene spezzo,
Mi vergogno di te, dell'amor mio:
Mi levo e ti disprezzo.
Or di', se il vuoi, che per te sola ho pianto,
Vinto, curvato, umíle!
Io, te straziando nell'audace canto,
Dirò quanto sei vile.
59
XL.
IL CANTO DELL'ODIO
Quando tu dormirai dimenticata
Sotto la terra grassa
E la croce di Dio sarà piantata
Ritta sulla tua cassa,
Quando ti coleran marcie le gote
Entro i denti malfermi
E nelle occhiaie tue fetenti e vuote
Brulicheranno i vermi,
Per te quel sonno che per altri è pace
Sarà strazio novello
E un rimorso verrà freddo, tenace,
A morderti il cervello.
Un rimorso acutissimo ed atroce
Verrà nella tua fossa
A dispetto di Dio, della sua croce,
A rosicchiarti l'ossa.
Io sarò quel rimorso. Io te cercando
Entro la notte cupa,
Lamia che fugge il dì, verrò latrando
Come latra una lupa.
Io con quest'ugne scaverò la terra
Per te fatta letame
E il turpe legno schioderò che serra
La tua carogna infame.
Oh, come nel tuo core ancor vermiglio
Sazierò l'odio antico,
Oh, con che gioia affonderò l'artiglio
Nel tuo ventre impudico!
Sul tuo putrido ventre accoccolato
Io poserò in eterno,
Spettro della vendetta e del peccato,
Spavento dell'inferno:
Ed all'orecchio tuo che fu sì bello
Sussurrerò implacato
Detti che bruceranno il tuo cervello
Come un ferro infocato.
Quando tu mi dirai: perchè mi mordi
E di velen m'imbevi?
Io ti risponderò: non ti ricordi
Che bei capelli avevi?
Non ti ricordi dei capelli biondi
Che ti coprian le spalle
E degli occhi nerissimi, profondi,
Pieni di fiamme gialle?...
E delle audacie del tuo busto e della
Opulenza dell'anca?
Non ti ricordi più com'eri bella,
Provocatrice e bianca?
Ma non sei dunque tu che nudo il petto
Agli occhi altrui porgesti
E, spumante Licisca, entro al tuo letto
Passar la via facesti?
Ma non sei tu che agli ebbri ed ai soldati
Spalancasti le braccia,
Che discendesti a baci innominati
E a me ridesti in faccia?
Ed io t'amavo, ed io ti son caduto
Pregando innanzi e, vedi,
Quando tu mi guardavi, avrei voluto
Morir sotto a' tuoi piedi.
Perchè negare – a me che pur t'amavo –
Uno sguardo gentile,
Quando per te mi sarei fatto schiavo,
Mi sarei fatto vile?
Perchè m'hai detto no quando carponi
Misericordia chiesi,
E sulla strada intanto i tuoi lenoni
Aspettavan gl'inglesi?
Hai riso? Senti! Dal sepolcro cavo
Questa tua rea carogna,
Nuda la carne tua che tanto amavo
L'inchiodo sulla gogna,
E son la gogna i versi ov'io ti danno
Al vituperio eterno,
A pene che rimpianger ti faranno
Le pene dell'inferno.
61
Qui rimorir ti faccio, o maledetta,
Piano a colpi di spillo,
E la vergogna tua, la mia vendetta
Tra gli occhi ti sigillo.
XLI.
SCRITTO SOPRA UN SASSO
Voi che salite questo verde monte
E il silenzio cercate
Dov'è più folto il bosco e chiaro il fonte,
Anime innamorate,
Pietà di me! Sul margin della via
Seggo soletto e gramo:
Ahi grave, amanti, è la sventura mia!
Pietà di me! Non amo.
63
XLII.
NOZZE
No, non chinar pensosa
Gli occhi e la fronte onesta;
Ecco la stanza ascosa,
L'ara d'amore è questa.
Qui la ghirlanda posa,
Scingi la bianca vesta,
E sul guancial di sposa
Piega, gentil, la testa.
Apri all'amor le braccia
E gli spaventi insani
Del tuo pudor discaccia;
No, colle bianche mani
Non ti velar la faccia...
Arrossirai domani.
XLIII.
V. Hugo.
S'io fossi ricco, d'oro e di gioielli
Ti vorrei ricoprir da capo a piede:
Se fossi Papa, per quest'occhi belli
In Vatican rinnegherei la fede:
S'io fossi Imperator del mondo intero,
Sol per un bacio tuo darei l'impero:
S'io fossi Dio, con me ti condurrei
Ed in ginocchio in ciel t'adorerei.
65
XLIV.
Quando al fuggir della stagion nevosa
Il verde april saluterai risorto,
Nel tuo giovane cor più rigogliosa
Palpiterà la vita. Io sarò morto.
Amor trascorrerà di cosa in cosa
Fino al fior della tomba ov'ei m'ha scorto:
Dal cor mi crescerà per lui la rosa
Come vivendo il verso mio v'è sorto.
I canti del mio cor li hai colti, è vero,
Ma i fiori, ohimè, non li raccoglierai!
Chi li raccoglie i fiori in cimitero?
Tu di novelli amor lieta, darai
Domani ad altri il bacio ed il pensiero,
E più di me non ti ricorderai.
XLV.
NOZZE
E la rosa dicea: baciami, o sole,
De' tuoi più caldi e più fecondi baci,
Suscita ne 'l mio sen vie piú vivaci
Le fragranze di maggio: io son tua prole.
Fammi la più gentil di queste aiuole
Chè non de le farfalle a le fallaci
Carezze ed a 'l desio de l'api edaci
Primavera mi crebbe: amor mi vuole.
D'una dolce fanciulla io son disio,
Al dì de le sue nozze io son serbata,
E ne la notte estrema al viver mio
Da la sua fronte verginal staccata
Su 'l talamo gentil vittima anch'io,
Con l'innocenza sua morrò beata.
67
XLVI.
IL GUADO
IDILLIO
Fiume che scendi giù dal Bolognese,
Fiume dall'acqua cristallina e cheta,
O caro fiumicel del mio paese,
Tu sol m'hai fatto diventar poeta:
Tra i floridi giuncheti e la cortese
Delle tue fresche rive ombra segreta,
Tra la verdura tua serrata e folta
Ho conosciuto amor la prima volta.
Sovra la sabbia d'or della tua sponda
Con un fruscìo gentil l'acqua fuggiva,
E là dov'è più chiara e men profonda
Noi dovevam passar sull'altra riva.
Ella cantava e la canzon gioconda
Laggiù, laggiù tra i salici moriva:
Ella era bionda, bella ed io l'amavo:
Glielo volevo dire, e non l'osavo.
Stretti, serrati insiem come due sposi
Delle prime carezze all'indomani,
Soli camminavan per misteriosi
Silenzi, all'ombra delle querce immani:
E dalle vesti sue, dagli odorosi
Capegli usciano quei profumi arcani,
Quei profumi di carne e di salute
Che vanno al cor per vie non conosciute.
Al margine del guado alfin venuti
Un pensiero ci colse all'improvviso,
E così ci fermammo irresoluti,
Così tra la vergogna e tra il sorriso.
Eravamo soletti e non veduti
Ed arrossendo ci guardammo in viso;
Con un fruscìo gentil l'acqua fuggiva
E dovevam passar sull'altra riva.
Pur mi feci coraggio e dissi: vieni,
Vieni, ti porterò tra le mie braccia:
Ella disse di sì, rise e i sereni
Occhi mi fisse arditamente in faccia.
Io mi sentii fuggir su per le reni
La voluttà come una lama diaccia;
La lingua ribellossi alla parola
E il cor parea che mi saltasse in gola.
Chinato sopra l'erba io mi scalzai;
Ella avea gli occhi bassi e pur guardava;
La presi in braccio e dentro all'acqua entrai...
Io me la presi in braccio, io che l'amava!
Così la prima volta mi serrai
Forte contro al suo sen che palpitava
Come una colombella spaurita
Palpita nella man che l'ha ghermita.
O bei piedini così ben calzati,
Per non guardarla in viso io vi guardava,
Per non veder quegli occhi spaventati
Dove il sorriso col timor lottava!
Sotto a' miei diti stretti ed agitati
Cedea la carne e il busto scricchiolava
E l'alito gentil del suo sorriso
Caldo e procace mi saliva al viso;
E si serrava al petto mio, mettendo
Ad ogni passo un riso di spavento,
Ed una ciocca di capegli, uscendo
Di mezzo all'altre, m'irritava il mento.
Le vidi in viso balenar fuggendo
Il riflesso dell'acqua, e in quel momento
Divenni forte e non v'ho più guardati,
O bei piedini così ben calzati!
Ebbi il coraggio di guardarla in faccia,
Di guardarla negli occhi e non tremai;
La sua carne fremea tra le mie braccia,
Eravam sulla riva e mi fermai;
E la mal chiusa veste aprìa la traccia
Di candidi misteri e li guardai,
Finchè mi vinse amor... Caddi a ginocchi,
La baciai sulla bocca e chiusi gli occhi.
Che cosa avvenne poi? Vide ed intese
L'acqua del fiume cristallina e cheta,
E tu fiume lo sai del mio paese,
Tu che m'hai fatto diventar poeta;
Lo sanno i tuoi giuncheti e la cortese
Delle tue fresche rive ombra segreta
E la verdura tua serrata e folta
Dove conobbi amor la prima volta.
69
XLVII.
SPES, ULTIMA DEA
Ho detto al core, al mio povero core:
– Perchè questo languor, questo sconforto? –
Ed egli m'ha risposto: – È morto amore! –
Ho detto al core, al mio povero core:
– Perchè dunque sperar se amore è morto?
E m'ha risposto: – Chi non spera, muore. –
XLVIII.
Quando schizzan le sorche innamorate
Dalle tue fogne, o Roma, ed alla smorta
Luce de' tuoi fanali, in sulla porta
Pipan le cortigiane inverniciate,
E giù per le straduccie addormentate
Urlano gli ubrïachi e nella morta
Nebbia che il sacro fiume al Ghetto porta
Fermentan le immondizie accumulate:
Memorie di grandezza e di spavento,
Moli di gloria e di vergogna piene,
Io vi passo vicino e non vi sento.
Altro amor che di voi m'arde le vene!
Collatino non c'è, Bruto è contento
E Lucrezia m'aspetta e mi vuol bene.
71
XLIX.
A CAROLINA
Ah, vile! vile! Il tuo sereno riso,
L'onesto detto, il verecondo viso,
Furon dunque menzogna!
Nè t'acciecò la disperata fame,
Nè d'un amante la lusinga infame
Ti spinse alla vergogna,
Quando la prima volta al bacio osceno
Nudo porgesti il giovanil tuo seno
E la guancia rosata,
Quando la veste verginal scingesti
Sulle coltri del ricco e ti facesti
Cortigiana sfacciata!
Ma nel cor basso e nella mente rea
Libidinosa cupidigia ardea
Allor che in orgie liete
Non arrossisti al nome vil di druda
E, calda Frine, spasimasti ignuda
In lascivie secrete!
Strisciati dunque d'una donna ai piedi,
O giovinetto, e delirando chiedi
Baci, carezze, amori;
Piangi, sanguina, impreca e derelitto
Trascinati alla tomba od al delitto:
Ecco l'idol che adori!
Ecco la donna! Il duol tuo disperato
Per lei sarà trionfo e le fia grato
Il rider de' tuoi pianti,
Il novellar dell'amor tuo tradito
Nelle impudiche veglie e nel convito
Tra le tazze spumanti.
Deh, guardate! L'amor che le sfavilla
Nel molle tremolar della pupilla
Ella non l'ha nel core:
I blandi detti suoi sono mendaci,
Il sorriso è bugiardo, i lunghi baci
Non son baci d'amore!
Ecco il pudor vantato, ecco la bella
Modestia femminil che il mondo appella
Alito sovrumano!
O invocata virtù, dove t'ascondi?
Ti chiedemmo all'istoria, al cielo, ai mondi,
Ma ti chiedemmo invano.
Quasi un candido vel tu ci parevi,
Quasi un dolce mistero, e contendevi
Alle mortali brame
Un'incognita Dea; ma ti strappammo,
Ma dietro al bianco vel non ritrovammo
Che una baccante infame.
73
L.
Noi sentiamo il furor delle baccanti,
L'estasi santa degli anacoreti
Siamo i martiri noi, siamo i profeti
Noi che gridiamo al mondo, avanti, avanti!
Parliam coi fiori e colle stelle erranti,
Amor ci disse tutti i suoi segreti:
Solo a noi, nati all'Arte, a noi poeti,
Prorompono dal cor gl'inni sonanti.
O banchieri, o droghieri, a più dannose
Arti lo sprezzo e l'ironia serbate;
Noi non cerchiam le utilità dolose,
Noi non falsiamo i pesi e le derrate.
Che colpa c'è nel preferir le rose
Alle candele, al pepe, alle patate?
LI.
BRINDISI
Minister vetuli puer Falerni
Inger mi calices amariores.
CATULLI. Carm.
— Di lunghi canti la notte suona,
Dal crin mi pende rosea corona
E nel convito tendo il bicchiere...
Servo, da bere!
Folle! d'amore tentai la via,
Amai con tutta l'anima mia,
Per lunghe notti cupo vegliai,
Piansi, pregai...
Folle! Chi brama femineo core
Serrar ne' lacci del vero amore,
Abbia sul labbro lusinghe infami,
Menta e non ami.
Morì la fede, la speme, tutto,
E di me stesso io porto il lutto.
Riposo ai morti... non al bicchiere:
Servo, da bere! —
75
LII.
Ella dicea: tu non sei mai giocondo,
Io non t'ho mai veduto inginocchiato:
Perchè il tuo sguardo par così profondo
E il tuo riso beffardo ed agghiacciato?
Io le dicea: sovra il tuo capo biondo
L'atroce dubbio non ha mai pesato;
Io con questa ironia sorrido al mondo
Da che la prima volta ho dubitato.
Ella dicea: l'anima tua non crede
Al Cristo, al tuo custode angelo pio?
L'occhio della speranza in te non vede?
Io le dicea: tu sei l'angelo mio,
Tu sei la mia speranza e la mia fede:
Parla d'amore e non parlar di Dio.
LIII.
Emma, ti lascio a tavola
Ed io ritorno a casa a prender fiato.
Bevi, bevi a tuo comodo,
Sta tranquilla, chè il conto è già pagato.
Son diventato pallido?
Ci son avvezzo: non è nulla, taci.
M'han guastato lo stomaco
Le polpette dell'oste ed i tuoi baci.
77
LIV.
Forse una volta al tuo balcon seduta,
Delle tremule stelle ai bianchi rai,
Lontan lontano per la notte udrai
Un grido che si spegne e ti saluta:
Qui tra i fior dove prima t'ho veduta
Una lacrima un dì ritroverai,
Ma ti parrà rugiada e coglierai
Pe' tuoi capelli i fior dov'è caduta.
No, rugiada non è che al tremolío
Del sol biancheggia come vivo argento,
Ma le vestigia son del pianto mio;
No, quel grido, non è grido del vento,
Ma son io che mi muoio e che t'invio
L'ultimo bacio e l'ultimo lamento.
LV.
MEMENTO
IN UN ALBUM
Quando lettrice mia, quando vedrai
Impazzir per le strade il carnovale,
Oh non scordarti, non scordarti mai
Che ci son dei morenti all'ospedale!
Quando bella e gentil, tu salirai
Di liete danze alle sonanti sale,
Volgiti indietro e la miseria udrai,
La miseria che piange in sulle scale.
Quando ti riderà negli occhi belli,
Come un raggio di sol giocondo, amore,
Pensa che amor non ride ai poverelli.
Quando ti specchierai, ti dica il core,
Che una perla rapita ai tuoi capelli,
Solo una perla può salvar chi muore.
Carnovale del 1869
79
LVI.
Caro fior di gaggìa, dove sei nato?
Forse nell'orticel d'una beghina
Che la tua piuma d'oro intabaccava
Quando beatamente ti covava
Col naso ogni mattina?
O non piuttosto, di', non sei sbocciato
Sulla finestra della donna mia?
Dimmi, l'alito suo non t'ha sfiorato,
Il suo labbro gentil non t'ha baciato,
Caro fior di gaggìa?
LVII.
AD UNA GIOVINETTA CIECA
Oh, non dolerti, no, bella infelice,
Se veder non t'è dato il nostro mondo.
Così bello non è, così giocondo,
Povera cieca, come il cor ti dice!
Tu la bestialità fornicatrice
Ghignar non vedi agli occhi nostri in fondo.
A te il desìo brutal, l'istinto immondo,
La nostra infamia a te veder non lice.
Scorda i fantasmi che la mente sogna,
E il perduto veder di che ti duole:
La beltà cui tu credi è una menzogna.
Tra l'erba verde e le fiorite aiuole
Trascina il rospo vil la sua vergogna;
Beati gli occhi che son chiusi al sole!
81
LVIII.
Ci si sta tanto bene accanto al fuoco,
In casa mia, coi piè sovr'al tappeto,
Con un libro che sfoglio a poco a poco,
Il caffè sul camino e il polso cheto!
Come nel mio pensier contento evoco
Le fatiche del dì; come ripeto
Basso dentro di me, quasi per gioco:
«Sei pur felice tu nel tuo segreto!»
Egoista! dirai tu che di savi
Sillogismi ti pasci e di fastidi;
Ma mentre tu ti sdrai ne' libri gravi,
Guarda, ridon per me sereni e fidi
Gli occhi dell'amor mio, gli occhi soavi:
Egoista! dirai... ma tu m'invidi.
LIX.
Le tue carezze le conosco io solo
E il tuo guancial per me non ha segreti:
Viviam di notte come il rosignolo
E come lui cantiam sotto i roseti.
Guai se potesse dir quel letticciolo,
Se potessero dir queste pareti
Che baci ardenti come il vetriolo,
Ch'ebbrezze, che follie tu non mi vieti!
Guai se sapesse alcun fino a che cosa
Ti trascina la carne e che certami,
Che strane voluttà tenti furiosa!
E pur tu che mi cerchi e che mi chiami
Sol ch'io ti manchi un'ora, e sei gelosa
E soffri e piangi e bruci, e pur non m'ami!
83
LX.
Chi potesse ridir quanto l'amai
Questa bianca beltà che par di cera,
Questa beltà che non sorride mai,
Che mai non piange e s'abbandona intera!
Quante volte a quest'occhi domandai
Un lampo sol di voluttà sincera,
E quante volte l'anima cercai
Nel bacio suo, ma l'anima non c'era;
E quante volte nel secreto letto
Questo foco fatal che mi divora,
Folle, tentai di suscitarle in petto;
E quante volte del dolor nell'ora,
Quando sanguina il cor, l'ho maledetto
Questo spettro d'amore, e l'amo ancora!
LXI.
T'ho fatto il precettore,
Ragazza, e ne son stanco;
Non t'ha fatta migliore
La scuola e me nemmanco.
Io mi volea l'amore,
Non la lussuria al fianco,
Io ci voleva un core
Sotto al tuo seno bianco;
Ma tu la poesia
La cerchi nei conviti
Grassi alla trattoria.
Dunque finiam le liti:
Scappa, ragazza mia,
Noi non ci siam capiti.
85
LXIII.
NEERLAND
Vorrei stare in Olanda
Ad Harlem, a Nimega od a Groninga,
Perdermi nella pace veneranda
Della vita fiamminga.
Gli aranci m'han seccato,
M'annoiano i gelati e il vin di Chianti;
I giornalisti poi m'han stomacato
E i frati zoccolanti.
Oh, questo sol di brace,
Quest'odio senza fin come mi stanca!
Datemi un po' di nebbia, un po' di pace
E una casetta bianca,
Una casetta, e il mare
Vicino all'uscio e cacio in abbondanza,
Una raccolta di bottiglie rare
E la santa ignoranza.
Oh, come i dì modesti
In quella dormirei pace profonda,
E tu, ragazza mia, come saresti
Grassotta e rubiconda!
Porterei le brachesse
Colla bonarietà d'uno scabino:
Tu m'accompagneresti alla kermesse
In cuffia e gamurrino.
Ivi seduti accanto,
Parleremmo d'amor tranquillamente;
La birra bionda spumerebbe intanto
Nel boccal rilucente.
Tu colla tua gioconda
Voce sussurreresti una ballata,
Io succhierei con maestà profonda
La pipa smisurata.
E in quest'ozio sublime
Tabacco fumerei, non porcheria,
Non il pelo, gli stracci ed il concime
Della nostra Regia.
Là non ci son contese
Di neri, di scarlatti e di turchini:
Là nella sabbia del natio paese
Dormono i contadini.
Là nessun vi domanda
Impieghi, dividendi o beveraggi...
Oh, benedetti della mite Olanda
Pacifici villaggi!
Villaggi fortunati
Che non avete nè carabinieri,
Nè superbia di sindaci avvocati,
Nè preti cavalieri!
87
LXIII.
Era d'inverno, tardi, e sedevamo
Accanto al fuoco, soli, imbarazzati,
E, parlando del tempo, arrossivamo
Come due collegiali innamorati.
Ella chinava gli occhi al suo ricamo,
Verso il soffitto io li tenea levati;
Non si direbbe, eppur ci vedevamo
Meglio che se ci fossimo guardati.
Ed io pensava – Sol per un sorriso
Ti darei dell'ingegno i fior più belli
E il sangue giovanil delle mie vene... –
Quand'ella si levò pallida in viso,
Mi cacciò le due man dentro ai capelli
E – senti – rantolò – ti voglio bene! –
LXIV.
DOPO LE NOZZE
Iam pulcra quidem Diana,
Iam Pleiades occiderunt,
Iam nox media est et hora
Iam praeterit: ipsa vero
Ah! sola cubo misella!
SAPHO: Fragm. apud Ephest.
Dal tuo fiume regal sulla fiorente
Riva natia, te bionda ed innocente
E bella un dì mirai
Seguir bambina le farfalle al volo.
Ed io fanciullo disamato e solo
Quel giorno t'invidiai.
Ma ti rividi. Alle bugiarde feste
Pensierosa salivi e fra le teste
Chinate a te d'intorno
Forse una fronte amica in van cercavi
E libero sol io fra tanti schiavi
Ti compiansi quel giorno.
Quando, invocata dagli amanti, in cielo
Spiega la notte l'ingemmato velo,
Quando per ogni cosa
Un alito d'amor tepido vola,
Nel talamo regal forse tu sola
Piangi, negletta sposa.
Deh, quante volte forse, ignudo il petto,
Tu ti levasti sul tradito letto
E l'orecchio tendendo
Ai notturni rumor – viene! – dicesti
– Ecco il suo passo! – e sola ricadesti
Sull'origlier piangendo!
Deh, quante volte forse alla stagione
In che sboccian le rose, al tuo balcone
Vegliasti palpitando!
E la luna splendea come d'argento
E nella selva sussurrava il vento
Tra le fronde aleggiando.
Teco forse pensavi: – Oh se potessi
Tra l'ombre anch'io vagar di quei recessi
Al braccio d'un amante!
89
Su quei fiori posar, presso quell'onde
E sentirmi baciar le treccie bionde
Da una bocca tremante!
Deh, perchè lieta d'un natal modesto
Disposata non fui lunge da questo
Talamo lacrimato,
Dove ignota è d'amor la gioia pura,
Dove il bacio si pesa e si misura
Colla ragion di stato!
T'amaron tutti un dì, fior del mio nome,
Ma del fiore che ier ci ornò le chiome
Oggi chi si sovviene?
Povero fior che porti il nome mio,
Non senti tu venir l'estate? Anch'io
Sento l'odio che viene. –
Invan piangendo amor che t'abbandona
Sotto il peso fatal della corona
Pieghi la fronte bianca
Qual margherita che nel maggio ardente
China il pallido fior chiuso, morente,
Poichè l'umor gli manca.
A' tuoi servi pietà domandi invano:
Te calunnia ghignando il cortigiano:
Te copre il vil di fango:
Sol io che libertà difendo e bramo,
Sposa e figlia di re t'odio, non t'amo,
Ma donna ti compiango.
LXV.
RESTITUENDO
UN RICCIO DI CAPELLI BIONDI
Questi capelli tuoi ch'oggi ti rendo
Quando dal vecchio scrigno io li levai,
Forse tu non lo credi, io li baciai...
Tu non lo credi, io li baciai piangendo,
Chè l'eco ancor della tua voce intendo
Fremer fra queste mura ove t'amai.
E tu quei dì non li ricordi mai,
I bei dì che vivemmo insiem ridendo?
Tu dicevi d'amarmi e in fe' del vero
Protendevi le palme in faccia a Dio...
Oh, il giuramento tuo com'è sincero!
Ma forse più tu nol ricordi, ed io
Per cancellarlo alfin dal mio pensiero
Bacio questi capelli e te li invio.
91
LXVI.
La grigia nebbia di novembre ammanta
Del paterno villaggio i casolari,
Stridono i tizzi verdi in sugli alari,
Geme il vento di fuori e il corvo canta.
Oggi le donne pie disser la santa
Prece dei morti a piè de' bruni altari,
Ogni pietra, ogni croce oggi è compianta
Dove dormon sepolti i nostri cari.
Ma sono agli altri questi dì men gravi,
Ma lieto il padre narra oggi al figliuolo
Le antiche gioie e le virtù degli avi,
Ma l'amor, la famiglia ad ogni duolo
Recan oggi conforto e più soavi
Sono i sorrisi, i baci... ed io son solo.
LXVII.
'PER AMOR DI DIO'
'Signor la carità per un pezzente!
Veda, ho fame... son nudo!...
Per amor del suo Dio' – 'Non ti do niente!' –
'Per gli occhi del suo amor!' – 'Prendi uno scudo'.
93
LXVIII.
Quando scroscia la piova e fischia il vento
E nella notte latra la tempesta,
Se dal freddo origlier levo la testa
Chiamarmi da lontano un urlo sento;
E sui cubiti allor pien di spavento
Mi levo, ascolto e il respirar s'arresta...
Ahi, la conosco, la conosco questa
Implacabile voce di lamento!
Eppur nella città dorme ogni cosa,
Eppur l'eterno oblio l'ossa conforta
Sotto le pietre bianche alla Certosa.
Sola tu, sola tu, dietro la porta
Del monumento tuo vegli gelosa
E mi chiami e mi vuoi, povera morta.
Bologna, 1872.
LXIX.
O fiorellin di siepe all'ombra nato,
Povero fiorellin non conosciuto,
Tu come l'amor mio sei disgraziato,
Tu come l'amor mio non sei veduto.
Senza un riso di sol morrai serrato
Tra queste spine dove sei cresciuto;
E senza un riso di speranza muore
Ignoto l'amor mio!... povero amore!
Castellamare, 1872.
95
LXX.
A RAFFAELE BELLUZZI
Et rose elle a vécu ce que vivent les roses,
L'espace d'un matin.
Amico mio, fra le viltà pompose
Di questa rea Babel, traggo la vita
Disutile, tediata, imbecillita,
Maledicendo gli uomini e le cose.
Amico mio, se il fato in me ripose
Qualche forza d'ingegno or m'è fuggita;
La giovinezza mia giace sfiorita,
Giace e visse un mattin come le rose.
Invan tu parli a questo cor mio gramo
Chiuso alle gioie ormai, chiuso alle pene:
Non credo più, non spero più, non amo.
E, dolorando, il primo nostro bene,
Amore, amore, ne' miei sogni chiamo...
Guarda! Invece d'amor la morte viene!
Napoli, 1872.
LXXI.
GRETCHEN
MEPHISTOPHELES. – Sie ist gerichtet
STIMME (von oben). – Ist gerettet!
GOETHE. Faust, Erster Theil.
Sull'uscio della chiesa, orrida e nera
Come le streghe che il demonio abbraccia,
Vidi seder nel fango una megera,
Col marchio del bordello impresso in faccia.
Pur tra le grinfe della fattucchiera
D'antichi fasti trasparia la traccia,
Tal ch'io le domandai – Qual sorte fiera
A vender santi qui, vecchia, ti caccia? –
– Fui Margherita – disse – ed a contanti
Ho venduto i miei baci e le scipite
Carezze, dopo Fausto, a mille amanti;
Ma le mie carni all'ospedal marcite
M'hanno ridotta a vender Cristo e i santi
Per comprarmi due soldi d'acquavite. –
97
LXXII.
Un organetto suona per la via,
La mia finestra è aperta e vien la sera,
Sale dai campi alla stanzuccia mia
Un alito gentil di primavera.
Non so perchè mi tremino i ginocchi,
Non so perchè mi salga il pianto agli occhi.
Ecco, io chino la testa in sulla mano,
E penso a te che sei così lontano.
LXXIII.
AD UN POETA
Deh, perchè levi nel tumulto il canto
E sveli disperato il tuo dolor?
Ride il mondo, nol sai? del nostro pianto.
Premi l'angoscia del tradito amor.
Piangi, ma piangi sol nel tuo segreto,
Poichè menzogna è l'amistà quaggiù,
Il nome di fratello è un nome vieto,
Una fola bugiarda è la virtù.
Al tuo martirio cupida e feroce
Questa turba feroce accorrerà;
Ti verranno a veder sulla tua croce
Tutti, e nessuno ti compiangerà.
Oh, menti, menti! Il viso tuo giocondo
Celi, maschera turpe, il tuo soffrir;
La verità non è di questo mondo,
È un imbecille chi non sa mentir!
99
LXXIV.
RESURREXIT
Dall'arida cenere
Rinasce il mio core,
Ritorna la cetera
Ai canti d'amore.
Ai canti che narrano
Le chiome fluenti
Le labbra ridenti
Che il labbro baciò.
Veleggio un oceano
Di luci, di suoni;
Mi fremon nell'anima
Giulive canzoni,
Soavi memorie
D'amplessi, d'amori,
Olezzo di fiori
Che il tempo seccò.
Le turbe mi lancino
Lo scherno crudele,
Il mondo m'abbeveri
D'aceto e di fiele,
La croce m'apprestino,
A me non importa;
La Musa è risorta,
Rinato è l'amor!
Del mondo, degli uomini
Le rabbie non curo,
Io vivo in un aere
Più dolce, più puro:
La bava del rettile
A spegner non vale
La fiamma immortale
Che m'arde nel cor.
Anch'io vana polvere
D'un idolo infranto
Nel dì dell'angoscia
T'ho dato il mio pianto,
T'ho svelto dall'anima,
Tradito amor mio,
T'ho dato l'addio
Che ai morti si dà;
Ed oggi resusciti
Più lieto, più bello:
Ti strappi il sudario,
Infrangi l'avello...
Oh riedano i cantici
Del tempo migliore,
Risorto è l'amore,
Che più non morrà.
Amica, ridonami
L'affetto gentile,
Nel crine t'olezzano
Le rose d'aprile,
Di baci son avide
Le labbra frementi,
Negli occhi lucenti
Scintilla il desir!
Son queste di Venere
Le forme divine,
Son queste le rabide
Carezze di Frine!
Ritornino al talamo,
Ritornin più liete,
Le smanie secrete
Del nostro gioir!
101
LXXV.
MENDICA
Mentre la ricca imbandigion levata
Tranquillo io me ne uscia,
Vidi una fanciulletta inginocchiata
Nel fango della via.
Colla veste cadente a brano a brano,
Pallida e macilente,
Implorava col pianto e colla mano
La pietà della gente.
In grembo le gittai qualche moneta
E dissi: – «o poveretta,
Torna alla madre tua che forse inquieta
Per te piange e t'aspetta».
Tremulo e mesto errar vidi un sorriso
Sulla sua bocca smorta,
E al ciel volgendo lo stremato viso
Disse: – «mia madre è morta».
Disse: – «mia madre è morta: io son digiuna
E la stagione è cruda,
In terra a me non pensa anima alcuna:
Sono orfanella e ignuda».
Io sentii che talvolta ancor bisogna
Pianger dell'infelice,
E innanzi alla miseria ebbi vergogna
D'esser quasi felice.
LXXVI.
AD EMMA
Perchè della tua porta, Emma gentile,
La vergogna mi ferma al limitar?
Perchè sei tanto bella e tanto vile?
Perchè ti bacio e non ti posso amar?
Lieta tu pur m'accogli e ne' giocondi
Occhi di voluttà trema un balen:
Piovon disciolti i tuoi capelli biondi
Sulle giunonie spalle e il nudo sen.
Oh, le lunghe carezze e l'infocate
Strane lascivie tue chi dir le può?
Chi l'ha baciate, di', chi l'ha baciate
Le tue labbra frementi e le scordò?
Oh quante volte stanco io chiusi gli occhi
Poichè la forza al mio desir fallì,
E il capo riposai sui tuoi ginocchi
Desiderando di morir così!
Ma quando sull'aurora una lontana
Squilla di bronzi entrambi ci destò,
Pagai le tue carezze, o cortigiana,
E la vergogna in cor mi ritornò.
Torna, sordida cagna, al tuo covile,
Sotto ai bruti irruenti a spasimar,
Torna all'infamia tua; sei troppo vile,
Sei troppo vile; non ti posso amar!
103
LXXVII.
Io mi volli levar dal reo letame
Dove marcisce la mia gioventù.
Ti sputai sulla faccia un nome infame
E mi giurai di non amarti più.
Ahimè, la primavera oggi è fiorita,
Vibra per l'aer novo un acre odor
Ed un possente palpito di vita
M'agita il sangue e mi fluisce al cor!
Ah, de' tuoi baci e delle tue promesse
Il secreto ricordo ecco m'assal:
Della tua bionda testa ancora impresse
Ecco le forme sovra il mio guancial!
Sento l'anima mia che si ribella,
E le vampe dell'odio in me bruciar;
Io t'odio ancora, ma sei troppo bella,
Io t'odio ancora e non ti so scordar.
Vieni, ritorna e vadano in oblio
La speranza, la gloria e la virtù,
Suggi co' baci tuoi l'ingegno mio:
T'odio, ma torna e non fuggirmi più.
LXXVIII.
IL CASTELLO DI POLENTA
L'aquila di Polenta...
DANTE, Inf. XXVII.
O passeggier che per la via deserta
Affretti il passo,
Leva la fronte tua verso quell'erta,
Guarda quel sasso.
Là sulla vetta nereggiava un giorno
Bieco un castello
Ed il signor de' suoi villani intorno
Facea macello.
Il sangue che versò chiese vendetta
E Dio la fece:
Cadde il castello ed un'umil chiesetta
Surse in sua vece.
Ma il loco è maledetto! I fati avari
Pace n'han tolta;
Regna la strage ancor ne' casolari
Come una volta.
Di sangue il reo baron più non colora
Valli e colline,
Ma il parroco bestial decima ancora
Le contadine.
105
LXXIX.
VOCE
DA UNA TOMBA SULLA VIA APPIA
Populus Romanus... moritur et ridet.
SALVIAN: De Gub. Dei, Lib. VII.
Vissi anch'io che ti parlo e vivo amai
I sorrisi d'amor beati e belli;
Di pampini e di rose inghirlandai
Ne' tripudi di Bacco i miei capelli.
Nè, come suoli tu, solingo errai
Qui nella notte a interrogar gli avelli;
Qui dubitoso e vil non meditai
Biechi misteri alla ragion ribelli.
Il tuo Cristo non m'ebbe e sorridendo
Dissi alla vita che dal cor m'uscìa
L'ultimo vale. Tu morrai piangendo.
Di semprevivi e di malinconia
Galleggia il vostro cemeterio orrendo:
Crescon le rose sulla tomba mia.
LXXX.
FUORI DI PORTA
Glauche le luci, bionde le chiome,
A me davanti lieve passò;
Tutta tremante disse il mio nome
Ed arrossendo mi salutò.
Ebbe negli occhi come un desio,
Un verecondo lampo d'amor...
Oh, dimmi, dimmi, dell'amor mio,
Presago forse parlotti il cor?
De' miei sospiri forse parlotti?
Ti disse il primo de' miei pensier?
Ti disse i sogni delle mie notti,
E i vani amplessi dell'origlier?
Disse che solo, solo una ciocca
De' tuoi capelli vorrei baciar?
Che per un bacio della tua bocca
Potrei la morte lieto sfidar?
Oh, se una voce nel tuo pensiero
Così parlando ti fe' arrossir,
Credilo, bella, ti disse il vero:
T'amo e l'amore non sa mentir.
107
LXXXI.
Io piangeva ai suoi piedi e le chiedea
Pietà, curvato e vinto.
Annodandosi un nastro ella dicea:
– «Mi sta come dipinto». –
Il dì dipoi d'un'altra donna in traccia,
Io correa per la via,
Ed ella mi chiamò, m'aprì le braccia,
M'amò per gelosia.
LXXXII.
Dove sei, dove sei tu che m'hai detto
Che ne' tuoi baci l'anima mi davi
E mi stringevi all'anelante petto
Con parole d'amor così soavi?
Ultima mia speranza, ultimo affetto,
Se volevi mentir, perchè giuravi?
Perchè m'hai preso il cor, perchè m'hai stretto
Nelle lascivie tue se non m'amavi?
Guarda: il mio cor, la gioventù t'ho dato
E la mia gioventù teco s'invola
E il mio povero cor me l'hai schiantato.
Ahi, rendimi un sorriso, una parola:
Fammi riviver tu del mio passato
Una notte soltanto, un'ora sola!
109
LXXXIII.
Donna, vorrei morir, ma confortato
Dall'onesto tuo amor,
Sentirmi almeno una sol volta amato
Senza averne rossor.
Vorrei poterti dar quel po' che resta
Della mia gioventù;
Sovra l'omero tuo piegar la testa
E non destarmi più.
LXXXIV.
PREGHIERA DELLA SERA
Libera nos a malo.
De' miei semplici padri antico Iddio,
Se vana ombra non sei,
Dio di mia madre in cui fanciullo, anch'io
Innocente credei;
Se pur tu scruti col pensiero augusto
De' nostri cori il fondo,
Se menzogna non è che tu sia giusto
Con chi fu giusto al mondo,
Guarda: dell'agonia patir gli orrori
Ogni giorno mi tocca:
Guarda l'anima mia di che dolori
E di che fiel trabocca!
Abbrevia tu, se puoi, le maledette
Ore del mio soffrire,
Avventami, mio Dio, le tue saette:
Mio Dio, fammi morire!
111
LXXXV.
OCTOBER
Muoio. Cantan le allodole
Ferme sull'ali nel profondo ciel.
E il sol d'ottobre tepido
Albeggia e rompe della nebbia il vel.
Caldo di vita un alito
Sale fumando dall'arato pian.
Muoio. Cantan le allodole
E le giovenche muggon di lontan.
La vostra lieta porpora,
Roselline d'inverno, io non vedrò,
Le carni mie si sfasciano...
Domani al mio balcon non tornerò.
II.
113
AD
OTTO HOFFMEISTER
BIRRAIO IN VIA FARINI MXLVI
BOLOGNA
Mio caro, questo libro è tuo. Te lo dedicai quando vide la luce la prima volta in quattordici paginette,
e poichè tu, non guastato dalla lode, continui fedelmente a mescermi birra ottima, fedelmente ti ridedico il
libro cresciuto quattordici volte e ristampato. Te lo meriti.
Non aspettarti però di sentirlo lodare. Ahimè, mio buon Otto, ho dei vecchi conti da pagare a certi critici, ed il libro che ti dedico è stato e sarà il capro emissario! Molti mi credettero morto e portarono il mio
cadavere al Campidoglio per tumularlo con tutti gli onori; ma poichè videro che feci il morto, poichè mi
veggono saltar fuori dalla bara, non dubitare, ritenteranno precipitarmi dalla rupe Tarpea.
Eppure, mi vedrai tutte le sere seduto tranquillamente nella tua bottega, mi sentirai fare le consuete
chiacchiere cogli amici, giuocare l'eterno tresette e, quel che più ti preme, mi guarderai bere la solita razione di birra. Tant'è, nè le lodi sperticate nè le villanie letterarie mi leveran mai l'appetito. Sarà colpa della
mia tendenza a metter pancia, ma è così. Rallegrati dunque che, per quanto i critici mi flagellino, non mi vedrai bere un bicchiere di meno.
Dico di certi critici e non della critica. Tu sai che, se mi piace la birra, non mi piacciono certe birrarie. Non creder dunque che io confonda le due cose. Aborro certe critiche beghine e certe birre marcie: venero invece la critica, i critici onesti, il buon re Gambrino, ed i bravi birrai. Non confondiamo.
Il libro è dedicato a te, ma leggerai nel frontispizio un pro domo sua ciceroniano il quale vuol dire al
lettore di non arricciare il naso se nelle pagine che seguono si parla troppo in prima persona del singolare.
È necessità di difesa, e poichè le critiche furono fatte a me, proprio a me, io non potevo certo rispondere in
altra persona.
Otto mio, ti raccomando questo libro. Non lo lasciare sul banco tra i bicchieri e il salame. I miei buoni critici diranno abbastanza che il libro è sporco. Non dar loro ragione.
Amami e sii meno idealista nel mescermi la birra. Te l'ho già detto: dammi più liquido e meno spuma.
PROLOGO
Si autem de veritate scandalum sumitur,
utilius permittitur nasci scandalum, quam
veritas relinquatur.
S. GREGOR. MAGN. Homiliae.
Lib. I. Hom. VII, § 5.
115
Eccoti, lettor maligno, la ristampa di un libro che ti farà rizzare la chioma in capo, se l'hai; intendo la
chioma, non il capo.
Il libro è cresciuto di mole e d'insolenza, e sento di qui le accuse che tu mi scagli di corrompitore della
gioventù e di introduttore di nuovi iddii. Appunto l'accusa del virtuoso Anito contro Socrate. Ma io non sono
Socrate e tu non sei virtuoso.
Intanto, lettor maligno, sentiamo i peccatacci di questa scuola che tu chiami nuova, benchè abbia la
barba lunga come il Cantico dei Cantici.
Prima di tutto, dici, non crede a Dio.
È proprio vero? Può darsi, non te lo nego, che al Dio personale, che al Dio comestibile sotto le specie
del pane azimo e del vino puro ci creda così e così; ma di qui all'ateismo c'è tanto di strada. Lo so anch'io che
tra gl'inni elzeviriani ce ne son pochi de' sacri; ma pare a te che un disgraziato perchè ha il viziaccio di scriver versi sia obbligato a credere nella immortalità dell'anima? Ma Lucrezio non ne scrisse dei bellini senza
crederci? E Guido Cavalcanti che cercò se Dio non fosse? E centomila altri?
E poi, vedi, tra questi elzeviriani che ti fanno l'effetto del rosso ai tacchini, ce ne sono degli scettici, dei
panteisti, degli hegeliani, dei materialisti, e chi più n'ha ne metta. Tu intanto ti cavi il cappello al Kant, allo
Schelling, all'Hegel, al Moleschott e chi più n'ha ne metta. Credi che i loro studi, comunque la pensi tu, siano
un progresso del pensiero umano, ed hai ragione: ma lo credi perchè scrissero in prosa. Se dubitavano della
esistenza di Dio in tante ottave, poveri a loro! Tu, buon Geremia, saresti ancora seduto sulle rovine dell'arte a
piangere come la fonte del Tettuccio. Dubitare di Dio in prosa, passi. La scienza, l'umanità ed altre belle
cose, ne hanno bisogno pel loro avvenire. Ma dubitarne in un sonetto! Sacrilegio, non è vero? Sei logico.
Ma se invece di esser logico tu fossi cattolico, credi pure alla Immacolata che il regno de' cieli te lo sei
meritato e presta un paio di occhiali a Luigi Alberti. Critico, una volta educato, ha però il brutto vizio di non
leggere il titolo dei sonetti. Ne ha portato in giro uno de' miei, quello che finisce
Bevendo in fresco e bestemmiando Cristo,
come meritevole di un giudizio severo. Non dico di volere un bene sviscerato alla seconda persona della Santissima Trinità, ma il titolo faceva pur vedere che il sonetto era il canto di un ebbro e la chiesa ammette
pure l'advocatus diaboli! Sallustio fu un birbante, ma non è giusto giudicarlo dalla orazione che mette in
bocca a Catilina. Dopo questo, signor Alberti, non scriva più versi emetici al Rospo, e pazienza se non vuol
stringermi la mano che è pulita, quantunque a lei paia non lo siano le pagine che scrisse. Lasciva nobis pagina sed vita proba est. Tollera questa massima, amico mio Gnoli, che non è poi così delittuosa come tu credi
e che certo è verissima. Tu poi, lettor maligno, che ci vorresti vedere coi pugni in faccia, brontola pure, ma
questo gusto non te lo cavi.
Dunque la scuola nuova non è cattolica. Ma chi è il cattolico che infili un sonetto leggibile? Non citarmi il Manzoni. Infecondo da quarant'anni, è morto senatore e scomunicato.
No, non vogliamo essere nè cattolici, nè luterani, nè ebrei. Lasciaci sognare o il vago teismo de' francesi, o il materialismo scientifico dei tedeschi, o il nichilismo buddista de' russi. Lasciaci pensare a modo nostro, credere a quel che ci pare, anche non credere, o fammi comprare un po' di fede da chi la vende, ma che
non sia sofisticata, ed allora rinuncerò al mondo ed alla carne. Ma finchè trottando per la via di Damasco non
cascherò da cavallo, lasciami andare. Se la scuola nuova non è cattolica, ha millanta ragioni per non esserlo.
Fagliene invece aver millanta per esserlo e mi farò frate, magari gesuita, e confesserò le educande che me ne
vorranno insegnare delle belline, le povere innocenti, quantunque per libro di premio non ricevano i nostri.
Altra scusa. La scuola nuova non parla mai della patria.
Ah, lettor maligno, come brilli, come capisci bene che questo è un punto delicato e mi aspetti al varco
col fucile alla gola!
Sentimi. Dato che noi facciamo professione di dir le cose come sono, non parlare della patria può an-
che essere carità. Altre volte facemmo il dover nostro e certo non fummo austriacanti prima del cinquantanove per diventare guelfi dappoi e rimpiangere la santa lirica del trentuno e del quarantotto. Ora il meglio da
farsi è tacere. Il Carducci un giorno scagliò un verso che rimarrà storico in faccia a chi spinse i Cairoli al calvario di villa Glori e li abbandonò alla ferocia dei crocifissori. L'indignazione gli fece saettare giambi infocati contro la commissione araldica, il battesimo delle navi, i piccioletti ladruncoli bastardi. Di' un poco, credevi tu che il nostro bel paese producesse tante mele fradice quante ne furono scagliate addosso al povero
Enotrio? Ma dovremo dunque ricantare Italia mia, dovremo mettere in rima il Primato del quale Massimo
d'Azeglio si vergognava? Dovremo cantare le glorie di Lissa, le libertà di villa Ruffi, la opulenza de' bilanci,
la moralità dei ministri, la sapienza de' Parlamenti, i trionfi che riportammo dal congresso di Berlino? Facemmo professione di verità e mancammo alla promessa tacendo; ma tacere è patriottismo. E non rimproverarci, noi piccini, se non abbiamo le audacie dell'Alighieri che trattò a quel modo gli uomini del suo tempo e
la sua patria stessa. Non rimproverarci se, per carità del natio loco, abbiam chiuso Giovenale con sette suggelli. Grato m'è il sonno. Il resto lo sai.
E poi, chi ti dice che come Cassio non aspettiamo anche noi gli Idi di marzo bevendo il cecubo? Chi ti
dice che nel mirto sacro a Venere non sia nascosta la spada d'Armodio?
Ricordati, lettore morigerato, che la etèra Leena fu l'amante di Aristogitone e che gli ateniesi, proprio
ne' forti tempi della potenza loro, le eressero una statua. Non c'è bisogno d'essere Catone per amare la patria
e si può cantarla senza essere Catone. Il Béranger diceva:
Aux drames du jour
Laissons la morale;
Sans vivre à la cour
J'aime le scandale.
...............
Paix, dit à ce moi
Caton, qui fait rage;
Mais il prêche en sot.
Moi je ris en sage.
Bon
La farira dondaine
Gai
La farira dondè.
Senti, Catone, che bella voce aveva il vecchio patriotta?
Parliamo male delle donne; parliamo di loro come se fossero tutte... non so come dirlo idealmente, ma
si capisce bene.
Questa accusa poi, questo è il più bello, viene spesso dalle donne, e spessissimo dagli uomini che dovrebbero esser donne. Logica benedetta! Le accusatrici, qualunque sia il loro sesso, sono poi quelle che strillano perchè nella civil società alle donne non si fa la parte che meriterebbero; che lamentano, ed a ragione, la
inferiorità voluta del sesso femminile; che protestano colle più efficaci forme della rettorica contro la tendenza mussulmana dell'epoca, la quale fa della femmina un istrumento di piacere pel maschio e null'altro. E il
livello abbassato e l'istruzione e l'educazione e Cornelia madre dei Gracchi e tutti gli altri luoghi topici logori fino alla trama, sono iscritti per lungo e per largo ne' libri polemici, gridati nelle orazioni accademiche,
strillati nei convegni, urlati nei caffè. Ma che santa Maria Maddalena vi aiuti le mie donne, quando voi riconoscete che i maschi tiranni tengono abbassato il famoso livello apposta perchè non vi mettiate le brache;
quando dallo Stuart Mill a Salvatore Morelli tutti riconoscono che c'è molto da fare per voi altre; e che adesso non siete il tipo della migliore delle donne nel migliore dei mondi possibili, perchè diavolo poi volete che
diciamo il contrario e che mettiamo in rima le vostre perfezioni?
Dobbiamo affermare come nei libretti d'opera che la donna è un angelo? Possiamo anche farlo e la ret117
torica ci scuserà. Ma volete poi che diciamo che la donna non ha debolezze, non ha capricci, non ha istinti e
muscoli brutali come quelli del maschio e forse peggio per cagione di quel solito livello abbassato? Grideremo calunniosa l'affermazione che molte donne profondano pel capriccio di un vestito quanto basta ad un
operaio per vivere un anno e che quelle che non si cavano questo capriccio è perchè non se lo possono cavare? Diremo dunque che la signora A. è la più casta donna del mondo quando i giornali citano persino il numero della porta misteriosa dietro la quale multorum absorbuit ictus? Diremo che la signora B. è il modello
delle spose quando vive con un amico divisa dal marito? O che la signora C..., ma non basterebbero le lettere
dell'alfabeto, e voi tutte che queste cose le conoscete, sapete ancora che se una volta erano l'eccezione, ora
fanno dei gran passi verso la regola. Dica un buon giudice, il signor Bodio che dirige l'ufficio centrale di statistica, se sono i matrimoni che crescono o le case... soggette a certi speciali regolamenti. E voi reclamate per
questo la rigenerazione della donna e per questo anche quello della donna è diventato, come si dice adesso,
un problema. E perchè vi lamentate dunque quando diciamo quel che sapete?
Siate sincere, donnine mie, e rispondete per noi a quei signori che ci accusano di cercare le modelle
nostre nei fornici della Suburra, che non c'è bisogno di scendere fin laggiù per questo. Si capisce che non vi
piaccia vedervi così fatte, ma noi non sappiamo far le funzioni della pezzuola che con tanta intelligenza svolazza sul centro degli angioletti dipinti nelle chiese: noi non sappiamo velare colle massime di Sant'Ignazio
le ulceri aperte, come fanno con tanta vocazione certi collitorti, i quali, quando peccano, voltano verso al
muro l'immagine della Madonna. Additiamo francamente, sfacciatamente se volete, il male che vediamo e
che avete sott'occhio anche voi. Ci troverà rimedio il medico, ma alla poesia non spettò mai filtrar decotti di
legno santo. Ci badi chi ci deve badare, e quelli che piangono a calde lagrime sulla decadenza della donna, si
lascino dire che non sono galantuomini quando rimproverano a noi di mostrarla decaduta.
Qui saltano sul palo i critici e gridano che tutte le donne non sono così. Grazie tanto! A chi lo dite?
Amo Griselda anch'io, ma parmi che anche la Belcolore possa stare nell'arte. Urlano i critici: voi ci parlate
solo della Belcolore! Non so se sia vero, ma se lo fosse, scomunichiamo noi Griselda per questo? Cantatela
voi e noi canteremo l'altra e tutti pari. Non vogliamo escludere Beatrice, vogliamo che sia accettata anche
Fiammetta. Questo è ciò che voi non volete.
E qui dovrei parlare di un certo signor Galassini, egregio cattolico ed insegnante nel collegio S. Carlo
a Modena, il quale (il Galassini non S. Carlo) ha trovato che la natura al suo primo offrirsi allo sguardo dell'uomo è pura e vergine; vergine alle prime ore del mattino e più tardi, ed ha trovato una filza di altre belle
cose ed alcuni argomenti che non sono però da prendere a gabbo, ma ai quali tutti era già fatta la risposta nel
primo getto di questo Prologo e che in fondo non si appoggiano che sopra un facile rovesciamento di tesi.
Ma lascio stare anche perchè non uso trattare con chi mi dà del voi che non si dà oggi nemmeno alle Guardie
di Pubblica Sicurezza; con chi dopo avermi dato, letterariamente s'intende, dell'asino e del porco per quaranta pagine infilate, dichiara poi di amarmi e di stringermi la mano.
Grazie tante, ma le mani io me le lavo.
Accusa quarta. L'arte nuova è carnale, oscena, brutale. Nientemeno!
C'è davvero una reazione forte contro le svenevolezze degli amori poetici passati che tendevano a fare
dell'arte un mare di latte e miele. La donna era esclusa dalla poesia e solo ci si ammetteva un ideale di lei aereo, sentimentale, salice piangente. Questo cant, questa ipocrisia erano innalzati agli onori di canoni d'arte. Il
Vittorelli trionfava, e Nice, Silvia, l'amica lontana erano le perpetue modelle. I più audaci arrivarono sino
alla Elvira del Lamartine. La donna vera colle sue debolezze, la figlia d'Eva come la fece madre natura, era
esclusa dal tempio dell'arte come gli scomunicati una volta; e quando ha tentato di entrarci, i leviti hanno gridato allo scandalo; e la vacuità pomposa del Guerzoni, le professeur malgré lui, la manzonaggine accapponata di cento ipercritici che sbagliarono mestiere, la stitichezza dogmatica di mille dilettanti illetterati, si
sono inacidite come le pulzellone al cospetto delle nozze altrui. Hanno lordato gli Dei e inverniciato frate
Cristoforo: hanno trullato che il gran Pane è morto proprio nel giorno della sua risurrezione, brontolando che
la sposa era brutta perchè natura negò loro la capacità di esser mariti sul serio. Povero ideale sceso agli uffici
del mantello di Noè, tolga il senno italiano che Sem e Jafet a forza di trascinarti piamente su tutte le vive li-
bertà del secolo, facciano di te un cencio, spregiato anche dai rigattieri e dai preti!
Il rimedio, lo ammetto, è radicale; ma diceva il Botta, per raddrizzare un arboscello storto non basta
costringerlo alla linea verticale, bisogna piegarlo dalla parte opposta; ed a chi ha lo stomaco pieno di schifo
per abuso di dolciumi, un po' di pepe di Caienna glielo accomoda ed un sorso di gin vince più nausee che
non faccia il laudano.
Oh, non ci rinfacciate l'Aretino! Non siamo noi che scriveremo la Vita di Maria Vergine e la Parafrasi
dei sette salmi penitenziali. Giulio III e Carlo V non penseranno mai a farci cardinali. Ad altri le sacre elucubrazioni e le simpatie della chiesa. È facile inquinare gli album con versi squisitamente macaronici come
questi:
Ed è perciò, caro signor Stecchetti,
Che per quanto in bei versi il sudiciume
Vo' che si spazzi e dal balcon si getti.
Ma la onesta scopa non bada che ne spazza anche di quelli che per la loro innocenza meritarono l'inserzione nei giornali pedagogici tra le favolette ed i problemi d'aritmetica. Non bada, la pia scopa, che spazza
quattro quinti delle letterature europee antiche e moderne. Quasi tutta la poesia greca dovrebbe cedere allo
spazzatore, tutta la latina, compreso Virgilio ed il famoso pastore Alessi, quasi tutto il nostro trecento, tutto il
Risorgimento. Cari miei, ci vuol altro che una scopa benedetta, ci vuol altro che tirare in ballo il Giusti che
scrisse anche lui la Mamma educatrice e l'Ave Maria, o il Parini che fece tanti versi per nozze.... Leggeteli.
Ma lo scopatore santissimo qui m'interrompe. Nella sua virginea modestia egli crede che tutto questo
libro sia stato scritto contro di lui. Nella sua cattolica morale crede lecito sparger copie di un sonetto scritto
contro di me, ma non crede che io possa stampare la chiusa. Nella sua manzoniana rassegnazione scrive lettere dolciastre dove si mostra in aspetto di S. Sebastiano martire, ma non dice se le freccie che ha in corpo
siano di acciaio buono.
Che cosa rispondere a chi non risponde?
Amen.
Ma quel che gli scotta più di tutto è il sentir dire che il suo sonetto è macaronico. Eppure quel sonetto
non è la sua cosa migliore. La migliore è l'Ode alla regina fatta a concorrenza del Carducci, l'Ode dove il
poeta sparge il crine di una donna nientemeno che di fronde, siano pure apollinee e dove si trovano versi di
così squisita fattura ed armonia come quello che comincia — Voi pur pugnaste per la patria ecc. — Fattura
però che non riesce nuova a chi ricorda — Pietro Paolo pittor pinse pittura Per poco prezzo ecc. — Via, via,
scopatore santissimo, Enotrio almeno i versi li sa fare. Vittorio Imbriani e lei stanno di casa molto più sotto,
molto più basso. Lo creda.... oh, lo creda!
Un altro idealista militante grida:
Lungi questa del secolo
Smania del ver proterva
Che a la terrestre Venere
L'arte e la vita asserva.
Benone! e tre strofe dopo:
O viva, viva il turbine
Che l'anime frementi
Rapisce insiem nell'estasi
D'ingenui abbracciamenti!
Come negli occhi tremuli,
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O amore, folgoreggi;
Ne' baci ardenti ed umidi
O amor, come spumeggi!
E avanti di questo passo. Ma intendiamoci bene, per amor di Dio! Volete degli amori ideali che spumeggino ne' baci umidi! Ebbene, ci stiamo anche noi! Volete, ebbri d'amore,
....................vivere
Tra le carezze e i canti?
E noi lo stesso. Ma allora perchè ci chiamate poi sacerdoti di un putrido verismo? E voi che cosa siete dunque?
Come fa, per esempio, il signor Vitale (Jacopo del Fanfulla) a fulminare i poveri veristi nella prefazione della sua Primavera e poi a scrivere un volume di versi, molti dei quali perfettamente veristi con le sue
brave donne così così, i letti osceni, i mariti cornuti e tutti gli accessori ormai andati a male del teatro dove
recito anch'io? Mi sembra che non stia bene inalberare una bandiera bianca per coprire un carico di pepe
come quello e farlo passare franco alla dogana. Ma che cosa è questo? È paura di saltare il fosso? Saltatelo,
benedetti voi, che avete le gambe buone; non restate di là cogli spedati.
L'arte nuova è corruttrice. Baie! L'arte non ha mai corrotto nessuno; e, in caso, è sempre l'ambiente sociale che corrompe l'arte. Non è il Meissonier che ha messo alla moda i quadri piccoli; sono i committenti
che grandi non li vogliono. È forse decaduta la pittura perchè non si fanno più affreschi con cinquecento figure come Michelangelo li faceva? Ma nessuno li cerca. Non si scrivono più opere melodiche come le scrivevano il Cimarosa ed il Rossini? Ma il pubblico fischia le cabalette. Non ci sono più architetti? Ma oggi si
contentano di un maestro muratore. Non si scrivono poemi? Ma non li leggerebbe nessuno. Non si fanno tragedie? Ma le fischiano. Ah no, non è colpa dell'arte se il pubblico divora certe edizioni e certe altre non zoppicano fino alla terza che coll'aiuto de' professori compari i quali le fanno comprare agli scolaretti come libri
di testo. No, non è colpa dell'arte se il pubblico legge più volontieri una brutta traduzione dell'Assommoir
che i sempiterni Promessi sposi. Non è colpa dell'arte se si applaudono i proverbi seminudi, se si comprano i
quadretti di genere e le statuette senza foglia di fico.
Anzi chi vuol andare contro la corrente è immediatamente e ferocemente punito. Così al mio Cavallotti
toccò lo sfregio immeritato di sentirsi lodare dal (con licenza) Barone Mistrali per l'ode che precede la traduzione di Tirteo e per la lettera al Prati.
Un'altra lode della stessa fabbrica di concimi è toccata a Leopoldo Marenco che scrive al Bersezio dolendosi che i critici non parlino a modo suo e che il pubblico legga gli scrittori che non piacciono a lui. L'autore di tanti celebri idilli comici chiama mostricciattoli questi poveri autori e li copre con un monte di contumelie biliose per finire dicendo che «i critici di maggior sapere e di maggiore acume, quando non tristi per
natura o per cieca passione, sono i meglio riguardati a giudicare le opere altrui. La loro stessa severità non è
scevra di rispetto: franchezza, non brutalità; gentilezza di forma, non villanie». Se fosse vero, padre Zappata!
E non vi domanderemo quali siano i sani e forbiti scrittori che nessuno legge e che i librai non tengono in
bottega. I libri del De Amicis non peccano di verismo e le donne che ci sono dentro sono scrupolosamente
vestite; eppure quei libri si comprano e leggono. Perchè non accade lo stesso degli altri sani e forbiti scrittori? C'è dubbio che la corruzione umana sia giunta fino a non amar più l'arte noiosa? Ci pensino i sani e forbiti scrittori che si dolgono di non trovar più un cane che li legga. Potrebbe darsi che, una volta almeno,
avessi ragione io.
In Italia pochi anni fa non si leggevano che libri francesi, ed il nostro paese era lo sbocco pel quale i
romanzieri di terza e di quarta classe scolavano i loro libri ebeti. I lettori vivevano d'importazione e papa
Gregorio, buon'anima sua, era entusiasta dei romanzi di Paolo de Kock. Libri italiani non se ne vendevano e
non se ne vedevano. Perchè? Come sta invece che un po' di emancipazione dal gran mercato di Parigi, un po'
di risveglio letterario è venuto appunto quando gli scrittori non si sono più ostinati di andare contro la corrente a forza di tragedie, idilli, romanzi storici ed inni sacri? Come è dunque che la gran morta, l'arte italiana,
dà segni di nuova vitalità e non solo combattiamo noi, ma i seminaristi sconquassati dai superiori mi scrivono asinità anonime o pseudonime e dalle case di salute per le malattie che sapete, o dalle prigioni, mi vengono sonetti in difesa della morale? Come è dunque che bisogna essere alienati per non gridare eppur si muove! e il pubblico, il pubblico stesso, così indifferente una volta, prende gusto persino a queste inutili polemiche d'arte e legge i giornali fatti apposta, anche quelli (copio dal vero) che sostengono la letteratura plasmatrice dei popoli, che combattono i mirmilloni da trivio e da bordello ed il cinismo spudorato ed altre galanterie, segno della educazione degli scrittori?5
È perchè gli artisti hanno cominciato a capire che il segreto del trionfo sta nel sapersi ispirare all'ambiente in cui si vive, alla verità di oggi non a quella di cinquant'anni addietro.
Hanno capito che in arte bisogna essere del proprio tempo o morire. Poco importa se l'ambiente non è
l'ottimo; in quello bisogna vivere. Poco importa se la società non è sana; nel morbo stesso è il segreto della
evoluzione, la genesi dell'avvenire. Ogni anello della catena deve essere al suo posto sotto pena di soluzione
di continuità. Fate il pubblico raffinatamente bestiale ed avrete Anacreonte e Batillo; fatelo religioso e guerriero ed avrete i cicli cavallereschi; dategli entusiasmi ed odi patriottici ed avrete Rouget de l'Isle, Riego,
Körner, Berchet; ma non tentate mai di rammodernare Omero, di correggere il Decameron, di processare
Madame Bovary. Perderete il tempo, poichè in verità vi dico che non è l'arte che fa la società, ma la società
che fa l'arte a sua imagine e somiglianza.
E poi, dov'è questa gran corruttela? Via, si può giurare che Gustavo Droz colle sue allegre descrizioni
di notti matrimoniali non ha corrotto e non corromperà nessuno. Ma intanto i buoni Filistei proibiscono alle
ragazze di leggere le poesie dello Stecchetti e le conducono invece a vedere le nudità nei musei, dove, poverine, benedicono l'autunno che fa cascar le foglie. Siate logici come lo fu Ferdinando II e seppellite la Venere Callipygos e la Danae del Tiziano. Bruciate le vanità come il Savonarola e laudate con cembali bene sonanti chi mise le brache ai dannati di Michelangelo e la camicia di rame alla Giustizia del sepolcro di Paolo
III. Anche qui il Nettuno di Giambologna fa pompa della sua virilità in piazza; perchè non gli mettete almeno le mutandine che la Questura prescrive ai bagnanti? Un cardinale logico lo fece, ma voi proibite alle ragazze la Fernanda del Sardou e le conducete a prendere il fresco all'ombra della virilità del Nettuno! No, Filistei carissimi, Michelangelo, Tiziano, Guglielmo della Porta, Giambologna, non corruppero nessuno e, fatte le dovute proporzioni, non corrompiamo nessuno nemmeno noi. La corruzione non nasce dalle nostre nudità, ma dalla vostra ignoranza.
Ci son delle ragazze a questo mondo: debbo riconoscere questa dolorosa verità. Ma perchè ci sono, si
dovrà scrivere soltanto per loro e soltanto in modo che nel leggerci non si sentano l'acquolina in bocca? È
pretender troppo. Disse bene Ferdinando Martini: maritatele una volta queste benedette ragazze, che possiamo finalmente dire le cose come sono! Il meglio poi è questo, che, se facciamo dei libri tanto innocenti da
poter esser letti da queste eterne ragazze, ecco che i babbi non li comprano più; i babbi pudicissimi che nel
Furioso cercano solo il canto XXVIII e chiusi in una biblioteca studiano minutamente le sole incisioni dei
trattati di ostetricia. Salvo, si capisce, ad urlar poi che libri di quella fatta dovrebbero star chiusi a chiave e
che il Furioso non può essere tollerato che nelle sconciature dell'Avesani.
5 «... i titoli di sgualdrina e donna da bordello col resto, sono le solite villanie di monna pezzente, di monna sucida contro le ornate e splendide cittadine; fra le quali se alcuna è di mal costume, non è onesto però l’appiccare a tutte il sonaglio e gridar
per le vie che la città è tutto un postribolo. E se questo modo di ragionare non fosse ancora ben chiaro, il faremo più manifesto dicendo: Che in niun tempo penuria di cattivi scrittori non fu giammai; ma che quando entrasi a giudicare dei vizi letterari di un secolo, non è sano discorso il tirare le conseguenze dal particolare al generale; nè giustizia il confondere i tristi coi buoni; nè onestà
il crederli tutti tristi; nè modestia il tener in pregio unicamente sè stesso. E aggiungeremo, che, nel supposto naufragio universale
delle buone lettere, reputarsi il Noè della italiana Letteratura, e colla piccola sua famiglia mettersi tutto solo, come il solo innocente, nell'arca di salvazione, e gridar corrotta tutta la immensa generazione degli scrittori, e volerla tutta sommersa, è tal carità, che,
non sapendo noi come appellarla, aspetteremo che il pubblico la battezzi».
VINCENZO MONTI, Appendice al trattato Degli Scrittori del Trecento del Perticari, nella Proposta. L’Alberti prende per epigrafe della sua Polemica novissima l'ultima frase: ma, s'intende, non parla di quel che le sta sopra.
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Purtroppo le ragazze ci sono, ma per educarle alla castità immacolata ed alla meritoria ignoranza del
mondo e delle sue pompe ci sono educandati apposta. Credo anzi che il professore Giovanni Rizzi (giacchè
bisogna che gli diamo la soddisfazione di nominarlo, dice il Chiarini), uno de' più strenui e continenti avversari della scuola nuova, diriga qualche cosa di simile. Mandatele da lui le ragazze, in nome di Dio, che le
educherà e troverà loro un casto marito, ma lasciateci parlare coi babbi a modo nostro. E siate sinceri, Filistei, ditelo una volta che la virtù per voi è l'ignoranza del vizio. Ditelo una volta che per voi, quando la benedetta ignoranza se n'è andata, non c'è altro rimedio che l'isolamento, l'infibulazione e les maudits engins, fermoirs ecc. vituperati dal signor di Brantôme.
Audio quid veteres olim moneatis amici:
Pone seram, cohibe. Sed qui custodiet ipsos
Custodes? Cauta est, et ab illis incipit uxor6.
La verità vera è che siamo tornati alla battaglia dei romantici e dei classici, (c'è anche l'avvocato Stoppani di Beroldinger7) con questo di guadagnato che la polemica non è più un cas pendable e che nessuno dei
combattenti, per ora almeno, cerca di fare intervenire in suo favore la Polizia8. Meno, s'intende, quegli ingegnosi avvocati di Genova che, non avendo cause da difendere, fanno istanza al Procuratore del Re perchè sequestri i libri ed i giornali veristi, pronti poi a difendere gli autori e i gerenti in tribunale. Si dice che a tanto
eccesso di comica furberia abbia riso persino il crocifisso della Corte d'Assise. Figuriamoci i veristi!
Eppure anche il buon Stoppani di Beroldinger e gli amici Demosteni del foro genovese dovrebbero ca6 GIOVENALE. — Sat. VI.
7 Vedi nell'Emporio Pittoresco, anno XV (1878, n. 714) il seguente sonetto ideale:
Odi, canzoni, satira, stornello,
Che siete or voi per quella Diva ascrea,
Che improntata di Vero, e fida al Bello,
Dalla Grecia nel Lazio si spandea?
Scordate d'Ugolino e di Sordello
Il gran cantor, che ai secoli schiudea
Quel dritto senno, a Libertà fratello,
Onde il Vivo a Staglien fra noi splendea.
Levaste a realtà novello altare;
La fiaccola febea, pura, divina,
Spegnendo tra l'asfite lupanare.
Con questa ippocrenea tetra piscina,
Castalie dive, andatevi a celare,
Schife del lezzo, che v'ammorba e inquina.
In questa edizione ho dovuto lasciare tutto quel che stava nella prima, ma avrei lasciato indietro volentieri questo sonetto
e l'allusione. L'unico avversario che mi abbia risposto da persona educata è appunto questo che ho maltrattato più degli altri e lo
ringrazio e lo ammiro. (Vedi l'Emporio Pittoresco, anno XVI, 1879, n. 757).
8 Adagio un poco! Non chiamano la Questura ma... sentite questa.
Il professore P. E. Guarnerio stampa dallo Zanichelli (orrore!) alcuni suoi sonetti che intitola Auxilium e che dedica allo
Stecchetti (abominazione!) e che combattono per questa scuola che dicono nuova (ahi! sventura! sventura! sventura!). Sentite ora
un poco come un certo signor X nel numero 6673 della Perseveranza finisce un articoletto mezzo melenso e mezzo peggio: «Lavoriamo a insegnare a farne di simili (sonetti) ai giovinetti dei ginnasi, dei licei del bel regno d'Italia? È un genere di lavoro che mi
pare, lo confesso, alquanto pericoloso ecc. Il Guarnerio professa in un liceo e qui c'è la personalità astiosa che tende a metterlo in
sospetto, benchè il sospetto sia proceduto da un mi pare vestito da reverendo Padre. Ecco, questa sarà un'azione ideale, ma da noi,
quaggiù, la chiamiamo una cattiva azione; in lingua povera poi... acqua in bocca. Intanto il professor Guarnerio per le conseguenze
di quell'articolo morale ha avuto tali tribolazioni da dover buttar via il pane: e non è un signore e non ha sposato una signora. Il critico (questa volta bisogna dargli la soddisfazione di non nominarlo, perchè si chiama X) il critico conosce benissimo l'arte di accoltellare la gente nella schiena e l'adopera, ma badate però che è un critico virtuoso, oh, è uno specchio di virtù.
Santa pudicizia, quanti delitti si commettono in tuo nome!
pire che c'è qualche cosa che si rinnova dappertutto, anche nella letteratura del nostro paese. Si sente pure
che il mosto fermenta e vuol diventar vino, perchè quello degli anni passati è diventato aceto. La fermentazione è tumultuosa, è vero; si sviluppano gas malsani, ma l'intimo lavoro c'è, e il vino lo berremo. Se non
sarà Falerno, pazienza; almeno sarà vino schietto.
Lo sanno tutti che nelle battaglie non si misurano le sciabolate: e' colpi non si danno a patti, disse il
Cellini. I romantici esageravano gli scheletri, i classici esageravano gli Dei. I nostri idealisti rifuggono adesso con orrore sacro dal mangiar carne il venerdì, i veristi affettano di mangiarne per dispetto il venerdì santo.
Questi, per necessario istinto, badano solo alla apparenza delle cose senza sillogizzarci sopra e cercano appunto gli argomenti e le forme che valgano a far spiccare la loro reazione contro l'abuso del sentimentalismo.
Quelli si attaccano a quegli antichi, a quel Manzoni, che alla lor volta furono gridati rivoluzionari e corruttori
dell'arte. Dimenticano che anche il Metastasio a' suoi tempi fu un ribelle e pronosticano la fine del mondo ad
ogni tentativo: si chiudono nella loro ortodossia con un non possumus intransigente e sognano un Sillabo letterario cogli anatemi di rito.
Dove andiamo? grida spaventato Luigi Alberti.
Alle battaglie della libertà.
Arcadia nuova. Ma chi in Italia ha il coraggio di parlare d'Arcadia? Ma non è in Italia che le accademie
hanno lasciato un tipo, un campione monetario al quale si ragguagliano ancora tutti i valori del mercato artistico? In letteratura la moneta tipo è ancora il ducato del secolo XVI o lo zecchino del XVIII. E nelle altre
arti, chi non conosce i pittori che hanno per unità di valore Raffaello Sanzio, gli scultori che ragguagliano
tutto al Buonarroti o al Canova, i musici che adorano il solo Rossini forse perchè ignorano la Messa di Papa
Marcello e il Palestrina? E questo accade pure in Italia, nel paese già dichiarato ingovernabile e dove regna
ancora sovrano delle lettere Sua Santità Papa Leone X!
Disse Hegel che tutto diventa, ma qui non lo sa nessuno. Le dottrine evoluzioniste, venute da poi, rimasero lettera morta pei nostri critici, i quali si ostinano a misurare il Carducci colle unità lineari del tempo
del Manzoni, senza capire che perdono il tempo, proprio come quella brava gente (perdonami Galileo Galilei) che sciupava la carta confrontando l'Ariosto col Tasso. Possibile che non si capisca come le donne moderne non possono star dentro alle forme cavate sulla Venere Capitolina, che il modo di sentire di Garibaldi
non può esser quello di San Francesco d'Assisi, che il misurare con la misura stessa le opere vecchie e le
nuove è come misurare l'anno col computo di Giulio Cesare dopo la riforma gregoriana? Le accademie stabiliscono la fede artistica come i concilii la religiosa, senza vedere che anche in arte la fede uccide la ragione.
Ci rimproverano di non aver nessuna fede e poi ci dicono accademici: urliamo che ci vuole un po' di libertà,
ce la prendiamo, e ci dicono arcadi. Santa pazienza!
L'amico mio De Gubernatis, che s'immagina anche lui (chi sa perchè?) di essere cordialmente odiato
da questa scuola nuova, ci avverte che siamo fuori del seminato. Infatti l'anno 1878, così fecondo di lieti e
tristi avvenimenti, non produsse che pochissimi versi buoni sopra le cose accadute. Ma non erra egli credendo la poesia d'occasione scaduta in Italia? Eppure non c'è matrimonio, non c'è laurea, non c'è guarigione, non
c'è messa nuova o quaresimale vecchio che non faccia cantare molti poeti e parecchi bene. Deve però ridursi
a questo la poesia? Questa non sarebbe Arcadia della peggiore?
Gli epigoni della santa e benemerita Arcadia sono quelli che non vogliono adattarsi a credere che ci sia
qualche cosa al mondo capace di cambiare. Costoro non possono supporre che oggi ci sia una tendenza ad un
paganesimo riformato, ad un naturalismo, ad un panteismo materialista, al quale possono scagliar coppie di
calci tutti i gesuiti del mondo, ma che cresce tutti i giorni, ingigantisce e rovescierà i templi e gli idoli dei
nonni. Pare eresia agli accademici il sostenere che il cristianesimo muore e che ogni religione rivelata è bugiarda. Tornano piangendo ai lontani ricordi dell'infanzia quando la mamma li faceva inginocchiare sulla
culla bianca e sussurravano colle mani in croce i misteri della salutazione angelica. Tornano ai sogni beatifici che rallegrarono la loro prima comunione e si chiudono nella memoria de' sentimenti passati come se solo
in quelli potesse trovarsi la poesia e la bellezza. E c'è nella religione e nell'arte un mare di laudanum dove le
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anime pie che non hanno forza di combattere le tempeste di altri mari cercano la pace rassegnata, la rinuncia
quietista del Deus dedit, Deus abstulit. Annegano là i cattolici desiderosi dell'ozio del pensiero e gli islamiti
che aspirano alla eternità del kief. E quando gli uomini e la società si destano e si muovono, queste religioni
immobili e fataliste declinano insieme e rovinano, meteore pallide, pianeti spenti, colle arti da loro ispirate.
Ma per gli accademici nostri tutto questo non è vero. La religione cattolica guadagna anzi proseliti
ogni giorno, s'inalzano chiese, appaiono Madonne e la signorina Luisa Lateau ha le stimmate. Certuni poi
che hanno le carie del rispetto umano nell'ossa, cattolici che si vergognano di esserlo, che il giorno credono
di essere tretragoni ai pregiudizi, e la notte quando tuona, si fanno il segno della croce sotto ai lenzuoli, cercano altrove che nella religione i sillogismi per confonderci e per convincere il prossimo che è opera scellerata il pensare fuori delle massime cristiane ed il ribellarsi alla teosofia del Rosmini. Non credono che nell'arte latina e cattolica, e se vi provate a dire che anche i ribelli hanno affetti, gioie e dolori li vedrete levarsi
e gridare che il Manzoni, il Giusti non pensarono, non sentirono, non soffersero così. Sentirete gridare che
non ci può esser arte materialista, che non si può concepire il bello colle teorie dello Spencer, che il sublime
non può esser capito dagli allievi dello Schiff. Cosi Orazio è darviniano e gli arcadi siamo noi!
E gli accademici si sfiatano e sudano. Per loro non muta nulla, per loro non ci può esser arte fuori delle
tesi accademiche e ne conosco parecchi che, a letto, scrivono commoventissime canzoni sui dolori dell'esilio
perchè l'accademia trovò che dopo il Berchet l'esule era un bell'argomento. Ma non vedete dunque come galoppano le idee che vituperate? Non vi accorgete che c'è qualche cosa che vi trascina pei capelli (ne avete?),
che vi trascina nelle lotte di Satana? Non vedete le transazioni che fate tutti i giorni colla vostra fede, le toppe che tutti i giorni dovete ricucire alle vostre candide stole? Ecco l'autore della Morale cattolica morto fuori
dell'ortodossia cattolica, ecco il povero Aleardi che cantava l'immortalità dell'anima costretto a nominare
professori che non ci credono, e il Prati farsi un Dio che vada d'accordo col regolamento del Senato e lo Zanella ammalare per la necessità di cantare fuori del Sillabo e tutti, tutti, tutti, fino ai minimi, fino ai pedagoghi di ragazze, dover scappare dalle prigioni della fede cieca, intera, romana, per vivere e per scrivere. Esiste
l'arte anche fuori dalle formole del Gravina e del Soave e c'è tanta poesia nella coda di un fauno quanto nel
piviale di un arcivescovo. Properzio è poeta quanto e più del Manzoni, e voi, cavalieri crudeli, non potete più
caricar di legnate i puledri che vogliono correre i prati, trovar nuovi pascoli e nuove vie. Maledite pure il
dottore in zooiatria che li lasciò stalloni, ma persuadetevi che poeti laureati non ce ne sono più e il Senatore
di Roma non può incoronare nè il Petrarca nè il Baraballo. È il popolo che incorona oggi e dovete adattarvi
ai suoi gusti, alle sue libertà, ai suoi costumi per quanto vi spiaccia. Dovete scendere in campo a viso aperto
e non protetti, come una volta, dal baluardo della fede, e dovete scendere in campo, qui, con noi, e non potete più disprezzare o interdire, ma dovete combattere. Venite, cattolici, a vedere che in Roma stessa vi tocca
disputare sulla venuta di San Pietro: venite, figli dell'Aquinate, a disputare col Renan e collo Strauss: venite,
idealisti, a sentire quanti figli ebbe l'angelica Laura: venite, venite, poichè anche voi dovete combattere per
l'esistenza ed il bargello non può più definire le questioni di fede e d'arte. Non ci potete più schiacciare col
silenzio e coll'indice e condannarci come parricidi perchè non accettiamo le convinzioni dei padri. Combattiamo e il Dio vostro v'ispiri la lealtà, la franchezza di chiamarvi crociati per Gesù, paladini per la croce.
Combattiamo, voi per la fede, noi per la libertà, poichè anche noi abbiamo un'arte, un pubblico, una speranza, un pudore. Ma il pudore nostro non è quello santificato dal vostro Stanislao Kostha e chiosato dal vostro
Sanchez. Abbiamo un'arte anche noi, ma, come la bocca d'Ezechiele, anche la nostra non rifugge dalle lordure. Siamo chirurghi, non Dame del Sacro Cuore.
Oramai però anche i poveri idealisti l'hanno capita e, disperati del loro avvenire, si danno affatto alla
religione che mi pare in brutte acque anche lei. È il destino delle peccatrici che diventano vecchie. E pazienza lodassero l'Altissimo e la morale cattolica, ma si mettono alle pratiche del culto esterno. E pazienza anche
questo, ma rubano il mestiere ai carlisti ed alla Gioventù Cattolica. La scolaresca dell'Accademia scientificoletteraria di Milano, guidata da quel comico perfetto che è Paolo Ferrari, accompagnata da una rappresentanza di altri istituti e da due illustri professori dei quali non ricordo il nome, si recò, in pio pellegrinaggio, alla
casa del Manzoni. Uno che pretende di aver fatto parte della spedizione, grida nel giornale (con licenza) del
barone Mistrali:
— «...io vi assicuro che sul primo entrare nella modesta casetta mi sentii come compreso di devozione
profonda, proprio come quando una tacita prece si leva a Dio nel silenzio di un tempio sull'imbrunire della
sera.
» Con trepidante curiosità ho voluto vedere i minimi particolari. Non istarò a dirvi che i mobili della
casa si trovano ancora al medesimo posto che occupavano quando il grande poeta era vivo e fiorente: vi dirò
bensì che a un certo punto non potetti rattenermi e piansi: piansi vedendo l'umile scrittoio e il calamaio e il
tagliacarte e la penna di Alessandro nostro; la penna che ha vergato eterne pagine!
» Ecco sopra un tavolo il cappello di paglia e il bastoncino su cui il buon vecchio reggevasi negli ultimi anni. Ecco nell'anticamera del piano superiore un altro cappello e un mantello appesi in un angolo: si entra poi nella cameretta da letto, dove tutto è semplice e modesto, il letticciuolo, le sedie: non v'è la menoma
ombra di lusso e di affettazione». —
Ci manca la paglia della prigione alla quale questi scomunicati realisti hanno condannato il pover'uomo per tanto tempo, e poi siamo proprio ai pellegrinaggi spagnuoli e belgi quando Pio IX era ancora al mondo! Dopo lo squarcio qui sopra c'è la tirata d'obbligo contro i veristi nani e pomposi, i quali, a quanto pare,
non adoperano cappelli di paglia, mantelli, tagliacarte ecc., ma si adagiano nel lusso più sardanapalesco, dormono sulla porpora e sui petti delle donne, mangiano ananassi con salsa di tartufi, ballano il cancan dodici
volte il giorno e bevono sangue di idealisti in crani di parroci. Che porci! Ha ragione quel signore di piangere dirotto come la cascata del Niagara!
Così gli idealisti come i credenti delle religioni ammalate, cominciano i pellegrinaggi! Presto vedremo
l'obolo. Intanto davanti al cappello di paglia del Manzoni — «uno degli scolari, il giovine Costa, prese la parola per esprimere, interprete dei propri condiscepoli, i sensi d'ammirazione verso l'opera del poeta e di adesione ai suoi principii di moralità e di castigatezza nella letteratura. A lui rispose il prof. Ferrari, facendo
plauso ai sentimenti manifestati e affermandoli più altamente, come una protesta concorde e solenne contro
le intemperanze d'una nuova scuola letteraria che si compiace del lezzo d'un verismo inverecondo.» —
Sembra la parodia di uno squarcio di Tito Livio! Vedete di qui il giovanetto Annibale che giura odio
eterno ai romani e sull'ara sta il cappello di paglia del Nume ed il gran sacerdote squassa orribilmente le famose bende candide, vestite con tanta disinvoltura dai coristi druidi della Norma. Lo studente Costa avrà
certo avuto il premio in fine d'anno e certissimamente poi questa farsetta annuncia una seconda giovinezza di
vis comica nell'autore della Bottega del cappellaio. Con un po' di musica potevamo augurarci di assistere al
natale del vaudeville in Italia; ma non si potè, perchè il municipio non concesse la banda e poi la tesi non la
richiedeva. Peccato!
Ma via, buona gente, non è già l'idealismo che ci irriti i nervi. Ohibò! Accettiamo tutta l'arte del nostro
paese, vecchia e nuova, cattolica anche, da Fra Iacopone ad Alessandro Manzoni, per quanto non siamo cattolici, nè vecchi, nè nuovi. Ma veneriamo il Petrarca, non i petrarchisti. Ben venga l'ideale quando non sia
una ricetta, una falsariga, uno stampo; quando non rimpianga, come fa ne' sonetti del prof. Rizzi, la voce armoniosa de' cigni antichi e non ci mostri, con sale più inglese che attico, la cuoca che medita di tirare il collo
al canoro augello. Queste stampiglie erano vecchie sino al tempo del Pervigilium Veneris dove: Loquaces
ore rauco, Stagna cycni perstrepunt: non ce le date ora come le colonne d'Ercole dell'arte. Dateci pure dell'ideale, ma non modelli da sarto per tagliarci sopra le giubbe agli studenti di liceo. Dateci dell'ideale, non del
brodo lungo. E non adoratelo in una chiesa fuori della quale non ci sia salute, non lo fate lo czar di tutte le
lettere che sono una repubblica. C'è posto per tutti, pel Cavalca e pel Boccaccio, pel Tasso e per l'Ariosto,
pel Montaigne e pel Bossuet, pel Dryden e per lo Shakespeare, pel Klopstock e pel Goethe, e noi nell'arte
non cederemo mai nè un palmo della nostra terra, nè una pietra delle nostre fortezze. Siamo gelosi di Bice
come di Fiammetta, del Metastasio come dell'Alfieri; non abbiamo casta, non abbiamo tribù, non abbiamo
chiesa. Tutti i poeti li accettiamo purchè siano poeti e non saremo noi che scomunicheremo le Odi barbare
in nome della rima, per applaudire poi ai versi troppo sciolti del primo scalzacane che ci lecchi le scarpe.
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Tutta dunque questa ribellione contro la tirannia dell'ideale, tutte queste scritture polemiche goccianti
giù assiduamente dai torchi, vanno intese nel senso loro. Non è già che i combattenti vogliano la testa del nemico, non è che in nome della fotografia vogliano bruciare le madonne del beato Angelico, o in nome della
sensazione rinnegare il sentimento. No. Ma anzi dicono coi fratelli De Goncourt, non sospetti certo di
meteorismo ideale: «Le réalisme se répand et éclate alors que le daguerréotype et la photographie
démontrent combien l'art diffère du vrai». Ma tutto questo accade perchè anche nell'arte si è voluto distinguere nell'uomo la materia dallo spirito, l'anima dalla carne, mentre l'uomo è uno; ed è perciò che noi lo vogliamo rappresentato tutto intero, nella bellezza e nella deformità, negli istinti sublimi e nei bassi, com'è,
come l'hanno fatto i tempi, le religioni, le virtù ed i vizi. Vorremmo che l'amore si cantasse come tutti lo sentono, non aspirazione platonica ad un tipo, ma desiderio sublime di una donna intera, spirito e carne; di una
donna vera e viva, santa o peccatrice che sia. Cercare la deformità, accarezzarla, compiacersene, è caso patologico; ma lo è altrettanto fingere che la deformità non esista. È vizio l'eccesso come il difetto, la lussuria
come la castità, e poichè il nostro secolo lo sa e lo dice, vogliamo essere del secolo nostro. Vogliamo l'arte
del presente, non quella del passato, non quella dell'avvenire. Vogliamo sentire come i nostri nervi ed il nostro cervello comportano, non attraverso al diaframma delle sensazioni altrui. Vogliamo amare come sappiamo amar noi, non come amarono i nostri nonni. Vogliamo insomma essere del nostro tempo, e se il tempo
non è bello, non lo abbiamo fatto noi e non ce ne abbiamo colpa.
Questa ribellione non si fa dunque per detronizzare l'ideale e ghigliottinarlo, ma per farne tutt'al più un
re costituzionale che divida i suoi poteri, chiuda la Bastiglia e si lasci costringere a largire la Carta. Almeno
almeno come gli spartani ed i siamesi, ammetta un collega agli onori del trono: il vero.
Ed ecco il Cavallotti che ci crede:
Carichi di saette pei pedanti,
Di crani e feti e aborti d'ospedal,
Di vermi per mangiar le proprie amanti,
D'upupe per cantarne il funeral;
ed egli, l'uomo delle generose illusioni, dice:
Portiam le mode del vecchio Parini
Le mode rococò d'Ugo e Manzon.
In questi versi intanto no di sicuro. E poi, adagio. Dobbiamo fare come i chinesi che ai morti illustri
erigono templi dove pregano e sacrificano? Dobbiamo pellegrinare anche noi col bordone e il sanrocchino
fino al cappello di paglia del Manzoni? Ci condanneremo all'immobilità di Budda e di Confucio? Ma no, Cavallotti; i grandi uomini vogliamo onorarli, studiarli, ma adorarli e copiarli, no.
Non ti ricordi dunque che i crani e l'ossa da lungo tempo hanno acquistato la cittadinanza italiana e
fino da quando il tuo Berchet traduceva e chiosava nel Conciliatore la Eleonora del Bürger con grave scandalo delle parrucche italiane? Non ti ricordi dunque che proprio l'upupa che svolazza sulle croci fu uno dei
rimproveri che si fecero ai Sepolcri del Foscolo, ai quali gli idealisti d'allora preferirono la cattolica risposta
del Pindemonte? Non ti ricordi quel che dice il Ranalli dei Promessi Sposi ne' suoi Ammaestramenti? E bada
che gli Ammaestramenti sono libro di testo in troppi licei di questo povero regno d'Italia. Non ti ricordi di
una poesia di un certo Cavallotti nella quale certi scheletri salgono sulla carrozza di certi principi? Perchè
dunque tante ire? Forse perchè vuoi vestirti come il vecchio Parini? Bada, non è carnevale ed i vestiti rococò
ti solleverebbero contro tutti i torsoli di cavolo che vegetano in val d'Olona. Ogni tempo ha i suoi vestiti: tanto è vero che tu non ti vesti affatto come il Parini, ma tu solo sei il sarto de' tuoi versi e, se ti dicessero il contrario, te ne avresti a male.
Pare impossibile! Mentre dappertutto si cammina in libertà, noi sentiamo prescriverci la lunghezza dei
passi come i coscritti! E non sempre i passi li vorrebbero fatti avanti. Tutti sanno che l'adorazione cieca, la
superstizione, è difetto italiano. Quando l'idolo fu il Leopardi, guai a non maledire la vita ed il sole in strofe
libere! Quando l'idolo fu il Manzoni, fu dovere il cucinare inni sacri in settenari; e i plagi dei Promessi Sposi! Guai a scostarsi dai modelli! Guai ad uscire dal campo arato, seminato, esaurito dai vecchi! Abbiamo ancora nelle ossa l'antica lue dei petrarchisti. Ma ditemi, per Dio, non era proprio ora di muoversi? Ma non vedete che noi, rivoluzionari, scapigliati, sanculotti, siamo ancora alle cinquantenni prefazioni del Cromwell e
di Mademoiselle De Maupin? Immaginate dove sono gli altri! E con tutto questo si sentono alte le grida per
la mancanza del romanzo, del teatro, della lirica, della storia, della pittura, dell'arte italiana insomma! Lo credo, io!
Guardate per esempio Leone Fortis, che ringrazio pubblicamente, intanto, pel bene che m'ha fatto scrivendo intorno alle cose mie, sia credendomi morto che sapendomi vivo. Guardate Leone Fortis che ha intelletto d'arte, quantunque nella furia delle battaglie gli avversari glielo neghino. Ebbene, è del mio parere in
teoria; ma in pratica? Nell'Illustrazione italiana uno che scriveva in vece sua e con idee che egli certo non
rinnegherebbe, accettava l'arte purchè fosse arte e non sconciatura, protestava di ammirare una donna scollacciata purchè bella. Ma dunque perchè combattiamo? Tutto l'odio dei nostri avversari cade dunque soltanto
sui versi falsi? Ma credono che la scuola nuova sia la scuola de' versi falsi? Ma tanti idealisti non ne fanno
dunque dei così scrofolosi che gli ospizi marini non li guarirebbero? S'intende che il maggior numero de'
versi storpi sono dei veristi; poichè oggi il verismo è opposizione e chi ha qualche lite colla legge è sempre
coll'opposizione e non coi carabinieri. Quando i manzoniani erano opposizione, il maggior numero di versi
degni d'essere gettati giù dal Taigeto li facevano i manzoniani (ahimè! ne fanno ancora); ma era forse quella
la scuola de' versi falsi? I versi del Carducci tornano pure. Perchè il Fortis, accecato anch'egli dalla furia del
combattimento, li trascina alle Gemonie?
E poichè sono col Fortis, ci sto.
Una donna di mala vita fu macellata e sparata da un beccaio in Milano. Ed ecco il Fortis che nella Illustrazione reputa responsabili dell'atroce beccheria, immaginate chi? Il realismo ed il borghesismo! È proprio
il caso di ricantare:
Je ne suis pas notaire,
C'est la faute à Voltaire.
Je suis petit oiseau,
C'est la faute à Rousseau!
Tali accuse furon già fatte agli enciclopedisti ed ai romantici. Oggi le si fanno ai veristi. Ah, ma dunque il beccaio era realista e borghese? Leggeva dunque questi maledetti elzeviri? Povero me, che credevo di
essere un buon avventore pel mio beccaio ed invece m'accorgo che il beccaio è il mio miglior avventore!
Leggo in un giornale milanese — «Cronaca nera. Ieri furono eseguiti sei arresti: due per ubbriachezza,
uno per contravvenzione all'ammonizione, due per rapina ed uno in persona di una donna per infrazione ai
regolamenti di sanità pubblica». Questi son dunque tutti veristi? Quanti ne arrestarono in un sol giorno ed in
una sola città! E come è antico il verismo! Caino dovette esser verista perchè accoppò Abele, e Giuda certo
tradì Cristo per comprare un volume elzeviriano coi trenta denari. Pel verismo Milziade tradì la patria, Appio
Claudio insidiò Virginia, Nerone bruciò Roma, Teodorico ammazzò Simmaco, Ravaillac pugnalò il Re! Furon dunque veristi Gasparone, il Boggia, il Verzeni ed altri assassini illetterati! E il Passanante? Oh, se gli
avessero trovato in tasca il Polemica, che belle ore mi avrebber fatto passare! Invece gli trovarono un volume del Giannetto a maggior onore e gloria dell'arte educativa!
Che rivelazione!
Je suis tombé par terre,
C'est la faute à Voltaire.
Le nez dans le ruisseau,
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C’est la faute à Rousseau.
Lasciamo lo scherzo. Il Fortis porta un esempio, Giorgio Pallavicino. Il venerato patriota, nel suo ideale della patria una, trovò la forza di resistere persino a Giuseppe Garibaldi. Vedete, si dice, come l'ideale
produca gli eroi mentre il verismo non produce che beccai, squartatori di donne!
Siamo sempre lì. Siamo sempre all'errore del prendere gli effetti per le cause. Nel 1860 si poteva, si
doveva avere l'ideale della Italia una. Ora che questa unità non è più nè discussa nè minacciata, come faremo
ad avere lo stesso ideale e cantarlo? Forse dovremo fare dei meetings per l'Italia irredenta? Ma e allora che
cosa direbbero il Pungolo e la Perseveranza? Il verismo ed il borghesismo che cosa sono dunque se non effetti di uno stato sociale, momenti di una evoluzione civile? Cercate più in alto le cause che li produssero, discutete quelle, ma consentite che verismo e borghesismo esistono ora per necessità ineluttabile, che sono un
prodotto di organismi sociali sbagliati, se volete, ma esistenti. Non possiamo avere alcun ideale perchè non
ne troviamo più nessuno presente ed i vecchi non sarebbero più al loro posto in questo Stato, in questa società, in questa famiglia. Fate che scatti fuori una idea nuova, santa e che risponda al bisogno dell'epoca, scatterà fuori anche il cantore di questa idea, e ci saranno i confessori ed i martiri come ci furono per gli altri ideali. Ora il verismo ed il borghesismo sono al loro posto necessario e non saranno cacciati di seggio se non
quando i successori saranno maggiorenni. Lasciate dunque di attribuire ai versi de' veristi i delitti dei beccai
e gli arresti per oltraggio al pudore, perchè non otterrete altro che di farli ridere questi veristi e di farli cantare:
On est si laid à Nanterre,
C'est la faute à Voltaire,
Et bête à Palaiseau,
C'est la faute à Rousseau.
Mi hanno anche rimproverato nella Illustrazione italiana la fanciullesca bizza che mi fece cacciare in
un verso i fiori bianchi, i quali, a quanto pare, si possono ricordare con applauso di mezzo mondo in un epigramma alla marchesa di Pompadour, ma non in un sonetto ai critici, che non sono poi intangibili e belli
come lo fu la marchesa.
Ma, domando io, come si fa a non prender cappello quando un idealista stampa queste incredibili parole: «Anche a me piace il vero, ma il bello mi piace più, fosse anche un po' discosto dal vero» e da questa eresia trae la conseguenza che è un peccato che certi libri vadano per le mani dei giovani «i quali non hanno bisogno che gli scrittori mettano loro sott'occhio il vero nella sua nudità più desolante, avendo anche troppo
spesso l'occasione d'incontrarlo nella società in cui vivono».
Vale a dire che l'arte deve tacere perchè i giovani non perdano l'ignoranza del male; e non solo, ma
deve dipingere eternamente il bello, anche se un po' discosto dal vero, ossia, in lingua povera, deve rimar
bugie.
Un altro, più franco, sentenzia: «Certo il vero è un grande maestro, ma spesso poco sincero». Cioè il
vero spesso non è vero!
Si dovrà ricorrere dunque non solo alla reverenda scopa di cui dissi più sopra, ma scientemente tradire
la verità per rispetto alle innocenti orecchie degli studenti di liceo. E pazienza si portassero in giro soltanto
questi strampalati canoni che tutta l'arte da Omero in qua smentisce assolutamente; la bizza fanciullesca passerebbe subito. Ma quando nella Illustrazione, proprio nella Illustrazione Italiana, sotto gli occhi del Fortis,
si commettono sacrilegi come quello che vi si commise poche settimane fa, altro che bizza, c'è da sentirsi addosso le furie d'Oreste.
In quella sconcezza (non trovo vocabolo più parlamentare), in quella sconcezza di quattordici versi un
signore aveva il... aveva la... insomma osava domandare scusa alle signore ed alle signorine pel povero Dante Alighieri infetto anche lui di qualche taccherella di verismo!!
Ombra del padre Bettinelli D. C. D. G. riposa in pace: anche i tuoi allori sono invidiati!
No, qui non hanno che fare nè la pretesa Arcadia dei giornali ebdomadari, nè la pretesa côterie de la
réclame di casa Treves: ci ha che fare qualche cosa che è meglio tacere, altrimenti la bizza fanciullesca mi
torna addosso: e domando se non ho ragione?
Ma torniamo alla calma.
L'amico mio Gnoli in una recensione della prima edizione di questi Polemica, inserita nel primo fascicolo di Giugno della Nuova Antologia, si maraviglia quasi che lo Stecchetti abbia scritto un sonetto dove
c'entrano affetti famigliari, dimenticando che anche nei Postuma ce n'erano dei moralissimi, e gli fa press'a
poco queste domande — «Se sei galantuomo, perchè ti fingi briccone scrivendo? e se scrivi versi da briccone parlando in prima persona del singolare, non ho io diritto di crederti quale ti dipingi?» —
Qui, prima di tutto, c'e un errore di memoria, poichè era da ricordare come i Postuma uscirono alla
luce in persona d'altri e che, soltanto dopo, l'autore, compiaciutosi della creazione della sua fantasia, si tenne
il pseudonimo come un secondo nome, allo stesso modo che, fatte le debite proporzioni, Ugo Foscolo firmò
molte lettere col nome dell'amico di Jacopo Ortis, Lorenzo Alderani.
Non credo poi che in quel libro ci sia nulla che una onesta persona possa desiderare di non aver fatto e
scritto. Almeno io, all'infuori della morte del protagonista, accetto tutto sulle mie spalle senza arrossirne
punto, e non credo che ci sia così frigido critico a questo mondo il quale ne' suoi anni verdi non abbia condotto nei cabinets particuliers del suburbio qualche dozzina di Emme o di Caroline. Anzi credo che si dovrebbe arrossire di non averlo fatto, e Catone, che non fu di manica larga, non biasimò il giovane che usciva
di dove sapete, come farebbe certo qualche Catoncino schifiltosino che m'intendo io. Ma c'è poi altresì uno
di quei pregiudizi critici che gli scrittori, anche coscienziosi come il Gnoli, accettano troppo spesso belli e
fatti per pigrizia di pensiero e per incosciente conseguenza di teoriche già accettate.
È moda, e dirò col Gnoli, è teorica adesso il giudicare le opere d'arte come se fossero tante autobiografie. Il Byron fu già accusato di conoscere per prova le delittuose sensazioni di Lara e del Corsaro, benchè
gridasse pure: judge me by my acts. Per questo pregiudizio il Satyricon sarebbe l'autobiografia di Petronio
Arbitro, il Metamorphoseos liber quella di Apuleio, il Werther quella del Goethe, e così si dica per tutti quelli che scrissero in prima persona. È proprio il caso delle donnicciuole di Verona che credettero Dante tornato
davvero dall'inferno perchè scrisse in prima persona ed ebbe il viso fuligginoso.
Non vi pare che si abusi di queste deduzioni per la fregola di ricostruire un uomo intero dall'opera sua,
come il Cuvier si vantava, conosciuto un solo ossicino, di ricostruire un intero megaterio scomparso? Non vi
pare che queste teoriche confinino con quella del Desbarolles che dalla calligrafia di una persona pretende di
indovinarne il carattere morale? Gli Inglesi si sono pentiti da un pezzo di quel Shakespeare ipotetico che s'erano immaginati, gabellando per sentimenti del poeta molti squarci messi in bocca ad un eroe qualunque: ma
noi intanto facciamo peggio, considerando come storia della vita vera di Dante le allucinazioni mistiche della
Vita nuova.
Questo sbaglio mi pare che derivi da una interpretazione troppo assoluta dell'oraziano:
…... Si vis me flere dolendum est
Primum ipsi tibi; tunc tua me infortunia laedent.
Non si bada che qui si dice soltanto quello che tutti gli autori comici sanno bene, cioè che per trascinare il pubblico agli applausi bisogna sentire la parte, non già averla fatta per davvero nella vita. Oh, allora lo
Schiller che razza di birbone sarebbe stato, egli che ha pur sentito e scolpito il Franz Moor ne' Die Rauber? E
la signora Virginia Marini quando recita con tanta verità la Messalina del Cossa, per chi la prendete dunque
con questa teoria? Ma date voi alla parola verità lo stesso significato nell'arte che le dà il computista ne' suoi
libri? Allora siete più veristi di noi; allora sì che c'è da gridare: arte mia, buona notte!
Non diciamo che si debba scrivere soltanto quello che s'è visto, ma che si deve scrivere soltanto come
se si fosse visto.
Alle altre obiezioni del Gnoli ho già risposto più in su in questa predica e confesso d'aver risposto molto prima che egli scrivesse la sua recensione.
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Le obiezioni infatti, come le risposte, sono press'a poco quelle stesse che sul cadere della Restaurazione francese scambiavano tra di loro i classici ed i romantici. Il postulato dell'arte educativa, dal quale scendono tutti i corollari critici dei conservatori nell'arte, è troppo controverso per essere accettato così ad occhi
chiusi, e per me, l'ho già detto, non credo tutt'al più che ad una influenza riflessa dell'arte sulla società, molto
causale e molto tenue. Ho già quasi detto, che se è vero che la Marsigliese fece vincere molte battaglie, fu
però la rivoluzione che fece la Marsigliese. Se non mi ammettete come causa gli entusiasmi francesi del
1792, non potrete mai, mai e poi mai, aver l'effetto di quel magico inno, nato dall'entusiasmo e non da altro,
poichè l'autore, raffreddato l'ambiente, non arrivò più a tale altezza lirica, per quanto ci si provasse. E scelgo
appunto il massimo esempio dell'arte educativa, perchè, quanto al resto, nessuno mi leva di capo che i giuochi si sarebbero fatti in Olimpia anche senza Pindaro, e il quarantotto sarebbe stato quello che è stato, anche
senza il canto Fratelli d'Italia. L'effetto educativo di Omero, di Sofocle e di Virgilio, mi pare molto problematico, a meno che non si ficchi tra gli effetti educativi anche la stabilità che gli autori illustri danno alla
grammatica di una lingua, nel qual caso il Boccaccio e il Rabelais sarebbero molto più educativi del Segneri
e del Bossuet.
Nego dunque assolutamente e recisamente questa affermazione del Gnoli — «La nostra letteratura e
specialmente la nostra poesia hanno un gran merito e impareggiabile, quello di aver preparato e condotto la
libertà e l'unità della patria» — Nego, nego, nego.
Prova, amico mio, a pensare la letteratura di cui parli, portata indietro, per esempio, mezzo secolo nella
storia. Che effetti avrebbe potuto ottenere ed a che libertà avrebbe potuto condurre nell'ambiente in cui si
trovava? Non solo, ma come avrebbe potuto esistere fuori dell'ambiente proprio? O meglio ancora, è possibile concepire l'anacronismo di uno spostamento simile? Dunque non fu la letteratura che preparò e condusse
l'Italia allo stato presente, ma furono le aspirazioni italiane che prepararono e crearono la letteratura patriottica della quale tu parli. Letteratura poi, che, salvo le opere di pochi sommi, non fu certo quella del secol d'oro
come arte, e che se ottenne qualcuno degli effetti riflessi di cui parlavo, non li ottenne per la sua perfezione
intrinseca, ma per l'entusiasmo che trovò bello e preparato negli ascoltatori. Ed oggi la rettorica del quarantotto ci fa sorridere, appunto perchè quell'entusiasmo giovanile non c'è più, e non c'è arte al mondo, che lo
possa resuscitare colla sua sola forza, per quanto grande la si voglia credere. L'arte non ha mai modificato le
aspirazioni di un popolo o di una società, ma è sempre accaduto il contrario. L'arte non ha mai condotto a
nulla, tutt'al più ha condotto qualche artista all'ospedale. Ma vedete. L'arte di Giovenale fu ben terribile, e
pure non guarì nessuno. L'arte de' padri della chiesa fu ben misera, e pure il cristianesimo cangiò faccia al
mondo. Ecco dunque che non è l'arte quella che corregge, che educa, che rinnova.
Ma tutto questo non è che inutile ripetizione e ne domando scusa. L'ho già detto che l'arte non fa le rivoluzioni, ma le subisce e le segue. Dico adesso, che è poi inutile volerci costringere ad essere educativi per
progetto. Non solo l'arte non fermerà nessun cassiere che scappi colla cassa, e non dissuaderà alcun baggeo
dal comprare cartelle del prestito Bevilacqua, ma, se ci si prova, si farà fischiare dal colto pubblico e dall'inclita guarnigione. Non ci sono le favole del Pignotti e quell'aureo libro che è il Codice penale per tenere i cittadini sulla via diritta? Lasciateci dunque in pace, e poichè ho ricordato Orazio ed una citazione latina fa un
bell'effetto, specialmente ai novecento novantanove critici che non la capiscono.
…... Sit jus liceatque perire poetis,
Invitum qui servat, idem facit occidenti.
Un signore di vista corta dice che soltanto «lavoriamo e studiamo a far l'amore», e ci rimprovera di
scordare i contadini e gli operai e insomma le questioni più gravi del nostro tempo.
Pover uomo! non stuzzichi i cani che dormono, e dorma lui, sognando a suo comodo che i nostri cuori
non siano capaci che di spasimare per donnine ignude. E preghi il suo Dio di non destarsi quando finite queste inutili scaramuccie verranno le battaglie vere, quando questa società ipocrita, frolla e senza cuore che noi
tiriamo alla berlina nei nostri poveri canti, si troverà in faccia alla rivoluzione della giustizia. Allora egli potrebbe accorgersi che non abbiamo lavorato solo a far l'amore e che colle nostre picciolette mani abbiamo ca-
vato anche noi una pietra delle sue fortezze. Allora egli sentirebbe quelle bocche stesse che oggi narrano
freddamente le vigliaccherie e le turpitudini di un mondo in decadenza, cantare ben altri canti, levare ben altri peana! È curioso! Critici che vogliono una tesi anche in una farsa, che meritano l'Epitaffio di Atta Troll,
... Tendezbär, sittlich
Religiös: als Gatte brünstig;
Durch Verführtseyn von dem Zeitgeist:
Waldursprünglich Sanskülotte,
non s'accorgono poi di quello che sta sotto a questa scuola verista, non vedono dove si va e dove vogliamo
andare, non sentono che siamo serbati a vedere trionfi ben diversi da quelli della chiesa e della scuola del
Manzoni! Non capiscono a qual rinnovamento sociale tendano concordi le scuole positive nelle scienze e
nell'arte, e sognano ancora la risurrezione del cattolicismo e della metafisica! Ciechi! Volete dunque che ve
li cantiamo in faccia gl'inni nichilisti? Volete dunque voi, che discutete sentimentalmente il divorzio, la cooperazione, il diritto di sciopero, volete dunque che vi cantiamo in tanti endecasillabi dove noi corriamo sapendolo, e dove, inconsci, correte anche voi? Cari miei, non vi sembrerebbe di avere abbastanza voce in corpo per invocare l'ausilio del Procuratore del Re e della Benemerita Arma come fanno gli amici giureconsulti
genovesi. Uno de' miei canti è già stato in Corte di Assise per questo, o brava gente, cui è facile gridare che
lavoriamo solo a far l'amore! Ma non c'importa di esser martiri a così buon mercato. Vogliamo fare qualche
cosa di meglio. Siamo giovani abbastanza per rivederci di qui a parecchi anni. Allora ci saprete dire se sotto
al verismo c'era soltanto l'oscenità, o se non c'era qualche cosa di più grave. Allora ripeterete, se vi sentirete
abbastanza lena addosso, sacro a tutti è il lavoro; ma badate che bisognerà lavorare sul serio.
E dopo tutte queste chiacchiere abbiate pazienza se mi resta ancora qualche cosa da dire.
Ruppi la lancia pei veristi, feci un bel castelletto di carte dove fortificai gli argomenti della scuola nuova. Ma la lancia fu di legno dolce ed il castello con un soffio rovinerà. Infatti, tutte queste distinzioni di veristi, realisti, idealisti, scuola nuova, scuola del Manzoni, e simili sonanti parole, non sono che vane apparenze, flatus vocis, imaginati e fatti apposta per leticarci sopra e sfogare il vapore battagliero che, dal Caro in
qua, fuma su dai fegati letterati in Italia.
Chiacchiere.
Altro è l'intento d'un libro, altro è l'arte con cui fu scritto.
Mi pare che se facciamo una critica di intenzione siamo fuori del campo letterario. Mi pare che sia lecito il dire che le commedie del Sardou sono perniciose alla frigidità delle ragazze, ma mi pare anche che
questa non sia critica d'arte. Invece le logomachie fra i veristi e gli idealisti pretendono proprio di esser critiche d'arte, mentre sono, se pur lo sono, dispute di sole tendenze. Ma che cosa c'entra la moralità, nell'arte di
un libro? Ma io nego l'arte morale, educativa, pudica, perchè la moralità, l'educazione, il pudore non sono
niente affatto tropi, ritmi, ornamenti, rettorica; sono ben altro! Non confondiamo l'arte di uno scrittore co'
suoi concetti.
Quando leggete i Dialoghi de' massimi sistemi, è il sistema copernicano che vi piace, o lo stile del Galilei? Se vogliamo fare una critica d'arte diremo quindi che l'arte dell'Aretino è più grande di quella del Vico.
Se facciamo una critica etica diremo invece che il Vico è un grande filosofo e l'Aretino un gran porco. Non
confondiamo dunque la forma colla sostanza. Dico bene?
Invece quegli uomini buoni che partono armati in guerra come il Marlbourough della canzonetta (mironton, mirontaine), trovano comodo rimescolare ogni cosa e nei loro consigli di guerra giudicare le tendenze invocando il nome dell'arte. La confusione è utile ma non è giusta, e il cornuto dilemma della forma e della sostanza sarà sempre là pronto a rovesciare i loro scanni curuli e i nostri castelletti di carte.
Ci sono degli autori che hanno delle cattive intenzioni? Sta bene. Ma non ne fate una scuola letteraria
per carità! Non li battezzate veristi, realisti, anticristi, perchè qui l'arte non c'entra. Dite che Caio segue il
Darwin, che Tizio studia lo Spinoza, che Sempronio ricorda Epicuro, ma non conduceteli al giudizio dei let131
terati, mentre dovreste condurli a quel dei filosofi. Dite che l'etica di molti è sbagliata, ma non dite che la
poetica è spregevole solo perchè l'etica di molti non è la vostra. Cercate ne' libri del Mamiani, nel Codice,
nel Galateo, nella Dottrina cristiana gli argomenti da opporre ai loro argomenti. Cercate nell'ingegno e nella
fantasia dei vostri catecumeni gli ornamenti e le vesti pei vostri filosofemi, e le poesie verginali ed i romanzi
ortodossi da contrapporre agli altri. Fate commedie, racconti, giornali a tesi, ma non confondete la tesi coll'arte. Le tesi delle commedie di Paolo Ferrari sono molto più morali di quelle di A. Dumas figlio. Ma le
commedie sono più belle?
Se farete questa distinzione fra la critica d'arte e quella di tendenza, ecco tutte queste controversie bizantine fra scuola e scuola cadono da sè. Guardate.
Se la critica si fa all'assunto di un libro e non all'arte, ci sono degli scomunicati che dovrebbero esser
beati e viceversa. Ma se confondete tutto e sentenziate che gli idealisti sono gli autori morali ed i veristi gli
immorali, dirò che le tragedie dell'Alfieri, piene zeppe di pugnali, di veleni e d'incesti, sono veriste in sentenza vostra, e le canzonette dell'abate commendator Scavia sono il prototipo dell'idealismo. E vi dirò che il rispetto, non idolatra ma giusto, che sentiamo pel Manzoni, può far dimenticare a noi ma non al Settembrini
che i Promessi Sposi predicarono la rassegnazione all'Italia assassinata, ed i padri gesuiti, forse per questo,
ne raccomandarono la lettura alle loro penitenti9. Vedete subito dove ci condurrebbero i confronti, per esempio, colle Confessioni di un ottuagenario del Nievo: vedete subito i bizantinismi che nascerebbero dal confronto del Jacopo Ortis con le Mie Prigioni.
E se pensiamo alle teorie linguistiche dello stesso Manzoni, cresce a dismisura l'imbroglio. Dice bene
l'Ascoli — «Prima si aveva l'ideale della tersità classica, ora sorge l'ideale della tersità plebea». — Tutti sappiamo che questa tersità plebea, ossia la lingua fiorentina, fu l'ideale del Manzoni. I sacerdoti galli che anatemizzano le nostre pretese falloforìe, dovrebbero vedere di non leticare prima in casa e di saldare insieme il
Manzoni idealista nelle tendenze col Manzoni verista nei mezzi, prima di giudicare noi poveri piccini con
criteri critici che non stanno nè in cielo nè in terra.
E con questi criteri dove si andrebbe? Nè dite che certi autori vollero appunto disgustare dal vizio dipingendolo orrido o schifoso, poichè questo fu appunto l'argomento col quale il vescovo Bandello volle scusare la sudiceria delle sue novelle e, ragionando così, sarebbe morale ed idealista anche lui. No, dite piuttosto che nelle questioni d'arte la moralità non c'entra affatto e che non è da confondere la critica della tesi colla critica della forma. A nessuno dei più sfegatati veristi cadde mai in mente che la parola d'ordine dell'arte
nuova sia il rimar porcherie per convertire il mondo alla fede degli adamiti olandesi od alle pratiche di Aloysia Sigea Toletana. Se ce ne sono che scrivono così, non scrivono perchè il credo di una scuola artistica lo
imponga, ma perchè a loro, come individui, quegli assunti etici paiono buoni da rimare. Non fate dunque i
rimproveri vostri agli artisti, ma agli uomini; non ad una scuola che non c'è, ma ad una perversione di coscienza e di istinti che ci può essere, benchè io, miope, non la vegga. Non invocate l'epistola ai Pisoni, ma il
titolo VII, articolo 420 e segg. del Codice Penale e la legge su la stampa; e credete che le scuole artistiche, se
ci sono, badano solo all'arte e non alla tesi, poichè a quest'ultima ci badano la filosofia, la politica, l'economia ed altre amene scienze inventate per rompere le capaci tasche dei poveri contribuenti.
Vogliamo invece fare una critica d'arte? Non parliamo allora di moralità, di tendenze, di tesi, che non
furono mai cose d'arte; ma diciamo, questo verso è zoppo, questo aspro, questa immagine falsa, questa linea
sbagliata, questo colore convenzionale, questa sinfonia piena di riminiscenze, e così via. Ma non dite, come
fate purtroppo, questa poesia è brutta perchè c'entra una donnaccia; poichè questa non è critica d'arte. La statua di Frine potrà essere stata immorale, ma fu bella; e le madonne del Margaritone potranno essere state
moralissime, ma furor brutte. E poi si vede da lontano, che stando nel campo dell'arte e analizzando bene
queste scissioni causistiche di scuole, ci sarebbero degli idealisti più veristi di Courbet.
9 Vedi le Lettere scritte a Giacomo Leopardi, Firenze, Success. Le Monnier, 1878, pag. 158. È noto che Monaldo Leopardi era amico del generale dei gesuiti p. Roothan.
A che cosa si riduce dunque tutto il fracasso che si fa ora nella turbolenta repubblica delle lettere? Al
titolo di una commedia di Shakspeare: Much ado about nothing.
È verissimo che ci sono alcuni, specialmente giovani, che hanno tolto per impresa i bei versi del Carducci:
Odio l'usata poesia. Concede
comoda al vulgo i flosci fianchi e senza
palpiti sotto i consueti amplessi
stendesi e dorme;
e per togliersi dalle rime consuetudinarie hanno stimato, come Quintiliano, che tutte le parole sian dette bene
al loro luogo ed hanno cercato appunto quei luoghi dove i conservatori non osavano mettere le parole ed i
sentimenti veri giusto per far vedere più chiaramente la loro intenzione. Furono chiamati veristi solo per questo, che usavano la parola propria dove gli altri usavano la metafora, ed accennavano al sentimento vero
dove gli altri velavano il proprio. Ma può essere una scuola questa? Se c'è chi ha cantato un'osteria colle parole necessarie a dipingerla, chiamando litro e non nappo il recipiente che si usa più spesso, direte che si è
messo in una scuola piuttosto che in un'altra? Potete nell'abito dell'arte trovare che il quadro è mal dipinto:
potete nel calcolo delle intenzioni deplorare che si frequentino e si cantino le osterie dove il vino è buono,
ma non potete dire che quell'opera sia brutta perchè c'entra una osteria. Allora dove mi ficcate i pittori fiamminghi?
E dove mi ficcate la traduzione della Pucelle d'Orléans fatta dal Monti e venuta in luce da pochi mesi?
Bel caso fu questo! Il Monti, assunto già sugli altari dell'ideale, sta per esserne precipitato, ed i filistei si alzano già in punta di piedi per gridargli raca. Bel caso!
E pure quella traduzione è fatta per bene, tanto come quella delle Satire di Persio, filistei pudicissimi.
Scandalizzatevi pure, pusilli, che noi non ci metteremo al collo la pietra molare poichè, se voi svolgete quelle pagine per trovarci gli amori dell'asino con Giovanna, noi non cerchiamo sì fatte cose. Cerchiamo là quel
sale attico che Aristofane versò a piene mani nelle sue libere commedie e che gli ateniesi gustarono plaudendo, essi che di quel sale attico probabilmente se ne intendevano. Quel sale attico che conservava le opere
d'arte vive e fresche, mentre i dolciumi vostri passano così presto allo stantìo. Ben venga magari anche la
traduzione della Guerre des Dieux di quel Parny che il Rapisardi conosce molto. Se fosse ben fatta diremmo
bene; diremmo male se fosse mal fatta. Voi inorridireste in tutti i modi leggendola avidamente cogli occhi
fosforescenti.
Ecco intanto secondo i vostri bei canoni critici il Monti diventato verista perchè tradusse un poema allegro, non è vero? Vorreste forse negarlo?
Ma se lo negate, allora, che cosa vuol dire verista? Che copia il vero forse? No, perchè nessuno dei più
scamiciati ribelli vuole abbassare l'arte all'ufficio della fotografia. Che cosa vuol dire idealista? Che cerca al
di là del vero qualche cosa di impalpabile, di spirituale, come salsa per il vero stesso? Vuol dire prendere una
fornaia e modificarne il ritratto sino a farne la Madonna della Seggiola? Ma tutti gli artisti, anche il Courbet,
fanno a questo modo. C'è solo differenza nel modo di far la salsa; chi la fa cattolica e chi pagana, chi dolce e
chi piccante, e tira via.
Ideale! Ma se questa parola significa quella cucinatura speciale del vero che fa l'artista nei suoi fornelli, tutti sono idealisti. Non lo sono più tutti quando si vuol dare una interpretazione restrittiva a questa parola
e intendere per idealismo la maniera di Caio o di Tizio e per ideale la sola salsa dolce. Guardate un poco il
preteso idealismo dei pittori trecentisti, quel sentimento religioso e contemplativo che si vuol vedere per forza nelle loro opere. Non è altro che ignoranza del tecnicismo dell'arte. Il signor Toschi nella Nuova Antologia riduce alle proporzioni volute questo preteso idealismo. Ci guardino i battaglieri manzoniani, che c'è da
imparare molto e da correggere i molti e i vecchi pregiudizi accademici che tutti abbiamo ancora in corpo.
133
Dunque?
Dunque non vi sono nè veristi nè idealisti.
Se mi dite che l'esser galantuomo, l'amare la patria, l'ammirare l'arte del Manzoni sono i caratteri indelebili degli idealisti, nessuno è più idealista di me. Se mi dite che ammirare le donne belle, bere il vino buono ed amare l'arte del Carducci sono i caratteri dei veristi, nessuno è più verista di me. Ma ognuno vede la
verità coi propri occhi ed ha un ideale proprio.
Per esempio, l'ideale della mia donna non è quello che il Vittorelli espose nelle sue anacreontiche; il
mio ideale porta un vestito grigio che costa 4,50 al metro.
Il mio ideale della patria non è l'Italia mia melodrammatica, ma un'Italia nella quale sono elettore ed
ineleggibile.
Il mio ideale dei bimbi non è quello che si trova nei santini di Francia col suo bravo angelo custode
che li cova sotto le ali bianche, ma è invece in due bimbi che mi tirano i capelli quando li prendo in braccio.
Saranno ideali meno sublimi, ma non meno nobili, non meno degni dell'arte, e nell'arte mi pare che ci
si possa star bene anche senza frasi fatte, lucidi entusiasmi artificiali, e pudicizie d'uniforme. Il Napoleone
tutto nudo che fu modellato dal Canova colla sua brava foglia ideale, non mi pare che debba escludere dall'arte i Napoleoncini del Meissonnier; e la Trasfigurazione, con tutti i suoi apostoli, non esclude nessuna
Kermesse con tutte le sue donnaccie.
Perchè vituperarci l'uno coll'altro mentre siamo in fondo d'accordo? Il Salmini finisce il suo Polycordon colla obiurgazione d'obbligo alle serve che mostrano le coscie veriste e poi è un ribelle anch'egli nella
sostanza, nella forma e sino nel titolo. Dove sono dunque i limiti di queste pretese scuole? Quando lo Zanella, frugando tra le ceneri scaligeriane, acchiappa il tizzo che accese già le guerre letterarie per Cicerone e
scrive una panzana a certi filologi tedeschi che fa veder proprio la inanità di queste battaglie idiote fra Varo
ed Arminio ascriveremo il peccato ad una scuola? Non ci mancherebbe altro!
State attenti all'aforismo che vi dico e tenetelo a mente.
Non ci sono nè veristi nè idealisti. Ci sono degli autori che scrivono bene e degli altri che scrivono
male; ecco tutto.
Perchè dunque questi due campi senza ragione? Chi lo sa? Non lo so nemmeno io che con tutta la persuasione delle loro inanità scrivo un libro contro i pretesi idealisti come già el ingenioso hidalgo si rompeva
le corna contro i mulini a vento.
Non può esserci altra spiegazione che nell'istinto battagliero fatalmente necessario alle epoche di preparazione e di transizione, il quale pervade tutto, dal mestiere alla scienza, dalla politica all'arte.
Respiriamo tutti l'ossigeno ad alta dose. Domani avremo le vertigini e dopo domani o saremo guariti
dai mali vecchi o diverremo l'humus necessario alla vita delle generazioni avvenire.
Che Bismark ce la mandi buona!
Basta; è ormai ora di finire.
E poi a che prò discutere? Per drizzare le gambe ai critici? Ci vuol altro! Sono essi che hanno vituperato il Carducci che è il Carducci.
Sono essi che parlarono a fior di labbra del Panzacchi affettando di metterlo dopo gli altri.
Sono essi che m'hanno applaudito quando mi credevano morto e due giorni dopo mi hanno gridato pericoloso ed immorale perchè hanno saputo che son vivo! Al morto dissero: peccato che non sia vivo! Al vivo
dicono: era meglio che fosse morto!
Chi l'indovina con loro?
Si disse che questa è l'età della critica, e mi pare impossibile negarlo quando si vede un formicaio di
critici così numeroso. Già chi non ha nulla da fare a questo mondo fa il critico, e quasi si potrebbe dire che la
critica è la madre dei vizi come l'ozio ne è il padre.
Questa stravagante tendenza e questi ritrattini deliziosi di critici furono già molte volte descritti, ed il
Carducci ne fece un quadro che il simile non lo fece Apelle. Il più bello, il più caro, il più esilarante di tutti è
il ritratto del critico dogmatico, che altri fece ed io non voglio copiare. Solo ne voglio dir qualche cosa perchè è proprio il critico dogmatico quello che regna sovrano in quasi tutti i licei di questo felice regno d'Italia
e ne' giornali più larghi e più pesanti.
Si sa. Oggi la critica è necessaria. Si vive presto, non si ha tempo di leggere che un giornale appena, ed
il lettore ha bisogno di trovar belli e fatti nel suo giornale i giudizi sulle opere d'arte che escono alla luce, per
non esser poi reputato ignorante nei colloqui col suo prossimo, il quale studia anche lui la letteratura nel suo
giornale e giudica e manda secondo il critico avvinghia.
Gli avvocati, a forza di ragionamenti, sono già arrivati a persuadersi che tutte le cause debbono esser
difese, anche le più spallate, e che è dovere sacrosanto il sacrificarsi a difenderle. Lo Strepsiade di Aristofane
troverebbe anche oggi, e dappertutto, chi crede dovere di coscienza l'adottare il ragionamento giusto o l'ingiusto secondo la causa, ed insegnare l'arte di non pagare i debiti a forza di dialettica. Ma siccome la legge
economica della domanda e della offerta ha fatto che ormai sia più grande la produzione degli avvocati che
quella delle cause da difendere, accade che molti giurisconsulti, non avendo clienti, nemmeno per le cause
spallate, si sono fatti critici ed hanno portato nella critica tutto il bagaglio dei sofismi curiali. Le logodedalìe
furono così innalzate alla ennesima potenza, e perchè avessero pure un fondamento di severa logica, si inventò la trionfante, la piramidale distinzione fra il bello ideale ed il bello reale. Lo disser già quei meravigliosi sofisti che furono gli scolastici: saepe nega, concede parum, distingue frequenter.
Non è facile camminar spediti nello spinaio piantato da costoro. Pure si vede, così tra il fosco e il chiaro, che il bello ideale è una specie di bello assoluto, l'idea di un tipo sopra sensibile e perfetto, mentre il bello reale è relativo, sensibile e perfettibile. Questa distinzione fu certo una delle più felici applicazioni dell'arte sognata da Strepsiade, alla necessità delle cause spallate. Infatti questo bello ideale ed assoluto nessuno
l'ha visto, nessuno l'ha sentito e — che vi sia ciascun lo dice — dove sia nessun lo sa. È più facile scriverne
un trattato come fece il Gioberti che darne una definizione chiara ed esatta in modo che tutti la capiscano.
Ecco dunque come è facile, a questi critici metafisici l'aver sempre ragione. Sentenziano essi che un'opera è
più o meno bella, secondo che si accosta più o meno a questo bello ideale ed assoluto. Ammesso questo postulato, tutto è finito. Mancando un termine di confronto, poichè questo bello assoluto è l'araba fenice, la via
pei difettivi sillogismi e per le sentenze dogmatiche è già spianata. Così la Pizia rispondeva invece del Nume
e così certi critici seggono sul tripode ed eiaculano l'oracolo da bravi sacerdoti dell'assoluto metafisico. Così
sappiamo soltanto da loro quando un'opera si accosta o si allontana dal bello ideale ed assoluto, ed il buon
lettore che studia le loro sentenze dopo pranzo, non potendo far confronti per mezzo del giudizio proprio,
perchè il bello assoluto non lo conosce neppur di vista, per forza deve credere al critico che fa le mostre di
conoscerlo lui così bene e di esserne intimo.
Speriamo che il progresso dell'arte critica e la crescente produzione di avvocati senza cause, perfezioni
questo metodo sempre vittorioso, tanto da applicarlo non solo al bello, ma a tutte le altre qualità dei corpi e
delle loro forme. Speriamo di veder introdotto nella critica d'arte il verde assoluto, la sonorità ideale ed altre
amene concezioni che mostreranno la fecondità del cervello umano nell'immaginare sciocchezze; fecondità
non superata che dalla ingenuità di chi se le beve.
Benedetti avvocati! E pensare che sono laureato in legge anch'io!
E benedetti critici! Sono diventati tutti quaqueri Si vede bene che se avessero le idee chiare e dovessero esprimerle chiaramente, descriverebbero l'ideale dell'arte a questo modo: Un grande prato magari nella
classica valle di Tempe, pieno di letterati pecore e di critici mastini. Quando un agnello scapestra, ecco il
mastino lo azzanna alle orecchie e lo riconduce entro i termini segnati dall'erma del Manzoni (priva s'intende
degli ornamenti che Alcibiade troncò alle erme ateniesi). Il buon pastore intanto ammazza il tempo recubans
sub tegmine fagi, soffiando nelle rustiche avene o allacciando le brache di precauzione ai montoni innamorati. Sublime ideale! Fuori dal gregge chi non crede ai dogmi! Abbaiate, mastini, alle calcagne di chi non crede
possibile un identico sistema di pesi e di misure per tutte le opere d'arte da Zeusi al Morelli, da Jubal al Verdi: da Omero al Carducci. Abbaiate!...
Il sogno è arcadicamente bello, ma pur troppo calano i montoni colle brache e si moltiplicano i lupi
135
sanculotti.
Ma, via, perchè discutere? È ora di fare. Cessiamo dalle chiacchiere che fanno perdere il tempo e lasciano ognuno nel proprio parere.
Concludo. È vero che non siamo cattolici apostolici e romani, ma non è vero che siamo corruttori, fabbricatori di veleni, Canidie, Locuste, Borgia o Brinvilliers. Eccederà la ribellione, ma eccede la reazione, e
ribellione e reazione non sono che la tesi e l'antitesi dalle quali trionfante e gloriosa la sintesi proromperà.
Oh, lettor maligno, dove sei? Ti dimenticavo, poverino! Vieni qui e guardami. Ho il polpastrello del
pollice sulla punta del naso ed agito le dita distese.
Così ti saluto.
30 settembre 1878
POLEMICA
Paedicabo ego vos et inrumabo,
Aureli pathice et cinaede Furi,
qui me ex versiculis meis putastis
quod sint molliculi, parum pudicum.
Nam castum esse decet pium poetam
ipsum: versiculos nihil necesse est.
C. VAL. CATULL. Carm. XVI.
137
Ed anche a me da l'innocente cuna
ridon due bimbi che l'amor mi diede
e quei due bimbi son la mia fortuna,
la mia bella speranza e la mia fede.
Anch'io, ne' chiostri che la notte imbruna,
anch'io singhiozzo d'una tomba a 'l piede:
anch'io soffro, lavoro, amo, ed alcuna
vergogna a 'l famigliar desco non siede.
L'anime intanto castigate e buone
che confondon gli apostoli e i poeti,
l'anime pie mi credono un briccone
perchè gli affetti miei cari e segreti
non portai tutti quanti a processione
ragliando salmi come fanno i preti.
Idealisti saggi, ho molto amato
de la mia gioventù ne 'l facil corso:
chi molto amò ne 'l mondo è perdonato
tal de 'l vostro Gesù suona il discorso.
Così, critici miei, tutto lavato,
senza la macchiolina d'un rimorso,
da la gran voce de 'l Signor chiamato
a 'l cielo salirò con l'ali a 'l dorso.
Ivi la donna mia sovra le stelle,
angelo bianco, arcangelo giocondo,
bellissima vedrò tra l'altre belle;
e furtiva verrà de 'l cielo in fondo
a farmi le carezze e le frittelle
che mi fa tanto buone a questo mondo.
139
IL NOME DI MARIA
Non per tempo che passi o lunga via
che da te mi divida o m'allontani,
non per mutarsi de gli eventi umani
potrò dimenticarti, anima mia;
e ne lo spasimar de l'agonia,
giunto a la sera che non ha domani,
pensando a questi dì fatti lontani
il nome tuo singhiozzerò, Maria.
E diranno di me: — l'ora de 'l pianto
ecco vinse il ribelle: ecco l'aiuto
chiese d'un nome benedetto e santo. —
Ma no. Su 'l letto funeral caduto
quel dolce nome lo dirò soltanto
in memoria de 'l ben che m'hai voluto.
A GIOSUÈ CARDUCCI
E su 'l ginocchio, come
il gladiator tirreno,
Poggiato, io, fra le chiome
E ne 'l rïarso seno
La fresca aura sentendo
Morirò combattendo.
G. CARDUCCI
Enotrio, dormi ed alte a 'l ciel le grida
de la battaglia vanno, e la bandiera,
la tua bandiera dispiegata a i venti
sta ne la pugna.
Stretti a coorte, giovani soldati,
a lei d'intorno, combattiam per lei:
tu nostro duce intanto e forza nostra,
Enotrio, dormi.
Non senti dunque de l'incenso il puzzo
e il canto fermo e d'Escobar la voce?
Antiche l'armi a le novelle pugne
porta il nemico;
e il buffon Mena, da 'l tuo forte schiaffo
segnato il viso, le tue laudi canta,
ma co 'l pugnale di ferirti cerca
dietro le spalle.
Oscenamente dondolando l'anca
Bavio spadone d'assalir si vanta
l'arte tua bella e di tenerla sotto
ferma, domata;
e Lesbia, usata a glubere i nepoti
floschi di Remo sotto gli angiporti,
getta il tuo libro e con la lingua infame
turpe lo dice.
Ecco i nemici, e tra di lor gli onesti,
canuti o pigri, che scordar non sanno
gli antichi santi, cari a la lontana
lor giovinezza.
Ecco il nemico. Destati. Le chiavi,
le chiavi d'oro stan ne 'l suo vessillo.
Ecco, ne gl'inni lacrimosi invoca
141
papa Leone.
Le forti strofe contro lui saetta,
prorompan gl'inni da 'l possente petto,
gl'inni civili e il giambo avvelenato
come una volta,
e vinceremo. Su 'l sudato campo
erigeremo il memore trofeo:
la fronda sacra cingerem, Poeta,
a la tua fronte.
Intanto Marsia a 'l vergognoso tronco
udrà, legato, de 'l trionfo il canto,
Marsia che indisse co 'l sottil belato
a te la sfida.
Co 'l suo coltello le caprine corna
e il vello infame gli trarrem di dosso:
ad Evio sacro ne faremo un vasto
otre pe 'l Chianti.
Apostata, marrano e rinnegato
ecco bestemmierò l'arte che amai,
de 'l mansueto ovil saggio castrato
belerò madrigali a' macellai,
farò poemi casti a buon mercato,
rogiti in versi sciolti pe' notai,
e mi confesserò da 'l mio curato
tre volte al giorno se peccassi mai:
maledirò la carne di maiale,
farò un bambino con la fantasia
d'un platonico amor frutto ideale:
e ne 'l nome di Cristo e di Maria
amerò, servirò l'arte morale
se mi saprete dir che cosa sia.
143
A FELICE CAVALLOTTI
Sarà il caso di vedere se per ritemprarci al gusto
antico vi sia bisogno di farci dare anche gli abiti a
prestito dai nostri nonni.
F. CAVALLOTTI, Prefaz. alla traduz. di TIRTEO.
Ma, per l'amor di Dio, ma che t'han fatto
questi disgraziatissimi elzeviri
perchè tu me li tiri
per gli orecchi e li sferzi ad ogni tratto?
Perchè son piccolini di natura
me li vuoi prender tutti a scappellotti?
Ma, mio buon Cavallotti,
vorresti de gli in-foglio a dirittura?
Dio che a i sindaci dà prestiti a premi,
tartufi a l'amor mio, pomate a i calvi,
Dominedio ci salvi
da i libri troppo lunghi e da i poemi!
Lo so, costano troppo e son piccini,
pieni di fregi e d'altre gherminelle,
ma son tanto bellini!
Piacciono tanto a le donnine belle!
C'è il budellame, già, l'osso che crocchia,
anatomie rubate a lo spedale
orgie di carnovale,
donne scollate sino a le ginocchia,
c'è tutto quel che vuoi: ma se un po' d'arte,
se un po' d'ingegno, se un pochin di vita
calda, vera, sentita,
palpita e ride ne le tenui carte,
non lapidarci, non gridarci abbasso;
perchè amammo anche noi, soffrimmo, e il pianto
lo tramutammo in canto
quando i vecchi giocavano a 'l ribasso.
Non badare a' trochei se il verso torna,
non contar le minuscole a 'l Carducci
che in viso a Vanni Fucci
de 'l giambo archilocheo squadra le corna.
Tu che di libertà segui la parte,
che ne la pugna sua ti sei scagliato
non ultimo soldato,
non ci negar la libertà de l'arte.
Anche l'arte cammina e per adesso
lascia che gli elzevir vadano avanti:
se ce n'è de' calanti,
l'arte d'Italia camperà lo stesso.
Sai, sessant'anni fa, quanto spavento,
che vaticini orribili e diversi
perchè si disse in versi
barba a la barba e non l'onor de 'l mento!
L'arte, si disse, casca ruzzoloni:
tornano i Goti, i Visigoti e il resto!
E dopo tutto questo
che cosa capitò? Venne il Manzoni.
145
Se nasco un'altra volta a questo mondo
vi dò parola che mi farò prete
e sarò così ciuco e così tondo
che mi faranno vescovo. Vedrete.
E vescovo, sarò tanto iracondo
che il Papa, per lasciar la chiesa in quiete,
mi farà cardinale e in fondo in fondo
non sbaglierà così come credete.
Poi sarò Papa. Allora, oh, staran freschi
i poveri poeti petrarcheschi
da i pudori cattolici e frateschi!
Ch'io crepi adesso se cacciar non faccio
con una bolla lunga mezzo braccio
cent'anni d'indulgenza ne 'l Boccaccio.
Quando vedrai cader le foglie morte
ed il lunario predirà la neve,
allungherai le tue maniche corte,
mia freddolosa, e vestirai di greve.
Le beltà velerai che bianche ho scorte
e le scultorie braccia e la man breve
e il seno, il sen che palpitò sì forte
a 'l primo bacio mio timido e lieve.
Pur qualche volta forse, e non invano,
per gli occhi pregheran le mie parole
e i veli getterai per me lontano;
e tolto il guanto che serrarla suole
nuda ti bacierò la bianca mano...
il braccio no. La critica non vuole.
147
GIOVANNIN BONGÈE
E DETTI
Barborin, Barborin, te l'ho già ditt
fa no la cialla che son dree a dormì.
Te vedet no che te me fee i gallitt?
Te vedet no... Salamm?... Salamm a chi?
Ma cossa l'è sta razza de petit
che te veut mangià carna el venerdì?
L'è semper venerdì? Che bel delitt!
Mi son minga verista, cara tì.
Hin i verista quii che fan sti coss,
sti balossad inscì strasordenari,
sti peccaa de tirass l'inferna adoss!
Ma mi, l'idealista leggendari,
tutt in d'un bott deventaroo un baloss?
Brava, e la religion? Brava, e el salari?
L'IDEA PURA
«Saliam, fanciulle, per la via fiorita,
su per la via che in alto ci conduce.
C'è una selva lassù, verde e romita,
un tripudio d'augelli, un mar di luce.
Venite meco se il desìo v'invita
di conoscer l'idea che mi seduce.
Lassù vivono i cor d'un'altra vita
a i fortunati un altro sol riluce.
Leviam le penne a i cieli alti e lontani,
poi che puro l'amor là si conserva
da la bassezza de gli istinti umani». –
Il poeta così caro a Minerva
canta, pieno de 'l Nume, e a l'indomani
rumina un terno e dorme con la serva.
149
A CERTI FARISEI
O piccoli pedanti
slattati l'altro ieri
che fate gl'importanti,
ed i cacapensieri,
armento d'ignoranti,
seme di cavalieri,
lievito di birbanti
fatti carabinieri,
censoruzzoli savi
che le forbici avete
ne le zampine gravi,
meglio usar le potete
al mestiere de gli avi
che tosavan monete.
ALLA MUSA
... si nonnulla tibi paulo petulantiora videbuntur, erit eruditionis tuae cogitare summos illos
et gravissimos viros qui talia scripserunt, non
modo lascivia rerum, sed ne verbis quidem nudis abstinuisse.
C. PLINI CAEC. Sec. Ep. IV, 14.
I.
Povera Musa mia, te l'han pur detto
il nome che a le donne è villania
perchè t'han visto nuda in un sonetto
senza la foglia de l'ipocrisia!
E pur mi torni ed il divino aspetto
concedi sempre al cor che lo desia,
e mi lasci dormir sovra il tuo petto
e mi lasci sognar la gloria mia.
Ahi, ma de 'l lauro tuo non mi si abbella,
Musa, la fronte che su 'l carme suda;
orïente non v'ha per la mia stella.
E sia, purchè su 'l petto ancor ti chiuda
come l'amor superbamente bella,
come la verità candida e nuda.
151
II
Libero il seno eretto, a 'l vento davi
ne 'l notturno mister la chioma bionda
ed, urgendo la Dea, lungo la sponda
de 'l sacro Ilisso, Adone, Adon chiamavi;
o tra le messi d'oro ebbra levavi
l'inno sonante a Cerere feconda,
o Menade sfrenata e furibonda
ignuda al sol la tua beltà mostravi.
Io t'inseguia tra gl'inni e tra le faci
ed un foco m'ardea le vene e i polsi,
il foco di quel nume in cui mi piaci,
finchè le man ne le tue chiome avvolsi
e ti tenni su l'erba e i caldi baci
e la vittoria su 'l tuo labbro colsi.
III
O pallida Eloisa, anch'io salivo
tante volte di notte a la tua cella
ed il segreto de 'l mio cor t'aprivo
e ti chiamavo benedetta e bella.
A l'onda de 'l tuo sen vergine e vivo,
palpitando obbedia la tonacella,
e i brividi de 'l senso errar sentivo
ne la tua carne e ne la tua favella.
Livida sotto a la pupilla stanca
non t'appariva più l'orma segreta
de la virtù che a poco a poco manca,
quando su 'l molle altar, vittima lieta,
abbandonavi la persona bianca
sorridendo a l'amor de 'l tuo poeta.
153
IV.
Nè mai l'orgoglio tuo, come Torquato,
bella duchessa, delirando offesi,
quando co' baci che non m'hai negato
ambo le chiavi de 'l tuo cor mi presi.
Con la candida man tu m'hai guidato
a giocondi misteri altrui contesi...
O talamo ducal, come beato,
come superbo a la tua gloria ascesi.
Duchessa bionda, i versi miei novelli
così furon per te, pe 'l roseo fiore
de le pompose forme e gli occhi belli.
Cantai le notti in cui lasciommi amore
ne 'l profumo dormir de' tuoi capelli,
fra le tue braccia bianche e su 'l tuo core.
V.
Piedini che guizzate impertinenti
fuori da le gonnelle inamidate,
labbra color di rosa e sorridenti,
riccioli biondi e provocanti occhiate,
amor cheti de l'alma e confidenti
intimità su l'origlier cambiate,
spasimi, voluttà, gaudii, tormenti
che l'amor de la carne accompagnate,
rendete a 'l labbro mio la fiamma chiusa
entro l'accidia de l'ingegno gramo;
vita fatela voi ne 'l carme infusa.
Palpitate ne 'l ritmo a cui vi chiamo,
candide nudità de la mia Musa:
v'odian Tartufo e gl'impotenti: io v'amo.
155
WIENER BLUT
WALZER DI JOHANN STRAUSS
ᾷ δἐ πῶλοι ταὶ ϰόραι
πὰρ τὸν Εὐρώταν
ἀμπάλλοντι πυϰνὰ ποδοῖν
ἀγϰονίωαι
ταί δἐ ϰόμαι σείονϑ' ᾷπερ ϐαϰχᾶν
ΑΡΙΣΤΟΦ., Λυσιστράτη, 1308-12.
Senti le note di Strauss che vibrano
chiare, giulive ne l'aria tepida,
l'olezzo de' fiori e la molle
voluttà che ne' volti traluce!
In ampi giri le vesti seriche
rotando, ascosi candor tradiscono.
Non vedi? Un delirio sublime
gonfia i petti e prorompe da gli occhi.
Dammi la mano, la mano candida;
chinami il biondo capo su l'omero
e insieme ne 'l vortice lieto
de la danza, fanciulla, voliamo.
Come sei bella! Come ti brillano
socchiusi gli occhi sotto le ciglia!
oh, come la gioia sorride
su 'l tuo labbro gentil, ne 'l tuo viso!
Voliam leggieri, voliam ne 'l turbine:
gustiam l'ebbrezza de la vertigine.
Immote su l'ali distese
così volano in ciel le palombe.
O fortunata questa camelia
che bianca muore tra i veli candidi
de 'l seno, socchiusi, agitati
da 'l pulsar de le turgide forme!
O fortunata che muore, il palpito
de la bellezza la morte allevia!
Oh, un'ora piacerti e morire,
come un fiore morir su 'l tuo petto!
Voliam, voliamo! Tra le mie braccia
ti stringo tutta, materia ed anima.
Sei mia, mia, come in sogno,
non lo sai? tra le braccia ti tenni.
Voliam, voliamo insiem ne l'aere
lassù fin dove s'amano gli angeli,
fin dove ci assume l'amore
ne l'azzurro infinito de' cieli...
Ahi, ma le note giulive cessano;
fermarci è forza, dobbiam dividerci...
O sogni, così mi fuggite!
O mia gioia, così m'abbandoni!
Tu maledetta voce de l'odio,
perchè mi suoni bieca ne l'anima!
La pace de 'l sogno m'hai tolto!
Ecco urlando a la pugna ritorno.
Scherno a l'immane naso de' critici,
ne 'l ritmo audace di un'ode alcaica,
delirio de l'anima mia,
inneffabil delirio, t'incido.
157
PER NOZZE
Quando la donna de 'l tuo cor l'avrai
ne la stanza segreta, ove la festa
co' rumor non t'insegue, e da la testa
la ghirlanda ed il vel le scioglierai,
de l'ignoto a 'l terror tu la vedrai
rabbrividir ne la virginea vesta
ed il viso chinar tutta modesta
poichè a l'orecchio le susurrerai:
— Hanno promesso tutto un paradiso
a la verginità fredda e dimessa,
a la carne domata, a 'l senso ucciso:
ma tu, mia donna, a 'l talamo t'appressa,
donati tutta quanta in un sorriso,
ed io sbugiarderò la rea promessa. —
No, sgualdrina non è perchè ricusa
le comode bugie de l'ideale,
no, sgualdrina non è la nostra Musa
perchè i voti non ha de la vestale.
Non l'accusate se velar non usa
de 'l tempo suo l'oscenità brutale;
il vero è quello, il vero è la sua scusa,
peggio per voi se lo faceste tale.
O donnine da l'anima di ghiaccio
che cantate Gesù su la spinetta,
sprangate l'uscio a doppio catenaccio;
passar Mirrina, Lalage, Fiammetta,
l'arte de 'l Venosino e de 'l Boccaccio...
Curate i fiori bianchi e la calzetta.
159
IN MUSICA
Lasciali dir; tu m'ami,
tu che mi stai nel core,
nè per calunnie infami
potrai fuggir da me.
T'ho dato tutto: il canto,
la gioventù, l'amore...
Voglio morirti accanto,
voglio morir con te.
IN MARE
Pobre barquilla mia
entre peñascos rota,
sin velas desvelada,
y entre las olas sola.
LOPE DE VEGA. La
Barquilla, Oda I.
Passa la nave mia cupa tra i sibili
de' farisei che su la riva seggono.
Vien la tempesta. Ne le negre nuvole
i lampi azzurri strisciano.
Schiumano l'onde che la prua schiaffeggiano,
fra le corde distese urla la raffica:
laggiù, laggiù ne l'orizzonte livido
è scomparsa la patria.
Solo ne l'ampio mar, solo ne 'l turbine,
navigo arditamente a rive incognite.
La mia bandiera l'ho inchiodata a l'albero
come una sfida a 'l fulmine.
Passa la nave mia, tutte le candide
vele de l'aquilon donate a l'impeto;
passa cacciata ne le dense tenebre
da 'l fato inesorabile.
Ahi, vola forse destinata a frangersi
su le scogliere che da' flutti emergono!
Volo forse con lei, cosciente vittima,
a l'agonia de' naufraghi!
Vedrò morendo de gli squali orribili
gli occhi feroci dove brucia il fosforo,
le aguzze scane sentirò configgere
ne le mie carni lacere:
co 'l tenerume de le bocche viscide
a 'l moribondo aderiranno i polipi,
sentirò di morir, sentirò suggermi
lentamente le viscere,
ma non mi pentirò, ma ne gli spasimi
de 'l mio lungo morir non voglio piangere,
ma voglio il Dio de' farisei deridere
161
con l'ultima bestemmia.
Candide tortorelle innamorate,
delizia e cura de la donna mia,
che de 'l costante amor l'inno tubate
contente assai de la prigion natia,
candide tortorelle che ignorate
l'uggia, la sazietà, la gelosia
e il vecchio nido fedelmente amate,
senza stanchezza e senza ipocrisia,
emblemi sacri de' tranquilli affetti,
simboli de l'amor serio e composto,
de gli amplessi periodici e corretti,
dite a' critici miei che ad ogni costo
vi vogliono veder ne' miei sonetti,
che mi piacete sì, ma cotte arrosto.
163
O bianche nubi che ne 'l ciel turchino
come fiocchi di lana il vento spinge,
perchè nova un'angoscia il cor mi stringe,
quando lassù vi guarda il mio bambino,
ed un desio mi assal che ne 'l divino
azzurro a figger gli occhi mi costringe,
un desio di tentar l'ignota sfinge
che l'avvenir conosce e il mio destino?
Ma no, bambino mio, non ci diranno
queste nuvole bianche il gran mistero,
e, come noi, se viva Iddio non sanno.
Io stanco scenderò ne 'l cimitero,
i tuoi riccioli biondi imbiancheranno,
povero bimbo, e non sapremo il vero.
CLAM
Sentio sub me validum flatum,
vox mihi salda est: quid erit, Philippe,
si meae laudes canimus Zaninae?
Accipe pivam.
MERL. COCCAI, Zanitonella. Ecl. I.
O deliciae deliciarum
solve comam, deme avarum,
tegumentum papillarum,
abiice subuculam.
Absit metus, nam censores
frustra rimant extra fores,
nec blanditias, nec lepores
nostros capiunt auribus.
Pande brachia, pande sinum,
cane carmen fescenninum:
nesciunt critici latinum
quamvis macaronicum.
Ecce manet nos paratum,
hic sub umbris molle stratum;
ecce vocat nos peccatum,
ecce vocant praelia.
Flos labiarum, flos amoenus
flos amoris mellis plenus,
Io, quam dulcis ridet Venus
in labellis roseis!
Io, quam fortis, quam formosa
Cinthia mea pruriginosa,
tendis ilia illecebrosa
amatorio impetu!
Io peccatum, Io blanditiae,
Io convicium pudicitiae;
Io postremus, Io, letitiae
apex ineffabilis!
Iam demissi sunt lacerti
nuper collo meo conserti;
languescentes et incerti
ecce pallent oculi.
165
Prostat pulvinar fucatum
flecte caput fatigatum,
sterne, Cinthia, sterne latum,
prostat conscia culcita.
Dum en carmen susurrabo,
tibi somnum conciliabo,
tuam flabello ventilabo
nuditatem candidam.
Dicam nunc amoris laudes,
dicam basia, amplexus, fraudes
quibus tu, mea Cinthia, gaudes,
quibus ego pereo.
Euge, impelle in hymni sonum
rabiem frigidam spadonum,
stilum, censor, sume bonum:
Euge. Rido ad lacrimas.
Esser donna vorrei, gobba, schifosa,
ricca di scudi e di ribalderie,
seccante peggio de le litanie,
puzzolente befana e scandalosa,
perchè l'arte pudica e virtuosa
lodasse tanto le bellezze mie
che tra i marenghi e le vigliaccherie
d'un poeta ideal fossi la sposa.
Io, mucchio di sporcizia e di letame,
il mio poeta da gli amor divini
lo metterei tra il vizio e tra la fame
per far vedere a i critici norcini
chi la vincesse ne la lotta infame,
se la sua pudicizia o i miei quattrini.
167
Là su, là su, dove salir non anche
fu dato a 'l nostro desiderio intenso
forse un dì voleremo, anime stanche,
spiriti vani e liberi da 'l senso,
Là su, là su, dove le stelle bianche
fan la notte più bella e il ciel più denso,
anime volerem giulive e franche,
raggi di luce ne l'azzurro immenso.
Volerem a delizie interminate
in alto, in alto luminose larve
eternamente libere e beate.
Scorderemo là su l'antico errore
e questo mondo vil dove ci parve
balsamo l'odio e tossico l'amore.
A I POETI PINZOCHERI
Plus les moeurs s'altèrent, plus on
devient délicat sur les décences. Par cette
raison, plus les hommes deviennent vicieux,
plus ils applaudissent à la peinture des
vertus.
CHAMFORT.
I.
O paffutelli e morbidi sonetti
a Fillide, a Licori,
o zampogna d'Arcadia, o lascivetti
canonici pastori,
de l'astigian bizzarro il duro stile
non v'ha, no, sterminati;
ritornano le agnelle a 'l pingue ovile,
rifioriscono i prati,
e voi tornate, Tirsi e Melibeo,
su 'l carro trionfale
a l'antico mestier de 'l cicisbeo
cattolico e morale,
e l'arte femminil che fu mezzana
a l'abate Trapassi,
l'arte severa, pia, casta, cristiana,
vi fa beati e grassi.
Damine pie, no, il parroco no 'l vieta;
ricamate per loro
le papaline di velluto in seta
con un fregio d'alloro.
È questa, è questa di confetti piena
la vostra poesia!
Fate per la sua gloria una novena,
o figlie di Maria.
Ah se co' versi tuoi di miel già pregni
e di cold-cream francese,
non sali, Arcadia, a i nobili convegni
de le vecchie marchese,
se i madrigali de' pastori abati
169
l'età mal ti consente,
eccoti idealisti inzuccherati
e poesia decente.
Vieni ed impera ne 'l visin patito,
ne le graziette smorte
de le ragazze che cercan marito
pestando il pianoforte.
Vieni a sdraiarti su i giornali gravi
di cristiano furore
e su 'l tavol da notte a le soavi
dame de 'l Sacro Cuore.
Cantaci, canta, poesia custode
de l'Italia morale
la solitaria venere che gode
d'un amore ideale.
Diventeremo forti e costumati
ritornando a 'l Vangelo.
Beati quelli che si son castrati
per il regno de 'l cielo.
II.
Ma noi non ci curviamo
de la rinuncia umíle a le dottrine,
ma noi non ci crediamo
a 'l tisico Gesù de le beghine.
Non han prodigi i santi
e l'inferno per noi non ha paure.
Avanti, avanti, avanti,
con la fiaccola in pugno e con la scure.
Tutto un passato muore,
tutto un mondo rovina intorno a noi;
è morto, è morto il fiore
de' poeti di Cristo e de gli eroi.
De la giudaica fola
e di Sion su la rovina immane,
forte, superba, sola,
la nostra Dea, la Verità, rimane:
la Dea che a poco a poco
il mister de la vita a noi disserra.
Per lei donammo il foco,
per lei donammo i fulmini e la terra.
Ecco, sino a le stelle
gl'inni e le grida de 'l trionfo vanno.
Ha vinto il gran ribelle
e le porte de 'l ciel non prevarranno!
Cadon gli altari infranti,
sfuman le larve de 'l passato impure.
Avanti, avanti, avanti,
con la fiaccola in pugno e con la scure.
No, non lordate il biondo
capo, fanciulle, con la cener vile;
venite; è bello il mondo;
oggi rinasce con le rose aprile.
No, su le aiuole brulle
non incombon più il freddo e lo squallore,
venite a noi, fanciulle,
oggi rinasce con le rose amore.
Dolce amor de' ribelli
venite a rallegrar la nostra danza
171
co 'l tirso e co' i capelli
coronati de' fior de la speranza.
Schiera festante, andiamo
là dove il vero come il sol risplende;
lassù, lassù corriamo
dove giocondo l'avvenir ci attende.
A i liberi, a i costanti
le vie de l'avvenir s’apron secure.
Avanti, avanti, avanti,
con la fiaccola in pugno e con la scure!
PROPOSTA
Non ego; nam satis est equitem mihi plaudere, ut audax
Contemptis aliis, explosa Arbuscula dixit.
HORAT., Sat.
Come in grembo del suol tacito dorme
Il seme, e poi si svolge in foglia e in fiore,
Così sonnecchia del poeta in core
L'opra sua che poi veste eccelse forme.
Natura attinge in sè le proprie norme,
E l'arte educa inconscio il suo cultore,
Entrambe mosse dallo stesso amore,
Che dell'eterna idea rintraccia l'orme.
Or più rapide vie schiude al poeta
Il così detto vero: or la Bellezza,
Ch'era di pochi visïon segreta,
Cerca il plauso de' molti, e li accarezza,
E si prodiga al par d'una moneta
Che più si spende, quanto più si spezza.
ANSELMO GUERRIERI GONZAGA
173
RISPOSTA
Insani sapiens nomen ferat, aequus iniqui,
Ultra quam satis est virtutem si petat ipsam.
HORAT., Ep. I, 6.
Triste colui che santamente dorme
ne 'l vacuo letto e de' suoi canti il fiore
crescer non sa co 'l sangue de 'l suo cuore...
Guai se il verso per lui non ha che forme.
Non è poeta chi le avare norme
serve de gli avi e se ne tien cultore
e quando la sua carne arde d'amore
d'una frigida idea ricerca l'orme.
E tra di noi non v'ha cor di poeta
che tradisca del ver l'aspra bellezza
per qualche molle visïon segreta.
Lusinga di sognar non ci accarezza.
La bella verità non è moneta,
nè re la falsa, nè giudeo la spezza.
IVSTITIA
Amen, with all my heart!
SHAKESPEARE, Otello, V, 2.
Alla signorina Vera Zassoulitch.
Vorrei che questa mia povera penna
fosse un ferro rovente
per bollarvi tra gli occhi la cotenna
canaglia prepotente.
E quando in faccia a i miseri ruttate
la vostra infame gioia,
perdonatemi voi che m'ascoltate,
vorrei essere il boia
e compir sopra voi la gran vendetta
di chi per fame langue.
Vorrei vedervi con la gola stretta
da 'l singhiozzo de 'l sangue.
Io che pur soglio lacrimar di pièta
de' vati su le carte,
io ch'ho in petto il gentil cor de 'l poeta,
se me ne manca l'arte,
che piango insino gli scordati eroi
d'Ilio combusto e domo,
io non ho senso di pietà per voi,
non ho viscere d'uomo.
Nè voi n'avete cui non basta a 'l gusto
stracco la carne ignuda
per chi stentando il pane a frusto a frusto,
sangue, lacrime suda;
per chi senza speranza e senza amore
vive ed invidia il cane,
per chi miniere a voi scavando, muore
senz'aria e senza pane.
Ridan le vostre donne a cui ne 'l petto
de l'òr brucia la sete:
ridan beate che ne 'l vostro letto
coniaron le monete,
175
e su 'l talamo altrui de le figliole
vendean la bianca vesta;
a la virtù che vender non si vuole,
ecco, il delitto resta.
E grida, udite, il volgo macilente:
— «Noi, plebe, non morremo,
ma ne 'l gran giorno, in faccia a 'l sol lucente
giustizia ci faremo.
Da le città, da gli abituri foschi
che il sol mai non abbella,
giù da i monti, da 'l mar, da gli aspri boschi
che l'aquilon flagella,
innumeri, feroci e disperati,
noi plebe maledetta,
incontro a voi discenderemo armati
di ferro e di vendetta.
Siete voi che rideste allor che invano
pietà per Dio pregammo
ed una pietra ci metteste in mano
quando un pan mendicammo.
Non sperate pietà dunque ne 'l santo
giorno de l'ira eterna.
Troppo, dinanzi a voi, troppo abbiam pianto.
Vigliacchi, a la lanterna!» —
A UGO BASSINI
T'ho promesso un sonetto e t'ho promesso
di fartelo decente ed ideale.
Eccolo qui che te lo faccio adesso:
leggilo che non c'è niente di male.
Vedi, qualunque petrarchista smesso
te lo farebbe appunto tale e quale
ed io lo taglio, poichè m'è concesso,
su 'l modello cattolico e morale.
Ma se qualche maligno ti osservasse,
esempligrazia, che codesto imbratto
è il più sciocco che mai si perpetrasse,
di' pure, amico mio, di' che t'ho fatto
un sonetto ideal di prima classe,
giusto perchè non dice niente affatto.
177
A LE OSTRICHE
EPICEDIO
Wir mahlen mit Augen der Liebe:
und Augen der Liebe müssten uns auch
nur beurtheilen.
LESSING, Emilia Galotti, I, 4.
Ostriche ghiotte che aderiste a i pali
dove i nonni legarono
le navi trionfali,
intelligenti e nobili animali,
incarnazione e simbolo
di sublimi ideali,
poichè i vati piagnoni, ahi sconoscenti!
ne' flosci endecasillabi
non v'ebber mai presenti
nemmeno quando a' pranzi succulenti
di voluttà grugnirono
biasciandovi contenti,
ostriche verdi, a i miei bizzarri canti
deh, spalancate docili
le valve stravaganti.
Ecco il pepe, il limone, il vin di Chianti.
I versi miei rallegrino
gli ultimi vostri istanti.
Come i piagnoni, v'incrostate forte,
a quell'antico scoglio
che v'assegnò la sorte,
ed il moto v'uccide, e mezzo morte
a 'l mercato vi comprano
per le feste di Corte.
Come i poeti onesti a Dio più grate,
d'un casto e solitario
amor vi contentate
e senza voluttà prolificate,
fredde, mute ed immobili
o bestie costumate!
E quando il glauco mar non vi nasconde
le nozze de i cetacei
maschiamente gioconde,
sigillate le valve pudibonde
in faccia a tanto scandalo;
o bestie vereconde.
Nelle nicchie romite e tenebrose,
dando l'anima piccola
a larve paurose,
la vanità de 'l mondo e de le cose
meditate in silenzio,
o bestie religiose.
O bestie, bestie, imagine e modello
de' vati neo cattolici,
che san castrare il bello,
questo ingrato mondaccio è un gran bordello!
Non c'è nemmeno un critico
che v'abbia ne 'l suggello!
Non c'è un pedante che sbagliando schiumi
ne i libri del suo prossimo
un paio di volumi,
che dica schietto senza tanti fumi:
signori, io sono un'ostrica
d'ingegno e di costumi.
E il peggio è questo, che v'è capitato
dopo millanta secoli
l'elogio meritato,
ma in un ritmo così sconclusionato
che l'Arcadia, buon'anima,
m'avrebbe strangolato!
Prendete quel che c'è. Tanto quei tali
che vi biasciano a tavola
de' preti sensuali,
non sanno che belar salmi ideali.
Mangiano il proprio simile!
Moralisti immorali!
Basta. Affogate ne 'l propizio vino,
a morir ne 'l mio stomaco
vi condanna il destino.
Quanto a 'l prossimo vostro, poverino,
è andato a farsi friggere,
e lo frigge Pasquino.
179
ALL'ALBERGO
Io li guardavo da la serratura.
Ella faceva molti complimenti,
egli schizzava apostrofi eloquenti
e le diceva — non aver paura. —
Ed in lei de 'l pudor l'estrema cura,
l'istintive repulse ed innocenti
e le caste ignoranze e gli sgomenti
a 'l destarsi cedean de la natura.
Così a l'audacia de la mano amata
l'ultimo de 'l pudor velame frale
concedea vergognosa e rassegnata:
e tutto cadde, ed ella apparve quale
un asse d'acajou liscia, piallata...
Canchero — disse lui — troppo ideale!
NELL'ALBUM
DELLA BARONESSA COSTANZA GRAVINA
Se un giorno rivedrò Pizzofalcone
e lo scoglio di Frisio e Mergellina
mi voglio travestir da lazzarone
e camminar così fino a Resina.
Ivi de l'amor mio sotto a 'l balcone
canterò la Ciccuzza e l'Inglesina
con tanto affetto e tanta commozione
da far piangere i pesci a la marina;
e il canto mio sarà così perfetto,
tipo de l'ideale in poesia,
che la mia bella s'alzerà di letto
e ne l'ombra verrà fuor de la via,
a pregar Dio con me perchè il Prefetto
non ci mandi a dormire in Vicaria.
181
PALINODIA
Poi sdraia nel porcil l'anima sazia
E — vigliacchi siam noi — si mette a urlare.
Potrà darsi benissimo. Ma... in grazia...
Se parlaste un pochino al singolare?
F. CAVALLOTTI, nel giornale
La Ragione, Anno IV, n. 232.
Dissi — noi siam vigliacchi —
e me ne pento. Errai.
È il secolo de' Gracchi
questo che bestemmiai;
ma voi vi siete accorti
che siamo tutti forti, forti, forti.
L'evo romano, l'evo
eroico è ritornato
ed io non lo sapevo.
Ma forse sarà stato,
Bruto me lo perdoni,
perchè non vado a le dimostrazioni.
Già. In Italia nasciamo
Catoni e Cincinnati.
Ladri? Ma non ne abbiamo
e i poveri avvocati
per non morir di stento
vanno a farsi le leggi in Parlamento.
Oh, no, non ci son vili
tra un popolo d'eroi,
ma le virtù civili
son sì fitte tra noi
che fin gli appaltatori
li abbiam dovuti far commendatori.
Ipocrisia? Davvero
non ci si può pensare!
Siamo un po' furbi, è vero,
ma ipocriti? vi pare!
Oh, li abbiamo aboliti
(leggete il Curci) i padri gesuiti!
Deh, patria mia, felice
come ti veggo e lieta,
spregiar la corruttrice
copia de la moneta!
L'ebbe di ferro Sparta:
più spartana di lei tu l'hai di carta.
Su 'l tuo beato suolo
che ci fanno gli uscieri?
A che serve lo stuolo
de' tuoi carabinieri?
In Svizzera, nol sai?
cassieri e casse non ne scappan mai.
E le donne? Oh, le donne!
Che modelli di spose,
di ragazze, di nonne!
Che virtù portentose!
Se questo tempo dura,
non c'è più corna per la iettatura.
Uomini puri e forti,
a Monaco ci andate
per compiangere i morti
de le cinque giornate?
Ma questo si può fare
anche a Milano. Al club si può giocare.
Uomini forti e puri,
perchè, perchè scendete
ne gli angiporti oscuri
e ne l'ombre discrete
de le strade lontane?
Cercate le virtù repubblicane?
Oh, non tocche da 'l male
virtuose persone,
voi siete l'ideale
sognato da Platone,
la semente novella
de la santa città de 'l Campanella,
ed io per ritornare
in grazia vostra, o puri,
parlerò a 'l singolare
e scriverò su i muri
l'aforisma novello
che c'è un corrotto solo ed io son quello.
183
L'ANNUNCIAZIONE
Erat autem Maria instar columbae
educata in templo Domini.
PROTEVANGELION IACOBI VIII.
In FABRICII Cod. Apocr.
Le faci impallidiscono
ne 'l tempio de 'l Signor vivente e vero.
Giganti dietro le cortine immobili
vegliano lo spavento ed il mistero.
Un silenzio terribile
pesa ne l'aria di profumi carca.
Ritti ne l'ombra, l'ala immane stendono
i cherubini d'oro intorno a l'Arca;
ed una bruna vergine,
cui l'immenso mister non ispaura,
ne la penombra de' fuggenti portici
le faci a risvegliar scende secura.
Secura ne le tenebre
passa costei de 'l suo signor ne 'l nome;
chiude il tenero piè ne 'l breve sandalo,
stillan di nardo le fluenti chiome.
Ella non sa che inconscio
ne gli occhi di gazzella amor le dorme,
ella non sa come la stola candida
l'onda tradì de le virginee forme.
Bruna ma bella. Il tumido
labbro ricorda il fior de 'l melograno.
Bruna ma bella. I curvi lombi ondeggiano
come su i colli di Samaria il grano.
Ecco da l'alto un pallido
raggio di luna sovra lei discende;
un azzurro baglior come di fosforo,
gli sculti enigmi de l'altare accende.
Ecco ne l'aria tepida
un cantico lontan palpita e muore.
Bella è la notte. Le fanciulle cantano
sotto le palme la canzon d'amore.
Come una bianca statua,
ne le pieghe de 'l vel candido avvolta,
ritta su i gradi de l'altar, la vergine
gl'inni che fremon ne la notte ascolta.
Respira i molli balsami
che da lontani fior le porta il vento,
guarda pe' vani de l'intercolonnio
le stelle scintillar come d'argento.
Ne' grandi occhi le passano
le fiamme de 'l desìo come un baleno;
commosse quasi da un arcano spirito
turgide pulsan le beltà del seno.
Ella sente ne l'anima
il fremito passar de la tempesta,
ella sente bollir ne 'l sangue giovane
la potenza d'amor che in lei si desta;
ed ecco da le complici
ombre che fascian d'Adonai l'altare
sì come un angel di bellezza splendido,
a l'aspettante un giovanetto appare.
Apri le braccia, donati
a le carezze de l'amor Maria...
Noi leviamo a 'l Signor l'osanna, o popolo:
tra nove mesi nascerà il Messia.
185
Poveri uccelli, che a 'l giardin volate
de' poeti morali e religiosi
e tra le frasche pudibonde ascosi
il biscottino solito aspettate,
poveri uccelli, non ve ne fidate,
poveri uccelli, siate men golosi.
Se gli uomini con voi son maliziosi,
fingono i vati per mestier. Badate.
Conosco più d'un arcade patito
che d'adorarvi ne' sonetti ostenta,
ne' sonetti di zucchero candito,
ma quando l'eco de' suoi gridi è spenta,
si rassegna a pranzar con appetito
e gli piacete assai con la polenta.
Presto il giorno verrà che per le strade
così ricche quest'oggi e così belle,
come fiumana che la messe invade
proromperà l'esercito ribelle.
Fiammeggeranno in alto allor le spade
tinte ne 'l sangue d'una gente imbelle,
ed il clamor de la fraterna clade,
orrendo salirà fino a le stelle.
E tutto suonerà d'urla e di pianti
e la vendetta veglierà fatale
de la città su i ruderi fumanti.
O correttori de l'altrui morale
quello il tempo sarà di farvi avanti
a predicar Manzoni e l'ideale.
187
CAMBIA LA MODA
I.
Ah, queste donne bionde
amor de gli Stecchetti,
che porgon l'anche tonde
e gli insolenti petti,
sgualdrine invereconde
che, abbandonando i letti,
mostran le pance immonde
ne 'l mezzo de i sonetti,
la smetteranno ormai
di distillar la loia
in tanti calamai,
Taidi venute a noia,
scarti di fiaccherai,
cittadine di Troia!
II.
Or de le bionde non sappiam che farne
ma le dame cerchiam di pelle scura,
che sian marchese almeno e che mostrarne
possano i quarti de la figliatura.
Debbono esser spolpate e debbon darne
prove provate a la letteratura
con l'esser senza petto e senza carne,
ossa, pelle, merletti e imbottitura.
Debbono andar con le pupille basse
e non dar confidenza alle persone,
chè la critica mai non le sgridasse,
e come già sognò re Faraone,
dopo il passaggio de le vacche grasse,
le vacche magre andranno in processione.
189
DIES IRAE
POEMA
Oh, quand j'aurais une langue de fer
Toujours parlant, je ne pourrais suffire,
Mon cher lecteur, à te nombrer et dire
Combien de saints on rencontre, en enfer!
VOLTAIRE, La Pucelle, c. V.
CANTO I.
Quando parton le rondini
e gli ozi lascio de l'autunno anch'io,
mi prende un desiderio
di conciliarmi co 'l Signore Iddio,
e mi raccolgo e medito
su la fragilità di tante cose...
Dio di misericordia,
come fan presto ad appassir le rose!
Solo il cipresso, il simbolo
de l'umana miseria e de 'l dolore,
solo il cipresso vegeta
anche ne 'l freddo, e il verde suo non muore.
E ripenso a i Novissimi,
specialmente a 'l Giudizio Universale,
quando le trombe angeliche
ci romperanno il sonno sepolcrale.
O buon Gesù, che imbroglio
quando mi desterò dentro la fossa
e ne le fredde tenebre,
povero me, non troverò più l'ossa!
— Destatevi, destatevi
e ditemi, vicini, in cortesia,
il mio povero cranio,
ditemi un po', chi l'ha portato via?
Era una testa giovane
piena di sogni e spesso innamorata,
d'Emma su le ginocchia
io non la posso aver dimenticata.
C'è forse qualche critico
che sia venuto qua senza la testa
ed abbia detto: diavolo,
perchè la mia non l'ho, prendiamo questa?
Avrebbe preso un granchio
facendo il suo mestiere anche da morto.
Non s'adatta a le vertebre,
la testolina mia, d'un collo torto.
Lo scopriranno subito,
lo manderanno ad arrostir co' rei.
Il mondo de gli spiriti,
come l'altro non è pien di baggei.
Ahi non potrò più leggere,
perchè con gli occhi non ho più gli occhiali,
i sermoni clorotici
che laudano Gesù dentro i giornali.
Non vedrò più le candide
verginità che ne' sonetti ho viste
e i poeti che sudano
per salvar la virtù de le modiste. —
191
CANTO II.
Quando la testa mia l'avrò spiccata
da 'l collo a qualche critico
e sopra il mio l'avrò bene attaccata,
me ne anderò al Giudizio.
Ahi, fedeli di Cristo! ahi questa scena
come sarà terribile!
Tutti staremo nell'immensa arena,
de la valle di Josaphat.
E nudi ci starem. Calzoni e gonne
quel giorno non si portano.
Ignudi tutti quanti; uomini e donne!
Che immenso colpo d'occhio!
Ma poichè ne 'l gran dì ci sveglieremo
belli, ben fatti e giovani,
le nostre nudità le guarderemo
senza rossori ipocriti.
Solo i poeti casti e purgativi,
morali fino a l'ultimo,
imiteranno co' gli attucci schivi
la Venere de' Medici.
Poeti magri, amor segreto e cura
de le donnine isteriche,
ci rivedremo senza imbottitura,
e guai per i rachitici,
oh, guai! Le verità pericolose
e le pance cattoliche
nude vedranno alfin le vostre spose
che mai non ve le videro.
Che disinganni allor, poveri voi!
Che pioggia di rimproveri!
Basta: verremo a consolarle noi,
se saranno passabili.
Seduto intanto su l'immenso trono
starà l'ultimo Giudice
ed uscirà da la sua bocca il tuono
e da' suoi occhi il fulmine.
A 'l segnal degli angelici trombetti
farem due schiere súbito.
A la destra di Dio staran gli eletti,
a la sinistra i reprobi.
Curvi sotto l'eterna onnipotenza,
ne 'l silenzio terribile,
attenderemo l'ultima sentenza
e l'ultima giustizia.
Ma, sorridendo, un'anima sorella
mi spingerà co 'l gomito...
Emma bionda, sei tu? Come sei bella!
Ma sei nuda... Vergognati!
193
CANTO III.
Come si stava comodi,
come si stava bene a l'altro mondo!
Ti ricordi le liriche
che scrivevo per te, demonio biondo?
E tu matta, le forbici
cacciavi sempre dentro a' miei sonetti.
Le mie più belle pagine
diventaron modelli a' tuoi colletti.
Ti ricordi le lucciole
che inseguimmo lassù lungo le mura?
Quante stelle brillavano
ne 'l cupo azzurro de la notte oscura!
E l'inverno? E le maschere?
Te lo ricordi l'ultimo veglione,
e il povero geranio
che di freddo morì sul tuo balcone?
Ed i racconti eretici
sovra i capricci de le nostre notti
che misero lo scandalo
ne la santa tribù de' paolotti?
Care memorie! Tornano
così lieti a quel tempo i miei pensieri!
Eran parecchi secoli
che stavo a la Certosa. E tu dov'eri?
Emma, perchè promettermi
che non m'avresti abbandonato mai?
Oh, laggiù ne 'l mio tumulo,
povera donna, m'annoiavo sai?
Quanti, quanti cadaveri
calaron giù ne la mia fossa muta,
ed io povero scheletro,
cercavo il tuo, ma non ci sei venuta.
Dimmi, sei morta in maschera
cenando co gli amici in carnevale?
Sei forse morta tisica
in un autunno triste a l'ospedale?
Oh, se almeno t'avessero
a 'l vecchio amico tuo sepolta accanto!
Là nella terra fracida
avevo freddo e m'annoiavo tanto!
Zitti! L'eterno Giudice
urla da l'alto le parole estreme.
Siam dannati. Rallegrati.
Ecco, a l'inferno ci anderemo insieme.
Oh, non invidio gli angeli,
perchè teco laggiù sarò felice.
Vieni, mia bella! Il diavolo
così brutto non è come si dice.
195
CANTO IV.
Squadra le fiche a 'l ciel. Vadano i santi
e i poveri di spirito
in quel fetor di frati zoccolanti
che rivolta lo stomaco
a goder le graziette tabaccose
de le beghine sudice,
ed a baciar le stimmate schifose
de le badesse idropiche.
Ivi ne 'l cielo che non ha mai notte,
dormir non è possibile.
Ivi su 'l capo de' beati, a frotte
i cherubini ronzano.
Perchè Dio non li acciechi, a 'l guardo schermo
fan de l'ala gli arcangeli,
e cantano in latino a canto fermo
i salmi del breviario.
A l'eterno rumor de' tamburelli,
de' cembali e de' timpani,
friggon de' santi i poveri cervelli
sotto a i nimbi che scottano,
ed abbagliati de 'l Signore il viso
eternamente guardano...
Che rottura di tasche il Paradiso!
Che divina seccaggine!
Talor compreso da 'l bisogno ardente
di un po' di refrigerio,
Iddio permetterà, ma raramente
una qualche accademia.
Con lieti squilli l'aspettato avviso
daran le tube angeliche;
immenso tuonerà ne 'l paradiso
un clamore di giubilo.
Abbandonato l'inginocchiatoio
dove stavan da' secoli,
voleranno i beati a 'l Serbatoio
de la celeste Arcadia.
Con l'ala a 'l dorso, dentro l'ampia sala
pioveranno le monache
e i gesuiti co 'l cappel di gala,
e i poeti virginei.
Sopra un palco di stelle, in lunga schiera
aspettan gli accademici.
I cherubini accendon la lumiera.
Comincia lo spettacolo.
Zitti, zitti! Lisciandosi il ciuffetto
e i baffi aristocratici,
un bel signore recita un sonetto
morale in questi termini:
197
CANTO V.
«Noi siam felici ne l'eterna calma
a cui la grazia di Gesù ci assunse,
L'anima nostra fortunata, giunse
a coglier de la fe' l'eterna palma.
»Deposto il peso de l'antica salma,
d'inni soavi un bel desio ci punse,
e cantiamo il Signor che si congiunse
a noi ne 'l gineceo casto de l'alma.
»Così levando il cantico fraterno,
ne l'infinito ciel spiegando l'ali,
voliamo incontro a 'l refrigerio eterno.
»Gl'inni santi, pudichi e celestiali
invidiateci pur giù ne l'inferno,
voi che cantate il ver, brutti maiali!»
CANTO VI.
Ma da gli abissi un cantico
fino a le case de 'l Signor si leva.
— Sia benedetto Satana
che porse il pomo de 'l peccato ad Eva;
e lodato l'Altissimo
che seppe giudicar l'anime tutte
e liberò gli eretici
da 'l paradiso de le donne brutte.
Qua giù tra noi non scesero
de l'antico vangel gli antichi errori,
e il parroco ed il sindaco
non torcono il capestro a' nostri amori.
Salìro a 'l ciel la monaca
morta di tabe e il francescano immondo,
ma qui tra noi calarono
le migliori beltà vissute a 'l mondo,
e son belle, son giovani,
e noi ne amiam quanto possiam amarne
e pecchiam senza scrupoli,
de l'anima ribelli e de la carne.
Contemplate lo splendido
viso di Dio co' gli occhi abbarbagliati:
andate, andate in estasi
cantando salmi, poveri beati:
trïonfate co gli angeli
de 'l paradiso ne le sante chiostre,
ma le pompe di Satana
sono più belle de le pompe vostre!
Abbiamo sano il fegato
e l'invidia di voi non ci tormenta:
la compagnia de' diavoli
ci tien chiara la bile e ci contenta.
Qui de 'l tempo saturnio
rifioriscon i gaudi e i miti amori;
puton d'incenso gli angeli,
olezzan qui per le dannate i fiori.
Voi di Dio ne la faccia
tutto il passato e l'avvenir leggete,
ma l'onda sua benefica
199
largisce a noi l'oblivïoso Lete.
Da' santi suoi l'Altissimo
chiede la prece, l'umiltà, la fede;
a' figli suoi Lucifero
ogni più cara libertà concede.
Ma voi l'ingiurie solite,
santi soprani, a i reprobi cantate!...
Deh, poveri di spirito,
deh, se sapeste che pietà ci fate! —
CANTO VII ED ULTIMO.
Va, poema infernale e paterino,
dove ti porta il caso:
e se t'ingiuria mai qualche scaccino,
fagli tanto di naso.
201
CONGEDO
Intro hinc abeamus, nunc jam saltatum satis pro vino' st.
Vos spectatores, plaudite, atque ite ad vos comisatum.
PLAUT. Stichus, vv. 755-56
Voce che in cor mi parli, che bieche parole mi dici
perchè mi mordi come un rimorso antico?
China la stanca fronte su i libri vegliati, t'ascolto
e il ciel s'imbianca de 'l giorno a 'l primo lume.
Cantano su le gronde destate le rondini a l'alba,
da' campi arati bianca la nebbia fuma,
canta ne' boschi il vento fragrante di freschi profumi,
color di rosa ride là giù l'aurora,
tutto rivive a 'l mondo ne' baci de l'alba e d'amore,
io solo, io solo, misero me, non amo!
L'odio che in me fermenta ne' i versi maligni trabocca,
mi brucia il sangue, m'empie di fiele il core.
Oh maledette queste battaglie che l'odio avvelena!
Sia maledetta questa fatica mia!
Voce che in cor mi parli, che i giambi feroci mi detti,
solo un momento, solo un momento taci!
Ecco da 'l sol destati che allegra le candide cune
i miei bambini mi tendono le braccia.
Splende ne' ricci biondi il tremulo raggio de 'l sole
e su le bocche vermiglie il riso splende.
O miei bambini, orgoglio, speranza de l'anima mia,
o miei bambini, voi mi guarite. Prendi,
prendi il mio libro, Mevio, inchiodalo pur su la croce
da queste cune sorrido e ti perdono.
III.
ADJECTA
203
I.
LIBER CAIAPHAS
Et misit eum Annas ligatum
ad Caiapham pontificem.
JOH. XVIII, 24
AHIMÈ!
O forte Romagna
de i tempi passati,
nudrice, compagna
d'eroi, di soldati,
il sangue ti stagna
ne i polsi gelati
e sei la cuccagna
de i preti e de i frati.
Co 'l seno possente,
gentil leonessa,
nudristi un serpente
ed or genuflessa,
pentita e piangente
ascolti la messa!
BENEDICIMUS TE
Forme divine, su l'are candide
liete di fiori, benedicevano
i Numi. Ne' sacri laureti
suonavan gl'inni giulivi, gl'inni
a la bellezza. Fuggìano a i salici
le driadi bianche, mal de le splendide
nudità vietando a i mortali
la dilettosa vista e il trionfo,
e da 'l sereno ciel sorridevano
miti su l'uomo gli dèi benefici;
e l'uomo signor de la terra
si sentìa forte, si sentìa grande,
allor che un vento nero, da gli aridi
monti di Giuda, soffiò su i popoli,
curvò le loro teste a 'l suolo,
rovesciò i templi, distrusse l'are,
e i simulacri giocondi caddero
de gli arsi lauri sopra le ceneri.
Cessaron gl'inni e il dolore
pesò su 'l mondo de i penitenti.
Dove le ninfe procaci tesero,
chiedendo amore, le braccia rosee,
fu visto ghignare il Nimico,
furon sentite grida d'inferno,
e l'uomo pianse stancando gli omeri
sotto la croce per lunghi secoli,
non più regnator de la terra,
ma servo abietto di vane fole;
quando là dove l'onda cerulea
de 'l Reno a 'l Tauno corre più rapida,
là dove ne' fonti e ne' cori
viveano ancora le bianche ondine,
un uomo curvo sopra le tessere
di piombo, assorto ne la nova opera
de 'l torchio, rinvenne il segreto,
trovò la forza liberatrice.
A poco a poco, su da le pagine
205
impresse, vivo levossi l'alito
d'una giovinezza novella
e il santo grido de la rivolta.
A poco a poco gli dèi rivissero,
mentre i fantasmi giudei svanivano,
e l'uomo, gittato il cilicio,
si sentì ancora signor de 'l mondo.
Te benedetto, per cui siam liberi,
per cui siam grandi, torchio di Guttemberg!
Benedetto il tuo sacro legno,
poi ch'egli vinse quel de la croce!
CAIAPHAS
Numeri e palpi l'oro
con la mano che liscia ed accarezza.
La vista de 'l tesoro
è la tua voluttà, la tua dolcezza
e chi sa da che fogna
a le fauci de 'l reo scrigno è colato!
Chi sa da qual vergogna
con la fetida man l'hai razzolato!
Ma per chi l'ha raccolta
la moneta non pute e non ha orecchi.
L'usura non ascolta
pianto di bimbi o gemito di vecchi.
L'onor de le fanciulle,
il lavoro de i padri, il pan de i figli,
tombe, talami, culle,
ghermiscon tutto i tuoi rapaci artigli.
Che importa se il denaro
fu salario di ladri o d'omicidi?
È molto, e con l'avaro
occhio a goder lo torni e gli sorridi.
Ma quando il tuo sorriso
mostra più il gaudio de 'l desìo satollo,
ecco, a notte, improvviso,
Satana viene che ti torce il collo.
207
1900
Dice l'anno che muore a quel che nasce
– Povero figlio mio, càpiti male!
Il mondo è triste come un funerale
perchè soffre la fame o mal si pasce.
Mangiano pochi furbi a due ganasce,
ma digiunano troppi a l'ospedale,
mentre, povero figlio, a 'l tuo natale
il prete ed il questor tesson le fasce!
Io saluto così l'ultima sera,
larga lasciando eredità di pianto
e tu nasci tra il nembo e la bufera.
Ma crescerai de' sacerdoti a 'l canto,
ne 'l fresco educator de la galera
e ne 'l timor di Dio. Sei l'anno santo! –
QUANDO
IL MUNICIPIO DI BOLOGNA
FESTEGGIÒ LA B. V. DI S. LUCA
ESPONENDO I CENCI ANTICHI
PER INVITO DEI CLERICALI
MASCHI E FEMMINE
Dicono – Gesù mio, quanto schiamazzo
per due vecchi tappeti!
Nemmen se ritornassero in Palazzo
gli Svizzeri ed i preti!
I contadini a non vederli esporre
ci credevan birbanti;
sono elettori anch'essi e quando occorre
votan pei ben pensanti.
Che v'importan quei cenci o i Credi fatti
recitar ne le scuole?
Siam liberali. Non badate agli atti,
badate a le parole. –
Rispondiamo – I tappeti a la ringhiera
non son stracci e cimosa:
cencio di pochi palmi è una bandiera,
ma vuol dir qualche cosa.
Confessatelo, via, siate leali,
poichè non siete scaltri:
voi pascete di fumo i liberali
e d'arrosto... quegli altri. –
E v'è chi dice poi – Bisanzio ancora
con le ciarle si regge
de i cento legulei de la malora
che gli falsan la legge.
Lasciamoli cianciar de 'l più e de 'l meno,
lasciamoli garrire;
noi guardiamo più in alto, ad un sereno,
ad un santo avvenire.
Noi guardiamo più in alto e questa bassa
miseria non ci tange.
Con ben altra eloquenza il cor ci passa
la voce di chi piange!
209
Ma quando il pianto cesserà e verranno
feste più sante, allora
quelle coltri lassù, riscalderanno
il letto a chi lavora. –
SERMONE DI NATALE
O Messia profetato a i sofferenti,
pietoso un dì consolator de 'l mondo,
inutilmente ormai torni a le genti,
bambino biondo!
Non è più il tempo in cui l'amor potea
illuminar le menti e intender l'alme,
in cui per te Gerusalemme avea
osanna e palme.
O dilettose a 'l cor notti stellate
de' colli galilei su i dolci clivi,
tra il canto de le donne innamorate,
sotto gli ulivi;
o susurranti a 'l sol gaie fontane,
di solinghi riposi allettatrici,
cui salìa la canzon de le lontane
spigolatrici;
o vigne d'Israel che i dolci frutti
maturaste a l'umìl schiera seguace,
voi non l'udrete più chieder per tutti
giustizia e pace!
E tu, benigno, che a cercar scendevi
l'agnel che si smarrì ne la campagna
e l'Evangelo de l'amor dicevi
su la montagna,
guarda! un'idolatria cauta e discreta
a gli apostoli tuoi cresce l'entrate.
Pietro che ti negò, batte moneta;
Tommaso è frate.
Il sangue che grondò da la tua croce
oggi feconda l'odio e non l'amore.
Presso a 'l complice altar veglia feroce
l'inquisitore.
L'astuta ipocrisia de l'egoismo
che la ragione a l'util suo sommette,
distilla le bugie de 'l catechismo
ne le scolette
e ne la Chiesa che chiamar non sdegna
211
santo l'inganno e la menzogna pia,
angelico Dottor, Barabba insegna
teologia.
Perchè tornar se a la novella pena
oggi trarresti inutilmente il fianco?
Più carezze non ha la Maddalena
pe 'l rabbi stanco.
Non si ricorda più d'averti amato,
ma, isterica romea, co 'l bacio scende
a 'l laido piè che, de 'l tuo nome ornato,
Caifa le stende;
e colei che chiamar madre ti piacque
e ne 'l sepolcro il corpo tuo compose,
or vezzeggia i clienti e vende l'acque
miracolose.
Fuggi, fuggi da noi, bambino biondo:
torna piangendo da 'l presèpe a 'l cielo.
Il Sillabo di Pio cacciò da 'l mondo
il tuo Vangelo.
Da l'avarizia vinta e da 'l peccato
la tua fede morì povera e nuda.
Oggi ne 'l nome tuo regna Pilato,
governa Giuda.
EPIFANIA
Nella profonda tenebra
passava il disperato urlo del vento;
sulla terra pesavano
la neve, la miseria e lo spavento,
quando una fiamma vivida
arse nel ciel come una immensa face
e un santo coro d'angeli
cantò: «A Dio gloria ed alla terra pace!»
Lieti i pastor salirono
sotto quel lume per la via deserta
e doni assai recarono,
poichè fede non v'ha senza l'offerta.
Ma quando i Magi udirono
l'inno di pace andar per l'universo,
ebber paura e dissero:
«Se l'inno canta il vero, il regno è perso!»
E sui cammelli posero
molt'oro, poca mirra e meno incenso
ed a Betlemme vennero
in carovana, pel deserto immenso.
Giunti i Re dentro al misero
presèpe, albergo dell'Amor divino,
i doni anch'essi offrirono,
adorando la Madre ed il Bambino:
ma pur curvati ed umili,
volsero gli occhi attentamente intorno
e, visto quel che vollero,
ripresero la via col nuovo giorno
e consolati dissero:
«Finchè l'asin digiuna e il bue lavora,
» per noi non c'è pericolo
» e i nostri figli regneranno ancora!
213
DUE VOCI
«Pace, Cristo dicea, pace al fecondo
solco in cui dorme la futura messe,
all'officina che mugghiando tesse,
alla nave che varca il mar profondo,
al vecchio bianco ed al bambino biondo,
ai re possenti ed alle plebi oppresse,
pace! Dio manterrà le mie promesse.
Il mio regno non è di questo mondo!»
Ma il prete dice – «Ah, no, tu non avrai
un istante di pace, o mondo indegno,
finchè il tuo Cristo mi rinfaccerai.
Ferro, sangue, velen sarà il mio sdegno
finchè pentito non mi renderai
l'oro, i gendarmi, la mannaia, il regno».
ALLA CITTA DI FERMO
CHE RIDESTA ED ONORA LA MEMORIA
DI
GIUSEPPE CASELLINI, IGNAZIO ROSETTANI
ENRICO VENEZIA
DECAPITATI
IN OLTRAGGIO ALLA GIUSTIZIA
IN VITUPERIO DELLA RELIGIONE
DA PIO IX
PONTEFICE MASSIMO
.... non inane
Auspicium pietas renascens.
LEO XIII
Nobil città che spregi e che detesti
chi giustizia non rende all'innocente,
or che ai martiri tuoi liberamente
pietosa come sei ti manifesti,
consegna i traditori e i disonesti
all'istoria che prova e che non mente,
ma prostra i capi mozzi e grida – O gente,
gli assassini, per Dio, non furor questi?
Qui, fatto forte delle altrui paure,
non ministro di Dio ma suo flagello,
Pio strinse il freno con le mani impure.
Il prete, qui, che decretò il macello,
venne per scherno a benedir la scure
e Fermo disse – L'assassino è quello! –
215
CHI SA PERCHÈ?
Nel tempio il buon Gesù vide un abietto
branco di mercatanti e di mezzani
che, come i nostri preti e sagrestani,
vendevan l'amuleto e il moccoletto.
Acceso allor di santo sdegno il petto,
prese un randello colle sante mani
e giù legnate che nemmeno ai cani...
Sia lodato in eterno e benedetto!
Di reliquie n'ho visto in ogni canto,
il vin di Cana, l'acqua del costato,
il sudore, il prepuzio, il sangue, il pianto.
Eppur per quante chiese abbia frugato,
nessun frammento del randello santo,
preti, chi sa perchè? non l'ho trovato.
VISSUTE INVANO
Povere suore,
chiudete il core,
coprite gli occhi
col vel raccolto,
chinate il volto
sino ai ginocchi!
Dal vizzo petto
l'ultimo affetto
v'hanno strappato
e il vóto forte
come la morte
v'ha mutilato.
Il cereo viso
senza un sorriso
s'affila e langue;
malsano e bianco
nel vacuo fianco
vi stagna il sangue.
I dolci canti
cari agli amanti
non li sapete;
tolte al fecondo
gaudio del mondo
donne non siete.
E pur qui fuori
ci son dei fiori
per chi li coglie
e trilli e gridi
salgon dai nidi
sotto le foglie.
Passan col vento
tepido e lento
baci e parole
e sul creato
innamorato
fiammeggia il sole.
E pur, non vinto,
l'umano istinto
veglia e v'aspetta
e la parola
217
– tu vivrai sola –
Dio non l'ha detta,
ma tra gli ulivi
verdi, pe i clivi
di Galilea,
il Cristo biondo
la vita e il mondo
benedicea!
Deh, penitenti
pe i godimenti
che non provaste,
perchè, spietate,
martirizzate
le carni guaste?
Ah, è vero! Eterno
brucia l'inferno
per chi è felice
e Monsignore
se sboccia un fiore
lo maledice.
PER LAUREA
Quando il ciuco sentì lenta la briglia,
come tra i ciuchi avvien, divenne ardito,
digrignò i denti ed inarcò le ciglia,
ragliando che il saper morìa fallito;
e l'altre bestie della sua famiglia
d'ogni pel, d'ogni razza e d'ogni sito,
si trovaron d'accordo a meraviglia
tutte nell'applaudir lo scimunito.
Ma tu che ormai con l'occhio e col pensiero
vedi quel che veder non può costui
e della vita intendi il gran mistero,
or deridendo l'ignoranza altrui
per la via del saper raggiungi il vero
e mostri al ciuco che il fallito è lui.
219
EGOISMO
O fortunato chi sa viver bene,
mangiar, bere, dormire allegramente,
intento solo a canzonar la gente
che i vizietti e le donne gli mantiene,
non lavorare e aver le tasche piene,
esser somaro e comparir sapiente,
non pagar punto ed incassar sovente,
esser birbante e comparir dabbene
e sapersi cavar tutte le voglie
senza soffrir di scrupoli indiscreti;
curar la pancia e non sentirci doglie,
tutti saper del prossimo i segreti,
esser caro al marito ed alla moglie...
Ah, come l'hanno indovinata i preti!
RIME
I.
Fitte nel capo mio ronzan le rime
come nell'alvear d'api uno sciame,
che colse il miel dalle corolle opime
nel vagabondo errar da stame a stame.
Lo colse per le valli e per le cime,
senza fren di regina o di reame,
e se il libero vol non fu sublime,
l'ala fu pari alle modeste brame.
L'alba le vide uscir col primo lume
e la sera tornar nell'ore estreme,
pel seren, per la piova e per le brume;
ed io che tutte le conosco a nome,
le veggo lavorar ronzando insieme
e poi fuggir di nuovo e non so come.
221
II.
Api vestite d'òr, strette in cintura,
senza posar giammai da mane a sera,
sotto il bacio del sol l'ala leggera
aprono spensierate alla ventura;
nè, se ben picciolette, hanno paura,
chè ciascuna di lor fatta guerriera,
sa una lama snudar sottile e fiera,
che gocciola velen nella puntura;
e guai se l'offensor non si ritira,
poichè tutte su lui volano a gara
e non lo lascian più finchè respira.
Chi le stuzzica dunque in sua malora
sappia che presto ed a suo danno impara
che la rima è velen, che il verso fora!
LE BALLATE DEL PROCESSO
I.
Verità, libertà, luce, progresso,
voi mi conciaste bene
che mi trovo per voi sotto processo!
L'affare andò così. Pietro pescava
cercando con la rete il suo profitto.
Giù per l'acqua corrente io me n'andava
ed ei mi prese per godermi fritto,
poichè all'arrosto non ci ha più diritto
dal dì che tra le pene
il rogo, grazie a Dio, non ce l'han messo.
Ma il santo pescator che m'afferrava,
dalle mie spine si sentì trafitto.
L'altrui rabbia cristiana e la pia bava
mutaron la puntura in un delitto;
ed è per questo che son tanto afflitto
che, se ben mi sovviene,
non ho mai riso come rido adesso!
223
II.
Quando per l'arsa Galilea passava
Gesù, lungo il tragitto,
d'amor, di carità così parlava:
– «Fratelli, il regno mio non è concesso
» a chi, assalendo, la vendetta ottiene.
» È il triste Fariseo che genuflesso
» chiede pel fratel suo ceppi e catene
» e va nel tempio con le tasche piene!...» –
Disse, e in croce confitto,
benedicea morendo e perdonava.
E gli Apostoli suoi dicean lo stesso
abominando le viltà terrene:
ma inchiodato che fu, chieser sonnnesso:
– «Quanto guadagno dai carismi viene?» –
Quindi molti a Gesù volser le schiene;
poichè si trova scritto:
Quando il gallo cantò, Pietro negava.
FU VERO?
Pace! pei lunghi secoli
lento l'amor procede,
ma dove pone il piede
germoglia in pace il grano,
e le messi maturano
pingui al lavoro umano.
Lente le idee si movono
e noi moviam con loro,
compagni nel lavoro
e nell'amor fratelli;
tardano assai, ma spezzano
gli scettri ed i coltelli.
Pace!... Ma indarno aspettano
i sofferenti ancora
che sorga in ciel l'aurora;
e il Rabbi che bandiva
la gran novella agli uomini,
forse anche lui mentiva!
225
TRA UNA UDIENZA E L'ALTRA
Ecco, torno al silenzio ed alla pace
della mia cameretta
or che per poco a me d'intorno tace
l'urlo della vendetta.
E nel bacio de' miei, sincero e sacro,
il cor torna giulivo
e l'anima si monda in un lavacro
d'amor perenne e vivo.
Dal famigliare asil passa lontana
l'ira delle tempeste;
non qui, non qui della malizia umana
può fermentar la peste.
Qui, sulla fronte affaticata, un raggio
santo d'affetto piove,
qui riprendo la forza ed il coraggio
per le battaglie nuove;
le battaglie del ver colla menzogna,
dell'ombra con la luce,
dove il prete di Dio senza vergogna
l'odio a pugnar conduce.
Ma se lungi dal campo e dal nemico
oggi venni a posarmi,
domani all'ombra del vessillo antico
pronto sarò con l'armi.
Tu santa libertà, se ancor lo puoi,
mi sarai guida e scorta.
Se vinco, il vero vincerà con noi
e se cadrò, che importa?
Soldato umil che nel combattimento
le rime al verso intreccia,
ammazzato da un prete a tradimento
morirò sulla breccia.
PER UN «NUMERO UNICO»
VENDUTO PER BENEFICARE
Quando la Carità stende la mano
pietosa e per chi soffre ausilio implora,
la politica ladra e traditora
la spia cupidamente da lontano,
indi sfodera l'ugna e piano piano
ruba l'oro raccolto e lo divora;
Calabria il sa che se ne duole ancora
e grida il nome de' suoi ladri invano!
Ma qui, perchè temer? Non hanno impero
qui de' preti le fraudi o la rapina,
ma il cor non mente e l'animo è sincero.
Ciò che ai dolenti carità destina
va per aperta via, dritto ed intero,
dove il pianto l'aspetta e la rovina.
227
ANNIVERSARIO
I.
Or compie l'anno e Monsignor gradiva
lieto, de' figli suoi l'omaggio e il dono
e nobilmente dall'altar bandiva
la parola di Dio: – «pace e perdono!
» Cristo ci perdonò quando moriva,
Cristo l'agnello mansueto e buono.
Con Giuda egli cenò che lo tradiva,
e di Pietro sorrise all'abbandono.
» Io son l'Unto di Lui che con la mano
e col cor generoso ha benedetto
l'adultera, lo scriba e il pubblicano.
» Io son fonte d'amor, fiamma d'affetto!
io sono il Padre rinnegato invano;
son la pace e il perdono. Iddio l'ha detto!» –
II.
Iddio l'ha detto e della sua parola,
preti di Cristo, mi ricordo anch'io,
che m'insegnaste da bambino a scuola,
a suon di nerbo la bontà di Dio.
Ma, col crescer degli anni, il tempo invola
all'anima il candor credulo e pio
e se dal petto vostro alzai la stola,
sempre un cor vi trovai peggio del mio.
Perdono e pace! E pur, se bene ho visto,
non confuse l'amor con la loquela,
ma il sangue sparse perdonando il Cristo.
Perdono e pace! Ma se un verso cela
l'ombra d'un cenno che ti sembri tristo,
sacerdote di Dio, mi dài querela!
229
MENTRE TUONA
I.
La mia povera vigna è così fatta
che la devo vangar tre volte l'anno,
potarla com va, pari ed esatta,
per legarla di poi, sempre a mio danno:
e non appena il sol me l'ha rifatta,
ci rimetto del mio sapone e ranno
tra zolfo e rame a mantenerla intatta
dalla nebbia, dal male e, dal malanno.
Quando i grappoli poi diventare neri,
tutta l'ira di Dio nel cielo accolta
sopra ci si rovescia e volentieri.
Ed allor buona notte! Addio raccolta,
addio tasse pagate, addio panieri,
serbati sempre per quest'altra volta!
II.
La vigna del Signor – quella; s'intende,
che piantata non fu dal Nazareno –
non chiede al possessor tante faccende
e compensa di più chi spende meno.
Sicuro il frutto dal suo tralcio pende
ingrossando alla nebbia ed al sereno
ed il mille per cento e meglio rende
per poco che le sia dolce il terreno.
Si coltiva in poltrona e senza costo,
non ci crescon l'ortica o la gramigna,
la grandine le sta sempre discosto.
e se chi passa, nel guardar, sogghigna,
c'è il Tribunale che' lo mette a posto...
Oh, la vigna di Dio, che bella vigna!
231
DE RE RVSTICA
Gallus in sterquilinio suo plurimum potest.
SENECA, Apocol.
I.
È mio quel gallo che alla prima luce
coll'ingrato cantar saluta il giorno
e già vecchio, spennato e disadorno,
pur la cresta insolente al sol produce.
Devasta i seminati e s'introduce
tra le siepi a rubar tutto il contorno,
indi all'usato sterquilinio intorno
le sue galline a razzolar conduce.
Poi quando vien la sera e son già sorte
pallide in ciel le prime stelle accese,
appollaiato sulle gambe storte
dice alle sue galline: – «Ora è palese
ch'io son tremendo, rispettato e forte
e la bestia maggior del mio paese!» –
II.
Io penso intanto: – «Se tirassi il collo,
per non vedermi guasto il seminato,
a questo gallo vecchio e spennacchiato
che quanto mangia più, meno è satollo?
E poi che ne farò? Se fosse un pollo,
benedetto l'arrosto e lo stufato!
Ma un demonio malsano ed arrabbiato
sul far di questo, non sarà mai frollo.
Lasciamolo campar! Vada all'inferno
se lo voglion le volpi o le faine,
o, se piace al Signor, viva in eterno!» –
Schiva il gallo così l'ultimo fine
e in virtù dello sprezzo e dello scherno
regna sovra i capponi e le galline.
233
PREDICA
I.
Sacerdote d'un Dio che non hai visto
ma di cui nel tuo rito il sangue bevi,
sacerdote di Dio che in alto levi
l'Ostia di pace simbolo di' Cristo:
se tu ci credi e se all'eterno acquisto
dei battezzati affaticar ti devi,
perchè, se il giusto al bacio tuo ricevi,
scacci l'errante e maledici al tristo?
Dolce del Figlio di Maria la voce
al nemico parlò come al fratello;
clemente all'offensor, mite al feroce.
Si tolse in grembo lo smarrito agnello
il buon Pastor che perdonava in croce,
e se la frusta usò, non fu per quello.
II.
Morremo entrambi e, se dicesti il vero,
al di là della terra e della vita
nella luce suprema ed infinita
ci troveremo in faccia al gran Mistero.
Nessun labbro facondo e lusinghiero
venderci allor potrà l'arte scaltrita,
nè mantel di monarca o di levita
potrà coprir la carne od il pensiero.
Io Gli dirò: – Dalla tua legge appreso
ho sol l'amore ed ho nel mondo amato. –
Tu dirai: – Maledissi e fui difeso. –
Io dirò: – Se soffersi, ho perdonato. –
E tu dirai: – Quando mi tenni offeso,
la Giustizia del Re m'ha vendicato –
235
MEDITAZIONE
I.
Nella valle giudea di Giosafatte,
nel dì che nuda mostrerem la pelle,
vescovi (che bellezza!) e pecorelle,
vecchie fetenti e giovani ben fatte,
in quel rimescolio di tante schiatte
diverse di colori e di favelle,
se Dio n'aiuti, ne vedrem di quelle
da restar con le ciglia esterrefatte!
Come? Il vivo color di quella faccia
ci parve giovinezza e fu pittura?
Come? Il tumido sen fu carta straccia?
Come? Colui che già facea paura
scagliando l'anatema e la minaccia,
era fatto con questa architettura?
II.
E peggio poi sarà quando vedremo
non solo ignuda la mortal carogna,
ma l'anima salir come alla gogna
senza l'ipocrisia d'un velo estremo,
e dolorosa innanzi a noi l'udremo
intera confessar la sua vergogna
scoprendoci il mister della menzogna
ch'ebbe l'impero e meritava il remo.
Oh, sciagurato allor chi la mercede
numerò del peccato e fu convinto
che ben s'acquista in vendicar la Fede!
Oh, nel giorno tremendo e nel recinto
della valle fatal, per chi ci crede,
misero il vincitor, beato il vinto!
237
FIDENTIANA
I.
Se contingesse mai che da 'l Pontefice
fussi Episcopo facto in Concistorio,
dormiterei pedendo in faldistorio,
potato et pasto abunde et honorifice;
inde, concusso, erigerei mirifice
le Spezie di Jesù ne l'Ostensorio
et quidem la Sequenza e 'l Responsorio
pulcre concinnerei come un artifice.
De l'util Fede il sacro sancto semine
infunderei così cum diligentia
parum ne' maschi et salde ne le femine;
Sed heu! che non son io quella Excellentia
che preme il throno cum le cluni gemine
et li psalmi di Dio cane in Faventia!
II.
Cane ducendo le capelle al pabulo
per lo itinere sacro et infallibile,
sì che, flexo, il propinquo hirco terribile
non quate più le corna e 'l tintinnabulo.
Mite cum Beniamin come cum Zabulo,
la dulcedine Sua pare impossibile;
ma ne 'l prelio di Dio, mile invincibile,
co 'l solo aspecto fa spavento a 'l Diabulo.
Sed mox, alfin la Sua Mansuetudine
il petaso vedrà d'Eminentissimo
evadendo di poi Beatitudine...
Ehu, tunc; Te quaeso, Pastor mio sanctissimo,
cedimi el pallio tuo per gratitudine
et San Jovese havrà culto dignissimo!!
239
PELLEGRINI
I.
Non un'ombra di palme all'orizzonte,
sul candor delle sabbie arroventate,
non una nube in ciel, non una fonte
per le povere turbe affaticate!
Come il Profeta volle, accorser pronte,
lacere, macilenti ed assetate,
ma con la speme in cor, la fede in fronte,
benedicendo Iddio che l'ha chiamate.
E i pellegrini dell'Amor superno,
i docili al voler del Sovrumano,
hanno le piaghe del martirio a scherno.
Che val se d'ossa è seminato il piano?
Chi muore nel Signor, vive in eterno...
Questa è la fede falsa ed è il Corano.
II.
Monsignor che s'annoia in prima classe
a sbadigliar coi salmi dell'Uffizio,
dice: – I fedeli miei pagan le tasse
perchè la ferrovia faccia il servizio
ed invece il cuscino è come un'asse,
l'imbottitura è peggio d'un cilizio
e, senza molle, le mie parti grasse
non me le sento più. Sono al supplizio!
E poi, la cioccolata era brodosa,
il consommé pareva stato in gelo...
Ah, che martirio, giurammio, che prosa!
Certo che il pellegrin soffre pel cielo,
ma il comodaccio suo, che bella cosa!... –
Questa è la fede vera ed è il Vangelo.
241
CIARLE
Mi son lasciato dir: – «Ma, non t'avvedi
che non ci garban, più questi sonetti,
questi epigrammi a coppia, in cui ci metti
quel sempiterno Monsignor tra i piedi?
La storia è lunga ormai più che non credi,
le tue son rifritture e non concetti.
Altro vogliam da te, vecchio Stecchetti,
e le fischiate avrai se non provvedi».
Via, non avete torto, anzi consento
che vi cominci a diventar stantìo
questo reverendissimo argomento;
ma se del poco e vil denaro mio,
Monsignor che lo palpa è pur contento,
lasciate un po' che me lo goda anch'io.
II.
Era un duello. Egli m'avea sfidato
prefiggendomi l'armi, il luogo e l'ora.
Io, povero babbeo, ci sono andato,
ma il prode sfidator non venne fuora.
Vidi un procurator, qualche avvocato
e i Giudici del campo in mia malora.
Han discusso, han dormito, hanno sudato,
ma il prode sfidator l'aspetto ancora.
Solo i padrini suoi disser: – «Sentite:
il condottier che le Romagne ha dome,
oggi non può venir. Soffre d'otite». –
Otite? Io le darei tutt'altro nome
e se siamo d'accordo, acconsentite
ch'io mi diverta col malato... e come!
243
DAL VERO
Ieri conobbi la Giustizia. Stava
in un tugurio lurido ed infetto,
su certe sedie reduci dal ghetto
che la pidocchieria contaminava.
Tra la veglia ed il sonno interrogava
dei cafoni col gergo e col dialetto
e, miagolando in tono di falsetto,
se stessa, gli altri e il Tribunal seccava.
Poi ghignando mi disse: «Io t'ho legato
le man, la lingua, i piedi e del tuo scritto
nulla davanti a me voglio provato.
Io t'ho messo il bavaglio e t'ho prescritto
che non possa nemmen tirare il fiato.
Or difenditi pure. È il tuo diritto»
DE PROFUNDIS
Poveri morti miei, che mi chiamate
con voi dalla remota oscurità,
vorrei vivere ancor poche giornate
per questi figli e poi venir costà.
Il mio santo dover sarà compiuto
quando il nido potranno abbandonar,
quando nel dì dell'ultimo saluto
tranquillamente li potrò baciar.
Allora, oh allora chiuderò contento
gli occhi che il sol non rivedranno più
e il capo piegherò senza un lamento
per questa vita che crudel mi fu.
Poveri morti, e voi m'accoglierete
come il figlio lontan che ritornò:
quel che avviene quassù domanderete
e come in sogno vi risponderò.
Nel mondo che lasciai, poveri morti,
l'uomo e la donna son malvagi ancor,
portan la croce i deboli pei forti,
la vita è piena d'odio e non d'amor.
È segno di virtù l'esser crudele,
segno di debolezza è la bontà.
Si mangia in ogni casa il pan col fiele,
agro di bile e di perversità.
L'istinto del dover più non rimane
dove la Borsa le sue porte aprì.
Se lavoro non c'è, rincara il pane
e se il volgo ne muor, meglio così.
La terra pei ladroni è paradiso
e le commende fan rubar di più.
Il ministro di Dio s'è circonciso
e tien banco all'insegna di Gesù.
Che se tarda dal ciel vien la saetta
e il Sant'Ufficio mal si regge in piè,
i vescovi oramai chiedon vendetta,
per uno scherzo, ai Giudici del Re.
Fino al Genio latin sincero e sano,
245
che vivea di giustizia e verità,
Zaratustra parlò che al Sovrumano
dice bello il delitto e la viltà.
La rea fortuna e le stagion mutate
han guasto l'aria ed hanno infetto il suol,
l'inverno è caldo e nevica l'estate,
la terra è stanca e si raffredda il sol.
Così la vita non ha più conforti
di fede, di bellezza e carità...
Oh, meglio, meglio assai, poveri morti,
dormir nel buio de l'eternità.
Meglio dormir dove il silenzio serba
la maestà solenne del dolor,
meglio dormir con voi, là dove l'erba
cresce tacendo e non si coglie il fior.
Eppure... ahimè, felicità perfetta
nemmen tra i morti ritrovar si può!
Non conoscono ancor la bicicletta
e allora non c'è gusto! Aspetterò.
XX SETTEMBRE
Diceva un Monsignor: – «Se il calendario
non segna una bugia,
oggi è il Venti Settembre, anniversario
solenne a Porta Pia.
Oggi l'alloro, l'inno e l'orifiamma
trastullano i Romani
ed oggi il Re spedisce il telegramma
pei fogli di domani.
Come tutto mutò! L'istessa breccia
che pareva un tracollo
fu rovina di pietre alla corteccia
che non toccò il midollo.
Prima, s'intende, facevamo i morti,
ma lavorammo poi
e quando i furbi se ne sono accorti,
comandavamo noi.
Ma ce ne volle! I Santi e le Madonne
furono il primo saggio,
col Viva il Papa-Re delle pie donne
giunte in pellegrinaggio.
Congressi, banche, fraterie, giornali,
ci dieder poi buon frutto.
Guadagnammo Consigli e Tribunali,
entrammo da per tutto.
Ora insegnam de' framassoni ai figli
di Don Bosco i prodigi
e solitari a Mondragone i gigli
cresciamo a San Luigi.
Ah, il vecchio regno, il piccioletto mostro,
ormai chi più lo stima?
Oggi l'Italia intera è regno nostro
e stiam meglio di prima!
Manca soltanto un po' d'Inquisizione,
ma la vedremo presto...
Sia benedetta la rivoluzione,
la breccia e tutto il resto!» –
Ah, Monsignore, attento alle voltate,
247
se no l'asino casca.
Di questo calmo ciel non vi fidate;
può venir la burrasca.
Badate, Monsignor, che la grandezza
non vi serva d'intoppo.
Il soverchio tirar la corda spezza
e voi tirate troppo!
Badate, Monsignor, che se a raccolta
la vecchia tromba suona,
se apriremo la breccia un'altra volta,
sarà la volta buona!
FESTA DEGLI ALBERI
Le piante giovinette, o madre terra,
noi commettiamo al tuo grembo fedel.
Salvale tu dal foco e dalla guerra,
dalla rabbia degli uomini e del ciel.
Fa che crescano al sol tra i fior vermigli,
simbolo di fortezza e di beltà.
Alleva, o madre terra, ai nostri figli
l'albero santo della libertà!
249
SVB SYDERA POLI
I.
Dalle brume del ciel, sottili e fioche,
le stelle guardan la deserta ghiaccia;
nell'ombra sepolcral taccion le roche
volpi, strisciando alla notturna caccia.
Dormon l'anatre bianche in sulle poche
alghe del nido che la neve agghiaccia;
sul desolato pian russan le foche
poi che lungi dell'uomo è la minaccia.
Candida l'orsa scivola tra i massi
del ghiaccio secolar, quasi per tema
d'esser tradita dal fruscìo dei passi:
e in fondo alla polar pace suprema,
nessun urlo di Vescovo che passi
il raca vomitando e l'anatema!
II.
O pura, eterna ed ineffabil pace
che drizzasti da noi sì lunge il volo,
dunque più non vorrai l'ala fugace
volger benedicendo al nostro suolo?
Dunque il Verbo di Dio parlò mendace
se a regger l'alme l'Iscariota è solo,
se il tuo viso immortal s'asconde e tace
nella deserta immensità del polo?
Ah no, torna con noi! Lascia l'incanto
dei silenzi nevosi, ove natura
par che in ghiaccio converta il nostro pianto!
Torna! Brillan le falci alla pianura
e sale al ciel de' mietitori il canto...
la sacra messe a chi sperò, matura!
251
PARETAIO CRUSCHEVOLE
Ad Alberto Bacchi Della Lega.
I.
Avacciati, Masin; le ragne appanna
e i giochi assetta, imperocchè non piove.
Appaia il Ribaltone e il Montegiove
dietro la vite della salamanna.
Che se lo mio volume or non m'inganna,
oggi si vuol passar sessantanove...
zirlano i tordi!... o tu lo vedi?... o dove?...
Ha fatto il campanil, sorte tiranna!!
Guata, guata, Masin. Dietro lo spazzo
quiritta, tra la quercia e tra l'abete,
hacci covelle! Scopri lo stiamazzo!
Deh, Masino, che stai? Tira la rete,
c'è!... come è nero!... com'è grande!... ah... pazzo,
m'era sembrato un tordo ed era un prete!
II.
– Dica, Don Pietro, mi doventa matto
che aiato se ne va per la mia tesa? –
– Oh, scusi! Andava al mattutino in chiesa
e così, per la via, sono distratto. –
– Vien dal ròccolo suo? Quanti n'ha fatto? –
– Eh, mica troppi. Trenta in una presa. –
– Poffare Iddio! Di qui, con tanta spesa,
non riesco a fermar nemmeno il gatto! –
– Lo so, ma glielo dico apertamente;
ella non ferma un pigliamosche al volo
perchè questo mestier vuole altra gente.
Dottor mio caro, per tirar l'aiuolo,
lo stampi pure e se lo metta in mente,
val per cento di loro un prete solo. –
253
LEGENDA TRIUM SOCIORUM
Corpulento, paffuto e crapulone
dice a' compagni suoi frate Giocondo:
«Credo che la miglior carne del mondo
sia quella del cappone».
Ma ritto e sodo come una colonna,
con l'occhio incantator del basilisco,
frate Lupo risponde: – «Io preferisco
la carne della donna»;
e fra' Leon, che tra le zampe sue
stringe il boccal ricolmo e lo carezza,
conclude: – «Quanto a me, nell'incertezza
le adopro tutt'e due».
LEGGENDO UNA ENCICLICA
Dice la quarta pagina: – Lettori,
la nostra inalterabile tintura
restituisce alla capigliatura
il lucido, la forza ed i colori.
Approvata da tutti i professori
è inoffensiva, pratica e sicura;
una bottiglia basta per la cura.
Guardarsi bene dai contraffattori.
Dice il Papa: – Il rimedio radicale,
brevettato e premiato con medaglia,
è il mio che sana ogni e qualunque male.
Rinforza i buoni, purga la canaglia
e rende al Papa Roma e il Temporale.
Effetto garantito. Unire il vaglia.
255
DIVORZIO
Gridano i preti: «Ecco un novello sfregio
alla sposa di Dio l'inferno appresta!
La legge sul divorzio è un sacrilegio!
La ricerca del padre è disonesta!»
Indi chiaman le donne, onore e pregio
di Santa Chiesa, a scriver la protesta
contro l'infamia del Governo Regio...
Ma la ragione degli sdegni è questa:
che se un prete, quest'oggi, a fin di bene,
genera un figlio con la moglie altrui,
c'è un marito che paga e lo mantiene.
Ma se la legge libera costui,
se il figlio può cercar di dove viene,
povero prete! allor chi paga è lui!
ELEGIA
– Amici, addio! Col vostro amaro pianto,
col fraterno dolor non contristate
questo ch'io vi consacro estremo canto!
Al tragico destin m'abbandonate
serenamente! Siate forti e grandi!
Nessun per me deve morir. Giurate!
O chiaro sol, che su la terra spandi
il calor della vita e con i santi
raggi le fiamme dell'amor ci mandi,
o chiaro sol, che i tuoi sublimi incanti
agli occhi de' mortali hai conceduto,
che dài polline ai fior, baci agli amanti,
che nel profondo ciel fermo hai veduto
i secoli passar come giornate,
o sole, o dolce sole, io ti saluto!
Ah, moglie, ah, figli miei, non lagrimate!
Forse, chi sa? ci rivedremo ancora.
È più clemente Iddio che non pensiate!
Un bacio, figli, un altro bacio! Ed ora
mi stringa il birro le catene ai polsi
e de' rei mi trascini alla dimora! –
Così parlai nel punto in che mi sciolsi
dai replicati amplessi e d'esser forte
più che Regolo istesso in me risolsi.
Fieramente portai le mie ritorte,
superbamente al cielo alzai la fronte,
regalmente sorrisi alle mie scorte.
La turrita prigion s'ergea sul monte
squallida e cupa ed allorchè v'entrai
udii levarsi cigolando il ponte.
Nel fondo della torre ivi calai,
e solo, stanco, pesto e scorticato,
sul fracido terren mi coricai,
ma non aveso ancor ripreso il fiato
che mi si fece addosso un aguzzino
257
con un nerbo di bue ben lavorato.
Come per forza mi cacciò supino
e con quel nerbo me ne diede tante
che qui, guardate, sono ancor turchino.
Poi sulla carne rotta e palpitante
mise per condimento aceto e sale,
il manigoldo! e mi dicea: – Birbante,
sei dunque tu che osasti in un giornale
empio, scomunicato e maledetto,
un Vescovo trattar come un mortale?
Sei tu, bestemmiator, che in un sonetto
offendesti la sua Magnificenza
e parlasti di lui senza rispetto?
Disinteresse, carità, prudenza,
a farti condannar l'han consigliato:
or degli scherzi tuoi fa penitenza.
Starai qui fra le biscie incatenato,
in questa buca sozza e nauseante,
nudo, sempre allo scuro e bastonato.
Avrai per cibo scarso e rinfrescante
la simbolica fava, il duro cece
e il fagiolo canoro e petulante.
Qui legger libri non potrai, ma invece
mai non ti mancherà la Santa Messa.
Accidenti ai sonetti e a chi li fece!
Non c'è pietà per chi non si confessa
e se non chiedi a Monsignor perdono,
la colpa mai non ti sarà rimessa! –
Disse ed uscì. Di quella voce al suono
io mi tenni perduto e disperai
e in un'ora di strazio e d'abbandono
piansi, come vedete, e m'impiccai.
ELEZIONI
Musa mia dolce, che le alterigie
de' carmi arcigni non hai sul viso,
tu che rallegri l'ore mie grigie
di stravaganti scoppi di riso
e volentieri mostri la pelle
dai larghi strappi de le gonnelle,
musa mia dolce, vieni, discendi
alla solinga mia cameretta;
avida ai baci le labbra tendi,
libera i lacci della fascetta,
sciogli la chioma bruna e ricciuta
e chiudi l'uscio. L'ora è venuta,
l'ora in cui l'odio fermenta e invade,
lurida peste, le menti e i cuori;
in cui la gente giù per le strade
rutta bestemmie, rece rancori
e, masticando laide querele,
inghiotte o sputa veleno e fiele.
Ognuno in queste turpi giornate
morde o calunnia, froda o minaccia.
Lo sterco e il fango colto a manate
all'avversario si scaglia in faccia.
Riddano in piazza, lerci e impudichi,
spie, deplorati, ruffiani e plichi:
e i giornalisti, tinta di loia
la meretrice penna d'acciaio,
pur che sia piena la mangiatoia
vendon la feccia del calamaio
per imbrattarne l'onore altrui,
quasi superbo che paghi Lui.
Indi, nell'ora concessa al vóto,
cupi, nervosi, san gli elettori,
parlando basso con viso immoto,
guatando come cospiratori
e in ogni canto dice un cartello:
Votate questo!... Votate quello!...
Entro la sala buia e fetente,
sozza la gromma vernicia i muri
e intorno a un desco men che decente
seduti in cerchio cinque figuri
259
veglian con l'occhio cogitabondo
l'urna di vetro dal doppio fondo.
S'apre la chiama. Nel pigia pigia
vota ciascuna pecora sciocca.
Ardono alcuni di cupidigia,
ad altri l'ira torce la bocca,
ma quasi tutti, dopo votato,
palpano il prezzo del lor mercato;
e tutti, uscendo, da un reo contagio
attossicato sentono il cuore.
Chi entrò dabbene n'uscì malvagio,
chi entrò ribaldo n'uscì peggiore,
chi vinse, il turpe bottino aspetta,
chi perse, spera nella vendetta.
Ecco i comizi! Di quando in quando,
se non accade qualche sinistro,
dall'urna falsa sbuca onorando
un frodolento caro al Ministro,
o un imbecille pien di commende;
e l'un si compra, l'altro si vende.
Or perchè debbo far da mezzano
all'ingordigia di Calandrino?
Perchè mi debbo lordar la mano
scrivendo il nome d'uno strozzino?
Perchè gettarmi nella battaglia
sotto gli sputi della canaglia?
Musa mia dolce, sulla tua faccia
ride un giocondo color di rosa.
Passerò lieto fra le tue braccia
il giorno laido, l'ora schifosa.
Sciogli la chioma bruna e ricciuta
e chiudi l'uscio. L'ora è venuta.
SERENATA ELETTORALE
È notte. Il conte Gròsoli si desta
in una posa, che non è ordinaria,
cioè coi piedi al posto della testa
e le reni per aria.
In camicia così, cogitabondo,
dice il rosario e medita l'impresa
di convertir, non che Ferrara, il mondo
ai dogmi della Chiesa;
quando, ad un tratto, ascolta per la via
un coro di lamenti e di preghiere...
Son fedeli che vanno in compagnia
cantando il Miserere!
Dio sia lodato! Il conte allor s'affaccia
al balcone in sottile abbigliamento
e, spalancando le gagliarde braccia,
grida: «o stelle, che sento?
» Chi siete, o pellegrini, e dove andate?
A Roma forse, a Roma pontificia?
O fratelli, per Dio (Bacco), parlate
presto! Sono in camicia!»
Risponde il coro: «Ahimè! Fummo galletti
fatti capponi per comun vergogna
e fu, purtroppo, il Cavalier Minghetti
che ci castrò a Bologna!
» Quando il libero Stato era di moda
peccammo, come Lui, malvolentieri
e qualche penna della nostra coda
donammo ai bersaglieri.
» ma il grano era per noi; ma nella stia
noi dettavam la legge al popol fido,
quando i ribelli ci cacciaron via
e siam fuori del nido!
» Così nel grembo dell'antica fede
tornando e al culto de' ministri suoi,
a maggior gloria della Santa Sede
veniamo a' piedi tuoi.
» Miserere, Signor, dei nostri falli
261
e nella immensità de' tuoi poteri,
se di capponi non puoi farci galli,
facci almen Consiglieri!
» Deh, conte, ora che sai le nostre pene,
aiutaci ad uscir dal ginepraio
ed insegnaci, tu che la sai bene,
la strada del pollaio!»
Udendo il conte dei pentiti il duolo,
ebbe un sorriso arguto e perspicace,
poi, moderando alla camicia il volo,
disse: «me ne dispiace!
» La strada è questa, ma evitate il bosco
e andate dritti per la via maestra.
Del resto, mascherine, io vi conosco!!!»
E chiuse la finestra.
PEI LIBERALI PENTITI
Lodiamo Iddio col cuore e col midollo
dell'anima e dell'ossa.
I penitenti con la corda al collo
ritornano a Canossa!
Pei fangosi sentieri e per le vie
già poste in abbandono,
con un lungo alternar di litanie
vanno a chieder perdono
ed il Pastor che lega e che discioglie
il cielo a suo talento,
apre le braccia e nell'ovil raccoglie
il ravveduto armento.
Il terror della colpa e del peccato
aperse gli occhi a tutti.
Oh, il prete che di notte ha seminato,
coglie di giorno i frutti!
Al tuo piè genuflesso eccoti a squadre
il popol tuo devoto;
deh, non negargli, o male offeso Padre,
la carità del vóto.
Scorda il venti settembre e le bandiere
e i discorsi imprudenti.
Già i tappeti eran pochi alle ringhiere
e i lumi quasi spenti.
Non lo faranno più: ma poi che reggi
le sorti d'Israele,
non far che salga del Comune ai seggi
il popolo infedele.
Scegli tra i penitenti! Abbandonati
lascieranno i migliori,
contenti assai se gli ultimi soldati
godranno i tuoi favori,
e benedetti poi dal Santo Erede
e Successor di Pietro,
se sono indegni di baciargli il piede,
gli bacieran... didietro!
263
PEI LIBERALI RIPENTITI
Dunque sui nostri colli, e me n'incresce,
dunque nel piano antico,
non si torce più corda e più non cresce
un albero di fico?
Eppur c'è Giuda che gli artigli avari
apre all'ingordo acquisto;
c'è il prete che gli dà trenta denari
perchè gli venda Cristo!
Ma no. La corda, per mestiere antico,
dovete farla voi
e insaponarla bene. In quanto al fico,
ci penseremo noi.
Lo pianteremo colle nostre mani
presso la vostra porta,
come simbolo e stemma, oggi o domani,
che il tempo non importa:
ma l'onor vostro e delle vostre schiere
vi penderà impiccato,
patriottardi dalle due bandiere,
e onesti... a buon mercato.
E sia! L'Italia offriste al Sant'Ufficio
come bagascia ed ora
chi vergogna non ha del meretricio,
lo vóti, in sua malora!
PEI LIBERALI PENTITISSIMI
Non è più il tempo di tramar congiure
in congreghe notturne.
Ora chi vuol tradir, tradisca pure
nel segreto dell'urne;
ma chi non volle arruffianar promesse
o trafficar parole,
chi non seppe mentir per interesse,
parli – ed in faccia al sole –
e dica: ora tu sai, vecchia Bologna,
la verità dov'era!
or conosci la frode e la menzogna
di chi voltò bandiera!
Eccoli! Guarda! Barattando i pegni,
combinaron l'affare
coi Padri Gesuiti. Ecco i sostegni
del trono e dell'altare!
Li credesti campioni e cavalieri
de' tuoi colori santi,
mentre il core, la faccia ed i pensieri
eran di zoccolanti;
ed or che infido si mostrò al comando
l'esercito fuggiasco,
ritornano all'ovil, cappuccinando
per la via di Damasco
e riprendono il basto e la catena
colla fronte dimessa...
Ah, liberali dalla pancia piena,
andate a servir messa!
Noi no! Noi colla fronte alta e diritta,
dopo il dover compito,
non curiam la vittoria o la sconfitta!
Noi non abbiam tradito!
265
LA GOCCIA
DA
V. HUGO
La sorgente cadea giù per la roccia,
giù nel tremendo mare, a goccia a goccia,
e il mar tremendo che le navi infrange,
disse: – che vuol da me costei che piange?
Io sono la tempesta e lo spavento!
giungo dove finisce il firmamento.
Io son l'immensità dell'orizzonte,
che bisogno ho di te, povera fonte? –
E la fonte rispose al mar tremendo:
– l'amara immensità non ti contendo,
ma ti do quel che non sapresti avere:
una goccia ti do che si può bere. –
VIA CRUCIS
Se un infame ladron dalla montagna
cala co' suoi pidocchi alla pianura
e trafficando della sua compagna
ne cava assai da esercitar l'usura,
al primo scudo che così guadagna
insegna l'arte alla progenitura:
la cresce ladra, sordida, taccagna
nei coperti sentir dell'impostura.
Poi la veste da prete e l'accompagna
passo passo dal trivio alla tonsura,
fino a che giuri il falso in cappa magna.
Così per forza d'arte e di natura
uno scagnozzo reo d'ogni magagna
ottiene i fiocchi della prelatura.
267
II.
INTERLVDIVM
... Minuentur atrae
Carmine curae.
HORAT. IV, II.
IL MIO RITRATTO
Io conosco l'applauso e la fischiata,
lo schiaffo e la carezza, il bacio e il morso,
il velen del pensiero e del discorso,
la calma della fede intemerata.
La strada del dolor l'ho insanguinata,
il sentier della gioia io l'ho percorso,
ho bevuto la vita a sorso a sorso
e depongo la tazza ormai vuotata.
E pur se con la mente alla passata
età ritorno ed al cammin trascorso,
la mia serenità non è turbata.
Seguon l'anima e l'occhio in alto il corso
lieve del fumo con la pace usata
e in fondo del bicchier non c'è rimorso.
DICEMBRE
Nel ciel grigio e sonnolento
è una gran malinconia,
e la neve senza vento
muor nel fango della via.
Un mortale increscimento
assalì l'anima mia;
agghiacciato il cor mi sento
nel sudor dell'agonia.
Muore il giorno e al mondo invia
un addio che fa spavento,
un singhiozzo d'elegia.
Muore l'anno e lento lento
nel languor dell'etisia
l'amor nostro, ecco, s'è spento!
269
ANNO NUOVO
Ecco nel plumbeo ciel mesto s'avvia
verso i regni del nulla un anno ancora
e men triste a se stesso ognun desia
l'anno che nasce con la nova aurora,
ma indarno. Ai sogni della fantasia
benigno il cielo non sorride un'ora.
Della vita mortal dura è la via
e il tempo per passar non la migliora.
L'anno che nasce una speranza porta
sempre con sè che a confidar c'invita
e l'anno vive ancor quand'ella è morta.
Una miseria non è ancor finita
che viva dal suo ceppo un'altra è sorta...
Sperare e disperar, questa è la vita!
MERIDIES
Al sol di luglio disperatamente
friniscon le cicale;
dagli arsi prati vaporar si sente
una fragranza calda e sensuale;
nel meriggio fulgente
aleggiano l'idillio e il madrigale.
Gentil beltà da la fiorente gota,
ascolta. Ecco, risuona
nel deserto sentier la voce nota
che sì spesso d'amor teco ragiona.
Gitta l'anfora vuota,
accorri sorridendo e t'abbandona.
Egli ti dice: a che più tardi? Andiamo
de l'ombre amiche in traccia.
Il piccioletto piè posa sul ramo
che il rimoto sentier sbarra ed impaccia.
Varca sicura. Io t'amo
e ti riceverò nelle mie braccia.
Con la cupida man, senti? t'ho stretto
i fianchi baldanzosi.
Avidamente nel formoso aspetto
figgo, ardenti d'amor, gli occhi bramosi,
mentre porgendo il petto
su l'omero il gentil braccio mi posi.
Sotto la forte man che ti sostiene
come ti batte il core!
Come di fiamme le pupille hai piene!
Come le guance tue mutan colore!
Apri a l'amor che viene,
apri le braccia e de la bocca il fiore!
Vedi? Il bosco, laggiù, fido nasconde
chi nel suo sen ricetta.
A quelle oscurità fresche e profonde
il desìo non ti chiama e non ti alletta?
Vieni! Sotto le fronde,
entro l'ombre silenti amor ci aspetta!
271
PARTENZA
Sotto le rosee brume
laggiù scomparve il sol,
s'è desto l'usignol,
mormora il fiume
e sovra il pian dell'onda
in cui si specchia il ciel,
leggero il navicel
lascia la sponda.
Densa tra poco e fida
la notte il coprirà,
ma in porto giungerà;
l'amor lo guida.
AI COLLEGHI
Tangheri di poeti
che, se andate in amore,
raccontate i segreti
di tutte le signore,
siate meno indiscreti
negli affari di cuore
e imparate dai preti
che non fanno rumore.
Chi spiffera in tribuna
quello che il cor gli detta,
non farà mai fortuna.
Le donne non han mica
scrupoli a darvi retta:
temono che si dica.
273
NATALE DI BIMBI
Innocenti fanciulli,
che non suggeste ancora
il velen della vita;
gioconda età, fiorita
nel riso dell'aurora,
nel gaudio dei trastulli;
anime ignote al male,
coscïenze serene,
bocche senza segreti,
tornano i giorni lieti
ed il dicembre viene
col ceppo di Natale;
speme di forti padri,
gioia dei dì fugaci,
gloria ed amor del mondo,
porgete il capo biondo
alle carezze, ai baci
delle festanti madri.
Ahi, come triste è l'ora
per l'anime inquïete,
pei cuori avvelenati!
O bimbi, o voi beati,
perchè non intendete,
perchè ignorate ancora!
NATALE DI VECCHI
O vecchi dolorosi,
o cuori affaticati,
occhi che avete pianto
desiderando il santo
sonno dei trapassati
e il giorno dei riposi,
ecco l'estremo verno
batte alle vostre porte
nell'ombra densa e bieca.
È il verno che vi reca
il sonno della morte
ed il silenzio eterno.
Tolta dai rami suoi
la foglia inaridita
torna alla terra antica.
Lo strazio e la fatica
della dolente vita
finiscono per voi!
Ecco, profonda tace
la notte in camposanto,
la notte senza fine!
Chiudete gli occhi alfine,
gli occhi che pianser tanto!...
Pace, vegliardi; pace!
275
VEGLIA ROMANTICA
Disse il fantasma – «Non mi ravvisi?
eppure io piansi tanto per te;
eppure un giorno per te m'uccisi
e il sangue corse fino a' tuoi piè!
M'avevi dato la tua promessa
quando al meriggio saliva il dì
e la tua porta, la sera istessa,
ad un amante nuovo s'aprì.
Dormono i morti, ma veglia il fato
che nella notte li fa levar
e il giuramento dimenticato
ti vien dai lieti sogni a destar.
Hai pur giurato che mi saresti
eternamente sposa fedel:
or la parola che me ne desti
tener la devi dentro l'avel.
Lascia le piume, sali la groppa
meco di questo nero corsier
che nella chiara notte galoppa
verso le croci del cimiter.
Gli occhi di fuoco schizzano lampi
sotto la frusta, sotto lo spron;
passa le case, vola sui campi,
ma i piè leggieri non danno un suon.
Perchè alla briglia stendi la mano?
Perchè, mia bella, gridi così?
Il mio sepolcro non è lontano,
vi giungeremo prima del dì.
Oh, come bene vi posan l'ossa
nella mollezza del pingue suol!
Che larghi fiori sopra la fossa
sotto gli ardenti baci del sol!
Tumuli, croci, colonne mozze,
per noi l'umano dolore alzò...
Ah, che giocondo letto di nozze,
bella, il tuo sposo ti preparò!
Ecco, la pace del cimitero
la tua promessa mi manterrà.
Senza memoria, senza pensiero,
vi dormiremo l'eternità!»
277
A CERTI GIORNALISTI PUDICISSIMI
Pornografia? Sta bene:
ma siete voi sicuri
che il fine ognun misuri
dalle apparenze oscene?
E appunto a voi conviene
d'esser sprezzanti e duri
quando lo sanno i muri
che fondo vi mantiene?
Tartufi rugiadosi,
quanto prendete al mese
per essere virtuosi?
O di candor modello,
chi vi rifà le spese
del gioco e del bordello?
RONZIO D'INSETTI
I.
Nell'arso mezzodì, nella feroce
vampa del sol che brucia e par che getti
fiamme sul mondo, parlano gl'insetti
cautamente fra loro e sottovoce;
e dicon: sia lodato il sol che cuoce
dell'uom le membra, le campagne e i tetti,
poi che viver ci fa senza sospetti
del pericolo nostro e non ci nuoce.
L'uomo riposa ed or non ci molesta
con la falce ne' prati o nelle messi
e il suo terribil piè non ci calpesta.
Peccato il nascer piccoli e dimessi!
Fossimo grandi, o sorte disonesta,
noi non vivremmo timidi ed oppressi!
279
II.
Ma un saggio scarabeo che discendeva
dagli adorati scarabei d'Egitto
e l'uomo e i fatti suoi ben conosceva,
pallottole facendo a suo profitto,
disse: o popol minuto, e che rileva
il chiacchierar di torto e di diritto,
quando, se alcuno a ragionar si leva,
viene la forza che lo fa star zitto?
Che importa all'uomo della nostra razza?
Ei sortì da natura il cor brutale
e la speranza di mutarlo è pazza.
L'uomo non ha pietà dell'animale.
Guardate come frusta e come ammazza
fino il prossimo suo! Dico il maiale.
RUTH
Hic autem erat mos antiquitus in Israel.
RUTH, IV, 7.
Disse Noemi: «O nuora,
» le mie parole ascolta.
» Nella tua chioma folta
» la giovinezza odora,
» sul fior della tua bocca
» la voluttà s'accende
» e dalle colme bende
» candido il sen trabocca.
» Beato chi sul bianco
» tuo viso avrà la faccia,
» chi cingerà le braccia
» al tuo superbo fianco!
» No, puro fior di neve,
» no, vivo fior di rosa,
» la tua beltà, nascosa
» così morir non deve!
» Se Iddio non ci concesse
» delle dovizie il dono,
» vedi quei campi? Sono
» pingui di bionda messe
» e, se li vuoi, sagace
» l'arte d'averli trova,
» poichè beltà non giova
» se nell'inopia giace».
E Ruth mondò nel fonte
le rigogliose forme,
torse la treccia enorme
come corona in fronte,
al mobil fianco cinse
larga la fascia bruna
ed a cercar fortuna
mossa da Dio s'accinse.
Arse dai raggi estivi
tacean le fronde stanche,
dormìan le agnelle bianche
al rezzo degli ulivi,
ombre chiedeano ai muti
boschi le cavrïole,
281
era al meriggio il sole
e i campi eran mietuti,
allor che Ruth discese
giù dal pendìo deserto
e sovra il piano aperto
l'avido sguardo stese.
Rattenne il passo, intenta
a noverar le biche
delle recise spiche,
poi seguitò contenta.
Ridea la giovinetta
col labbro e le pupille,
sonavano le armille
sulla caviglia schietta,
e le diè un balzo il core
e le diè l'occhio un lampo
quando scoprì nel campo
la tenda del signore.
Al piano addormentato
cauto lo sguardo volse,
il breve piè disciolse
dal sandalo annodato,
gittò la negra benda
che la stringea sull'anca
e seminuda e bianca
entrò sotto la tenda.
Oh, il bel meriggio! Ardeva
il sol nel chiaro azzurro,
nè un soffio, nè un susurro
sull'arso pian fremeva
e sulle stoppie gialle
gli stanchi buoi posando
sognavan, ruminando,
il buio delle stalle.
Oh, il bel meriggio! Ascoso,
al cor giungeva un senso
grave, solenne, immenso,
di calma e di riposo.
Immersa in un languore
di voluttà infinita
parea dormir la vita,
ma non dormìa l'amore.
Popol di Dio, riposa
nel sonno tuo profondo;
sul talamo fecondo
ecco salì la sposa!
Oh, il bel meriggio! Hai chiesto
e Dio t'ha benedetto,
poichè sul santo letto
il Patrïarca è desto.
Ma quando un roseo velo,
come un vapor di gemme,
sui colli di Betlemme
mutò colore al cielo,
Ruth, con le gote accese
e il petto ansante ancora,
verso la sua dimora
lenta il cammin riprese
e al tetto suo venuta,
pensando al dì trascorso
sentì come un rimorso
della virtù perduta,
e ricordò il marito
a cui le braccia aperse
quando se stessa offerse
sul talamo fiorito.
E Ruth disse a Noemi:
«Ecco, io ti tenni fede.
» Quei campi son mercede
» ai favor miei supremi;
» ma se le spighe d'oro
» ti porto fra le braccia,
» come alzerò la faccia
» innanzi al Dio che adoro?»
Disse Noemi:«Bada,
» non fu il consiglio mio,
» ma fu il voler di Dio
» che ti segnò la strada.
» L'ombra del sacro ulivo
» coperse il fior di rosa
» e nel tuo sen di sposa
» il Re di Giuda è vivo!»
283
SOGNI
I.
Gocciava dai rami bagnati
la nebbia salita dal piano
e l'umida stesa dei prati
non era che un largo pantano.
Il vento ne' lunghi ululati
avea qualche cosa d'umano;
gracchiavano i corvi affamati
lontano, lontano, lontano.
Ma pur se, cedendo al destino,
morivan le tarde vïole
anch'esse nel nostro giardino;
in faccia alle squallide aiuole,
nel buio del nembo vicino,
sognavo la gloria del sole.
II.
Sognavo che il sol trionfante
salìa nell'azzurro profondo.
La terra schiudeva all'amante
le valve del grembo fecondo;
ne' boschi olezzavan le piante
fiorite all'aprile giocondo;
un fiotto d'amor spumeggiante
bollìa nell'arterie del mondo.
In cielo cantavan gli uccelli,
un'aura di nozze saliva
aulente dai bocci novelli
e in faccia alla festa giuliva
de' sogni più cari e più belli,
la speme nel cor mi moriva.
285
TRISTIA
La tristezza il vol spalanca
sulle squallide contrade.
Tace il vento, il giorno manca,
ogni cosa il tedio invade.
Oh, la neve bianca bianca,
lenta lenta, come cade
adagiando l'ala stanca
sovra i tetti e per le strade!
Non è un'ora e già ravvolta
nel suo funebre mantello
la città dorme sepolta.
Ma quant'è che, fredda e greve
come il marmo d'un avello,
sul mio cor pesa la neve?
ATTESA
Son tre giorni che vivo in sulle spine,
son tre notti che veglio, aspetto e spero.
Sento che sovra me passa un mistero
carico di tempeste e di rovine.
Dove siete oramai lunghe mattine
in pace date all'operar severo,
giorni sereni senz'alcun pensiero,
notti liete di voi, Muse divine?
Ora livido è il cielo e tace il vento
ed in silenzio la natura aspetta
che il primo lampo accenda il firmamento.
A me d'intorno la famiglia stretta,
palpitando d'angoscia e di spavento,
attende lo scrosciar della saetta.
287
NOVEMBRE
Nei dì grigi e dolenti
in cui piange ogni cosa,
torna la dolorosa
folla degli studenti
che van, sforzati e lenti
nell'alba freddolosa,
ad inghiottir la prosa
dei testi e dei commenti
e, chiusi nell'oscura
scuola che al sonno invita,
subiscon la tortura....
Così, dalla fiorita
età, comincia e dura
la lotta per la vita!
LETTURA SERALE
Gela di fuori. Lenti,
curvi, di mal umore,
entrano gli studenti
nel tepido chiarore
de l'aule graveolenti,
tratti a sciuparvi l'ore
più da la cruda brina
che dal puro desio de la dottrina;
e il capo rassegnato
abbassan sul volume
che l'uso ha verniciato
di secolare untume,
ma il gergo avviluppato
del giuridico acume
affatica ben presto
l'ingegno ancor giovenilmente onesto.
Quindi sul libro chiuso
il gomito si posa
con un senso confuso
di tristezza penosa
e il tanfo di rinchiuso
in quest'aria vischiosa
scende nei petti e pesa
come la coltre sovra i morti stesa;
ma i migliori, a gli sciocchi
lasciando il ghigno insano,
inerte sui ginocchi
lascian cader la mano,
mentre levando gli occhi
guardan lontan lontano,
e, immemori del mondo,
sognano desti un avvenir giocondo;
se pur ne l'alta calma
de l'atmosfera immota
chinata su la palma
la giovinetta gota,
coi fissi occhi de l'alma
non veggon la remota,
la memore casetta,
dove la madre pia prega ed aspetta,
od il veron coperto
289
dai fior di primavera,
da cui, nel raggio incerto
de la morente sera,
rise ne l'aere aperto
la bocca lusinghiera
che all'inesperto core
prima insegnò che cosa fosse amore.
Ahimè, che il sogno lieve
come un soffio è passato
e ognun riprende in breve
il libro abbandonato!
Vincendo il tedio greve
del lavoro forzato,
la lotta per la vita
a sè le menti giovanili invita.
O vita mal concessa,
che dura legge è questa
se su la soglia istessa
bieco il dolor ci arresta,
se, già dai fati oppressa,
l'anima che si desta
mentre dispiega il volo,
sente l'ala spennarsi e cade al suolo?
Ecco. Non han vent'anni
e covan l'odio in seno.
D'ansie, d'error, d'affanni
il core han già ripieno.
Di meditati inganni
distillano il veleno
e del torvo interesse
han già le rughe su la fronte impresse!
E pur così li vuole
l'età bassa ed indegna
che da le fredde scuole
la cupidigia insegna,
che nega un posto al sole
a chi servirla sdegna
ed i giovani avvezza
a gittar la virtù per la ricchezza!
Ah no, giovani, uscite!
L'aria di fuori è sana.
Qui stagna la mefite
de la tristizia umana,
qui le carte erudite
puton di cortigiana
ed il cavillo appesta
con l'ulcera venal l'anima onesta!
Uscite! Io vecchio e stanco
qui veglierò soletto,
chinando il capo bianco
sul libro prediletto.
Ecco: su questo banco,
rimango solo e aspetto
da la benigna sorte
il riposo e... chi sa? forse la morte.
291
AL VEGLIONE
Non sentite in mezzo al canto
come l'eco d'un lamento
come un grido di spavento
entro cui singhiozza il pianto?
Non sentite? È lunga tanto
una notte di tormento
senza pane, a foco spento,
quando il cor sanguina infranto,
quando un lungo struggimento
fa pensare al camposanto
come termine allo stento!...
Ah, pietosi! in questo incanto
non scordatevi un momento
che la fame urla qui accanto!
NEVE
Nelle soffitte squallide
fra i cenci desolati,
morde la fame i visceri
dei bimbi assiderati,
ma le innocenti lacrime
fredda la terra beve...
quante miserie piangono
sotto la bianca neve!
Traggon l'oscene maschere
i passi titubanti
all'osterie che ruttano
urli, bestemmie e canti;
brucia l'ebbrezza ignobile
come una fiamma breve...
quanti coltelli uccidono
sotto la bianca neve!
Scalzo nel fango, un lacero
stuolo di forme umane
chiede il diritto a vivere,
vuole lavoro e pane;
ma l'onta ed il rimprovero
e non il pan riceve...
quante vendette covano
sotto la bianca neve!
Guata su l'acque livide
il vecchio pensieroso
e l'acque gli promettono
la gioia del riposo.
Ai vinti, ai mesti, ai deboli,
gittar la vita è lieve...
quanti sepolcri s'aprono
sotto la bianca neve!
293
TRITTICO
I.
AMATA
Mentre di fuori tremando le fronde
gemono al vento autunnal che le miete,
pupille larghe, pupille profonde,
che lieto maggio sognando vedete?
Mentre il silenzio de' vespri diffonde
il suo languor nelle stanze segrete,
labbra di rosa per chi sorridete,
ghiotte di baci e d'amor sitibonde?
Pupille nere che dolci splendete,
labbra di rosa fiorenti e gioconde,
felici voi che l'amor conoscete,
l'amor che il pianto del vero v'asconde
con un tumulto d'imagini liete,
con un delirio d'ebbrezze feconde!
II.
SPOSATA
Poi che la bianca ghirlanda riposa
sul casto velo lasciato piangendo
e delle nozze al mistero tremendo
t'affacci bella, innocente, amorosa,
sei vinta e già colla bocca di rosa
tutta te stessa concedi ridendo,
mentre lo sposo t'avvinghia cogliendo
l'intatto fior de la forma vezzosa.
Sei vinta! È lui che tentavi fuggendo,
lui che con l'occhio cercavi pensosa,
lui che la notte sognavi dormendo;
ed or che il labbro sul labbro ti posa,
suggi il suo bacio ed impara arrossendo
le voluttà benedette di sposa.
295
III.
LASCIATA
Suonan tra i rami del bosco spogliato
canzoni e risa che passano a volo;
va su le nevi d'amanti uno stuolo
e amor trionfa del verno gelato.
E tu che avevi creduto ed amato,
povero core che sanguini solo,
povero uccello pigliato al lacciolo,
non sarai dunque mai più consolato?
Dormono i fior sotto il bianco lenzuolo,
ma nel tripudio del maggio aspettato
uscir dovranno più belli dal suolo.
Ma le dolcezze del tempo passato,
ma le speranze recise dal duolo,
chi più le rende ad un cor disperato?
NON DOMANDATE MAI...
Non domandate mai perchè le stelle
ritornano a vegliar ne 'l ciel sereno,
non domandate mai perchè son belle
nè perchè così lieto è il lor baleno.
Sotto quegli occhi de la notte, a quelle
veglianti faci, l'uno a l'altro in seno
cadon gli amanti e l'anime sorelle
mesconsi a 'l lume lor soave e pieno.
Fino a l'alba così, fino a domani
più gioconde le stelle e scintillanti
sorrideranno in ciel. Lungi, o profani!
Non vi diranno mai le stelle erranti
queste dolcezze di fecondi arcani
noti a loro soltanto ed agli amanti.
297
SERENATA
Se il canto e le parole
salgono fino a te
sorriderai per me,
raggio di sole!
Se nel tuo bianco petto
trova l'amor mercè,
olezzerai per me,
fior di mughetto!
e se al fedel cantore
sordo il tuo cor non è,
risplenderai per me,
stella d'amore!
DESTINO
O felici del mondo, a cui la sorte
porse la chioma fortunata in mano,
a cui natura diè l'anima forte,
il gaudio della vita, il sangue sano,
improvvisa dal ciel piomba la morte
sulla miseria dell'orgoglio umano:
col dito traditor segna le porte
e chi spera fuggir, lo spera invano;
e là dove il piacer prodiga e spande
le voluttà più caramente liete,
di quel segno l'orror sembra più grande.
Come un gocciar di lagrime segrete
ivi cadono i fior dalle ghirlande,
ivi cessa la danza ed entra il prete.
299
NORD
Poichè, Anfitrite, di lasciar ti piacque
il tepor delle miti aure tirrene
e l'incanto dell'acque
che sanno la canzon delle Sirene,
visita dunque l'iperboreo gelo
dove il pallido sol male tramonta
e sotto al plumbeo cielo
le nevi eterne senza umana impronta.
Di novelle Nereidi e di Tritoni
non conosciuti ancor vedrai le schiere,
i candidi alcïoni,
i trichechi giganti e l'orche nere.
Ivi nel balenar di strane aurore
coronata sarai del mar regina
e nel rosso bagliore
biancheggerà la forma tua divina.
Va, poichè la canzon delle Sirene
più sul tuo mar natio non alza il volo,
poichè Roma ed Atene
sognan le freddolose arti del polo;
e non tornar mai più. Su questi liti
inaridì spregiato il fior dei canti,
gli Dei sono fuggiti,
veleggiano il tuo mar solo i mercanti.
NOTTE
Lento lento sul canale
il crepuscolo discende,
non un remo l'acqua fende,
non un canto, un grido sale.
Sotto il raggio d'un fanale
l'acqua immobile risplende;
ampio intorno si distende
il silenzio sepolcrale.
Ma sul piano sonnolento,
ad un tratto, un'amorosa
melodia fremer io sento,
e sull'acqua che riposa
passa il brivido del vento
come il bacio d'una sposa.
301
AVVENTURA
S'erano amati troppo e poi divisi,
lei per dispetto e lui per gelosia
e quando ella partì, tra due sorrisi
disse – «Tu mi farai l'anatomia».
Ei ritornò ai maestri, ai lieti visi
de' compagni, allo studio, all'allegria,
ma i rimorsi profondi ed improvvisi
lo tormentavan come una malia.
Un dì, sul marmo a cui miseria guida
l'umana carne non ancor sepolta
perchè il coltello indagator l'incida,
la trovò morta, in un sudario avvolta,
e il viso bianco della suicida
sorrideva per lui come una volta!
Stabant autem iuxta crucem.
JOH. XIX, 25.
Al cospetto delle genti
l'Aspettato alzò la voce:
«Pace ai buoni, ai sofferenti
» che confessano la croce
» da cui sparsi moribondo
» l'innocente sangue mio
» e pagai dinanzi a Dio
» tutto il debito del mondo!
» Sono il verbo del Signore,
» son la vita e son la luce
» che feconda il campo in fiore,
» che riscalda e che produce.
» Sovra il culmine dei monti
» cresco l'ilice superba,
» movo il sommolo dell'erba
» lungo il margine dei fonti.
» Pace agli umili aspettanti
» il giudizio che promisi;
» pace all'anime penanti
» degli oppressi e dei derisi.
» Per l'abbietto è la mia gloria,
» pel caduto il mio perdono.
» Tutti a me venite! Io sono
» la giustizia e la vittoria!»
Così disse. Affettuosa
discendea sui cor la voce,
quando un'ombra mostruosa
si levò dietro la croce
e in quell'ombra un ceffo immondo
con la bocca spalancata
fuoco e tabe attossicata
vomitò sul triste mondo.
Indi l'acqua inverminita
brulicò di biscie attorte;
sulla terra inaridita
stette l'ombra della morte;
arse il ciel di vampe immense
e levossi un ululato
furibondo, disperato,
che in un rantolo si spense,
ed il mostro audacemente
303
affermò: «Sono il Nemico!
» Io soltanto, umana gente,
» ti governo e t'affatico.
» Son la peste, son la guerra,
» sono il fulmine improvviso...
» Regna Iddio nel paradiso
» ed io regno in questa terra!»
PER SEMPRE
Il mostro s'allungava
come un serpe schifoso,
e viscido di bava,
gonfio, gelatinoso,
aprìa larghi ed attenti
gli occhi fosforescenti,
trascinandosi lento
sulla ventraia oscena
col pigro movimento
ed il senso di pena
del rospo impegolato
nel motriglio gelato.
Poi con la cauta insidia
del polipo che caccia,
simulando l'accidia
cerchiava con le braccia
cupidamente aperte
l'umana preda inerte,
la preda rassegnata
che di levar non osa
la mano incatenata,
la vittima crucciosa
che il suo destino accetta
ed il martirio aspetta.
Ah, guai per chi seguendo
l'error del vizio abbietto,
vedrà del mostro orrendo
lo scellerato aspetto!
Guai! Nelle sue ritorte
starà fino alla morte.
Oblio, riposo e pace
invocherà, ma invano:
la stretta è più tenace
d'ogni contrasto umano
ed aspettar soccorso
non val contro il Rimorso!
305
MAMMONA
Imagine deforme
nel fosco ciel che tuona
l'assirio Iddio Mammona
erge in un nimbo enorme
il capo di sparviero
sordidamente nero.
Scuote il flagello d'oro,
forza, strumento e segno
del suo ribaldo regno
ed il flagel sonoro
nella implacabil mano
gronda di sangue umano.
Dal pugno che la serra
una catena pende
che si disnoda e scende
come una serpe a terra,
quasi nasconder tenti
i biechi avvolgimenti.
E tu, secol civile,
che l'onta tua non vedi,
tu ti trascini ai piedi
di questa imagin vile
e strisci e baci e preghi
e la pietà rinneghi!
Or va! Poi che tu mostri
del cor la lue profonda,
va! Nella polve immonda
bene al tuo Dio ti prostri.
È il Dio dell'oro e ormai
più degno Iddio non hai.
Ma bada! Una saetta
squarcia la densa notte.
Mandan le nubi rotte
un urlo di vendetta...
Bada! Vedrai tra poco
piovere sangue e foco
e l'hai voluto! Ultrice
l'ora t'incalza e stringe,
la terra ti respinge,
il ciel ti maledice
e al colpo che t'uccide
il tuo Mammona ride!
307
POST PRANDIUM
Le laudi del convito
canta l'adulatore
ed urla il parassito
gli evviva al suo signore.
Le donne han lo scaltrito
sguardo che finge amore
e sovra il sen fiorito
il vezzo tentatore.
Ma intanto la cervice
piega il signor trafitto
nell'anima infelice
e l'occhio torvo e fitto
sovra la mensa, dice
che il cor cela un delitto.
PERCHÈ?
Che dolci parole diceva!
Che strette di mano mi dava!
Ma quando la bocca parlava
il core, il suo core taceva!
Dormendo apparir la vedeva
e un gaudio di baci sognava,
ma quando l'aurora spuntava,
il sogno, il mio sogno cadeva!
Un ultimo fiore io nudriva
di speme... ma venne la piova
e il fiore, il bel fior mi moriva!
O mar della vita, che giova
varcarti, se giunti alla riva
l'Amore, l'Amor non si trova?
309
IN MEMORIA
DI
CESARE DALLA NOCE
Povero fascio d'ossa tribolate
che recammo ier notte alla Certosa,
per le vie desolate,
sotto la pioggia fitta e freddolosa,
povero fascio d'ossa ove la mente
soffrì dell'infelice ora sepolto,
riposi finalmente
entro al sudario in cui t'abbiam raccolto?
Ahimè che triste notte! Il freddo vento
l'eco parea recar d'urli lontani,
lungo come un lamento
s'udìa pei campi l'uggiolar dei cani
e seguivam per fracidi sentieri
del carro funeral la pigra rota
dietro al chiaror de' ceri
che tremava sull'erba e sulla mota.
La bara, come in lagrime, gocciava
della gelida piova alla percossa
e così se ne andava
la giovinezza tua verso la fossa!
Felice in questo almen che più non senti
l'antico del dolor morso tenace!
Noi restiamo ai tormenti,
tu dormi il sonno dell'eterna pace.
E pure... invan la verità ci mostra
la fossa in cui per sempre avrai dimora,
chè nell'anima nostra,
nel memore pensier rivivi ancora
e parliamo di te come aspettato
negl'intimi colloqui a cui venivi...
Perchè non hai bussato
oggi a quest'uscio che una volta aprivi
e con la faccia tua buona e sincera
al fido crocchio tra le ciarle usate
non vieni questa sera
a dirci – Amici miei, mi ricordate? –
Perchè coi motti dell'ingegno arguto
non torni a rider più meco in disparte?
Perchè non sei venuto
almeno a dirmi addio, come chi parte?
Ahi, quell'addio che dar tu mi dovevi
io lo dissi alla tua memoria cara,
ma tu non l'intendevi,
povero fascio d'ossa entro la bara,
povero fascio d'ossa tribolate
che recammo ier notte alla Certosa,
per le vie desolate,
sotto la pioggia fitta e freddolosa!
311
DISSE...
Cadde squarciato il velo
dagli occhi del Veggente!
Il fantasma giungea col capo al cielo,
guizzava come un serpe il crine ardente,
aprìa le fredde mani,
stringea gli aguzzi artigli
sovra i più sacri degli affetti umani,
sulla vita dei padri e il cor dei figli.
«A lagrime di sangue
» piangete, o figli d'Eva!
» Io son la forza che giammai non langue;
» nulla placar mi può!» – Così diceva –
«E per voler divino,
» finchè sarete al mondo,
» vi muterò in veleno il pane e il vino,
» vi strazierò con l'ugna il cor profondo.
» Non c'è tra voi chi possa
» vincer la forza mia.
» Io vi stritolerò le carni e l'ossa
» dall'utero materno all'agonia.
» No. Per staccar la fiera
» ugna dal vostro core
» non giovan le bestemmie o la preghiera,
» ma bisogna morir. Sono il Dolore!»
MORBVS
Chi, quando il giorno muore,
ode, seguendo il Gange,
la tortora che piange
sotto i roseti in fiore
e, lungo l'acque stanche
specchio alle palme nere,
vede passar le schiere
delle pagode bianche,
lento discerne ancora
fumar dal tardo fiume
il denso putridume
che in faccia al sol vapora,
e galleggiar sull'onde
carogne omai disfatte
che l'acqua gialla sbatte
sulle fangose sponde.
Lungo i giuncheti pigri,
nidi di serpi immani,
piangono i caimani
e ruggono le tigri,
mentre nell'aria bassa
del crepuscolo torvo
gracchia sinistro il corvo
sazio di carne grassa.
Allor nel plumbeo cielo
s'erge dall'acqua oscura
d'un angiol la figura
chiusa da un fosco velo,
e sale a poco a poco
sul livido orizzonte,
gocciando dalla fronte
sangue, veleno e fuoco.
Sale gigante e solo
dell'universo in faccia,
tende le negre braccia,
apre l'immenso volo...
Ah, invan chiudi le porte,
trista progenie d'Eva;
ecco, su te si leva
l'angelo della morte!
E passa infaticato
313
sulle città fastose,
sovra le ville ascose,
sovra il castel merlato,
sul casolar che ride
di sue virtù contento...
Passa solenne e lento
e dove passa, uccide.
Sul suo cammin, segnato
dai morti e dai morenti,
alto le umane genti
mandano un ululato.
L'orror dell'ecatombe
fin la speranza scaccia
e mancano le braccia
per iscavar le tombe...
Del cor premendo i moti,
sbarrando gli occhi tardi
inchiodano i vegliardi
le bare dei nipoti;
col pianto sulle gote
le madri moribonde
piegan le teste bionde
sopra le culle vote.
Dubita l'uom che venga
il mondo all'ore estreme
e guata in alto e teme
che il sole in ciel si spenga,
mentre gli grida il prete:
«Guai nel gran giorno all'empio!
» Portate l'oro al tempio,
» poichè doman morrete!»
Sul sacro limitare
cadono allor gli oranti;
lordan gli agonizzanti
le pietre dell'altare
e pur la turba stolta
che ciecamente adora,
inginocchiata implora
Iddio, che non l'ascolta.
Turba, che il vacuo gelo
della tua fede or tocchi,
muori, volgendo gli occhi
inutilmente al cielo.
Alle pupille offese
il vero or si disserra:
non ti mentì la terra
quando per lei ti chiese.
Non ti giurò promesse
d'un avvenir mal certo,
ma dal suo fianco aperto
ti germogliò la messe.
Giovin, dell'odio invece,
l'amor ti accese in seno,
e per un giorno almeno
miglior di Dio ti fece.
315
VISIONE
Et vidi Angelum fortem
predicantern voce magna.
APOC., V, 2.
Passò rapidamente
nel silenzio solenne
un batter d'ala, un fremito di penne
sul capo del Veggente.
Sovra la terra stava
freddo di nebbia un velo
e nella grigia immensità del cielo
l'Angiol di Dio parlava.
«Sorgi, o Veggente – disse –
» e annuncia i dì novelli:
» ecco il Verbo spezzò sette suggelli
» e aprì l'Apocalisse.
» Vedi? A Colui che vuole
» l'abisso apre le porte
» e nel freddo, nel vuoto e nella morte
» spento s'affonda il sole,
» indi, senza governo,
» la terra insterilita
» senza fior, senza luce e senza vita,
» cade nel buio eterno.
» Non più campagne arate,
» non più selve sui monti,
» non più riso d'aurore e di tramonti,
» non più bocche baciate!
» Umanità superba,
» che le saette hai dome,
» domani morirai, strappata come
» una festuca d'erba
» e sul detrito e sulla
» maestà dell'oblio,
» solo idea non bugiarda e solo Iddio
» starà per sempre il Nulla».
Sovra la terra e l'acque
passò ruggendo il vento,
s'alzò un urlo d'angoscia e di spavento
e l'Angelo si tacque.
317
L'IDILLIO DI ORLANDO
Che non può far d'un cor ch'abbia soggetto
Questo crudele e traditore amore,
Perchè ad Orlando può levar dal petto
La tanta fè che debbe al suo Signore!
ARIOSTO, Orl. Fur., c. IX, I.
Apparia tremolando all'orizzonte
la tenue luce della nuova aurora
e la vaghezza delle rosee impronte
crescea più viva coll'andar dell'ora,
quando, sul fido Brigliadoro il Conte
uscì pensoso di Baldacco fuora
e d'ignoti sentier sull'erba molle
lentamente discese il verde colle.
Come giovine sposa, allor che il sole
fra le cortine del balcon s'affaccia,
lascia lenta le coltri e volger suole
al conscio letto con desìo la faccia,
ma, rivestita poi, non più si duole
rimemorando i baci e il sonno scaccia,
indi lieta intrecciando il crin disciolto
canta allo specchio e amor le ride in volto,
la natura così malvolentieri
dai notturni riposi uscir parea
semivelata dai vapor leggeri
che lenta l'aura del mattin movea,
ma poi ridesta e de' color primieri
rifiorendo col dì, tutta fremea
in un gaudio fecondo, in una ebbrezza
di gioventù, d'amore e di bellezza.
Non sgomentati del cavallo ai passi
l'inno di gioia ripetean gli augelli.
Pareano susurrar tra l'erbe e i sassi
giocondi epitalami anche i ruscelli
e i caprifogli penduli dai massi,
scotendo i rami a guisa di capelli,
gocciavan perle di sottil rugiada
sulle nozze de' fior lungo la strada.
Nel tripudio d'amor ringiovanita
la natura parea tutto un giardino
che vaporasse tepida e squisita
la fragranza de' fiori al ciel turchino,
sì che pien di desìo, gonfio di vita,
s'apriva il chiuso cor del Paladino
e conquisa cedea l'anima fiera
alle lusinghe della primavera.
Dimenticò Re Carlo e i suoi baroni
e il santo gonfalon del fiordaliso,
i giganti, le fate e gli stregoni,
Gano schernito ed Agramante ucciso.
Dimenticò gli assalti e le tenzoni
tra lo stuol battezzato e il circonciso
e vide col pensier mille rosate
imagini di donne innamorate.
Rivide Olimpia, offerta all'esecrando
mostro, chieder mercè nuda e tremante
e passar sorridendo e sospirando
Fiordispina, Isabella e Bradamante.
Vide Marfisa non curar pugnando
le salde nudità del petto ansante
e d'Angelica sua gli occhi procaci
languir di gaudio di Medoro ai baci.
Allor si sentì solo e in cor gli scese
gelida un'onda di malinconia,
tal che a se stesso dubitando chiese
se la gloria non fosse una pazzia;
ed una voce in fondo al core intese
dirgli: «che val la tua cavalleria,
» che valgon le tue gesta e il tuo valore
» senza un bacio di donna e senza amore?»
Discendeva così fantasticando
intorno a questa sua doglia novella
e sospirava fieramente, quando
vide dal bosco uscire una donzella
che raccogliendo fior venìa cantando
soavemente, e la persona bella
di tal vivo desìo lo prese e punse
che spronò Brigliadoro e la raggiunse.
Si trasse l'elmo, dall'arcion si sporse
e con voce tremante amor le chiese.
Lentamente a mirarlo il viso torse
la giovinetta ed a sorrider prese.
L'occhio le scintillò, ma quando scorse
la croce sull'usbergo e sul palvese,
la scintilla si spense ed il sorriso
subitamente le sparì dal viso.
319
E disse: «Cavalier, tu porti in petto
» del Dio che adori il segno e la dottrina.
» Tu segui Gesù Cristo, io Maometto;
» tu sei di stirpe franca, io Saracina;
» io cingo fiori al capo e tu l'elmetto,
» tu sei nato possente ed io tapina;
» vanne e ti basti sol ch'io ti confessi
» che t'amerei se tu a Macon credessi».
Deh, come lieti tra le verdi fronde
cantavano gli augelli i novi amori,
come all'aura d'april le rubiconde
corolle aprivan tripudiando i fiori,
come splendeano al sol le chiome bionde,
come ridevan gli occhi incantatori,
allor che il Paladin vinto si diede
e per un bacio rinnegò la fede!
PRESSO TIVOLI
A voi, fecondi clivi
sabini, a voi vestiti
di frondeggianti viti
e di feraci ulivi
tra cui muggendo viene
il turbolento Aniene,
a voi, nel roseo incanto
del moribondo sole,
sante d'amor parole
disse d'Orazio il canto,
ma del tripudio il giorno
passò senza ritorno.
Oggi, ai pendii fiorenti
dove ridean le vigne,
germoglian le gramigne
agli sparuti armenti
e Roma guarda e ride
perchè il suo fiato uccide!
321
DIES
Il sole brucia implacabile, uguale,
le stoppie gialle del pian vaporoso,
l'azzurra volta del ciel luminoso
riflette in terra la fiamma estivale.
Non move foglia. La vita animale
langue in un grave sopor neghittoso:
turba la pace al meriggio affannoso
solo un molesto frinir di cicale.
Sull'erba verde, nel bosco frondoso,
fresco t'ho fatto di fiori un guanciale
e tu vi adagi le membra al riposo.
Dormi discinta nell'ombra ospitale
ed io contemplo con l'occhio bramoso
l'onda del petto che scende e che sale.
NOX
Dell'alta notte la negra magia
m'empie il cervello, mi filtra nel core;
un soffio passa sull'anima mia,
un freddo soffio che m'empie d'orrore.
Sente di fuori, l'orecchio che spia,
strani bisbigli che metton terrore,
ma nelle case la vita s'oblia
come annegata in un denso stupore.
Solo nel buio, laggiù, della via,
dietro una tenda, l'immobil candore
un lume fioco da lungi m'invia.
Rischiara forse quel tardo bagliore
lo spasimar d'un'atroce agonia
od il gioir d'una notte d'amore?
323
NEL MILLE
Al suo balcone s'affaccia beata
la dama, tratta dal maggio fiorente.
Il sol carezza la treccia dorata,
la rosea gota ed il labbro ridente.
Il giovin paggio da lunge la guata
e tutto caldo d'amore si sente,
nè gli par cosa terrena e creata,
ma ben di cielo angioletta vivente.
Correr vorrebbe a battaglie cruente,
soffrir pugnando una morte spietata
sol per averne uno sguardo clemente;
e pur la dama dagli occhi di fata,
e pur la bianca angioletta piacente
dal dì che nacque non s'è più lavata!
NEL SETTECENTO
Mormora l'arpa toccata in sordina
lento un motivo che par minuetto.
Lenta la dama danzante s'inchina,
tutta eleganza, sussiego e belletto.
Di nei segnata, la pelle argentina
manda un profumo sottil di zibetto:
sotto una nebbia di candida trina
ansano i bianchi segreti del petto.
Danza e sul molle tappeto trascina
la ricca veste ed il piè piccioletto
col portamento d'altera regina.
Tutti scoraggia col rigido aspetto,
con l'occhio pieno di calma divina,
e lo staffiere l'attende nel letto.
325
APENNINO
O monti, albergo di pace infinita,
ancor nel vivo ricordo rimane
il susurrar delle chiare fontane
tra la fragranza dell'erba fiorita
e il tremolar della luce salita
coll'alba fresca alle cime lontane
nel rado vel delle nebbie montane
sui boschi pieni di canti e di vita
e nel tepor della rorida mane
fioco il belar dell'agnella smarrita
od il rintocco di meste campane....
Oh, nel mister della selva romita
fuggir con lei dalle cure mondane
e tra i capelli sentir le sue dita!
ADRIATICO
Il mar lambendo instancabile, lento,
la sabbia fina dell'umida sponda,
con ritmo uguale mandava un lamento,
quasi un singhiozzo, alla notte profonda.
Occhi benigni, le stelle d'argento
guardavan fisse la terra feconda.
Amor vagava nel ciel sonnolento
ed io sperai la fortuna seconda.
Il cor t'apersi con timido accento,
sfiorai col labbro la chioma tua bionda
ed al trionfo credetti un momento....
Addio, fantasmi d'un'ora gioconda,
sogni d'amore dispersi dal vento,
care speranze cadute nell'onda!
327
PAROLE
Dolci parole d'amor, susurrate
presso i cespugli fioriti di rose,
parole dolci, parole gioiose,
appena dette che mai diventate?
Salite al cielo col vento e volate
degli angioletti alle labbra amorose,
o, come accade dell'ottime cose,
parole dolci, nel nulla tornate?
Ahi, che piuttosto all'inferno dannate
sì come streghe mendaci e schifose,
forma e veleno di biscie pigliate
e, tra i cespugli nativi nascose,
mordete al core gli amanti e li fate
vittime e strazio di cure gelose!
MUSICA
L'ultime note languenti, velate,
muoiono come sospiri sonori
in un tripudio di mazzi di fiori
in un profumo di donne scollate,
e il sangue tende le arterie gonfiate,
passan su gli occhi fugaci bagliori;
tutta la vita prorompe di fuori
sotto l'impulso di forze ignorate.
Allor le forme ci sembran mutate
e ridipinte di strani colori,
quasi fantasmi di cose sognate.
Poi tutto passa; ma resta nei cuori
come un rimpianto di gioie passate,
come un presagio di nuovi dolori.
329
SAFFO
A VENERE GENITRICE
In lectulo meo per noctes quaesivi
quem diligit anima mea: quaesivi
illum et non inveni.
CANT. CANTICOR. III, I.
– «Guarda, mortal, le fiamme
de' larghi occhi lucenti
e le chiome fluenti
sulle superbe mamme.
Guarda! L'estremo lembo
gittai che ti copriva
la pubertà giuliva
che mi fiorisce in grembo.
Vieni e sui fior ti giaci
e me sui fior ricevi;
tra le mie labbra bevi
il dolce miel de' baci,
i lombi miei circonda
con le possenti braccia,
stringimi al sen la faccia
e l'amor mio feconda» –
Così parlò e sorrise
la Dea, porgendo il fianco
soavemente bianco
al giovinetto Anchise,
poi volse le parole
in gemiti sommessi
e dei divini amplessi
fu testimonio il sole.
Vittima anch'io d'Amore
omai dispero aita
poi che la sua ferita
mi sanguina nel core,
nè lacrimar mi vale
nè maledir, costretta
a spasimar soletta
sul vergine guanciale.
Che se fugaci istanti
di pace al sonno chiedo,
mille fantasmi vedo
pel rosso ciel vaganti.
Passa sul campo arato
caldo di nozze il vento
e in sè recar lo sento
la febbre del peccato.
Desta così all'ebbrezza
del germinar, la terra
le viscere disserra
del sole alla carezza
e con le carni e il core
arsi da fiamme arcane,
urlan le genti umane
«Amore, amore, amore!»
Tra l'ombre e gli spaventi
delle materne selve
si stringono le belve
in ciechi accoppiamenti
e dalle fulve arene
che il mar commosso esclude
perfidamente ignude
mi chiaman le Sirene,
mentre di Bromio stanche,
roche per gli ebbri canti,
le lubriche Baccanti
gittan le vesti bianche
e sui compressi fiori
curvan le rosee forme
sotto l'impulso enorme
dei Fauni assalitori.
E allor mi desto sola
sul letto immacolato
coll'urlo disperato
del mio martirio in gola...
Deh, morrei pur gioiosa
se fossi in quel momento
segnata dal cruento
stigma di nuova sposa,
se nella gonfia mole
dell'utero fecondo
balzar sentissi il pondo
della concetta prole,
se, al fin delle mie pene,
lieta chiudessi il ciglio
addormentando un figlio
331
tra le mammelle piene!
O Dea, Madre, Signora
dei vivi e della vita,
dal mar di Cipro uscita
al bacio dell'aurora,
che il premio a noi concedi
nella tenzon gentile
ed al vigor maschile
il fior del sangue chiedi.
se di perenni rose
t'ornino ancor l'altare
le verginelle ignare
e le coscienti spose,
se l'atra onda Letea
il biondo Adon ti renda,
pietà di me ti prenda,
Madre, Signora, Dea!
SCRIVE DONNA ELVIRA
Zerlina mia, la neve
turbina in alto e cade
zitta, noiosa, greve,
sui tetti e sulle strade.
Invan la notte pesa
sulla città che tace;
la coltre bianca è stesa,
ma nulla dorme in pace.
Rugge di fuori il vento
e l'urlo furibondo
si spegne in un lamento
di bimbo moribondo
e uscir dall'ombre senti,
dall'ombre paurose,
il pianto dei viventi
e il pianto delle cose.
Ma dall'orror, dai lutti,
dolce un pensier m'invola
e tra il dolor di tutti
sono felice io sola!
Ah, degli umani affanni,
Zerlina, a me che importa?
Io sento Don Giovanni
che batte alla mia porta!
333
FANTASIA EGIZIANA
Al Nilo, al Nilo! Nasconderemo
laggiù, mia bella, l'amor deriso,
là sconosciuti noi ci faremo
non una casa ma un paradiso,
sul chiaro margine dell'acque calme
dove si specchiano verdi le palme.
Il chiosco vedi ch'io t'ho fiorito
di cento rose come un giardino!
Dentro ai bracieri d'oro brunito
fuman le lagrime del benzoino
e dal marmoreo balcone aperto
vampe d'amore manda il deserto.
Nera nel cielo color di rosa
che nel tramonto caldo risplende,
come una lupa libidinosa
accoccolata la sfinge attende,
e grave un alito di strani amori
l'acre vivifica nozze dei fiori.
Alle carezze molli del vento
data la lunga cesarie d'oro,
nell'onda tenue del vel d'argento
nudo del bianco seno il tesoro,
sarai mia sempre, mia tutt'intera,
se non ci viene prima il colera.
IRIS FLORENTINA LINN
Fior dell'incanto,
fior di giaggiolo
azzurro e santo
del ciel figliuolo,
che come un manto
ricopri il suolo
al primo canto
dell'usignolo,
per me soltanto
parli di duolo
fior dell'incanto
e muori solo
sul cor che ha pianto,
fior di giaggiolo!
335
LAVDA NOUISSIMA
DE LA STELLA CHOMETA
A l'ultima uentura
parati esser conuene,
perchè la stella uene
per lo creato et per la creatura!
Ohimei, chome faremo,
donne piagenti et belle,
quando chader uedremo
la luna, el sol, le stelle
et l'altre baghatelle
che uan pel cielo a uolo?
Deh, che a pensarlo solo,
sento el core tremar da la paura!
Ohimei, tapine donne,
che balli danzarete
quando sotto le ghonne
arder ue sentirete
et gli huomini uedrete
per la terra et pe 'l mare,
sanza le brache andare
chome li fabricò madre natura?
Chome fa la candela
che abruscia sino al fondo,
la chometa di Biela
chosì strugerà el mondo
et uedremo el profondo
mare cum l'onde incese,
quasi un punch inghilese
facto col rhum et l'acquauite pura.
Gratia, bellezza, moda,
amor, letitia, tucto,
da la tremenda choda
arso sarà et destructo:
piouerà dapertucto
solpho bogliente et foco;
haurassi in ogne loco
puzo di mocholaia et di frictura.
Sciolto dal caldo enorme
et reducto in uapori,
questo libro deforme
non haurà più lectori
e tucti gli scrittori,
non escluso el presente,
potranno finalmente
hauer dirieto la litteratura
et lieti del riposo
andranno da qui uia
et soura el prato herboso,
ouero a l'hosteria,
beueran tuctauia,
espectando sereni
lo apparir de i baleni
et el prencipio de la schotatura.
Ohimei, donne tapine,
se uera è la nouella
che siamo gionti al fine
per chason de la stella,
se pronta è la padella,
che ue state tremando
intorno a voi guatando
se l'aria se fa chiara o se fa schura?
Ahi no, donne piagenti,
se 'l cielo è anchor sereno,
quest'ultimi momenti
godeteueli almeno
et stringeteui al seno
gli amanti che bramate.
Amate, amate, amate
et fate presto perchè c'è premura!
A l'ultima uentura
parati esser conuene,
perchè la stella uene
per lo creato et per la creatura!
337
ALTRA SERENATA
Come col capo sotto l'ala bianca
dormon le palombelle innamorate,
così tu adagi la persona stanca
sotto le coltri molli e ricamate.
La testa bionda sul guancial riposa
lieta pe' sogni suoi color di rosa
e tra le larve care al tuo sorriso
una ne passa che ti sfiora il viso.
Passa e ti dice che bruciar le vene,
che sanguinare il cor per te mi sento.
Passa e ti dice che ti voglio bene,
che sei la mia dolcezza e il mio tormento.
Bianca tra un nimbo di capelli biondi
dormi e sorridi ai sogni tuoi giocondi...
Ah, non destarti, o fior del Paradiso,
ch'io vengo in sogno per baciarti il viso.
VIA ÆMILIA
(IN BICICLETTA)
Volavano le rote incontro al vento
senza lasciar la traccia in sul terreno
e dal pian taciturno e sonnolento
tepido a me salìa l'odor del fieno.
Nella profondità del firmamento
cominciavan le stelle a venir meno;
tremava una sottil riga d'argento
su l'orizzonte limpido e sereno,
quando, su da le case ormai destate,
per le finestre aperte, al ciel saliva
il canto delle donne innamorate
e ne l'alba del dì, nella giuliva
serenità de la feconda estate,
bianca davanti a me la via fuggiva.
339
LE BALLATE DELL'AUTUNNO
I.
Giovani amanti e donne innamorate,
se mi volete bene,
vi sovvenga di me quando pregate.
Quell'albero che resse alla bufera
nella stagion nevosa e nell'asciutta,
l'albero che fiorì di primavera
e che d'agosto maturò le frutta,
or che l'inverno viene
sente cader le foglie assiderate.
Non più nidi sui rami e tra le fronde,
non più trilli d'amor nell'ombra densa.
Or l'avvolge la nebbia e lo nasconde
sotto un sudario di mestizia immensa
e morir gli conviene
senza speranza di veder l'estate!
II.
Oh come tristi son queste giornate
e queste notti piene
di cose morte e non dimenticate!
Quell'albero son io che sotto il raggio
mattutino del sol rinverdì tutto,
che di rime fiorì nel dolce maggio,
che maturò nel caldo agosto il frutto
e nell'ore serene
la speranza ospitò delle nidiate;
ed or che il triste verno s'avvicina,
perdo le foglie della poesia,
sento venir la nebbia e la pruina
ed il freddo agghiacciar l'anima mia...
Oh, piangetemi bene,
giovani amanti e donne innamorate!
341
I SONETTI
I.
Nel grigio ciel talvolta i miei sonetti
come falchi solinghi alzano il volo;
nell'azzurro talor, semplici e schietti,
tripudian come le colombe a stuolo.
Or si librano in alto ed or costretti
dalla fralezza lor radono il suolo;
ora tuban d'amor sotto i boschetti
ed ora in cimiter piangon di duolo.
E sen vanno così cercando il mondo,
di pensiero in pensier, di lido in lido,
col volo spensierato e vagabondo;
ma quando a sera mugge il vento infido,
quando la notte ingombra il ciel profondo,
ecco, i sonetti miei tornano al nido.
II.
«Ben tornati, o sonetti, al dolce nido
ch'io vi composi del mio core in fondo,
ben tornati all'asil morbido e fido
dove giunger non può voce dal mondo.
Con che amor vi accarezzo e vi sorrido,
figli d'un genitor troppo fecondo!
Con che piena d'affetto io vi confido
le rime tristi od il pensier giocondo!
Rimanete con me, senza sospetti
d'invidia, di malizia o di lacciuolo,
entro il nido natìo sicuri e stretti!
Non lasciatemi più deserto e solo,
restate nel cor mio, cari sonetti...»
E tornato il seren, prendono il volo!
343
STUDENTESSE
I.
Eccole curve, povere figliole,
sulle pagine gravi e faticose
a contender coi testi e con le chiose,
a far l'anatomia delle parole.
Eccole curve nelle chiuse scuole
a domar pertinaci e coraggiose
nel silenzio di lunghe ore penose
l'anima che rifiuta, il cor che duole.
Ed eccole intristir, stanche, nervose,
sui saggi enigmi e sulle dotte fole
dei versi antichi e delle antiche prose!
Questa matrigna civiltà, che suole
chiamarsi buona ed è crudel, le pose
a combatter così, deboli e sole!
II.
E fuori, e fuori, ah come ride il sole
sulle pianure verdi e luminose,
baciando i fior dell'ultime vïole,
aprendo i bocci delle prime rose!
Come cantano al sol le boscaiole
e cantano con lor le selve ombrose!
Ecco Amor che trionfa e che rivuole
l'inno dei fidanzati e delle spose.
Amore, Amor, che a senno suo dispose
dell'universo la feconda mole,
anima dei viventi e delle cose!
E voi qui senza nozze e senza prole,
come la nuova civiltà v'impose,
studiate il greco, povere figliole!!
345
NEL CINQVANTESIMO QVARTO ANNIVERSARIO
DELLA MIA VENVTA AL MONDO
QUESTI DVE SONETTI
A ME STESSO
BENE AVGVRANDO
OFFRO
I.
In alto, in alto, de le bianche stelle
per la divina e scintillante via,
sopra i venti, le nubi e le procelle,
in alto, in alto ascendi, anima mia.
Gitta il carico reo d'ossa e di pelle,
vesta di tradimento e di bugìa,
poichè col latte de le sue mammelle
te la incorrotta Verità nudrìa.
E sali e sali nell'azzurro immenso
dove il sol non ha più forza e governo;
dove nulla è finito e nulla è denso;
e nel salir del tramite superno,
l'immortale vedrai, negato al senso,
splendor della Giustizia e il Vero eterno.
II.
E pur, se l'occhio del pensier non erra
scrutando il corso delle umane sorti,
la Giustizia verrà dal cielo in terra
a giudicar sovrana i vivi e i morti,
dando il grano a colui che lo sotterra,
lasciando il frutto a chi coltiva gli orti,
l'ira cessando e la fraterna guerra
che insanguina la spada in mano ai forti.
O benedetti e lungamente attesi
giorni santi di pace e d'abbondanza,
fremer vicina l'ala vostra intesi!
Lento, ma certo, il regno tuo s'avanza,
Giustizia, o dei traditi e de gli offesi
ultimo sogno ed ultima speranza!
347
ROMANZE
I.
(Sentimentale)
Quando sento il suo passo per la via,
palpito e volo alla finestra mia.
Lo guardo di nascosto e non mi vede,
non alza gli occhi e indifferente va.
Gli ho dato la mia vita e la mia fede,
gli voglio tanto bene e non lo sa!
E se dinanzi a lui tremando passo,
impallidir mi sento e gli occhi abbasso.
Ch'io soffro per amor forse indovina
e del martirio mio sente pietà.
Lo porto fitto in cor come una spina;
è lui che mi tormenta e non lo sa!
E forse ora mi guarda ed è qui accanto
e pensa che un mistero è nel mio canto.
Sente la voce dal dolor turbata,
intende che un segreto in cor mi sta,
e, mentre chiede chi m'ha innamorata,
io canto per lui solo e non lo sa!
II.
(Drammatica)
Non ti ricordi quel che dicevi
quando una volta mi stavi ai piedi?
Tante lusinghe sul labbro avevi,
pregavi tanto che il cor ti diedi;
ma il cor l'hai preso per farlo a brani
e il sangue gronda dalle tue mani.
Non ti ricordi come ho pregato
a mani giunte, supplice anch'io?
Ma tu, che avevi dimenticato,
hai riso e ridi del pianto mio.
M'hai preso il core, l'hai fatto a brani
e il sangue gronda dalle tue mani.
Stammi lontano! Guai se mi tocchi!
A te che importa del mio destino?
Non mi guardare! T'arde negli occhi
la bieca fiamma dell'assassino.
M'hai preso il core, l'hai fatto a brani
e gronda il sangue dalle tue mani.
349
ALLORA ED ORA
I.
Mi guardavan le donne anticamente
colla faccia guardinga e mal sicura
di chi nel bosco minacciar si sente
dall'insidia del lupo ed ha paura.
Parlavano arrossendo e cautamente,
sorridevan con studio e con misura
e i segreti del corpo e della mente
m'interdicean con pudibonda cura.
Ma il cor delle ritrose io combattei
e ne tenni qualcun come in ostaggio
a testimonio de' trionfi miei;
ed or le donne han sovra me il vantaggio,
poichè di quanto l'ardir mio perdei,
d'altrettanto s'accrebbe il lor coraggio.
II.
Persuase oramai queste signore
che l'uomo alla mia età non comprometta,
mi dicon tutto come al confessore
e mi voglion con loro in bicicletta.
Stanno sole con me, parlan d'amore
e s'allacciano il cinto alla calzetta
senza pensare a mal, senza timore,
poichè la mia virtù non è sospetta;
e nei colloqui lunghi e confidenti
una non ce n'è più che mi nasconda
desideri, bellezze o sentimenti.
Sempre così questa vitaccia immonda!
Quando era scarso il pane avevo i denti,
or che i denti se 'n vanno, il pane abbonda!
351
IN MEMORIA
I.
 E. M
Forse meglio così. Non aspettata
la morte il capo giovenil toccava
quando l'età dei sogni era passata
ed il terribil vero incominciava.
La bocca sua che non fu mai baciata
al cortese mentir non si piegava:
e candida, serena, intemerata,
fra le lodi salìa, ma non guardava.
Nulla il cor nascondea, nulla il pensiero,
e la bontà che a bene amar costringe
dal volto trasparìa calmo e sincero;
e pur l'enigma che a cercar ne spinge
oltre la vita ed al di là del vero,
velava i luminosi occhi di Sfinge.
II.
Lottò la giovinezza inorridita,
la giovinezza che morir non vuole,
lottò col fato invano. Era finita!
Nessuno udrà mai più le sue parole.
La finestra per lei s'era fiorita
di giacinti novelli e di vïole,
quando, cogli occhi a cui fuggìa la vita,
entrata in agonia, cercava il sole.
Così, povero fior che piega e manca,
nel silenzio seren d'un giorno cheto,
chinata sul guancial la fronte stanca,
s'addormentò nel sol tepido e lieto
come una bimba nella cuna bianca
e portò nella tomba il suo segreto.
353
GIOVEDÌ GRASSO
I.
Quando il giorno apparì, livido, lento,
tra la nebbia del ciel rannuvolato,
l'ultimo lume per le vie fu spento
e l'ultimo cancan fu galoppato.
Le mascherine allor, col sonnolento
passo e col volto dalla veglia enfiato,
luride di sudor, gialle di stento,
usciron barcollando e senza fiato.
Pierrot, disfatto che mettea spavento,
mezzo briaco e mezzo addormentato,
il ritratto parea del pentimento
e Colombina intanto a lui da lato,
balbettando dicea: «Bada... mi sento...»
E con la testa al muro ha vomitato.
II.
Sotto i cenci di seta entrava il vento
che le carni mordea freddo, spietato,
e la lordura che cadea dal mento
colava a fiotti dentro il sen slacciato.
Il povero Pierrot tutto sgomento,
tossendo le chiedea: «Che cosa è stato?»
e guardava sorpreso il pavimento
dalla compagna sua contaminato.
Poi quando quell'orror fu terminato,
la mascherina si frugò un momento
in sen col fazzoletto ricamato:
indi, ripreso un poco il sentimento,
ruppe in un riso stridulo, ammalato
e sparì urlando: «Ah, che divertimento!»
355
SOLE D'INVERNO
(IN BICICLETTA)
I.
Nel pallido meriggio alle romite
vie che corsi ed amai son ritornato
ed ho visto fiorir le margherite
bianche tra le tenaci erbe del prato.
Un cinguettar di passere stordite
nel tepor luminoso e profumato,
come un canto di nozze acconsentite
pel deserto sentier m'ha seguitato
e le ruote leggere hanno volato
sotto l'impulso mio, quasi rapite
meco nel sogno dell'april rinato.
Oh, col bacio del sol morbido e mite,
quanti dolci pensier m'han visitato,
quante rose nel cor mi son fiorite!
II.
E con le rose ho fatto una ghirlanda
per la sepolta giovinezza mia,
la giovinezza cara e memoranda
ch'era saggezza e mi parea follìa.
La riveggo nel sogno e mi domanda
un buon ricordo, una parola pia,
povera morta che si raccomanda
nel nome santo della poesia!
Corro così la solitaria landa
e m'accompagna sol la fantasia
che sospinge le ruote e le comanda
e vivo e volo! Ah, benedetta sia
quest'ora lieta che il destin mi manda,
questo raggio d'amor che il sol m'invia!
357
PEDALANDO
Tutte le case han le finestre aperte
e i primi nidi cantan già sui tetti.
Le campagne di fior sono coperte,
l'aria odora di donna e di mughetti
ed io rimo per te queste parole
in bicicletta, respirando il sole.
Chi d'Arcadia parlò? L'Arcadia è questa!
Ecco le bianche agnelle ed i pastori,
ecco la terra e l'uomo in una festa
di profumi, di canti e di colori,
ecco la maestà dell'infinito,
la poesia, la gioia e l'appetito!
DI NUOVO IN BICICLETTA
Nel roseo lume della prima aurora,
nella vermiglia pace dei tramonti,
o nel meriggio che avvampando indora
la messe al piano e la vendemmia ai monti,
lungo la siepe che di salvie odora,
lungo i verdi sentier, le fresche fonti,
dove il guardo è intercluso e dove esplora
meravigliosi e liberi orizzonti,
presso il giardin ridente o il campo arato,
entro le selve susurranti al vento,
tra il canto degli uccelli e i fior del prato,
sovra il ferreo corsier passo contento
come a novella gioventù rinato
e sano e buono e libero mi sento.
359
IN BICICLETTA ANCORA
I.
All'impulso del piè veloci e pronte
consentono le rote e m'incammino
mentre un lume rosato all'orizzonte
annuncia il sole ad apparir vicino.
L'ultima stella tramontò sul monte,
i primi bocci aperse il biancospino,
tepido il vento mi baciò la fronte,
canta vigile il gallo. Ecco il mattino!
E su dagli orti ancor mal desti e soli,
nella nebbia sottil che si disperde,
olezzano i mughetti ed i giaggioli.
Fugge la strada e il mio pensier si perde
nell'estasi del sogno e par che voli
fra il ciel turchino e la campagna verde.
II.
Giunto quasi al meriggio il sole indora
l'immenso piano e la deserta via
da cui torno canuto alla natìa
terra dove bambino ebbi dimora.
Di qui mi tolsi giubilando ed ora
vengo della tristezza in compagnia...
O case bianche della terra mia,
case de' miei, mi conoscete ancora?
Ma chi mi chiama? Il camposanto inchina
su me la vetta de' cipressi suoi
e parla basso al cor che l'indovina.
No, morti! Or lungi è la mia casa e poi
non è sepolta qui la mia bambina,
poveri morti, e non verrò tra voi!
361
CANTA MADONNA E SI DISPERA
Si levan sospinti dal vento
i bianchi vapori dei monti;
nel cielo di piombo le nubi d'argento
cacciate, travolte, nascondono il sol.
Recendo la mota dei letti
traboccan le torbide fonti;
la piova scrosciando rovina dai tetti
e un largo pantano contamina il suol.
Languisce la terra sopita
nel soffio del freddo aquilone;
ai rami gelati non torna la vita,
le gemme aspettanti non s'aprono ancor.
O fosche giornate d'orrore,
dov'è la novella stagione?
Dov'è primavera fragrante d'amore
che scalda e feconda le nozze dei fior?
Deh, riedi e coi giorni più miti,
o maggio, conduci il sereno!
I canti dei nidi sui peschi fioriti,
l'odor delle rose risveglia con te.
Infondi coi baci del sole
la vita nel freddo terreno,
fiorisci le zolle di fresche vïole,
ravviva i ligustri degli alberi al piè.
O maggio, e doman tornerai
dai fior salutato e dal canto;
a tutti domani la gioia darai,
io sola piangendo tornar ti vedrò.
Io sola son morta all'affetto,
io sola mi struggo nel pianto;
letizia di vita non sento nel petto,
germoglio d'amore nel sangue non ho.
Il verno da me più non toglie
l'orror delle bianche pruine;
al sole di maggio il gel non si scioglie,
il gelo di morte che il cor mi coprì.
Il primo capello canuto
quest'oggi mi svelsi dal crine...
Ah, giovane tempo, sì presto caduto,
con te la speranza quest'oggi morì!
363
?
Dal ciel smorto,
dal piano freddo e grigio
l'aria è fuggita
e della vita
non ride più vestigio.
Tutto è morto!
Ma improvviso
il ciel rifulge d'oro,
gigli e colombe
copron le tombe
e germinan l'alloro
e il sorriso;
tutto è in fiore
nel piano sterminato
e tra le foglie
la Donna coglie
il fiore insanguinato
detto Amore!
VITA
Sale una bianca teoria di vergini
ai poggi verdi e ne inghirlanda il culmine;
nell'aria chiara vola il canto e palpita
come un'ala di rondine.
Scende dai poggi e, sotto ai densi pampini
delle vitalbe, la sorgente mormora,
carezza l'erbe, ride al piè dei salici
e bacia i giunchi tremuli.
Ed ecco i veli del tramonto scendono
dal cielo grigio sulla terra livida
e l'orizzonte nei vapor del vespero
fuma, rosseggia, sanguina.
Ed ecco il canto delle vinte vergini
piange sui poggi come un coro funebre;
geme nell'ombra il fonte e l'acque gocciano
come stille di lagrime.
365
PARABOLA
Doctrinam oris audite filii!
ECCL. XXXIII. 7.
Era pazzo? Digiuno e mal coperto,
sognando un Dio d'amor, fuggì la gente
e solo e ritto in faccia al sol rovente,
inascoltato predicò al deserto.
Ma dalla sua caverna uscì all'aperto
il feroce leon che l'innocente
squartò con l'ugna e maciullò col dente
così che ai corvi non restò un lacerto.
Ma il Dio che predicò ben lo soccorse
se, finalmente consolata, l'alma
dormì nel seno dell'eterno Forse.
Che se nel nulla ritornò la salma,
però la rena dove il sangue corse
fu fecondata e generò la palma.
AMORE
Non senti tu rabbrividir le cime
verdi de' pioppi ne 'l meriggio ardente
e un alito passar quasi rovente
su gli arsi campi e tra le messi opime?
Senti ne l'aria immobil che ci opprime,
senti tu ne 'l silenzio un dio presente,
un mister che ci vede e che ci sente,
qualche cosa d'ignoto e di sublime?
È amor che vibra ne le cose, e desta
del sol fecondo il vivido calore,
che alle nozze notturne i fiori appresta.
È amore in cui s'acqueta ogni desìo,
che prorompe da tutto... Amore, amore,
vita de 'l mondo ed anima di Dio.
367
ET IN TERRA PAX!
I.
Bianca vigilia del Santo Natale
hai tu per tutti la pace e il ristoro?
Cantan l'osanna per ogni mortale
le note allegre dell'inno sonoro?
Se i nidi ai nati non scaldano l'ale,
non c'è la fame che strilla per loro
e sulle soglie fastose del male
mancan pezzenti che piangano in coro?
Mancano ciuchi che credon lavoro
esporre al riso l'aspetto regale
della Giustizia nell'ozio invernale?
E dalle mense, dai calici d'oro,
dalle fragranze d'anguilla e d'alloro
non senti l'odio che sale, che sale?...
II.
Ah no! Tu rechi, col fumo che sale,
ghiotte fragranze d'anguilla e d'alloro
e larghi lampi di porpora e d'oro
sprazzan dai vetri nel buio invernale.
Stende la neve il suo manto regale
sulla città dove posa il lavoro,
e intorno al fuoco, stringendosi a coro,
cantano i bimbi che ignorano il male.
Ridon le madri cantando con loro
e in alto, in alto, dirizzano l'ale
le note allegre dell'inno sonoro.
Oh, benedetta, se ad ogni mortale
rechi la gioia, la pace, il ristoro,
bianca vigilia del Santo Natale.
369
NATALE IN CITTÀ
Dentro, nell'aria sana ed olezzante,
nel caldo allegro delle nostre sale,
simbolo d'innocenza e di morale
torna il ricordo del Divino Infante.
Abbiam sul labbro le parole sante,
abbiam nel cor la pace e l'ideale,
suonano gli inni al mistico Natale,
fuman le mense, brilla il vin spumante.
Fuori, sibila il vento e per la via
erran, fantasmi lividi e distrutti,
la miseria, la fame e l'agonia.
Guardan con gli occhi lucidi ed asciutti
lo splendor dei balconi e l'allegria,
chiedendo se Gesù nacque per tutti.
NEVICA!
Nel mio tempo miglior che fu sì breve,
quando la gioventù m'ardea ne' polsi,
spesso ignuda la fronte al ciel rivolsi
bevendo il freddo come vin si beve,
e quando vidi turbinar la neve
nell'inverno crudel, non me ne dolsi,
anzi sul ghiaccio e sulla neve colsi
spesso la rima che l'idea riceve.
Ma tutto in me cangiò cogli anni ed ora
quando nel ferreo ciel sibila il vento,
fuggon non che l'idea le rime ancora
e la neve che amai mi fa spavento,
poichè fiamma d'amor non mi ristora
e il freddo della morte in cor mi sento.
371
ROMANZA
I.
La quercia poderosa
che con le chiome dense
e con le braccia immense
copria la valle ombrosa,
che al verno, agli aquiloni,
come un leon ruggiva
e al maggio si copriva
di nidi e di canzoni,
la quercia fulminata
giace distesa al suolo
e l'ultimo usignolo
ha pianto e l'ha lasciata.
II.
Anch'io sento cadute
ormai dal ramo verde
le foglie e il tronco perde
la forza e la salute.
Anch'io, se ascolto il core,
sento che m'è sfuggita
la gioia della vita,
la fiamma dell'amore.
Tramonta e si scolora
fin della speme il raggio...
Ah, chiaro sol di maggio,
potrò vederti ancora?
373
FINIS ASINI...
I.
Guardate l'asino! magro, slombato,
tutto pillacchere, loia e marame,
trascina il carico spropositato
fin che gli durano le forze grame.
Sovra il suo misero dorso piagato
le mosche ronzano come uno sciame,
povero scheletro di tribolato
cui soli restano l'ossa e il corame!
Fino che all'ultimo vinto, spossato,
coperto d'ulceri, morto di fame,
cade sul lastrico recendo il fiato.
Tutti allor fuggono dal suo carcame,
ma l'uom di spirito che l'ha ammazzato,
sorride e mormora: «Quanto salame!»
II.
E come l'asino trascino anch'io
la soma, povera bestia sfinita,
su l'erta ripida, giù dal pendìo,
male al discendere, peggio in salita.
L'ore che passano, con un ronzìo
d'insetti, frugano la mia ferita;
il cor che sanguina non ha un desìo,
l'ingegno e l'anima non han più vita;
ed or che il ridere passato espìo
e il mondo a vivere più non m'invita,
io cado e rantolo nel pianto mio.
Amici, ah, l'ultima prova è compita!
Amici, datemi l'estremo addio!
Questa terribile farsa è finita!
375
ORA TRISTE
Quando tra la sottil nebbia serale
vo con la folla anch'io
ed i monelli vendono il giornale
urlando il nome mio,
mi sento dir vicino a voce bassa:
« – Guarda: Stecchetti è quello! – »
ed un occhio mi scruta e mi trapassa,
freddo come un coltello.
Anch'io mi volgo allora e leggo aperto
nel cor di chi mi guarda;
indovino il pensier chiuso e coperto
dalla faccia bugiarda.
E di dentro il dolor piange, ma fuori
sorridon gli occhi asciutti;
sanguina una ferita in tutti i cuori,
ma la nascondon tutti.
Ah no, fratelli miei, non c'è ferita
che si possa coprire!
Il destino è così, questa è la vita;
soffrire e poi soffrire!
Anche le spalle mie portan la croce,
le spalle, ahi, non più forti!
E dico spesse volte a bassa voce:
« – Come stan bene i morti! – ».
Son trascinato anch'io dalla mia sorte
col guinzaglio al collare.
Cammino come voi verso la morte...
Lasciatemi passare!
TESTAMENTO
Quando morrò, lungo la terra mossa
non piantate il cipresso e la mortella;
io la mia tomba non la voglio bella,
ma giovevole altrui più che si possa.
A che servono i fior sopra la fossa
se l'alito d'april non rinnovella
le membra, il cor, la vita e le cervella,
vestito un giorno ed anima dell'ossa?
Piantateci una vite! Il suo giocondo,
il suo celeste grappolo spremuto,
diverrà vino ghiotto e rubicondo,
e così, benchè morto, il mio tributo
ai vivi pagherò, rendendo al mondo
qualche goccia del vin che gli ho bevuto.
377
NOVEMBRE ANCORA
Addio sorrisi dell'albe rosate,
addio tramonti che d'oro parete!
Novembre porta le tristi giornate
e delle nebbie la bigia quïete!
Gli uccelli migran in file serrate
cercando a volo contrade più liete,
ma noi restiamo, calcando immutate,
sul fango vecchio, le vie consuete.
Restiamo e sempre le stesse infinite
noie e le stesse speranze remote
c'infliggeranno le stesse ferite,
finchè abbassando le teste canute,
chinando al suolo le pallide gote,
qui marcirem come foglie cadute.
IL MIO CUORE
I.
Il mio cuore è uno scrigno di velluto
che con sette sigilli è sigillato.
Molti voller saperne il contenuto,
ma nessuno finor l'ha indovinato.
Lungamente il segreto ho mantenuto
e il labbro come il cor tenni serrato,
ma più a lungo tacer non ho potuto
ed i sette sigilli ho lacerato.
Sappiate dunque che nel cor segreto
chiudo i ricordi del tempo remoto,
i fiori secchi dell'april mio lieto,
fra cui quest'oggi, e già ne son pentito
scendo a frugar con l'animo devoto
per cavarne un sonetto impallidito.
379
II.
Un povero sonetto impallidito,
fior dell'anima mia morto e seccato,
che tra le foglie sue reca smarrito
come un lontano odor del mio passato,
come un ricordo vago e scolorito,
un'eco lieve del tempo beato,
un rimpianto profondo ed infinito
di tutto quel che in giovinezza ho amato.
Ed ecco che il sonetto esce discreto
da la prigion dove dormiva ignoto
e rivede tremando il mondo lieto.
Va dunque, o mesto fior da me cresciuto,
porta a chi m'ama del mio core il voto,
ed a chi m'odia porta il mio saluto.
REQUIE
In mezzo al mar verdeggia, o l'ho sognato,
fiorita sempre un'isoletta breve
che non vide giammai fiocco di neve,
nè saetta cader dal ciel turbato.
Ivi una casa bianca in mezzo al prato
dalle finestre aperte il sol riceve,
le fontane son fresche, il vento lieve,
il silenzio profondo, il suol beato.
Nella pace dei libri e nella forte
serenità che perdonando oblìa,
ivi riposan l'anime risorte
e se tanto sperar non è follìa,
al di là della vita e della morte
ivi riposerà l'anima mia.
381
III.
CIVILIA
Et si ceux qui vivent s'endorment,
Ceux qui sont morts s'éveilleront.
V. HUGO, Les Châtiments, I.
TRA DUE SECOLI
Scendi ne' limbi della storia, o secolo
nato ad incoronar Napoleone,
per morir tra le misere
nenie che ti cantò papa Leone.
Scendi ne' limbi della storia. Inutile
fu domandar giustizia e non vendetta.
Caldo il sangue dei martiri
ancor vapora ed il giudicio aspetta.
O morti combattendo, o dei patiboli
vittime sante, indarno il ver sapremo
e negli anni che vengono
tutto da capo cominciar dovremo?
Per le squallide vie l'urlo del popolo
dovremo forse udir come una volta
e nelle chiuse tenebre
suonar le trombe al fuoco ed a raccolta?
Ah no, non sia! Nasci più lieto, o secolo,
più libero, più buono e men rapace
per chi soffre e desidera
un po' più di giustizia e un po' di pace!
1897
Ecco, già l'anno muore
ignobile, triviale,
e, come il malfattore,
finisce in tribunale
lasciando al disonore
un ricordo immorale,
mezzo commendatore
e mezzo clericale.
E pur non son corrotte
tutte le menti ancora
dalle iraconde lotte;
e pur, dopo la mora
della dolente notte,
risorgerà l'aurora!
383
ALLA BANDIERA
I.
Bandiera, nostra forza e nostro orgoglio,
che ci guidasti per la sacra via
e da Castelfidardo a Porta Pia
trionfante salisti al Campidoglio;
bandiera tricolor, che sullo scoglio
di Quarto fosti fiamma e poesia,
non abbassata mai per codardia,
non abbrunata mai che per cordoglio;
bandiera santa, i lembi tuoi ripiega
ormai sull'asta, contrattata e resa
come cencio impegnato alla bottega,
poichè sul capo al traditor non pesa
nemmen più la vergogna e ti rinnega
pel bianco e giallo della Santa Chiesa!
II.
Non da tutti però dimenticata,
nè tradita sarai, vecchia bandiera,
che salisti a Mentana insanguinata
quando speranza d'acquistar non c'era.
Pochi vivono ancor che incatenata
ebber per te la mano alla galera;
troppi son morti, ma dai morti è nata
nuova una gioventù che attende e spera.
E questa gioventù, sovra la traccia
che il tuo cammin segnò, fedele avrai
nella mente, nel core e nelle braccia.
O sacro tricolor, levati ormai,
libero segno, al Vaticano in faccia!
Non mentirono tutti e lo vedrai.
385
MEMENTO!
ANNIVERSARIO
DELL'VIII AGOSTO 1848
IN BOLOGNA
I
Quando al cielo il clamor della battaglia
col denso fumo andava
ed il cannon ruggiva e la mitraglia
per le vie grandinava,
molti, volgendo ancor nella memoria
il recente passato,
supplicavano Iddio per la vittoria
dell'invasor croato
e nel segreto della chiusa stanza
pregavano: – «Signore,
» doma i ribelli nostri e la baldanza
» che diventa valore.
» Guida tu stesso il piombo e fa che infranga
» il petto dei ribelli.
» Se qualche madre ci sarà che pianga,
» farà gli occhi più belli,
» ma dacci ancora un popolo di schiavi
» e lo scudiscio in mano;
» rendi al vessillo delle sante chiavi
» il suo poter sovrano!...».
Passò vinto il nemico oltre i confini,
la lunga ira è sepolta,
ma molti – ah, nol scordate, o cittadini! –
pregan come una volta!
II.
Son cinquant'anni ed il cannon tuonava
vomitando la morte;
il mite cuor di Pio così bussava,
Bologna, alle tue porte.
Son cinquant'anni ed or dormi secura,
nè pensi al tempo antico.
Non veglian più le scolte alle tue mura
e pur veglia il nemico,
e gran tempo non è – non l'hai veduto? –
che ti guardava in faccia,
ostentando, insolente e pettoruto,
lo scherno e la minaccia.
In quel giorno contò la numerosa
schiera de' suoi soldati
e pensò che c'è posto alla Certosa
per altri fucilati;
pensò che curve ancor sotto la piena
possanza del Maestro,
filan nell'ombra Marta e Maddalena
per torcerti un capestro;
pensò che a vendicar l'antico sfregio
gli basta alzar la mano,
ora che i figli tuoi vanno al collegio
del Padre Flamidiano.
E tu frattanto, leonessa ignava,
dormi nel pigro covo!
Son cinquant'anni che il cannon tuonava,
ma può tuonar di nuovo.
387
PACE!
Ardon le case. Le donne fuggono
nel buio, urlando. Piangono gli orfani
sui padri morti e calano
i corvi sui cadaveri.
Che importa? È l'Africa dove riboccano
troppe ricchezze per gente libera!
La nostra Europa è misera
e le catene costano.
Ardon le case. Di sangue corrono
le strade, cadono nel freddo asiatico
assassinati gli uomini
che difendon la patria...
Che importa? Brucino la Cina e l'Africa,
noi civilissimi, nelle accademie
gridiamo pace ai popoli
e i gesuiti godono!
IN MORTE DI MANLIO GARIBALDI
Chiusa la tomba, nel silenzio eterno
non dormiranno i morti e il giovinetto,
dall'amplesso paterno
riconfortato e stretto,
– Padre – susurrerà – padre, mi senti?
Io sono Manlio tuo, son la carezza
che degli anni cadenti
t'addolcì l'amarezza!
Ma non mi domandar, dell'infelice
terra che amammo, le sinistre sorti.
Oh, tre volte felice
chi riposa tra i morti!
Meglio narrarmi come un dì lanciavi
al fiero assalto le camicie rosse
e le terga incalzavi
delle schiere percosse.
Dimmi Calatafimi ed il ciglione
su cui la schiera degli eroi saliva,
ricordami Digione
e chi per lei moriva.
Ricorda tu quel che soffrir conviene
per mantener le libertà giurate
e strappar le catene
dalle braccia piagate...
Oh, meglio in questa tomba, o padre mio,
che vigile gendarme al Vaticano!
Meglio l'eterno oblìo
che lo sdegnarsi invano.
Meglio anzi tempo reclinar la testa
morta, della speranza in sulla soglia,
che goder nella festa
di chi la madre spoglia.
Oh, padre, non temer! Parlami. È sorda
questa plebe d'ingordi a' detti tuoi.
L'Italia non ricorda
nemmeno i morti suoi! –
389
PER UN'AMNISTIA
Trasibulo che vinse alzò la mano
sulle teste chinate
e la Paura inorridì, ma invano
quand'egli disse: andate!
Indi la libertà rese ad Atene
intera e non mendace,
le colpe cancellò, tolse le pene
e consacrò la pace.
Fu giustizia o clemenza? E pur fu spento
così l'odio il più vivo
e vera gloria fu l'esser contento
d'una fronda d'ulivo.
BANCA ROMANA
I.
Meglio, Trento, per te se dalle mura
sante aspettasti invano
il vessillo che i patti e la paura
respinsero lontano.
Meglio, Trieste, indarno a queste sponde
tener l'anima fissa;
meglio indarno aspettar che lavin l'onde
la vergogna di Lissa.
Deh, non cercate della madre il petto,
figlie aspettanti ancora,
poichè il fracido cancro ond'egli è infetto
o uccide o disonora.
La madre, del vessillo a tre colori
s'è fatta un origliere
per fornicar co' suoi commendatori
scappati alle galere.
Vende l'onore de' suoi figli morti,
gioca le glorie avite
e fa copia di sè negli angiporti
delle banche fallite.
Questa, questa è colei per cui sperate
cessar le vostre pene
ed essa per paura ha patteggiate
fin le vostre catene;
ed essa; in Roma, penitente adora
la fraude vaticana
baciando la rea man che gronda ancora
del sangue di Mentana...
Ah no, questo di vizi ampio carcame
che al bacio vil si prostra,
ah no, per Dio, questa bagascia infame
non è la madre nostra.
Mentì chi 'l disse! O voi, dai fortunati
sepolcri ove dormite,
martiri nostri ormai dimenticati,
levatevi e venite!
391
Voi che gridaste Italia e il piombo intanto
vi rompea la parola,
voi che ne confessaste il nome santo
col capestro alla gola,
smascheratela voi la svergognata
che adulterò col prete;
dite a questa carogna incoronata
che non la conoscete.
Altra è la sacra Italia, amor dei forti,
che un dì fu vostra cura.
Oh, destatela voi, poveri morti,
se i vivi hanno paura!
Fate che torni e nella destra rechi
una spada infocata
contro questi ladroni obliqui e biechi
che l'han vituperata.
Arda col foco suo fin che bisogna
questa stalla d'Augìa,
tagli col ferro la civil vergogna
e la giustizia sia!
II.
Il fico disse – Biondo al mar correva
il sacro Tebro, là dove al mio piede
Acca la lupa, ritrovar doveva
del regno d'Alba l'uno e l'altro erede.
Deh, la mia foglia come piacque ad Eva,
la breve foglia che il pudor le diede!
Deh, come bene ai rami miei pendeva
il traditor di Cristo e della fede!
Or se presso di me passa il fallito
o il reo che nell'altrui l'artiglio ficca,
decorato, superbo ed arricchito,
io, quasi donna che tentando ammicca,
protendo il ramo mio come un invito...
Passa il Commendator, ma non s'impicca. –
393
III.
DA CAPO
Consurgite et ascendamus in meridie.
JEREM. VI. 4.
Se nella mesta sera
cinto di luce strana,
lo scoglio di Caprera
all'occidente levasi
superbo sulla nera onda lontana,
il marinar che passa
sull'agile naviglio
tien la bandiera bassa
e tra le palme ruvide
il duro capo abbassa e china il ciglio.
Là, nella calma enorme
della morente luce,
sotto il granito informe,
presso le acacie memori
l'ultimo sonno dorme il nostro duce.
Dorme il Messia invocato
nel giorno del dolore,
dorme il gentil soldato
che amò come una vergine
e col suo s'è fermato il nostro core.
Quando il leon scoteva
l'ampia cesarie d'oro,
un popolo sorgeva
bello, gagliardo e giovane
che la pugna chiedeva e non l'alloro;
sorgean gli eroi sublimi
che il duce taciturno
primo davanti ai primi
guidava all'ardua carica
contro Calatafimi e sul Volturno;
poi, rotta nel cimento
la schiera e pur non doma,
cadea senza un lamento,
mal vendicata vittima
sul colle di Nomento in faccia a Roma.
Nè alcun tendea la mano
a mendicar mercede,
nè per voler sovrano,
nè per clamor di popolo
mentiva il capitano alla sua fede,
chè il duce ed il soldato
chiudean ne' petti ardenti
il cor di Cincinnato
e ai solchi ritornavano
del plauso non cercato assai contenti.
Ed or che resta? O santo
sangue versato invano,
o fior d'Italia, pianto
un dì con tante lacrime,
or ti mette all'incanto il pubblicano!
O gloria unica al sole,
pura in tante vicende,
alla crescente prole
pura dovevi scendere
e ti compra chi vuole e ti rivende!
Tutto governa l'oro,
tutto è sottil garrito
di legulei nel foro
e de' comizi il traffico
frutta come tesoro al più scaltrito.
Il suo veleno occulto
ci mesce la menzogna
e gli ebrei, nel tumulto
dell'ira, si barattano
la calunnia, l'insulto e la vergogna.
Ahi, della prima schiera
non resta alcuno in vita?
Dunque laggiù a Caprera
col biondo Cristo italico
l'incolpevol bandiera è seppellita?
Ah no! Sacra coorte,
per l'ultima battaglia
ti risparmiò la morte:
inerme e pur terribile
di Roma su le porte ancor ti scaglia.
Non sangue essa ti chiede,
395
ma invoca i difensori.
Schieratevi al suo piede,
voi forti, e proteggetela
con l'incorrotta fede e gli alti cuori.
Trombe dal sonno scosse,
sonate alla raccolta!
Correte alle riscosse,
salvate voi la patria,
vecchie camicie rosse, un'altra volta!
Alto il vessillo alzate
de' traditori a fronte...
Ma voi, deh, riposate
nelle giberne lacere
cartucce non sparate all'Aspromonte!
IV.
NOTTE D'AUTUNNO
Infuria il vento e nella bieca notte
fredda la piova incalza.
L'acqua che scroscia dalle gronde rotte
sui ciottoli rimbalza.
Entro l'oscurità profonda e vuota
delle vie taciturne
guizzan, specchiate nell'immonda mota,
le fiammelle notturne
e nel sordido fango e nel pattume
putrefatto del suolo,
miserabile spettro, agita il lume
e fruga il ciccaiolo.
Quand'ecco dal silenzio esce il lontano
scalpito d'una rozza
e tra la pioggia, il vento ed il pantano,
appare una carrozza
che in un dirugginìo di chiavistelli
trabalza oscenamente,
col profilo dei birri agli sportelli
e le lanterne spente.
E il ciccaiol che vive razzolando
nel brago e nel fetore,
sente lo schifo e brontola sputando
«Passa un commendatore!»
397
BOXERS
Scendono le feroci orde alle valli,
ai pingui campi nella pace assorti,
il sangue corre e di sognati falli
sugl'innocenti fan vendetta i forti.
Accorron degl'incendi ai lampi gialli
nuove stragi a recar nuove coorti
e sotto al piè de' barbari cavalli
crocchian le fracassate ossa dei morti.
Plaudite al vincitor che ben confida
delle battaglie nel possente Iddio
e lieto ascolta di chi muor le strida,
e udite. Al rosso ancor ferro natio
tergendo il sangue, alteramente grida –
«Guardami, Europa. Son civile anch'io!»
ANARCHICO
Lenta nei lunghi secoli
la dea Giustizia incede,
ma dove pone il piede
germoglia in pace il grano
e le messi maturano
pingui al lavoro umano.
Lente le idee si movono,
ma noi moviam con loro
compagni nel lavoro
e nell'amor fratelli.
Sono le idee che vincono
le idee, non i coltelli.
E ahimè. Tra i sogni torbidi
della pazzia tu vedi
l'odio soltanto e credi
tra il sangue esser più forte
se uccidi per uccidere
e scherzi con la morte!
Ah no, tu l'orde d'Attila
re dominar dovevi
se ai deboli volevi
col ferro impor la fede,
se il laccio del carnefice
strozza chi a te non crede!
Furtivo nelle tenebre
rechi la morte e il foco
e scavi a poco a poco
sotto il terren la mina,
che inghiottirà i cadaveri
nell'ampia sua rovina.
E che? Mostri di Ninive,
templi d'Assùr lucenti,
superbie di possenti,
torri adunate a stuolo,
chi vi ridusse in polvere,
chi vi spazzò dal suolo?
Non fu la rabbia o l'impeto
della vendetta bieca,
non fu la forza cieca
che vi schiantò dal fondo,
399
ma un solo raggio, un palpito
d'amor che scosse il mondo!
Lungi di qui la livida
ira ed i sogni orrendi!
Negli ipogei discendi
tra i mostri e le chimere.
Giustizia e non carnefici,
questo dobbiam volere!
RESURREXIT
Poichè le guardie han perso il sonno e il fiato
a vigilar la banca d'Isacchetto
ed il misero vuol dal fortunato
la giustizia, la pace, il pane e il letto,
povero vecchio Iddio, t'hanno chiamato
sotto l'arme di nuovo e t'hanno eletto
vice Mazzini a custodir lo Stato
e a far da barbacane al Gabinetto.
Vieni e se il guasto spirito moderno
ha il principato de' borghesi a noia
aiuta il Ministero dell'Interno,
riconduci a guardar la mangiatoia
i tuoi vecchi spaventi dell'Inferno,
il diavolo, i tuoi preti ed il tuo boia.
401
III NOVEMBRE
Ultimo fior dell'epopea romana,
nato di sacrificio e di virtù,
o fior di Villa Glori e di Mentana,
la tua radice non germoglia più.
Il vermiglio color di fiamma viva
parve pericoloso alla viltà;
troppo gagliardo il calice s'apriva
ai primi baci della libertà
e tosto i bocci sullo stel fiorente
la moderata forbice castrò,
poi l'italico bue stupidamente
la sacra terra che ti crebbe, arò.
Sotto il pungolo vil dell'interesse,
dei martiri tra l'ossa il solco aprì;
ma quando biondeggiò pingue la messe,
il pubblicano se ne impadronì.
E ben ci sta. Come la nebbia incombe
sui colli sacri dove crebbe il fior,
così, freddo l'oblio, copre le tombe
dove riposa dell'Italia il cor,
il generoso cor che non pesava
nelle battaglie il quando ed il perchè,
ma che del sangue suo crocesignava,
crisma divino, sulla fronte i Re.
Ed or, poveri morti, ai soddisfatti
troppo la soma del dover pesò.
L'istessa lingua che giurava i patti,
ruppe la fede data e spergiurò,
mentre voi che giuraste – o Roma, o morte –
l'eterno sonno lo dormite qui,
dove, quadrata, l'ultima coorte
gittò l'ultimo grido e poi morì.
Ultimo fior dell'epopea romana,
nato di sacrificio e di virtù,
o fior di Villa Glori e di Mentana,
la tua radice non germoglia più!
AFFRICA
I.
MENTRE PARTONO
Tu che aprendo il mercato alla menzogna
alto salir potesti
e che senza pietà, senza vergogna,
vivo, di noi ridesti,
or nella tomba dormirai contento,
buon vecchio di Stradella,
che accompagnar solevi al tradimento
l'arte di Pulcinella.
Dormi, buon vecchio, ormai dimenticato
dai servi e dai rivali
e sogghigna se 'l puoi. T'han perdonato
i morti di Dogali.
A ben più grave e più feroce guerra
l'Italia è condannata;
nuovo sangue latin beve la terra
dell'Eritrea bruciata.
Nuove vittime ancor di rei consigli
cadran sull'arse arene
e nuove madri cresceranno i figli
per ingrassar le iene!
Lascia, scarno villan, lascia il sudato
solco a te non diviso!
Tu non devi morir dove sei nato,
dove amor t'ha sorriso.
La gentil civiltà de' tuoi signori
ti spinge alla battaglia.
Va, povero villano, uccidi e muori.
Dopo, avrai la medaglia,
e mentre i legulei ti lauderanno
con sonanti parole,
oh, come l'ossa tue biancheggeranno
gloriosamente al sole!
403
Sulla sabbia deserta e funerale
rotoleranno al vento,
ma in qualche trivio della Capitale
sorgerà un monumento,
su cui tra i bronzi falsi e le sculture
dell'arte a buon mercato
sarà il tuo nome, o buon villan, se pure
non l'han dimenticato.
Piange intanto colei che la tua culla
vegliò amorosa e forte,
piange le tristi nozze una fanciulla,
le nozze con la morte,
ma il padre invece, al ciel rivolto il ciglio,
giunte le palme grame,
dice: – beato te, povero figlio,
che non avrai più fame! –
II.
IN ANTICAMERA
Il moretto in livrea
che l'Eccellenze assedia
e si gloria e si bea
se un pranzo ci rimedia,
chiama una grande idea
questa brutta commedia
di Colonia Eritrea
che finisce in tragedia!
L'oblio dei deplorati
è giusto che si paghi
col sangue dei soldati,
e poi, laggiù, son vaghi
d'esser civilizzati
dal capitan Livraghi!
405
III.
ALPINI
Quando l'ora verrà, l'ora che deve
esser l'estrema che vedrete al mondo,
voi cercherete invan col moribondo
occhio l'alpe natìa, bianca di neve
e indarno de' ghiacciai la brezza lieve
ricercherete nell'ansar profondo...
Oh, quanto lungi al labbro sitibondo
saran le fonti ove il camoscio beve!
Ahimè, madri dolenti e fidanzate
dolenti, dite voi se questo è il santo,
il giocondo avvenir che sognavate?
Vanno all'inutil sacrificio e intanto
noi veneriam le vanità sfacciate
cui piacque il sangue loro e il vostro pianto!
IV.
ULTIME NOTIZIE
Le madri, nel tormento
crudel d'un dubbio arcano,
cercan con l'occhio intento
qualche speranza invano.
Non sale un noto accento
dall'aspettante piano,
non una vela al vento
sul freddo mar lontano!
Ed ecco, il messaggero
nunzio della fortuna
passa sul lor sentiero,
e a lui chiede ciascuna,
bianca d'angoscia, il vero:
«Che novità?» – «Nessuna!!»
407
V.
ALLE MADRI
Dedicato
ad Anna E....
Madri, lo ricordate il dì sereno
in cui d'amore il pegno
la prima volta nel fecondo seno
vi diè di vita un segno?
Con che orgoglio gentil del grembo incinto
allor vi compiaceste!
Come la culla col materno istinto
morbida gli faceste!
E poi che al suo vagir tacque il dolore
del fianco insanguinato,
con che speranze, o madri, e con che cuore
benediceste il nato
e nutrito di voi lo riscaldaste
stringendolo sul petto
e se morte il ghermìa, glielo strappaste
col prepotente affetto!
Lo cresceste così, bianco fanciullo,
sovra i fidi ginocchi,
vegliando il primo passo e il suo trastullo
con l'anima negli occhi,
e speraste veder l'ore supreme
in braccio a lui più liete...
Quanto amor, quanti baci e quanta speme,
o madri che piangete!
Ed ora? I vostri figli a mille a mille
cadder lungi da voi
perchè un ladro impazzito e un imbecille
si son creduti eroi.
E vi tentano ancor, gli scellerati,
con le astute parole,
ma i cadaveri nudi e mutilati
si putrefanno al sole,
ma già dai loro immondi antri, le iene
calando irsute e scarne,
leccano il sangue de le vostre vene,
straccian la vostra carne!
E il delitto cadrà nel grave oblio
in che omai tutto langue?
No, levatevi, voi, donne, perdio,
raccogliete quel sangue,
gettatelo ululanti e scapigliate
dei colpevoli in faccia;
quando il giorno verrà, non dubitate,
ne troverem la traccia;
e dite agli altri, o neghittosi, o incerti:
«Pietà di noi vi prenda:
» la nostra patria è qui, non nei deserti
» dell'Abissinia orrenda.
» Pietà, chiediam pietà, madri dolenti,
» figlie, sorelle, spose;
» pietà, per gl'insepolti e pei morenti
» su l'ambe sanguinose!
» Non tolga vite ai campi, a le officine
» la conquista rapace:
» la nostra patria è qui. Datele alfine
» la giustizia e la pace!»
Dite così. Ma se domani ancora
tripudieranno i ladri
e moriranno gl'innocenti, allora,
o dolorose madri,
non porgete più latte al mite Abele,
che s'acconcia al destino,
ma raccogliete ne le poppe il fiele
per allevar Caino.
409
VI.
AGLI EROISSIMI
Giusti della fallita Apocalissi,
Marci Porci Catoni, in questo errai
che delle birberie forse ne scrissi,
ma non ne feci mai.
Oh se n'avessi fatte, e lo potevo,
di che frasche m'avreste incoronato!
Un'abiura e tra i grandi anch'io sedevo,
illustre deplorato!
Ma l'arte di lustrar le scarpe ai ladri
curvando il dorso, mi negò natura;
perciò gridate che incitai le madri
a strillar di paura.
Chi parla di viltà? Chi con gagliarde
frasi, dopo il caffè, facil tribuno,
povere donne, vi chiamò codarde
perchè vestite a bruno?
Chi, fumando in poltrona, empie i giornali
di vendette, di stragi e di rovine,
da la ciambella moderando l'ali
dell'aquile latine?
Chi dei debiti nuovi alla conquista
le apostrofi all'onor guida in falange
e soggioga lo Scioa dal liquorista,
insultando chi piange?
Ah, siete voi? Salute, o ben pensanti,
in cui l'onor s'imbotta e si travasa;
ma dite un po', perchè gridate «avanti!»
e poi restate a casa?
Perchè, lungi dai colpi e dai conflitti,
comodamente d'ingrassar soffrite,
baritonando ai poveri coscritti
«armiamoci e partite»?
Partite voi, se generoso il core
sotto al pingue torace il ciel vi diede.
O Baiardi, è laggiù dove si muore
che il coraggio si vede,
non qui, tra le balorde zitellone,
madri spartane di robuste prose,
che chieggon morti per compor corone
d'alloro, ahi, non di rose!
Ma no, non partirete! A questi tempi,
se dovesse mancar la «parte sana»,
chi resterebbe a predicar gli esempi
della virtù romana?
Chi resterebbe a consolar coi detti
le vedove beltà che il bruno adorna?
Chi li farebbe i brindisi ai banchetti
per chi parte o chi torna?
Ah, forti Aiaci della guerra a fondo,
ussari della morte, ah, non tentate
d'uscir di qui per conquistare il mondo,
perchè, se ve ne andate,
forse la vigna che godeste voi
fruttar potrebbe ad operai più scaltri...
no, restate, restate a far gli eroi
con la pelle degli altri!
411
VII.
AI REDUCI DALLO SCIOA
Quando spuntar vedrete a l'orizzonte
questo suol benedetto e sospirato
e la brezza natia su l'arsa fronte
il bacio vi darà del ben tornato;
quando in folla calar vedrete al lido
i cari vostri a salutar le prore,
e il dolce vento de la patria, il grido
vi porterà de l'aspettante amore;
quando nel cor di rimembranze pieno
l'impeto cesserà de la tempesta
e, consolati, sul materno seno
riposerete alfin la stanca testa;
se vi parrà d'udir fioco un lamento
che seco il pianto e la tristezza porti,
ascoltatelo pur senza sgomento;
quella è la voce dei compagni morti
che dice: – «A l'avvenir sorridevamo
» quando il destino ci portò con lui
» ed ecco che con voi non ritorniamo,
» noi mal sepolti ne la terra altrui.
» Ma, dite, la giustizia alzò il flagello
» su gli eroi da poltrona e i paladini?
» Chi come bestie ci cacciò al macello,
» il supplizio subì degli assassini? – »
Voi rispondete: – «Ahimè, dormite in pace
» del triste campo nel silenzio enorme!
» Qui dei delitti la memoria tace,
» qui stipendiata la giustizia dorme.
» Sovra i tumuli vostri erra feroce
» la iena e ne la notte urla il leone,
» ma gli eroi da poltrona hanno la croce
» e gli assassini vostri han la pensione».
VIII.
ARRI!
Ohimè, quanti scambietti!
Oh Dio, quanti nitriti!
I poveri muletti
li veggo imbizzarriti!
Che siate benedetti,
muletti riveriti;
ma che? Per due versetti
strillate inferociti?
Adoperate ingegno,
badate! Non conviene
mostrar così lo sdegno.
Tirate calci? Ebbene,
ma questo non è segno
che v'ho frustato bene?
413
4 OTTOBRE 1899 IN PALERMO
Che gli giovò l'oltracotante possa
del pugno audace e forte?
Guardatelo calar giù nella fossa
sacro alla mala morte,
guardatelo sparir, triste rovina
d'una bugiarda gloria,
censurato pigmeo che s'incammina
ai limbi della storia.
Ecco, la dura fronte ormai curvata,
lotta col sonno eterno,
e la canizie sua contaminata
trema sotto lo scherno.
E scherno ed ironia son le corone
e gl'inni de' seguaci,
cui la vergogna del passato impone
di rimaner mendaci.
Oh, se il morente all'opere nefande
più non volge i pensieri,
lasciatelo morir senza ghirlande
e senza vituperi.
Lasciate seppellir tranquillamente
il cencio imputridito,
e l'ala dell'oblio copra clemente
la tomba del fallito.
Fallito quando l'onor suo da prima
si scontò sul mercato,
e fallito all'orror d'Abba Carima
che non ha mai pagato!
Se vanno in pace il ladro e la bagascia
all'ultimo riposo,
lasciamolo morir come si lascia
morire il can rognoso.
Incoroni d'allòr l'oscena gogna
chi volontier si prostra,
e noi dimentichiam questa vergogna,
che fu vergogna nostra.
QUANDO SI DISSE
«NON SE NE PARLI PIÙ!»
Ieri, e fu tardi, si turò la fogna
d'onde il lezzo ci venne e la sciagura;
oggi si copre la comun vergogna
come fa il gatto con la sua lordura.
E sia! Si taccia; ma però bisogna
che rimanga un ricordo a far paura
e che del lungo error la rea carogna
più non risorga dalla sepoltura.
E se udrete talor chi quel passato
difenda a viso aperto in suo linguaggio
e si vanti costante ed immutato,
quel che vi sembra fedeltà, coraggio,
generoso sentir, petto indomato,
non son che i fondi del malandrinaggio.
415
QUANDO L'AMICO MIO
FELICE CAVALLOTTI
FU SCANNATO
Causa mali tanti....
VIRG. Aen. XI, 480.
Ed or che in bocca la civil rampogna
il ferro ti recide,
Verre, beato nella sua vergogna,
Verre, il ribaldo, ride
e tripudia dicendo: – «In tuo malanno,
» lingua troppo sincera,
» ora i complici miei m'assolveranno
» e non andrò in galera;
anzi, grazie all'eroe che t'ha mandato
» finalmente all'inferno,
» la bigamìa, le corna e il peculato
» torneranno al governo!»
Verre, t'inganni! Nel mortal duello
non fu tua la vittoria.
Con un colpo di spada o di coltello
non si uccide la Storia.
Doma dallo scudiscio e dallo sprone
l'Italia è cieca e sorda,
ma il sangue che grondò per tua cagione
la Storia lo ricorda
ed ella sa che il labbro tuo sorrise
gustando la vendetta,
ella sa che la rea punta che uccise
sei tu che l'hai diretta.
Fuma di sangue la Sicilia, prima
sempre alla gloria e al lutto,
il sangue giovenil d'Abba Carima
non è per anche asciutto
ed ecco sangue ancora è scaturito
dall'opre tue furtive;
ma la Storia in quel sangue intinge il dito,
apre il suo libro e scrive.
Scrive – «L'uno a virtù volse l'intento,
» l'altro fu disonesto» –
Scrive – «Quegli lottò fin che fu spento
» e chi l'uccise è questo!»
Or va! – Superbo, com'è tuo costume,
Verre, sorriderai,
ma la scritta di sangue in quel volume
non si cancella mai!
417
PRIMO ANNIVERSARIO
DELLA MORTE DI FELICE CAVALLOTTI
Pare un sogno bugiardo e compie l'anno,
l'anno dai giorni mesti,
che per l'altrui fortuna e il nostro danno
nel sangue tuo cadesti.
Specchio de' forti e fior de' generosi,
anima fiera e buona,
mal nella fredda eternità riposi
or che la tromba suona;
l'itessa tromba che a pugnar traeva
i battaglion vermigli,
quando l'oppressa libertà chiedeva
il soccorso dei figli!
Ed ecco il dì della battaglia venne
quando non sei con noi.
Chi al tuo detto tremò, chiese ed ottenne
e tu parlar non puoi.
Al tuo seggio deserto indarno gli occhi
abbiam sperando alzato...
Ahimè, la libertà strozzan gli sciocchi,
ora che t'han scannato!
SECONDO ANNIVERSARIO
DELLA MORTE DI FELICE CAVALLOTTI
Folla briaca e stolta
che t'allegri al clamor del baccanale,
turba d'ignavi, ascolta
che triste voce dalle tombe sale
e dice: – Ahi, d'altre grida
sonavano le vie quando vivemmo!
Sotto ben altra guida
ben altre feste celebrar sapemmo!
Soffrir ci parve poco
quando l'amor d'Italia in cor ci nacque;
sfidammo il ferro e il foco
e per la libertà morir ci piacque.
Reciso fior che langue,
il furor ci mietè delle tempeste,
ma voi, del nostro sangue,
voi, della libertà che ne faceste?
O patria sventurata,
tu non sei dunque più che un nome vieto?
O libertà giurata,
ti si può confiscar con un decreto?
Dunque in faccia vi suona
del prete vincitor beffardo il canto
e Roma vinta intuona
le cupe salmodie dell'Anno Santo?
Dunque l'onta e la fame
son guadagno de' ladri alle masnade
e come fango infame
tutto la maffia e la camorra invade? –
Ah, la tua tomba cheta
che una spada t'aprì, lascia per noi;
canta, civil poeta,
di Leonida l'inno e degli eroi!
Alla pazzia feroce
scaglia le strofe tue come rampogna;
la generosa voce
alza in faccia agli eroi della vergogna.
419
Vieni, poeta, e canta
la strofa di Tirteo viva e sonora...
Chi sa? Forse la santa
fiamma in Italia non è spenta ancora!
ANCORA?
There's blood upon thy face!
SHAKESP. Mach. III. 4.
Lady Macbeth fiutava
l'odor del sangue caldo in ogni cosa
e nella notte folta e paurosa
come uno spettro errava.
Ah, sciagura, sciagura!
Ecco, un segno vermiglio ha sulla mano,
un segno accusator, lavato invano
con ostinata cura
e quel segno non langue
per volontà che duri a cancellarlo,
tutta l'acqua del mar non può lavarlo...
E chi lo lava il sangue?
E pur chiese costui
ai figli il sangue ed alle madri il pianto
e, fatta d'ogni casa un camposanto,
volle la roba altrui;
ed or, lo sciagurato
che nel fango giacea, si leva in piede,
osa parlarci, vuol lavarsi e chiede
il catino a Pilato!
No! Se il ricordo langue
per audacia, per forza o per fortuna,
c'è chi conta le macchie ad una ad una...
E chi lo lava il sangue?
Basti all'ugne rapaci
il relitto dei ladri e della fogna.
Abbi prudenza se non hai vergogna,
china la testa e taci!
421
PER LE CANNONATE ITALIANE
ALLA CANEA
Quando vividamente in ciel la sera
le fiamme del tramonto accoglie in sè,
e nel bacio del sol s'alza Caprera
su l'onda rotta che le mugge al piè,
il vigile nocchier volge le attente
luci a la tomba che da lungi appar,
l'orecchio intende ed una voce sente
alta e sonora sul deserto mar,
che dice: – O madre Italia, io t'ho lasciato
un retaggio di gloria e di virtù:
madre dei forti, dove l'hai gittato,
che Garibaldi non ricordi più?
E pure il vento un lungo suon di trombe,
quasi chiedenti aiuto, a te recò!
e pure un cupo brontolar di bombe
su l'onda sacra dell'Egèo passò!
Spenta è dunque l'idea che i forti mosse
a ribellar le tue cento città?
Dunque non ci son più camicie rosse
per le battaglie della libertà?
Dove dorme oramai chi la parola
del tuo Vangelo al popolo bandì,
e col capestro attraversato in gola
benedisse il tuo nome e poi morì,
o chi sul campo il sangue suo t'offrìa,
il sangue generoso, e lo versò
quando nel singhiozzar dell'agonia
col viva dell'addio ti salutò?
I miei Mille ove son, belli e giulivi
tra la mitraglia, di Milazzo al piè?...
No, se in tanta viltà giacciono i vivi,
si leveranno i morti intorno a me!
Venite, o morti miei! Sovra i fumanti
spaldi, superba la bandiera sta.
Carabinieri genovesi, avanti!
La tromba squilla ed il nemico è là!
Di questa Europa vil chi più si cura,
che sui deboli scende ad infierir?
Lasciatela affogar nella paura,
la sozza vecchia che non sa morir.
Che se cercasse alcun questa favilla
spegner, che tanta fiamma accender può,
forte città dove nascea Balilla,
lèvati tutta per risponder – no! –
Genova 1897.
423
DUE OMBRE
L'infamia di Creti...
DANTE. Inf. XII, 12.
Non puoi dunque dormir, Re Ferdinando,
tra i putridi antenati
chè, il sozzo lembo del sudario alzando,
levi la testa e guati?
E dici – «Ah, se il Signor non mi prendeva,
sarei pur degno anch'io
di questa civiltà che mi diceva
la negazion di Dio!
Sovra i sudditi miei fatti ribelli
piover le bombe io feci,
ma l'Europa civil manda i vascelli
al massacro dei Greci.
Nel sepolcro che fai che non ti levi,
general Filangieri?
Vieni a veder come i tuoi degni allievi
ammazzan volentieri;
vieni a palpar, come a Messina, i buchi
fumanti del bersaglio;
vieni a veder quanti fedeli eunuchi
fan la guardia al Serraglio;
come sanno schiantar da la trincea
la croce insanguinata,
come ingrassano i corvi a la Canea
di carne battezzata!
Domani impiccheranno. Intanto i morti
marciscon senza tomba...
Eppure io non negavo il beccamorti
e mi chiamavan Bomba!»
Così ben dici, o vecchio Re, contento
di questi tuoi nepoti,
oggi birri del turco e, al buon momento,
birri dei sacerdoti.
Ben dici e sfreni con superba gioia
il riso alto e sonoro,
tu che, regnando con la forca e il boia,
fosti miglior di loro.
Ma questo almen ti affligga e dei ferini
gaudi il tripudio arresti,
che tra i bombardatori e gli assassini
non c'è chi tu vorresti.
Vedi? Quando le navi alzan la gala,
manca la tua bandiera,
e il tricolor che sventolò a Marsala
non guida più la schiera;
nè tra gli squilli che, salendo in alto,
vibrano in ciel sublimi,
s'ode la tromba che suonò all'assalto
sotto Calatafimi.
Memori ancora de la nostra istoria,
del Gianicolo in vetta,
cinta d'un trionfal nimbo di gloria,
vediamo un'ombra eretta
che, su la cima quirinal lontana
figgendo le pupille,
chiede: «Potresti ereditar Mentana
e mitragliare i Mille?»
425
PRESAGIO
L'ala molle del vento increspa l'onda,
bacia e fa susurrar le selve al monte
ed al signor che della messe bionda
gode, accarezza la giuliva fronte;
ma nella pace del seren profonda
s'alza una nuvoletta all'orizzonte
e quella nube, piccola e leggera,
prima dell'annottar sarà bufera!
PRIMO MAGGIO
... proximis idibus senties.
CIC. Catil. I.
Passano lenti. Un lampeggiar febbrile
arde a ciascuno il ciglio.
Passan solenni e da le dense file
non si leva un bisbiglio.
Toccandosi le mani ognun di loro
cerca il vicin chi sia.
Se i calli suoi non vi segnò il lavoro,
quella è una man di spia.
Sotto l'aspra fatica e il reo destino
molti già son caduti,
molti il carcer ne tiene od il confino,
e pur sono cresciuti.
Striscia il gran serpe de la folla oscura
de i ricchi su le porte.
Dentro, ne lo stupor de la paura,
si ragiona di morte.
Intanto il passo de la muta schiera
allontanar si sente
e nel silenzio de la fosca sera
spegnersi lentamente.
Ecco allora Epulon, vinto il terrore,
socchiude l'uscio e guata
e dice: «lode a Cristo ed al Questore,
anche questa è passata!»
***
È passata, ma invan te ne compiaci
ne l'allegre parole,
son gli antichi rancor troppo tenaci
per tramontar col sole.
Nel ferreo pugno non hai più la plebe
che serva un dì schernivi:
germina l'odio da le pingui glebe
che mieti e non coltivi.
Ne le officine fumiganti e nere
427
contro te si cospira:
sotto la casa tua, ne le miniere,
pronta a lo scoppio è l'ira
e mal ti gioverà crescer guardiani
a le porte sbarrate;
l'armi, custodi del tuo aver, domani
da chi saran portate?
Chi ti difenderà domani, quando
le turbe mal nutrite
assedieranno le tue case, urlando
«è il primo maggio: aprite»?
Oh, ben gli sguardi noi tendiam levati
a l'avvenir fecondo
e tu chini la fronte! I tuoi peccati
hanno stancato il mondo.
SCIOPERO IN RISAIA
Sull'argine fangoso e desolato,
sotto il ciel che s'oscura,
come ingiunto gli fu veglia il soldato
e guarda la pianura.
Non un canto lontan, non un susurro
dai muti casolari;
non un allegro fil di fumo azzurro
s'alza dai focolari.
Sol di bimbi affamati un gemer lento
sembra morir lontano....
La fame, la miseria e lo spavento
pesan sul triste piano!
Pensa il soldato: – «Ahimè, lacrime umane,
» noi vi freniam con l'armi!
» Oggi, se a casa mia non c'è più pane
» ci saranno i gendarmi!»
429
QVANDO
IL PREFETTO DEL RE
E IL SINDACO DEL COMVNE
RENDEVANO OMAGGIO
A SVA EMINENZA REVERENDISSIMA
DOMENICO SVAMPA
PRETE CARDINALE DEL TITOLO DI SANT'ONOFRIO
ED ARCIVESCOVO DI BOLOGNA
QVESTO CARME BENE AVGVRANTE
FV DEDICATO
Signor, poi che ti sta supplice ai piedi
questa Felsina tua che un dì sdegnosa
bacio di prete sofferir non volle,
costei che, infranto il trono in cui tu siedi,
cercando libertà tinse gioiosa
del suo sangue miglior l'itale zolle,
absolvi or la pentita e le concedi
l'amplesso del perdono
dimenticando dell'error l'audacia.
Sii generoso e buono
con chi come a Signor, la man ti bacia,
e poi che piango ravveduto anch'io,
misericorde ascolta il canto mio.
Un tempo, e ben lo sai, morta di fame,
schiava del tuo stranier temprò la plebe
ceppi a sè stessa su la propria incude:
pe' sacerdoti tuoi le turbe grame
reser feconde le sudate glebe
e sul solco natìo caddero ignude
ai campi della Chiesa util letame;
ma un Dio consolatore
da' sacri templi a lor dicea: «Soffrite,
turbe nate al dolore
e che felici nel dolor morite,
poi che v'aspetta in ciel di Dio il sorriso
e sol de' tribolati è il paradiso».
Dolci tempi, o Signor, ma triste il giorno
in cui la libertà disse il suo nome
la prima volta nella rea Parigi,
poi che le turbe allor volsero intorno
torbido l'occhio e scossero le some
brandendo l'armi ad operar prodigi
di che all'anime pie duro è il ritorno.
Germogli del mal seme
crebbe il tristo terren le idee novelle!
Compresso indarno, freme
tra i nuovi ceppi il popolo ribelle
e poi che in cor gli agonizzò la fede
non più la libertà, ma il pan ci chiede.
E grida: «Senza gioia e senza luce,
martiri del lavoro e degli stenti
moriamo e il pane ancor ci si rifiuta.
Aprimmo il solco e non per noi produce,
altri ha le lane e noi guardiam gli armenti,
altri ha la messe e noi l'abbiam mietuta.
Nuovo un tiranno i servi suoi riduce
a maledir la vita
e, come bruti a litigar le ghiande,
ci calca inferocita
la gente nuova che facemmo grande,
ma lieto il dì della riscossa arriva:
corriamo all'armi e la giustizia viva!»
Deh! soccorri, o Signor! Più non ci giova
rinnovar le catene ed i tormenti
o sfrenar birri alle cercate stragi.
Troncata l'idra i capi suoi rinnova
e i pubblicani ed i giudei dolenti
tremano su gli scrigni e nei palagi
dove il tripudio del goder si prova.
La turba macilente
accorre e di morir non ha paura
poi che, soffrendo, sente
che a lei la vita e non la morte è dura...
Deh, Signor, ci soccorri e se al desio
mancan le Guardie, ci difenda Iddio!
E se il tuo Dio ci costa, a noi che importa
quando i ribelli al timor suo riduce
e delle turbe ci ridà il governo;
quando agli eletti suoi l'ausilio porta,
quando tra i volghi creduli conduce
l'util minaccia ed il terror d'inferno
ed ha il demonio pauroso a scorta?
Ben venga Iddio se reca
fede agli umili, securtà ai possenti,
l'obbedienza cieca,
il catechismo, i preti, i sacramenti,
de' frati tuoi la sacrosanta loia,
il Sant'Ufficio, la mordacchia e il boia.
Ben vedi che timor, non cortesia,
i magistrati nostri a' piè ti caccia
inginocchiati a far debita ammenda.
Ieri nemici, ognun di lor fuggìa
431
fino il pretesto di guardarti in faccia,
ma la tema del poi gli animi emenda
ed eccoli a gridar Gesù e Maria.
Reca dunque, o Levita,
benedetti dal ciel giorni soavi
alla città pentita,
al Senator che te ne dà le chiavi;
stringi la briglia nella man paterna
e questo popol tuo reggi e governa.
Canzon, vanne alla sede
del Pastor cui fu pòrto
omaggio di paura e non di fede.
Egli è saggio ed accorto
e se ben tu lo guardi
gli leggerai sul viso: «È troppo tardi!»
PER UN GIORNALE
CHE S'INTITOLAVA
DA
TITO LIVIO CIANCHETTINI
MATTOIDE PERIPATETICO
MORTO MISERO
E LIBERO
I.
Vecchio, lacero, scalzo e rassegnato
all'ingiurie del vento e della piova,
dell'umana follìa misera prova,
l'antico tribolar t'ha consumato.
Nella nebbia dei sogni hai brancolato
come fa l'ebbro, che il cammin non trova,
inseguendo un'idea malcerta e nuova
tortura e strazio al tuo pensier malato.
Ludibrio de' pasciuti, ogni amarezza
soffristi lungo la dolente via,
senza un'ora di pace o di dolcezza.
Lieve la poca terra ora ti sia
dove riposi!... Dell'altrui saggezza
era forse miglior la tua pazzia.
433
II.
E tu pure una madre, o poveretto,
avesti un dì che ti cullò cantando,
che ti amò, che sperò, beata quando
sorrider ti vedea sovra il suo petto.
Povera madre! e t'abbracciava stretto,
del torbido avvenir forse tremando;
poi, moribonda, il viso tuo cercando,
dal profondo del cor t'ha benedetto.
Ben fortunata se nel suo materno
sogno non divinò l'orror del vero
e della vita tua tutto l'inferno,
nè ti vide morir nel vitupero,
nè ti seppe scagliato, ultimo scherno,
nella fogna di tutti al cimitero!
III.
O Padre, ed anche a noi punse la mente
la pazzia della stampa e del giornale,
che se fortuna il nostro mal consente,
anche noi moriremo all'ospedale.
Per ciò l'imagin tua grama e dolente
sempre negli occhi abbian, viva e vitale,
povero stolto, povero innocente,
che il ben cercavi e non facesti il male.
Ah, negli oscuri dì vegliaci accanto
come padre fedel, tu che soffrivi
serenamente la miseria e il pianto,
e il tuo lungo martirio in noi ravvivi,
più luminoso e manifesto, il santo
sogno di libertà per cui morivi!
435
A GIUSEPPE MAZZINI
NELL'ANNIVERSARIO DELLA SUA MORTE
Quando venivi, Apostolo sereno,
a predicar la libertà nel mondo,
pochi, alla Fede che ti ardeva in seno,
aprivan docilmente il cor profondo.
Fuggiva il ricco e, di paura pieno,
s'ascondeva smarrito e tremebondo,
mentre i re col capestro e col veleno
t'inseguivan proscritto e vagabondo.
Ora tu dormi e schizzan dal covaccio
i conigli, giurando in sacramento
d'averti dato, con la mente, il braccio;
e poichè i morti non fan più spavento,
la stessa man che t'apprestava il laccio
porrà la prima pietra al monumento.
PROCESSO CELEBRE
Nel tanfo denso della sala e nella
puzza che il caldo fuor dai corpi caccia,
un branco d'avvocati alza le braccia
e rece a gara la plebea favella.
«Asino, camorrista, pulcinella,»
urlano e sputa l'uno all'altro in faccia,
mentre serpeggia intorno la minaccia
della mafia che insidia ed accoltella.
O Giustizia, sei qui? Lordi tu il piede
calcando questo fango avvelenato
che di menzogna vaporar si vede?
O Giustizia, sei qui? Tace il Giurato,
ma nel secreto suo pensier si chiede
se ti ricordi più dell'ammazzato!
437
NATALE AL TRANSVAAL
MCMI
Un clamor d'ululati e di lamenti
lungo nell'ombra sale
e quel clamor per te – Britannia senti? –
è il canto di Natale.
Il canto dice: «Il sol mai non tramonta
sul tuo impero, Inghilterra,
e l'ugna tua crudel lasciò l'impronta
sovra tutta la terra.
Seminasti l'inganno e la discordia
dove regnar volevi,
nè conoscesti mai misericordia
se guadagnar potevi.
Ora l'Africa strazi e i scellerati
campi di morte inventi
dove le madri martirizzi e i nati
uccidi cogli stenti.
Su chi difende la sua terra invochi
dal ciel rovina e morte
e sterminando i deboli ed i pochi
ti vanti d'esser forte!
No, la forza non hai di che ti vanti;
non hai che la moneta
e il colosso sì caro ai tuoi mercanti
ha i piè di fragil creta.
Roma regnò così. Spiegò l'artiglio
al par del tuo possente,
ma dalla terra al ciel fumò vermiglio
troppo sangue innocente,
e vinta ed arsa, delle colpe orrende
pagò nel sangue il fio.
Piomba sovra colui che men l'attende
la collera di Dio!
Sia maledetto chi per primo ha tolto
fuor dalla terra l'oro
e chi primo la decima ha raccolto
sopra l'altrui lavoro.
Maledetto chi opprime e chi tormenta
le creature umane
e schernisce il meschin che si lamenta
e gli rifiuta il pane.
Maledetta la madre – e mai sorrida
il figlio a lei sul petto –
che ti sa crudelmente infanticida
e non t'ha maledetto!...»
O avara e rea Cartagine moderna,
ascolta come sale
nell'ombra, verso la Giustizia eterna,
il canto di Natale!
439
NON IO
I.
Mi chiede la pagina bianca:
perchè, sciagurato, non scrivi
e i versi di cui mi fiorivi
racchiudi nell'anima stanca?
Riprendi coraggio, rinfranca
la fiamma dei versi giulivi:
ritorna nel mondo dei vivi
che ai forti l'applauso non manca!
Ed io sonnolento rispondo:
Io vissi. De' morti nel regno
riposo in un sonno profondo.
Tu d'arte mi parli e d'ingegno
ed io per l'applauso del mondo
non ho che il fastidio e lo sdegno.
II.
Ah! l'arte! Ne' chiusi salotti
lusinga le dame annoiate,
abbrevia le lunghe giornate
e il sonno concilia alle notti;
o tenta gl'ignavi e i corrotti
coi canti e le danze sfacciate,
o chiede alle tazze vuotate
il lercio profluvio dei motti.
La disser già pura e modesta,
ricinta di candide bende
il vergine seno e la testa,
e invece del ricco che spende
rallegra le pompe e la festa...
Ah, l'arte si compra e si vende.
441
III.
Nel grigio tramonto il villano
con l'impeto cieco del bruto
incombe sul vomere acuto
e squarcia i maggesi del piano.
Vedrà biondeggianti di grano
i campi che ignudi ha veduto,
ma indarno! Sul solco mietuto
ben altri distese la mano!
Ah, i vinti! Parlate con loro
dell'arte che i cieli spalanca
tessendo ghirlande d'alloro!
Non io. Qui, dinanzi alla stanca
mia man che rifiuta il lavoro,
rimanga la pagina bianca.
HUNYADI JANOS
Alla memoria del Signore
ANDREA SAXLEHNER.
Non più anelanti a i pascoli latini
le barbare cavalle Attila caccia
rivisse il fior de gl'itali giardini
su la sua traccia.
Tacque indarno il deserto e crebbe l'erba
dove l'alta Aquilea fumando giacque;
da le feconde ceneri superba
Venezia nacque.
Il Danubio lavò le curve spade
grondanti di gentil sangue romano,
ma di quel sangue mai goccia non cade
versata invano,
e con le stille che tingevan l'onde
de 'l pescoso Tibisco e de la Drava
di Roma il fato a fecondar le sponde
barbare andava,
e di messi la steppa e di vitigni
rise, ed a 'l sol che civiltà conduce
i biechi de i mongòli occhi sanguigni
vider la luce;
nè più l'Europa giudicò minaccia
ma baluardo de' magiàri il petto,
quando il Corvino alzò la spada in faccia
a Maometto;
nè più imprecò il latino in val di Pado
a i varchi onde calò di Dio il flagello,
ma l'unno che morì sotto Belgrado
disse fratello.
Oh, benedetto il suol che trepidava
sotto il galoppo de la santa schiera
se il vincitor Giovanni alto levava
la sua bandiera!
Oh, benedetto il suol che de la buona
ausonia civiltà reca le impronte
se de l'Unnìade in nome a noi sprigiona
443
salubre un fonte
ne 'l cui salso licor Natura mise
le virtù sue più santamente buone,
se più genti salvò che non ne uccise
Napoleone.
Canti a gli sciocchi gli epinìci suoi
chi l'umile bontà sprezza e deride
e novera tra i grandi e tra gli eroi
solo chi uccide:
dica l'alta epopea le stragi orrende,
le città divampanti e combattute;
modesto io canterò l'acqua che rende
vita e salute.
Altri faccia sonar strofe ammirande,
ch'io dirò sottovoce il canto umìle
e il cantor degli eroi sarà più grande,
io più civile.
AURORA
Muore l'antico mondo e pur l'invade
la ferocia d'un tempo e ancor minaccia.
Ardono i fuochi e a fucinar le spade
mancano ormai le braccia,
e i tardi vecchi, cui negli occhi ladri
rosseggia un lampo di pensier cruenti,
tolgon per forza ai baci delle madri
i giovani fiorenti;
segnan le schiere e dicon loro: «Andate!
Vil chi piangendo volge indietro il viso!
Dateci sangue e vivi non tornate
se non avete ucciso».
Ma tra le schiere un fremito si sente,
un susurrar che cresce ad ora ad ora.
Tutti appuntan lo sguardo all'orïente
verso una nova aurora,
e aspettano così l'astro fatale
che le tenebre alfin farà sparire;
aspettan rutilante e trïonfale
il sol dell'avvenire!
445
FINE
Son la fontana che nasce sui monti
limpida e gaia tra i sassi sonanti,
fresco ristoro di greggi vaganti,
vergine ancora di mura e di ponti
e che, ingrossata da torbide fonti,
bagna e feconda le valli aspettanti,
poi, ferma in larghe paludi stagnanti,
vapora febbri nei grigi tramonti;
indi travolta a città pestilenti,
livida inghiotte le salme dei vinti
e scalza e scuote le reggie possenti,
finchè, gli spazi del mare raggiunti,
tra i flutti eterni dal vento sospinti
si perde e gode l'oblio dei defunti.