Scarica l`intero numero

Transcript

Scarica l`intero numero
1
Editoriale di Tommaso Evangelista
Un luogo dove circolano le IDEE
L’inizio di una rivista è un momento di sospensione nell’ambiguità della scoperta. Starter magazine non
vuole essere da meno nel tentativo di definizione d’una idea costruttiva che prende corpo tra le pieghe di una
collezione, quella Longo a Cassino, tanto preziosa quanto singolare ed unica. Al principio, infatti, vi è sempre
un desiderio di edificazione e la scelta dell’espressione (cfr. campo di battaglia). La famiglia Longo nel 1990
ha optato per i linguaggi più avanzati del contemporaneo come metro di espansione di un nucleo d’arte,
coinvolgendo il critico Bruno Corà nella configurazione della Raccolta che già da subito, per complessità e
qualità, si è posta come unicum nel panorama collezionistico del meridione d’Italia, anche e soprattutto per il
rapporto che si veniva a creare tra artista e collezionista. Nel 2013 viene inaugurato il CAMUSAC, che segue
alla Fondazione Longo e ai due convegni, del 1996 e 1998, organizzati insieme all’Università di Cassino e a
Corà su temi fondanti dell’arte quali il Tempo, la Forma, il passaggio epocale, la Città. La collezione, transitata
in questa positiva energia progettuale e in una visione più ampia di sistema d’arte, viene ad accrescersi e
a modificarsi prendendo forma/forza di museo. E’ emersa autonomamente col tempo l’idea e la volontà di
una rivista che partisse dalle opere per indagare da una parte gli artisti, recuperando l’idea del proficuo e
amicale scambio che hanno avuto con Longo, e dall’altra le tematiche più complesse del mondo contemporaneo, portando avanti quindi l’intuizione degli incontri internazionali curata dal suo direttore a Cassino. Una
rivista tra affetto e rigore per trasmettere in scrittura-immagine la Raccolta e il complesso mondo che le
sta dietro/davanti. La sua vitalità è quindi il linguaggio che si vuole indagare nell’unicità dei lavori e nella
complessità degli esecutori e proprio da una frase simbolo, da un frammento decontestualizzato, si è voluti
iniziarne la stesura per dare una prima traccia di espansione e un frammento. Da tale traccia progettuale che
inaugura il numero 1 nasceranno, con i prossimi numeri, altri nuclei di analisi che vedranno di volta in volta
curatori diversi ed eterogenei i quali avranno il compito di far nascere nuove riviste e di mantenere la vitalità
iniziale di scoperta e ricerca. Alle base dell’Abbazia di Montecassino, dove la collezione è collocata, si respira
un’aria sospesa di misticismo e rigore, ma anche di origine come ci ricorda l’Omphalon in pietra e terra di
Beverly Pepper. Proprio all’idea di origine si è voluti guardare nello scegliere quel “SAO KO KELLE TERRE”,
frase tratta dal Placito Cassinese del 960 d.C. e conservata proprio a Montecassino quale primo documento
ufficiale in volgare italiano, come espressione guida del numero, un numero doppiamente immateriale per
l’assenza quantitativa della cifra e per la scelta del formato digitale. Ecco quindi una personale idea della
scrittura e una ricerca/palinsesto sul linguaggio che diventa segno-sistema per indagare il contemporaneo
dal filtro complesso della parola (poetica, critica, reale, virtuale) e dell’immagine. Ma in fondo per parlare
del grido della scrittura e dell’immagine occorre solamente un’alternanza tra la redenzione della parola e la
pausa della forma. Pertanto questo spazio virtuale sarà esclusivamente, come ci ricorda l’opera di Mattiacci
in collezione, un luogo Dove circolano le idee.
1
Mattiacci Eliseo - Dove circolano le idee -1992, Acciaio Cor-Ten, 248X14 Cm
2
LeWitt al Camusac di Martina Canale
La collezione della famiglia Longo, generosamente aperta al pubblico con l’istituzione del museo Camusac - ex-capannone
industriale, sapientemente riqualificato e trasformato in spazio dedicato all’arte contemporanea - tra i suoi capolavori annovera importanti testimonianze di uno dei più grandi artisti minimalisti ed esponenti dell’arte concettuale, lo statunitense Sol
LeWitt, scomparso nell’aprile del 2007. Nel 1990 a Spoleto, tramite Bruno Corà, futuro curatore del museo, la famiglia Longo
incontra LeWitt. Gli anni futuri saranno costellati da molti incontri dai quali nascerà un rapporto di amicizia con l’artista e
la creazione di diverse opere, come le Modular Structures1, i Brushstokes, il Wall drawing #804 e l’enorme Cubo di legno.
Cubo
Il Cubo, grande scultura esposta al pubblico nel giardino del museo Camusac, è una delle prime dieci opere acquisite nel
nucleo della collezione Longo1 2. Realizzato nel 1994, esso è costituito da assi di legno di larice, provenienti dalla Svizzera,
ed è stato assemblato sotto la direzione del suo committente Sergio Longo, su progetto di Sol LeWitt. Osservando l’opera
colpisce la disposizione modulare alternata in pieni e vuoti, con le assi in posizione di quarantacinque gradi le une dalle
altre che immediatamente catturano lo sguardo dello spettatore. E’ subito chiaro che il cubo rappresenta semplicemente
un cubo3; la struttura infatti è basica e minimale. Siamo di fronte ad una forma pura, assoluta, che fin dal 1965 è stata tra
le protagoniste della produzione delle opere di Sol Lewitt. Il Cubo della collezione Longo, attualmente, rappresenta quel che
rimane di una limitata produzione, unica nel suo genere.
Gli esemplari progettati da Sol nell’arco della sua carriera sono due4: il Cubo su citato e quello realizzato in quegli stessi anni
a Paliano, nel Parco La Selva5, purtroppo, questo esemplare è stato smantellato a causa delle condizioni di degrado in cui
versava il Parco, oggi, fortunatamente riqualificato e riaperto al pubblico6. Le grandi sculture cubiche furono concepite per
favorire la nidificazione degli uccelli tra i loro mille interstizi7, cosi, l’artista esprime il rapporto tra arte e ambiente, nella sua
doppia declinazione architettonica e naturale.
1
2
3
4
5
6
7
Dave Hickey, 2004.
Corà, 1994.
Ibidem.
Corà e Panzera, 1998.
Notizia gentilmente riferita da Carol Lewitt.
Notizia gentilmente riferita da Zerynthia, associazione per l’arte contemporanea.
Vettese, 1994.
3
1994, legno di larice, 500x500x500 cm
Irregular Towers
Le Irregular Towers esposte ciclicamente nel museo Camusac rappresentano pienamente il periodo minimalista di LeWitt.
Con la partecipazione nel 1966 alla mostra Primary Structures al Jewish Museum di New York l’artista viene consacrato
come uno dei principali esponenti dell’arte minimal americana. In questo periodo, a differenza della precedente fase Pop,
il concetto dell’opera diventa sempre più importante del prodotto finale, l’esecuzione perde centralità, mentre assume importanza la fase progettuale. LeWitt nei suoi progetti crea istruzioni che prediligono la forma del cubo e la serializzazione
di essa, riducendo il solido all’essenziale, al suo scheletro. Degli esecutori da lui scelti si occuperanno di realizzare l’opera
attenendosi il più possibile al progetto. Le Towers, presenti al Museo sono state realizzate rispettivamente nel 1999 e nel
20058. Fanno parte del gruppo delle Modular Structures, costruzioni vuote, permeabili all’aria e alla luce, la cui presenza
fisica è ridotta all’indispensabile, alla forma pura. Il cubo, diventa la grammatica della costruzione, l’attenzione si concentra
8
Corà, 2012.
4
sulla sua disposizione, ovvero su come esso occupa lo spazio. Camminando intorno alla struttura possiamo notare come
essa sia leggera; in condizioni di luce ottimale potremmo definirla quasi diafana. Queste infinite reiterazioni producono linee
inaspettate tanto che, guardando all’interno si possono scorgere tunnel obliqui mentre ogni angolazione ci fa cogliere nuovi
2005, smalto su acciaio verniciato, 228,8x114,8x114,8 cm
1999, smalto su acciaio verniciato, 579,12x200,66x200,66 cm
punti di vista. Per usufruire a pieno dell’opera lo spettatore deve muoversi intorno a lei. Tali continue repliche ci rimandano
al lavoro quasi ossessivo del fotografo inglese Muybridge9, da cui Sol LeWitt trarrà ispirazione, in particolare ad Animai
Locomotion, una raccolta di cronofotografie in 11 volumi, pubblicata nel 1887 e ristampata negli anni 50, in cui il fotografo
inglese utilizzando il metodo dell’automatic electro-photograph riesce a fissare fotograficamente tutti i movimenti possibili
sia di animali che di persone, movimenti che per la loro velocità non erano percepibili e quindi sconosciuti fino ad allora
all’occhio umano10. LeWitt sarà ulteriormente influenzato nel progettare le sue opere dalle composizioni di Philip Glass,
figura cardine della musica minimal statunitense degli anni Sessanta. I due artisti nel „79 saranno impegnati insieme alla
coreografa Lucinda Childs, alla Brooklyn Academy of Music con Dance, opera in tre atti, nella quale LeWitt è il regista di un
filmato in bianco e nero il cui soggetto sono la Child e la sua compagnia in azione11. La griglia, l’elemento scenografico che
adotta, è proiettata su uno schermo trasparente calato sul boccascena. Interessanti per l’artista saranno gli elementi orientali
presenti nella musica di Glass, mutuati dalla collaborazione con il sitar di Ravi Shankar e la tabla di Alla Rakha, basati sulla
reiterazione delle cellule melodico-ritmiche12. Potremo definire le Modular Structures di Lewitt delle sculture sonore, pensando al suono attraverso la figura degli spettrogrammi, in particolare alla Trasformata di Fourier. Notevole importanza nelle
opere di LeWitt avrà il compositore Steve Reich, altro tassello fondamentale del periodo minimal, uno dei primi musicisti
ad usare il time delay nella musica. La formazione di quest’ ultimo, caratterizzata da un costante interesse per l’elemento
ritmico, affonda le radici nella musica africana occidentale e il gamelan balinese13. LeWitt, grande storico dell’ architettura,
9
10
11
12
13
Krauss, 1993.
Adam, 2014.
Zevi, 1994.
Rigolli, 2003.
Jonathan Cott, 1996.
5
si ispira nei profili delle strutture a caratteristiche delle costruzioni dell’International Style, dei Curtain Wall, e ancora dello
skyline delle grandi città metropolitane, interessante accostamento potrebbe essere quello con la Farnsworth House, uno
dei progetti più celebri dell’architetto Ludwig Mies Van Den Rohe, in particolare, in merito ai materiali di costruzione, uno
scheletro di acciaio bianco e vetro, che dona alla struttura un aspetto leggero e diafano che rimanda alle Towers di Lewitt.
Insieme alla matematica, all’architettura, alla musica, alla fotografia, l’artista accosta il suo impegno civile, le sue idee di
democrazia e uguaglianza. Lo testimoniano sculture monumentali quali: Black Form, Memorial to Missing Jews, monumento dedicato agli ebrei dispersi, LeWitt schiva ogni retorica ed erige un austero parallelepipedo nero, provocatorio tanto da
essere rimosso dopo neanche un anno da Munster, dove era stato collocato nell’ ottantasette14, per essere quindi ricostruito
al centro della piazza di Amburgo, Block 1991 nel Museo di Israele a Gerusalemme, e tante altre.
Wall Drawing #804
1996, inchiostro su muro, 298x482 cm
Il Wall Drawing #804 è stato realizzato nel Maggio del 1996 presso l’abitazione privata della famiglia Longo. Possiamo
classificarlo nella categorie delle cosiddette Bande a zig zag- I colori delle diciannove fasce che animano la composizione
sono: il rosso, il giallo, blu e grigio. E’ stato utilizzato dell’inchiostro di china acquarellato per campire gli spazi. Quest’opera
rappresenta un tassello importante dell’arte concettuale e mistica di Sol LeWitt. Per meglio comprendere quest’affermazione
tracciamo una breve storia, della nascita di tale tipo di opere. Sul finire degli anni Sessanta si convenne di chiamare con il
termine concettuale tutto ciò che era investigazione sulla idea stessa di arte. Nel giugno 1967, Lewitt pubblica su Artforum
i suoi Paragraphs on Conceptual Art, in cui si proclama artista concettuale per il primato dell’ideazione sulla concezione.
Dice Lewitt: “Nell’arte concettuale l’idea o concetto è l’aspetto più importante del lavoro. Quando un artista utilizza una
forma concettuale di arte, vuol dire che tutte le programmazioni e decisioni sono stabilite in anticipo e l’esecuzione è una
faccenda meccanica. L’idea diventa una macchina che crea l’arte”. Il procedimento nelle opere di Sol LeWitt muove da un
preciso programma di base, da un’idea preliminare da cui deriva l’esecuzione dell’opera come un corollario dall’assioma in
una proposizione matematica15. Nel 1968, risale, il primo Wall Drawing, nella galleria di Paula Cooper a New York. L’opera
fu eseguita in occasione di una mostra collettiva organizzata da Lucy Lippard a supporto delle organizzazioni impegnate
contro la guerra in Vietnam16. Nel maggio del 1969 LeWitt è a Roma, presso la galleria l’Attico di Fabio Sargentini per la
sua prima personale17, l’anno dopo da Sperone a Torino. A Spoleto, dalla gallerista Marilena Bonomo. Prima di giungere a
Roma LeWitt era stato a Berna dove aveva partecipato alla mostra che segnerà una svolta nella tradizione espositiva europea:
“When Attitudes Become From18” a cura dello storico dell’arte e curatore svizzero Harald Szeemann19. Nel 1967 a Francoforte LeWitt mostra Serielle Formationan presso l’Universitàt Studentenschaft. L’ Europa di aria tedesca conosce già le sue
opere e il lavoro dei minimalisti, in particolare le sue strutture seriali20. In Italia in quegli anni nulla di tutto ciò era preso in
considerazione e il dibattito artistico era concentrato sull’Arte Povera, principali poli erano: Torino-Genova-Milano e Roma.
Questo è il clima che troverà al suo arrivo Sol LeWitt che con i suoi Wall Drawings, realizza opere non solo linguisticamente
rivoluzionarie, ma anche socialmente eversive: i suoi presupposti minavano infatti alle fondamenta i principi regolatori della
produzione, distribuzione, fruizione dell’arte e le proprietà del mercato del periodo21. I primi Wall Drawings sono di scar14
15
16
17
Zevi, 1994.
Menna, 1972.
Zevi, 2012.
Corà e Panzera, 1998.
6
sissima visibilità: i soggetti dell’opera in un primo momento sono solo “linee” tracciate con una matita dura, leggerissima.
In seguito il repertorio verrà ampliato con l’introduzione di “linee non dritte” dedicate dall’artista all’amatissima Eva Hesse,
sua amica scomparsa precocemente all’età di 34 anni. Nel 1971 Lewitt a casa di Marilena Bonomo a Spoleto disegnerà di
sua mano i primi cerchi a matita irradiantisi al centro della parete; l’anno seguente, realizza i Wall Drawings di Berna e
Varese che coinvolgono l’intero spazio della parete con una danza di archi, linee intere, spezzate, dritte e non. I primi disegni su muro erano ispirati a Bach22, la disposizione dei segni a matita sulla parete è suggerita dalla combinabilità dei temi
esposti nella raccolta di composizioni L’ arte della fuga23. Il 1973 è l’anno dei Location Drawings, dove un risultato visivamente semplice viene ottenuto attraverso procedimenti assurdi. LeWitt usa delle istruzioni complicate e artificiose, l’idea di
assurdo che sottende i Location Drawings trova ispirazione nell’opera di Beckett, e più in generale nella corrente letteraria
francese del Nouveau Roman dove in assenza di filo conduttore, il racconto si focalizza su gesti minimi, irrilevanti, 18 19 20 21 22
23
descritti con minuzie quasi maniacali. I Location Drawings di LeWitt spiega egli stesso, sono un modo di fare satira contro
i tanti artisti concettuali del tempo24. L’anno successivo in occasione della prima personale alla galleria di Gian Enzo Sperone
a Torino, LeWitt introduce per la prima volta le figure geometriche piane: il rettangolo, il trapezio, il parallelogramma. Nel
1976 in occasione della biennale di Venezia l’opera avrà un fondo nero sul quale spiccheranno tutte le combinazioni di archi
bianchi dagli angoli e dai lati e di linee rette, non rette e tratteggiate25: per la prima volta l’artista si libera dell’architettura,
azzerando la struttura, facendo galleggiare i segni nello spazio. Nel 1980 sulle pareti oscurate della Galleria Ugo Ferranti a
Roma campisce sette figure geometriche con pastello bianco26. La tecnica che abbiamo visto evolversi dalla matita nera a
quella colorata e ai pastelli, nel 1981 con il Wall Drawing #354 di Genova sarà rinnovata ulteriormente con l’introduzione
dell’inchiostro di china e di inchiostri colorati, stesi prima con tonalità diverse per lo stesso colore e poi stratificando colori
diversi27. Annoverabili tra le figure geometriche piane sono le Stars che si staccano dal fondo con il loro profilo frastagliato
e per il colore a contrasto. Se i primi Wall Drawings si mimetizzano con la parete, utilizzando la matita e soprattutto un
vocabolario formale primario e assolutamente bidimensionali, gli Isometric Drawings vi si distaccano28. Realizzati nel corso
degli anni Ottanta non si attengono a nessuna forma rappresentativa canonica; essi non sono più geometrie rispettose della
parete e dell’involucro architettonico bensì piramidi asimmetriche, in versione singola, doppia e multipla.
Queste figure sono incuranti degli ostacoli, scavalcano porte e pareti tenendosi per mano come se danzassero. Nel passaggio dalle figure geometriche piane a quelle isometriche LeWitt sembra ripercorrere la strada di Piero della Francesca o di
Cezanne, partendo anch’egli dall’indagine sulle figure geometriche piane, rettangolo, triangolo e quadrato, composizioni di
solidi complessi attraverso solidi regolari come la piramide, il cubo. A partire dagli anni Ottanta, al rigore delle forme e delle
linee geometriche Sol Lewitt inizia ad aggiungere curve, onde, sinusoidi. È anche il momento in cui permette al colore di
diventare protagonista delle sue pareti29.
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
Ulrich Look, 1992.
Corà e Panzera, 1998.
Ibidem.
Zevi, 2012.
Notizia gentilmente riferita da Carol Lewitt.
Wolff, 1975.
Zevi, 2012.
Corà e Panzera, 1998.
Corà e Panzera, 1998.
Zevi, 2012.
Ibidem.
Menna, 1972.
7
Prima compaiono i colori della terra, come nelle piramidi realizzate nel 1986, poi, con gli anni Novanta, i colori diventano
vibranti, colpendo lo spettatore indifferente. Nei primi anni del Duemila, LeWitt realizza la serie delle Broken Bands, bande
che si frammentano in modo ordinato, verticalmente e orizzontalmente per poi polverizzarsi nelle opere successive, come
tessere di un mosaico. Questi tasselli assumeranno in determinate occasioni un andamento a zig-zag e formeranno vortici
e grovigli. Alla base dei Wall Drawings, nei loro colori vibranti, c’è senza dubbio la grande tradizione dell’affresco italiano,
entrata a contatto con l’ambiente americano nel 1968, grazie alla mostra tenutasi a New York, The Great Age of Fresco: Giotto
to Pontormo. Prima di quella data gli statunitensi che non erano mai stati nella nostra penisola avevano come esempio di
tecnica a “fresco”, infatti, solo il muralismo messicano degli anni Trenta (David Alfaro Siqueiros, Diego Maria Rivera, Josè
Clemente Orozco). Fondamentale, nella realizzazione dei Wall Drawing, sarà inoltre l’operato di Kounnelis, dal quale LeWitt
imparerà ad usare tutto lo spazio, tappezzando grandi ambienti. Grande risonanza a tal proposito avrà la mostra: “Dodici
Cavalli vivi”, dove Kounnelis sfida la storia dell’arte, esponendo la natura stessa cosi com’è30.
Giungiamo ora all’ultima fase, quella degli Scribbles, ad ispirare questa tecnica sono le fotografie di Clarence John Laughlin,
padre del surrealismo fotografico americano.
Le composizioni industriali di Laughlin vedono come protagoniste le tubature delle grandi fabbriche, imbevute di luce riflessa, gli Scarabocchi di LeWitt si basano sul rapporto luce e ombra di queste ultime.
Gli Scribbles sono caratterizzati da innumerevoli segni sottili circolari eseguiti a matita dagli esecutori, che creano un effetto
chiaroscuro sfumato nel passaggio dal nero al bianco. I segni sono talmente fitti da non essere riconoscibili dando l’illusione
di un tutt’uno. La superficie è molto luminosa grazie anche alle caratteristiche della grafite.
LeWitt ripercorre con i suoi Wall Drawings l’intera storia della pittura murale, dalla smaterializzazione bizantina, agli approcci della prospettiva quattrocentesca, alla voluta barocca, ma la aggiorna con la sua poetica e gli strumenti dei nostri giorni.
Il Wall Drawing #804 è una grande testimonianza di quest’azione.
Brushstrokes
Con i Brushstokes Sol LeWitt continua il suo lavoro con la linea, la stessa dei primi Wall Drawing a matita, ma in questo
tipo di opere sarà più larga, realizzata usando dei pennelli o le dita stesse. Protagonista dei Brushstokes saranno le bande,
morbide e irregolari, verticali o orizzontali, dove colori molto fluidi dai toni contrastanti sono accostati sapientemente. Nel
complesso le tinte dell’opera sono scure con esplosioni di colore brillante31. I supporti scelti sono fogli di carta. A differenza
delle altre opere di LeWitt, sempre accompagnate da un progetto, che in seguito verrà realizzato da collaboratori, i Brushstokes sono realizzati direttamente dall’artista nel suo studio, servendosi del gouache.
30
31
www.fabiosargentini.it
Fairbrother, 1992.
8
1995, gouache su carta, 19x28 cm
1998, gouache su carta, 38x28 cm
Sol era una persona molto generosa, questi piccoli bozzetti erano sempre regalati. I destinatari, la maggior parte delle volte
erano i suoi assistenti, principalmente ragazzi delle accademie, altre volte artisti con cui faceva scambi e infine i suoi più
cari amici.
Ci racconta Carol LeWitt: “Era una maniera per ringraziare le persone per il loro aiuto”.
In dialogo con Carol LeWitt
MC: “Ci parla del suo rapporto con la famiglia Longo?”
CL: “Tramite Bruno Corà, logico. Sol e Bruno erano molto amici, dagli anni Sessanta. Negli anni Novanta, quando abbiamo
conosciuto Sergio, Bruno lavorava all’Università di Cassino e anche all’Accademia di Perugia. Avevamo casa ad Amalfi, con
due ragazzine muoversi in costiera era molto faticoso, inoltre Sol non amava molto il mare, non voleva mai perdere un
momento nel suo studio, diceva sempre: “Fammi lavorare nello studio, devo andare a trovare Sergio”. Cosi nel pomeriggio
partivamo per raggiungere Cassino. “Devo andare a trovare Sergio” era diventato quasi un mito della nostra famiglia, era la
scusa di Sol per non andare al mare. Per circa quindici anni abbiamo frequentato la famiglia Longo, è diventata un’amicizia,
9
oltre l’arte, molto stretta.
La scrivania di Sol
MC: “Un’amicizia consolidata... Passiamo all’arte. Parliamo delle opere di LeWitt al Camusac, in particolare del grande Cubo
costruito nel 1994, una delle prime dieci opere che ha acquisito la famiglia Longo.”
CL: “C’erano due progetti, uno era quadrato e l’altro aveva la sezione all’asse parallela, erano le uniche due opere del genere
che Sol ha mai realizzato nel corso della sua carriera.”
MC: “Quindi abbiamo due Cubi, uno a Cassino e l’altro?”
CL: “A Paliano, collocato all’interno del Parco La Selva, fu realizzato in occasione di una mostra, se ricordo bene all’epoca
curata da Mario Pieroni. Sol, viste le bellezze del Parco, voleva creare una cosa molto naturale, il Cubo era come se fosse un
enorme nido per gli uccelli.”
MC: “Anche il progetto del Cubo Longo è improntato sul tema della natura?”
CL: “Si, molto naturale.”
10
MC: “Passiamo a qualcosa di meno naturale, le Towers. Su molti testi queste Torri vengono accostate all’idea dello skyline
delle grandi città metropolitane, questa tesi è giusta? Quali sono le sue basi?”
CL: “La tesi è giusta, c’era un modo di costruire i grattacieli a New York chiamato Zigurat, che consisteva nel diminuire i
piani delle costruzioni in modo da permettere alla luce di arrivare in strada. Ormai New York è diventata talmente preziosa
che non adottano più questi criteri. Però i primi grattacieli della città erano costruiti su queste basi. Poi c’era un articolo
importante di Dan Graham in cui si parlava di questo fenomeno. In quel periodo di fermento Sol lavorava nello studio di Ieon
Ming Pei, cosi era molto preso dall’architettura. Sol era un grande storico dell’architettura. Le Towers sono state realizzate
da Sergio, lui aveva un’azienda molto specializzata nell’acciaio, sai non erano mica facili da realizzare, sono delle opere che
richiedono molta precisione.”
MC: “Nel progettare le Towers Sol si ispira a Bach?”
CL: “Bach, Le fughe di Bach erano il primo serial system. Sol era un appassionato di musica, diceva sempre che tutto quello
che ha imparato sull’arte l’ha appreso da Bach e Dan Flavin. Le prime opere di Flavin con Pei erano basate su un serial
system.”
MC: “Quindi le Towers devono molto a Bach...”
CL: “Si, in maniera particolare però i primi disegni a matita sui muri, quelli si che erano ispirati a Bach, lui faceva tutte le
combinazioni possibili. Per quanto riguarda le Torri, Sol appuntava dei numeri, c’era un assistente che realizzava il modellino, e lui poi lo ricontrollava. A volte sia le Towers che i disegni sul muro erano senza un preciso sistema.”
MC: “Parliamo di Wall Drawing.”
CL: “Sol nel realizzare i suoi Wall Drawing non aveva un’idea fissa, era molto preso dagli affreschi italiani, Giotto, Piero
dalla Francesca, per l’organizzazione e i colori. Quando Sol venne in Italia nel 1968, doveva fare una mostra da Sargentini,
all’Attico, era appena morto Pascali ne parlavano tutti, era da poco finita la mostra di Kounellis.”
MC: “Quella dei cavalli?”
CL: “Si proprio quella dei cavalli, e da Kounnelis, LeWitt capisce che non è un discorso sul muro, sul quadro, bisognava usare
tutto lo spazio della galleria, Sol aveva una passione per le opere di Kounnelis. L’idea di usare tutto un ambiente l’ha appresa
da lui. Per quanto riguarda il colore lui faceva sempre queste combinazioni di colori primari, utilizzava le gouaches .”
MC: “Può dirmi qualcosa in più sui colori?”
CL: “Lui faceva sempre queste combinazioni di colori primari, giallo, blu, rosso, strati molti fini, utilizzava matite colorate
o inchiostro di vari colori, poi giunto in Italia ha iniziato ad usare del gouaches molto diluito, erano i primi anni Ottanta, il
primo Wall Drawing di questa serie si trova in un piccolo albergo, il Charleston, davanti al museo Collicola, quello è il primo
11
Cubo isometrico a colori, è un’opera importante. Per i primi disegni utilizzava inchiostro colorato, stesso inchiostro usato
dagli architetti, lo usava anche per i Wall Drawing. In seguito con l’avvento del computer gli architetti non disegnavano più
a mano, questi inchiostri sono andati in disuso.”
MC: “Ci parla del rapporto di Sol con gli altri artisti? A quali era più legato?”
CL: “Sol era un grande collezionista, molto aperto ai giovani artisti, della sua generazione era molto vicino a Mario Merz,
Kounellis, Dan Flavin, Paolini, Heva Hesse, Carl Andrè, Boetti e Dan Graham. Era molto amico di Marco Tirelli, ci sono molte
sue opere nella nostra collezione. Sol era un uomo aperto all’opera delle donne, gli altri artisti di quella generazione non le
consideravano neanche, lui era molto equilibrato in tutto quello che faceva.”
MC: “Ci può raccontare l’arrivo di Sol in Italia?”
CL: “Sol è arrivato in Italia intorno agli anni Settanta, in quel periodo aveva vinto il premio Lubiana, in Slovenia, era un premio per grafici, in seguito per svariati motivi è giunto a Bari, qui ha conosciuto la gallerista Marilena Bonomo, è stato per
molte settimane suo ospite. Con Marilena è nato subito uno splendido rapporto di amicizia, grazie a lei abbiamo conosciuto
Spoleto, è stato amore a prima vista. Qui in questa stupenda città abbiamo trovato una casa, dove Sol ha creato il suo studio.
Siamo Molto riconoscenti a Marilena Bonomo.”
MC: “Com’era l’Italia in quegli anni? C’erano molte mostre?”
CL: “Era un periodo di fermento, in quegli anni gli artisti facevano molte mostre in tutta Italia, in particolare al nord, da
Franco Toselli a Torino e da Sperone.”
MC: “Gli ultimi Wall Drawings, gli Scribbles, si ispirano ad alcuni lavori di Jonh Clarence Laughlin, padre del surrealismo fotografico americano, può dirci qualcosa?”
CL: “Si, Sol aveva una grande collezione di fotografie Vintage,
c’erano delle foto di Laughlin in cui erano ritratte delle zone industriali, con delle tubature che riflettevano la luce. Guardando
queste composizioni fotografiche è subito tutto molto chiaro.”
Jonh Clarence Laughlin
MC: “Veniamo ai Gouaches, queste tavolette molto piccole, sono
realizzate a mano?”
CL: “Si, erano delle opere astratte che realizzava a mano, utilizzando le dita, le linee erano molto morbide e fluide. Sol era
un uomo molto generoso. Questi piccoli bozzetti erano sempre regalati, in particolare agli assistenti che lo aiutavano nella
realizzazione dei Wall Drawing e ai suoi amici più cari, era una maniera per ringraziare le persone per il loro aiuto. Siamo
molto orgogliosi dello spirito di generosità di Sol.”
12
PRESENZA di Ümit Inatçi
Una ferma rinuncia all’assenza ontologica dell’Io profondo.
Quando la mia mano attraversa la superficie lasciando segni come presenze dei momenti vissuti in un attimo di respiro, mi accorgo di morire e riprendere a vivere nello stesso tempo. Morire: Il distacco irreale
dalla ragione di esistere. Vivere: L’annuncio di aggregazione, a ciò che e’ mortale. Quindi: scrivere per
affermarsi e per farsi notare dal tempo stesso. Il tempo, come memoria e coscienza. So di essere esistito
anche in passato. So di essere concepito dal presente. So di essere aspettato dal futuro; ed io non voglio
mancare all’appuntamento con la mia esistenza.
Scrivo ma non descrivo scrivo ma non
esprimo scrivo ma non dichiaro scrivo ma
non spiego.
In un certo senso la mia pittura appartiene deliberatamente al sistema paesaggistico; anche per soddisfare
la mia avversione provata per il sistema delle nature morte di aspirazione necrofila, frutto di astuzia
umana nei confronti della natura. Anziché, rivolgermi ad una visione raccolta con la mano –segno di un
interventismo violento– e composta edonisticamente ai fini di una estetica come retorica dell’ immagine
artefatta, preferisco sciogliere il mio sguardo verso un orizzonte che infine e’ soltanto un frammento di
una continuità sovversiva.
Mi considero un giardiniere topiario che lavora con la percezione. I miei giardini sono luoghi utopici - orgogliosamente utopici - dove le piante e gli esseri organici che li affollano si alimentano di una energia
cosmica. Una magia di coesione che si emana incessantemente. Un ordine caotico che però si presenta come una geometria assoluta. L’armonia dell’imperfezione, una antinomia feconda, divergenze
che riconciliano impossibili coesistenze.
Nei campi ben delineati, molte volte concepiti come campi di coltura degli impulsi, vengono sedimentati dei
segni apparentemente logo formi: tal volte sciolti come una scrittura rapida, talaltra meditati come tagli
scultorei, talaltra ancora provvisori strappati dalla superficie - dopo esser coperti di colore - lasciando un
segno negativo fluido tondeggiante come i resti di una memoria non radicata profondamente nella mente
ma piuttosto respinta timidamente.
Tutti questi segni-in-forme prodotti con una spiritualità trans-sènsuale appaiono sul fondo nero come dei
morfemi asemantici presenti per contraddire la pausa del pensiero che nei momenti di disperazione intel13
lettuale tende a sottrarsi al vuoto come un momentum non concepibile.
I microcosmi impostati allo sguardo frontale in un accostamento ritmico. I fonemi in corpo nel persistere
del silenzio come un sussurrio, ricamarsi sull’udito della sordità.
Il fondo nero è ricoperto di un colore (anche se di una tonalità chiara il nero succhia sempre la sua lucentezza) che sembra uscito da una tenebrosa bottega bizantina. Sembrerà una contraddizione quest’oscurante contaminazione del nero come una presenza della mortalità irreversibile per un illuminista utopico,
ma e’ soltanto una precauzione pedantesca per essere preparati ad ogni illusione e delusione delle false
prosperità.
La natura e’ sacra! Non e’ una affermazione religiosa teologica ma e’ soltanto una sublimazione del valore della natura che esalta inesorabile genialità dell’uomo -pastore di se stesso- capace di superare ogni
bisogno metafisico, soprannaturale e trascendentale, sentendosi partecipe atomico, organico e non solo,
di questa natura -tutto in uno- nella quale cerco e mi cerco senza inventarmi però ne’ un dio ne’
dei profeti. Mi considero un disperso. Tuttavia diversamente dai dervisci non mi cerco in un cammino
elicoidale girando intorno al mio ombelico, ma il mio cammino e’ orizzontale, galileiano. Nel mio cammino, io, come uomo pittore e senso-coltivatore non faccio altro che pittare e coltivare con una tendenza
riduzionista un insieme di fenomeni che mi circondano. Tutto questo, per arrivare ad un eidos astenendosi
dall’elusiva sospensione dell’assenso imboccando la via d’accesso alla coscienza pura.
Cercare/Cercarsi
finché il nostro pensiero
acquisti un corpo come una presenza nell’infinita’
finché il nostro pensiero
diventi un respiro profondo come un momento
divenuto il luogo dove il tutto e’
concentrato in uno per sedimentare
una coesione cosmica.
Confrontarsi con le cose della natura
con la natura delle cose
confrontarsi con il niente
niente come assenza ontologica dell’io.
Cercare
abbandonare la mente ad una amnesia totale
14
cercarsi e
riprodursi le nuove memorie.
Parlo di pitturare, di scrivere; nel mio caso e’ la stessa cosa. In ogni piccolo gesto -della mia mano- divenuto
un pittogramma, ideogramma, oppure una sillaba, costruisco un momento enigmatico da risolvere
per indovinare l’origine di quell’istinto dell’uomo circondato di memorie non identificabili. Io non dipingo
per compiere un’opera come risultato di una riflessione soggettiva, ma per documentare una serie di sense
datum che mi conducono al mondo esterno: ciò che non appartiene al mio fisico, ma di cui sono parte. Io
non scrivo per chiamare l’osservatore ad effettuare una lettura trasferibile alla dicibilità letterale, ma per
produrre pagina per pagina un lessico intero attraverso il quale le menti possano nutrirsi dei significati
traducibili soltanto con le capacità percettive di cui l’equivoco e’ l’unico moto.
Scrivo per recuperare quella memoria lontana
scrivo per comunicare con il sub naturale
scrivo per demistificare il mito
scrivo per dialogare con il silenzio
scrivo per abbandonarmi nel vuoto
scrivo per seppellirmi nella luce
scrivo per infilarmi nella densità dell’invisibile
scrivo per affermare la mia presenza,
assediato nell’universo delle cose per collaudare un divenire noematico dell’io profondo-meditante liberando(mi)si da tutto ciò che ha somministrato la mia mente attraverso tutti gli strumenti mass-mediatici
della informazione odierna concepita come la memoria di massa che nutre di cultura(?) i nostri
intelletti, ed usare la propria memoria come una macchina ausiliare per riappropriarmi delle nuove
insegne conducenti ai nuovi noesis.
Scrivere è una densa convivenza con l’intelletto...
15
16
17
18
KALOKAGATHÒS di Rino Cardone
LA CONTEMPLAZIONE DELLA BELLEZZA PURA
Modi e forme della “bellezza estetica”
“Se c’è una cosa che dona valore alla vita umana,
questa è la contemplazione della bellezza pura”.
Platone
La “bellezza estetica” attrae, affascina e seduce; esalta lo “spirito percettivo” e inebria l’intelletto;
riempie il cuore e la mente. La “bellezza dell’arte” produce delle emozioni molto intense e delle suggestioni
fantastiche, che provocano, nella persona, un “sobbalzo intellettuale” e una vibrazione dei sensi, della mente
e dello spirito. Si tratta d’incanti, di fascini, di suggestioni e d’impressioni, che si propagano, a loro volta,
nell’etere e nell’universo, a partire da quella dimensione dell’”iperuranio platonico”, di là del cielo, dove risiedono le idee, che travalicano – nella dimensione terrena - i luoghi stessi del “finito temporale” e dell’”infinito
metafisico”.
La ”bellezza estetica” è un’energia che mai si spegne. E che esisterà sempre, sin quando continuerà a
essere presente, nella storia dell’umanità, l’armonia, il ritmo, l’equilibrio e la proporzione. Essa corrisponde
con una “oscillazione sensoriale” che attraversa la materia e lo spirito, e passa dall’anima al corpo, e viceversa. Essa si traduce - di fatto - in una sorta di “moto metempirico” che non segue le “leggi circolari” della
“dimensione transeunte” della materia, collegata al viaggio. Si tratta di un genere di “dimensione romantica” per la quale è bello, sì, vivere il presente, ma è ancora più bello tornare con la mente, con fervore e con
passione ardente, nei luoghi da dove si è partiti.
La “bellezza dell’arte” procede sempre in avanti, nello spazio e nel tempo. Essa non indietreggia mai.
Ed è regolata dalle stesse leggi che governano la casualità degli accadimenti. Gli antichi greci usavano due
parole per indicare il tempo: kairos e kronos. Il primo termine indicava il tempo logico e sequenziale, il
secondo termine designava, invece, il tempo indeterminato entro il quale accade qualcosa di speciale. Kairos corrisponde – ancora oggi - con la dimensione sincronica della storia, mentre kronos s’identifica con
la dimensione diacronica dell’Eternità. E poi ci sono lo spazio, la materia e la natura, che coincidono con la
“realtà ontologica” - della “fenomenologia dell’essere” - delle particelle, degli atomi, degli elettroni e dei
19
neutrini. E chi più ne ha, più ne metta in tal senso. La ricerca artistica si muove proprio tra queste “dinamiche
percettive” che rimandano alle frequenze del suono e della luce; alle onde elettromagnetiche della materia e
ai gradi del calore.
È indiscutibile che la “bellezza dell’arte” è permanente. Essa non teme la caducità del tempo. Quando
essa si manifesta, è sempre chiara e lampante. E una volta che si rende evidente, permane per l’eternità:
anche quando essa sembra defilarsi, per effetto di un’eccessiva carica provocatoria e trasgressiva, collegata
alla scelta delle “forme significanti” adottate dall’artista, o dallo scrittore. Lo “studio del bello” è fatto per
evolversi di continuo, per maturare e per perdurare, senza mai far ritorno a quella “dimensione della matrice” (della materia, dell’anima e dello spirito) che è all’origine di ogni cosa. E che per la parte fisica è fatta:
di cellule, che compongono il corpo umano; di neuroni, che fare parte della mente e di neutrini (chiusi in
campi elettromagnetici) che fanno da substrato, a loro volta, all’anima dell’essere umano. E quando l’anima
e lo spirito (nella loro dimensione che trascende i limiti dell’esperienza sensibile) intercettano gli stadi della
Bellezza, la loro levità diventa assoluta. Ed entra in una percezione non più terrena e fallace, ma universale
e trascendente.
È impossibile negare che le cellule rappresentano, di fatto, l’elemento essenziale su cui si fonda la
parte materiale del nostro essere. Esse sono strettamente collegate, nella loro intima essenza, al regno minerale prima, e vegetale e animale poi e, in fine, alla realtà umana. L’intelligenza, la sapienza e la conoscenza,
trovano il loro “motore epistemologico” (per raggiungere la perfetta Conoscenza) nei neuroni del cervello,
mentre la saggezza è lo specchio delle qualità dell’anima, che mai si arresta: né di notte, né di giorno e che
procede, nei Mondi di Dio, con la stessa potenza che è propria delle particelle subatomiche elementari, di
20
massa piccolissima.
Già nelle Scritture Sacre
del passato vi era una percezione esatta della natura dello
spirito e dell’anima, denominata - secondo i differenti credi religiosi – con nomi diversi:
atma, jivatma, anu-atma, o vijnanam brahman. Essa costituisce, di fatto, l’”essere in sé” e
manifesta la Coscienza umana. Attualmente gli scienziati
stanno cercando di comprendere la natura dei corpuscoli
che genererebbero la massa e che sono state battezzate come le “particelle di Dio”. Questa loro ricerca
supera la teoria della “gravitazione universale” di Isaac Newton e la “teoria della relatività” di Albert Einstein e fa propria la nuova “teoria delle stringhe”: la quale contempla il “concetto di relatività” e prevede un
universo con molte dimensioni e con diversi “piani di realtà”. La “particella di Dio” (altrimenti nota come
il “bosone di Higgs”) si comporrebbe di neutrini, il cui compito è di dare massa alle “particelle elementari”
come, ad esempio, gli elettroni e i quark. Da questa scoperta in poi, la visione che si è aperta è che i neutrini
rappresentano la prova evidente di come l’essere umano sia fatto (nella sua più intima essenza) a immagine
e somiglianza di Dio. La capacità del nostro cervello è di ricevere le frequenze del pensiero e di controllare
quel potente dispositivo che è l’ipofisi: la ghiandola situata tra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro del
cervello. L’ipofisi - chiamata anche “settimo sigillo” - governa il nostro cervello. Essa è la porta attraverso
cui attiviamo, sia la nostra capacità di contemplare la bellezza e sia la nostra abilità di operare, in maniera
logica, attraverso il pensiero.
La “bellezza estetica”
si manifesta nelle diverse
“espressioni creative” dell’esistenza. E cioè, nelle forze
della natura e nella grandezza
del pensiero umano: il quale
si manifesta, a sua volta, nelle
arti visive, nella musica, nello
spettacolo e nella letteratura. E
non basta. La “bellezza estetica” si esprime, per di più, nello sviluppo di qualsiasi voglia
concetto umano, di ogni idea
e di ogni pensiero, sia esso di
natura: scientifica, filosofica, umanistica, spirituale, sociale, o finanche morale. La “bellezza estetica” è piena
di fascino, di attrattiva, d’incanto e di splendore. Ed è anche l’”elemento motore” che dà impulso al “cambiamento” e alla “resilienza umana”: la quale corrisponde, a sua volta, con la “forza impulsiva” (appassionata e
21
irrefrenabile) che offre all’individuo la capacità di “resistere dentro” al manifestarsi della “quotidianità degli
eventi”, senza mai spezzarsi. In definitiva, la bellezza va intesa per tutto quello che non appare in “forma
definita” ma che, di fatto, è nella “sostanza intima” delle cose. Questo significa che essa va considerata per
i suoi “aspetti estetici” e per i suoi “cospetti armonici” che sono in grado di mettere la persona nella condizione di ben riuscire nella vita, a contatto diretto con il “Bello” e con il “Buono” dell’esistenza umana: una
dimensione, questa, già nota agli antichi greci che la chiamavano “kalokagathòs”.
EMILIO ISGRO’ di Serena Ribaudo
Ovvero dell’arte del cancellare
Io cancello le parole per custodirle, è un gesto di salvezza
(Emilio Isgrò)
Anticipata dalle intuizioni di Mallarmè e di Apollinaire ma soprattutto dalle ricerche Futuriste, Dada e Surrealiste, la poesia visiva nasce alla metà del Novecento e si sviluppa in Italia con caratteristiche di particolare originalità e connotazioni fondanti che ben si addicono per introdurre la complessa personalità di Emilio Isgrò.
Firenze, Genova, Napoli sono la culla dell’affermazione più totale della poesia visiva in perfetto collegamento
col ricco milieu delle Seconde Avanguardie. Il lavoro di Isgrò ha una cifra unica ed irripetibile e che si attaglia
alla poesia visiva dove la parola, diventando segno, acquista una valenza metalinguistica e una pregnanza
ontologica che la costituisce quale espressione artistica tout court. Ma sperimentando tutte le potenzialità
insite nella parola/segno e nella cancellatura della stessa, Isgrò conduce la poesia visiva fino ai suoi esiti
più estremi. Artista, poeta, drammaturgo, Emilio Isgrò nasce a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di
Messina, il 6 Ottobre 1937. La sua formazione è pervasa dalle letture di Friedrich Nietzsche, Luigi Pirandello,
Francesco De Sanctis ma anche Berthold Brecht, Federico Garcia Lorca, James Joyce. Ciò è assai emblematico
poiché palesa come la parola sia ab origine lievito spirituale ed artistico altresì fulcro della ricerca di Isgrò:
non a caso egli affianca costantemente la sua attività di poeta cancellatore a quella di poeta lineare.
Si trasferisce a Milano e poi a Venezia: è un periodo nutrito dalla conoscenza di artisti e letterati quali Enrico Baj, Arnaldo Pomodoro, Piero Manzoni, Umberto Eco, Eugenio Montale, Ezra Pound e frammento di
un’esistenza che trova la sua più prodigiosa narrazione nel romanzo autobiografico “L’avventurosa vita di
Emilio Isgrò-nelle testimonianze di uomini di Stato, artisti, scrittori, parlamentari, attori, parenti, familiari,
amici, anonimi cittadini”. Nel 1956 pubblica, presso Arturo Schwarz Editore, la raccolta di poesie Fiere del
Sud, accolta positivamente dalla critica. Nel 1964 nascono le prime cancellature: è qui che Isgrò trova la sua
vocazione più autentica e perspicua.
22
Così Isgrò stesso narra la genesi delle cancellature:
“L’idea della cancellatura mi era venuta nel 1962, quando, facendo l’editing di un tormentato elzeviro di
Giovanni Comisso, mi accorsi che tutte le correzioni apportate al testo da me o dallo stesso autore (in genere
errori di battitura del segretario e contorsioni sintattiche tipicamente comissiane) avevano creato un mare di
cancellature il cui peso era più forte delle parole. Da lì il lampo, l’idea”.
Le raffinate architetture poetico-visuali di Isgrò si impongono presto nel complesso palcoscenico dell’arte
contemporanea rivelandone le connotazioni originali e personalissime. L’artista porta a compimento, nelle
sue opere, un evento estetico in cui l’euritmico ductus sembra dominato da una sintassi interna e da una
vocazione allocutoria mentre le cancellature e le parole acquisiscono un’espressività iconica. Il messinese
cancella, da più di mezzo secolo, con cifra audace e visione cristallinamente gnoseologica l’Enciclopedia Britannica, la Treccani, la Divina Commedia, la Costituzione Italiana, il debito pubblico, il Manifesto Futurista, le
Conclusiones di Giovanni Pico conte della Mirandola, le cartine geografiche, gli illustri toscani Giotto, Datini,
Dante, Lorenzo, Savonarola, Leonardo, Michelangelo, Galilei, Machiavelli, Puccini, Malaparte. Celebre la dedica di Dino Buzzati “A Emilio Isgrò affinchè mi cancelli”. Isgrò cancella perfino se stesso nell’installazione Dichiaro di non essere Emilio Isgrò per poi recuperarsi e restituirsi al suo pubblico, chiosando stigmaticamente,
Dichiaro di essere Emilio Isgrò. Partecipa alla Biennale di Venezia nel 1972 per poi tornarvi nel 1978, nel
1986, nel 1993. Espone a Parigi, New York, Berlino, Il Cairo, Toyama, Tel Aviv, Bruxelles, Seoul, Graz, Varsavia.
Nel 2008 il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato gli dedica una significativa antologica. Il
2013 è la volta della GNAM Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma con la mostra Emilio Isgrò. Modello
Italia 2013-1964. Nel 2014 è proclamato artista dell’anno da Radio3 mentre nel 2015 la scultura Il seme
dell’Altissimo domina l’Expo di Milano.
L’opera di Isgrò è un’esaltazione del segno inteso in senso pre-assolutistico. Se cancellare è scegliere, se
cancellare delle parole è privilegiarne delle altre, l’atto artistico di Isgrò è lungi dall’essere liturgia esequiale
e di abiura. Per converso, acquisisce prepotentemente (e sorprendentemente) la coscienza di ri-scrittura.
Sconfinando nella maieutica, la volontà di Isgrò è palese: negare per ricostruire attraverso la cancellatura.
E questa stessa diventa “poesia visiva”. L’artista siciliano, come una sorta di deus ex machina, distilla certe
dominanti formali –che diventano fondamentali- per esaltarne nuovi valori semiologici e visivi. Si potrebbe
dire che Isgrò non cancella ma sottolinea il valore artistico e letterario della parola per poi restituirle quasi
una identità pittorica. Guidato da un’imperscrutabile e imprevedibile motivazione d’arte, egli fonde taches di
colore nero e pause verbali in un unico inscindibile telaio, disvelandone peraltro il deciso slancio gestaltico.
Isgrò crea istanze stratificate –gesto su gesto, segno su segno- che danno origine ad una mitopoiesi della
parola. Il logos trascende e si eleva ad una dimensione di Idea Assoluta.
Certamente l’operazione poetica-poietica di Isgrò, ovvero dell’arte del cancellare, altro non è che un processo
di distruzione/ricostruzione ed è animato da un lucido e certissimo elemento vivificatore: comunicare l’invisibile messaggio di parole fantasma che si negano per poi riproporsi in formule nuove, metaforicamente
aperte al pubblico, al mondo, a se stesse.
23
to many drugs di Luca Pontarelli
24
TESTIMONE OCULARE fotografie di Pasquale Palmieri
Trent’anni di arte di Mimmo Paladino
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
1.
Festa di compleanno dei 50 anni di Mimmo Paladino alla G.A.M di Bologna. Una splendida festa a cui
parteciparono tantissimi artisti e si concluse con una torta a forma di montagna di sale con cavalli di cioccolato. Era il 18 dicembre 1998.
2.
Il Rabdomante delle Sorgenti Nascoste, scultura realizzata nel 2007 per l’Alto Calore sulla montagna che
sorge alle spalle di Solopaca. La foto riprende un raro evento di glaciazione dell’acqua nebulizzata, che da
alla scultura la forma di un angelo. Il fenomeno non si ripeterà più perché, per evitare la rottura della scultura, la fontana si blocca con temperature prossime allo zero.
3.
Mostra alle scuderie di Palazzo Reale a Napoli. Dicembre 1995
4.
Conclusione di una scena del film Quijote, girato da Paladino nel 2006. Qui abbraccia il “Sancho” Lucio
Dalla affianco al “Don Chisciotte” Peppe Servillo
5.
Ancora una scena del Quijote di Paladino con Peppe Servillo nei panni del Cavaliere Errante
6.
Il mio primo ritratto di Mimmo Paladino. Era il 1984 e l’artista era stato invitato dalla rivista Domus ad
inaugurare una rubrica sulla moda. Realizzò questo cappello di rami e di neve che venne pubblicato in
apertura del servizio.
7.
Ritratto dell’artista. 1986.
8.
Sala del guerriero di Capestrano, allestita dall’artista nel 2010
9.
La Montagna di Sale a Milano, 2011.
10. Casa Paladino. Nevicata di Capodanno 2015
11. Labyrinthus, film realizzato da Paldino nel 2013 con Alessandro Haber nella biblioteca borrominiana di
Sant’Ivo alla Sapienza, ed ispirato al compositore rinascimentale Gesualdo da Venosa.
12. Opere dell’artista alla Focara di Novoli, gennaio 2012
13. Installazione a Ravello, in occasione del Festival, sulla terrazza che fronteggia l’auditorium Oscar Niemeyer. Estate 2013
14. Ritratto dell’artista nel suo studio di Paduli. 1993 circa.
15. Ritratto dell’artista nel suo studio di Paduli. 1992 circa16. Montagna di Sale a Napoli. 1995
17. L’artista ritrae Lucio Dalla. Stromboli, 1996.
18. Opere dell’artista in Cina, sulla Grande Miraglia. 1994
19. Ritratto dell’artista per un servizio sui segni zodiacali da lui disegnati per il magazine Sette-Corriere della
Sera.
20. Realizzazione dell’Hortus Conclusus a Benevento. 1991
21. Ritratto dell’artista durante la realizzazione dell’Hortus Conclusus a Benevento. 1991
22. Dormiente in una mostra a Villa Pisani a Stra. 2008.
42
La dinamica sonora delle forme
di Tommaso Evangelista
Intervista a Daniele Lombardi.
Daniele Lombardi è pianista, compositore e artista visivo; esperto di grafia musicale contemporanea ed
esecutiva, coltiva, dalla sua formazione, un profondo interesse per un’idea multimediale d’arte, grazie alla
doppia formazione pittorica e musicale, e una visione estetica che ingloba segno, gesto e suono. Il punto di
partenza è un’idea di percezione molteplice fatta di analogie, contrasti, stratificazioni, rotture in quanto la
ricerca, compenetrandosi su livelli diversi, risulta carica di sedimentazioni e notazioni semantiche estremamente interessanti in un discorso sulla lingua. L’arte, come la musica, non è più forma chiusa rappresentativa
bensì rappresentazione indipendente ed emergente, concreta e aleatoria al tempo stesso, fatta di eventi ma
anche di scritture (personali?) che determinano un linguaggio.
Prof. Lombardi cito una frase dal suo testo Scrittura e suono: «È stato detto che la musica comincia
dove finisce il segno ed il gesto, ma è anche vero che il segno ed il gesto cominciano dove finisce
la musica. La storia dei linguaggi è un continuo moto circolare». Penso inoltre alle composizioni
L’apprendista stregone e To gather Toghether. Vi è in tali opere una forte componente progettuale,
dichiarata negli spartiti, basata sulla sinestesia e sull’idea di strutturare un linguaggio segnico-musicale. Anche alla luce delle sue successive ricerche che hanno formulato una sorta di distanza tra
suono e immagine come vede l’utopico studio di un linguaggio tanto forte da legare queste due dinamiche espressive? Pensa sia possibile la strutturazione oggettiva di un alfabeto segnico-musicale?
E se sì su quali basi?
Penso che la strutturazione oggettiva di un alfabeto segnico-musicale da secoli sia pensata come un’oggettiva necessità, ma al
tempo stesso sia un’utopia, quella di un linguaggio condiviso,
come un processo coatto nel quale significante e significato si
identificassero in una relazione biunivoca. La storia delle avanguardie del secolo scorso ha dato ampia prova che questo pensiero, come quello di un “progresso” parallelo a quello della scienza,
sono teorie impossibili, in un contesto in continuo mutamento,
dove l’espressione artistica e musicale sono a volte il sismografo
e a volte profezia di ciò che sta accadendo.
La parola stessa “musica” racchiude significati diversi nelle varie
situazioni storiche: intrattenimento, concezione filosofica di interpretazione della realtà, liturgia religiosa, solipsistico iter verso
nuovi mondi, avanguardia tout court, insomma in una sola parola
si sono concentrate tantissime espressioni, a volte simili, a volte
43
Variazioni su rosso
dissimili, fino ad essere opposte.
Quando nel 1972 feci per la prima volta il mio “Teatro Metamusicale” all’Autunno Musicale di Como, esponendo partiture mute, il momento era caratterizzato da una babele di linguaggi arbitrari, ogni compositore
sviluppava la sua idea musicale sperimentando nuovi suoni e nuovi processi di semiosi. Si fece primaria in
me l’esigenza di una ricerca che ponesse al centro il valore subliminale di una concezione formale che ormai
andava perduta nella complessità di grammatiche sempre più astruse. Al tempo stesso l’ascolto, compromesso da questi percorsi - gli esploratori vanno nella giungla da soli - era stato ulteriormente reso enigmatico da una visione concettuale della notazione che aveva assunto un valore spaziale come formalizzazione
sintattica.
Circonvoluzione
44
Visualizzare un pensiero musicale come apparizione di forme da allora per me è stato un ponte per collegare
l’evoluzione creativa e il suo risultato potenziale: come riportare la musica al di quà - o al di là - di un impatto
emotivo, per trovare la sua logica formale. Per questa scelta l’humus a cui devo molto furono la “Mutica” di
Gianni Emilio Simonetti, ed altri artisti e musicisti come Bruno Munari, Dieter Schnebel, Anestis Logothetis,
Robert Moran, Earle Brown e poi chiaramente Cage, Bussotti...
Suono segno gesto visione tra forma e evento
Suono ed immagine si legano tra di loro secondo l’efficacia della relazione biunivoca che la notazione rende
possibile: rimane una sfida che non è stata certo risolta in quegli anni di ricerca e un problema aperto, nonostante il mutamento dovuto alla presenza forte del digitale e il suo mondo virtuale.
45
Questa esigenza formale e formalizzante, quindi, è da collocarsi giustamente prima nel clima sperimentale delle avanguardie storiche e successivamente nella visione prismatica degli anni Settanta
quando si tentava di ricomporre un senso con l’eccesso dei linguaggi. La notazione musicale, in
bilico tra aspetti semiotici, estetici ed espressivi, virava verso l’idea di “opera aperta”. Nella ricerca
di rapporti dialettici tra configurazione e indeterminazione lei è arrivato a maturare un linguaggio
visivo che giustamente considera “apparizione di forme” alla ricerca di una logica interna, di un Logos. Penso all’opera presente al CAMUSAC, Musica virtuale, del 2000 percorsa da un sottile equilibrio
cromatico e da una sorta di ponderazione che rimanda ad un contrappunto, mentre trovo Mèlos, del
2014, presentata sull’ultimo numero della rivista MOZART, una vera e propria linea di tensione nella
quale il suo linguaggio visivo è come se avesse trovato dal vuoto la propria scaturigine. E’ un’opera
dalla spazialità nuova ma con una tensione generativa in perfetto dialogo con l’architettura. Ci vuole
parlare di tale evoluzione?
Non credo si possa parlare di evoluzione, è piuttosto il risultato del consolidamento di un sistema semiografico complesso che confina e si confonde con la visualizzazione grafica di energie, con immagini che ne sono
una manifestazione in analogia con i suoni.
Nel caso di Musica Virtuale (2000) l’opera consiste in un’interazione di sollecitazioni grafiche con cromatismi e figurazioni intrecciate tra di loro, e così come si ascolta una musica, che è la somma di tante sonorità
diverse, l’immagine vive in questa immediatezza che è azzeramento in un istante del flusso. Ho chiamato
“policronia” questo attimo fermato dell’immagine istantanea. Questa notazione di fatti sonori vede la compresenza di campiture più o meno sfaldate fisse nel loro posizionamento, elementi melodici che si snodano
con un movimento potenziale più io meno veloce e infine elementi velocissimi, spesso realizzati con una
dripping.
La notazione musicale come la scrittura visiva, nel peso che danno all’immaginazione personale la
quale deve ricomporre suoni e colori, sono una sorta di “evento” che presuppone un coinvolgimento
interattivo e una visione simultanea. Tale interazione col pubblico è stata molto forte nelle sue performance. A riguardo avrei due suggestioni. Una mi viene dall’avanguardia storica, ovvero dai futuristi che nei loro spettacoli costringevano, attraverso artifici e provocazioni, il pubblico a partecipare
ed a rispondere, la seconda invece è viene dalla Teoria Eventualista formulata negli anni Settanta
da Sergio Lombardo. Se la prima ha componenti anarcoidi la seconda cerca un orizzonte maggiormente scientifico. Tra i vari punti che enuncia Lombardo per caratterizzare un’opera eventualista
vi è l’astinenza espressiva, la strutturalità, la spontaneità, l’interazione, l’eventualità e per ultimo
la profondità. Mi ha colpito in particolare quest’ultima definizione: «Questo concetto estetico, non
ancora completamente definito, richiede che l’evento modifichi la personalità di chi interagisce con
lo stimolo, indirizzandola verso ideali culturali nuovi, più complessi e più raffinati». In che misura il
suo lavoro “modifica” lo spettatore? Nell’esecuzione e/o visualizzazione delle sue opere-linguaggio
qual è il posto assegnato all’evento e come si relaziona lei, invece, con questi due spunti?
La prima modifica è l’atteggiamento che queste opere richiedono: curiosità pazienza, una crescente capacità
appercettiva che dall’analogia suono – colore, figura visiva – andamento di una struttura sonora, sollecita
ad una sintesi che evolve ciò che già era richiesto dallo spiritualismo di Kandinsky e dalla pratica di tanti
astrattisti all’inizio del secolo scorso. Questa pittura pur definibile “figurativa”, che ritraeva le energie si
46
collegava all’arte musicale, ritrae l’invisibile, era ancora lontana da tecnicismi di precise analogie e per questo
fortemente poetica. Oggi con sistemi digitali l’analogia tra visivo e uditivo è profondamente evoluta, ma nel
suo precisarsi ha perso il fascino di una libera elaborazione mentale che richiede sensibilità in espansione.
Questa facoltà sviluppa un lavoro attivo che è agli antipodi dell’alluvione audiovisiva alla quale gli attuali
media stanno assuefacendo, opposto all’idea di uno zapping, richiede forte concentrazione sul particolare
e non subire la necessità di un continuo spostamento dell’informazione visiva ed uditiva. É in sostanza una
pratica di meditazione profonda, niente di anarcoide o di eversivo, ma soltanto l’invito ad una condivisione di
un percorso interiore che proietta una capacità percettiva anche su altre esperienze visive e sonore.
Suono segno gesto visione tra forma e evento
47
é_CRI_T di Luigi Auriemma
“Il grido della scrittura”
Parole d’attesa ………………………….. sospensione dell’essere …………… corpo d’intervallo ...
……….………………………………………………………………………………………………...
…………………. corpo del passato …………………………. corpo del presente ………………….
………………………………………… corpo di tutti .………………………………………………
…………………………………………………………………..………. corpo di nessuno …………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………… lacerazione ………………. dolore ……………...
……… frammentazione ………………………………………….. grido ……………………………
…………………………………………………………………………………………………………
………………….. ciò che si scrive senza parole ……………………………………………………..
…………………………………………………………………………………………………………
………………………………………………………….
frammento
…………………………………
………………………….……………………………………………………………………………...
……………………...………………………………………………………………………………….
……………………….. scrittura che si raffigura disfigurandosi …………….…interrompendosi ….
………………………………cancellandosi…………………………………………………………..
…………………………………………………………………………………………………………
………………………………………………………………………………..……………………….
………….. scrittura che si risolve nella forma delle parole ………………………………………….
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…… frammento …………………….. singhiozzo …………………………………………………...
………………………………………………………………… scrittura frammentaria ……………..
…………………….. singhiozzo letterario …………………………………………………………...
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
… linguaggio frammentario che si risolve nel silenzio …………….. nel silenzio ../.. pausa ………..
………. nello spazio bianco ………………………… nella sospensione ……………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………… parola che si sospende nel silenzio ……………………………………………..
…………………………………………………………………………………………………………
………………………………………………………………………..............…………………………………
…………... parole non pensate …………………… trovate ………………….. prese a prestito ……
……. rubate ………………………………………….. sottratte ……………………………………..
…………………………………………………………………………………………………………
………………….. decontestualizzate e ricontestualizzate ………………… parole come oggetti ….
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
………………………………. scrittura al di fuori del linguaggio …………………………………...
….. come ……. pensare senza pensare ……………………………… parlare senza parlare ………..
48
………………………………………… riflettere senza riflettere ……………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………….. parole …………………………….. interstizi di immagini ……
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
………………………………………………… immagini vocali ……………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…… immagini in regione vocale ……………………………………………………………………..
……………………………………………………………………………………….………………..
………………………… immagini di ………………. sospensione …………………………………
………………………………………………………………………………………….……………...
…………………………………………………………………………….…………………………...
……………….. vuoto trasparente dell’attesa ………………………………………………………...
…… che si risolve nell’alternarsi continuo tra inizio e fine, tra nascita e morte.1
1
testo di presentazione alla mostra “É_CRI_T” del 2010
49
* testo di presentazione alla mostra “É_CRI_T” del 2010
Crocifissione - 2015
50
Trasparenze - 2015
51
Il “finto Paradiso” dei massmedia contemporanei,
miscelatori e maschere dell’umana verità
di Carmine Castoro
C’è una affermazione molto interessante che fa Paolo Gila nel suo Capitalesimo (Bollati Boringhieri, Torino
2013) quando chiama “vita superlativa” o “super-vita” quel mondo “iperuranio della felicità e delle delizie
che interiormente sogna ogni individuo. Non c’è più escatologia e attesa del paradiso: il futuro è nelle mani
di noi stessi… la quotidianità è male, dolore, ombra della vera vita, quella superlativa dell’eros che sprigiona
liberamente le sue forze, alla quale accede solo chi osa perseguire i suoi desideri… Nel Capitalesimo l’Altro
Mondo non è oltre la morte, ma si trova solo a un livello superiore dell’esistenza. Come un videogame, la vita
può scorrere per salti di livelli e per acquisizione di punti”.
Il riferimento dell’autore è a tutta quell’industria dell’intrattenimento e della dimenticanza collettiva fatta di
escamotage postmoderni alla depressione e alla paura di esistere: villaggi turistici, manifestazioni sportive
di grosso richiamo, crociere, oggetti “prodigiosi”, pubblicità convincenti, finanche il doping e le droghe
sintetiche, che ci garantiscono, tutti singolarmente e nel loro insieme, una provvida immersione in ciò che,
negando la distanza critica da noi stessi e dalle cose, ci può procurare solo piacere per l’occhio e l’anima, in
un regime di emulazione e di acquisto perenne, di qualcuno, di qualcosa. Bandiera di questo stile sempre
confortevole e appagante è il canale satellitare Fashion tv dove è tutto un pullulare di party nei Palais Club
più esclusivi del mondo, scorci invidiati dal jet set, night-life da capogiro, rigogliosa di ormoni e di orgasmi
dalle discoteche e dalle baie illuminate delle migliori località vacanziere internazionali, sfilate di moda coi top
brand dell’abbigliamento e dell’intimo, volti e gesta di divi hollywoodiani, settori dedicati ai consumi super
luxury, bevande esotiche, sky line edenici e incontaminati dove avere il miraggio di un relax senza ritorno alle
cinghie del lavoro, il tutto costellato da bellezze mozzafiato, mannequin curatissime e scolpite nelle forme da
diete e fitness, pin up di una sensualità quasi fumettistica, pronte per avventure on the beach che non fanno
minimamente sentire il “peso” di legami e responsabilità, ma solo la schiuma saponosa di un rito orgiastico
di massa.
Un po’ come quello che si vede nella parte centrale del Trittico del Giardino delle Delizie dipinto da Hieronymus Bosch intorno al 1490 e conservato al Museo del Prado di Madrid. Ciò che nel pannello di sinistra
è Paradiso – e quindi Dio che si avvicina ad Adamo ed Eva, e simboli di candore, innocenza, levità, castità,
intinti in colori brillanti e smaltati -, in quello di destra è Inferno – ovvero, sfumature livide e luci al vetriolo
per segnare le tentazioni, la dannazione, il fuoco che mangia le anime dei peccatori, e mostri surreali che
puniscono e braccano il vizio. Ma la curiosità è proprio legata alla zona centrale dell’opera monumentale,
poiché rappresenta una sorta di non-luogo silvestre dove tutto è permesso, senza tabù, inibizioni di sorta,
leggi e giudizi, in un lussureggiare di intrecci carnali, splendori del sesso, comportamenti pravi e corrotti,
52
in una totale liberazione di nudità, morfologie eccentriche e fuori norma, fra fontane consacrate all’adulterio
e alla giovinezza, atmosfere festose, tinte sgargianti, costruzioni da favola, animali e personaggi mitologici,
e soprattutto, in un rovesciamento degli ordini prospettici e delle geometrie e delle sembianze tipicamente
umane e florofaunistiche.
In questo parco delle meraviglie, dove tutto è esaltazione e disastro delle misure, sembra quasi assistere
a una tumescente allegoria della Totalità pseudo-logica, parossistica e incalzante sui nostri sensi che il
mondo della Comunicazione e dei Media globali sembra aver fatto attecchire dentro le nostre difese. Seppur
nell’affresco di Bosch si avverta ancora una residuale importanza data alle tipizzazioni, alle singolarizzazioni,
alle “delizie” appunto, veicolate – sembra voler dire questa parte del Trittico – dal contributo mai sgradito e
celestiale contenuto in ognuno in quanto tale, in quanto semplicemente esistente, in quanto semplicemente
venuto al mondo della carne e della gioia, è invece con la degradazione in termini di deliquio di tutto questo
che dobbiamo imparare a confrontarci oggi. Con un orizzonte, cioè, che al perturbante della molteplicità
affianca una sorta di svenimento, di mancamento, di sfinimento del Sistema stesso, proprio là dove il suo
simbolico è più forte, granitico, inattaccabile. Qui le mollezze promesse, la “sfericità” delle esistenze, mai
grame, mai mediocri, la facilità di ogni veicolazione, sono intrinsecamente legate ad una traslazione dei bisogni e del nocciolo primordiale del nostro stare al mondo, ad una offerta di riscatto pret-a-porter, e dunque
“mescolanza” e “mascheramento” diventano le due bocche di fuoco di un Media-Logos, di un Capitale Planetario del Sogno che impedisce vere comprensioni/perversioni1 ma concede infinite compressioni/diversioni.
Secondo la direzione che ho intrapreso per spiegare in tutta la sua multiprospetticità la parola “osceno” (in
Filosofia dell’Osceno televisivo. Pratiche dell’odio contro la tv del nulla, Mimesis, Milano 2013), non si può far
altro che vedere nei mass media di oggi un’attenzione sempre più spasmodica e delirante verso le proprietà
potenti del “mezzo”, piuttosto che verso la veridicità, condivisibilità e fruibilità del “contenuto”. I mass media sono sempre più, allora, mash media e mask media, ovvero, da un lato, frullatori globali che, come in un
caleidoscopio, assemblano le tessere del mosaico sociale e mentale secondo dispositivi ed effettualità che si
accomodano sulle esigenze del potere e, contemporaneamente, sullo snaturamento iperrealista dell’umano.
Dall’altro, in una sorta di danza rituale che ha le sue cerimonie, le sue “maschere” appunto, i suoi nascondimenti, i suoi ciclici ritorni, si fa copertura del vero, inteso come apertura delle possibilità ed evento che
modifica o sconvolge le certezze acquisite. Il risultato è una elettrificazione dei comportamenti, simbolizzati
solo all’interno di protocolli mercificati, e fortemente attutiti nella loro inventiva e metamorficità. Augé è
molto chiaro al riguardo: “L’attività rituale ha come scopo sia di prevenire l’avvenimento, di fare in modo
che quanto deve accadere avvenga in tempi e luoghi stabiliti, senza anticipo né ritardo… sia di spiegarlo, cioè
di ridurne la portata e l’eccezionalità, di trovare il bandolo della matassa delle diverse cause fino a quando,
chiarito nella sua interezza, e fatto rientrare nell’ordine normale delle cose, esso perda il proprio carattere
straordinario. In sintesi, l’attività rituale cerca di eliminare l’avvenimento”2.
Non si può non tornare a McLuhan e al suo The Medium is the Massage, il medium è il massaggio. Si, proprio
1
Dice Pierre Klossowski, La moneta vivente, Mimesis, Milano 2008 (pag. 68): “Il fenomeno industriale sarebbe dunque una perversione
alla rovescia instaurata dall’istinto di conservazione e di propagazione della specie; il godimento sterile dell’emozione vi avrebbe trovato il suo
equivalente più menzognero ed efficace”. E ancora (pag. 65): “Il movente della ripetizione è la costrizione. La ripetizione perversa si effettua per
mezzo del fantasma di una funzione vitale costrittiva perché inintelligibile, in quanto isolata dal suo insieme organico intelligibile”.
2
Marc Augé, Diario di guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pagg. 12-13.
53
così, “massaggio”, non messaggio. Come quello che ci si fa fare dopo un periodo stressante di lavoro da un
chiroterapeuta bravo, che ci snoda le giunture, ci tonifica i muscoli, e ci riconsegna ad una diffusa sensazione
di sollievo e benessere corporale. Quando il grande sociologo della comunicazione Marshall McLuhan si trovò
di fronte la stesura definitiva di questo suo brillante pamphlet del ’67 composto assieme alle ammiccanti
immagini di Quentin Fiore, incappò – secondo quanto racconta la preziosa testimonianza del figlio Eric – in
un beffardo quanto sontuoso refuso tipografico: una “a” al posto di una “e” poteva mandare a monte l’intero
progetto editoriale, ma egli la lasciò nel titolo poiché, per suprema ironia, quel “pesce”, come viene chiamato in gergo giornalistico, potenziava il concetto, anzi lo attualizzava, gli conferiva un più completo registro
interpretativo. La tesi di fondo, quella cui il docente canadese, autentico pensatore-cult, dedicò tutta una vita
di studi era già di per sé eversiva, e non a caso si conficcò nel coté sessantottino, anti-istituzionale, libertario
e “libidico”.
I media, grazie ai quali dialoghiamo e ci informiamo, come tutte le tecnologie, sono estensioni delle nostre
normali funzioni somatiche e psichiche, vanno a surrogare le nostre debolezze biologiche, come la ruota
rispetto alle capacità di movimento, gli utensili rispetto alle braccia, gli abiti rispetto alla pelle. Ma proprio
per questo acquisiscono, nel tempo, una tale funzionalità, una tale pervasività e fruibilità da plasmare essi
stessi gli apparati sensoriali, le modalità del pensiero e delle organizzazioni sociali. In pratica, la forma non
fa più da “prolungamento”, da corteccia antropologica, da mero sistema operativo, ma il “come” dell’azione
comincia a regolare a monte i valori, le strutture, i contenuti, i messaggi, appunto. Ecco che, allora, secondo
McLuhan, la storia, il progresso, l’evoluzione sono più figli delle tecniche usate per esprimersi e comunicare,
per tessere relazioni e progettare sistemi istituzionali, che di saperi astratti e convincimenti che vanno oltre
ogni logica. La forma, insomma, si fa “mondo”, apparato, cosmo ordinato e condizionante, e non a caso
McLuhan utilizza metafore spaziali molto forti come galassia, costellazione, “villaggio globale”, per dare
l’idea di come lo strumento eserciti un suo pre-potere sul linguaggio, le emozioni, finanche i sogni. Una
deriva deterministica che può lasciare ampi margini di critica, ma che senz’altro ben si attaglia all’epoca di
simultaneità virtuali e di ipnagogìe mediatiche nella quale viviamo immersi. Nella fase primitiva - sostiene
il filosofo di riferimento della scuola di Toronto - si tramandavano leggi e tradizioni, miti e paure ancestrali
attraverso l’oralità dei cantori, degli aedi, attraverso l’autorità dei capi-tribù e la parola era auratica e sacrale
perché vissuta come un flusso divino, sapienza degli anziani, culto da ascoltare che impregna l’anima.
Nella fase legata all’invenzione della stampa, invece, si innescano i profondi processi trasformativi dell’alfabetico fonetico: il senso più sviluppato è la vista, bisogna leggere i caratteri mobili che si dispongono sul
foglio, le parole, le frasi, i capitoli di un discorso, e questo secondo combinazioni e uniformazioni, particelle
e sequenze. Cosa ne deriva? Le prime produzioni di massa, la catena di montaggio, la “linea” come geometria-guida di un intero ambiente mentale e sociale che si arrocca sulla separazione, l’automatizzazione, e
quindi sull’intervento centralista e poliziesco da esercitare sul singolo. “All’uomo fu dato un occhio per un
orecchio”; “La mano che scrisse sulla pagina di pergamena costruì la città”; “Come la pittura da cavalletto,
il libro a stampa aggiunse molto al nuovo culto dell’individualismo. Il punto di vista privato e fisso divenne
possibile, e l’alfabetizzazione conferì il potere del distacco, del non-coinvolgimento”3.
La tipografia, in pratica, miniaturizza le grandi architetture della burocrazia e della civiltà industriale, è l’ef3
Marshall McLuhan - Quentin Fiore, Il medium è il massaggio, Corraini, Mantova 2011, le tre citazioni alle pagg, 44, 48 e 50.
54
fige di rapporti interpersonali che ambiscono a svolte democratiche, ma che spesso soggiacciono a severe
manipolazioni razionaliste. Ciò che accade con la “rivoluzione audiovisiva” che è quella del telegrafo, della
radio, del telefono e della televisione, è una svolta epocale, ma anche una sofisticata regressione a un passato
che si credeva superato per sempre. Le dimensioni della “casa umana” si rimpiccioliscono, le interconnessioni si stringono, l’effetto espansionistico dei fenomeni di urbanizzazione implode rispetto alla sensazione,
vibrante e incessante, di una vicinanza, di una solidarietà vera o imposta che sia, di un contatto senza vuoti
fra genti, merci, situazioni, stimoli. Al dato semplice subentra lo schema, al salotto, la cabina elettorale, al
pubblico, l’”uditorio di massa”; ai sistemi educativi repressivi e distratti dalla realtà, un apprendimento facile, soft, finanche umoristico e spettacolarizzato; alle due figure genitoriali che incarnavano lo scibile, una
generalizzata influenza da parte di più fonti che si intrecciano e sovrappongono fra loro.
In questo la figura e le speculazioni di McLuhan risultano, e risulteranno ancora per molti decenni, una scala
inevitabile di osservazioni e riflessioni su come è mutata la natura stessa del nostro sistema nervoso, delle
nostre percezioni, della nostra temporalità rispetto alla velocità e alla magia dei media globali di oggi. Sembriamo spettatori, con le pupille stregate dalla pubblicità, dalla propaganda politica, sintonizzati sull’incanto
delle immagini ma – ci dice l’indimenticabile massmediologo d’oltreoceano – sono di nuovo i nostri padiglioni auricolari a raccogliere retaggi e seduzioni, carezze e costrizioni, attraverso le sirene dello Schermo, i finti
inni alla gioia, la suadenza dei diktat, la morbidezza degli slogan, l’effimera musicalità con cui ci propongono
soavemente, giorno per giorno, di mutare le nostre vite in superfici di design, in composit di consumi. Oggi
la violenza è “suono”, e lo spazio è di nuovo acustico, buio, tenebroso, mitico e poco rischiarato, come nelle
grotte di un tempo, e si galleggia in atmosfere volatili, in estetiche e rituali iper-condivisi come secoli fa si
implorava lo stesso dio o si evitavano gli stessi terrori collettivi. C’è più mistica e suggestione dietro la scelta
di un reality show – ci lascia come eredità morale McLuhan – che in una adunata di preghiera con la quale
ci si ingraziava l’entità soprannaturale di turno. “La televisione richiede partecipazione e coinvolgimento in
profondità dell’intero essere. Non può funzionare come sottofondo. Ti coinvolge. Forse è per questo che molti
hanno l’impressione che la loro identità venga minacciata… In televisione le immagini sono proiettate su di
te. Le immagini ti si avvolgono attorno. Tu sei il punto di fuga”4.
In una delle vignette di Quentin Fiore, due gambe femminili accavallate e con le calze a rete segnalano lo
“strofinarsi” dell’informazione su altra informazione. Il massaggio-sexy della verità è l’imprinting di questa
era.
4
McLuhan – Quentin Fiore, op. cit., pag 125
55
Ripensare il CAMUSAC. Museo, comunicazione, didattica di Brunella Longo
Il CAMUSAC è un museo privato di recente fondazione che vuole presentarsi al visitatore come uno spazio di
opportunità, di scoperta, d’interazione e di riflessione del patrimonio artistico contemporaneo. L’istituzione
vanta una delle collezioni d’arte contemporanea più significative del meridione e pertanto, ben lungi dal
voler svolgere una semplice attività espositiva, si propone attraverso attività trasversali in linea con l’idea di
“museion” di comunicare ed educare attraverso un’intensa azione didattica rivolta al territorio.
Per far questo insieme al nostro staff abbiamo ideato una serie d’iniziative didattiche ed altre offerte formative per il pubblico. Le occasioni per una crescita ed arricchimento culturale sono, oltre agli eventi temporanei dei programmi espositivi, i workshop e i laboratori che si svolgono all’interno degli spazi del museo.
Attualmente ne sono stati attivati due, entrambi dedicati alla fotografia e progettati insieme al fotografo e
curatore Niccolò Fano.
Il primo è un corso base che avvicina anche i meno esperti alla fotografia fornendo oltre ad una formazione
tecnica di base, anche un inquadramento storico-critico e un’indagine su vari campi di sviluppo della fotografia (moda, pubblicità, sociologia, etc.). Si è partiti pertanto dalle origini di questa, con esperimenti col foro
stenopeico, per passare alla foto analogica, al colore, fino al digitale e alla postproduzione.
Il secondo “Public”, più specifico ed avanzato, concerne la street photography. La fotografia è il mezzo di
documentazione più immediato e accessibile ed in particolare la street photography permette di descrivere
in modo personale ciò che ci circonda con occhio critico. Il workshop che prevede oltre alle lezioni le esercitazioni consistenti in attività d’indagine e di ricerca svolte in esterni, si concluderà con una mostra delle
fotografie elaborate dagli studenti durante il corso all’interno degli spazi del museo.
Un secondo settore di attività riguarda i laboratori didattici e a questo scopo è stato concepito insieme a
Tommaso Evangelista e Valentina Di Raimo un progetto concernente dei “laboratori ludico – espressivi” per
bambini e ragazzi da 4 a 13 anni che avrà inizio il 1° di Giugno. Fino ad ora abbiamo svolto alcune attività
con gruppi e scolaresche, organizzate in maniera sporadica e sperimentale, mentre questa volta cerchiamo
finalmente di offrire un programma completo che si articola in una serie d’incontri dedicati ai percorsi della
storia dell’arte visiva mediante l’impiego delle più svariate tecniche artistiche. Ci proponiamo attraverso
queste attività, di favorire lo sviluppo delle funzioni psicologiche del bambino da un punto di vista cognitivo,
emotivo e motorio oltre che a incoraggiare la creatività, l’auto-espressione e la socializzazione.
Riguardo ai ragazzi delle scuole secondarie, invece, abbiamo previsto delle visite-lezioni specifiche incentrate sull’ approfondimento dell’arte contemporanea degli ultimi decenni – argomenti che spesso non vengono affrontati in classe - e delle collaborazioni nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro. Circa i tirocini
abbiamo avuto finora richieste e partecipazioni da parte di studenti provenienti dall’Accademia di Belle Arti
56
di Frosinone e dall’Università di Cassino, mentre più recentemente abbiamo aderito al progetto “Garanzia
Giovani”, il Piano europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile sostenendo giovani neolaureati con una
formazione in arte contemporanea. Ai ragazzi coinvolti è proposto un lavoro di ricerca e di approfondimento
sulla critica d’arte.
Infine la biblioteca, che raccoglie una fornita collezione di testi sull’arte contemporanea degli ultimi anni, la
critica d’arte e la fotografia, è visitabile durante gli orari di apertura del museo. Molte di queste informazioni,
insieme agli eventi, ai comunicati stampa e alle riproduzioni delle opere della collezione del Museo, si possono trovare sul nostro sito www.camusac.com. Per il futuro oltre ad ampliare la biblioteca, l’area studio e la
collaborazione dei tirocinanti, incrementeremo l’offerta didattica.
Il CAMUSAC è un luogo dove circolano le idee, uno spazio aperto per le nuove generazioni, dove è possibile
comunicare attraverso la trasmissione e la valorizzazione di un patrimonio artistico contemporaneo complesso e stratificato che, per essere messo a disposizione della collettività, deve essere valorizzato e divulgato con professionalità e competenza.
57
Intervista a Carmelo Baglivo di Francesco Pittiglio Berger
Nato a Roma, dove consegue la laurea in Architettura. Dopo le prime esperienze professionali, a Berlino e
Parigi, nel 1997 è tra i soci fondatori de IaN+, Studio che, in questi anni, riceve numerosi riconoscimenti
e premi tra i quali la medaglia d’oro all’architettura italiana opera prima. Vince, inoltre, concorsi in Italia e
all’estero ed è invitato a diverse edizioni della Biennale di Architettura a Venezia.
Oltre alla professione di architetto, Carmelo Baglivo, porta vanti un discorso di ricerca teorica e personale;
ha prodotto numerosi disegni e collage che negli ultimi anni sono stati esposti al MoMa di New York (alla
mostra dal titolo CUT’Paste), al Museo Marino Marini di Firenze (Disegni Corsari), al Maxxi (Energy), al Pastificio Cerere di Roma (ancora, Disegni Corsari) e alla Biennale di Venezia 2014 (Padiglione Italiano Innesti).
Baglivo è, inoltre, docente presso la Facoltà di Architettura di Ferrara. Il suo ultimo libro, che raccoglie parte
dei disegni, s’intitola Disegni corsari.
La figura dell’Architetto, come l’architettura in generale, oggi, sembrano essere sempre più relegate
ad un ambito esclusivamente funzionale. Quali sono le ragioni?
Direi che oggi l’architettura sembra essere un “servizio creativo”.
L’architetto ha il compito di rivestire quello che è già stato programmato, ha difficoltà a produrre oggetti
critici, oggetti che possono portare alla messa in discussione del progetto stesso.
È in questo scenario che si è sviluppata la figura dell’Archistar, come la intendiamo oggi, figura che produce
nuove forme “firmate”, cioè vende un brand. Oggi assistiamo alla ciclica strumentalizzazione dell’architettura, spogliata dalla sua capacità di trasformare la città dall’interno, per offrire unicamente bel design, affascinante e appagante. Stiamo vivendo un periodo di crisi che chiede all’architettura di produrre nuove idee,
ma all’orizzonte non c’è nulla.
Siamo, e dico siamo, senza energie innovative. Su vecchie idee s’innestano belle forme. La sostenibilità è
unica avanguardia della novità e della qualità. Ma la sostenibilità non è l’unica via di uscita, sono convinto
che il progettista debba tornare ad assumere un ruolo centrale nella società, deve però rendersi conto che
il contesto, in cui opera, non è più quello del secolo scorso, ma risulta essere più complesso, più allargato e
globalizzato, questo anche grazie alla rete. La globalizzazione ha costruito le Archistar come figure mitiche
e invincibili, che però adesso devono scontrarsi con un altro effetto della rete, la creazione di sempre più
consapevoli e agguerriti gruppi locali che attraverso i social vogliono partecipare attivamente alla trasformazione della loro città.
La scommessa è come inglobare l’aspetto partecipativo e democratico senza cadere nel populismo o alla
caccia alle streghe (a morte l’architettura). Penso che questo sia il futuro.
Un’architettura che nasce dalla partecipazione senza perdere di vista il bel design dove il bello non è la con58
Archetipi - 2014
59
trapposizione al brutto ma il risultato di un processo.
Il linguaggio in architettura, inteso come scrittura/riscrittura, è ancora possibile parlarne?
Mi soffermerei sul concetto di riscrittura.
Mi sembra che si stia sviluppando una nuova sensibilità verso il contesto visto come “materia da plasmare”,
e non come qualcosa da tutelare.
Nel corso degli anni, l’architettura che ha avuto con la storia uno stretto rapporto dialettico, ludico e spesso
violento (mi riferisco ai progetti come recupero dei centri storici di Superstudio), è stata spesso considerata
un’architettura utopica, perché, con il suo agire mina le basi ideologiche e formali su cui si basa la nostra
epoca moderna.
Non propongo di certo di costruire sul Colosseo, ma penso ad un’architettura in cui il processo di riscrittura è
così forte che l’immagine finale sia qualcosa di confuso, una nuova architettura che, come un parassita, s’innesta
sull’esistente (ricordo la mostra al padiglione italiano della biennale di Venezia 2014, curato da Cino Zucchi, che
s’intitolava “Innesti”). Dove l’esistente assume un significato più ampio fino a coinvolgere la coscienza delle
persone. Se intendiamo la riscrittura come un processo vicino alle tecniche postmoderne di svuotamento dei
significati della storia,
in modo da poter usare, anzi, tagliare e incollare, pezzi di edifici
storici, sono convinto
della definitiva fine del
postmoderno, cioè non
penso che possa rinascere. Mentre, citando
Beniamino Servino
(architetto casertano
tra i primi a teorizzare
il processo di riscrittura nell’architettura), è
interessante l’uso della
riscrittura presa dal paesaggio spontaneo, che
contiene in sé forme
autentiche e moderne
anche nella scelta dei
materiali poveri e duri
spesso usati dall’architettura contemporanea.
La riscrittura è la nuova
Less and More - 2014
interpretazione dei pa60
esaggi esistenti, presi soprattutto dai luoghi, dove l’architettura non c’è, cioè in quelle periferie dove regna
l’autocostruzione e l’abusivismo. La lezione viene da lì, l’architettura, quella degli architetti, riscrive l’esistente e si piega ad esso reinterpretando il suoi linguaggi. Non è architettura vernacolare che viene riproposta,
perché non è vernacolare l’autocostruzione, è la lettura e riscrittura di un’architettura che nasce, si trasforma
e si stratifica in relazione a fattori culturali, sociali e economici. Per questo è un’architettura spontanea già
pronta per l’uso da cui imparare moltissimo.
Ragazza con la valigia - 2014
Esistono delle regole guida o degli elementi fondamentale nella scrittura architettonica?
La fine del modernismo ha segnato la fine delle regole guida.
Sulle sue ceneri sono nate costellazioni di movimenti che hanno dato diverse risposte per la definizione
formale dell’oggetto architettonico.
Personalmente sono legato ai movimenti radicali che si sono sviluppati sul finire degli anni ’60 e ’70 (senza
dimenticare i grandi dell’illuminismo come Boullé e Ledoux). I gruppi radicali, con la messa in crisi del movimento moderno, hanno fatto propria la contestazione di quegli anni e, conseguentemente, hanno iniziato la
loro ricerca verso nuovi modelli sociali e architetture pronte a ospitarli. Per me è il modello sociale e d’uso
che crea l’oggetto architettonico. L’architetto costruisce il modello sociale e le architetture che lo ospiteranno.
Con la fine del moderno altri modi di fare architettura sono stati legittimati, cioè sono entrati a far parte della
storia dell’architettura, modi che prima erano solo timide costole del movimento moderno. Penso che il mo61
vimento radicale sia alla base di molta architettura contemporanea (pensiamo alle prime opere di Koolhaas).
Negli ultimi anni, però, abbiamo assistito al tradimento dei principi radicali, questo fenomeno ha portato a
svuotare l’architettura di contenuti sociali e a esaltare la fotogenicità della forma. La forma e la superficie
sono riuscite a rappresentare meglio il legame tra società dell’immagine, politica e potere. L’architettura ha
trovato tanti nuovi sipari, dove rappresentarsi, e ognuno di essi ha delle regole, purtroppo, su come mostrarsi!
Tempio malatestiano - 2015
Quali sono le sue regole linguistiche o i suoi principi linguistici in architettura?
Per me progettare inizia, paradossalmente, da una serie di contrapposizioni. Inizio a interrogarmi su una
serie di punti che guidano le scelte progettuali o, possiamo dire, regolano il progetto nel tentativo di portarlo
coerentemente in fondo. Perciò lavoro sulla forma dell’opera pensata come oggetto definito ma, nello stesso
tempo, penso la forma stessa come oggetto indefinito. Questa contraddizione paradossale è la prima e la più
difficile da risolvere. Non lavorando per categorie tipologiche mi trovo spesso ad affrontare questa scelta.
È importante sapere che questo non è il primo punto del processo progettuale come altri non hanno una
62
cronologia ben precisa, tutto si muove all’interno di una grande idea.
Altro punto importante è dare un’identificazione al vuoto che non è solamente la contrapposizione al pieno,
ma ha una propria indipendenza formale. Per cui forma e vuoto dialogano tra di loro. Qui interviene il fattore
tempo, gli architetti sono dei progettisti del tempo, e il tempo significa l’uso e le trasformazioni dell’oggetto.
L’architettura può essere pensata come qualcosa di vivo per cui mutabile, al contrario di un oggetto assoluto
e fisso. Comunque lo si voglia considerare non si deve dimenticare che il contesto cambierà sempre e non
solo quello fisico ma anche quello culturale. Il contesto è un altro elemento che considero chiaramente con
tutte le sua variabili e complessità. Non è unicamente fisico ma anche antropologico e culturale. Comunque
è qualcosa con cui relazionarsi a favore o contro.
Per cui direi che non posseggo regole linguistiche ma regole a-linguistiche cioè progettare è un processo e
il risultato finale è l’esito, o semplicemente una tappa, di tale percorso.
Recentemente, un famoso critico italiano ha dichiarato che il disegno architettonico non è altro che
uno sterile passatempo per fuggire dalle difficoltà e dalla routine della professione.
Molti critici hanno paura di un ritorno dell’accademia e alla supervalutazione della teoria e del disegno sulla
pratica. In Italia, negli anni ’70 e ’80, in piena architettura postmoderna, abbiamo assistito all’esaltazione del
disegno come unico strumento capace di fare architettura e teoria architettonica. Sono gli anni detti “dell’architettura disegnata”, e questo avviene soprattutto in Italia, dove viviamo il problema endemico dei lunghi
anni che passano dal progetto alla realizzazione. Aldo Rossi è insignito del Priztker per la sua ricerca teorica
legata al disegno piuttosto che per i suoi edifici costruiti.
Gli anni ’90 segna il ritorno degli architetti che si occupano del costruito e si confrontano inevitabilmente con
il mondo imprenditoriale che si è notevolmente evoluto rispetto gli anni ‘70.
Ritengo che questa svolta, che segna la ritrovata collaborazione tra architetti e imprenditori, sia stato un
grande passo in avanti rispetto agli anni precedenti, dove esistevano due fronti contrapposti: quello dove
costruire significava sporcarsi le mani; quello dove architettura significava disegno, purezza e accademia.
Questa divisione andava anche a classificare gli architetti buoni e quelli cattivi e connotava politicamente gli
stessi. Premesso questo, trovo assurdo pensare di attribuire al disegno il titolo di passatempo. Il disegno è
uno strumento di pensiero unico, capace di parlare immediatamente alla società. È uno strumento critico e
costruttivo oltre ad essere democratico. La mia domanda è: può esistere l’architettura senza disegno?
La sua Mostra “Disegni Corsari” al Pastificio Cerere, ha suscitato grandissimo interesse sia nel pubblico che nella critica.
Prima della mostra personale al pastificio Cerere avevo partecipato con alcuni disegni alle mostre CUT’Paste
al MoMa e Energy al Maxxi (con IaN+). In queste mostre ho mostrato per la prima volta la serie di disegni che
poi sarebbero diventati “Disegni corsari”, titolo della mostra al pastificio e del libro che li raccoglie.
La mostra alla Fondazione Pastificio Cerere segna l’inizio di un’esposizione più ampia del lavoro (ho prodotto
63
oltre 300 disegni) e di una prima catalogazione del materiale.
Nasce da un’idea di Emilia Giorgi (critico di architettura, insegnate e giornalista), che mi ha convinto a
mostrare la produzione di disegni che tra l’altro già pubblicavo sulla mia pagina di un noto social network.
Questo passaggio dalla rete alla galleria è stato un passaggio fondamentale, che può essere letto come la
riscoperta del luogo in architettura, cioè il valore della piazza fisica su quella virtuale. E per questo devo ringraziare Emilia. La mostra si è articolata in tre stanze che raccoglievano tre mondi. Il primo era quello dello
schizzo a mano nel disegno di architettura; il secondo mostrava il rapporto tra la storia e il contemporaneo;
il terzo, attraverso un video e delle ligthbox, raccontava l’idea della riscrittura e rilettura della città.
Interessante è stato ospitare questa mostra in una fondazione che si occupa essenzialmente di arte e sono
rimasto meravigliato dell’interesse che quel mondo ha mostrato verso le mie opere. Ho capito che quei
disegni sono proprio su una linea sottile che divide l’architettura, che molti non considerano arte, e l’arte
propriamente detta. Ho capito che i collage venivano letti dal pubblico in modo molto soggettivo, per cui ne
venivano fuori letture diverse. La mostra al pastificio ha segnato con chiarezza il confine tra arte e architettura e naturalmente ha segnato anche i possibili sconfinamenti tra le due.
Villa Barbaro e struttura
Nelle università si insegna ancora a scrivere/contestare attraverso il disegno/progetto?
Devo premettere che io insegno come docente a contratto e non con continuità. L’insegnamento mi prende
molte energie, e non ho la forza necessaria per dividermi tra professione, insegnamento e disegno. In apparenza professione, insegnamento e disegno sono una cosa sola, cioè descrivono la ricerca di un architetto,
ma è proprio su questo punto che nascono molti dei problemi dell’insegnare architettura.
Nelle università italiane è difficile insegnare la progettazione architettonica cosiddetta “autoriale”, in cui il
docente è una figura che mostra e insegna tutto se stesso, “imponendo” un proprio linguaggio, una propria
64
ricerca architettonica unica e formalmente riconoscibile. Questo perché nelle università i docenti a contratto,
cioè esterni, chiamati per insegnare il loro modo di vedere, rappresentare e costruire l’architettura, sono
ancora pochi. I docenti strutturati, cioè quelli di ruolo, tendono, giustamente, a lasciare più liberi gli studenti
e si arriva a insegnare una specie di International Style, che io definisco “indolore”, un modernismo che
tranquillizza tutti e permette di svolgere il corso e sostenere gli esami nel giusto tempo.
Ecco che perde senso il valore critico del progetto e la sua comunicazione. Poi l’avvento del digitale, con il
conseguente uso dei programmi di modellazione 3d, ha fatto il resto, appiattendo la rappresentazione architettonica unicamente a un fatto meccanico, cioè far girare un programma e produrre immagini accattivanti.
Comunque, devo dire che negli ultimi tempi vedo un nuovo slancio della ricerca sulla rappresentazione e un
rinnovato interesse verso di essa. Anche da parte degli studenti c’è la volontà di lavorare sulla rappresentazione come grande forza concettuale e come forma, per far emergere le peculiarità del singolo visto come
autore unico.
SAO KA KELLE TERRE
Interferenza poetico-visiva a cura di Tommaso Evangelista
Artisti Angelo Ricciardi, Vincenzo Merola, OPIEMME, Alessandra Maio
Foto :
Angelo Ricciardi
Vincenzo Merola
Opiemme - Sao Ko Kelle Terre - 21x29 - 2015
Alessandra Maio - nuvola 3 - 2015
65
66
67
68
69
Poesie in forma di fiore
della Classe 2° Liceo Classico Galilei, Maggio 2015, Monopoli
70
71
72
Postfazione
“CAMUSAC” Illustrazione di Francesco Pittilio Berger
73
Starter n.1
Starter rivista d’arte e cultura
Luglio 2016
www.startermagazine.it
Redazione
Direttore Responsabile: RINO CARDONE
Team di redazione: Luigi Auriemma, Massimo Di Stefano, Tommaso
Evangelista, Ümit Inatçi, Brunella Longo.
Hanno partecipato a questo numero:
Tommaso Evangelista, Martina Canale, Ümit Inatçi, Rino Cardone,
Serena Ribaudo, Luca Pontarelli, Pasquale Palmieri, Luigi Auriemma,
Carmine Castoro, Brunella Longo, Francesco Pittiglio Berger
La responsabilità giuridica dei testi è soltanto degli autori
Veste grafica di Vincenzo Auriemma
74