5. L`Africa - martinbuber.eu
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Accesso al mercato? No grazie! 5. L’Africa Ho sentito qualche volta dire da rappresentanti di organismi internazionali che gli africani vogliono essere inclusi nel mercato mondiale; ma cosa producono? Solo materie prime che sono necessarie alle industrie europee. Chissà se il giorno in cui potranno loro stessi trasformare le materie prime per esportare i prodotti finiti, il mercato sarà ancora aperto per loro! Véronique Gnanih La parola Africa oggi non sta semplicemente ad indicare un continente. Purtroppo nell’immaginario collettivo occidentale, significa miseria, violenza, malattia, debito. La retorica dell’aiuto allo sviluppo ha propagandato in maniera vincente l’idea di un continente allo sbando che senza l’aiuto occidentale non riuscirà mai a guarire i propri mali. Il 2005 è stato un anno che le ha dedicato molte attenzioni, prima con il G8 di Gleneagles e i concerti Live 8, poi col Summit delle nazioni Unite in settembre, focalizzato sugli obiettivi del millennio, ma è meglio calare un velo pietoso sui risultati. Anche l’attuale ciclo di negoziati WTO formalmente è dedicato ai paesi poveri. E se si vuole prestare attenzione alle esigenze dell’Africa non si può che partire dall’agricoltura, che costituisce la principale fonte di reddito per i suoi popoli. In questo capitolo ci occuperemo delle specificità dell’agricoltura africana per comprendere che cosa può guadagnare da questo round, sempre che qualcosa da guadagnare ci sia. 5.1. Le agricolture africane Innanzitutto l’Africa, ci limitiamo all’agricoltura, non è una realtà omogenea. I paesi del nord Africa ad esempio coltivano frutta, verdura e cereali, mentre i paesi della zona occidentale sono concentrati sul cacao e nel centro sud si produce gran parte dello zucchero. Ma, escludendo il Sud Africa che ha una economia molto più sviluppata degli altri stati, l’Africa è il continente più povero del pianeta. Dei 52 paesi che la compongono, 34 sono classificati fra i più poveri della terra. Il 70% dei suoi abitanti vive con meno di 2$ al giorno ci dice la Banca mondiale, e il fatidico prodotto interno loro pro capite era (in media) di 636 dollari1 nel 2003, 40 volte meno di quello di un cittadino dell’Unione europea. Un’altra caratteristica di questo continente è l’enorme debito pari a 320 miliardi di dollari (nel 2003), che per i suoi paesi meno sviluppati è pari all’intero prodotto interno lordo e costituisce una nuova forma di schiavitù. Le economie dei singoli paesi sono dipendenti dall’agricoltura, per molti è fonte della metà del reddito nazionale, ma la produttività rimane la più bassa, e come citano le analisi occidentali, la maggioranza produce per sopravvivere, le aziende agricole sono piccole e non competitive. 1 Agli estremi troviamo da un parte il Burundi con un PIL pro capite di soli 86 dollari, dall’altra il Sud Africa con 3.500 dollari. 38 Accesso al mercato? No grazie! 5.1.2. Cosa produce2 Come anticipato, il Nord Africa concentra la produzione su frutta, verdura, cereali e carne. I 34 paesi classificati come meno sviluppati sono invece concentrati su poche derrate come il caffè e il cotone. I paesi occidentali sono produttori di cacao e oleaginose, quelli del sud-est di zucchero. La tabella che segue mostra la quota di produzione africana nei principali prodotti. Quota africana della produzione agricola mondiale (media 2000-20004) Prodotto Quantità Percentuale della produzione mondiale (migliaia t.) Cacao 2.248 69 Caffè (verde) 988 13,1 Banane 6.706 10 Cotone 1.751 8,7 Frutta e verdura 114.823 8,7 Zucchero (di canna) 82.459 6,3 Oleaginose 7.201 6,1 Cerali 119.928 5,7 carne 9.778 4,2 Fonte: Commissione Europea, Direzione Generale Agricoltura e sviluppo rurale Dunque produce quasi tutto il cacao che consuma il pianeta, rimane un grosso produttore di caffè ma in forte discesa tanto che ne produce l’80% in meno rispetto agli anni ’80, la concorrenza dei paesi del Sud America ha eroso la quota di mercato di questo prodotto che è coltivato soprattutto dal blocco dei paesi meno sviluppati. 5.1.3. Cosa commercia3 Ben poco. La quota del commercio internazionale di prodotti agricoli detenuta dall’Africa è stata mediamente del 6% nel periodo 2000-2003. L’esportazione si concentra su pochi prodotti, nell’ordine: cacao (28,2% di quanto commerciato a livello mondiale), zucchero (21,6%), caffè e te (15,3%), cotone (7,4%), frutta e verdura (7,4%). Dunque il commercio segue le linee delle politiche coloniali che sfruttavano il continente come fonte di materie prime, che non generano ricavi significativi perché hanno, come rilevato in altri parti di questo lavoro, prezzi in cronico calo e rendono l’Africa ancor più in balia delle oscillazioni del mercato. E’ bene anche notare che per questi prodotti, escluso lo zucchero, i mercati occidentali sono già “aperti”. Dipendenza da esportazione di materie prime agricole e povertà: Paese Anno di % malnutriti % del prodotto maggiormente massimo PIL pro 1998-2000 esportato rispetto al totale capite delle esportazioni Guinea Bissau 1997 Rep. Democratica del 1975 73 Congo Rep. Centroafricana 1977 44 57 Etiopia 1983 44 89 Mozambico 2001 55 91 Burundi 1991 69 96 Mali 1979 20 84 Burkina Faso 2001 23 74 Niger 1979 36 95 Sierra leone 1982 47 58 Fonte: Thomas Lines, Sustaining a Future for Agriculture conference, Geneva, November 17th, 2004 2 Dati ricavati da MAP Monitoring Agri-trade Policy, edito dalla Commissione europea, Direzione Generale Agricoltura e sviluppo rurale, giugno 2005. 3 Anche i dati sul commercio hanno come fonte la Commissione Europea. 39 Accesso al mercato? No grazie! Relativamente al commercio inter-africano, il cui sviluppo sarebbe certamente un bene, va segnalato che è molto ridotto, riguarda i paesi della Comunità per lo sviluppo Sud Africana (South African Development Community SADC) e l’Unione Doganale Sud Africana (South African Customs Union SACU) e alcuni paesi senza accesso al mare. Tutti gli altri esportano in altri continenti, anche a causa della mancanza di vie di comunicazione interne, quelle esistenti, di origine coloniale, servivano solo a raggiungere il porto più vicino per trasportare in occidente le risorse prelevate. Dunque affrontare il problema del calo dei prezzi di cacao, zucchero, caffè, cotone eccetera sarebbe il primo, più immediato aiuto per l’agricoltura africana 5.2. Il WTO Ci avevano detto di specializzarci nelle colture da esportazione per incrementare il nostro reddito, regolare la produzione ed eliminare l’insicurezza alimentare. E’ successo esattamente il contrario. Alla fine abbiamo dovuto accorgerci che fondamentalmente noi africani mangiamo cose che non si trovano sul mercato mondiale, perché il cibo è essenzialmente legato alla cultura e alla tradizione. In tutta l’Africa noi consumiamo essenzialmente miglio, sorgo, germogli, radici e frutti. Coltivare per l’esportazione ha significato smettere di coltivare i prodotti che ci servono per nutrirci, diventando ancora più dipendenti dall’estero, perfino nel cibo. Tutto questo ha aggravato la nostra povertà. Saliou Sarr, Presidente della Federazione degli agricoltori di riso del Senegal La maggioranza dei paesi africani è membro del WTO4, pertanto vista l’importanza dell’agricoltura per l’intero continente, vi è grande attenzione verso il negoziato per il rinnovo dell’AoA nell’ambio del ciclo di Doha. In Africa, l’accordo scaturito dall’Ur non era mai stato percepito come equilibrato ma era viva la speranza che fornisse un meccanismo concreto per mettere le briglie ai paesi industrializzati, disciplinando le loro politiche di sostegno agricolo. Come già visto, dieci anni di applicazione dell’AoA hanno deluso totalmente queste speranze, per contro gli impegni applicativi per l’Africa sono stati anticipati dalle prescrizioni del Fondo monetario internazionale. • Pertanto nessun paese africano5 al termine dell’Ur aveva sussidi distorsivi da ridurre, ovvero tutti avevano la scatola gialla completamente vuota. 6 • La spesa continentale classificata nella scatola verde era di soli 315 milioni di dollari, pari allo 0,24% della spesa totale dei paesi membri del WTO • Nessun paese africano aveva misure da porre nella scatola blu • Solo tre paesi, Botswana, Namibia e Swaziland si sono riservati il diritto di applicare la clausola speciale di salvaguardia su alcuni prodotti, gli altri hanno semplicemente stabilito tariffe consolidate molto più elevate di quelle applicate. • La possibilità di elargire sovvenzioni non soggette a riduzione fino ad un importo pari al 10% del valore della produzione agricola nazionale (i de minimis) non è stata sfruttata per le limitate risorse finanziarie. • In generale i paesi hanno incontrato difficoltà nell’adeguarsi agli standard sanitari e fitosanitari richiesti per i prodotti d’esportazione. Vista l’astuta applicazione dell’AoA da parte dei paesi occidentali, i mercati del Nord non si sono aperti grazie all’accordo agricolo ma attraverso le preferenze accordate tramite accordi specifici. Ecco perché questo argomento è uno dei temi che i paesi africani stanno sollevando a Ginevra con insistenza. 4 Su Africa e WTO vedi anche “Africa ed AoA”, scritto dall’autore e da Abdoulaye Bah nel luglio 2003 per la campagna “Questo mondo non è in vendita”, disponibile su www.beati.org/wto 5 Sud Africa escluso. 6 Fonte: ICTSD, African Countries and the Agreement on Agricolture, marzo 2002. 40 Accesso al mercato? No grazie! 5.3. Le preferenze commerciali [le preferenze commerciali] offrono benefici significativi ad alcuni paesi, principalmente ai paesi in via di sviluppo a maggior reddito. I benefici economici per i paesi meno sviluppati sono stati modesti. Rapporto Dipartimento Agricoltura USA su preferenze commerciali in agricoltura7 I sistemi di preferenza commerciale8 consistono in corsie privilegiate per l’esportazione dei prodotti africani (e non solo). Sono delle eccezioni al principio di nazione più favorita che in ambito WTO rende illegale il trattamento preferenziale di un paese rispetto a un altro. L’eccezione è consentita dal WTO stesso secondo alcune regole9. Il meccanismo delle preferenze è molto semplice: se un paese applica un dazio su un prodotto importato, qualsiasi sia il paese di origine, con la concessione di una preferenza decide di applicare ad un determinato blocco di paesi un dazio inferiore o addirittura nullo, in modo da favorirlo rispetto ai concorrenti. In realtà nella pratica si tratta di un sistema più complicato poiché talvolta la concessione è espressa come quantità e perché vi sono innumerevoli e perverse condizioni che ne limitano l’efficacia. Dopo il 1996 il loro numero è aumentato velocemente tanto che nel 2001 il WTO registrava non meno di 28 iniziative di accesso al mercato in favore dei paesi meno sviluppati. Le iniziative principali sono ovviamente quelle dell’Unione Europea attraverso il suo Sistema di Preferenze Generalizzato (Generalised Systems of Preferences GSP) e quello statunitense, operativo dal 1976. Gli USA nel 1983 vararono un programma a favore dei paesi Caraibici attraverso il Basin Economic Recovery Act (CBERA) e nel 1991 uno analogo destinato ai paesi Andini. L’Europa annovera le preferenze concesse ai paesi ACP e nel 2000 ha varato l’iniziativa Everything But Arms (EBA) con la quale ha azzerato totalmente i dazi sulle importazioni provenienti dai paesi meno sviluppati. Sempre nel 2000 gli USA hanno approvato l’AGOA10 (African and Opportunity Act) a favore dei paesi africani. Stante queste premesse viene da chiedersi di quale ulteriore accesso al mercato i paesi meno sviluppati abbiano bisogno. Ma perché questa proliferazione? Innanzitutto perché sono il risultato logico della filosofia che considera il commercio come la miglior forma di aiuto; Raul Prebisch, segretario generale della prima Conferenza ONU sul Commercio e lo Sviluppo (l’UNCTAD), sosteneva nel 1964 che il trattamento preferenziale per le esportazioni dei paesi in via di sviluppo avrebbe aiutato le loro imprese a superare le difficoltà incontrate nei mercati d’esportazione. Lo slogan “commercio piuttosto che aiuto!” (trade rather than aid) divenne inscindibile da questi programmi. D’altro canto, per il paese “donatore” risulta molto più facile concedere una maggior apertura di mercato ad un piccolo paese piuttosto che stanziare aiuti finanziari, dopotutto una preferenza commerciale, al momento della sua concessione non costa nulla ad un bilancio governativo. A due colossi come l’Ue o gli USA accordare tariffe zero a tutte le importazioni dai paesi meno sviluppati, risulta un impegno poco rilevante poiché questi paesi hanno ben poco da esportare e perciò non minacciano alcun settore produttivo domestico (nei casi di minaccia, i sistemi di preferenza concordati hanno stabilito tutta una serie di clausole 7 United States Department of Agricolture, “Agricoltural Trade Preferences and the Developing Countries”, Econimic research Report N.6, disponibile su www.ers.usda.gov 8 Vedi un interessante articolo di approfondimento di Andrew Mold, economista della Commissione Economica per l’Africa, pubblicato su Bridges (ICTSD) nel gennaio 2005, da cui sono tratti molti riferimenti di questa sezione. 9 Tramite l’Articolo 24 del GATT e la cosiddetta “Enabling Clause” del 1971, estesa nel 1979. 10 Si tratta di una iniziativa approvata nel 2000 che offre preferenza tariffaria a 48 paesi dell’Africa Sub-Sahariana. 41 Accesso al mercato? No grazie! difensive), al contrario rispondono all’esigenza di importare quelle materie prime che servono al sistema produttivo domestico. Ma torniamo all’efficacia di queste preferenze. Hanno ragione i paesi africani a temere per la loro erosione per effetto della riduzione generalizzata dei dazi che si sta negoziando? E’ infatti chiaro che ogni abbassamento dei dazi concessi a tutti i paesi riduce il margine di preferenza. Sono ormai molti gli studi sull’effettivo beneficio delle preferenze, basati su dai statistici spesso poco confortanti. Ad esempio se guardiamo alle esportazioni dei paesi ACP in Europa notiamo che dalla nascita della convenzione di Lomé nel 1975, al 2000 la loro percentuale è calata dal 7,7% a una quota del 2,7%. Come mai? Secondo alcuni economisti il problema è che le preferenze condizionano negativamente il paese beneficiato perché lo spingono a specializzarsi sui prodotti oggetto di preferenza che sinora sono quasi sempre stati materie prime, perché sono sistemi complicati con regole di origine vincolanti e perché sono forme di aiuto unilaterali. Non per nulla la banca mondiale li ha chiamati patti col diavolo per sottolineare il loro effetto distorsivo sul commercio. Altre volte le preferenze sono relative a un set di prodotti che non corrispondono alle capacità produttive del paese “beneficiario” oppure il margine di preferenza accordato è basso ed insufficiente a rendere competitive le sue esportazioni. Anche secondo i dati dell’UNCTAD l’aumento delle esportazioni dei paesi meno sviluppati è stata limitata e non è neppure esattamente coincisa con la concessione delle preferenze. Importazioni dei paesi che compongono il Quad dai paesi meno sviluppati e dagli altri Paesi in via di sviluppo (PVS): Importatore Canada UE Giappone USA esportatore Paesi meno Altri PVS Paesi meno Altri PVS Paesi meno Altri PVS Paesi meno Altri PVS sviluppati sviluppati sviluppati sviluppati Percentuale totale importazioni 1982 1992 2002 0,1 0,2 0,2 12,4 12,5 17,4 0,8 0,5 0,6 21,2 13,9 16,5 0,7 0,5 0,4 62,4 49,7 59,4 1,0 0,8 0,8 41,3 40,3 47,2 Fonte UNCTAD su dati FMI. La tabella mostra che se la quota di importazioni dai paesi meno sviluppati nell’Unione Europea era dello 0,8% nel 1982, nel 2002 era scesa allo 0,4, analogo trend vale per gli USA e il Giappone, solo il Canada, fra i quattro paesi che compongono il Quad11, non registra un calo. Un esempio di impatto estremamente limitato, soprattutto rispetto alla pubblicizzazione dell’iniziativa, è stato quello della Everything But Arms (EBA), che ha azzerato i dazi sul 99% delle 10.401 linee tariffarie dell’Unione Europea. Perché? Perché il 98% delle esportazioni dei paesi dell’Africa sub-sahariana già godevano di accesso duty-free attraverso l’Accordo di Cotonou ed i tre prodotti che maggiormente avrebbero incontrato gli interessi dei paesi beneficiari sono stati sinora esclusi12. 11 Col termine Quad in ambito WTO si indicano USA, UE, Canada e Giappone, che prima dell’avvento del G20 erano i principali protagonisti dei negoziati. 12 I tre prodotti sono: riso, banane e zucchero. 42 Accesso al mercato? No grazie! Everything But Arms o Nothing But Sugar? Esaminando questo trattamento preferenziale stabilito dall’Unione Europea nel 2001 non può sfuggire il titolo conferitole, sicuramente partorito dopo attenta riflessione. E’ istintiva una reazione positiva a una preferenza accordata a qualsiasi prodotto tranne che agli armamenti; peccato che i paesi meno sviluppati di armamenti in Europa ne esportino pochi, anzi per nulla! Vale piuttosto il contrario. Peccato anche che quel “tutto” scritto nel 2001 non prevedesse i tre prodotti più esportati da questi paesi (accadrà nel 2006/2009) e peccato che trattandosi di una iniziativa unilaterale, l’EBA potrebbe essere modificata o cancellata senza alcun vincolo legale, in qualsiasi momento. Perciò nel concreto l’EBA non è stata di grande beneficio per i PMS e l’OCSE lo ha dimostrato in un suo studio evidenziando che solo il 3% delle esportazioni africane ha utilizzato lo schema EBA*. Qualcuno ha giustamente detto che, vista l’importanza dello zucchero per i paesi meno sviluppati sarebbe stato maggiormente d’aiuto una iniziativa che si limitasse ad aprire le porte alle esportazioni di questo prodotto, insomma qualcosa tipo “niente ma almeno lo zucchero”. * OECD (2004), Assessment of Utilization and Motive for Under-Utilization of Preferences in Selected Least Developed Countries, 21-22 ottobre 2004. Le linee tariffarie agricole UE sono in totale 2.374, il 14% sono esenti da dazi per qualsiasi paese (sviluppato o no), con il programma GSP l’Ue ne concede un ulteriore (esiguo) 4% ai paesi in via di sviluppo, percentuale che sale al 60% per i paesi ACP13. Sotto la GSP lo “sconto” sui dazi è limitato al 2%, dunque non molto, anzi sui prodotti sensibili la preferenza scompare tant’è che la tariffa standard sui prodotti lattiero-caseari è del 68,4% e rimane praticamente uguale (68,0%) sotto il sistema GSP mentre cala di poco (60%) per i paesi ACP. Nel 2002 il 90% delle importazioni agricole USA sotto preferenza erano originate da 20 paesi, per l’Ue la percentuale era del 66%. Fra i maggiori beneficiari sei sistemi GSP troviamo i maggiori esportatori agricoli, compresi Brasile, Argentina, India, Indonesia e Colombia. La maggior parte dei paesi più poveri non sembra beneficiare dagli inventivi di questi programmi. L’Agoa americano non si discosta molto da questa filosofia ed ha avuto effetti benefici solo su alcuni paesi evidenziando che occorre avere un minimo di capacità produttiva e di sviluppo economico per poter trarre vantaggi dalle aperture di mercato offerte dalle preferenze. Le preferenze esistenti mostrano in sostanza che la loro portata è stata sovrastimata e che i benefici sono limitati a pochi prodotti e a pochi paesi, guardacaso quelli che hanno sistemi produttivi sviluppati, quelli che sono meno poveri. Ma perché i paesi gratificati dalle preferenze non investono in modo da poterle sfruttare per diversi prodotti piuttosto che concentrarsi su pochi? Forse perché queste “autostrade commerciali” non sono esenti da regole; in particolare vi sono regole di origine che stabiliscono la percentuale di lavoro che deve essere fatta nel paese esportatore. Per i prodotti agricoli non trasformati non c’è problema, ma per gli altri significa che se non esiste capacità produttiva per effettuare tutto il lavoro di trasformazione localmente, la via preferenziale non esiste. Un altro problema è che si tratta di iniziative unilaterali che i paesi donatori possono ritrattare in qualsiasi momento. Ad esempio nel 1991 gli USA cancellarono le preferenze accordate all’India perché consideravano irragionevole il suo sistema di protezione delle 13 Cifre ricavate da United States Department of Agricolture, “Agricoltural Trade Preferences and the Developing Countries”, Econimic research Report N.6, disponibile su www.ers.usda.gov 43 Accesso al mercato? No grazie! proprietà intellettuali cosicché Bush senior nell’aprile del 2002 sospese 60 milioni di dollari di privilegi commerciali. Le preferenze sono infatti una forma di politica estera più che uno strumento di aiuto. Questa loro arbitrarietà influisce sui paesi riceventi che invece avrebbero bisogno di garanzie di durata prima di investire nello sviluppare nuove produzioni. La sensazione è che siano un facile strumento per i paesi industrializzati per mostrarsi sensibili ai problemi dei paesi poveri ma che poi nella realtà siano totalmente inadeguati a questo scopo. Aprire le porte a esportazioni inesistenti non risolve alcun problema. Un paese povero, privo di un sistema produttivo “sano” può essere gratificato di accesso duty-free nei maggiori mercati d’esportazione ma non sarà mai in grado di sfruttarli. Dire che il commercio è la strada maestra per uscire dalla povertà in questi casi è assolutamente falso. Per aiutare concretamente questi paesi occorrerebbe sviluppare il loro mercato interno, creare infrastrutture, permettere alle loro imprese di svilupparsi proteggendosi dai mercati stranieri. Fare in modo che la gente trovi un lavoro e guadagni abbastanza da vivere, potendo comprare ciò di cui necessita. Solo un sistema che sa reggersi sulle proprie gambe può pensare di confrontarsi a livello internazionale. Così come sono oggi definite, le preferenze sono funzionali a un sistema che prevede luoghi separati di consumo e di produzione in cui il vantaggio comparato è dallo sfruttamento delle risorse e del lavoro umano. 5.4. La crisi del cotone: soluzione in vista? Produciamo molto cotone, ma poco miglio, niébé e sorgo, con i quali ci nutrivamo bene. Vendiamo il cotone per avere soldi, ma non ne abbiamo mai abbastanza. Siamo schiavi del denaro e del mondo esterno. Ognuno è costretto a lottare per se stesso. Un contadino dell’Africa occidentale14 I sussidi domestici che distorcono il commercio internazionale del cotone devono essere eliminati entro e non oltre il 21 settembre 2005. Proposta firmata da 53 paesi africani sull’iniziativa settoriale del cotone il 19 aprile 2005 Il cotone15 un tempo era chiamato l’oro bianco in Africa, ma oggi, dopo il catastrofico andamento dei prezzi, nessuno osa più fare questo paragone. Dalla metà degli anni ’90 il prezzo di vendita del cotone è sceso del 50% e la causa principale di questo andamento è attribuita agli ingenti sussidi americani. Il cotone, per milioni di africani, è fonte essenziale di reddito, solo nei paesi dell’Africa centrale ed occidentale, più di dieci milioni di persone dipendono direttamente dalla sua produzione. Di fronte alla situazione di crisi, i quattro paesi maggiormente coinvolti, nel 2003 decisero di ricorrere al WTO proprio per ottenere giustizia di fronte agli effetti distorsivi dei sussidi americani. L’iniziativa sul cotone rappresenta dunque un caso perfetto per il WTO per dimostrare il suo genuino impegno a stabilire “regole di commercio multilaterale modellate e decretate in accordo con i principi fondamentali di trasparenza […] e non-discriminazione tra stati membri”, per dirla con le parole di Blaise Compaore, presidente della repubblica del Burkina Faso . Compaore, si presentò di persona davanti al Consiglio generale del WTO il 10 giugno 2003 spiegando che l'applicazione della politica commerciale del WTO aveva condotto molti stati africani a modificare le rispettive politiche commerciali ma che gli effetti delle 14 Citazione tratta da “La via del Cotone: sulla buona strada”, http://mondo.roba.coop/Cotone.htm Su questo argomento si consigliano i materiali prodotti dalla campagna “La via del Cotone”, promossa da Tradewatch (www.tradewatch.it), http://mondo.roba.coop/index.asp 15 44 Accesso al mercato? No grazie! riforme erano state annullate dai diversi tipi di sussidi ancora in essere da parte di alcuni stati membri del WTO, “in totale contraddizione con i principi fondanti del WTO stesso”. Il WTO acconsentì a inserire il tema nell’ordine del giorno della Conferenza ministeriale di Cancun ma fallì l’obiettivo di risolvere il problema sollevato dai quattro paesi africani che chiedevano: • l’eliminazione dei sussidi all’esportazione da parte dei paesi che li utilizzano nel giro di tre anni; • la cancellazione dei sussidi domestici in quattro anni a partire dal gennaio 2005; • la creazione di un fondo di emergenza per sostenere i propri produttori nel periodo di transizione; • la negoziazione di una soluzione nell’ambito del Doha round utilizzando una corsia preferenziale sganciata dai negoziati agricoli. Nell’accordo che nella notte del 1 agosto 2004 ha rilanciato il Doha round, nulla di quanto sopra elencato è stato recepito. Nessun fondo compensativo è stato creato, nessun impegno di cancellazione dei sussidi è stato preso e neppure è stato attribuito un canale negoziale indipendente all’iniziativa settoriale del cotone. Unica concessione, la creazione di un (sotto)comitato, gerarchicamente dipendente da quello agricolo, e l’impegno a considerare soluzioni finanziarie di aiuto nel contesto delle istituzioni di Bretton Woods: Banca mondiale e Fondo monetario, le due realtà che hanno contribuito a creare la situazione attuale di emergenza, imponendo in passato le regole del Washington Consensus. I sussidi sono in effetti uno dei pezzi del puzzle che compone il problema ma certo non l’unico. Prima sono stati i piani di aggiustamento strutturale targati Banca mondiale/FMI a prescrivere la rimozione dei sistemi statali che garantivano il prezzo del cotone negoziandolo con i commercianti, la cancellazione dei sostegni, la liberalizzazione della produzione e l’apertura dei mercati, che ha fatto chiudere i battenti a molte imprese tessili locali. L’iniziativa del Brasile Parallelamente all’iniziativa africana, il Brasile, grande esportatore di cotone, decise di passare alle vie legali, citando in giudizio il governo di Washington nel settembre 2002. La corte incaricata di dirimere il caso gli diede ragione dichiarando che una parte rilevante del programma USA di sostegno ai propri produttori era illegale. In particolare, la sentenza ha messo nero su bianco che i sussidi interni americani, pari a 13,1 miliardi di dollari elargiti dall’agosto 1999 al luglio 2003, sono fonte di danno economico per il Brasile poiché hanno abbassato il prezzo internazionale del cotone, che i sussidi pagati all’industria tessile USA per utilizzare cotone nazionale violano le clausole dell’accordo relativo ai sussidi e alle misure cautelative e che le garanzie ai crediti all’esportazione (forme di credito particolari per favorire l’esportazione) costituiscono una forma di sussidio vietata. La sentenza di appello ha richiesto al governo americano di sospendere l’uso dei sussidi giudicati illegali a partire dal 1 luglio 2005, ma la scadenza non è stata rispettata. Nel frattempo per i coltivatori africani le condizioni di vita si fanno sempre più misere. Non solo nei quattro paesi protagonisti dell’iniziativa, ma in tutti i paesi africani produttori di cotone il calo dei prezzi è drammatico. Nell’ultima stagione commercializzata i contadini dello Zimbabwe avevano chiesto 3.600 dollari locali per Kg ottenendone, al termine della trattativa con i compratori, solo 1.900. Di conseguenza la produzione locale è calata del 50%. Quest’anno la richiesta dei coltivatori è di 6.000 dollari al chilo (si tratta sempre di dollari dello Zimbabwe e non di dollari USA) mentre i compratori ne offrono 2.000 citando la caduta del prezzo internazionale da 0,7$USA a 0,4. 45 Accesso al mercato? No grazie! Ma quanto cosa a un contadino dello Zimbabwe produrre un chilogrammo di cotone? Da 3.800 ai 4.500 dollari locali, il che significa che per il raccolto della passata stagione hanno ottenuto la metà del costo di produzione e quest’anno otterranno ancor meno. A Ginevra il lavoro dell’apposito comitato stabilito con l’accordo di luglio 2004, prosegue senza risultati tangibili. I paesi africani si ostinano a chiedere un accordo in tempi brevi, entro e non oltre la prossima ministeriale di Hong Kong, ma gli USA, con l’appoggio dell’Europa stanno sempre più spostando l’accento dal commercio agli aiuti, sostenendo che i paesi africani hanno bisogno essenzialmente di “assistenza allo sviluppo”. Nell’incontro del comitato cotone tenutosi a Ginevra il 29 aprile 2005 la Commissione europea ha promesso 15 milioni di euro di aiuti ai paesi ACP; altri 25 milioni saranno versati sul nuovo fondo creato dalla Banca mondiale, il “Global Index Insurance Facility”. Altri soldi ha promesso di versare direttamene a Burkina Faso (10 milioni di euro), Mali (15), Benin (10 milioni) e Ciad (5 milioni) . Il Giappone e il Canada hanno fatto eco a questi annunci promettendo di fare la loro parte mentre gli USA hanno hanno anticipato l’intenzione di finanziare un progetto di 198 milioni di dollari in quattro anni in Benin e di 212 (in cinque anni) in Mali nell’ambito del Millennium Challenge Corporation (MCC), una iniziativa varata nel gennaio 2004 dall’amministrazione Bush, per contribuire allo sviluppo dei paesi poveri, fornendo assistenza a quelli “che hanno un buon governo, investono nei loro popoli ed incoraggiano la libertà economica”. Tutta questa “generosità” serve ad evitare di modificare la politica dei sussidi confermando ancora una volta che l’appellativo di “round per lo sviluppo” è assolutamente improprio. Per Hong Kong, prossima fermata del treno WTO, la prospettiva è di continuare per la solita strada: proprio in questo caso in cui il commercio potrebbe essere di aiuto per i paesi africani, le regole paiono immodificabili. 46 Accesso al mercato? No grazie! 5.5. Cosa si può ottenere dai negoziati agricoli? Occorre cambiare rotta e porre l’accento sulla missione primaria dell’agricoltura, che è quella di nutrire la popolazione del proprio paese. […] L’unica arma che hanno i paesi del Sud è la protezione mediante i diritti di dogana. Proporre un commercio senza diritti di dogana significa liquidare ancora una volta l’Africa e il suo sviluppo. Saliou Sarr, Presidente della Federazione degli agricoltori di riso del Senegal Potremmo porre questa domanda utilizzando le parole usate da Tim Groser nel presentare a fine luglio la situazione del negoziato agricolo: come assicurare un ritorno da questo round in termini di sviluppo? La sua etichetta di round per lo sviluppo cosa può significare in agricoltura per il continente più povero del pianeta? Potrebbe innanzitutto tradursi nel tentativo di affrontare il problema dei prezzi dei pochi prodotti agricoli esportati, come abbiamo visto in precedenza. In effetti sei paesi africani: Costa d’Avorio, Kenya, Ruanda, Tanzania, Uganda e Zimbabwe hanno presentato il 16 giugno 2005 un documento16 affermando di credere che “il Doha Development round possa mantenere l’appellativo solo se saranno stabilite misure che daranno un forte contributo nel risolvere i problemi posti dal declino dei prezzi delle derrate agricole”. Ma potete leggervi e rileggervi l’accordo di luglio e non troverete nulla al riguardo. Oltre che di rendere più remunerativa l’esportazione di materie prime, l’Africa ha bisogno di cibo per sfamare tutti e di sviluppo rurale. Soprattutto occorrerebbe smettere di puntare alla produzione da esportazione concentrandosi sullo sviluppo di un mercato interno per soddisfare il proprio bisogno alimentare, relegando alle importazioni i prodotti che non può produrre. Insomma basta coltivare te e caffè da esportare a prezzi da fame e poi importare cereali da mangiare, meglio coltivare cereali e una volta risolto il problema dell’alimentazione, coltivare te e caffè. Ma creare un mercato interno è possibile solo con l’aiuto di interventi regolamentativi statali, lo si chiami pure protezionismo, ma per uscire dalla povertà nessuna parola deve essere tabù. Il quadro attuale del negoziato è invece concentrato sulla richiesta di fine dei sussidi euro-americani e sull’apertura dei mercati. Lo sviluppo è solo una foglia di fico per nascondere un round per nulla diverso da quelli precedenti. I negoziati commerciali non sono materia di filantropia, sono un duro confronto in cui ciascuna parte cerca di ottenere vantaggi limitando le concessioni, lo ha scritto recentemente Bernard Hoekman17: “la possibilità di ottenere un accordo con i paesi sviluppati è circoscritta al calcolo mercantile: cioè al costo percepito di tale proposta, non al fatto se abbia senso dal punto di vista dello sviluppo”. Ma allora quali possibilità rimangono ai paesi africani? In effetti gli spazi offerti dall’Accordo di luglio sono limitati: • ottenere una lista il più possibile ampia di prodotti da catalogare come speciali, da preservare da tagli draconiani delle tariffe • definire un sistema di salvaguardia ad uso dei paesi poveri, in modo che possano aumentare i dazi o stabilire limiti quantitativi in caso di eccessivi livelli di importazioni di alimenti esteri 16 Documento classificato col codice JOB(05)/113 del 6 giugno 2005 presentato al Comitato Agricolo in Sessione Speciale. 17 E’ consulente della banca mondiale e il testo di cui si fa riferimento è un articolo pubblicato sul numero di marzo 2005 di “Finanza e Sviluppo”, rivista edita dal Fondo Monetario internazionale (www.imf.org/fandd). 47 Accesso al mercato? No grazie! • • difendere le imprese di stato rimaste a sostegno dei contadini e a regolazione dei prezzi opporsi il più possibile alla riduzione dei dazi. Lo scenario può apparire eccessivamente pessimista, ma dieci anni di AoA seguiti a dieci anni di liberalizzazioni imposte da FMI e BM, indicano che ascoltare le sirene che decantano le opportunità dell’accesso al mercato sarebbe fatale. Nel negoziato attuale sperare che USA ed UE riducano in maniera significativa i loro sussidi è pura utopia, per l’Africa e per tutti i PVS l’unica via di uscita è di ottenere il diritto di difendere i loro mercati interni. In un regime di libera concorrenza difficilmente i paesi africani resisterebbero a molti altri concorrenti. Qualcuno ha ricordato che se in Ghana non arrivassero i pelati italiani, arriverebbero quelli cinesi, comunque meno costosi di quelli locali. Per le economie fragili, massimizzare i flussi commerciali significa ancorarsi alla miseria. Partire da questa consapevolezza è indispensabile per uscire indenni da questo ciclo di negoziati. L’Africa può nutrire se stessa Noi produttori agricoli africani rappresentiamo l’immensa maggioranza di quelli che sono poveri e hanno fame! Ma non vogliamo vivere di carità e di condiscendenza umanitaria! Noi non vogliamo basare le nostre società rurali sull’aiuto alimentare, per quanto generoso esso possa essere! Noi vogliamo innanzitutto vivere del nostro lavoro! Noi vogliamo che l’agricoltura e gli agricoltori vengano considerati per le loro molte funzioni e missioni: alimentari, sociali, ambientali e culturali. Un’azienda agricola familiare non è una fabbrica! E’ un’unità di produzione, certamente! Ma è un sistema di vita, un modo d’essere e di riprodurre la società! I prodotti agricoli non sono dei beni manifatturieri i cui scambi debbono essere regolati unicamente con le leggi del mercato, conti tutti imperfetti. E’ arrivato il momento che le cose cambino! E’ arrivato il tempo di altre politiche e di altri investimenti per l’agricoltura. La povertà non scomparirà dai nostri villaggi fino a quando non sarà riconosciuta all’agricoltura la missione fondamentale di affrancare i nostri Paesi dalla dipendenza alimentare, di favorire il loro accesso a una sovranità alimentare, come è successo in Europa o in America. La povertà e la fame non scompariranno dai nostri Paesi, se noi stessi, i nostri prodotti e i nostri mestieri non godremo di misure appropriate di sostegno e di protezione da parte dei nostri Governi. Messaggio della Rete delle Organizzazioni Contadine e dei Produttori agricoli dell’Africa dell’ovest al primo ministro Tony Blair e ai membri del G8 48