Atti del convegno - Dipartimento Programmazione e Attuazione

Transcript

Atti del convegno - Dipartimento Programmazione e Attuazione
TRASCRIZIONE ATTI
WORKSHOP INTERNAZIONALE
“NUOVI MODELLI DI TRASFORMAZIONE URBANA”
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA
SALA PETRASSI
8-9 APRILE 2010
1
8 APRILE 2010 - MATTINA
ALEMANNO: Questo workshop internazionale è il primo momento di un percorso che deve
attraversare momenti di vasta partecipazione popolare. Noi crediamo in un’architettura e
un’urbanistica che si sottomettono al sentimento della gente ma devono anche saper coinvolgere
grandi valori artistici e professionali. Quindi, dopo questo momento, ci saranno altri passaggi e
giungeremo nei mesi prossimi a una Conferenza urbanistica della Città che dovrà ascoltare tutte le
forze sociali ed economiche e tutte le realtà rappresentative della nostra città. È necessario, in
questa fase, fare una verifica. È un momento d’incontro - mai avvenuto prima, perché abbiamo su
questo tavolo persone e autorità che raramente si incontrano tutte quante assieme – perché i temi
e i problemi che ha la nostra città sono temi e problemi che richiedono un grande sforzo creativo,
una grande capacità artistica e una grande capacità di sintesi, senza le quali rischiamo di
continuare a perpetuare problemi antichi. Prima di svolgere il mio intervento devo ovviamente fare
dei ringraziamenti: all’Assessore Corsini, al Dipartimento urbanistica, e all’assessore Ghera, al
Dipartimento periferie, che hanno lavorato su questo convegno; a Risorse per Roma e
all’Architetto Maria Cristina Accame che hanno lavorato sul versante del coordinamento. Hanno
fatto un lungo lavoro, per giungere a questa giornata sono state necessarie settimane e mesi di
confronto, di contatti, di ragionamenti. All’ingresso avete potuto ricevere quello che è il book in cui
ci sono le relazioni che saranno in qualche modo rapidamente illustrate in queste due giornate. Si
tratta di un apporto che ha coinvolto profondamente l’Amministrazione. Ed è una capacità di
confrontarsi che deve vedere un’apertura di carattere internazionale ma la valorizzazione anche
delle risorse interne della nostra Amministrazione. Prima, parlando a una televisione, ho
sottolineato come la soluzione che abbiamo presentato ieri con l’Architetto Meier, per quanto
riguarda la teca dell’Ara Pacis, è nata da un confronto fra l’Architetto Meier, il maestro Meier, e
l’Architetto Capozzi del nostro dipartimento. L’incontro tra Capozzi e Meier ha permesso di trovare
una soluzione che supera anni e anni di polemiche che hanno in qualche modo investito la realtà
del tema dell’Ara Pacis e del nostro centro storico. Quello che voglio sottolineare è che Roma, dal
momento dell’unità nazionale, dal 1870 a oggi, ricorrono centoquaranta anni - sostanzialmente è
cresciuta senza una vera pianificazione urbanistica. Tutti i piani urbanistici, che sono stati elaborati
dal 1870 in poi, sono venuti dopo che erano state definite o le espansioni o gli accordi di carattere
sociale ed economico che hanno in qualche modo dato forma alla città. Insomma, abbiamo avuto
un rovesciamento della logica della pianificazione. La pianificazione è sempre venuta dopo che si
sono definite quelle che in qualche modo erano le caratteristiche della città. I risultati di questa
situazione sono evidenti. Noi abbiamo una stratificazione storica e funzionale nella nostra città che
è densa di contraddizioni. Abbiamo il più grande centro storico del mondo, patrimonio
dell’UNESCO, che si allarga su una città storica, che è cresciuta proprio all’indomani dell’unità
nazionale e che è cresciuta fuori dal disegno, perché chi ricorda la storia dell’urbanistica di questa
città ricorda che l’idea originaria era quella di lasciar fuori il tridente e l’area del centro storico fuori
dal centro cittadino, in maniera tale da non doverla investire di tutti quelli che erano i problemi della
mobilità e i problemi funzionali; attorno alla città storica è cresciuta una periferia in larga parte
informe, in cui si sono incontrati più interessi speculativi che non esigenze effettive di vivibilità. Noi
abbiamo appunto costruito questo workshop su due giornate: la giornata di oggi è dedicata alla
città storica e la giornata di domani è dedicata alla crescita delle periferie. E io, ovviamente, non
posso non partire dal Piano Regolatore Generale che noi abbiamo ereditato dalla precedente
Amministrazione, dicendo con chiarezza che il nostro atteggiamento rispetto a questo Piano
Regolatore è duplice. È un atteggiamento contemporaneamente di attuazione e di revisione. Del
Piano Regolatore Generale noi vogliamo difendere quello che è il compromesso fatto con gli
interessi complessivi della città. Sono stati stabiliti dei diritti che sarebbe folle oggi rimettere in
discussione e riaprire un confronto anche lacerante dopo che per decenni questo confronto è stato
portato avanti. Ma soprattutto difendiamo l’intento redistributivo del Piano Regolatore Generale.
Noi dobbiamo tener presente che il Piano Regolatore Generale, così come è stato definito e
costituito, prevede un introito per la Pubblica Amministrazione e per quelle che sono le opere
complessive di urbanizzazione e trasformazione della città per il bene comune, di circa 5 miliardi di
euro. Ma questa realtà oggi è minacciata. È minacciata dalle sentenze del TAR che si sono
aggiunte a quella che è la dichiarazione della Corte Europea sui Diritti dell’Uomo. Quali sono state
2
le sentenze del TAR? Le sentenze del TAR hanno messo in discussione quelle che sono la realtà
della definizione dei territori e degli spazi urbani che devono essere dati alle pubbliche
amministrazioni e quelle che sono la realtà dei contributi straordinari fissati per ogni intervento di
valorizzazione. Queste sentenze del TAR rischiano di minare la forza dell’intervento pubblico su
questo versante. E se a questo aggiungiamo le sentenze della Corte Costituzionale e della Corte
di Giustizia sui Diritti dell’Uomo che ha stabilito che i valori di esproprio non sono i valori computati
su quella che è la realtà del valore agricolo dei terreni, ma su quello che è il valore di mercato, noi
oggi vediamo di nuovo posto con grande forza, e forza negativa, un atteggiamento di carattere
privatistico che mette in difficoltà le amministrazioni, nel momento in cui devono intervenire per
trovare risorse per attuare il bene comune nella crescita di una città. Questo è un problema che, se
non si risolverà nelle aule dei tribunali, dovrà essere portato alle aule parlamentari. E lì, anche con
interventi di rilevanza costituzionale, dobbiamo stabilire il principio che una città non si fa soltanto
guardando l’interesse privato. Ci deve essere un punto di equilibrio fra i diritti privati, i diritti di chi
possiede i terreni e quella che è la necessità della città di perseguire un bene comune, di
perseguire una forma armonica. Che si fa appunto trovando non solo disegni, progetti ma anche
risorse per intervenire. Insieme a questo problema, c’è però un problema di revisione. Il problema
di revisione nasce su un disegno incompiuto del Piano Regolatore Generale. Se noi guardiamo le
aree che sono dismesse da quelle che sono funzioni pubbliche e che oggi arrivano a quella che è
la possibilità di intervento dell’Amministrazione comunale attraverso il federalismo demaniale, noi
vediamo che il Piano Regolatore indica genericamente queste realtà come ambiti di
valorizzazione. Ma non c’è un adeguato ragionamento sulla funzione di queste aree. Ecco, questo
è il primo elemento, è l’oggetto della giornata di oggi. Perché il problema di fondo è il seguente:
queste aree, proprio oggi messe complessivamente a disposizione della Pubblica Amministrazione
attraverso il federalismo demaniale, sono forse l’ultima grande occasione di far crescere la città
nuova dentro la città vecchia secondo un progetto armonico. È un’occasione che non ci possiamo
permettere di sciupare o di non cogliere fino in fondo. Ecco perché siamo qua. Noi dobbiamo
vedere dall’insieme di queste aree, che saranno poi illustrate e spiegate nelle relazioni che
seguiranno, quella che è la potenzialità d’intervento e di ridefinizione delle funzioni che oggi
insistono sulla città storica. E vedete, anche in questo caso, riguardando la storia urbanistica
recente, abbiamo visto tramontare e archiviare il vecchio progetto del Sistema Direzionale
Orientale che era, sicuramente, un progetto dirigista unilaterale che prevedeva in maniera
unilaterale lo spostamento delle funzioni politiche e di rappresentanza dalla città storica, appunto,
nell’asse attrezzato. Tramontato quel progetto, non si può passare a una situazione in cui non ci
sia progetto e cioè non ci sia l’idea di come andare a ridefinire le funzioni che sono proprie a una
capitale e che oggi insistono quasi tutte all’interno della città storica. Anzi, abbiamo assistito a un
processo inverso, abbiamo visto, nel corso degli anni, Ministeri riattrarre sul centro anche funzioni,
spazi, uffici che originariamente magari stavano nella zona dell’Eur o in altre zone periferiche.
Allora noi dobbiamo ragionare innanzitutto sul direzionale. E quindi capire come questi ambiti di
valorizzazione possono permettere di dare degli spazi più equilibrati a un direzionale, non solo
privato ma anche pubblico, che è il punto di sintesi fra quelle che sono le funzioni di
rappresentanza, quelle che sono realtà funzionali che attraggono e che chiamano sul sistema della
mobilità centinaia di migliaia di persone. Questo è il primo grande problema che bisogna
affrontare. Il secondo problema è quello di riuscire a comprendere se alcune funzioni specifiche,
pensiamo per esempio alla cittadella giudiziaria, possono ritrovare un disegno unitario, un disegno
che ci permetta sostanzialmente di non avere una serie di tribunali o di realtà sparse con continue
difficoltà di spostamento e senza la possibilità di avere una concentrazione di funzioni, possono
avere un ridisegno complessivo. Ma il punto centrale, e il vero motivo per cui il progetto del
Sistema Direzionale Orientale è fallito, è che nessuna grande realtà che insiste dal punto di vista
istituzionale, o dal punto di vista di rappresentanza sulla città, rinuncia al valore simbolico del
centro. Nessuno prende e va verso le centralità delle periferie. Le centralità, di cui parleremo
domani parlando di periferie, dovranno avere altre funzioni, ma non sarà quello lo strumento
perché ogni realtà, che ha rappresentanze a Roma, vuole stare al centro, vuole avere i valori
simbolici del centro. Quindi dobbiamo trovare una soluzione di alto profilo, di carattere
architettonico, di carattere artistico, di carattere urbanistico, che ci permetta di fare in modo che
queste funzioni, che rimarranno nel centro di Roma, trovino però un’armonia diversa, rispetto
invece all’aspetto propriamente turistico, artistico, archeologico della nostra città. Un altro aspetto,
che voglio sottolineare, è quello relativo ai linguaggi architettonici. Noi ieri ci siamo confrontati con
3
la realtà della teca di Meier dell’Ara Pacis. Poco distante da quel luogo c’è invece il problema della
quinta di Via Giulia che noi stiamo affrontando in senso completamente opposto. Il problema della
quinta di Via Giulia, l’unità operativa della città storica lo sta affrontando su un piano di ridefinizione
esatta, puntuale, di quello che era il tessuto preesistente, quindi senza inserimenti di
un’architettura diversa rispetto a quella preesistente. Sono i due poli estremi: un intervento
completamente diverso e un intervento di pura ricucitura. Allora il punto è con quale linguaggio
dobbiamo andare a intervenire. Noi non siamo per una definizione statica, non vogliamo pensare a
una città che viene musealizzata nel suo centro. Vogliamo trovare i punti di riferimento, i linguaggi
adeguati per trovare un equilibrio fra i nuovi interventi e quelli che sono i valori preesistenti.
Trovare uno sforzo che sia però un linguaggio attentamente studiato, non legato a singoli eventi, a
singole espressioni, ma un ragionamento che ci permetta sostanzialmente di intervenire sulla città
in termini compiuti e organici. E ripeto, quello che è decisivo non è tanto il concetto del centro
storico, quanto proprio il concetto della città storica, perché lì avviene il punto di confronto fra il
dato storico e le nuove funzioni che bisogna riallocare. Infine voglio sottolineare che questo nostro
lavoro si inserisce nel progetto Millennium e quindi, in quanto inserito in questo progetto, ha degli
obiettivi. Qui stiamo parlando dell’aspetto propriamente architettonico e urbanistico,
precedentemente con Rifkin e domani, anche con Carlin Petrini, parleremo dell’aspetto più
direttamente legato al dato dell’ecosostenibilità, del dato energetico, del rapporto con la realtà
paesaggistica e la realtà agricola della nostra città. L’obiettivo temporale è il 2020 perché il 2020 è
di fronte a noi, quello della candidatura di Roma alle Olimpiadi. Noi in questa candidatura non
abbiamo posto opere straordinariamente nuove, non abbiamo previsto la costruzione di grandi
stadi o di grandi infrastrutture. Il nostro capolavoro in quella candidatura sarà il parco fluviale del
Tevere perché la realtà del Villaggio Olimpico, la realtà degli impianti principali saranno attorno al
Tevere. Perché questa scelta? La riacquisizione del Tevere e la riacquisizione di valori ambientali
sono un dato decisivo per riqualificare la nostra città. Quindi un elemento fondamentale è proprio
questo: all’interno di questi ambiti di valorizzazione e trasformazione c’è l’idea di valorizzare, di
riprendere il rapporto con il Tevere. Questa città non riuscirà a rivivere se non riprende un rapporto
vitale, profondo, segnato da grandi valori di vivibilità, di socialità e di architettura con il Tevere.
Questo è un elemento che noi sottolineiamo con forza. Un altro dato da rimarcare è la volontà,
attorno al progetto delle Olimpiadi, di andare a portare in tutto il territorio cittadino una logica di
sostenibilità ambientale che ci permetta sostanzialmente di diventare un modello da questo punto
di vista. Roma se lo può permettere. Allora la mia conclusione è quella di dire, cerchiamo di fare in
modo che queste grandi possibilità, che sono gli ambiti di valorizzazione e la possibilità di dotare,
per la prima volta nella storia della nostra città, di un piano strategico di sviluppo, l’opportunità di
utilizzare la candidatura alle Olimpiadi non come un fatto isolato ma come una sorta di
acceleratore di questi processi, in maniera tale che questi processi abbiano valore, anche se un
domani non si svolgeranno le Olimpiadi a Roma, ma come grande valorizzazione, tutte queste
realtà ci permettono di affrontare in termini globali una realtà che deve essere risolta. Dopo
centoquarant’anni da quando Roma ha assunto la funzione di capitale nazionale, occorre
affrontare i nodi storici della sua crescita e dare le risposte fondamentali. Oggi parliamo della città
storica, domani parleremo del problema, per certi versi più drammatico, delle periferie. Ma Roma
nel suo complesso ha le energie sociali, economiche, culturali per affrontare questi problemi in un
grande confronto globale. Non si sta a Roma senza un’idea universale, questo è un vecchio
assioma che esiste in questa città, noi siamo qui a confrontarci con personalità di tutto il mondo
per sapere come il mondo guarda Roma e cosa il mondo può suggerire a Roma. Lo vogliamo fare
con grande attenzione a questi valori che sono rappresentati da queste persone ma per poi portare
questi contributi a un confronto popolare, perché il riscatto di Roma da questo punto di vista non
potrà avvenire se non ci sarà un grande scatto di partecipazione che coinvolga tutti i cittadini.
Grazie.
SCHIATTARELLA: Darei la parola all’Assessore all’Urbanistica, Marco Corsini.
CORSINI: È importante capire dove siamo, perché siamo qui oggi e capire che c’è un filo
conduttore nella storia del pensiero urbanistico di questa città. Nel 1978 Giulio Carlo Argan, grande
storico dell’arte e Sindaco storico di questa città, scriveva: Roma è una città interrotta perché si è
4
cessato di immaginarla. Si apriva così, quasi quarant’anni fa, un dibattito culturale intorno ai temi
legati allo sviluppo della città di Roma, in un periodo che era molto significativo, perché chiudeva
una lunga fase segnata, sì, dalle grandi trasformazioni urbanistiche post-unitarie e postottocentesche e quelle del ventennio mussoliniano, ma anche dalla espansione incontrollata, dal
consumo irresponsabile del territorio e dal fenomeno dello spontaneismo o, se vogliamo essere
realisti, dell’abusivismo edilizio. In quell’anno si ebbe una grande iniziativa coniata nella celebre
mostra “Roma interrotta” che era ospitata nei Mercati Traianei e in cui furono proposti dodici
progetti di altrettanti architetti di fama internazionale che si cimentarono sul tema della nuova
Roma. Non seguì, in verità, nessun comportamento concludente. Trent’anni dopo la Biennale di
Venezia, curata da Beschi, riaprì il dibattito urbanistico su Roma, con una sezione dedicata alla
città, una sezione della mostra che era intitolata “Uneternal City”, a trent’anni da “Roma interrotta”.
Anche qui dodici protagonisti dell’architettura italiana e internazionale offrirono un bel contributo
relativamente questa volta alle aree periferiche e semiperiferiche, quelle che sono chiamate le
terre di mezzo, quelle terre prive di identità e di una coerente forma urbana incluse, ma nello
stesso tempo e per questo escluse, dalla dignità cittadina. Questo breve richiamo lo faccio per dire
che Roma non cessa di interrogarsi su se stessa, anche oggi è una tappa fondamentale, e
periodicamente stimola importanti riflessioni sul suo presente e soprattutto sul suo futuro,
aprendosi al contributo dei cervelli nazionali e internazionali proprio perché è nella sua vocazione
l’internazionalità, essere patrimonio del mondo, e quindi chiedendo al mondo stesso di offrire un
contributo. Solo che, ed è qui il nodo, troppe volte l’espressione adottata e l’impressione che ne
abbiamo ricevuto è che la riflessione non ha dato luogo a quelle azioni e a quelle decisioni che
sarebbe stato lecito attendersi. Se volessimo dire un concetto, è stato sì uno stimolo di pensieri,
ma non è stato uno stimolo di comportamenti né di decisioni. Noi vogliamo fare di più. Se siamo
qui, come avevo cercato di dire all’inizio, lo dobbiamo alla tenace determinazione del Sindaco che
ha fortissimamente voluto questo momento di confronto. Cerchiamo un contributo, cosa ci
aspettiamo da questa riunione, un contributo fondamentale per una visione strategica: quella che
fino adesso, come è stato giustamente detto, è mancata alla città. La pianificazione è un valore.
Ma è un valore se obbedisce a delle scelte predeterminate, a delle scelte di lungo periodo, a delle
scelte che traducono una visione, a scelte strategiche. Oggi il tema è “La città storica”. Se
volessimo precisare un sottotitolo potremmo dire: ripensamento progettuale e riqualificazione della
città esistente, dei beni di prestigio provenienti dall’insieme di beni demaniali che perdono, o hanno
perso, la loro funzione originaria e che vengono consegnati, non restituiti, perché hanno sempre
fatto parte della città, perché se ne faccia l’uso più coerente col fine dell’interesse pubblico. Si
tratta di beni che, per estensione, collocazione e pregio, possono rappresentare veramente dei
nuovi vettori economici di sviluppo, non solo urbano, ma anche occasione di valorizzazione, e non
solo patrimoniale, ma soprattutto urbanistica, di politica urbanistica. Come abbiamo sentito, il
concetto di città storica si origina dall’estensione, è la risultante da una dilatazione spaziale e
anche culturale del vecchio concetto di centro storico. Cioè è un’entità territorialmente non più
compresa dalle Mura Aureliane ma risultante dalla somma del centro storico e dei tessuti di pregio
di parte della città moderna. Insomma la città storica è il prodotto di questa stratificazione che ha
una anzianità pluricentenaria. Il tema è urbanisticamente affascinante, la città storica per la sua
morfologia non è più modificabile nei suoi confini, non si trasforma per estensione, però è il terreno
di relazioni legate alla presenza di manufatti ed aree di diversa funzione, per di più pubbliche, che
non sono più attive - ex strutture artigianali, strutture industriali dismesse, contenitori in disuso,
aree o infrastrutture divenute obsolete – che proprio per questa loro perdita di vitalità si prestano a
un’occasione di rigenerazione. Il centro storico e la città storica sono già state teatro di ridefinizione
delle funzioni di modi d’uso, di rivitalizzazione di beni che avevano perso questa funzione
originaria. Si è trattato però di situazioni isolate che sono state trattate singolarmente solo su una
base, la base di un criterio, cioè qui primi veniunt, per il solo fatto che si creavano queste
occasioni, si affrontava volta per volta il tema della loro rigenerazione. L’ex Mattatoio, l’ex Fiera di
Roma, gli ex Mercati Generali, tutti edifici vecchi e aree in disuso, dismesse, riconvertite
funzionalmente ed architettonicamente, ma senza una visione strategica di insieme, piuttosto
come frutto di escogitazioni sporadiche. Oggi si determina un’occasione importante ed è questo
che è lo stimolo di questa nostra riflessione. Con l’approvazione della Legge sul Federalismo
Demaniale è ora possibile l’acquisizione da parte dei Comuni del patrimonio demaniale dismesso.
L’insieme di questi beni - ex caserme, edifici vari, depositi - e delle aree da essi occupati
rappresenta una realtà assai consistente nel territorio del Comune di Roma e di grande valore,
5
soprattutto se si pensa che sono localizzate nella città storica. Basti pensare alla realtà eterogenea
delle destinazioni militari che erano collocate nella prima fascia di sviluppo urbano dal Piano
Regolatore del 1883. Queste aree, data la loro entità e la loro estensione, costituiscono un tema
complesso in particolare se riferito al contesto del loro inserimento e alle possibili relazioni con la
città. Queste aree costituiscono delle vere e proprie isole nel tessuto storico consolidato. Questi
nuovi spazi, che sono il risultato della dismissione delle attività che li connotavano originariamente
e di funzioni non più attuali, sono ora la nostra occasione e il nostro cimento. La scommessa è
triplice: rivitalizzare l’aspetto sociale ed economico della città storica in una visione più ampia,
attraverso l’individuazione di funzioni in grado di essere localizzate in queste aree e costituire così
delle nuove zone a individualità definita. Noi tendenzialmente vorremmo abbandonare questo
concetto del mix funzionale inteso come ci metto un po’ di tutto, perché in realtà non so di preciso
che cosa mettere. È inutile pensare a mix funzionali in cui compaiono destinazioni per esempio
direzionali collocate qui piuttosto che lì, senza escogitare meccanismi di incentivazione che
inducano l’effettivo trasferimento in questi luoghi delle attività direzionali, e costituire così isole
prive di uno sviluppo futuro e di aspettative ragionevoli di impiego economicamente redditizio.
Serve quindi una visione strategica. Ma la seconda scommessa è assicurare finalmente che
queste funzioni così collocate non muoiano nella culla per asfissia perché prive di un contesto
infrastrutturale adeguato al loro sviluppo, evitando le esperienze passate di una città strozzata dai
problemi della mobilità. Terzo - terza scommessa, non meno importante - individuare criteri di
dialogo architettonico tra la riedificazione e il suo contesto. L’esperienza proprio di ieri della teca
che custodisce l’Ara Pacis è illuminante. Il dialogo di un’opera, della riedificazione con il suo
contesto è uno dei temi fondamentali della rigenerazione urbana. Qui è un problema che si
manifesta in tutta la sua specificità perché il contesto è caratterizzato da un forte sistema di vincoli
che connotano la città di Roma. E quindi questo dialogo architettonico, scegliere quale tra i due
temi merita più di essere seguito, il dibattito tra continuità e omogeneizzazione, la copia, l’analogia,
oppure la discontinuità, la rottura, il segno dell’architettura contemporanea che si pone in
apparente antinomia, ma è comunque un segno destinato a lasciare una traccia che dura per
secoli. Il settore pubblico nazionale non è culturalmente maturo per recitare il suo ruolo di
governatore di processi. È una realtà dietro la quale noi non possiamo nasconderci. Questo
avviene per i tempi, ma anche e spesso per i contenuti. L’accusa all’Amministrazione di non essere
un committente responsabile, un soggetto capace di fissare i temi all’interno dei quali la
progettazione architettonica ed urbanistica deve svolgersi, è un’accusa purtroppo fondata. Per
recitare questo ruolo occorre maturare una responsabilità culturale, politica e una maturità
decisionale che attualmente non abbiamo, che storicamente non abbiamo, ma che dobbiamo
attrezzarci per avere. Concludo citando in italiano un sociologo e giornalista americano, Jim
Cumsler che ha detto: il XX secolo è stato incentrato sulla mobilità, il XXI secolo sarà basato sulla
permanenza in un luogo in cui valga la pena di stare. In realtà noi siamo un po’ in ritardo con il
tema del secolo passato e dobbiamo recuperare, sappiamo di dover recuperare e dobbiamo farlo
bene. Il tema della mobilità è un tema tuttora irrisolto ed è un tema che penalizza lo sviluppo della
città in maniera irrimediabile. Ma vogliamo anche essere cittadini di questo secolo e puntare sulla
qualità della vita in città. La qualità del nostro vivere in questa città è la vera eredità che noi
possiamo lasciare alle generazioni future. Ci aspettiamo moltissimo da questi due giorni di
riflessione, ci aspettiamo un contributo. Noi non intendiamo delegare a nessuno le decisioni, non
intendiamo delegare a nessuno la responsabilità del governo dei processi, ma ogni contributo è
utile e fondamentale per aiutarci in questo percorso.
SCHIATTARELLA: Ringraziamo l’Assessore Corsini. Io adesso darei la parola all’Ingegnere Errico
Stravato, Direttore del Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica.
STRAVATO: Indagare sui nuovi modelli di sviluppo delle trasformazioni urbane, in particolare nella
città storica, risulta tema di grande rilievo in quanto può portare a definire degli interventi non più
come unica attenzione alla conversione del singolo edificio o complesso di edifici ma come
sistema di relazioni che direttamente o anche per ricaduta portano ad una nuova attenzione del
contesto, dei tessuti storici, degli spazi aperti e dell’accessibilità del patrimonio architettonico, solo
per citare le componenti più rilevanti. Il patrimonio della città storica, interpretato anche come bene
economico, oltre ad accrescere l’identità storica o culturale e testimoniare dei luoghi, introduce
nuove possibilità interpretative degli strumenti attuativi, soprattutto quelle riferibili alle
trasformazioni di conservazione e recupero, completamento, sostituzione e rifunzionalizzazione. In
6
questo senso, in una lettura trasversale di tutti gli interventi, è utile citare quelli già in atto e previsti
e programmati, come per esempio quelli riferiti alle parti edificate, la nuova Rinascente, che è un
recente intervento di questa Amministrazione - immaginate che questo intervento ha prodotto
complessivamente 25 milioni di oneri che saranno poi reinvestiti con interventi diretti nell’ambito
della città storica – la riqualificazione e il recupero funzionale di Via delle Milizie, la cittadella
giudiziaria, il piano di recupero di Via Giulia, la rifunzionalizzazione dei depositi ATAC di San
Lorenzo e Piazza Bainsizza. Altri interventi sugli spazi aperti sono l’ampliamento del parcheggio di
Villa Borghese, la riqualificazione e pedonalizzazione del Tridente, la riqualificazione di Via Veneto,
la realizzazione del parcheggio interrato Piazza Cavour, la riqualificazione di Piazza Augusto
Imperatore, Fontanella Borghese e Piazza San Silvestro. Per quanto riguarda le aree e gli ambiti
della città storica, con carattere storico formativo e i relativi differenziali valori, è possibile
individuare una serie di ambiti strategici, definiti prevalentemente da alcuni segni naturali: direttrici
e tracciati storici della città, ambiti programmazione strategica del piano regolatore Tevere/Mura,
Parco dell’Appia, asse storico Flaminio-Fori-Eur, cintura ferroviaria. In ultimo, ma come parte
essenziale dell’approccio ai temi progettuali, va fatto un riferimento sostanziale ai temi della
mobilità, in particolare il piano strategico della mobilità sostenibile. Approvato in Consiglio
Comunale lo scorso 16 marzo, ha come obiettivo generale un nuovo assetto del sistema romano
dei trasporti in grado di garantire mobilità, sicurezza e salute. Le linee guida del piano fissano
l’incremento dell’offerta di trasporto pubblico su ferro e gomma e la realizzazione di interventi volti
alla fluidificazione del traffico e alla conseguente riduzione dei tempi di percorrenza. Il complesso
di interventi individuati dal piano strategico alla mobilità sostenibile contribuiranno alla
conservazione e alla valorizzazione della città storica, nella cui parte più centrale si prevede di
procedere ad una progressiva ed importante pedonalizzazione che parta dalle aree di maggior
valore ambientale a maggior presenza commerciale, anche attraverso la creazione di una rete di
itinerari pedonali protetti. La pedonalizzazione del centro storico è quindi conseguente
all’attuazione degli interventi infrastrutturali facenti parte della nuova architettura funzionale della
città, tra i quali si segnala il completamento della rete delle metropolitane e la realizzazione di
distributore interno o della chiusura dell’anello olimpico, anche attraverso il completamento del
sistema dei Lungotevere. Nei nuovi modelli di trasformazione urbana rientrano puntualmente
anche tutte quelle trasformazioni legate alle aree dismesse o dismettibili del patrimonio demaniale
e ferroviario, in particolare quelle comprese e riferibili alla città storica rappresentano nuove realtà
di confronto progettuale. La valorizzazione delle grandi aree dismesse rappresenta una grande
opportunità per Roma, non solo dal punto di vista di una nuova utilizzazione come motore di
sviluppo economico locale, ma anche come volano di creatività per innescare processi di
trasformazione urbana in grado di elevare il livello della qualità architettonica e funzionale. Lo
scopo del workshop è quello di concentrare l’attenzione su alcune di questi aree per immaginare
gli scenari della loro possibile valorizzazione anche come sostegno economico-finanziario dei
progetti di trasformazione imperniati su di esse e ferma restando la consapevolezza che la città
dispone di una sua pianificazione urbanistica. Le recenti decisioni del Governo di trasferire a livello
locale la disponibilità di queste aree rende possibile quanto precedentemente nemmeno
ipotizzabile. In effetti, l’opportunità rappresentata da questo trasferimento non può non essere
colta, indagando tutte le potenzialità di miglioramento della qualità urbana che la loro
valorizzazione può mettere in movimento, ripensando alle procedure attuative, verificando la
fattibilità trasformativa e innescando processi di progettazione economico-finanziaria. Tali
suggestioni e indirizzi potranno essere la base per formulare successivi bandi di idee o progetti da
porre all’attenzione internazionale e condurre alla realizzazione di opere contemporanee di grande
qualità architettonica che arricchiscano il patrimonio della città. Per quanto riguarda le aree
dismesse di sedime ferroviario, già l’ambito di programmazione strategica della cintura ferroviaria
introduce un sistema di trasformazione legato agli ambiti di valorizzazione e agli ambiti di
attuazione e riferibile a tematiche di contesto, alla valenza tipologica, alle componenti morfologiche
e funzionali. All’interno di tale molteplicità il tema delle grandi infrastrutture costituisce l’elemento
prevalente più significativo, sia in termini di problematiche e criticità che in quello di significative
opportunità e potenzialità di trasformazione. Il sistema della cintura ferroviaria, con il complesso
delle stazioni e degli scali, rappresenta una grande occasione di potenziamento del trasporto
pubblico su ferro, sia di trasformazione che riqualificazione urbana. Anche il patrimonio dei beni
demaniali di edifici rappresenta una realtà consistente nel territorio del Comune di Roma e nella
città storica e restituisce una varietà di beni molto articolata, tale da sottolineare l’importanza di
7
approccio al tema, basti pensare ad esempio alla realtà eterogenea delle installazioni militari.
L’individuazione delle potenzialità trasformative, delle aree edifici dismessi o dismettibili, demaniali
e ferroviarie, può essere affrontata sulla base di una scala articolata di criteri che sono urbanisticonormativi, trasportistici, tecnico-economici, trasformativi, funzionali, localizzativi, socio-economico,
procedurali, temporali. Dai primi approfondimenti tematici sulle aree demaniali dismesse o
dismettibili emerge che nel territorio comunale esistono molteplici realtà e soprattutto una
concentrazione rilevante in città storica. Gli edifici comunali di grande pregio che si stanno
liberando, o lo saranno nel prossimo futuro, delle originarie funzioni amministrative col procedere
del piano di razionalizzazione degli uffici comunali, l’area di Via Petroselli; aree demaniali civili
quali ad esempio quelle lungo il litorale romano e le sponde del Tevere; aree demaniali militari tra
le quali 16 potenzialmente riqualificabili e delle quali 5 già libere e disponibili. Gli interventi di
trasformazione che interessano le aree demaniali possono essere riconducibili a tre tipologie. La
prima tipologia di intervento avrà carattere puntuale, comporterà interventi di rifunzionalizzazione
con cambi di destinazione d’uso e di immobile, edifici comuni e demaniali, come abbiamo detto
prima l’area di Via Petroselli. La seconda tipologia riguarda complessi edifici la cui trasformazione
comporterà interventi di valorizzazione con trasformazioni mirate e nuove relazioni di contesto. La
terza tipologia riguarda, come abbiamo visto prima nell’immagine, la caserma di Via Guido Reni.
Un nuovo approccio progettuale che evidenzia come gli interventi in atto, previsti e programmati,
possono trarre ulteriore slancio dalla consapevolezza che accanto a modalità trasformative
puntuali, anche consistenti, si possa arrivare a immaginare nuove realtà progettuali strettamente
legate a riferimenti indicativi di programmazione strategica. Come abbiamo citato prima, il sistema
Tevere e Mura, l’area archeologica centrale con il parco dell’Appia Antica, l’asse monumentale
Flaminio-Eur e le aree della cintura ferroviaria. Accanto a questo sistema che abbiamo citato, ci
sono tutto il sistema delle aree militari che occupano complessivamente l’1,4% del territorio
comunale per oltre 11 milioni di metri cubi, di cui di questi 3 milioni concentrati nella città storica, è
questo il valore e l’entità di cui stiamo parlando. Infine, una considerazione importante, l’esempio
della cittadella giudiziaria, il complesso delle caserme, in questo caso il processo di sostituzione
degli uffici militari con gli uffici giudiziari si è avviato già da tempo e dovrà trovare un punto di
equilibrio finale con le adeguate dotazioni di parcheggi e servizi. In questo senso il Piano
Regolatore ha individuato uno specifico ambito di valorizzazione che è stato definito e appena
accennato ma manca delle sue specificità e manca del suo effetto e della sua scena finale. Poi
abbiamo qui una carrellata di quelle che sono le programmazioni del Piano Regolatore, con il
progetto urbano Flaminio-Foro Italico, all’interno del quale ci sono gli interventi già citati come
quelli del MAXXI, e all’interno di questo sistema c’è il sistema del vecchio Villaggio Olimpico, il
Ponte della Musica , lo Stadio Flaminio con la sua prossima ristrutturazione, anche l’area di Via
Guido Reni, come è stato già menzionata, il sistema del Parco Olimpico e dello Stadio Olimpico.
L’altro sistema progetto urbano è il progetto urbano San Lorenzo, imperniato principalmente poi sul
sistema del vallo ferroviario e dello Scalo Tuscolano. Questo è il progetto che prevede il
tombamento di tutto il sistema del vallo ferroviario e la demolizione della vecchia tangenziale in
relazione con il nuovo progetto della Stazione Tiburtina. Ecco, questa è una visione dell’entità e
dello spazio che riguarda lo Scalo Tuscolano e di tutte le aree, in questo caso ferroviarie,
dismesse, che è una grande occasione progettuale anche di valorizzazione. Poi passiamo al
progetto urbano Ostiense-Marconi all’interno del quale ci sono già degli interventi programmati in
attuazione come il caso dei Mercati Generali, c’è l’area del Gasometro, che anche lì prevede una
sua funzione e rifunzionalizzazione; c’è il sistema anche delle caserme di porto fluviale e alcune
proposte progettuali, come lo snodo Marconi e il sistema di riconnessione di tutti i Lungotevere.
Questo sistema anche in parte è stato già previsto e programmato all’interno del programma
strategico della mobilità sostenibile. Ci sono i nuovi interventi già attuati che riguardano l’Università
Roma Tre che hanno usato anche vecchie strutture come L’Alfa Romeo, l’OMI e la Vasca Navale.
Arriviamo a quelle che sono oggi le nuove polarità urbane e i luoghi strategici individuati
dall’Amministrazione Comunale, sul quale sta lavorando e sul quale si sta già programmando e
pianificando. In particolare, abbiamo il polo congressuale dell’Eur che verrà interpretato come
nuova centralità per Roma capitale, comprendendo gli interventi in atto e programmati, la nuova
previsione di interramento della Cristoforo Colombo, il nuovo Ponte dei Congressi, la
valorizzazione dell’area del Luna Park, la nuova proposta del Gran Premio Roma Formula 1, l’asse
Palazzo Congressi e Palazzo della Civiltà Italiana, la valorizzazione del sistema museale, perché
la centralità dell’Eur è un grande parco museale, il nuovo Centro Congressi, le nuove Torri delle
8
Finanze, la riqualificazione dell’area del Velodromo, che è un nuovo grande progetto che è in corso
di rivisitazione, il Palalottomatica, la centralità Laurentina e il sistema importante, che è il grande
punto di accesso a Roma, che è lo svincolo degli Oceani nell’ambito delle Tre Fontane. Altro
sistema che è in corso di trasformazione all’interno del centro storico, perché riguarda edifici
comunali e della messa in uso all’Amministrazione che sono gli edifici dell’area di Via Petroselli,
nella nuova programmazione sono in previsione di nuove funzioni e sicuramente di rango urbano,
con nuove rifunzionalizzazioni anche di funzioni private di accessibilità e che riguardano anche la
fruizione anche culturale. Testa di ponte di tutto questo sistema è l’accesso al mare, quindi dall’Eur
arriviamo all’accesso al mare, è il grande progetto del waterfront di Ostia, una grande area
ricettiva, ludica, commerciale, il nuovo boulevard del lungomare, il distretto dello sport, la
ridefinizione della testata di Via Cristoforo Colombo, la riqualificazione del Parco delle Dune, il polo
della nautica e il parco della foce del Tevere, il nodo di accesso attrezzato agli scavi di Ostia Antica
e le integrazioni con i quartieri circostanti. Ovviamente, questo grande progetto s’inserisce nel
progetto più ampio del secondo polo turistico di Roma. Chiudiamo con la grande sfida di Roma
2020, la candidatura di Roma a sede per le Olimpiadi che rappresenta anche una grande
occasione di trasformazione urbana; il progetto ecosostenibile presentato dal Comune prevede
infatti 675 milioni di investimenti per gli impianti sportivi e 550 milioni da fondi pubblici e privati da
destinare ai dodici chilometri di parco fluviale del Tevere. Il fiume sarà innanzitutto risanato,
recependo la direttiva comunitaria 2060 entro il 2015, quindi reso navigabile e dotato di cinque
nuovi approdi per la navigazione da diporto. Gli approdi saranno localizzati nei punti di accesso
strategici che riguarderanno tutto, anche il Parco delle Olimpiadi. Le linee d’indirizzo del Parco
sono quelle del piano stralcio approvato dall’Autorità di Bacino, il progetto del Parco Fluviale che
include anche lavori di manutenzione straordinaria delle piste ciclabili sulle banchine, la
riqualificazione ambientale, rifunzionalizzazione dell’area del depuratore Roma Nord che si snoda
lungo dodici chilometri di acqua, che va dalla diga di Castel Di Guido a Ponte Milvio. All’interno
dell’area così individuata, ricompresa nel complesso delle aree militari, quindi qui andiamo ad
investire anche un grande complesso di aree militari in dismissione, che sono quelle di Tor di
Quinto, a breve distanza dagli insediamenti sportivi del Foro Italico e dell’Acqua Acetosa. Quindi
sarà previsto all’interno il nuovo Villaggio Olimpico e l’International Broadcaster Center, cioè il
centro internazionale radiotelevisivo e il villaggio media. Il progetto del nuovo Parco Fluviale sarà
quindi la grande occasione per riportare la città lungo il suo fiume con nuove funzioni e scenari che
si svolgeranno lungo i suoi dodici chilometri.
SCHIATTARELLA: Dopo gli interventi istituzionali e gli interventi tecnici, passiamo al workshop.
Dalle parole del Sindaco si capisce il senso di questo incontro, oggi. Mi pare che l’Amministrazione
abbia espresso in modo chiaro ed evidente la volontà di attivare un momento di riflessione alta e
collettiva sulle strategie di questa città, su quello che la città vuol fare nel suo prossimo futuro. Il
Sindaco ha parlato di una sfida di dieci anni. E questo capita in occasione di un evento che non
c’era fino ad oggi e cioè la possibilità attraverso il federalismo demaniale di avere a disposizione
aree strategiche dismesse che si rendono disponibili e quindi utili a un ripensamento complessivo
di un’idea per la città di Roma. È una grande azione collettiva che si articolerà nel tempo, quindi
oggi noi siamo semplicemente al primo momento di una fase che durerà nei prossimi mesi e che
quindi coinvolgerà gradatamente e progressivamente l’intera comunità romana, attraverso una
serie di passaggi che sono già stati definiti e programmati. Un primo passaggio sarà la prossima
Festa dell’Architettura, che il Sindaco ha voluto citare, festa organizzata dagli Ordini professionali.
Avremo gli stati generali della città, un grande luogo di confronto tra soggetti istituzionali che
porteranno i loro contributi per la definizione di un piano strategico. Alla fine la Conferenza
Urbanistica Cittadina, che sarà la fase in cui l’Amministrazione tirerà le fila di questa grande messe
di informazioni e di riflessioni. Vorrei citare una provocazione che ha fatto l’Assessore Corsini: noi
vogliamo iniziare di nuovo a immaginare la città. Ci piace quest’idea dell’immaginare la città. In
questo quadro, come professionista, come addetto ai temi della progettazione, non posso che
esprimere la mia profonda soddisfazione perché si apre una stagione in cui sarà possibile riaprire
discussioni e aprire possibilità nuove per il senso del progettare, che è uno degli strumenti
fondamentali per immaginare il futuro. Avremo naturalmente l’occasione anche di confrontarci con
gli strumenti che sono già in possesso di questa città, primo fra tutti il Piano Regolatore, e con i
suo grandi tre pilastri, quindi il tema delle centralità, il tema della mobilità su ferro e il tema della
sostenibilità, che sono i tre grandi temi sul piatto e con i quali noi ci dovremo confrontare. Inizia
quindi una grande e lunga stagione di confronto e di riflessione che verrà all’interno della città. Mi
9
piace anche un’altra idea, che in qualche modo è stata lanciata qui sempre dall’Assessore Corsini
e cioè che il Comune di Roma intende, attraverso quest’operazione, diventare un committente più
consapevole e responsabile, fare meglio la sua parte di committente, quindi diventare un soggetto
che è in grado di fornire, a quanti hanno il compito di immaginare e di consentire le trasformazioni,
di fornire dati certi e paletti chiari, che è una delle cose di cui abbiamo sempre sofferto, perché non
si può fare un buon progetto se non si ha anche una buona committenza. Il fatto che
l’Amministrazione attraverso questo passaggio voglia diventare committente consapevole e
responsabile mi piace molto. In questa fase oggi incominciamo con una raccolta di idee, di
provocazioni, di immaginario se volete, di stimoli comunque per la riflessione collettiva. Lo
facciamo con un confronto tra personaggi importanti della cultura architettonica che sono qui riuniti
su questo tavolo e che attraverso le loro riflessioni ci consentiranno di fornire, di costruire un
palinsesto di idee utili per questo ulteriore passaggio che sarà la maturazione e la riflessione sul
tema.
È chiaro che il ruolo del centro storico è un ruolo fondamentale. Capire in qualche modo qual è il
suo rapporto con la città consolidata, quali sono le opportunità che la creazione di varchi, di vuoti in
qualche modo possono creare nel ripensamento anche di un ruolo del centro storico all’interno
della città, senza che venga distrutto, perché questo è un patrimonio che noi abbiamo l’obbligo di
conservare per i nostri, diciamo, per coloro che verranno dopo di noi. Quindi questa è la sfida.
Cedo la parola ai convenuti, ai nostri ospiti. Incomincio dall’Architetto Santiago Calatrava. Io credo
che non ci sia bisogno di presentarlo. Uno dei grandi architetti internazionali, conosciutissimo, le
sue opere oramai sono in tutto il mondo, credo che basta così, insomma, per presentarlo.
CALATRAVA: Signore e signori vorrei parlare di Roma come l’ho conosciuta, come la sento, d’un
modo personale, a partire dai disegni e dagli schizzi fatti per ricavare la lezione che questa città mi
ha dato dai miei tempi di studente a oggi. Dalla lettura di Goethe scoprii che lui raccomandava ai
suoi amici di venire a Roma a caricare le batterie. Consiglio che io ho seguito assiduamente
venendo anche per giorni, per settimane, soltanto per andare a spasso per i vicoli di Roma e
godermi la vista e lo spirito di questa città. Ricordo anche il piccolo dipinto di Corot alla Frick
Collection a New York, con la luce e il blu del cielo e i colori scialbi, beige e rosso, del Foro di
Roma sotto il sole estivo. E scopro anche che New York e Roma hanno la stessa latitudine,
dunque la stessa luce e luminosità. Sia anche per questo che New York è una città di grandi pittori.
Ricordo anche il commento di Aldo Rossi che mi diceva: New York è come Roma. E scopro la
Roma di Picasso che assieme a Cocteau visita Roma seguendo Olga Khokhlova e i balletti russi di
Diaghilev. Apre per poco tempo uno studio a Via Margutta e inizia il sorprendente periodo postcubista chiamato il periodo classico. Picasso malaghegno, Cocteau marsigliese, richiamano il
carattere marinaio e mediterraneo di Roma, Roma legata al mare, chiamato una volta mare
nostrum, quando Roma era caput mundi, città del Lazio, all’origine della latinità. Ricordo questo
amico di Liegi che diceva: nous sommes la pointe de la latinité. Latino viene anche chiamato il
newyorkese di habla ispanica, o spagnola. Io sono uno di loro. Non c’è dubbio che lo spirito
immanente di questa città ha avuto nella storia un ruolo universale e ce l’ha senza dubbio oggi.
Vorrei fare un piccolo riassunto di quello che io chiamerei modestamente la lezione di Roma.
L’Architetto Jacques Perret, ispirato da Roma, scrive: l’architecture, c’est ce qui fait les belles
ruines; l’architettura è quello che rende le rovine belle. Uno potrebbe pensare che le rovine sono
belle di per sé o che questo spirito dell’architettura che le avvolge le rende ancora oggi belle. Uno
pensa che l’architettura è una sagoma, è un’aura che coinvolge questi oggetti e che ce li fa
rispettare, amare e venerare. Uno pensa anche al poeta spagnolo che parla della polvere che
diventiamo e dice: polvo serán, mas polvo enamorado. Questa poetica dà un’aurea a questa città
e la converte in un caleidoscopio di sensazioni visuali come nessun’altra città che io conosca nel
mondo. Seconda lezione, l’impronta storica e la memoria storica. Roma fu fondata col fiume
Tevere come asse. Il fiume, oggi come una volta, non è solo la ragione per cui fu fondata, ma
anche l’essere stesso della città, che gli dà vita, la spina dorsale che ha controllato il suo sviluppo
urbano lungo i secoli, come mostrano tutte queste città in particolare, per esempio Parigi e Londra.
Nella mia città natale, Valencia, fondazione romana essa stessa, accanto a un fiume, il Turia, è
visibile la traccia del cardo e decumano dell’impronta della castra antica. Ancora oggi sono strade
percorribili e usate dai cittadini in modo che se edifici di altre epoche e stratificati dal tempo sono
scomparsi, la traccia urbana rimane. Anche Roma, città radiocentrica, è ancora accessibile come
una volta secondo i percorsi degli antichi romani, come testimoniano la Via Appia, la Tiburtina, la
10
Prenestina, l’Aurelia, la Nomentana, la Salaria, la Flaminia, eccetera. Terza lezione, la lezione del
verde. Scopriamo i monumenti dell’antichità in un intorno di verde, idealizzato dal carattere
pittoresco di essi. Ma anche richiamano il fatto che l’oggetto di cultura non è soltanto l’oggetto
materiale in sé stesso, ma viene compreso nel suo contesto paesaggistico che solleva al
paesaggio anche a oggetto di cultura simile o eguale all’edificio in se stesso. Ma bisogna parlare
anche di questi enormi Central Park di Roma come sono la Villa Borghese, la Villa Pamphili, la
Villa Ada, la Villa Torlonia, eredità del passato, che fanno di Roma la città più alberata fra le capitali
europee. Quarta lezione, il centro storico. Sono tante le lezioni di urbanità che si possono ricavare
e riconoscere lungo la storia, come per esempio dal Tridente e dalla Piazza del Popolo, Babuino,
Corso, Ripetta, che hanno influenzato la storia urbanistica e anche hanno modellato città come
Parigi e Washington. Ma io vorrei restare a degli esempi più vissuti, più quotidiani, più piccoli,
facendo riferimento alle fontane, facendo riferimento agli angoli, agli zoccoli, ai marciapiedi, ai
colonnotti, alle balaustre, esempi di una enorme urbanità. E così ho scelto una serie di piazze
come sono quella del Pantheon, Quirinale, Navona, Mattei, e che ci fanno pensare che quest’arte
urbana è autentica arte, fuori dei musei - bisogna sottolineare che i musei sono un’invenzione del
XIX secolo – che ancora oggi rendono questa città una specie di grande caleidoscopio di
sensazioni visuali come nessun’altra nel mondo. Ho fatto riferimento ai letterati, ai pittori e a tanti
artisti, potremmo continuare a farlo, che hanno raccolto l’influsso di questa città. Ma vorrei anche
non mancare di far riferimento ai pini di Roma che ispirarono, assieme alle fontane, la musica di
Ottorino Respighi.
SCHIATTARELLA: La parola io adesso la darei all’Architetto Peter Calthorpe, che è considerato
uno dei maggiori esperti dell’uso dell’energia solare, che è teorico e fondatore del New Urbanism e
che il Newsweek Magazine ha definito uno dei venticinque innovatori d’avanguardia negli studi sui
limiti dello sviluppo urbano. Mi pare una presentazione sintetica, ma efficace. Prego.
CALTHORPE (interprete): Vorrei parlare di questioni più quantitative che qualitative. Penso che
tutti siano convinti del fatto che ci troviamo di fronte a delle sfide senza precedenti per quanto
riguarda i cambiamenti climatici globali. Ma l’urbanistica forse è l’arma più efficace contro queste
sfide. La città, la grande città, Roma in un certo senso è una delle principali realtà urbanistiche e
pertanto ha un obbligo particolare per quanto riguarda la realizzazione di questa visione, perché
vivere in una città in condizioni sostenibili è il progetto del futuro e non certo del passato. Quindi la
questione dei cambiamenti climatici, in modo tutt’altro che astratto, diventa compito degli urbanisti.
Oggi non si tratta solo di aggiungere nuovi collettori solari, nuove fonti di energia, si tratta di vivere
nelle città nella maniera tradizionale, quindi smetterla con la nostra fissazione con le automobili.
Esaminiamo il passaggio del tempo, la nostra impronta ambientale, siamo diventati più efficienti
sulla base del consumo pro capite in tutti i settori, tranne nel settore energetico. E naturalmente
questo è dovuto al trasporto e agli edifici. Chi è che fa che cosa nel nostro pianeta per quanto
riguarda le emissioni di carbonio? Gli Stati Uniti sono il colpevole principale - mi prendo anch’io le
mie responsabilità - l’Europa, il Giappone sono comunque molto al di là della soglia tollerabile,
dobbiamo tutti arrivare alla media del 2,7 di qui al 2050. Tutti vivremo in modo diverso, vivremo
nelle città ed è importante che la pianificazione odierna si basi appunto sull’obiettivo di ottenere
questo cambiamento. Ecco la dimostrazione, a sinistra vediamo al centro di Chicago le emissioni
di carbonio per luogo, e a destra pro capite. Quindi si tratta appunto di adottare una tecnologia
verde. E Roma deve essere leader nel mondo. Per dimostrarvi ciò, l’automobile, cosa fa
l’automobile alle città, cosa fa alla vita delle persone? Sono cinquant’anni che è la forma di
trasporto principale nelle nostre città. Quindi come interagisce con i centri storici? Abbiamo fatto in
modo che sia l’automobile a definire i centri suburbani con la tragica conseguenza. In Italia questo
rapporto è interessante perché il camminare, il prendere la bicicletta sarebbero senz’altro la
soluzione migliore. Ma se non ci sono posti dove si può camminare, se non c’è una vera e propria
concezione urbana, questi sistemi di spostamento non funzionano. Quindi il sistema pedonale è
sicuramente una delle chiavi di volta. Vi sono dei principi semplici, magari a voi attorno a questo
tavolo non sembrano semplici: però sono sorpreso da come noi non ci rendiamo conto di questi
postulati che dovrebbero essere alla base di un buon progetto urbano perché combina il mondo
civico con quello commerciale e residenziale. Quando si cominciano a separare questi elementi e
si scopre che non fanno parte della stessa strategia, a quel punto si distrugge la città. Quindi
attenzione allo spazio pubblico: è qualcosa di fondamentale. Cos’è la scala umana? Per alcuni di
noi Manhattan è su scala umana, mentre la scala degli edifici è monumentale. Quindi la scala
11
umana non ha a che vedere con le dimensioni, ha a che vedere con i dettagli, con gli spazi
pubblici, con la possibilità di camminare per le strade, nel rendere le strade l’habitat del pedone
ancora una volta. Vi sono le vecchie città che si fondavano su ciò. La nuova città deve incorporare
due nuovi fenomeni, la conservazione e il restauro, bisogna riparare i danni ambientali fatti in molte
circostanze. Mi ha fatto piacere sentire dal Sindaco che la città si vuole riappropriare del fiume,
togliendolo alle automobili. Più si usa l’automobile e più si distrugge il centro, invece più si collega
con altri mezzi di trasporto, meglio è per la città. Facciamo alcuni esempi di come noi lavoriamo in
tal senso in varie parti del mondo. Ad Amman abbiamo esaminato la città, abbiamo detto non c’è
un sistema di trasporto; ci vuole un sistema leggero su rotaia. Il nuovo sistema ferroviario connette
infatti tutti questi luoghi. Vi sono zone pedonali che costituiscono la misura del progetto urbano. E
poi un mix di funzioni urbane. Ras Ambaderav, architetto giordano, ha capito benissimo il tessuto
storico della città, l’interazione degli edifici non solo con la storia e la cultura, ma anche con il
clima. Parleremo attorno a questo tavolo dell’importanza del far riemergere delle forme storiche e
di come esse possano essere integrate in un vocabolario che consenta la continuità con il passato.
Ho avuto l’occasione nove anni fa di elaborare un piano strutturale in Italia per Arezzo. Su questo
ho lavorato con Léon Krier. Fatto interessante è che è veramente una storia bifronte, da una parte
c’è la natura e dall’altra c’è questo sprawl, il peggio e il meglio giustapposti. Ed è questo sprawl
che distrugge anche la città storica. Abbiamo fatto in modo che la cintura verde entrasse nel centro
storico. Tutta la periferia è un parcheggio per le automobili ed è proprio questo il cambiamento che
dobbiamo realizzare, allontanarci dall’automobile, tornare alla natura e agli esseri umani. Léon ha
incominciato a sviluppare questa sua progettazione urbana che rispettasse tutte le qualità
tradizionali e nel contempo permettesse la creazione degli spazi urbani che le persone desiderano.
Qualcuno ha detto, non so più chi, che molti non vogliono più vivere nelle periferie, vogliono
tornare a vivere nei centri cittadini. Penso in effetti che soltanto se la periferia diventa bella come il
centro, la gente ci vive volentieri.
Un altro progetto che vi illustro, assolutamente pertinente per Roma, è quello di Rotterdam dove
abbiamo rimosso quell’arteria stradale, che era praticamente un’autostrada, creando un’area
pedonale con parcheggi sotterranei. Bisogna riconoscere che Roma è stata e può essere il centro
dell’Europa. La Stazione Termini è il cuore della circolazione non solo per la città ma per gran parte
del paese. E io proporrei che si prenda in esame la possibilità di fare di Termini la destinazione per
il mondo intero. Io spero che siate più audaci del Palazzo Congressi che progettate per l’Eur.
Fatene uno a Termini e attrarrete persone che verranno da tutta Europa. Naturalmente questo
centro combinato con alberghi, centri congressi, zone residenziali, fare in modo che le persone
arrivino qui col treno, che vadano a piedi per la città, vadano col treno a Firenze, vadano a Firenze
a spasso a piedi, senza dover usare l’automobile. Vi sono delle idee un po’ grandiose che sono
necessarie per rivitalizzare la città, perché il lavoro di recupero e di potenziamento delle zone
esistenti è importante ma ancora più importanti sono le visioni più grandiose che ricollocherebbero
Roma al centro d’Europa sul piano economico e culturale.
SCHIATTARELLA: Grazie infinite, naturalmente ringrazio l’Architetto Calthorpe e non posso fare a
meno di notare che quest’area che lui indica come un’area strategica è contigua alla Casa
dell’Architettura.
Io passerei la parola adesso all’Architetto Stefano Cordeschi, Professore ordinario di Progettazione
e Studio dell’Architettura all’Università Roma Tre, tra l’altro autore e progettista di alcuni progetti
strategici della città.
CORDESCHI: Vorrei fare intanto una premessa. Io sono un architetto, non sono un urbanista, ma
qui ci sono urbanisti illustri che sicuramente mi daranno una mano, però vorrei dire una cosa un
po’ a nome di tutti gli architetti, anche perché seguirà a questa importante manifestazione la Festa
dell’Architettura. Noi architetti siamo abituati a illusioni e delusioni, è il nostro mestiere, però
diciamo questo programma fa venire voglia di progettare a chiunque. È molto vasto, è molto
complesso e io spero, ci voglio credere, che parta una stagione interessante. La coincidenza con
la Festa dell’Architettura non è casuale. Secondo me questo paese è pronto a queste cose, cioè
non è vero che gli italiani dormono. Gli italiani sono interessatissimi a tutti i processi culturali,
soltanto che non hanno occasioni per partecipare, per farsi sentire, per dire la loro. Quindi è una
partenza molto interessante. Io ho lavorato soprattutto nelle periferie per cui domani parleremo di
questo argomento, però vorrei entrare un momento nel tema specifico che è quello delle aree
12
centrali. Intanto la città è un corpo, cioè noi non possiamo dividere la periferia dal centro. È un
corpo solo, cioè le periferie, anche le parti isolate nel territorio, sono delle terminazioni nervose di
una mano. La città è un corpo e va guardata come tale, perché come tale si comporta. La cosa
fondamentale è che il corpo sia vascolarizzato, quindi le aree centrali, gli organi interni vivranno
bene, pulseranno se il sangue scorre anche dalle punte delle dita. Quindi l’aspetto della mobilità è
fondamentale - mobilità significa democrazia, mobilità significa che tutti arrivano al centro e che
tutti seguono gli eventi. Mi sembra che questa Amministrazione abbia un’attenzione verso questo
aspetto fondamentale, senza la mobilità non funziona niente. Un’altra cosa vorrei dire, la periferia e
il centro non solo sono un corpo, ma non è vero che la periferia romana, anche quella più
problematica, sia solo brutta, sia solo un problema. Se voi provate a viaggiare con Google Maps,
che è uno strumento fantastico per chi ama la città, e provate a guardare la periferia romana quella
più difficile, quella ad est, quella della grande espansione, quella problematica, e la guardate con
attenzione, è un pezzo di città piena di potenza. Cioè i buchi che ci stanno fra gli insediamenti
progettati storti, questi crateri fatti dagli architetti, il castrum di Torraccia, San Basilio, anche solo i
nomi, Torre Spaccata, Torre Maura, c’è tutta la potenza di questa città. La periferia è un posto
brutto se ne abbiamo un’accezione, come dire, borghese. Ma la periferia è un posto potente,
abitata da gente forte. Quindi gli interventi nella periferia e gli interventi nel centro sono fortemente
connessi, perché questo mondo, duro, della periferia, che è quello, non so, de La ricotta di
Pasolini, cioè un posto straordinario, deve stabilire sempre delle relazioni forti con il centro. Se noi
guardiamo proprio questo settore che è quello più problematico e vediamo dove sono collocate le
aree dismesse più interessanti, stanno proprio lì, cioè attaccate all’anello ferroviario verso la zona
est. Alcune molto complesse, come San Lorenzo, altre forse meno, penso all’ATAC di Piazza
Ragusa, alla Caserma Zignani e poi, andando giù, fino all’Ostiense e anche alla zona Magliana
sono delle aree che hanno un rapporto forte con questa parte di città fuori. Quindi come si gestirà
questa parte? Il piano per la mobilità sostenibile, e queste aree che sono ai bordi della città storica
verso questa zona, sarà fondamentale capirne il rapporto. Per queste aree, l’Amministrazione ha il
coltello dalla parte del manico, sono aree sue, fa quello che vuole, cioè detta le regole, quindi sono
una risorsa non rinnovabile che dobbiamo spendere con grande attenzione perché appunto ci
vendiamo una parte importantissima.
Pensate a San Lorenzo, non solo allo scalo ferroviario, ma a tutto quello che è connesso. Tutte le
piazze, tutti i percorsi, tutta l’area del Mandrione, quelle zone straordinarie, cariche di storia e di
letteratura. Quelle sono tutte zone in qualche modo da ripensare e alle quali dare un senso. Del
Piano Ostiense se n’è parlato, ma io direi anche l’ex Fiera di Roma e altre zone che gravitano nella
zona sud-est. Al nord la situazione è altrettanto importante, anche lì pensiamo solo a Viale delle
Milizie e a Guido Reni. Sicuramente Guido Reni dovrà stabilire un rapporto con l’Auditorium e col
MAXXI, sicuramente quella parte urbana si sta specializzando. Le caserme sono un’occasione
straordinaria di valorizzazione. Io sono per la demolizione totale e per la ricostruzione di uno
spazio nuovo, inedito. Facciamolo. Rispettare i tessuti è giustissimo, io sono d’accordo, stare alle
regole. Le caserme di Viale Giulio Cesare sono un’occasione per fare un grandissimo spazio
innovativo che a Roma non c’è, un grande vuoto con sopra anche delle strutture. Se voi guardate
queste caserme sono delle strutture antiurbane, cioè non hanno una porta. Camminando lungo le
caserme, vediamo solo le finestre delle camerate. Facciamo questo atto coraggioso, un grande
concorso internazionale e una nuova piazza nel centro di Roma. E ultima cosa che vorrei
aggiungere è la storia della manutenzione urbana. Il centro storico di Roma è un capolavoro
assoluto, che va servito su un piatto d’argento, dobbiamo lavorarci. Pensate a Piazza del Popolo
come è cambiata dopo essere stata liberata dalle automobili. Pensate alla famosa scena di
C’eravamo tanto amati, di Gassman che fa il finto parcheggiatore. Quindi la manutenzione è anche
una grande occasione per concorsi anche piccoli per i giovani architetti romani che sono tanti e
Amedeo Schiattarella lo sa. L’ultima cosa a cui tengo molto è all’interno di tutti questi programmi il
recupero, il restauro, io direi di più, salvare il Foro Italico, che è un capolavoro dell’architettura
moderna romana, e che è stato calpestato in tutti i modi.
SCHIATTARELLA: Ecco, ringraziamo l’Architetto Cordeschi anche per aver parlato anche a nome
degli architetti romani. E passerei la parola a Roberto D’Agostino, che è stato per dieci anni
Assessore all’Urbanistica del Comune di Venezia, autore di un piano strategico per Venezia, e oggi
è Presidente dell’AUDIS che è un’associazione che si occupa di aree dismesse urbane.
13
D’AGOSTINO: Non vi nego che mi riesce abbastanza difficile intervenire in questo workshop per la
mole dei problemi che sono stati messi in campo e per l’ambizione degli obiettivi che
l’Amministrazione si pone.
Dalle relazioni che sono state fatte emerge come gli strumenti urbanistici generali e attuativi, che
ha in questo momento a disposizione la città di Roma, non siano ritenuti adeguati a rispondere alle
ambizioni della nuova Amministrazione. Questa mi sembra la questione principale. Perché quando
parliamo di centro storico, di recupero dei centri storici o della città storica, o quando parliamo di
recupero delle aree dismesse, parliamo di due cose che dal punto di vista puramente tecnico sono
già parte integrante e metabolizzata della cultura urbanistica nazionale. A partire dal Piano
Regolatore del Centro Storico di Bologna del ’69, la cultura urbanistica italiana ha dato un grande
contributo alla cultura urbanistica internazionale dicendo come si deve intervenire sui centri storici
e parlando di morfologie, tipologie, salvaguardia attiva, cioè persone, cose, attività. E dunque
questo è un tema che dal punto di vista tecnico non ha bisogno di essere particolarmente
approfondito. La stessa cosa vale per le aree dismesse. Da una quindicina d’anni le aree dismesse
hanno smesso di essere un problema per le amministrazioni pubbliche o per gli operatori che
agiscono sulle aree dismesse, perchè sono diventate un’opportunità economica, sociale,
urbanistica, ambientale e così via. Anche su questo, seppure in modo molto contraddittorio, la
cultura italiana ha accumulato le esperienze sufficienti per sapere come si fa ad intervenire.
Peraltro alcuni importanti interventi puntuali sono già stati fatti proprio anche a Roma. Quindi il
problema non è come fare, ma il problema è che cosa fare e tutto ruota intorno a questa
questione. Allora, dal momento che esiste una grande ricchezza di analisi, come abbiamo visto il
problema è individuare quale idea di città vogliamo conseguire. Ciò attiene ai temi della
pianificazione strategica, ma comporta anche una nuova pianificazione urbanistica come parte
integrante della pianificazione strategica. In particolare, a partire da questa sessione del workshop,
bisogna dire quale ruolo si vuole dare al centro storico, cioè come la città storica deve giocare il
proprio ruolo nella riqualificazione complessiva della città di Roma e come, in questo quadro, le
aree dismesse possono essere valorizzate. Oggi non ci si può più aspettare dal processo di
valorizzazione delle aree dismesse un risultato economico significativo. Oggi e credo per molto
tempo ancora, perché ormai si è ridisegnato il modo di produrre ricchezza all’interno delle città.
Quindi il tema della valorizzazione deve davvero puntare prevalentemente sulla valorizzazione
urbanistica e sulla valorizzazione sociale, sapendo che queste producono anche una
valorizzazione economica nel lungo periodo; ma a breve non possiamo puntare sul fatto che ci
saranno orde di investitori che verranno a occupare i milioni di metri cubi di Roma, o di altre città
italiane, per fare varie attività le cui ricadute poi ci consentiranno di agire sulla mobilità, sui servizi e
così via. È a partire da queste considerazioni che si può immaginare come il tema delle aree
dismesse tenga insieme città storica e periferie. Dal momento che gli strumenti urbanistici non
sono considerati adeguati per procedere a questa valorizzazione, forse bisognerebbe immaginare
un approccio diverso al tema. Tanto per provocare, si potrebbe immaginare una specie di svolta di
centottanta gradi: cominciamo a riqualificare le periferie partendo dal centro, cioè cominciamo dal
centro città, cominciamo a utilizzare le aree dismesse per riportare i cittadini nei luoghi dove
preferirebbero vivere. Se noi pensiamo alle aree dismesse come un grande tema di nuova
centralità urbana, cominciamo a immaginare che il vero problema sia quello di riportare i cittadini
nella città, nelle parti più qualificate della città. Oggi la valorizzazione delle aree dismesse,
coniugata col grande patrimonio sociale della città storica, può diventare davvero il luogo dove
realizzare una grande politica di nuova residenzialità. Naturalmente deve essere una residenzialità
particolare, la residenzialità per le persone giovani, per le persone mobili, per le giovani coppie, per
le persone capaci, per le persone produttive, cioè quelle persone che è opportuno ricominciare ad
attrarre all’interno della città consolidata. Problema che si pone tra l’altro in tutta Italia e non solo in
Italia. Un’operazione di questa natura, cioè pensare che all’interno delle aree dismesse possa
essere fatta un’operazione di housing sociale, cioè un’operazione in cui il pubblico riacquista la sua
dimensione di pubblico e l’impresa riacquista la sua dimensione di impresa, cioè l’impresa che fa e
il pubblico che realizza da protagonista i propri programmi, disegna una politica che può essere
realizzata anche in assenza dell’aspettativa di valorizzazione economica che quelle aree
sembrano promettere, perché può essere realizzata sostanzialmente a costo zero da parte delle
Amministrazioni.
14
SCHIATTARELLA: Ringrazio naturalmente il Professor D’Agostino e gli ricordo che la Legge per
Roma Capitale rende possibile un’autonomia decisionale che fino ad ora non ha precedenti e che
quindi consentirà tempi molto più accelerati rispetto alla tradizione e quindi sarà un ulteriore grado
di libertà e un’ulteriore opportunità. Darei la parola adesso al Professor Bruno Dolcetta che è
Professore Ordinario di Urbanistica all’Università di Venezia, che è esperto in progetti paesaggisti
e urbanistici.
DOLCETTA: Allora io nel leggere le cartelle che ci sono state consegnate ho trovato, nelle prime
due pagine, una dizione che mi ha colpito molto favorevolmente, che è città vecchia e città nuova.
E poiché le due parole erano messe tra virgolette, ho pensato che si trattasse di una citazione. E
perciò io sono risalito rapidamente ai miei ricordi, che sono precisi su questo punto, a qual è la
citazione. La citazione è Gustavo Giovannoni, che è il fondatore di quella che io chiamo la Scuola
Urbanistica Romana che ha un’importanza straordinaria nel panorama della cultura italiana e,
secondo me, anche internazionale. Perché questo? Perché nel 1913 Gustavo Giovannoni pubblica
una serie di articoli su una rivista che si chiama Nuova Antologia, in cui discute del problema delle
città vecchie e delle città nuove che devono essere create - siamo nel 1913, non siamo ancora al
boom, alle travolgenti situazioni che si configureranno dopo - avendo su questo una posizione
fortemente diversa, radicalmente diversa e culturalmente straordinaria rispetto al problema della
tutela, riconoscimento e tutela delle vecchie città. Lui le chiama confidenzialmente in questo modo,
in modo aulico, però molto appropriato. E questo perché in un contesto in cui per esempio, siamo
nel 1909 e la prima Legge Nazionale sui Beni Culturali struttura le Sovraintendenze eccetera,
secondo un certo modello legato ai monumenti, al singolo monumento. E contemporaneamente
alle spalle c’era una buona conoscenza, una travolgente conoscenza di quello che avevano fatto le
città capitali nella seconda metà dell’Ottocento, travolgendo le città antiche con nuovi modelli di
città moderna. Ne abbiamo degli esempi, straordinari peraltro, diventati a loro volta prototipi della
città moderna. Non stiamo dicendo che rimpiangiamo semplicemente un’eventuale diversa attività.
Ma Giovannoni però perché lo dice questo? Perché si preoccupa molto di quello che succederà
alla vecchia città? Perché sta a Roma. Tanto è vero che nel suo libro, che poi verrà pubblicato
molto più tardi, nel ’31, Vecchia città ed edilizia nuova, nel primo capitolo cita due esempi romani di
pericolo intervenuto nel corpo della città. Il primo è quello di un mancato rettilineo che doveva
spaccare in due l’Anfiteatro Flavio, disegnato da Domenico Fontana per ordine di Sisto V - cinque
anni ma cinque anni durissimi quelli del pontificato di Sisto V, in cinque anni ha rivoluzionato il volto
di Roma, rendendolo quello che conosciamo adesso - ma ci furono dei cardinali che si opposero e
riuscirono a fare deviare il tracciato. E l’altra è un’altra citazione invece di Napoleone I che voleva
prolungare Via del Corso distruggendo una parte del giardino e del Palazzetto Venezia che si
opponeva alla fine del Corso. Distruzione che avverrà cent’anni dopo in occasione dell’apertura nel
1911 quando insomma sarà scoperto il grande monumento a Vittorio Emanuele. Allora queste due
questioni le cita per dire che la città vecchia va capita, conosciuta, studiata, bisogna conoscerne i
caratteri. Fonda quindi quella che io chiamo la Scuola Urbanistica Romana perché diversa dalle
altre scuole urbanistiche; non ce n’erano molte in Italia, sostanzialmente erano lombardi coloro che
pensavano attivamente a come rivoluzionare le città ed erano su un’altra posizione. E invece
questa profonda attenzione alla storia, e quindi la necessità di conoscere la struttura su cui si
interviene, è tutta romana. La seconda questione fondamentale sulla quale si spende Giovannoni
è che appunto la città va concepita complessivamente come un monumento storico e travalica
completamente l’idea del monumento isolato, dell’isolamento dei monumenti e così via, fondando
quella che secondo tutti, per la verità, anche se si dimenticano gli autori e i primi pensatori, tutti se
ne riappropriano ma in realtà è lì che è la radice, ora condividono. Quando parliamo del centro
storico, città vecchia, città antica, parliamo di questo, cioè dell’integrità del monumento, della città
come un monumento, della sua integrità. La seconda questione fondamentale che fonda
Giovannoni è che per salvare la città storica bisogna costruirne una accanto completamente
moderna diversamente dai modelli europei attuati in giro per il mondo: Parigi che costruisce sopra,
in modo eccellente alla fine, ma insomma costruisce sopra e fa dimenticare, o viceversa Vienna
che lascia intonso il suo centro storico però distrugge le mura e quindi sostanzialmente la rende
molto vulnerabile come di fatto sarà poi nel tempo. Invece per Giovannoni bisogna costruirne una
accanto. Il che per la verità fonderebbe anche in un modo diverso il termine con cui parliamo di
queste città accanto, non parla mai di periferie. Cioè il termine periferia è un termine per così dire
che andrebbe ben rifondato, ben riorganizzato concettualmente, perché in realtà parla della città
accanto. Come, la città accanto? La città accanto che deve avere i caratteri della modernità. Sa
15
che se la pressione della modernità avviene sul tessuto antico, non potrà che impattare duramente
sul tessuto antico modificandolo, come ha fatto Sisto V su scale diverse, come ha fatto
Haussmann a Parigi su scale diverse, oppure riempiendo contenitori, cambiando la natura,
eccetera. Tra gli allievi di Giovannoni, c’è Luigi Piccinato. Le cose non sono mai, non avvengono
mai per caso, evidentemente. Mi consento di parlare di Piccinato con una certa confidenza, nel
senso che mi sono laureato con lui. E lui è un giovannoniano e i concetti di Giovannoni li
applicherà tutta la vita con estrema forza e con estrema capacità di rappresentazione perché era
un grandissimo progettista, urbanista e architetto. Disgiungere queste due figure io trovo che sia
delittuoso, sarebbe bene non farlo mai. Io comunque capisco che esiste una prevalenza nella
storia di una persona però la prevalenza non esclude che le figure si debbano necessariamente
incontrare nella stessa persona. Allora lui che era un grande progettista in realtà fa il piano di
Roma del ’62. E chiunque abbia sentito le sue lezioni a Venezia, appunto, che non erano
numerose ma erano affascinanti, e abbia letto le fiammeggianti relazioni che fa sul piano di Roma
intorno alla fine degli Sessanta scoprirà che si tratta dell’applicazione rigorosa dei concetti
giovannoniani. Una città accanto alla città antica, in modo tale che la città accanto abbia tutte le
caratteristiche della modernità e naturalmente è tutto implicito che una delle caratteristiche è la
qualità. Non è una questione di quantità, si diceva prima, ma una questione di qualità. Cioè la
qualità doveva essere tale da far sì che la nuova città fosse bella tanto quanto. Perché no? Quali
sono i limiti concettuali e tecnici perché una nuova città accanto, costruita oggi come periferia, sia
bella tanto quanto. Diversa, certamente. Questa diversità la fa perfetta. Ma tanto quanto, lo
possiamo certamente immaginare. E perciò direi che la questione che noi ci poniamo oggi, a
cent’anni dal 1913 e a cinquant’anni dal 1960, sono ancora esattamente il problema: come si fa a
far convivere in un unico organismo la città storica, la città vecchia, per restare dentro sempre alla
citazione, e la città nuova, che costituiscono nel loro insieme la città, naturalmente. Una sola
brevissima citazione per annunciare il secondo intervento. Questo delle aree dismesse è a sua
volta non un accidente, è quello che non si poteva prevedere nel ’62 e cioè che sarebbe finita la
civiltà industriale tradizionale, che sarebbe stata sostituita dalla civiltà dell’informatica.
SCHIATTARELLA: Ringraziamo l’Architetto Dolcetta che ci ha consentito di rivelare una piccola
verità che non sapevamo e passo la parola all’Architetto Fuksas.
FUKSAS: La prima cosa da dire, che il Comune di Roma è undici volte il Comune di Parigi. Questo
sia Corsini che Alemanno lo sanno molto bene. Questo è un’opportunità, come si dice, ma è anche
un enorme problema. Pensare che la città di Parigi nel suo ambito è 2 milioni e 50 mila abitanti, e
pensare invece che Roma è una città che ormai, fra gli utilizzatori della città e i nuovi emigranti,
rappresenta quasi 3 milioni e 700 mila abitanti, può spiegare molte cose. Ovviamente è il primo
Comune agricolo d’Italia e d’Europa. A maggior ragione l’Agro Romano e il verde storico, che vuol
dire delle coltivazioni che ci sono state sempre nel Lazio e a Roma in particolare, è qualche cosa
da tutelare. Stabilito che la tutela sull’Agro Romano è qualche cosa a cui teniamo, qui bisogna
trovare la strada per uscire da quello che è successo finora. Guardate, rapidamente vi faccio
vedere quello che sta succedendo invece fuori d’Italia, perché Roma sì, è vero, è la capitale
d’Italia, però ci sono cose estremamente complesse che si stanno muovendo in tutto il globo. E
Roma appartiene anche al globo, oltre che all’Italia. La popolazione nel 2012 è prevista di sette
miliardi. La popolazione attuale sono circa 6 miliardi e 800 milioni, in cui si vede chiaramente che
l’India e la Cina ne rappresentano la stragrande maggioranza. L’incremento di popolazione
produce dei fatti straordinari. Il primo, che diventiamo tutti più vecchi. Perciò pensare la città oggi è
sicuramente legato a pensare come sta invecchiando l’essere umano nelle varie regioni del
mondo, con conseguenze sul turismo, sul tipo di lavoro, sul tipo di hub e sul tipo di case, sul tipo di
struttura urbana di città che noi andiamo a progettare per queste persone. Avete capito benissimo
che ci sarà un momento cruciale nel 2020 in cui per la prima volta nella storia del mondo, del
nostro globo, la popolazione al di sopra dei sessantacinque anni supererà quella che è più
giovane.
Nel Piano Regolatore del ’62 quello che si vede, che permane sempre nel Comune di Roma in tutti
i piani e in tutte le proposte è questa spina straordinaria dell’Appia Antica. Fu pensata da
Piacentini. E poi è stata sempre ripresa. Allora, la prima idea: dove vive l’uomo, dove vive il
romano? Beh, nel centro storico vivono 127 mila abitanti. Nel 1970, data di Roma capitale, era di
167 mila la popolazione. Oggi sapete quant’è? Circa 3 milioni e mezzo. I 127 mila abitanti del
centro storico sono niente rispetto ai 3 milioni ed oltre che vivono nelle aree che noi chiamiamo
16
periferia, ma sono le aree dove vive l’uomo, l’essere umano, dove vivono i romani. Perciò il
concetto di periferia è un concetto talmente superato, e qualcuno lo ha detto, che bisognerebbe
parlare di un’intera città. La vera città di Roma non è la città storica, ma è l’intera città che si è
sviluppata oltre la città storica. Perciò non ci sono due città, ce n’è una sola in cui la parte
principale è la cosiddetta periferia. Parola, periferia, che io abolirei perché ormai non ha più senso.
Che cosa succede attualmente? Tutto il sistema della mobilità, parliamo la gente come si sposta.
Roma ha 800 auto ogni mille abitanti. Gli alberi hanno una grande difficoltà di sopravvivere e
perciò vengono molte volte tagliati e non viene fatta la forestazione, cioè ripiantati, 800 mila sono i
motorini. Tutto questo vuol dire che lavoriamo intorno a una megalopoli. Per lavorare intorno a una
megalopoli dobbiamo avere un nuovo concetto, il concetto secondo me è quello della grande
Roma. Bisogna ricominciare, anzi, iniziare a pensare alla grande Roma. Che cos’è questa grande
Roma? È una città che ha fra i 3 e i 4 milioni di abitanti, che ha bisogno di una governance. Va
governata in qualche modo, bisogna governare Comune, Circoscrizioni, Regione, Provincia,
Comuni limitrofi, perché se no questa concorrenza fra le singole parti non determina
assolutamente l’idea che siamo una grande città. Ecco, noi non accettiamo che Roma è una
grande città. Invece Roma è una grande città. Non è solo grande per il centro storico, di cui si è
parlato ampiamente oggi, è grande perché ha una popolazione e ha un’attrazione, continua ad
avere un’attrazione estremamente importante. L’altra cosa da fare è collegare non più la mobilità, e
queste famose metropolitane che vanno dalla periferia al centro, ma incominciare a collegare dove
vivono gli esseri umani, periferia con periferia. Cioè uno per andare dalla periferia nord a sud, ha
un impressionante viaggio da affrontare, specialmente vasto se non ha assolutamente un mezzo
individuale di spostamento. La cosa che possiamo fare è incominciare a pensare un collegamento
che sia anulare, però non raccordo anulare, che colleghi tutti quegli spazi necessari per dare prima
di tutto una capacità democratica di spostamento alle persone che vivono fuori del piccolo-grande
centro storico di Roma. Allora un progetto per la grande Roma, un progetto di un nuovo sistema di
collegamento delle periferie e, terza cosa da fare, difesa dell’Agro Romano. Sono anni che mi
batto, ci battiamo per cercare di fare entrare nella testa di alcuni, di molti, che in Italia servono circa
3 milioni di case, di abitazioni. Per gli strati più difficili, per quelli che hanno più problemi della
popolazione, per gli strati più deboli, per gli anziani, per le giovani coppie, per i giovani. Questo è
un piano che va affrontato. Io non so come farà il Comune ad affrontarlo in modo globale e così
sostanziale, perché non sono 50 mila le case da produrre ogni anno, sono molte, molte di più.
Perché sono di più? Perché abbiamo un deficit dalla Legge Fanfani. Allora so, per i miei
distinguished colleagues che sono qui, Fanfani non gli dice nulla. Fanfani fu un uomo politico
italiano che per primo pensò, subito dopo la guerra, a un grande piano per la casa. Dopo di lui
furono fatti una serie di piccoli accorgimenti ma mai e mai si è fatto un grande piano per la casa.
Non è un piano dell’emergenza, è un piano necessario, perché noi nel frattempo abbiamo avuto 5
milioni di immigrati recenti più una parte che sono clandestini. Ma i clandestini anche vivono e
dormono in qualche parte. Questa parte fondamentalmente sociale, che si lega oggi a un disegno,
si deve legare a un disegno, un progetto per la città di Roma, credo che sia uno dei punti
nevralgici. Perché è nevralgica la casa? Prendiamo Tor Bella Monaca, di cui tutti parlano. Tor Bella
Monaca che cos’è, in fin dei conti, è un’area che possiamo vedere nei rapporti, nella complessità
della situazione del perimetro urbano romano che pone dei problemi. Il primo problema qual è?
Che non è completata. È un luogo che può diventare parte integrante della città usando le
necessità, che è quella abitativa, per trasformare questo non habitat in un habitat. Allora che cosa
bisogna fare? Bisogna incominciare a pensare la città, i nuovi quartieri, il nuovo rapporto con la
realtà periferica come qualche cosa che va progettato, verrà progettato come sostenibilità, non
vanno dissociati gli elementi come il paesaggio, come capacità di incontro, cioè vanno ricostruite le
relazioni che fanno di una comunità una vera comunità. Quello che abbiamo perso è il senso della
comunità. Ma non si poteva non perderlo quando si è pensato che si poteva costruire dappertutto
in ogni modo, quando si è pensato che i collegamenti venissero dopo. Noi abbiamo adesso l’area
a nord di Roma, sarà densamente popolata, ha una grande quantità di servizi e spazi, che è
difficilmente collegabile col resto perché è qualche cosa – Bufalotta, avete capito tutti, quell’area
Porte di Roma, quell’area lì – che ha bisogno secondo me di essere integrata.
Governance: bisogna che superiamo la frammentazione. Bisogna che lo Stato sia Stato e che le
Amministrazioni siano Amministrazioni. E l’altra cosa da dire, le infrastrutture. Una grande città è
una città che ha grandi infrastrutture. Il piano del ’62 che prevedeva la città ad est, è andata tutta
da un’altra parte, però tutti facevano finta che non era vero, stava andando lungo la Magliana
17
verso il mare, che è il vecchio sogno della buonanima, senza dire che questo stava avvenendo,
però per quarant’anni hanno fatto finta tutti di lavorare su questo famoso Centro Direzionale che
era passato anche di moda. Oggi la Magliana è insufficiente, l’autostrada per Fiumicino ormai è
stracarica, si è costruito dappertutto e comunque. E la realtà che Fiumicino non è parte integrante
di un grande piano per Roma ha creato più problemi che soluzioni. Un grande progetto, la grande
Roma, la governance, difesa dell’Agro Romano, costruzioni senza aver paura di andare anche in
altezza in alcune periferie e in alcune aree specifiche, possono essere alcune delle soluzioni che
possiamo avere oggi.
SCHIATTARELLA: Ringraziamo l’Architetto Fuksas e passerei adesso la parola all’Architetto Krier.
KRIER: Penso che si ritornerà a una città pedonale e orizzontale piuttosto che verticale. Non ci
saranno più grattacieli e soprattutto non grattacieli aerocondizionati. Il granito non andrà più
trasportato a Milano dalla Cina ma verrà di nuovo da Brescia o da Bergamo. La questione è dove
realizzare questi nuovi quartieri indipendenti, di cui parlava già Giovannoni o Otto Wagner o Eero
Saarinen che sono gli autori di questo concetto di cui io sono il continuatore. Dove queste città si
costruiranno o ricostruiranno? È una cosa che non ho mai visto: un’Amministrazione come questa
che organizza un giorno come questo in cui il Sindaco è sempre presente mentre in genere il
Sindaco viene, apre e poi sparisce a fare delle cose più importanti. Dunque si tratta veramente di
un seminario di idee importante.
L’area del Parco della Musica che si vede qui si può dividere in una molteplicità di quartieri
indipendenti. Le tecniche che propongo consistono in come intervenire all’interno di aree urbane
come questa del Parco della Musica e come creare nuovi spazi, suddividendo spazi troppo grandi.
E poi anche soprattutto sostengo assolutamente l’idea di restaurare in modo conservativo l’area
del Foro Italico, già Mussolini, che è bella architettura e che si vede anche all’Eur, uno scandalo di
bellezza. Si deve vedere questo, che un regime tanto disumano ha prodotto un’architettura
estremamente seducente e anche bellissima e infatti umana. L’importante è che oggi si abbiano
delle tecniche estremamente flessibili per come operare, perché cambiare tutto non sarà possibile.
Soprattutto in democrazia è quasi impossibile fare dei cambiamenti strutturali importanti. Dunque si
deve operare in modo puntuale. E questi quartieri periferici non hanno anima. È questo che
manca: la piazza italiana. Quello che si ha in soprannumero nel centro manca totalmente nella
periferia, mancano cioè le piazze italiane. Si devono dunque identificare i luoghi dove, in questi
quartieri della periferia, che avranno una popolazione più importante, creare i centri, queste piazze
italiane. E queste piazze saranno legate da percorsi pedonali, come si è fatto nel centro storico, e
creano un quartiere, quattro rioni fanno un quartiere urbano. Per l’isolato delle palazzine che voi
conoscete molto bene perché probabilmente la maggioranza abita in queste palazzine che sono
piccole torri di tre, quattro piani, con il penthouse, e poi tre, quattro appartamenti per piano. Quello
che non va è che l’architettura è banale, in genere è estremamente banale. Quel che è
interessante è la piccola scala, la scala umana è un problema di dimensione. Se si guarda
dall’aereo, si vede che manca la bella architettura, è questo che mancava nel piano soprattutto
dell’Eur che c’è una scala architettonica buona dei grandi edifici monumentali, ma manca
assolutamente un decente sviluppo di un’architettura vernacolare residenziale. La monumentalità
non è un affare di altezza ma di numero dei piani. I più grandi monumenti del mondo non hanno
mai più di due o tre piani. Dunque non si devono più fare queste assurdità che si vedono adesso
nel mondo. Il Parco della Musica si divide in quattro, si vede sempre all’interno di questa struttura,
si vedono dei vuoti dove realizzare questa piazza. Questo è il modello, forse lì non è possibile, ma
l’idea di avere, in ogni quartiere pedonabile, una sola piazza italiana sarebbe una rivoluzione.
Questa è la struttura stradale esistente e quella è come si divide senza demolire, senza
distruggere un solo edificio in questo caso. Poi la piazza urbana italiana all’interno crea il centro
del quartiere. E con poche trasformazioni, forse solo murarie, si crea veramente una città nuova,
con centralità. Per capire un po’ come è diversa la scala di questo edificio paragonato a diversi
edifici moderni, questo è il Guggenheim, il Palazzo della Musica, il Palazzo di Giustizia di Bruxelles
e poi un Palazzo di Giustizia che ho fatto con mio fratello a Lussemburgo, che è costruito adesso,
e si vede che nella scala c’è veramente la soluzione. E il futuro del Parco della Musica sarà il
ridimensionamento degli spazi. E poi per incoraggiare la modernità avete qui il codice genetico di
un’architettura moderna riuscita, e forse è il caso di basarsi su questo e partire da lì e forse anche i
modernisti possono trovare simpatie per questo.
18
SCHIATTARELLA: Ringraziamo naturalmente l’Architetto Krier e diamo la parola all’Architetto
Meier, che non ha bisogno di presentazioni.
MEIER: Anch’io vorrei ringraziare il Comune di Roma per aver voluto questo incontro che
sicuramente, concorderete con me, è veramente interessante in quanto affronta tutte le
opportunità e tutte le sfide di quella che è una delle mie città preferite, ovvero Roma. Questo
nostro incontro è molto simbolico in quanto rappresenta il desiderio della città di Roma di guardare
al futuro dal punto di vista dell’architettura, dal punto di vista delle infrastrutture, guardare al futuro
senza rinnegare il proprio passato storico, il proprio retaggio culturale. Sappiamo che Roma andrà
avanti verso il futuro, sappiamo che sono più di duemila anni che Roma ha ispirato tutto il mondo.
È arrivato adesso il XXI secolo e con questo XXI secolo dobbiamo anche fare i conti con milioni e
milioni di cittadini e di turisti, di visitatori che esercitano una crescente pressione sulle infrastrutture
della città di Roma. E questo lo vediamo soprattutto nel centro storico della città, che è diventato
anche il centro direzionale e anche la sede delle attività culturali, nonché polo turistico. È indubbio
che sia giunto il momento per ripensare alcuni dei quartieri, alcune delle zone più amate della città
di Roma. Sembrerebbe inoltre esservi la disponibilità di aree demaniali dismesse che potrebbero
essere utilizzate per scopi vuoi residenziali, vuoi pubblici. E questo potrebbe quindi alleggerire
l’attuale peso che le risorse della città devono sopportare. La città di Roma quindi sta ricercando
una modalità giusta per poter tener conto di tre fattori fondamentali: le attività amministrative,
quelle turistiche e quelle culturali. Ora, io purtroppo non ho né un piano, né una soluzione da
offrirvi. Credo che ogni area, ogni zona debba essere analizzata per quello che è. In altre parole
non esiste la possibilità di applicare a qualunque città un sistema generale. Vorrei brevemente
mostrarvi alcuni progetti sui quali abbiamo lavorato che mostrano quello che si può fare in contesti
urbani tra di loro diversi. Nel 2002, dopo la tragedia del World Trade Center, un gruppo di noi si è
riunito per cercare di esprimere un’idea, Steven Holl e altri, con il sottoscritto, hanno creato un
luogo nella zona downtown di New York con il nome Memorial Square. Un luogo che nella nostra
idea doveva contenere e simboleggiare i collegamenti, i legami con la cittadinanza, con la città e
con il mondo. Non volevamo ricostruire le Torri Gemelle, non volevamo ricostruire delle torri isolate
in questo luogo, volevamo costruire qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo, che potesse tenere in
debito conto il contesto, il tessuto della zona di Manhattan. Abbiamo cercato di immaginare due
edifici con uso misto, residenziale e commerciale, per quindi racchiudere quella che noi volevamo
chiamare Memorial Square. L’idea era anche di avere dei parchi lungo il fiume, che sarebbero stati
in qualche modo le ombre gettate dalle torri gemelle, ormai scomparse tragicamente dal
panorama. Purtroppo questo progetto non è stato approvato, però volevamo in qualche modo
creare nella città un luogo pieno e denso di significato e di memoria, per ricordare ciò che era
stato. Un luogo destinato non soltanto ai cittadini di New York, ma un luogo per i cittadini di tutto il
mondo che sarebbero qui potuti giungere per riflettere sull’accaduto. Ora, dall’altra parte del fiume,
stiamo lavorando invece su un progetto nella zona di New York. New York è un’area che ormai sta
vivendo purtroppo un presente difficile dopo un gran passato. Per fortuna a New York esiste un
Sindaco straordinario che vuole attirare urbanisti, storici, alla città di New York per poterla
ricostruire, per poter trasformare il centro di New York ancora una volta in un nucleo vitale. Quindi
stiamo cercando di conservare alcuni degli edifici storici, aggiungendo delle nuove strutture. I
vecchi edifici della città di New York non sono certamente come quelli che ha la città di Roma, in
genere si trovano in pessime condizioni, hanno bisogno di ristrutturazioni importanti, ma si tratta,
anche in questo caso, di cercare di mantenere alcune strutture già esistenti introducendone delle
nuove per un uso misto. Così facendo si vuole rispettare anche la scala urbana e il contesto
circostante. Vi porto l’esempio di un museo a Francoforte che va ad aggiungersi a un edificio, che
risale all’epoca di Schelling e Goethe; anche l’edificio preesistente ospitava un museo. Si è deciso,
quindi, di costruire un Museo per le Arti Decorative con una dimensione di nove volte superiore al
museo originale. Questo va ad aggiungersi alla struttura preesistente e include anche la collezione
delle arti decorative. L’edificio si affaccia su un parco e questo diventa un incrocio dei movimenti
dei pedoni, da una zona residenziale, lungo il fiume Main, ad un’altra. È possibile attraversare,
penetrare l’edificio e da questo edificio riaffacciarsi sul panorama cittadino. La città è parte
integrante dell’esperienza di questo edificio. È questo il significato dell’architettura, si tratta di
rafforzare lo sviluppo urbanistico. L’ultima cosa che volevo illustrare è un progetto riguardante la
piazza antistante alla Cattedrale di Ulm. Sono stati indetti una decina di concorsi nel giro di
cent’anni per cercare di costruire qualcosa davanti alla Cattedrale ad Ulm. Si è trattato di un
concorso che riguardava la Stadthaus che si trova in un angolo della piazza; uno spazio pubblico,
19
uno spazio aperto nel centro della città che è molto più importante dell’edificio in quanto tale.
L’edificio ospita un ristorante e un’area destinata a mostre ed eventi; in realtà conta molto lo spazio
che lo circonda. La Cattedrale, peraltro, fa parte dell’esperienza di questo edificio, nell’attraversare
l’edificio si vede, attraverso questi lucernai, attraverso le vetrate, quella che è la più alta cattedrale
gotica in Germania. Passiamo, adesso, a un argomento che è noto a tutti, al punto tale che posso
permettermi anche di non parlarne. Se n’è parlato molto dell’Ara Pacis, s’è scritto molto dell’Ara
Pacis, permettetemi solo di dire che sono molto orgoglioso di aver contribuito a questo progetto qui
a Roma.
SCHIATTARELLA: Ringraziamo l’Architetto Meier. Darei la parola adesso a Paolo Portoghesi. Uno
dei più grandi studiosi della storia dell’architettura, ma anche architetto profondamente romano,
uno dei più profondi conoscitori della realtà romana.
PORTOGHESI: Anzitutto voglio ringraziare molti degli intervenuti che ci hanno raccontato la loro
Roma. Soprattutto Calatrava ci ha fatto capire che cosa può significare per chi viene da lontano
vedere questa città. Questo rafforza il senso di responsabilità. Noi romani abbiamo il dovere di
conservare il centro storico della città, chiamiamolo ancora così, perché non appartiene solo a noi,
perché è uno degli esempi più significativi di come la stratificazione storica può creare dei valori
che parlano a tutti, che hanno una profonda risonanza nella memoria. Il centro storico di Roma in
realtà è stato chiuso da una cintura che lo stringe continuamente e quindi respira male. Non fu
tanto Giovannoni, quanto Quintino Sella a proporre che Roma capitale fosse costruita lontana dal
centro storico, in modo da lasciare la Roma papale in qualche modo intatta. Poi naturalmente il
problema massimo dei grandi architetti romani è stato quello appunto di conservare più che
possibile il senso, il significato della città storica. In questo senso appunto Giovannoni, Piccinato, si
sono battuti perché non si realizzassero quegli sventramenti che hanno colpito a sangue
veramente il corpo della città. In fondo, se nel dopoguerra non sono stati realizzati gli sventramenti
programmati, questo è merito soprattutto degli architetti moderni, di Piccinato, di Baroni, di Zevi, i
quali si sono battuti contro l’inserimento all’interno del centro storico di quegli elementi che
l’avrebbero ferito e avrebbero reso impossibile la gelosa conservazione dei suoi valori. Certo, il
centro storico di Roma anzitutto non è un centro, non somiglia per nulla a un cerchio. Caso mai è
una piovra perché diciamo, ne parlerò domani, Roma è nata soprattutto come un centro che si
dirama, si dirama verso tutte le direzioni. Quindi è molto difficile da conservare perché si innesta
all’interno di quella che è stata definita periferia e che indubbiamente fa parte del corpo della città.
E qualunque intervento che riguardi il centro storico deve tener conto del fatto che è una parte di
un organismo completo. Questo deve farci capire che l’avvenire del centro storico dipende
soprattutto dalle trasformazioni di quella parte che sta tutto intorno al centro storico. E qui
veramente è straordinario come persone anche che la pensano diversamente, che fanno delle
architetture completamente diverse, sono fondamentalmente d’accordo nel fatto che questa città
policentrica non esiste, perché è una città policentrica con un solo centro. E mi sembra di aver
raccolto una convergenza anche sul fatto che per rappresentare questo bisogno, questa necessità,
la parola giusta è piazza. Piazza all’italiana. Che cosa vuol dire questo, che il vuoto conta più del
pieno. Che in fondo è lo spazio dove vivono i cittadini quello che deve comandare in un certo
senso. Intorno a questo spazio possono esserci cose diverse, che devono contribuire però a far sì
che i cittadini convergano in quelle zone. E allora secondo me si salva il centro storico se si
costruiscono all’esterno del centro storico, nelle zone di questa conurbazione così complessa e
così rada, abbiamo in fondo saputo dall’interessante rapporto introduttivo che Roma è una delle
città più estensive, che ha questo enorme territorio comunale in cui sono sorte una serie di isole, è
praticamente un arcipelago, ma un arcipelago privo appunto di quella capacità che deriva dalla
policentralità. Sono isole dormitorio, sono isole che a volte raggiungono una certa definizione, ma
mancano di una struttura che le faccia diventare parte di un insieme organico. Come si fa a far
diventare questo tessuto quasi cancerogeno, diciamo la verità, una parte di città? Certo, si deve
operare sulla mobilità, quindi sulla rete infrastrutturale. Ci sono 5 mila chilometri di strade nel
territorio comunale di Roma. Ma se andiamo a vedere lo spessore di queste strade, supera di poco
i sei metri, insomma, siamo tra i sei e i dodici metri. Ecco, questo ci fa capire quanto ancora c’è da
fare. Io sostengo che appunto sette, dieci piazze costruite in questa zona priva di strutture e di
collegamenti potrebbe rendere Roma una città policentrica e rendere possibile il dialogo tra il
centro storico e l’altra parte della città. Ma esiste anche all’interno del centro storico una forte
problematica. Ci sono alcune aree dismesse che sono all’interno del centro storico. E qui io direi
20
bisogna essere estremamente cauti, perché creare altri elementi di attrazione e di concentrazione
in un centro che già è attanagliato dalla presenza del resto della città può essere un pericolo.
Prendiamo per esempio il caso delle caserme di Prati. È sacrosanto distruggerle, mi auguro che
non ci sia nessuno così conservatore da pensare che questa testimonianza, sia pure
testimonianza storica o antropologica, demoantropologica come dicono gli esperti, abbia un
significato. Ma diciamo una città vive in quanto ha il coraggio di cancellare qualcosa che non ha
più senso (applausi). Il coraggio delle demolizioni e delle sostituzioni è un fattore fondamentale. E
devo dare atto alla Giunta attuale di aver inserito nel futuro della città una serie di progetti
estremamente significativi. Ma vorrei concludere dicendo che esistono a Roma una serie di
problemi lasciati insoluti, soprattutto dalle demolizioni avvenute appunto con la moda degli
sventramenti. Qui vedete un esempio, di fronte a San Giovanni dei Fiorentini c’è questo spettacolo,
che potrebbe anche essere interessante, forse ricorda dei quadri di Mafai, ma secondo me una
città civile ha il dovere di risolvere i problemi, di affrontarli con coraggio. E effettivamente a Roma
ci sono diversi punti che vanno affrontati con coraggio. Sono in fondo delle mancanze di continuità
del tessuto a cui non si è saputo dare nessuna risposta che quella di lasciare tutto come era.
Oppure in qualche caso si è risolto il problema attraverso la mediocrità. Guardate questo edificio,
questo era uno dei buchi su cui si pensava di fare dei concorsi: è un edificio privo di qualunque
qualità, perché non si collega con il tessuto urbano circostante, c’è questo angolo aperto che non
si capisce nemmeno, non ha nemmeno una datazione. Se voi vi ponete il problema di dire quando
è stato costruito, io credo che dieci persone risponderebbero in modo diverso (applausi). Ecco,
quindi bisogna stare estremamente attenti. Questo qui è uno dei punti più significativi, questo
vuoto di Via Giulia, della Chiesa di San Filippino, è un’altra delle ferite tremende, una ferita che
esiste da più di cinquant’anni, che è esposta all’osservazione di tutti. Ecco, io credo che chi visita
Roma e vede queste cose si domanda, ma perché. Perché hanno demolito, anzitutto, ma perché
non hanno poi utilizzato questi spazi. Oggi si parla di una soluzione, però io credo che un
problema così delicato andrebbe discusso, perché non so se ricostruire gli edifici ottocenteschi di
mediocre qualità che c’erano prima possa essere la soluzione giusta (applausi). Forse sì, però mi
sembra giusto dare la voce alla cultura della città perché questo è uno degli argomenti molto
importanti che la Giunta dovrà affrontare. Poi c’è il problema di Via dell’Impero. Via dell’Impero è
sicuramente un’opera incompiuta. C’è chi vorrebbe annullarla, ci sono stati molte proposte di
eliminarla completamente. Io non credo che si possa fare senza colpire la sensibilità della città nel
suo complesso. Ecco, questo muro però non può continuare ad esistere, questa è una soluzione
provvisoria di un problema che si è rimandato ad altri tempi e che poi con l’andare degli anni è
diventato sempre più drammatico. Sì, fu Muñoz a disegnare queste soluzioni con questa scala che
francamente fa ridere di fronte ai ruderi della Basilica di Massenzio, anche quella sostruzione è
certamente una cosa provvisoria, pensate che lì doveva sorgere il Palazzo del Littorio, questo è
l’edificio di Terragni di fronte a cui c’è ancora da rimanere stupefatti per la qualità dell’immagine
dell’architettura. E dopo questa soluzione del Palazzo del Littorio, ci sono state varie altre proposte
tra cui quella di Terragni, di costruire il Danteum, che è uno degli edifici rimasti sulla carta più da
rimpiangere perché tutto sommato rappresentava la crisi dell’architettura razionalista e il tentativo
di superarla attraverso la lezione della tradizione assorbita senza nessuna volontà mimetica. Ecco,
purtroppo queste immagini ci ammoniscono che in quella zona, dove adesso c’è veramente
l’architettura della barbarie e della stupidità, ci potevano essere delle cose di questo genere. E
finisco con un sogno, il Porto di Ripetta (applausi). Il quartiere del Tridente è certamente una delle
parti più significative di Roma, della Roma moderna, e il quartiere del Tridente aveva un cardo e un
decumano, anche se diciamo poi la sua struttura a ventaglio l’ha fatto interpretare appunto come
tridente. In realtà il decumano era la strada che va da Trinità dei Monti al Porto di Ripetta. Quindi
se si riuscisse a recuperare questa struttura, che in parte sembra che sia ancora rimasta sotto la
terra che riempie i muraglioni del Lungotevere, si compirebbe un’opera straordinaria, si
restituirebbe alla città il suo punto di contatto più solenne con il fiume (applausi). E quindi secondo
me non è concepibile un piano come quello che è stato proposto dalla Giunta di recuperare il fiume
per farne un esempio di come ci si adatta alle esigenze dell’ambiente, senza questo elemento,
questo porto che rappresentava diciamo il compimento del disegno della Roma barocca,
progettata da Alessandro Specchi, un architetto dell’inizio del Settecento, riuscendo ad esprimere
tutte le tensioni che in un secolo e mezzo di storia si erano prodotte in questa città che allora era
ancora la capitale dell’architettura.
21
SCHIATTARELLA: Per chiudere il giro, diamo la parola al Professor Richard Burdett, personaggio
importantissimo della cultura architettonica inglese, consulente del Sindaco di Londra, già Direttore
della Biennale di Venezia, quindi con una grossa esperienza anche in Italia, esperto di fatto in
rapporti tra architettura, designer urbano e società urbana.
BURDETT: Grazie mille. Anch’io voglio ringraziare il Sindaco e la Giunta per aver organizzato
questo evento su Roma. Come sentite da questo accento che finalmente posso parlare in Italia
senza essere imbarazzato, perché a Milano, a Genova, a Parma diventa un po’ un problema. Nato
a Londra ma cresciuto a Ponte Milvio, per cui qui vicinissimo, per me è un’occasione
professionalmente e anche personalmente molto importante essere qui senza l’esperienza di tanti
di voi intorno a questo tavolo. Io credo che vorrei fare un paio di riflessioni, non posso su Roma
oggi, però posso magari fare delle riflessioni su quello che sta succedendo a Londra usando
l’esempio delle Olimpiadi come punto di confronto, assolutamente non per dare un’idea di come si
fanno le cose meglio o come si fanno le cose peggio. Ma voglio partire anche fra l’altro da
pronipote di un Sindaco di Roma, Ernesto Nathan, di ricordare al Sindaco Alemanno che i piani
regolatori sono un’opportunità di fare del bene, ma anche un’opportunità fantastica di fare molto
male. Questo è veramente importante ricordarselo. Cioè uno sbaglio in un piano regolatore ha un
effetto negativo sulla città per trenta, quaranta, cinquant’anni. E le questioni di cui abbiamo parlato
già fino adesso, i problemi, le opportunità di Roma, il problema della città storica, verso la città,
come si dice, moderna, ma in effetti, come dice giustamente Massimiliano, è tutta la stessa cosa,
non si può fare più oggi questa separazione. Il problema della governance del settore pubblico
rispetto agli interessi privati, il problema di una città che in effetti in Europa rispetto… è molto simile
ad altre, è abbastanza statica, non sta crescendo molto, però ovviamente sta messa meglio di altre
città, tipo Milano e Torino che invece stanno perdendo la popolazione. Il fatto che c’è una
frammentazione fisica e anche sociale molto notevole, sono problemi che si riconoscono e non
sono solo problemi vostri, di Roma, sono problemi che si trovano, come ha detto Massimiliano in
una sua grandissima lezione globale, che mi è piaciuta molto sulle città internazionali, sono
problemi che si trovano a Liverpool, sono problemi che si trovano a Bogotà, sono problemi che si
trovano anche a Parigi, ma che possono essere risolti in un modo molto chiaro. Io vorrei farvi
vedere un paio di immagini di quello che sta succedendo a Londra con l’occasione delle Olimpiadi.
Però partiamo con forse due o tre statistiche, due o tre considerazioni di come Londra è molto
diversa. In un certo senso Léon la conosce forse meglio di me, ci ha vissuto, ci ha lavorato molti
anni anche con James Stirling, è una città molto più organica di Roma, non ha mai avuto in un
certo senso un piano, c’è stato un tentativo nel Seicento di Christopher Wren di ricostruire questa
città più o meno nella zona dove vediamo l’immagine che ovviamente, avendo visto il disegno di
Léon, forse verrà fatto in un modo diverso fra vari anni. Ma è un’immagine della City di Londra, il
centro finanziario, che è stato completamente distrutto da un incendio, in un giro di pochissimi anni
l’hanno ricostruito esattamente com’era pochi anni prima. È una città che è continuamente
costruita con interessi in effetti privati, dove i soldi, quelli che controllano il real estate sono quelli
che decidono quello che succede e rimane al settore pubblico, al Sindaco, ricordiamoci che a
Londra il Sindaco esiste solamente da dieci anni, non c’era un Sindaco di Londra prima del 2001
eletto direttamente dalla popolazione, è un fenomeno nuovo per cui anche lì stiamo imparando
come gestire questo rapporto fra l’infrastruttura, l’investimento e la governance. Ma è una città che,
devo dire, dopo una ventina, trentina d’anni di declino notevole, una città che era quasi 10 milioni
di abitanti intorno alla seconda guerra mondiale, è scesa fino a cinque milioni e mezzo, adesso è di
nuovo in crescita. E la crescita ovviamente io credo forse è una delle fortune di una città. Abbiamo
visto nelle foto orrende di Fuksas di quello… c’è una scelta di come gestire la crescita nelle città
cinesi, ma ci sono altri modi di farlo. Londra crescerà di 700 mila persone nei prossimi otto anni, è
un numero molto elevato rispetto ovviamente alle città europee o americane e canadesi, e di
questi 700 mila il 95% sono persone che verranno, sono nate fuori dall’Inghilterra, non fuori di
Londra, fuori dall’Inghilterra. Per cui Londra, che è già una città molto mixed, molto diciamo anche
integrata dal punto di vista etnico e culturale, lo diventerà sempre di più, e anche più giovane. È la
questione come disegnare la città, come diceva Fuksas, per questa tipologia sociale diversa. Cioè
noi in Inghilterra, a Londra quasi tutti vivono in una casetta di tre piani, che piace molto a Léon,
però tante persone non hanno più figli o vivono lì solo per cinque anni e poi se ne vanno. Per cui
sta incominciando la tipologia dell’appartamento che a Londra non è ben conosciuta. E questi
momenti sono, secondo me, molto interessanti dal punto di vista proprio di integrazione urbana.
Forse la cosa più importante, in termini di questo dibattito in cui un Sindaco può avere una mano
22
forte, è l’unica operazione importante fatta nella pianificazione di Londra durante la Seconda
Guerra Mondiale, dal grande urbanista Patrick Abercrombie, di scegliere di fare la cintura verde,
cioè che Londra finisce a un certo punto e poi c’è la campagna. Poi oltre la campagna ci sono le
new towns, ci sono altre strutture urbane. Io devo dire che più o meno Ken Livingstone, il Sindaco
che è arrivato nel 2001, ha ripreso esattamente questo modello con un aspetto nuovo, molto
contemporaneo, molto XXI secolo, che è quello delle aree dismesse. Cioè ha rafforzato il fatto che
la città non può andare oltre un tot, che sono più o meno un raggio di 65 chilometri, e questa
crescita di cui ho parlato può succedere solo nelle aree dismesse, o periferiche o centrali, però se
hanno buone connessioni di trasporto pubblico. Io sono d’accordo con quello che dicono Léon e
Paolo sulle piazze, ma le piazze in mezzo alle periferie che non sono connesse sono inutili
(applausi). Diventano posti dove gli emarginati soffrono. Per cui la connessione, allo stesso tempo
dell’integrazione, credo che sia importante. Questa statistica che voi avete a Roma, 800 macchine
per mille abitanti, è una cosa che fa veramente paura. Questo è più di San Paolo (applausi). A
Londra è meno della metà. Noi nella City che vediamo qui nell’immagine, nella parte anteriore
dell’immagine, nella City di Londra, dove sono tutti i centri finanziari e commerciali del network
internazionale, del business, il 97% delle persone usano il trasporto pubblico per andare al lavoro.
Non c’è un parcheggio con un posto macchina. La nuova torre di Renzo Piano, che sarà settanta
piani, che sorgerà più o meno alla destra di questa immagine, ha quarantasette posti macchina
solo per i disabili (applausi). Cioè questa è una decisione che in un certo senso… è una decisione
chiaramente politica che può essere presa per portare una città in una direzione o in un’altra.
Allora andiamo a vedere come abbiamo un po’ risposto all’opportunità dell’Olimpiade. Ken
Livingstone credo ha perso l’ultima elezione, mi dispiace per ragioni diciamo quasi personali,
perché ha detto che secondo lui le Olimpiadi del 2012 erano una scusa per usare 10 miliardi di
sterline, di soldi dello Stato. Lui ha detto è una scusa. È una scusa perché noi dobbiamo far
crescere Londra in un modo molto più integrato, oltre quello che vediamo in questa immagine,
nella parte est, nella parte oltre Canary Wharf, questo nuovo centro direzionale, dove per anni,
quasi duecento anni uno potrebbe dire a Londra, è sempre stata una zona di una città in disagio,
completamente diverso dalla zona occidentale dove vive la Regina, Buckingham Palace è dietro
l’angolo, però stiamo vedendo un pezzo di città che è completamente privato, costruito più o meno
centosettant’anni fa, oggigiorno ancora è controllato dalla stessa famiglia, dalla stessa struttura
quasi neoaristocratica che l’ha costruita in quel periodo lì. C’è un controllo molto forte sul rapporto
anche degli edifici con il verde, quello che vedete lì, oggi se io vivo in un edificio lì, non ci vivo
perché non me lo posso permettere, dovrei dipingere la facciata di questa casa di un colore che è
stato deciso centosettant’anni fa. Per cui c’è un modo di controllare e di gestire il patrimonio che è
abbastanza interessante. Le Olimpiadi sono un’opportunità significativa per Londra, non perché
porterà più gente – sì, verranno magari due, tre milioni di persone in più rispetto ai ventiquattro,
venticinque milioni che vengono già oggi – ma un’opportunità importante di riconnettere, come ho
già detto, una parte di Londra che non è stata ben connessa. Si trovano in quel punto rosso che
vedete al centro di questa immagine, dove i treni ad alta velocità dalla Francia o dal Belgio si
fermeranno con un viaggio che dura meno di due ore. Da lì si può arrivare al resto del network di
metropolitana con un nuovo sistema che vedete in rosa che arriva a Heathrow, che è l’aeroporto
principale di Londra, che stanno costruendo adesso con investimenti sia pubblici che privati, si
chiama Crossrail, come RER a Parigi, che vuol dire che il punto Stratford, dove ci saranno le
Olimpiadi, diventa veramente un punto nevralgico dal punto di vista della connessione di Londra,
sia all’interno della mobilità metropolitana, ma anche a livello internazionale ed europeo. Allora la
scommessa è questa, è molto semplice: le Olimpiadi sono un evento che dura due settimane, è un
evento che deve essere chiuso, deve essere sicuro sempre di più per questioni di terrorismo,
eccetera. Come concepire un’Olimpiade che invece diventa, esattamente come ha fatto vedere
Léon pochi minuti fa, un pezzo di città più integrato che si connette con quello che c’è intorno? La
zona è una zona che per anni ha sofferto, molto vicino ai docks di Londra con una popolazione,
come si vede da questa immagine con colore scuro, disagiata. E la zona più o meno alla destra di
questa immagine dove il fiume, il Tamigi, fa quella curva molto notevole, immediatamente sopra,
dove si vede questa concentrazione di colore scuro, che vuol dire concentrazione di popolazione
poco educata, con non sposati, con impiego molto basso, eccetera, è esattamente lì che
l’investimento di questi 10 miliardi di sterline viene fatto. Dal mio punto di vista, come cittadino di
Londra, mi fa piacere pagare le tasse in più per rimettere a posto questo bilancio iniquo dal punto
di vista sociale di quello che è Londra. La zona è abbastanza vasta e l’opportunità, si vede da
23
questo disegno, di usare il progetto come cerniera per ricucire assieme una zona che era molto,
per anni, di bassissima qualità, anche bassa qualità di impiego, e di spendere questi soldi per fare
qualcosa che dura per un legacy, per un’eredità che speriamo sarà lì per venti, trenta o addirittura
cento anni. La prima parte dei soldi è stata usata per togliere queste strutture dell’elettricità e
mettere tutto sotto terra con un sistema che permette la costruzione di residenze, di creare questo
parco per le Olimpiadi con un numero di edifici abbastanza aulici, eccetera, però questi due
diagrammi sono un po’ la storia importante e secondo me per Roma potrebbe essere una lezione
anche importante di come considerare non solo le Olimpiadi, ma anche interventi significativi. Si
crea un parco in mezzo a questa zona, intorno a questi due fiumi che ci sono al centro di questo
pezzo di città. In rosso si mettono tutte le strutture che sono necessarie per quelle due settimane,
un campo di basketball, di handball, fencing, eccetera, scherma. Ma in effetti queste strutture non
hanno un futuro, nessuno ne ha bisogno dopo quelle due settimane. Allora si tengono solo quelle
due o tre che sono necessarie e il resto diventa un’opportunità di creare città. E adesso vi faccio
vedere, negli ultimi momenti, quali sono queste proposte veramente a livello iniziale. Questa è
un’immagine delle strutture che verranno costruite, il basketball, hockey, eccetera, ma solo quattro
di queste strutture rimangono, tutte le altre vengono progettate come smontabili e spostabili,
perché è inutile tenere, come ho già detto, strutture che poi diventano elefanti bianchi, come si dice
in inglese, white elephants che non vengono usate. Una delle strutture che rimane è il progetto di
Michael Hopkins per il velodromo, l’altro è il progetto di Zaha Hadid per le piscine, adesso in
costruzione. E siccome anche le piscine avranno bisogno di forse posti spettatori quasi 20 mila e in
un futuro non ci sarà mai un’occasione di avere 20 mila posti, il progetto di Zaha Hadid viene
incrementato con dei posti temporanei che comunque - sono queste due ali non particolarmente
eleganti devo dire - ma dopo le Olimpiadi il progetto ritorna all’immagine che vi ho fatto vedere
prima. Per cui il parco sarà più o meno un’immagine di questo tipo, con uno stadio di 80 mila
persone in fondo. Finisco fra un minuto e mezzo. Lo stadio è già più o meno completato. Ma l’idea
interessante di questo stadio, che è un po’ la metafora di questo progetto, cioè come fare un
progetto urbano oggi che è realisticamente sostenibile. Questo stadio, quello che vedete, tutta la
parte superiore, 55 mila posti a sedere rispetto ai 25 mila più bassi, saranno tolti, perché non
abbiamo bisogno di un secondo stadio, c’è già Wembley con 90 mila posti, ci sono sei altri stadi, è
inutile farne un altro che rimane vuoto per il 95% del tempo. Per cui tutta la parte, dal pianterreno
in su, verrà tolto e ridotto in questo modo, in cui è possibile che magari intorno a questa struttura
cresce la città. Letteralmente due giorni fa è stato svelato questo nuovo progetto, che piacerà
molto a Léon Krier, son convinto, perché son solo tre piani. It’s a viewing tower and two
restaurants. È un progetto dell’artista Anish Kapoor, con l’Ingegnere Cecil Balmond, che è stato
come ho detto svelato l’altro giorno, che diventerà la Tour Eiffel di Boris Johnson, il nuovo sindaco
di Londra. Finisco con queste poche immagini per riassumere qual è questo approccio urbano
delle Olimpiadi di Londra. Le frasi sono forse sbagliate, perché non è un approccio urbano per
l’Olimpiade, è un approccio urbano per un nuovo pezzo di città all’est di Londra. Questa è
l’occasione, si vede qui nell’immagine, in marroncino, la zona dove il pubblico, vari milioni di
visitatori gireranno, si vedono sia le strutture permanenti ma anche quelle che verranno smontate e
spostate, e al centro questo grande parco. Si intravede ovviamente, a destra e a sinistra in
particolare, in grigio, la struttura urbana, normale di Londra, abbastanza organica, non
particolarmente elegante. Nel 2012, dopo i giochi, quasi tutte queste strutture, ho già detto,
verranno demolite, si vede in viola quello che rimane. È un’opportunità per costruire e noi stiamo
lavorando adesso con una compagnia che è parastatale, che è proprietaria di tutto questo terreno,
di creare questo nuovo pezzo di città. Per cui spero che vi dà un esempio non per dire come farlo
a Roma, ma che riprende questi temi di come riusare una zona al centro, in uno dei centri delle
città di Londra, che è un’opportunità importante per ricucire sia la struttura fisica ma anche sociale
di Londra. Grazie. (Applausi)
SCHIATTARELLA: Riassumerò in termini sintetici, perdonate lo schematismo, quello che è stato
detto attorno a questo tavolo. Allora, partiamo da Calatrava che ha sottolineato questi temi: il
fiume, i parchi, l’arte urbana, la lezione del centro storico. Quindi, Calthorpe: l’urbanismo e la
sostenibilità, la pedonabilità, alcuni progetti chiave tra cui Roma Termini. Segue Cordeschi: la città
come corpo vascolare, alcuni progetti chiave, San Lorenzo, Guido Reni, la demolizione e la
ricostruzione delle caserme, la manutenzione urbana attraverso i concorsi e il Foro Italico.
Passiamo a D’Agostino: valorizzazione del patrimonio delle aree dismesse, come luogo per la
ridensificazione e la residenzialità. Veniamo a Dolcetta: la città accanto come luogo della
24
modernità. E la volta di Fuksas: Agro Romano e la sua tutela, la grande Roma e il tema della
governance, il collegamento tra le periferie, quindi la mobilità, definita anulare, le residenze nuove
e il social housing, per colmare i deficit delle comunità e delle nuove generazioni e il sistema delle
infrastrutture. Quindi Krier: il tema della città matura, di una città che in qualche modo considera
l’uomo al centro della sua attenzione, la dimensione umana e la scala degli interventi e una
proposta esemplare per il Flaminio. Riguardo Meier: una laicità nell’approccio, se vogliamo, con
l’impossibilità di dare una risposta univoca alla grande varietà delle possibilità offerte dalla città e
soprattutto il tema dell’integrazione della città, cioè dell’agire integrando, creando dei luoghi di
grande valore simbolico urbano. Passiamo a Portoghesi: il tema delle piazze e della responsabilità
sul centro storico, non consentire l’appesantimento dei pesi sulla città storica, alcune ferite, San
Giovanni dei Fiorentini, la Moretta, Via dei Fori Imperiali e soprattutto il Porto di Ripetta e il
rapporto col fiume. Per ultimo Richard Burdett: le sue due chiavi di lettura, connessione e
integrazione. Per quanto mi riguarda, devo dire che è stata una giornata veramente importante. La
presenza di tanta gente in sala e il fatto che c’erano almeno duecento persone fuori che volevano
entrare, ci dice che è stato un grande successo, che c’è anche una grandissima attesa, non solo
della cittadinanza, ma anche di coloro che si interessano di progettazione. Ci sono molti architetti
qua dentro e c’è una grande attesa perché c’è una parte importante della cultura architettonica
italiana che sta chiedendo di avere opportunità. Noi crediamo che questa sia una grande
occasione per generare nuove opportunità per tutti e soprattutto chiediamo concorsi di architettura
per cimentare le capacità straordinarie che ci sono con quelle degli altri.
25
8 aprile 2010 - POMERIGGIO
PULLARA: Io faccio il giornalista e sostituisco un architetto che è Schiattarella e ho il compito,
adesso, di tirar fuori dagli esimi signori che hanno fatto relazioni molto interessanti, qualcosa di più
concreto, che può interessare maggiormente i romani che domani leggeranno i giornali o vedranno
la televisione. Le aree dismesse, il tema di oggi, leggo dai documenti del Comune che ci sono
circa 150 ettari di aree da utilizzare nella città storica Qualcuno ha detto, distruggiamo le caserme
di Viale delle Milizie. Come utilizziamo queste aree? Distruggendo quello che magari c’è e non ha
più funzione, oppure utilizzando quello che c’è con nuove funzioni? E che funzioni ci mettiamo?
Mettiamo una monofunzione, facciamo un teatro oppure un centro polifunzionale, il temibile centro
polifunzionale di cui parlano volentieri molti architetti o urbanisti o politici che non hanno le idee
ben chiare, perché a volte dire ci mettiamo tante funzioni, vuol dire che non si sa cosa metterci e
uno dice, mettere tante funzioni. Per esempio, l’area dell’ex Mattatoio sono una trentina d’anni che
è come voi la conoscete tutti ed è polifunzionale, c’è un pezzo di università, un pezzo di MACRO,
un pezzo… ma la realtà è che è ancora una terra desolata, come direbbe quel poeta che voi tutti
conoscete. Allora, comincerei a fare queste domande a una persona che viene da lontano, dalla
California, Peter Calthorpe.
CALTHORPE: In realtà non è stata posta una domanda semplice. Facciamo così, preferirei
rispondere a una domanda che avrei voluto mi fosse stata posta. La questione della città del
futuro, della nuova città, come sappiamo, è una specie di virus, è una specie di malattia che da
cinquant’anni a questa parte si sta diffondendo. Ora credo sia giunto il momento di dire basta.
L’idea che si debba reinventare l’urbanismo, reinventare la città a ogni generazione o a ogni secolo
è francamente un’idea assurda, e vediamo benissimo davanti a noi quelli che sono i risultati di una
tale impostazione. Io credo che la città moderna sia morta, ecco forse un titolo per i vostri giornali
di domani. Credo che la città storica contenga al suo interno molte delle lezioni necessarie per
meglio comprendere il tessuto urbano e riprodurlo, ma non potrà mai essere la stessa. Si tratta di
una complessità considerevole; dobbiamo cercare – e questo è un compito importante – di
intervenire sulle periferie per riqualificarle. Dobbiamo cercare, comunque, di rivolgerci alle persone
comuni, non agli architetti, che è sempre meglio; il che significa naturalmente che le città devono
essere più basate sull’uso del trasporto pubblico, sulla pedonalizzazione, piuttosto che sull’uso
dell’auto privata, questo ha delle enormi implicazioni dal punto di vista delle politiche e dal punto di
vista dell’economia. Allontanarci dal petrolio, dalle macchine, dalle strade, dalle soprastrutture
private che circondano l’automobile, è un esercizio molto difficile da svolgere, ma alla fine potrà
dare notevoli vantaggi, notevoli benefici dal punto di vista della salute dei cittadini, della vitalità
delle città e dal punto di vista, anche, della qualità del nostro ambiente. E non credo che nessuno
possa dirsi in disaccordo con questo obiettivo. Certo è difficile stabilire come riuscire a raggiungere
questo scopo. Per esempio si può scegliere di non allargare o allungare le strade o d’investire su
nuovi parcheggi. Tendiamo, piuttosto, magari a ridurre il numero delle strade per la circolazione
privata nei centri urbani. Tutti, credo, in linea di massima, accettano questo principio, ma è molto
difficile realizzarlo da un punto di vista concreto. Poi vi è un altro aspetto che m’intriga:
l’universalità del concetto di città storica, l’idea che la città sia il luogo ideale dove vivere e che alla
gente non piaccia lavorare né, tanto meno, vivere nelle periferie. Si è parlato del quartiere
dell’EUR. Il Sindaco ha detto che, a un certo punto, era stato fatto un tentativo di incoraggiare le
persone a trasferirsi nelle zone più periferiche. La cosa non è stata apprezzata e dobbiamo
ricordarlo come architetti, come urbanisti, che non possiamo stabilire, ex ante, cose come queste.
Devono cambiare le politiche, devono cambiare i principi applicati e devono cambiare anche i modi
in cui si lavora come professionisti. Molti di noi sono stati accusati di essere retrò, non
avanguardia, però sono i modernisti e gli avanguardisti che continuano a immaginare degli edifici,
a costruire degli edifici che violano lo spazio pubblico, che violano il ricordo dell’ambiente urbano
che il comune cittadino desidera. Ripetutamente assistiamo a questi strani tentativi da parte di
architetti che cercano di giustificare alla coscienza culturale collettiva degli edifici per loro stessa
natura violenti, che nel giro di pochi anni diventano obsoleti perché magari non rispondono alla
tendenza del momento, non creano questo stimolo, questo interesse. Eppure non riusciamo a fare
a meno di queste nuove forme architettoniche, come se il consumo energetico negli edifici non
contasse nulla, come se le strade che vengono plasmate dagli edifici non contassero nulla, come
se gli edifici fossero degli oggetti a sé stanti, isolati, cosa che non sono. Non solo devono cambiare
26
le politiche in maniera radicale, non solo abbiamo bisogno di un nuovo pensiero economico, ma
abbiamo anche bisogno di un cambiamento fondamentale nel modo di progettare le città, perché si
continua a inseguire questa fantasia modernista. Ecco, questo forse potrebbe essere un buon
titolo.
PULLARA: Molto interessante. Mentre Peter raccontava le sue idee, mi veniva in mente, pur
ascoltandolo attentamente, che ci sono due esempi di come queste aree dismesse possono
essere utilizzate, due esempi concreti – e spostiamoci su uno scenario molto più ampio e andiamo
nel mondo – per esempio andiamo a Parigi e a New York. A Parigi, vi ricorderete il buco riempito di
Les Halles, a New York, l’anno scorso, è stato fatto il contrario, c’era una ferrovia sopraelevata,
dismessa da dieci anni, e in pochi mesi, hanno fatto un parco sulla ex ferrovia, per cui adesso si
chiama High Line Park, cammina per un paio di chilometri per aria, in piena Manhattan, ed è un
esempio di grande efficacia di come si può in un’area dismessa, in una funzione caduta, si può
ridare vita a qualcosa che già c’è senza distruggerla. Allora, io chiedo a Paolo Portoghesi,
passiamo dall’America all’Italia, a Roma, a Paolo Portoghesi: quale preferisce, Professore, l’idea di
riutilizzare oppure di rifondare? E nell’eventuale rifondazione, è ammissibile l’intensificazione fino
alla verticalità, fino a pensare a dei grattacieli, naturalmente non nell’ansa barocca?
PORTOGHESI: Il problema del centro storico è quello di utilizzare le aree dismesse per un
problema di riequilibrio, quindi queste aree dismesse devono servire a diminuire l’attrazione,
piuttosto che a renderla invece più forte, perché altrimenti si finisce per favorire il
congestionamento. Molto diverso è il caso invece di quella zona intorno alla città, che poi viene
definita di solito periferia, ma è una definizione assolutamente insufficiente perché in realtà a
Roma, ogni anello che recinge il centro storico, in base alla distanza dal centro storico, ha delle
caratteristiche totalmente differenti. C’è un primo anello per esempio che è tutto caratterizzato da
una corona di piazze, ed è la parte della periferia che funziona, Piazza Bologna, Piazza Re di
Roma, eccetera, è una zona in cui la città ha mantenuto il suo codice genetico e si è accresciuta
senza gravi danni. Poi, andando ancora avanti, si trovano situazioni completamente diverse che
adesso sarebbe troppo lungo descrivere, però si arriva a un punto dove in effetti c’è una totale
assenza di servizi e invece dei dormitori distribuiti come un arcipelago, in modo assolutamente
disordinato. Ecco, è lì che secondo me, costruendo i nuovi centri, delle centralità alternative al
centro storico, si riuscirà poi a decongestionare il centro storico e a rendere possibile quel
processo di pedonalizzazione che è stato programmato giustamente da una delle commissioni
nominate dal Sindaco e che effettivamente ha disegnato una situazione del centro storico
completamente nuova, perché ovviamente l’intensificazione della rete di servizi pubblici e
l’eliminazione di gran parte del traffico automobilistico può restituire al centro quella qualità, quella
scala umana, quella ricchezza che… Io trovo che per esempio il capolavoro della Roma recente,
degli ultimi dieci o quindici anni, è quella passeggiata resa possibile dal Portico d’Ottavia alla Via
dei Fori Imperiali. Lì si cammina in mezzo ai ruderi e nello stesso tempo si sta dentro la città, che è
uno dei quartieri anche più in scala umana, più qualificati. Questa conquista della città storica per
la vita quotidiana delle persone che la abitano e che vengono invece da lontano per vederla è un
grandissimo risultato. Bisognerebbe che il centro storico utilizzasse questa logica e quindi se ci
sono delle aree dismesse, utilizzarle in funzione di un grande progetto come quello che è stato
fatto della pedonalizzazione, il che vuol dire rinunciare all’idea speculativa che invece dove c’è un
vuoto bisogna costruire più che possibile. La ragione per cui l’edificio di Meier ha suscitato tanta
contrarietà, non è lo stile di Meier, che tutto sommato è sicuramente elegante, è il fatto che i
governanti di allora decisero di quintuplicare il volume di quella teca che aveva fatto un membro
dell’ufficio tecnico del Comune, e non Morpurgo, e che tutto sommato non dava fastidio perché era
piccola. Fu compiuto un errore clamoroso da parte appunto delle autorità pubbliche nel confermare
la posizione dell’Ara Pacis in un luogo dove non era stata trovata e non stava nella Roma antica,
perché è stata ritrovata sotto a Palazzo Fiano a San Lorenzo in Lucina. Quindi accettare che
venisse spostata in quel luogo e invece di ridurre il volume, che creava delle difficoltà nell’insieme
del tessuto, amplificare questo volume, quindi forse quella si poteva considerare un’area residua.
Ecco, se si facesse un errore di questo genere per le nuove occasioni che ci saranno, sarebbe
tragico, si aumenterebbe la congestione e si introdurrebbe non un elemento di armonia, ma un
elemento che appartiene a una logica profondamente diversa da quella del centro storico. Quindi
io penso che effettivamente ci vogliano un piano e una grande coscienza dei valori collettivi dello
spazio urbano, per utilizzare queste aree che sono a disposizione. Molto diverso è il problema
27
della periferia, dove invece queste aree possono essere proprio la localizzazione delle nuove
centralità oppure per esempio, se pensiamo all’insieme dei Forti, delle aree da collegare tra loro
creando un percorso adattissimo alle piste ciclabili, praticamente un modello di fruizione di queste
aree verdi che sono rimaste all’interno della città. Quindi la cosa importante non è stabilire dei
principi astratti, ma veramente utilizzare le potenzialità che dà il fatto del cambiamento di
destinazione d’uso di alcune zone. (Applausi)
BURDETT: Su questo punto, sulla tua domanda di come agire, come intervenire in queste aree
dismesse, riprendendo anche il tema di Paolo e di Peter, questo è un po’ rischioso dirlo a questo
tavolo con tanti architetti: l’architettura è in secondo piano quando si parla di quest’area, la prima
cosa… /fuori microfono/… Per me l’architettura, anche se ovviamente provengo da un mondo dove
considerano l’architettura un’attività assolutamente fondamentale, in queste aree quasi diventa di
secondo piano, cioè deve venire poi. Prima di tutto bisogna decidere di chi è il terreno e di chi sono
i soldi che vengono investiti (applausi) perché la mia esperienza, non solo a Londra ma anche in
altre città, penso a Parigi, penso a Copenhagen, penso a città americane, che in genere, se
un’area dismessa viene gestita da un’entità privata, anche di altissima qualità, il ritorno
dell’investimento viene visto in un giro di cinque, dieci, quindici, magari vent’anni, per cui tendono a
essere progetti monofunzionali, con un interesse molto molto simile e tendono ad avere una
semplicità intorno anche all’intervento urbano che ha a che fare con il programma. Penso
ovviamente a Canary Wharf, il centro di attività commerciale all’est di Londra, penso al Battery
Park City a New York, che sono posti controllati da un gruppo commerciale molto rispettabile che è
il Canary Wharf Company, canadesi, che però fanno esclusivamente uffici, uno non può andare lì e
mettersi, non so, a suonare la chitarra per la strada o giocare a calcio, perché è proprietà… il suolo
è privato. Gli esempi invece di progetti in aree dismesse che invece hanno avuto successo negli
ultimi dieci, venti, trent’anni, sono esempi – magari poi altri possono commentare – tipo il Parc
Citroën a Parigi, dove una zona ex industriale, dove ovviamente si producevano macchine, dove
un grande parco è stato poi circondato da case ma anche da altre attività, cioè l’intervento del
pubblico, anche del Sindaco qui è importantissimo, e di dare una dimensione di ritorno di
investimento non in cinque, dieci, quindici anni, ma in venti, trenta, quaranta, cent’anni, di
considerare l’attività come in un certo senso stiamo adesso nella zona delle Olimpiadi di Londra, di
considerarlo come un investimento veramente a lungo termine. In questo senso, se uno considera
i principi che io spingerei da usare, questo non ha niente a che fare con lo stile architettonico, ma i
principi urbanistici, vista la tua domanda, che secondo me prevalgono e mi immagino che anche
intorno a questo tavolo siamo più o meno d’accordo, è di riavvicinare il posto di lavoro con la
residenza, dove i bambini, i ragazzi vanno a scuola, dove si va al cinema, cioè di ridurre queste
distanze che oggi portano (applausi). Questo secondo me è un discorso che può veramente far
parte all’interno della tipologia urbanistica di Roma, perché il sistema è potenzialmente lì, però va
rafforzato in certi punti, per cui io credo che l’architettura viene poi, una volta che si è stabilito il
programma, una volta che si è assolutamente chiari, ma bisogna essere chiari, chi sono i
proprietari, che interessi hanno e poi l’architettura segue e dà visione, dà tridimensionalità, dà
bellezza a questo programma molto più economico e sociale che puramente visuale. (Applausi)
PULLARA: Santiago Calatrava è un architetto che a Valencia, la sua città, ha utilizzato un’area
dismessa, nientemeno che il letto del fiume che attraversava la città, dico bene? A Valencia,
siccome questo fiume inondava periodicamente la città, hanno deviato il fiume, una cosa ciclopica.
In quest’area dismessa dalle acque, diciamo così, ci sono tante opere fra cui ci sono dei capolavori
di Santiago Calatrava, tra cui la Città della Musica. Quindi lei, Calatrava, se ne intende bene della
riutilizzazione di un’area dismessa. Lei ha fatto un’opera monumentale, quella specie di pesce che
è il Palazzo della Musica. Lei ha detto che conosce abbastanza Roma: nell’area ferroviaria di San
Lorenzo, a due passi dalla Stazione Termini, quindi il centro della città, si parla di dismissione delle
ex aree ferroviarie e ci sono ampie zone da utilizzare. Lei, conoscendo Roma, ci aiuti a
immaginare, a fantasticare un po’, immaginando una grande opera che riqualifichi il quadrante est
della città, semiperiferico ma assolutamente centrale da questo punto di vista.
CALATRAVA: Io vorrei fare alcune precisazioni: il buco de Les Halles viene costruito dopo aver
demolito Les Halles de Baltard, sto parlando di Parigi, oggi non sarebbe mai stato fatto
quell’intervento. Penso che sia stata una tragedia enorme. Di fatto ce n’è una a La Villette che è
stata ricostruita, l’hanno smontata bullone per bullone e l’hanno potuta ricostruire perché erano
opere del XIX, risultato di una concezione dell’ingegneria elevatissima. C’è questa leggenda della
28
conversazione fra Haussmann e Baltard, dove lui voleva fare ancora più pietra e Haussmann dice,
de l’acier, soltanto dell’acciaio, dunque anche uno sforzo enorme d’innovazione. È molto
interessante a Les Halles, vedere che quello che è stato costruito non ha niente a che fare né con
Renzo Piano e né con Richard Rogers, è stato fatto da un altro architetto, loro fecero il Centre
Pompidou e Piano fece anche l’IRCAM, che è proprio un’opera delicatissima accanto al Centre
Pompidou. Ma c’è anche la Chiesa di Saint Eustache che si trova accanto a Les Halles. Quello che
è sorprendente è che le absidi della Chiesa di Saint Eustache sono state anche fatte dallo stesso
architetto che fece Les Halles, Baltard, e riprendono anche questi camini stupendi di Chambord,
fatti con acciaio. Per la storia di Valencia di cui lei parlava, vorrei anche precisare che ci fu una
grande inondazione, non la prima, e che non è neanche la prima volta che il fiume sia stato
deviato. Io parlavo della parte romana della mia città, quella di quando è stata fondata. Il fiume,
una volta passava anche molto più verso l’interno di quella che era la città vecchia. Si decide,
dunque, penso che fosse la fine del XV secolo, di ingrandire la città e Valencia diventa, dopo
Siviglia, il più grande centro medievale, o intramuros di tutta la Spagna: In questa occasione si
rifanno anche il fiume e le opere di difesa del fiume che esistono oggi, commissionate dal re
Filippo II d’Asburgo e fatte da Herrera che fu anche l’architetto dell’Escorial. Dopo Avignone, ci
sono poche città nel Mediterraneo che abbiano un’eredità di ponti di pietra come quello che ha
Valencia, ponti magnifici, fatti in diverse epoche e anche tutte queste opere, come l’Obra del
Mursivalch, tutte opere di difesa del fiume, con un valore storico importante. Alla fine degli anni
Cinquanta ci fu questa piena, e morirono decine di migliaia di persone e soprattutto nella parte
bassa, verso il porto; per cui si decide, al tempo ancora del franchismo, di fare questo deviazione,
progettata da ingegneri e finanziata attraverso la vendita di un francobollo da 25 centesimi, si
chiamava el sello del Plan Sur. Interessante è anche che le opere che ho realizzato sono state
finanziate anche dal governo locale. Dunque, voglio ancora aggiungere una cosa, in fondo io ero
forse un po’ pusillanime, ma non avevo niente da dire quando decisero di fare questo giardino in
mezzo al fiume. I ponti gotici del tempo avevano le gambe più lunghe e la capacità fluviale del
fiume che era capace all’inizio di riprendere queste grandi piene diminuiva. Per cui, avevo
consigliato di non procedere con un parco semplice, con l’installazione di aree sportive e cose che
si possono anche fare, per esempio, in periferia o in altri posti dove sono più utili, ma di e di
intervenire con l’idea di restaurare un parco fluviale, dove la memoria del fiume sia qualche cosa di
più che un piccolo laghetto entro un ponte. Questo non è tanto per esprimere una critica, ma per
dire qual è lo spirito del tempo. Lo stesso di quando abbiamo parlato delle Halles de Baltard. Per
riprendere la questione che lei mi ha posto, io adesso vivo a New York, una città che amo
moltissimo e che trovo molto romana per un verso, lì fu distrutta la stazione di Penn Station. La
stazione di Penn Station, dal mio punto di vista, vedendo le belle fotografie, era la più bella del
mondo, fu distrutta per fare il Madison Square Garden. Oggi mai, mai, non sarebbe mai stato
realizzato. Dunque c’è anche un bisogno di collocare queste opere nella loro contemporaneità e
capire sempre lo spirito del tempo e vedere anche come quelle cose vengono fatte. Per cui non
vorrei emettere, adesso, un giudizio su quello che si deve fare a Roma, ma dirò prudenza,
prudenza, prudenza. Allo stesso tempo è una città che, basta andare a San Clemente, per vedere
quello che è, sviluppata in strati culturali. Eppure il tessuto urbano è riconoscibile nelle grandi vie,
come l’Appia Antica. In fondo, basta andare a San Clemente e vedere sette strati di quattromila
anni di storia. In fondo è una questione di misura, è una questione anche di coraggio e, voglio
anche aggiungere, bisogna dimenticare l’interesse ipotecario come elemento di giudizio perché
come mi diceva un amico tedesco die Bauten überleben uns, le opere ci sopravvivono, non c’è
dubbio, anche e soprattutto le cose brutte, ci sopravvivono. Dunque in quel senso bisogna seguire
l’esempio di Roma e lavorare con lo spirito romano e fare quei ponti come il Ponte Flaminio, dove
passarono i tank americani che liberarono la città, duemila anni dopo che avevano già previsto
simili carichi per i ponti. O il Ponte di Alcantara, vicino a Toledo, che è un monumento che ti lascia
veramente senza fiato. Bisogna avere un grande senso dell’eredità storica, bisogna anche
convivere con le circostanze e con le limitazioni delle circostanze, ma bisogna considerare che le
opere non appartengono a noi, appartengono a quelli che ci seguono.
PULLARA: Allora, ex Assessore D’Agostino… lei è stato a Venezia Assessore per molti anni e
dovrebbe essere particolarmente sensibile al discorso, come diceva Calatrava, di fare attenzione,
prudenza, prudenza, prudenza. A Roma c’è stata da una parte molta prudenza per tante cose e
molta fretta per delle altre. Abbiamo visto sorgere interi quartieri in modo strano e lasciare
abbandonate tante aree dismesse, abbiamo visto 150 ettari sempre lì ad aspettare una
29
sistemazione. Il dubbio è che ci siano stati forti interessi, diciamo pure, speculativi a premere a
favore o contro la realizzazione. Lei che formula suggerisce per fare evitando il veleno del fare?
D’AGOSTINO: In questa sede non si può che essere per il partito del fare, quindi non c’è dubbio
che questo è il punto; ma come ho già detto la questione non è tanto come fare, ma soprattutto
fare cosa. Mi sembra che gli interventi di Calthorpe e di Burdett abbiano messo molto bene in
chiaro alcuni elementi di cosa sarebbe opportuno fare, per esempio non puntare alla
riqualificazione delle periferie attraverso nuove grandi infrastrutture viarie, per esempio riportare la
città storicamente consolidata ad essere più abitata, cioè portare gli abitanti vicino ai luoghi dove è
più desiderabile vivere. Ora, credo che questo sia uno dei temi fondamentali che dovremmo
affrontare in questa sede, o perlomeno questo è il tipo di proposta o di provocazione che intendo
fare. Può anche darsi che sia sbagliata, come forse pensa chi conosce meglio di me Roma, ma io
credo che se vogliamo ragionare sul futuro delle aree dismesse, dobbiamo cominciare a farci un
programma su queste aree dismesse, come diceva Burdett, l’architettura seguirà, e speriamo che
sia una buona architettura, una grande architettura di qualità. Tuttavia sappiamo che non c’è mai
una buona architettura se il contesto urbano è sbagliato, ci possono essere degli oggetti, delle
cose che uno va a vedere, va a visitare come un turista, ma se il contesto urbano non funziona
l’architettura non funziona. Quindi il problema delle aree dismesse è fare un programma su queste
aree e questo programma potrebbe aiutarci a superare anche il problema delle periferie, a
superare in qualche modo anche il problema del traffico, avvicinando gli abitanti alle funzioni. Ciò
può non solo generare un miglioramento urbanistico complessivo, attraverso un progetto urbano
con un fondamento, che non dice, nelle aree dismesse metteremo tante belle funzioni e faremo
tante belle architetture, ma dice che cosa s’intende fare e con quali obiettivi. Si tratta di una politica
volta a contrastare uno dei principali problemi delle nostre città: le città si svuotano, le aree centrali
delle città si stanno progressivamente abbandonando, dunque occorre riportare gli abitanti nelle
città. Questa è una prima questione. Una seconda questione è che fare un’operazione di questa
natura, cioè portare le aree dismesse a diventare nuovi luoghi di abitazione - 150 ettari
tecnicamente potrebbero voler dire 15/20 mila abitanti, tanto per dare dei numeri - significa fare
una grande politica di housing sociale. Ciò comporta un impegno diretto da parte
dell’Amministrazione Comunale in quanto l’housing sociale può essere realizzato esclusivamente
attraverso un intervento pubblico. E infatti solo il pubblico può fare operazioni nelle quali non esiste
un profitto e le aspettative di rientro sono a lunga gittata – 20/30/40 anni. Tuttavia va tenuto
presente che si tratta di operazioni economicamente sostenibili in quanto, a partire dalla
disponibilità gratuita delle aree – le aree dismesse – attraverso le tecniche di finanziamento di cui
qui non è il caso ovviamente di parlare, l’intervento per l’amministrazione pubblica potrebbe essere
sostanzialmente a costo zero, poiché l’investimento verrebbe completamente risarcito dall’affitto
per quanto contenuto a cui queste abitazioni possono essere date. Inoltre un’operazione di questo
tipo consente delle ricadute economiche fortissime; basti pensare all’aumento di capacità di spesa
di 20 mila persone che invece di avere una quota particolarmente significativa del proprio reddito
tagliato dagli insostenibili affitti di mercato, potrebbero liberarlo per migliorare il proprio tenore di
vita con effetti significativi anche sulla vita sociale e culturale della città. Consente un vantaggio
economico dal punto di vista della mobilità, perché se ci sono 800 auto ogni 1.000 abitanti, vuol
dire che in questo modo noi eviteremmo l’entrata in circolazione di migliaia di nuove auto. I
vantaggi sociali sono evidenti e non ne parlo. In quanto alle ricadute urbanistiche, una soluzione di
questo genere potrebbe anche non essere condivisa dalla città o dall’Amministrazione, ma non vi è
dubbio che si tratti di una scelta urbanistica forte.
In definitiva, se vogliamo parlare di città storica, aree dismesse, periferie, a mio avviso bisogna
incominciare a entrare nel merito di che cosa effettivamente fare all’interno di queste aree e quali
sono le ricadute economiche, sociali e urbanistiche che queste aree possono determinare,
sapendo – e qui chiudo – che oggi non è più il tempo di improbabili valorizzazioni immobiliari, che
non si può attendere di trovare chissà quanti investitori che vogliono fare chissà cosa nei 150 ettari
di aree dismesse. È il Comune che deve fare e che è perfettamente in grado di fare un grande
progetto pubblico su queste aree, riappropriandosi della riprogettazione della città. E poi ci saranno
i concorsi, e poi ci sarà la qualità e poi ci saranno tutte queste cose, ma intanto è da un progetto di
questo genere che mi sembra interessante partire.
PULLARA: L’architetto Cordeschi ha ottenuto applausi a scena aperta nel suo intervento di questa
mattina perché ha detto un sacco di cose belle. Mi ricordo che l’applauso più grande l’ha avuto
30
quando ha detto, abbattete le caserme, e quindi siamo tutti d’accordo nell’abbattere le caserme…
no? Quindi a Cordeschi chiederei, ma abbattiamo le caserme, quindi lei si schiera per la linea –
faccio un esempio – della tangenziale est abbattuta, piuttosto che trasformata nella high line of
Rome, una cosa del genere, cioè trasformare la tangenziale in un parco che gira per aria, o si
schiera per l’abbattimento? Cordeschi che ci vorrebbe fare di queste caserme in pieno quartiere
Prati?
CORDESCHI: Intanto non tutte le aree dismesse sono uguali. Io ho parlato di demolizione per
l’asse delle caserme perché a) non ritengo che siano un’architettura significativa, e poi è per la
posizione. Cioè, le potenzialità che ci sono in quell’area sono enormi, perché è un’area molto
grande, al centro della città, con due fermate della metropolitana in testata, che lasciare come città
giudiziaria com’è oggi, neanche completa. Lì una volta c’era il distretto militare: cioè tutte attività
che possono essere fatte altrove, cioè lì c’è un patrimonio enorme e perché non mantenere quei
fabbricati? Perché a parte qualche ingresso, qualche testata che forse potrebbe essere
conservato, nel complesso non mi sembra che il bilancio fra le potenzialità della localizzazione e la
qualità dell’architettura facciano pensare a un mantenimento. Diverso è invece per altre aree, ad
esempio Guido Reni o ad esempio la zona di Piazza Re di Roma. Lì, probabilmente, la strada può
essere un’altra, può essere anche quella di conservare delle parti. Il vero problema secondo me
però non è questo, il vero problema è cosa ci facciamo e come troviamo i soldi. Allora, è una
domanda che io faccio e non ho risposte. Io credo che alcune esperienze, di cui parlava Ricky
Burdett poco fa, come a Canary Wharf ad esempio, dove la monofunzionalità ha avuto dei
problemi; quell’area è stata salvata all’inizio degli anni Novanta con immissione di capitali stranieri
per tenerla un po’ in piedi, poi è ripartita. Insomma, ha avuto una storia non facile. Il fatto di
mescolare le attività, è vero che sembra una ricetta, come si fa con gli avanzi del frigorifero, ma
non è così, cioè è anche un investimento prudente, perché io differenzio l’investimento e posso
avere una flessione su un campo, ma reggere sull’altro. Questo secondo me è ancora una
soluzione giusta per le aree nella corona, Scalo San Lorenzo prima di tutti, perché fare qualcosa
con la sopraelevata, sì, è possibile anche lì utilizzare, come la Promenade Plantée, la
sopraelevata. Io credo che, anche lì, l’area ha una tale potenzialità per cui sarebbe giusto invece
demolirla e lì un housing sarebbe possibile, anche con servizi e spazi pubblici. Io credo che le
operazioni da fare sono due. Un ascolto dal basso delle esigenze della città in quell’area e per
questo il Piano Regolatore nuovo ha già degli strumenti, ad esempio piani strategici, mura, Tevere,
anello ferroviario, Parco dell’Appia, sono un lavoro sistematico, lungo e molto ricco di problemi che
noi possiamo già esaminare, cioè le connessioni fra le parti in qualche modo sono state già
indagate. Alla quale deve succedere la fase 2, cosa ci facciamo e come operiamo? Per come
operare, secondo me un aspetto fondamentale è il controllo dell’operazione. Molte operazioni
partono benedette in partenza dall’Amministrazione e da un gruppo anche d’imprenditori che vuole
fare un’operazione che poi nel tempo possono perdere smalto o fermarsi del tutto. Allora, secondo
me, su ogni progetto urbano importante bisogna fare un ufficio mirato, apposta, che lo segue
dall’inizio e lo porta in fondo. Questo gruppo dovrebbe essere un gruppo misto, un gruppo misto
fatto dall’Amministrazione con i suoi tecnici qualificati e anche dal gruppo di sviluppatori che
esprimono i loro tecnici e che seguono l’operazione fino a che questa si conclude. Questo,
secondo me, è adatto a molte delle aree dismesse di cui si parla. Le caserme sono una cosa
diversa: Roma è una capitale da un secolo e mezzo, quindi è una capitale giovane. Le altre città
europee hanno avuto delle grandi monarchie e le città più importanti sono state sede del Governo
per secoli. Da qui forse una certa diffidenza degli italiani verso il potere, perché ci sono abituati da
una generazione e mezza. Ora Roma, a differenza di Parigi o di Londra, non rappresenta
completamente il paese, e lo sappiamo, l’idea che a Roma c’è la politica, che a Roma c’è
un’Amministrazione che non sempre viene sentita in tutte le parti di questo paese come una cosa
vicina. Se a Roma ci fosse un posto, io non vi so dire come, ma che in qualche modo rappresenta
l’Italia, ma che non è una mostra, cioè non è la fiera, è un posto dove ci sono delle istituzioni fisse,
una parte della città giudiziaria, ben venga, non lo so come e dove, l’università, in parte può essere
un investimento privato e in parte può essere anche un posto, come dire, una specie di laboratorio
dove tutti i punti di eccellenza italiani vengono rappresentati, cioè una specie di casa del paese,
non della città. Un luogo dove si fanno programmazioni culturali, si fanno mostre, dove l’eccellenza
tecnologica dell’Italia viene rappresentata, che sia la Permasteelisa o che sia Natuzzi, cioè un
posto dove il paese si rappresenta non la città. Secondo me questo macchinone, questo motorone
potrebbe stare lì. Probabilmente delle quattro caserme, due potrebbero ancora essere uno spazio
31
aperto, una nuova piazza contemporanea nuova e le altre due ospitare un volume con queste
funzioni, ovvero mettere insieme l’Amministrazione con una partnership con privati che mettono i
soldi, il riferimento va all’industria d’eccellenza, che potrebbe essere valido, per mettere su una
macchina insolita, una macchina nuova ma che rappresenti il paese. Secondo me quel posto ha
delle potenzialità che vanno al di là del mix funzionale, un po’ di case, un po’ di cultura, un po’
d’altro. Poi ho visto che in tutti i programmi strategici c’è l’università che risolve sempre tutto. Ora
l’Università La Sapienza sta ovunque, cioè salva qualunque situazione, anche Roma Tre salva
qualche cosa, però ecco mi chiedo se questo non è ottimistico, nel senso che io so, come
professore, che non nuotiamo nell’oro, per cui questa università che salva tutte queste aree
dismesse non è pensabile, quindi bisogna inventarsi, però sempre dal basso, ascoltando il
quartiere e dall’alto, perché ci vuole una regia, una strategia per la città e comporre queste due
cose. L’elemento che le compone è il progetto urbano, che è ancora uno strumento valido. È uno
strumento valido che però dev’essere accompagnato da uno strumento di controllo. Questo è
fondamentale e questo garantirebbe la realizzazione di queste idee che stiamo oggi abbozzando.
PULLARA: Io seguo un po’ l’urbanistica da tanti anni, mi pare che il Comune abbia degli uffici che
dovrebbero gestire lo sviluppo, la realizzazione di un progetto urbano, tant’è vero che di un
progetto urbano stiamo parlando, mi pare. Quindi la creazione di nuovi uffici non è necessaria.
CORDESCHI: Lo penso dedicato solo a quel progetto, cioè non in assoluto.
PULLARA: Io so che c’è l’ufficio del Piano Regolatore. Forse capisco il senso della proposta e
dell’esigenza di accentrare in un posto di comando.
ALEMANNO: L’architetto sta dicendo che ci vuole una sorta di cabina di regia per ogni grande
progetto urbano mirato, nel senso che essendo una realtà multidisciplinare ha bisogno di avere un
luogo. Quello che oggi è una persona sola, quello che è il responsabile del procedimento deve
diventare invece la cabina di regia stabile, che permetta di guidare dall’ideazione al confronto alla
cittadinanza fino al compimento.
PULLARA: Credo che sia un impegno notevole quello di riassumere in una entità unica la
realizzazione di un progetto urbano. Volevo chiedere a Massimiliano Fuksas, che ha delineato il
risanamento della città attraverso l’uso di elementi strategici, quali sono? Niente meno che la
governance, la mobilità, una mobilità circolare e non a raggio, la difesa dell’egro e le infrastrutture,
e la casa. Tutto questo è molto chiaro, innanzitutto, ed è molto importante, molto condivisibile,
penso che sia condiviso da tutti qua dentro, ma questo non sposta a un orizzonte un po’ troppo
lontano l’inizio del risanamento di questa nostra città? Perché ci vogliono decine d’anni,
generazioni forse, per parlare di una nuova mobilità circolare, quindi metropolitane, eccetera,
infrastrutture di servizio, eccetera.
FUKSAS: Questa mattina ho parlato di questi temi e ovviamente non ho mostrato le esperienze
personali. Parliamo dell’Italia, poi parliamo di quello che c’è fuori. In Italia io la chiamo la mia
trilogia personale, è iniziata con la vittoria del concorso del Palazzo dei Congressi di Roma. Il
concorso iniziò nel 1998, nel 2000 ho vinto la seconda fase e un anno e mezzo fa circa ho iniziato
il cantiere. Ci sono passati nel frattempo tre Sindaci. Perciò per il mondo è una grande anomalia, io
capisco quello che mi dice Pullara, dice, però visti i tempi, vista l’organizzazione, visti i grandi temi
che stiamo affrontando, è un sogno diventare un paese normale o è un’illusione? Allora, io credo
che non sia un sogno diventare normali. Possiamo diventare normali, possiamo riprendere un
modo normale. Meier ha messo molti anni e molti dibattiti e molti viaggi a Roma. Che cosa
secondo me è il fulcro del ragionamento? Il fulcro è che non c’è un’esperienza internazionale in
questa città, dal punto di vista urbano. Noi adesso stiamo ridiscutendo temi che in Francia sono
stati discussi da tempo e non in Francia solo, ma anche in Germania. Vorrei iniziare a parlare degli
strumenti. Io parlo solo di strumenti adesso, non parlo di architettura; è meglio parlare di strumenti,
come dice anche D’Agostino, che parlare di progetti in questo momento. Il progetto usato dalla
Francia per anni e anni è stata la ZAC. Che cos’è la ZAC? La ZAC è una Zona d'Aménagement
Controllé… Concerté, cioè voleva dire che un Sindaco, sia della periferia urbana e sia della città, si
dotava di strumenti messi in opera da delle SEM, delle Société d'Économie Mixte - se mi ricordo
bene, perché sono tutti termini di questo genere - che organizzavano e pianificavano uno sviluppo
di un’area, in molti casi dismessa. È capitato a me a Clichy con fronte Senna di due chilometri, che
in parte è andato bene, in parte è stato attaccato dalla prima crisi economica forte a metà degli
32
anni Novanta, però diciamo era uno strumento che si dava l’Amministrazione. L’Amministrazione
aveva la SEM che era una società di economia mista, che voleva dire? Che era in parte
dell’amministrazione comunale, ma in parte di un grande organo dello Stato, che è la più grande
banca del mondo, la Cassa Depositi e Prestiti francese, molto diversa da quella italiana. Queste
due cose insieme davano finanziamenti. A questo punto c’è una società di gestione: in che modo lo
gestiva questo sistema? In un modo molto semplice, si pianificava o si programmava, si faceva un
progetto e questo progetto veniva approvato dal consiglio comunale, dopo l’assemblea a
partecipazione di cittadini. In tempi molto ristretti, ma giusti, veniva approvato e poi le aree
venivano in un certo modo cedute, cioè uno poteva costruire solo quello che era stato progettato,
cioè progettato urbanisticamente. Un po’ anche di architettura, perché non è che era una cosa solo
planimetrica, ma si vedeva quello che doveva essere questo pezzo di città. La cosa aveva dal
punto di vista economico un grande vantaggio, che doveva essere a bilancio zero. Non è che ci
doveva guadagnare l’Amministrazione, tanto si vendeva e tanto veniva acquisito. Perciò alla fine,
le opere di urbanizzazione, le infrastrutture pubbliche che sono sottoterra, sopraterra o edifici
culturali, eccetera, eccetera, venivano finanziate con la vendita di queste opere. Il sistema non è
mai stato effettivamente così, perché a un certo punto questo bilancio scricchiolava da tutte le parti
e non conosco nessuna delle ZAC che non siano finite con un piccolo deficit o un grande deficit.
Adesso io non lo so con precisione, ma credo che il superamento della ZAC poteva avvenire
intellettualmente con il progetto urbano. Il Ministero delle Infrastrutture, dell’Urbanistica, dei Lavori
Pubblici, non so quanto appartenga a uno e a un altro, d’Equipement si chiama in Francia, hanno
incominciato a pensare al progetto urbano e lì c’era una signora che si chiama Madame
Masmungie, che era la capa di questa teoria filosofica che ha portato poi a quasi nulla. Allora, tutto
questo sistema estremamente complesso, dotato poi di una banca finanziatrice, cioè dello Stato
che metteva i soldi, dall’altra parte il Comune che era parte attiva, e il Sindaco è una parte
estremamente importante in Francia, non è una parte marginale, si articolava sulle SEM. I risultati
di queste SEM non sono straordinari, forse la SEM Rive Gauche è un po’ meglio, però non sono
veramente straordinari, non c’è la grande architettura, anzi, diventa un’architettura, specialmente in
periodo di crisi, che tende a densificare, ma a densificare crescendo in altezza, mettendo su un po’
più di piani per riuscire ad avere il bilancio almeno teoricamente a zero. È un po’ finta la cosa.
Secondo me questo strumento non va utilizzato, è uno strumento degli anni Settanta. Ormai credo
che noi dobbiamo inventarci qualche cosa di nostro, che appartiene alla nostra cultura, a una
cultura che ha una scarsa incidenza dello Stato nelle operazioni e dall’altra parte non ha una
Cassa Depositi e Prestiti, non ha le banche che hanno lo stesso criterio e la stessa struttura di
questa. Il caso di Berlino è un caso abnorme. Cioè, a un certo punto si decide che Berlino deve
ritornare capitale. Va benissimo. Soltanto che le due Berlino, nel frattempo, quella storica che era
quella che stava all’est e quella costruita negli anni Cinquanta, Kurfurstendamm, che stava ad
ovest, le due cose hanno avuto difficoltà di trovarsi, specialmente perché la popolazione maggiore
era dall’altra parte, ad est, ma anche perché le distanze raggiungono quasi i 90 km. Allora che
hanno fatto? Hanno potenziato tutto il sistema delle metropolitane, quelle interne e quelle esterne.
La prima cosa che hanno fatto è questa. Poi hanno fatto tante cose che non andavano fatte, ad
esempio distruggere un edificio come il Palazzo della Repubblica, che era un edificio bellissimo
degli anni Cinquanta… va beh, tu sei conservatore, va bene. Però io questa volta sono più
conservatore di Krier perché dico che è un edificio estremamente interessante. Continuando di
questo passo io credo che ci siamo trovati a un punto… chi è nato prima, l’uovo o la gallina…
perché dice, chi è nata prima, l’urbanistica, la città o l’architettura? È risolvibile, cioè mi
raccomando, nessuno voglia risolvere il problema perché l’unica cosa da dire è l’uovo e la gallina
nascono insieme, possiamo dire, non so chi nasce prima o dopo. Che cosa si potrebbe fare qui di
concreto? Riguardo le aree dismesse, io mi sono occupato di tante aree dismesse. Il risultato
migliore l’abbiamo avuto con Milano, perché abbiamo fatto una fiera in 26 mesi, un milione di metri
quadrati, e abbiamo tenuto il budget esattamente quello che era. Il finanziamento come l’abbiamo
ottenuto? Primo perché hanno fatto una società che è entrata in Borsa, e questo grazie al bravo
Roth che era Presidente allora, e la seconda cosa che hanno fatto importantissima è cedere
un’area centrale, quella di City Life, e metterla all’asta e incassare 500 milioni di euro. Perciò il
costo, alla fine di questo manufatto è stato zero. Ma c’è una cosa di più, che era un’area dismessa
sì, ma era un’area piena d’inquinamento. Allora, la prima cosa è stato risanarlo. Quello era il luogo
dove, quando si sentiva della puzza terribile al Duomo veniva da là, dalla raffineria. Allora è stata
smantellata la raffineria, è stato bonificato il territorio, e quella cosa è andata in 26 mesi, è andata
33
piuttosto bene. Invece, in un’altra area dismessa, che è Torino, io non parlo ancora di Roma, di
Torino dove deve sorgere il Palazzo della Regione, che c’è voluto pure una decina d’anni per
iniziare il cantiere, perciò i tempi italiani sono questi fino adesso, lì c’è una grande area a ridosso
del Lingotto. La prima cosa che ha chiesto sia l’Amministrazione comunale che quella regionale è
di fare un masterplan che risolveva i problemi del quartiere. Allora lì effettivamente avevamo
un’idea di un progetto, ma era sull’area inquinata della FIAT Avio, perciò è stata bonificata l’area, e
poi con le quantità di metri quadrati che metteranno a disposizione della collettività e degli
imprenditori, si è trovato un equilibrio finanziario. Cioè, la cosa si può fare, ma si fa con modalità
tipicamente italiane. Vorrei concludere con questo, Roma è una città che si è fatta per secoli su se
stessa, perciò c’è la stratificazione di cui parlava Calatrava. Si costruiva e si demoliva. L’area
imperiale era grossomodo a otto metri sotto terra. Noi siamo abituati a questo, a un certo punto si
è bloccato il processo, il movimento moderno e la cultura contemporanea hanno preferito
salvaguardare per non andare a distruggere quello che avevamo. Quello che hanno fatto in
Francia è stato invece il contrario, hanno distrutto totalmente, hanno distrutto aree come quella di
Baltard, era il 1970 e io fui uno degli ultimi visitatori di questo bellissimo mercato, nel 1970, nel
1971 poi fu demolito. Noi abbiamo uno spirito che non vogliamo toccare la nostra storia, e questo
va benissimo perché ci ha fatto salvare tantissime città, anche se le periferie sono andate da
un’altra parte. Io credo che, guardate, quello che bisogna fare sicuramente è trovare un nuovo
sistema per governare questo paese e questa città. Se noi non troviamo un rapporto nuovo in cui il
privato fa il privato; io non sono d’accordo di mettere tutti insieme, cioè il privato che entra
nell’Amministrazione… no, l’amministrazione deve fare il proprio mestiere, ognuno deve fare il
proprio mestiere. Il progettista è il progettista, l’imprenditore è l’imprenditore, l’Amministrazione è
l’Amministrazione. Ognuno di questi deve saper fare il proprio mestiere. In Italia, dato che non
riusciamo a fare bene il nostro, facciamo sempre il mestiere degli altri.
PULLARA: Richard Meier ha detto prima, nel suo intervento precedente, guardiamo al futuro
senza rinnegare il passato. Probabilmente è un criterio al quale si è ispirato per fare la sua opera
romana sul Lungotevere, anche se qualcuno non la pensa così. E poi ha detto un’altra cosa, io non
ho soluzioni da offrire per le aree dismesse, anche perché probabilmente non conosce le situazioni
specifiche, e quindi bisogna regolarsi caso per caso, giustamente. Allora non mi resta che chiedere
a Richard Meier, che viene da un altro mondo, nel quale abbiamo visto tutti… mi è capitato una
volta di andare a New York e ho visto, di fronte alla finestra dell’albergo, degli operai che buttavano
giù un grattacielo, non si sa perché, sono tornato due anni dopo e ce n’era un altro, quindi che ha
una logica evidentemente troppo diversa da quella che è in corso a Roma e che c’è a Roma. Io
vorrei sapere da Richard Meier: qual è, pur osservando il giusto approccio del caso per caso, ma ci
sarà pure un metodo col quale secondo Meier bisogna affrontare il caso per caso? Per risolvere il
problema di riempire o riutilizzare un’area dismessa, con quali criteri ci si avvicina alla ricerca della
soluzione?
MEIER (interprete): Per molti versi la città di New York è una città unica dal punto di vista
urbanistico, architettonico. Purtroppo così tanti edifici straordinari, di grande importanza, come per
esempio la Penn Station, sono stati abbattuti e molti edifici, durante gli anni Cinquanta, gli anni
Sessanta, sono stati abbattuti per dei progetti che riguardavano dei terreni che erano considerati
come troppo preziosi per essere lasciati all’uso originale, e soltanto dopo, col senno del poi, ci si è
resi conto della perdita subita dalla città e dal popolo di New York, ci si è resi conto che la città era
sottoposta a una devastazione, una distruzione che vedeva cadere un edificio storico dopo l’altro,
e quindi si è arrivati ad una consapevolezza dell’esigenza di distinguere tra edifici da salvare ed
edifici che invece si potevano abbattere. Quando ho iniziato a lavorare nella West Side, ho
lavorato sul West Perth Housing, si trattava di 13 edifici collegati tra di loro e si è trattato in
assoluto del primo progetto di riutilizzo, per usare il termine che veniva impiegato all’epoca, in
pratica era un’area dismessa che è stata rivitalizzata per dare spazi a degli artisti, e questo perché
gli artisti, si diceva, avevano delle idee e delle esigenze diverse, potevano avere un’abitazione con
studio annesso, si potevano usare i famosi loft e quindi dare più spazio, più luce, quindi non
un’unità abitativa tradizionale. Questo ha cambiato il concetto di riutilizzo di edifici a scopo
residenziale abitativo. E questo ha anche permesso tra l’altro di rendere tali iniziative sostenibili dal
punto di vista economico, perché si potevano chiedere degli affitti più alti. Poi, successivamente,
lungo il fiume Hudson mi è stato proposto un altro progetto sempre di residenza abitativa, tre isolati
più a sud, e al costruttore ho suggerito, perché non risparmiamo creando degli spazi tipo loft?,
34
dove era possibile per l’acquirente organizzare gli spazi a proprio piacimento, mi sembrava una
bella idea perché si poteva vendere uno spazio a meno, si poteva poi chiedere all’acquirente di
decidere autonomamente la destinazione degli spazi, con una camera o due camere da letto. Alla
fine però è stato molto più complicato e difficile del previsto, perché le persone arrivavano e non
avevano idee su come riutilizzare questi spazi al proprio fine. Alla fine il risultato c’è stato ed è
stato devo dire ottimo, però questi sono esperimenti che ritengo essere molto importanti, sono dei
processi che ci consentono di vedere come città che non siano necessariamente New York
possano rinnovarsi senza distruggersi, come costruire e risparmiare al tempo stesso. E io credo
che questo sia un aspetto molto importante anche per la città di Roma, perché stabilire ciò che
merita essere salvato e ciò che invece può non esserlo, beh, è una valutazione importante che non
deve essere fatta solo dal governo della città che ha la responsabilità finale, ma credo che sia
anche responsabilità della cittadinanza e degli architetti esprimersi, cioè per esempio dire vi è
un’area dismessa, un edificio dismesso che però deve essere oggetto di un intervento e bisogna
capire anche in questo caso come ottenere il sostegno da parte anche dei privati, perché non è
una iniziativa che può essere lasciata solo al governo della città, all’Amministrazione Pubblica,
quindi credo che sia importante un dibattito per valutare ciò che è fattibile e ciò che non lo è, e ogni
zona, ogni caso va valutato singolarmente, perché non può esservi una ricetta unica. E per quanto
riguarda il discorso che faceva Massimiliano Fuksas sui tempi lunghi di realizzazione, sì, capisco
bene a che cosa si riferisca. Io ho sempre ragionato dal punto di vista del tempo americano, poi c’è
il tempo europeo e infine il tempo romano e sono dei tempi molto diversi tra di loro. (Applausi)
PULLARA: Grazie. Volevo chiedere a Léon Krier, lui ha delineato una città in cui prevalga il
concetto del local, dall’uso delle materie prime per costruire queste parti di città, che andrebbero a
sostituire le aree dismesse, fino alla stessa logica nel senso di non utilizzare un international style,
per usare questa espressione consumata, ma attenersi al contesto, alla storia. Io chiedo, facendo
la parte del contraddittorio proprio di principio, ma Architetto Krier, lei pensa che con tutte le
pressioni di interessi, le pressioni speculative che premono sul futuro delle aree dismesse,
ancorché di proprietà del Comune, ormai saranno tutte di proprietà del Comune, però il Comune
non ce la fa – è stato detto e si capisce, lo sappiamo – non ce la fa a risolvere il problema della
sostituzione delle aree dismesse con aree con nuove funzioni, con le realizzazioni architettoniche,
urbanistiche. Quindi arrivano gli interessi, gli interessi privati, quindi arrivano coloro che devono poi
realizzare se non del tutto, ma anche in parte queste cose. Ma lei pensa, Krier, che questi
committenti o questi co-committenti, perché ci sarà il Comune che, essendo proprietario delle aree,
avrà naturalmente voce in capitolo, però ci saranno pure delle alleanze o dei modi per coinvolgere
gli interessi privati in queste realizzazioni, in queste prospettive di rinnovamento, ma lei pensa che
questi poteri forti, questi interessi possano essere così sensibili al suo discorso culturale che è
molto raffinato, anche se poi è condiviso in parte perché è contestato anche dalla cultura raffinata
architettonica, non pensa che debbano prevalere, o possano prevalere, interessi molto più concreti
che tendano a mettere a reddito immediato, in modo anche brutale, queste nuove realizzazioni,
con un intensivo magari tipo grattacielo, che possono essere anche delle ottime soluzioni peraltro.
A Roma sta nascendo il primo grattacielo all’EUR, piuttosto che seguire un linguaggio
architettonico che si rifà al passato e che però poi non presenta le opportunità economicofinanziarie che presenterebbero soluzioni diverse? Insomma, che la sua visione sia un po’ teorica
piuttosto che pratica?
KRIER: Penso che la realtà sia sempre un mix di convinzioni personali o di teoria e di pratica,
perché questi interessi dei quali si parla dove sono? Chi sono? Sono delle persone o sono dei
fenomeni generali metafisici che non si possono capire? È una cosa molto interessante che noi
parliamo di cosa fare con la metropoli e che non c’è un riferimento a che cosa è una metropoli. Si
hanno delle concentrazioni di persone enormi attraverso il mondo e non si capisce cosa è una
metropoli, si sa che è un’area congestionata, perché non è un fenomeno che si ha dove c’era un
controllo teorico, è un fenomeno che è arrivato così, caduto dal cielo e incontrollato, non
desiderato, e poi ci sono teorie di megalopoli o di metropoli che sono arrivate post facto, perché
queste concentrazioni di persone hanno creato tali problemi sociali e di inquinamento, di rivalità, di
guerre, di problemi non controllati che si è dovuta trovare una soluzione e la prima soluzione era la
risposta del CIAM, del Congresso Internazionale di Architettura Moderna, ma che infatti era una
riflessione urbanistica. Adesso generalizziamo le zone perché il mix nell’Ottocento, Novecento di
industria e di città era talmente tossico che si doveva separare, invece adesso abbiamo una
35
situazione dove l’industria è talmente controllata che è meno tossica che probabilmente l’abitato
privato, che crea delle produzioni di rumori, e chimiche più gravi. Ci sono studi speciali di American
Science, Scientific American, sull’inquinamento diverso del privato e del pubblico, delle industrie e
delle residenze, è assolutamente terrificante. Dunque, cosa è una metropoli e quale forma va a
prendere. È strano che noi, come persone poco scientifiche, siamo gli unici che hanno una specie
di soluzione.
Io ho lavorato per tanti anni su questa teoria e poi il nuovo urbanismo l’ha resa un po’ istituzionale,
ma perché non c’era una soluzione alle metropoli. Cos’è una metropoli? C’erano i modelli di Le
Corbusier che erano i più radicali, c’erano i modelli fascisti e sovietici, ma tutti sono crollati, non
sono vivibili, e penso che oggi l’unico modo di capire o di strutturare, di avere un’idea per
completare una città come Roma è qual è la dimensione massima sociale che si vuol dare a un
quartiere e cosa manca in queste zone che sono create come zone monofunzionali, o quasi
monofunzionali? cosa manca lì e si deve portare quello che manca perché così si alleggerisce il
peso delle periferie sul centro. Mi sembra una idea talmente convincente che mi domando perché
ci vogliano 40 anni per vincere, perché non c’è altra idea.
L’altra idea è che la città è una cosa che non si controlla e continua a crescere in una specie di
caos che finalmente va a crollare, perché se si continua a costruire a Manhattan dei grattacieli,
cosa ci sarà fra 500 anni, cosa sono 500 anni per una grande città? Niente, è un secondo.
Dunque, la proposta dell’iperscala, della iperdensità non è vivibile, anche se fosse sostenibile non
è vivibile umanamente. Roma ha questa felicità, questa fortuna che non si sono ancora creati molti
grandi impatti di iperscala, ci sono degli errori stupendi e orrendi, ma ci sono anche queste
periferie improvvisate e abusive. Ma non sono grandi problemi, sono problemi che si devono
analizzare e poi risolvere, ma si deve soprattutto avere un’idea costituzionale, cosa sarà la città del
futuro? E questo dalle unità si vede, invece di pensare che tutte queste aree dismesse, c’è una
pressione terrificante dei promotori per costruire lì, i promotori non esistono se non c’è terreno. I
promotori sono creati dalla disponibilità di terreni, se la città, se lo stato civico, se le istituzioni
dicono in questi posti facciamo solo orticoltura, per cinquant’anni, non ci sarà speculazione e forse
fare l’orticoltura in queste aree dismesse sarebbe più utile. Non è uno scherzo, perché io ho
ingrandito una città dove l’orticoltura era a un passo da dove si mangiava, ogni settimana c’erano
due o tre mercati dove si poteva comprare della frutta, a Lussemburgo, ma era normale negli anni
Cinquanta, le città tradizionali non sono ancora morte, in Europa esistono ancora.
Dunque questa prossimità del vivere e del sopravvivere, del mangiare e del prodotto locale non è
una fantasia, è esistito per migliaia di anni e solo adesso, negli ultimi venti o trent’anni, che le
energie fossili sono talmente generalizzate che si possono importare delle banane ogni giorno
dall’Africa. Noi avevamo una banana a Natale, era una cosa straordinaria mangiare una banana
negli anni Cinquanta. Dunque, l’idea del locale adesso ritorna massicciamente nella nutrizione. Per
esempio è molto di moda adesso mangiare locale, c’è questo movimento in Italia, in America slow
food eccetera, e quest’idea di locale è talmente evidente che si deve ritornare a questo, invece di
questa ipermobilità dei materiali e delle persone quotidiana, è una cosa che dobbiamo prevedere e
prevederla anche se non è necessità ancora, perché dico che si deve tornare a questa scala non
solo perché mancheranno le energie fossili, ma perché è la nostra scala.
Se si cammina, io adesso a Madrid abito con una signora all’ottavo piano, sul penthouse di un
edificio di una manzana madrilena, c’è l’ascensore, ma si cammina due volte al giorno per fare
esercizi, otto piani, è una cosa, uno sforzo assolutamente terribile, non c’è nessuna necessità di
fare esercizi se si cammina per otto piani. Allora, immaginiamo di costruire più di otto piani e poi ci
sono problemi di energia che saranno assolutamente prevedibili, sono già prevedibili. Tutti questi
edifici, anche se manca per una settimana l’elettricità, non si potranno occupare, si dovranno
vuotare.
L’idea che adesso la città deve crescere assolutamente verso il cielo e verso i campi è un errore:
qual è la dimensione giusta, per quante persone che possono abitare, in quale geografia, e poi
teorizzare e poi costruire una politica su questo. E gli investimenti vengono allora, non partire dagli
investimenti. Questo a mio avviso, occorrerà forse prende molto tempo, ma i concetti sono pronti,
funzionano e sono elementi estremamente pratici, perché a Roma c’è l’esperienza del rione nel
centro storico, nelle periferie ci sono i quartieri, i quartieri sono infatti rioni incompleti e come
completare i quartieri per divenire rioni, questa è l’idea.
36
Il modo semplice è di fare prima un centro perché richiede poco investimento, si può anche
domandare a Richard di fare una piazza italiana, la piazza italiana è una cosa che si può studiare
e se si dice, non avremo acciaio e neanche cemento armato, solo mattoni, malta e travertino. Cosa
si fa? Si fa l’architettura tradizionale, non si può fare altro che architettura tradizionale, si utilizza la
trabeazione corta, archi, e questa è la base fondamentale di tutta l’architettura non basata su
energie fossili e dunque non è una cosa poco pratica, è una realtà materiale del mondo futuro e
dunque cominciare adesso, e poi le persone che hanno stili diversi, sempre nel passato hanno
costruito bene così, perché non adesso. Non è un’idea personale, è un’evidenza.
PULLARA: Mi piacerebbe sapere se Richard Meier accetta la sfida di fare una piazza italiana a
Roma senza acciaio, senza vetro.
KRIER: No, vetro sì, il vetro si utilizza sempre.
PULLARA: Senza cemento, allora. Sarebbe interessante vedere il nuovo Meier, interessante
sapere se ce la farà a superare questa prova. Massimiliano Fuksas aveva chiesto di intervenire,
però io devo dare la parola al Professor Dolcetta.
FUKSAS: Un secondo. Credo che occuparsi di storia, la prima cosa è contestualizzare i periodi.
Nel Medioevo si costruiva così perché c’era un tipo di economia, un tipo di organizzazione sociale
e un tipo di maestranze e un tipo di difesa e una quantità di persone. Oggi le cose non sono le
stesse, perciò voler riprodurre, in quarant’anni che Krier dice queste cose, tutto il resto è andato
avanti, anche male magari, però le sue cose sono rimaste sui suoi testi e basta. Questo qui è il
fatto. Sì, tu hai costruito niente, hai costruito una cosa sola.
KRIER: Ho costruito, forse per te non esiste, ma ho costruito una città ormai di certe migliaia di
persone. Ma l’amico Massimiliano confonde l’idea di master planning e l’idea dell’architettura.
FUKSAS: Ma scusa, hai costruito una cosa del Settecento, tipo Settecento…
KRIER: Ma tu fai l’errore di pensare che l’architettura tradizionale è una cosa storica.
FUKSAS: È di cartapesta, più che tradizionale, quella che fai.
KRIER: Non è un problema di storia, non mi interesso di storia, perché la tecnologia tradizionale è
la tecnica per costruire con materiali tradizionali naturali.
FUKSAS: Dove?
KRIER: Qui, dappertutto.
FUKSAS: Infatti è pieno di gente che costruire in mattoni, in muratura.
KRIER: Sì, il mondo è pieno. L’America residenziale si fa ancora in legno.
FUKSAS: Sì, va beh.
KRIER: In tutta l’Africa si costruisce con la terra.
FUKSAS: Hanno tagliato tutte le foreste.
KRIER: No, si costruisce con terra, in Afghanistan si costruisce con terra, qui c’è un’industria del
mattone che è enorme, in Italia.
FUKSAS: In Italia non ci sta più.
KRIER: Sì, ma c’è.
FUKSAS: No.
CALATRAVA: Io vorrei fare anche una precisazione, sempre imparando da Roma, che Giovanni
Battista Piranesi, che è un nome che noi conosciamo tutti e che ha fatto questi gravati sulla città,
l’antica Roma, costruì molto poco e invece ebbe una grande influenza. Mi piace anche il
riferimento che ha fatto Léon al cibo e al consumo nelle città, perché Les Halles de Baltard, si
chiamava le ventre de Paris, il ventre di Parigi, e dunque noi abbiamo già cominciato a discutere
su un posto dove si trattava il cibo. Anche a Valencia c’è questo Mercado Central che è un gioiello,
io lo faccio vedere a tutti, non soltanto per le belle arcate e la bellezza e la generosità con cui è
stato progettato, ma anche per vedere tutti questi prosciutti allineati e i polli, e i pesci e questa
37
enorme… (applausi) questo mondo di colori, e mi viene anche in mente, qualcuno mi raccontava
che è stato fatto uno studio sugli italiani all’estero, e – per essere molto brevi – uno studio
scientifico, addirittura portato dappertutto nel mondo, per concludere che l’ultimo abito che perdono
dopo aver perso la lingua, la religione, generazione per generazione, continuano a mangiar bene e
a mangiar pasta. È una bella avvertenza perché la pasta viene dalla Cina e i pomodori vengono
dal Sudamerica, dunque c’è stato anche in quegli abiti atavici, antichi e così via anche uno
spostamento, il garun non esiste più, ecco, la patata è anche americana, che la portai anche a
Parmantier, che è un bellissimo boulevard a Parigi, come igienista riconosciuto, dunque è molto
interessante vedere anche questo rapporto fra urbanismo e cibo.
PULLARA: Calthorpe, sempre con il permesso del Professor Dolcetta, Calthorpe voleva dire un
flash sull’argomento, sul dibattito Krier-Fuksas.
CALTHORPE: Ci deve essere una via di mezzo, secondo me la via di mezzo sono edifici che
consumano basso quantitativo di energia e questa è un’architettura ben diversa da quella
moderna, con le finestre sigillate, i vetri riflessivi. È un aspetto che deve essere esplorato. Lo
stesso vale per l’urbanismo, non credo che torneremo ad andare a cavallo per spostarci nelle città,
penso che abbiamo l’intelligenza e la capacità di adottare sistemi molto efficienti ecologicamente e
non siano però arretrati, non appartengano al passato.
CALATRAVA: Perché, il cavallo è arretrato? Dipende da come lo si monta.
CALTHORPE: Quando è stato inventato il tram, è stata una cattiva cosa per le città?
CALATRAVA: Bisogna evitare di mettere le persone in varie categorie, io non dico che non si
debba usare il tram o l’aeroplano, io uso l’aeroplano, l’elicottero, tutto, però sostenere che non ci
saranno più le carrozze a cavallo in futuro è un’idiozia… quindi rinunciamo…
KRIER: Vi sono evidenze al 100% che i combustibili fossili saranno molto carenti, ora che questo
avvenga tra poco o tra cent’anni, se non avremo i combustibili fossili non potremo costruire gli
edifici nel modo in cui…
FUKSAS: È il problema del tuo centro congressi? Tu sei il problema.
KRIER: Io non son un problema. Ci vorrà il laghetto dell’Eur per raffreddare il tuo centro congressi.
FUKSAS: Ma l’hai visto il progetto? A me non dispiace che tu dica queste cose, mi dispiace che tu
pensi che questo sia il futuro.
KRIER: Io non esisto.
FUKSAS: Tu non esisti infatti.
KRIER: È quello che molti dicono perché mi dicono, sei stato superato dalla storia.
FUKSAS: Perché sostieni che questo è il passato?
KRIER: Perché gli animali sono una cosa del passato.
FUKSAS: Ma no, ma tu vieni con il cavallo qui o vieni con la macchina e con l’aereo?
KRIER: Ma io non parlo contro la macchina!
FUKSAS: Dall’aeroporto come ci arrivi qua?
KRIER: No, io non parlo contro la macchina, contro l’aeroplano, lo uso…
FUKSAS: Ma allora contro chi parli?
KRIER: Sono delle cose semplici, caro, c’è bisogno di una nuova generazione. No, perché tu
utilizzi… no, tu sei pedone, lui vive nel centro storico.
FUKSAS: Sì, e tu anche vivi nel centro storico.
KRIER: Sì.
FUKSAS: E allora che vuoi?
KRIER: Ma io sono coerente con la mia teoria.
38
FUKSAS: Ma che teoria è la tua? Lui è coerente. Solo il lui può dire che è coerente con se stesso.
KRIER: Non si può discutere, è ridicolo.
PULLARA: Grazie. Allora, è stato molto bello questo siparietto che ci ha fatto capire anche come
stanno le cose in questo campo, cioè ci sono delle idee diverse, si confrontano, forse in certi casi
sono anche una delle cause di certi stalli, di certi imbuti che si creano, perché magari
un’Amministrazione la pensa in un modo, l’architetto la pensa nell’altro, non si mettono d’accordo,
insomma, fa parte delle cose come stanno. Finalmente il Professor Dolcetta. Krier ha accennato a
una cosa che volevo trasferire sulle sue spalle: lei è un professore veneziano, quindi vive in una
città che io credo che si possa dire molto densificata, perché è tutta chiusa su se stessa.
DOLCETTA: Venezia ha duemila ettari di zona industriale, la più grande d’Italia, Porto Marghera.
PULLARA: Io avevo rimosso, come tutti gli italiani, Porto Marghera dall’immagine di Venezia.
Volevo chiedere al Professor Dolcetta: Krier si chiedeva retoricamente, ma interessi, quali
interessi, che premono sulle realizzazioni. Io ho parlato poche ore fa con un importante costruttore
romano, al quale ho chiesto, come vanno le cose? Molto male, molto male. Dico, perché? Per le
banche, le banche, le banche. Ecco, la risposta a Krier, dice, quali interessi premono sulle realtà
da fare, sul fare? Prima la realtà finanziaria che in certi momenti ti favorisce e in certi momenti fa il
suo gioco ancora più pesante. Questa è una prima risposta e volevo comunque sentire l’opinione
di Dolcetta. E poi, l’altra domanda che volevo fargli. Krier ha sempre parlato di iperdensità, è un
termine molto suggestivo, e torniamo a Roma, allo specifico romano. l’Amministrazione, anche
quella precedente, devo dire ci hanno insegnato questo nuovo termine, densificazione, e quindi
l’Amministrazione vuole puntare sulla densificazione. Densificazione vuol dire riempimento di aree
neutre, aree vuote, eccetera, però anche innalzamento. Ecco, fino a che punto la densificazione,
sulla quale mi pare sono tutti d’accordo, quelli di prima e quelli di adesso, può arrivare a un
iperdensificazione? In cosa può consistere l’iperdensificazione? Anche nelle funzioni? Cioè,
accumulare una serie di funzioni per riempire di profitti questa nuova realizzazione? Grazie.
DOLCETTA: Intanto ho scoperto di avere un’età che mi ha consentito di mangiare le andouillettes,
le trippes a Les Halles prima che le demolissero, non soltanto la soupe à l'oignon. Però vorrei
soffermarmi su due cose prima di entrare nella piccola scaletta che mi ero andato facendo: volevo
dire che ho costruito nel 1971 una casa nel Salento, quando non era stata ancora scoperta come
una delle mete fondamentali, ed ho fatto il mio più bel progetto; ho avuto un maestro che si
chiamava Marsigliante, di Alessano, che adattò quel progetto che avevo fatto alle tecniche
costruttive che sapeva fare. Fino al 1970 ed oltre, anche fino al 1980, nel Salento si costruiva
unicamente con il tufo, esclusivamente con le volte a crociera ed a botte; ed è così che io ho una
casa di cui vado orgoglioso, che ha giustappunto alcuni segni, che la collocano certo appena fuori
della tradizione, ma che è costruita rigorosamente dal Maestro Marsigliante, che aveva le sue
regole costruttive, che venivano direttamente dal medioevo, che non aveva avuto alcuna
interruzione; non si costruiva assolutamente con solai piani e non avevano il cemento. E devo dire,
con orgoglio, che possiamo considerarlo un falso autentico, perché da un lato può sembrare senza
tempo, dall’altro ha una profondità di immagine, di sapienza straordinaria, è stato un regalo del
Maestro Marsigliante, un incontro magico.
L’altra cosa è a proposito dei mercati. Il Mercato di Rialto è lì dal 900, e non dal 1900, ed è uno dei
più belli che assolutamente si possano conoscere; quello di Padova, attivo dal 1100 tutti i giorni
dell’anno di tutti gli anni, in tutte le stagioni, è di una bellezza incredibile, ricco in tutti i sensi e con
dei prezzi totalmente calmierati.
Entro nella breve scaletta che mi ero fatto, cercando di restare all’interno di alcune suggestioni che
sono state fatte sia da Corsini che, successivamente, in molti altri interventi. Assodato che queste
aree dismesse, per come sono estese e per come sono collocate in base alla loro regione, sono
l’ultima risorsa, perché si è chiuso un ciclo di vita della città industriale o dell’era industriale, che ha
costruito questi spazi che vanno usati. Per dirla con Calatrava, con estrema prudenza, perché
sono le ultime, nel senso che sono una risorsa scarsa e non rinnovabile, in una città che non si
ferma mai, che ricicla piccole cose, ma su una scala completamente diversa.
Allora, di che cosa c’è bisogno, prima di tutto? Effettivamente di costruire scenari, cioè io non ho la
più pallida idea di cosa si farà nell’una o nell’altra area, anche perché non ne ho evidentemente la
39
conoscenza che ne hanno i romani, che hanno già immaginato molte cose e da molto tempo, ma
in realtà quello che ci manca è collocarle dentro uno scenario. Per scenari intendo dire almeno due
cose che sono state dette ripetutamente quest’oggi: la prima, ci sarà una decompressione della
pressione degli uffici, delle sedi di rappresentanza, dell’accumulazione dentro la città storica a
favore di una diversa collocazione di alcuni di questi elementi che premono sulla città, oppure sarà
una conferma di tutte queste, e anche forse addirittura una crescita ulteriore, perché abbiamo degli
spazi a disposizione, cioè una sorta di razionalizzazione all’interno della città storica che rimette in
gioco sedi, però così prossime, avendo a disposizione grandi possibilità di rinnovo tecnico,
tecnologico, di accoglienza, eccetera, per cui in realtà uno degli scenari è che Roma continui a
conservare decisamente tutto all’interno della propria potenzialità di rappresentanza e di uffici,
rinnovata, distribuita e riorganizzata. Allora bisogna capire che cosa succede sulle nuove centralità
e su tutto quell’altro elemento della città compatta, della città accanto. Quindi le due cose sono
difficili da decidere indipendentemente, bisogna evidentemente avere un’idea di questi scenari che
possano dare contorno, mettere le condizioni al contorno, opzioni di grande strategia complessiva.
Se è stato detto che uno dei problemi di Roma, anche nei confronti di tutto quello che si dovrebbe
e potrebbe fare sulla città accanto - uso sempre i termini di stamattina per non uscire dalla
metafora - è la eccessiva concentrazione nella città antica, la città storica, di alcune delle funzioni,
mentre altre, come dice Corsini nella sua relazione, potrebbero essere spostate proprio perché
hanno perso nell’ordinamento gerarchico la pura necessità di stare al centro, allora questo è uno
scenario da costruire. Io non so chi lo costruirà, immagino gli Stati Generali, il Piano Strategico, ma
alla fine un confine ci sarà, sarà sempre mobile perché poi gli scenari sono appunto grandi
immaginazioni in cui gli aspetti quantitativi sono molto variabili, dipendono anche dalle occasioni a
disposizione, non sono a senso unico, sono dei continui feedback evidentemente di aggiustamento
del ragionamento. Altra questione sulla quale si è tornati più e più volte, è quella di un
cambiamento, e non direi dell’automobile sì o automobile no, ma di uno stile di vita della città,
perché cambiare o non cambiare l’automobile, spostarla, lasciarla fuori, eccetera, è cambiare uno
stile di vita, non è cambiare uno strumento, e probabilmente ci sono delle resistenze, non
immaginabili oggi, che riguardano non tanto l’idolatria per l’automobile, ma uno stile di vita, tutto
quello che comporta usare un’automobile, tutti quei sacrifici che i pedoni dovrebbero fare se
pensano che non avere l’automobile sia una penalizzazione. Io ne parlo sempre con molta
prudenza, perché essendo nato a Venezia e vivente a Venezia, ove peraltro ho avuto la fortuna di
poter mantenere residenza e lavoro, non posso evidentemente consigliare a nessuno la
straordinaria esperienza di arrivare sempre puntuali a qualsiasi appuntamento, perché io so
sempre quanto tempo ci metto ad attraversare la città, in qualsiasi posto voglia andare, in qualsiasi
modo, e posso scegliere anche tra piccole opzioni, posso fare anche delle diversioni, e incontro
tutti, io conosco tutti i veneziani, siamo rimasti in pochi e ci conosciamo. Ovviamente è
un’esagerazione, ma evidentemente c’è l’occasione dell’incontro, della pedonalizzazione, è uno
stile di vita al quale io non rinuncerei e non potrei rinunciare perché, come disse Totò, “pedone lo
nacqui”.
Però proporre un cambiamento di questo tipo non è un’operazione normativa, bisogna creare un
mito, bisogna creare nuovi miti, i nuovi miti, che non sono delle invenzioni letterarie innocue o
leggere, sono dei potentissimi strumenti sia che si muovano contro e sia che si muovano a favore
di un’idea. Quindi probabilmente bisogna immaginare di costruire dei miti intorno al muoversi a
piedi in una città come Roma, approfittare, utilizzare questa struttura. Allora, in questa piccola
ricaduta sulle aree dismesse, una delle questioni che mi sentirei di suggerire è che bisogna
leggere meglio la struttura e quello che un tempo si poteva considerare la sostanza civile della città
per chiederci dove sta la città. La città non è tutta uguale, la città è non zonizzata, ma comunque
specializzata, fortemente specializzata; ha fortemente espulso alcune funzioni da un lato, ne ha
concentrate delle altre dall’altro, c’è una gentrification, come dicono gli inglesi, necessaria e
fortissima quando è il mercato a governare queste questioni. D’Agostino dice, forse la
gentrification spinta fino all’estremo non è una buona soluzione, forse bisognerebbe trovare alcuni
elementi di composizione di questo eccesso di sostituzione della popolazione meno abbiente con
la popolazione più abbiente. Ciò è avvenuto in tutti i centri storici, per la verità, ma è una politica, è
una idea, questa della composizione, meno estrema della popolazione del centro storico, cosa già
avvenuta a Venezia s’intende, nella costruzione del mito della nuova Roma. La gente però non si
convince a parole, si convince con l’esempio, ammesso che sia un esempio ben realizzato e
40
convincente, che ci sia tutto il tempo per realizzarlo, probabilmente un’area di una dimensione
sufficiente, abbastanza vasta da immaginare qual è lo stile di vita in un luogo dove l’automobile
non c’è, forse potrebbe essere uno dei temi della ricomposizione che utilizza delle occasioni
localizzate.
Allora, dove sta la città? Cioè, dove c’è la sostanza civile? Dove stanno i romani, come si
muovono, dove si trovano, se lì ci sono nei dintorni delle possibilità di intervenire e fare una
esemplificazione ricca, sufficientemente sostenuta e mitizzata nel senso che ci vuole
comunicazione, bisogna parlarne, bisogna avere i “pesci-pilota”, bisogna avere i giovani entusiasti
se è possibile, che non chiedano subito il motorino a 12 anni e così via, allora forse quello può
essere uno spazio di sperimentazione.
Altra cosa è che le aree credo debbano rispondere sempre a un principio di gerarchia e di
necessità. Non sono tutte uguali, è stato detto più e più volte, sicuramente non lo sono, né per
dimensione, né per collocazione, né per trasformabilità, ma una volta i costruttori avevano un
atteggiamento collusivo, si diceva quando si parlava del ciclo edilizio, non mettevano mai a
disposizione contemporaneamente due cose che venivano tra loro in contrasto. Per tenere alti i
prezzi, prima l’uno e dopo l’altro. Quindi non sono tutte le aree dismesse che vengono messe in
gioco, ci sarà una gerarchia, ci sarà una priorità, ci saranno più priorità, alcune sono lontane, sia il
quadrante est, ovest, nord, sud, esterno, interno. Non è una alla volta, ma certamente fare in modo
che tutta l’attenzione e tutto l’immaginario e tutte quante anche le energie, che sono poche, come
si è detto, o comunque non sono così abbondanti, si concentrino in una operazione, nelle
operazioni che si mettono in campo. Perché? Perché bisogna cominciare solo quello che si è certi
di finire e di finire nel tempo in cui ci si è impegnati a finirlo.
La cosa più devastante a livello internazionale, è che in effetti non siamo credibili,
complessivamente come Sistema Italia, cioè non c’è un’offerta, ci sono sempre delle difficoltà.
Allora, cominciare solo quello che si deve finire e avere una totale perseveranza anche di andare a
fondo degli errori. Questi sono i francesi per esempio, hanno fatto colossali errori, tragici errori,
orribili errori, però li hanno sempre realizzati e poi succede un momento in cui si pentono e magari
demoliscono, però è serio che un’Amministrazione cominci solo quello che è in grado di finire nel
tempo in cui l’ha detto, ma questo non vale per Roma ovviamente, vale a livello internazionale.
Però questo ci rende deboli e rende tutto il sistema per così dire poco credibili.
Infine soltanto una risposta a Corsini, perché ha sollevato più volte la questione dei linguaggi. Non
c’è un problema di linguaggi se non che ognuno deve esprimersi con la cultura del proprio tempo,
con l’evoluzione appunto del proprio tempo, e questo devo dire l’abbiamo già risolto, dal punto di
vista della teoria e dal punto di vista della formulazione, negli anni Cinquanta, quando Giovanni
Astengo ha fatto il suo piano di Assisi, quando ha affrontato tutte le questioni, comprese queste,
quando ha definito che l’unico vero problema tragico, l’unico orrore era il falso, o l’ambientamento.
Qui c’è tutta una questione da risolvere culturale profonda, con le sovrintendenze, ma su questo
forse riusciremo ad approfondirlo quando parleremo degli strumenti di intervento sulla città
esterna. Quindi non c’è un problema di linguaggio, è un dovere che ciascuna epoca lavori con i
propri strumenti, e che lo faccia con una Kunstwollen, con una volontà d’arte per così dire, che
voglia cioè scegliere sempre il massimo della sua espressività del suo tempo, perché a dire la
verità, anche quando fanno la grande polemica col CIAM, i maestri di cui abbiamo parlato oggi,
non lo fanno per la città contemporanea, su quella sono perfettamente modernisti e razionalisti,
disegnano le cose migliori, basta pensare a tutte le soluzioni che sono state proposte da loro,
facciamo un ragionamento sulla città storica, distinguendo perfettamente il totale rigore sulle città
storiche, ma quando ci si esprime con una cosa nuova, anche nei contesti antichi, questo voglio
dire ed Assisi lo chiarisce perfettamente, lo si fa con il linguaggio della contemporaneità perché,
come dice Turri, nell’Italia contemporanea quello che sembra facile da fare, cioè quello che sanno
fare tutti è dare risposte funzionali, ma non sembrano capaci di costruire paesaggi. Domani
parleremo magari dei paesaggi, ma il paesaggio è qualcosa di molto più profondo che non ha una
soluzione tecnica, è molto più profondo, è sostanzialmente una immagine, una fisionomia del
paese che andiamo costruendo e nel quale siamo orgogliosi di riconoscerci. Questa è
obiettivamente una cosa invece quando parliamo di noi stessi, non siamo contenti del paesaggio
che si è andato costruendo, lo attribuiamo sempre a qualcun altro, ma che si è andato costruendo.
41
E invece dobbiamo cominciare a prenderci la responsabilità di costruire dei paesaggi della
contemporaneità di grande, grande qualità.
PULLARA: Ora mi voglio rivolgere un attimo al pubblico, per sapere se è disponibile per un altro
velocissimo intervento. Allora, naturalmente, seguendo il filo dei discorsi, mi è venuto in mente
questa area dismessa però già strutturata che è quel baraccone dell’Ostiense, fatto per i
campionati di calcio davanti al quale tutti ci facciamo la stessa domanda: “ma possibile che non
sono capaci di dargli una funzione a questa cosa che c’è e che ha un suo tratto architettonico?”.
Nessuno ci è riuscito nè in dieci né in venti anni. Poi al volo, e forse un po’ a tradimento, chiederò
al Sindaco Alemanno se ha qualche idea per dare una funzione a quella cosa dismessa che però
già sta lì pronta per essere “reimmessa” nel circuito funzionale della città.
Il Professor Portoghesi chiedeva la parola, io vorrei chiedere a Portoghesi, intanto una curiosità:
tutti quanti abbiamo applaudito, quando si è vista quella bella immagine del Porto di Ripetta del
1800 o 1700, bellissimo. Chi è che non applaude alla ricostruzione di quel porto, però mi viene in
mente che c’è anche un ponte e allora, fatti due calcoli, io ho abitato lungamente a 500 metri da
quell’area, e quindi ho visto che braccio più o braccio meno, se uno ricostituisce il Porto di Ripetta
deve buttare giù il ponte, più o meno. Ecco, una perplessità, diciamo una perplessità, poi la
domanda è quella, lui ha parlato di piazze, di fare le piazze che dovrebbero, cioè, non le cento
piazze di Rutelli che in molti casi sono degli spartitraffico, eccetera, lui credo che abbiamo parlato,
ha alluso a delle piazze vere e proprie, la piazza italiana insomma, modello di tutta una serie di
piazze del mondo, eccetera. Ma le piazze bastano? Perché mi viene in mente quello che dice
Fuksas, il collegamento interperiferico, eccetera, quindi, le piazze bastano per riqualificare e far
tornare la vita, fare dei policentrismi, eccetera, basta una bella piazza oppure bisogna aggiungere
qualcosa di più? E domandina correlata, io insisto, io volevo sapere che idee ci sono per lo Scalo
San Lorenzo perché ne sento parlare da tanti anni, ma allo Scalo San Lorenzo, caro Professor
Portoghesi, vede una bella piazza che faccia rivivere il quartiere, oppure vede anche un paio di bei
grattacieli funzionali con uffici e cose, eccetera, oppure anche con delle abitazioni sotto, eccetera.
Ecco, perché non cerca di rispondere almeno approssimativamente a queste domande?
PORTOGHESI: Allora, prima dico quello che volevo dire, perché mi sono sentito parte in causa
quando c’è stata questa contrapposizione tra due persone di cui io ho molta stima, Fuksas e Krier.
Poi anche Dolcetta ha aggiunto una pesante affermazione, cioè bisogna che ciascuna epoca lavori
con i propri strumenti. Ma da quando in qua? (Applausi) Ma se tutti avessero seguito questa logica,
Brunelleschi non avrebbe costruito la cupola, avrebbe costruito una brutta cupola in stile
neogotico, invece ha costruito la cupola di Firenze, ha costruito… (applausi) quindi non esiste il
linguaggio del proprio tempo, la nostra epoca è grande perché ha conquistato la libertà, e secondo
me bisogna lodare il Sindaco che in questo consesso ha permesso a questa libertà di esprimersi
pienamente, cioè gli architetti giustamente combattono per delle idee diverse… (applausi) poi chi
sarà fortunato coglierà il futuro, ma anche i perdenti sono dei vincitori nel campo dell’arte, perché
avanzano delle ipotesi. Quando Le Corbusier nella Maison Jaoul ha adoperato la volta catalana, lo
ha fatto consapevolmente pensando di contribuire al progresso dell’architettura, perché
effettivamente anche dei recuperi sono necessari. Lo stesso Louis Kahn, Louis Kahn è stato un
grande il quale ha indicato una strada che consentiva di attraversare il linguaggio dell’epoca
recuperando degli aspetti diversi, quindi secondo me è da lodare il diffondersi di un nuovo
linguaggio, ma è da lodare anche chi si oppone al diffondersi di questo nuovo linguaggio, perché
questo fa parte della libertà dell’uomo, della rivendicazione dei diritti umani, di quello che è
fondamentalmente l’aspetto positivo della nostra epoca, a cui non possiamo sicuramente dire di
no. Quindi io penso che ci deve essere nella città nuova la possibilità di esprimersi per chi ritiene
che il linguaggio contemporaneo abbia raggiunto dei grandi risultati e per chi invece pensa a un
futuro in cui questi grandi risultati magari appariranno delle vittorie di Pirro, può darsi che sia così.
Io credo che sia nostro dovere comunque accettare questa condizione difficile della
contrapposizione di diverse idee, e quindi non dobbiamo considerare il linguaggio della
contemporaneità come un obbligo. E tra l’altro contemporaneità vuol dire semplicemente del
nostro tempo, quindi tutti i linguaggi hanno eguale diritto. Una volta si parlava di modernità e io
quasi quasi recupererei questa parola, perché in fondo univa invece di dividere, però questo è tutto
un discorso da fare. Poi mi ha posto Pullara, che è un intenditore di Roma, delle domande
francamente imbarazzanti, perché che cosa si deve fare… per esempio, abbiamo detto la zona dei
Prati, della città giudiziaria. Che senso ha conservare degli edifici che sono serviti per una funzione
42
non particolarmente significativa, e che dicono con estrema chiarezza questa funzione. Valery nel
dialogo di Eupalino dice che uno dei grandi meriti dell’architettura è che parla chiaro, dice a che
cosa serve, e quando ci riesce, riesce anche a cantare e quindi a celebrare questa funzione. Ecco,
io credo che non ci interessa più sentir cantare, che so io, la marcia reale, che è più o meno il
suono che corrisponde a quegli edifici, ci interesserebbe invece sentire la vita della città che si
riconquista questi spazi per arricchire le sue possibilità di incontro, di scambio. Ecco, questo
secondo me è un po’ quello che si deve dire. Poi io ho parlato di piazze, ma non di piazze nel
senso appunto di nuove pavimentazioni, per carità, quello è stato proprio il fraintendimento, io
sono stato… ho la vocazione del predicatore, per anni ho parlato di piazze e ho visto poi come era
stato male inteso, cioè io parlavo di piazze costruite ex novo nella zona esterna della città per
costituire delle nuove centralità, quindi delle piazze in cui le funzioni fossero tutte scelte secondo
una strategia che è quella di consentire ai cittadini delle zone intorno di trovare quello che loro
desiderano e quello di cui loro hanno bisogno per la vita quotidiana, l’ufficio postale, il
supermercato, il negozio, la sede delle istituzioni, eccetera, quelle cose che sono poi alla base
della piazza all’italiana, ma intendevo la piazza come un vuoto intorno a cui si aggregano una serie
di cose, quindi uno spazio complesso, uno spazio articolato. Naturalmente, dove andranno queste
nuove centralità, semmai si faranno? Andranno dove esiste già una situazione di accessibilità e di
mobilità di collegamento, quindi il discorso di Fuksas mi sembra estremamente suggestivo, cioè
piantarla con i raccordi anulari e cercare invece di collegare tra loro delle funzioni che già esistono,
che hanno una loro vitalità, di metterle in relazione tra loro, delle centralità potenziali ci sono nella
periferia romana, però vanno rafforzate, vanno… insomma, in definitiva, vedendo dall’alto Roma si
vede questo, che gli architetti sono stati liberi di mettere la loro firma, per cui si vedono ogni tanto
delle stranezze, e io domattina le farò vedere, il tessuto della città improvvisamente viene interrotto
da una firma fatta di solito con grande felicità da un architetto che indubbiamente ha arricchito in
qualche modo la città, ma non l’ha fatta crescere, non l’ha continuata. Ecco, continuare la città,
questo è il grande problema, e le piazze secondo me sono uno strumento fondamentale perché
Roma è una città di piazze, e Roma, anche la Roma moderna è una città di piazze. Pensate
appunto a quella corona di piazze che sta tutto intorno nella prima periferia costruita negli anni
Trenta, ci sono dei luoghi che sono fortemente dotati di identità per cui chi abita in quella zona, non
so, Piazza Bologna, per esempio, è indubbiamente un’identità preziosa, c’è un bellissimo edificio
moderno di Ridolfi, le persone che abitano da quella parte considerano Piazza Bologna non
soltanto un centro commerciale diffuso, ma anche un luogo di riconoscimento di una identità. Ecco,
questo è l’esempio buono. Se la città continuasse, come ha continuato negli anni Trenta, a seguire
una logica che è quella dei luoghi di aggregazione, forse avremo dei grandi risultati, ecco. E io mi
auguro che semmai verrà realizzato questo sogno delle nuove piazze, ci sia la possibilità di
confrontare la tesi di Krier con quella di Fuksas, la tesi di Dolcetta con quella… perché
effettivamente non abbiamo nessun bisogno che prevalga una tendenza sulle altre, non abbiamo
bisogno di vincere, non è una guerra quella che stiamo facendo, è invece un tentativo sincero di
trovare la soluzione per i grandi problemi, è come un po’ un consulto di medici di fronte a un
malato grave, perché dobbiamo riconoscere che la città è ammalata gravemente (applausi). Le tesi
possono essere diverse, opposte, poi conterà la maggioranza, però è fondamentale il consulto,
perché quello che può vedere un occhio specializzato in un certo senso non lo vede l’altro occhio,
quindi più occhi aiutano a vedere meglio almeno in mezzo alla nebbia, quindi… Comunque vorrei
che l’amicizia che poi c’è tra queste persone che la pensano diversamente sia la base per capire
che bisogna cercare sinceramente e con forza le soluzioni, poi limitarle e lasciare ai posteri
decidere chi è che aveva ragione.
PULLARA: Burdett voleva dire una cosa, molto velocemente, e poi prevediamo credo, la
conclusione del Sindaco. Però se qualcuno sente di dover dire un’ultima cosa me lo dica. Intanto,
Burdett.
BURDETT: Io vorrei fare dei commenti, delle osservazioni su quello che è stato detto, due cose di
cui non si è parlato e credo, visto il tema di questa riunione, di questo workshop, credo che sia
importante per il Sindaco e gli Assessori almeno considerarlo e darci anche un po’ una risposta.
Primo, c’è sempre il rischio, in qualsiasi città, in qualsiasi paese, dire tutto è tremendo,
Massimiliano dice che in Italia ci sono i tempi romani, dico solo che a Londra per costruire Terminal
5, il nuovo aeroporto a Heathrow, Richard Rogers ci ha messo 18 anni, per cui tutto il mondo è
paese da certi punti di vista. Questo ha a che fare con un tema molto importante, che è la
43
democrazia e i tempi dei permessi. Il paese più democratico che io conosco dal punto di vista dei
dibattiti sulla vivibilità delle città, sulla partecipazione, che è l’Olanda, i tempi per i permessi sono il
50% in meno del resto dell’Europa che io conosco, per cui non è detto che il processo più aperto
vuol dire allungare i tempi, e questo è importante, perché vanno considerate proprio quali sono le
procedure che vengono inventate da città a città. Le due cose che non si sono dette sono le
seguenti: è chiaro, l’abbiamo sentito fra Massimiliano, from Léon, che l’urbanistica è un’attività
intellettuale. Lo è, e spesso ce lo scordiamo, è una visione culturale e anche ovviamente politica
della città, però la realtà è che viene gestita tramite degli strumenti urbanistici che spesso non
hanno niente a che fare con quello di cui stiamo parlando noi o altri, cioè se uno pensa agli oneri di
urbanizzazione, le cubature, i parcheggi per le macchine, cioè tutte le questioni assolutamente
noiosissime di cui noi qui, grandi architetti e urbanisti, non ci vogliamo interessare, queste sono le
realtà che definiscono il tipo di spazio, quanto è larga la strada, se ci sono alberi o non ci sono
alberi, se ci sono spazi monofunzionali o il mix funzionale di cui parlano Léon e altri, e secondo me
una città che veramente vuole cambiare, e questo l’ho visto a Copenhagen, a Friburgo ed altre,
cambiano proprio lo strumento urbanistico che non è solo quantitativo ma qualitativo, cioè è un
modo di pensare la città, e questo credo che sia veramente importante (applausi). L’ultima cosa
che volevo dire, se si parla del futuro di Roma, e si parla di progetti, si parla di piazze nel modo
ovviamente molto più ampio, di cui diceva adesso Paolo Portoghesi, c’è sempre il rischio, in
qualsiasi città e anche a Roma, di un certo provincialismo, questo è chiaro, cioè di vedere solo il
mondo all’interno dei limiti metropolitani della città. Io credo che il futuro di Roma dipenda forse più
dai voli internazionali o intercontinentali che avrà Fiumicino nei prossimi dieci anni che dalle
decisioni che prendiamo noi, o le idee che possiamo proporre, nel senso che una città come Roma
fa parte di una rete globale, un po’ meno di Milano, mi dispiace dirlo ma oggigiorno non c’è dubbio,
anche per questioni geografiche, i treni arrivano tra Milano, Amburgo e Rotterdam in un modo più
veloce perché è più vicino al centro dell’Europa. Io vorrei sentire quali sono le ambizioni, quasi le
dimensioni vostre intorno alle quali gli urbanisti poi possono rispondere, cioè Roma si vuole
reinventare come cosa? Perché non solo come città turistica, perché abbiamo se no Venezia che è
una città bellissima, ma non è un grande esempio di città vivibile, anzi, da 200 mila siete arrivati a
80 mila o meno, mi sembra, per cui credo che questo discorso, di questa ampiezza globale, anche
Massimiliano ne ha parlato proprio all’inizio, Roma dove entra in questo? Per cui, tornando alla
domanda che ci hai fatto giustamente all’inizio sulle aree dismesse, ci deve essere anche questa
dimensione più ampia per capire cosa fare, non ce lo possiamo inventare qui in questa stanza
quali sono le funzioni da mettere in qualsiasi di queste zone, San Lorenzo o altrove. Mrs. Thatcher,
non un mio grande modello politico, che ha abolito poi il sistema di gestione della città
metropolitana a Londra nel 1985, aveva una visione chiarissima che Londra doveva competere
con Francoforte e non perdere il punto chiave rispetto a New York e Londra come business center
internazionale, per cui ha deregulated, non so come si dice, tutto il sistema dei permessi, ha dato a
dei privati la possibilità di creare Canary Wharf, il centro commerciale di cui abbiamo parlato prima.
Questo è un modello, ha funzionato, devo dire, non c’è dubbio che ha funzionato, però ha fatto
male alla città, e ritorno al punto che ho detto prima, lo dico al Sindaco, i piani regolatori, il suo
piano regolatore può fare del bene, ma può anche fare del male.
PULLARA: Siamo alla conclusione. Mi pare che non ci siano altri interventi e quindi, ho sentito
pronunciare una parola da Burdett, alberi, che non ha pronunciato nessuno, e a proposito di aree
dismesse stranamente ci siamo dimenticati di ipotizzare, anche così by the way, come direbbe
Meier, il verde, utilizzare queste aree dismesse per fare dei bei pratoni oppure dei boschetti
arcadici, eccetera, chissà perché, siamo abituati a rimuovere queste cose. Non lo so, forse
bisognerebbe tornare un po’ indietro andando in avanti, immaginando che le aree dismesse
possano essere reimmesse nel ciclo naturale della vita dell’uomo, cioè un po’ di verde, natura,
eccetera. Mi pare che il dibattito è stato ricco, complesso, forse non ci ha dato delle indicazioni più
precise, ma era un po’ assurdo aspettarsele. I progetti il Comune ce l’ha per le aree dismesse,
almeno per buona parte delle aree dismesse il Comune ha già dei progetti di massima, delle idee,
eccetera, qui si trattava di confrontare delle idee che vengono da lontano, anche se vengono da
Venezia, vengono da altri punti di vista, per vedere se a Roma è possibile riavviare un’attività di
controllo urbanistico, di evoluzione della città in modo ragionato e ragionevole. Adesso il Sindaco
farà una prima conclusione, domani farà un’analisi di tutto quello che è stato detto, trarrà le
conclusioni, però mi piacerebbe che oggi dicesse la sua opinione su quello che ha sentito oggi.
44
ALEMANNO: Innanzitutto un grazie a tutti quanti, anche grazie al pubblico che ha resistito a lungo
e ha dimostrato un grande interesse. Adesso noi siamo, diciamo così, al giro di boa, perché poi
queste stesse persone, con qualche aggiunta perché arriverà anche Renzo Piano domani, si
confronteranno con l’altra faccia della medaglia, ma è chiaro che il discorso è unitario, cioè
abbiamo parlato oggi di città storica, domani parleremo di periferie, ma in qualche modo sarà il
girone di ritorno rispetto ai ragionamenti fatti oggi. Io voglio sottolineare questi punti, io credo che il
futuro apparterrà a chi riesce a pensare contemporaneamente cose che fino adesso erano state
pensate separatamente, e lo dico anche rispetto ai principi di polemica che ci sono stati, che
servono perché creano fermento, ma poi noi saremo inevitabilmente chiamati a sintesi. Pensare
soltanto il versante comunitario, il versante della sostenibilità e non il versante del confronto con la
modernità, con le nuove tecnologie e viceversa, è una lettura unilaterale. Tra l’altro il confronto con
le realtà globali ci deve in qualche modo misurare con realtà che evolvono, le immagini terribili che
ci ha mostrato Fuksas, però sono le immagini della realtà, cioè sono le immagini come le metropoli
si stanno modificando, e dappertutto, cioè mentre noi parliamo, a Milano stanno costruendo il
grattacielo più alto d’Italia, per non andare troppo distanti, a Londra è previsto un grattacielo che
tra l’altro ha pretese forti dal punto di vista dell’ecosostenibilità, perché come abbiamo sentito non
prevede parcheggi se non per le persone disabili, quindi confrontarsi con il dato tecnologico non
deve significare la nostra sfida e non deve significare negare l’aspetto ambientale, l’aspetto
comunitario. Questa è la sfida vera, perché se noi continuiamo a pensare separatamente queste
situazioni, ci succederà, come è successo nel passato, che magari di fronte a un grande
vincolismo in cui si pretendeva di stringere Roma, la risposta non è stata una virtuosità maggiore,
ma è stata l’abusivismo, oppure ci capiterà di rinunciare a grandi soluzioni innovative dal punto di
vista tecnologico e poi subire delle situazione estremamente mediocri o estremamente statiche,
quindi da questo punto di vista la sfida è cercare di pensare contemporaneamente e di fare quello
che io da montanaro chiamo il salire in cresta, cioè quando uno sale una montagna, sale in cresta
quando ha un precipizio da una parte e un precipizio dall’altra e la sua capacità è di stare in cresta
e fare sintesi per trovare la via verso grandi soluzioni e grandi rinnovamenti.
Fatta questa premessa, io penso che noi – e questo è un dato in atto, perché lo stiamo facendo
con Rifkin, coinvolgeremo altre personalità, anche i contributi fatti adesso – noi dobbiamo fare una
grande verifica ambientale di ecosostenibilità della città, cioè ci deve essere, dobbiamo sviluppare
dei principi, dei regolamenti, dei riferimenti che spingano la città a essere sempre più
ecosostenibile. Lo stiamo già facendo sul regolamento edilizio, sul regolamento edilizio, che è in
lavorazione, ci sono trasformazioni che obbligano delle regole precise dal punto di vista
dell’ecosostenibilità degli edifici futuri, per tutti, nessuno escluso. Quindi fare una grande e attenta
verifica anche per le scelte urbane, perché se le scelte urbane vengono indirizzate in una
determinata misura, si riducono quelli che sono gli spostamenti necessari, quelli che sono i
problemi legati a situazioni perverse che, al di là di come vengono fatte dal punto di vista
strettamente ecosostenibile, poi costringono a consumo di energia, a consumo di tempo, a
consumo di soluzioni. Poi l’altro dato fondamentale è quello di creare una verifica di tipo
comunitario, cioè noi di fronte alle soluzioni che andiamo a calare nella città storica o nella
periferia, dobbiamo avere degli strumenti certi per evitare una nuova Corviale o un nuovo
Laurentino 38, cioè noi dobbiamo avere dei meccanismi che esulano dal lato strettamente
urbanistico ma lo investono, che ci fanno scattare la luce rossa quando si esce da certi livelli, non
solo di sostenibilità ambientale, ma anche certi livelli di… possibilità di propiziare uno spirito
comunitario, un livello di incontro, tutto il tema delle piazze, tutto il tema anche della pedonalità,
cioè quella dimensione comunitaria che poi è il fatto riconoscibile, perché ancora oggi tutti i romani
vengono al centro storico e fuggono dalle periferie? Evidentemente perché trovano una
dimensione comunitaria, una dimensione di qualità del costruire che le periferie quasi dappertutto
non sono riuscite in qualche modo a riprodurre, quindi c’è bisogno di una grande verifica delle
grandi messe in sicurezza sul versante ambientale e sul versante comunitario. In questa ottica
bisognerà poi entrare nella logica del fare. Allora, come entriamo nella logica del fare? Noi
puntiamo… questo, oggi è l’inizio di un percorso che ci porterà alla conferenza urbanistica della
città, questo lo abbiamo già detto, ma su che cosa faremo la conferenza urbanistica della città? Lo
faremo su un piano di assetto complessivo, cioè su una proposta di variante complessiva che
toccherà tutte le aree dismesse che saranno trasformabili e che rappresenterà la proposta che
verrà fatta dall’Amministrazione alla città, e sarà fatta – questo altro passaggio attento che voglio
sottolineare – dopo il piano strategico di sviluppo, perché noi oggi parliamo di urbanistica, cogliamo
45
i vincoli, le opportunità, i suggerimenti dell’urbanistica, dell’architettura, poi parliamo ovviamente
delle aspirazioni della città, che è il piano strategico di sviluppo, cioè cosa vuole essere Roma da
qui a dieci anni, quali sfide vuole fare, come – che poi questo è il tema classico – si colloca
realmente al centro del Mediterraneo per non essere periferica a Milano o a Francoforte. Su
queste scelte economico-sociali di civiltà, torna sull’urbanistica, cioè sulla forma concreta che deve
realizzare, e lo fa lanciando una proposta con una variante che sarà l’oggetto della conferenza
urbanistica della città, su un fatto concreto, su un fatto definito, ci confronteremo non su delle
visioni, ma su degli ambiti precisi, delle funzioni attribuite e dei vincoli, degli elementi centrali da
questo punto di vista. E dovremmo cercare di farlo sempre tenendo un grande contatto con la
verifica rispetto alla città. Quindi la mia aspirazione è quella di poter dire, massimo dopo l’estate,
non oltre perché se no poi i tempi passano, di avere questo piano di assetto complessivo e fare in
modo che questo piano di assetto complessivo sia l’occasione per fare questa conferenza
urbanistica della città, che è il luogo in cui si confrontano tutti coloro che rappresentano le diverse
componenti della città stessa. Debbo una risposta per quanto riguarda l’Air Terminal. L’Air Terminal
sarà un tempio, ma non un tempio religioso, sarà il tempio dell’agroalimentare italiano e in
particolare romano, perché sarà la sede romana di Italy, cioè quella realtà che è già stata fatta a
Torino e si sta procedendo in tutto il mondo, sotto l’egida di Slow Food, in cui praticamente si crea
un grande centro di vendita, di ristorazione e altre cose, di agroalimentare tipico del territorio, di
chilometro zero, eccetera, e sarà una realtà veramente molto suggestiva perché a Torino, dove è
già stata realizzata, sta avendo un successo enorme, ed è questa la destinazione che è stata
indicata per questa realtà e sarà… aprirà circa fra un anno questa cosa e sarà una cosa molto
potente e molto suggestiva rispetto anche a una città che sul versante dell’agroalimentare, di
qualità, di radicamento del territorio, di chilometro zero ha moltissime cose da dire, quindi penso
che sarà un altro dato sulla città. Domani io credo che dobbiamo confrontarci con l’altro aspetto,
con quello che c’è immediatamente fuori della città storica, quella che è l’altra città, l’altra città che
è cresciuta in questi anni in maniera estremamente caotica, ma che ci chiama a un grande
problema, l’Agro Romano da un lato e la necessità di abitazioni, il Piano Casa di cui c’è bisogno e
la necessità di ricucire l’assetto del territorio rispetto alla periferia, e quindi vedremo cosa esce
fuori. Grazie. (Applausi)
PULLARA: Grazie, domani si ricomincia con le periferie.
46
9 aprile 2010 – MATTINA
DE SANTOLI: La seconda giornata di questo workshop, cominciata con un interessantissimo
dibattito sul centro, prosegue prevalentemente parlando di periferie, e come avete già sentito,
distinguere nettamente i due momenti non è così semplice. Cominciamo subito con il filmato
introduttivo che si riferisce proprio all’argomento di cui ci stiamo occupando.
FILMATO
DE SANTOLI: Cominciamo la giornata con degli interventi introduttivi di carattere istituzionale.
La parola a Francesco Coccia, Direttore del Dipartimento per le politiche per la riqualificazione
delle periferie. Grazie.
COCCIA: Con l’introduzione filmata che vi abbiamo presentato, abbiamo cercato di tratteggiare
sommariamente una realtà, come ho detto, vastissima, diversificata e dunque molto complessa.
Se hanno ragione quelli di Gaia, che dicono che anche la città è un organismo vivente, ebbene
questo di Roma è l’organismo vivente più grande d’Italia e certamente uno dei più grandi d’Europa,
quindi un problema non piccolo, sia comprenderne le dinamiche che cercare di governarlo.
Dunque io non approfondirò nell’intervento questa descrizione del sistema, voglio cominciare
ringraziando i miei colleghi al dipartimento che in quest’anno mi hanno aiutato a comprenderlo, i
municipi, i comitati di quartiere dai cui contatti ho imparato a capirlo, il mio Assessore di riferimento
che è stato paziente, Virgilio, in questo studio. Dunque, col mio intervento cercherò semplicemente
di aprire il dibattito illustrandovi brevemente ciò che è stato fatto per tentare di governare un
processo di recupero dalle periferie, che è sempre più necessario, considerando che rispetto ai
film di cui avete visto alcuni spezzoni, di neorealismo italiano, e dunque rispetto alla condizione
degli anni ’50 e ’60, la situazione è molto cambiata, nel senso che c’è stato un consolidamento
socio-economico della periferia straordinario, ed oggi la periferia è, come ho detto, il luogo della
stragrande maggioranza dei romani. Dunque la situazione di omologazione socio-economica, a
fronte di una estrema povertà urbana, rende la situazione ancora più drammatica e l’esigenza di
interventi più urgente.
Per capire un momento le dimensioni del problema e anche alcuni degli highlights, delle cose da
fare con più urgenza, tenete conto che, pur essendo lo sviluppo della rete infrastrutturale delle
strade sotto qualunque standard europeo, corrisponde più o meno al 4% del territorio comunale
contro il 15% medio di qualunque sistema insediativo europeo, lo sviluppo complessivo è di ben 5
mila chilometri, di cui un buon 20% ancora in attesa di interventi primari, come quelli di
illuminazione. Quindi ci sono anche questioni di sicurezza gravi e queste impongono interventi.
Dunque quello che abbiamo fatto e quello di cui vi darò conto rapidissimamente, ciò che è
avvenuto, ciò che si è fatto in questi 20 anni per far fronte a un problema di recupero, le
emergenze che sono ancora presenti, il grande fallimento in genere di quegli interventi, e le ipotesi
sulle quali stiamo lavorando con delle semplificazioni. Essendo un fenomeno così complesso,
credo che sia di facile comprensione che o si fanno grandi semplificazioni analitiche o si rimane
ipnotizzati dalla difficoltà, dalla complessità, e quindi non si riesce a intervenire tempestivamente.
Per fronteggiare questo fenomeno, negli ultimi 20 anni sono stati messi in piedi interventi ordinari e
straordinari. L’intervento ordinario più comune è quello dei piani di recupero, una sorta di
adeguamento urbanistico basato sul sistema di cessioni delle aree contro nuove cubature per
realizzare i servizi, ma poiché i costi di urbanizzazione a Roma, come forse in grandi parti dell’Italia
meridionali, sono sempre stati tenuti bassi, coprono a stento il 60% degli oneri di urbanizzazione
primaria, sono quasi sempre mancate le risorse per costruire su queste aree, dunque il risultato
finale è che abbiamo 500 aree, il mio Dipartimento ha acquisito, ha ricevuto ben 500 aree in tutta
la periferia romana, in genere lotti di risulta, come potete vedere, tutti di dimensioni troppo piccole
per qualunque tipo di intervento, e per anni anche a carico dell’Amministrazione comunale che ne
doveva curare la manutenzione e la conservazione, immaginatevi con che costi e comunque con
che risultati, essi stessi parte determinante del degrado. Solo recentemente abbiamo introdotto un
obbligo di conservazione che aggrava i poveri proprietari cessori anche dell’onere di mantenerli,
finché non avremo modo di intervenire.
47
L’altro intervento fondamentale utilizzato negli ultimi anni sono gli innesti, i cosiddetti interventi di
ricucitura, usare gli interventi di edilizia economica e popolare pianificati e disegnati da architetti, e
qui qualche ripensamento era necessario, col tentativo di ricucire. Ora vedete qui alcuni esempi, si
capisce chiaramente come un disegno urbano basato su le tecniche dell’urbanistica funzionalista
di edifici nel verde, praticamente ha creato sia un vallo di territorio inutilizzato tra l’esistente da
ricucire e il nuovo, sia un incommensurabile irriducibilità di dimensioni e soprattutto di rete viaria.
La rete viaria che serve un intervento di questo tipo non potrà mai irretire interventi minuti
all’intorno. Questo è il caso Serpentara Fidene, ma si può replicare in altre cose.
L’ultimo che abbiamo messo in campo recentemente, sbloccando un meccanismo che già era in
piedi da tempo, è quello degli interventi di autorecupero, cioè l’ipotesi di poter più rapidamente
procedere ai recuperi, consentendo ai consorzi dei residenti di fare loro i piani di recupero. Il
meccanismo non è ancora effettivamente partito, abbiamo messo delle linee guida che per la
prima volta introducono criteri di qualità, anche a fronte dell’esperienza fatta, e quindi l’obbligo di
trovare spazi urbani, piazze e quant’altro, l’esito non sappiamo testimoniarlo, certamente sarà
difficile comporre anche in autogestione interessi diffusi e radicati.
Il piano regolatore viceversa ha messo in campo altre ipotesi, sostanzialmente l’operare per
tessuti, dunque un’analisi della città e del tessuto urbano di tipo morfologico, una cosa che supera
il vecchio zoning, però effettivamente, soprattutto in termini di interventi di modifiche di destinazioni
d’uso e di ristrutturazione, probabilmente introduce ulteriori rigidità. Ora in sede di revisione delle
norme forse queste cose potranno essere superate. L’altro aspetto determinante è il policentrismo
introdotto. Il tentativo cioè di imporre in periferia una serie di nuclei di coagulo della vita sociale,
economica e locale, in modo da creare delle polarità non antitetiche al centro, ma integrative di
questo. E la progettazione di questi nuclei è ancora parziale, non è sempre chiarissimo il loro
rapporto con la rete infrastrutturale che viceversa è certamente determinante per la loro effettiva
realizzazione, non semplicemente per mettere a reddito, ad uso magari dei vasti ambiti fondiari
disponibili.
L’ultimo strumento è stato il tentativo che fa il piano di far fronte alla cronica difficoltà, carenza di
risorse per l’urbanizzazione, introducendo nei programmi di recupero praticamente l’obbligo a
contributi straordinari. Purtroppo questo meccanismo è stato recentemente messo in discussione
da una sentenza amministrativa e dunque fortemente pregiudicato. Del resto bisogna anche
essere sinceri, i programmi di intervento speciale sono partiti moltissimi, non ne è arrivato in porto
nessuno, dunque credo che si debba intervenire su questi aspetti di extra oneri, ma anche sui
meccanismi. L’altro aspetto introdotto è il grande sistema ambientale. Si è integrato il sistema
ambientale storico della città, che comprendendo le ville che caratterizzano Roma, una città sotto i
pini come si dice, e che fanno di Roma la città più verde d’Europa, senza dubbio, Stoccolma è un
problema a parte e ha condizionamenti diversi, ha integrato 9 mila ettari che corrispondono a
dotazione di parchi, non a dotazione di verde locale, di standard, ma quella per parchi urbani, di 34
metri quadri ad abitante, quindi una dotazione grande, vasta, bene a tutto ciò aggiunto tutti i parchi
regionali e municipali esterni, aggiungendo 31 mila ettari di verde. La dotazione teorica
passerebbe a 134 metri quadri abitante, capite bene che è una situazione assolutamente
ingestibile, non ci sono le risorse, né le attrezzature né le modalità per rendere questa una
dotazione effettiva. E l’altro problema è che per come è stata immaginata la natura storica dei
cunei verdi dell’Appia verso il centro urbano, del Parco di Veio a nord in tangenza e a centro
urbano, l’attraversamento dei fiumi, quindi i parchi fluviali dell’Aniene e del Tevere, non si è riuscito
a mettere in piedi una vera cinta verde intorno alla città, non costituiscono una cinta verde, e al
contrario costituiscono una penetrazione nel tessuto urbano che spinge fuori l’espansione.
Dunque, c’è anche un problema di questo tipo da dover gestire.
Peraltro la periferia romana, differentemente dalle altre periferie europee, proprio per la sua
formazione basata spesso in autocostruzione, sempre sulla proprietà della casa individuale o
collettiva, con i piani di zona attraverso le cooperative, presenta un fenomeno di stabilità
domestica, di insediativa, sconosciuto nel resto d’Europa, e difatti la periferia romana non è mai
stata interessata da fenomeni di ribellione urbana che invece hanno interessato le grandi periferie
delle città maggiori europee. Dunque questo è un dato di forza, di stabilità. Purtroppo, appunto per
gli stessi meccanismi di formazione dovuti a una lottizzazione abusiva selvaggia, quindi
intensissima, o alle modalità dell’urbanistica funzionalista che proprio ha fuori del suo repertorio la
48
questione degli spazi esterni, spazi pubblici esterni, che non trovano nemmeno una sanzione in
termini di standard, non esiste uno standard di spazi pubblici pedonali, o c’è viabilità o c’è verde.
Se provi a farlo, chiunque l’ha provato, nei tentativi di disegnare diversamente la città, avrà visto
dei problemi anche di tipo amministrativo e legale enormi. Dunque per queste due convergenti ma
diversissime ragioni, non esiste nella periferia romana, non esistono spazi sociali e di
aggregazione sociale. Dunque c’è un difetto di vita sociale allargata, che finisce col creare delle
situazioni di difficoltà sociale, alienazione, mancanza di identificazione, tutte quelle cose che hanno
portato a una difficile identità che, però va detto, almeno astrattamente esiste. Oramai la gente di
Tor Bella Monaca si sente gente di Tor Bella Monaca, nell’immaginario collettivo esiste un’identità,
non esistono gli spazi perché questa si possa esprimere. Da questo punto di vista, io credo - se mi
consentite un attimo di parlare di una cosa dibattuta ieri circa il contrasto tra il modernismo e il
riferimento alla tradizione - che dobbiamo, io almeno personalmente, senza prendere le parti
dell’una e dell’altra, non possiamo non rilevare che mentre l’architettura moderna funzionalista non
ha proprio nel suo repertorio le capacità di realizzare le piazze, e questa è una cosa che abbiamo
constatato, non esistono piazze moderne, d’altra parte l’architettura tradizionale, quando ha
cercato di replicare queste tipologie urbane, l’ha fatto attraverso elementi edilizi che per difficoltà di
restaurare, recuperare le questioni tecnologiche, di costruzione di quel tipo di elementi, ha quasi
sempre un sapore fittizio, da set cinematografico, da outlet alla moda, insomma qualcosa di
improprio. Dunque, d’accordo col Professor Portoghesi, credo che entrambe le posizioni debbano
avere luogo, spazio e sperimentazione, spero che la prossima Festa dell’Architettura sia anche
un’occasione per questo, oltre che per una certa autocritica doverosa di quanto è stato fatto, è
stata fatta dagli architetti questa periferia, almeno la parte pianificata, dia spazio a questo discorso
di approfondire i due aspetti e poi in qualche maniera riconciliarli nell’ambito delle possibilità. Per
quanto riguarda la limitazione necessaria dell’esistente che, diciamo, è un fatto doveroso, sia per
gli enormi costi di attrezzare, fare evolvere a situazione urbana compiuta, avere una gestione dei
servizi economici e limitare le perdite di esercizio delle reti e lo stesso stress di movimento delle
persone e i costi di movimento delle cose, oppure ritornare, contrarre lo sviluppo urbano, è
necessario ricordare che per far ciò, viste le dimensioni, sono immaginabili prima di tutto degli
interventi diffusi, cioè degli interventi generalizzati. Per far questo occorre intervenire, diciamo
interventi che ci sono consentiti dalla bassissima densità demografica e anche edilizia che avete
visto precedentemente, dunque parrebbe ovvio che l’opportunità di sfruttare la nuova Legge Casa
nazionale, magari con una formulazione un po’ più liberistica da parte della Regione, che ci
attendiamo, le possibilità di densificare l’esistente, ma anche di eseguire degli interventi di
sostituzione urbana, demolizione e ricostruzione che non sono stati mai conosciuti qui a Roma,
anche in delocalizzazione per esempio, anche per salvare zone ambientali di pregio contaminate.
Il problema è che Roma, a differenza delle altre città - questa è una diapositiva che illustra come il
sistema del verde attuale abbia spostato, persino nella pianificazione, a 25 chilometri dalla città,
espansioni ipotizzabili - differentemente dalle altre città, non ha mai conosciuto un’effettiva carenza
di terreni edificabili, sia per la questione già accennatavi dalla relazione dell’enorme footprint
urbanistico realizzato dal piano del ’62, fatto per 5 milioni di abitanti contro 2 milioni e 8
effettivamente realizzati, sia per il fatto che quello stesso piano è andato largamente in deroga, sia
perché con il piano delle certezze, che ha cercato di fissare i diritti edificatori di un piano ormai
vecchio di venti anni, questo footprint è stato in qualche maniera sanzionato, sia perché
l’incremento delle aree verdi interne e il non recupero dei vuoti interni ha infatti lasciato individuare
degli spazi esterni di espansione, lontani ma vasti. Dunque Roma, differentemente dalle altre città
non ha mai conosciuto la costrizione per carenza di spazi edificabili e la costrizione a fare
interventi di recupero. Quindi quando sono stati… la diapositiva si riferisce a situazioni pregresse,
la questione della densificazione, se andiamo avanti magari. Differentemente dalle altre città,
tipicamente Milano per esempio, non sono mai stati fatti interventi di recupero dell’esistente, non si
è approfittato della grande opportunità della delocalizzazione degli anni ’80, delocalizzazione
produttiva, ma anche amministrativa avvenuta intorno agli anni ’80, per intervenire sulle aree,
recuperandole magari ad usi residenziali o anche a usi misti. Quando è stato fatto, questo è il caso
della Pantanella che tutti a Roma conoscono, è stato fatto nelle modalità molto timide, in realtà
sono state create delle residenze dentro dei volumi che a mio modestissimo parere non avevano
nemmeno le ragioni di essere architettoniche, di essere mantenute, ma c’è anche una rigidità che
riconoscendone la storia, comunque un valore, rende spesso difficoltoso il consenso intorno a
interventi di ristrutturazione che sarebbero anche più efficienti sotto il profilo culturale. Dunque noi
49
abbiamo la città periferica, quella più esterna, perché ricordava ieri Portoghesi che quella a ridosso
della città storica, viceversa, ha una struttura realizzata con gli altri piani attraverso addizioni, ha
realizzato una serie di vuoti, di spazi inconclusi, spazi che vengono tanto dall’abbandono delle
strutture produttive, a cui non è mai seguito altro che l’occupazione a volte, e comunque situazioni
di degrado, a standard urbanistici mai realizzati, a vincoli indotti, a previsioni urbanistiche rimaste
tutte sulla carta. Del resto, sotto il profilo della strutturazione della città, soprattutto quello
infrastrutturale viario, l’assetto monocentrico tradizionale della città è stato lasciato
sostanzialmente invariato, soprattutto è venuto a mancare, non è mai esistito, tra le ipotesi di
intervento, quello di completare un sistema radiale con un sistema di viabilità anulare.
Le uniche due anulari esistenti sono il Grande Raccordo Anulare viario e l’ancora incompiuto
anello ferroviario interno, l’anello ferroviario interno costituisce, almeno sommariamente, il limite
che noi poniamo tra la periferia e la città. In questo vasto ambito, estremamente largo, non esiste
alcuna tangenziale compiuta, se non parziali e troppo interne rispetto al tessuto per costituire una
strutturazione della parte intermedia della città, della seconda città. Il nuovo piano di assetto della
mobilità sostenibile affronta effettivamente e questo è il risultato funzionale della cosa come
vedete. La natura portante urbana assunta dal GRA, i pesi centripeti di attraversamento del centro,
in tutti gli attraversamenti est-ovest molto importanti, ma anche in quelli nord-sud, e quindi una
situazione di congestione tanto della prima periferia quanto della situazione centrale. Il nuovo
piano di assetto per la mobilità sostenibile, fortunatamente, almeno propone una soluzione, una
anulare intermedia tra l’anello ferroviario, che speriamo venga completato, l’Amministrazione si sta
battendo in proposito con grande determinazione, e il Grande Raccordo Anulare, parzialmente
esistente sia nella zona orientale, dove c’è la Palmiro Togliatti che ne costituisce un largo tratto,
una decina di chilometri, 8 chilometri per l’esattezza, sia in parte nella parte occidentale, Via dei
Colli Portuensi, Via Isacco Newton. Queste diapositive danno conto di come il sistema dei servizi
sia ancora sostanzialmente centrale. Dunque, l’anulare esterna ha posto in essere una opportunità
sulla quale si sta focalizzando l’attenzione, nella convinzione che le centralità debbano avere prima
di tutto un supporto funzionale di mobilità per essere reali, per potersi sviluppare, anche tenendo
conto della carenza di risorse, solo se creiamo grandi opportunità in termini di mobilità, noi
possiamo creare le condizioni di attrazione da parte dei capitali.
Come detto anche nella relazione, esistono almeno due ambiti fondamentali, storici di sviluppo
della città, quello orientale e quello del corridoio tecnologico portuale verso Ostia. Se noi
sovrapponiamo questa qui, che è anche la realtà insediativa prevalente della periferia più densa,
con il sistema della mobilità vista e con quella detta anulare, noi troviamo nell’intersezione di
questo sistema, con la viabilità, sia quella consolare che quella radiale, che non a caso nella zona
est è molto intensificata, oltre alle consolari, da ben cinque altre grandi arterie territoriali, da tre
linee metropolitane, nell’intersezione tra questi sistemi, l’anulare intermedia oggi esistente, per la
parte appunto Palmiro Togliatti, che non è una parte piccola, va a irretire circa 650 mila abitanti, i
punti di intersezione di questa con appunto la viabilità e soprattutto il sistema delle metropolitane
creano delle occasioni straordinarie di centralità vera, effettiva, con tutte le condizioni preliminari
per uno sviluppo, una forte intensificazione urbana che dovrebbe costituire l’altra polarità di
interventi, cioè interventi diffusi, anche piccoli in intensificazione e sostituzione, e poi interventi
concentrati, top-down, fatti sui punti dove esistono le condizioni per fare interventi capaci di
qualificare, anche magari per la qualità progettuale dell’intervento, un intero ambito e creare un
indotto importante, e quindi occasioni di recupero effettive. Spero di essere stato sufficientemente
veloce.
DE SANTOLI: Ringraziamo il Professor Coccia, perché sintetizzare questa materia in 22 minuti è
veramente un’operazione complicata, complessa, comunque si vede tutto il lavoro preparatorio
fatto dagli uffici sulla materia. La parola a Fabrizio Ghera, Assessore ai Lavori pubblici e alle
periferie del Comune di Roma.
GHERA: La parte più interessante dell’intervento del Professor Coccia era proprio l’ultima, quello
che riguardava appunto la parte trasportistica, la parte che obiettivamente è quella di maggior
carenza per quanto riguarda le periferie della nostra città, ed è evidente insomma l’importanza e la
sua volontà di far presente quello che è stato il lavoro da parte dei tecnici del Comune in questi
mesi, perché va detto, questo Convegno è stato preparato con l’iniziativa del Sindaco,
chiaramente, dell’Assessore Corsini e la mia ovviamente, è stata preparato di intesa con gli uffici,
50
anche per spiegare ai cittadini quello che è stato fatto in questi due anni, in questo anno e mezzo,
due, nei quali ovviamente Roma è guidata dal centrodestra e dal Sindaco Alemanno. E quindi è
importante un momento anche di svolta, perché è opportuno ascoltare, oltre all’ascolto quotidiano,
perché va anche detto, ci sono state alcune polemiche sui giornali, l’ascolto quotidiani che viene
fatto dei cittadini ai Comitati di quartiere, noi abbiamo anche, lo diremo, rimesso un po’ al centro il
discorso della partecipazione in periferia, è opportuno che ci sia anche un elemento di confronto
alto e importante come questo, perché crediamo che anche con la possibilità di divulgare ai
cittadini, uscire sui media, avere la possibilità di ascoltare importanti interventi, ci può essere
sicuramente un lavoro migliore per la nostra città. Quindi rispetto al passato comunque un
momento di rottura c’è, perché c’è qualcuno nelle polemiche dei giornali di oggi, odierni, taccia
questa Amministrazione di “continuiamo” in qualche modo, non è sbagliato continuare quello che è
cominciato, tanto che c’erano cose cominciate, cominciate nel senso che già iniziavano a costare
tanto, perché gli investimenti importanti per l’Amministrazione e quindi era impossibile anche
volendo tornare indietro, quindi si tratta anche di polemiche stucchevoli e inutili. Al contrario è
importante quelle cose che erano cominciate, finirle, finirle bene, finirle nei tempi giusti, finirle con i
soldi giusti, perché è ovvio e naturale che a nessuno, che sia l’ultimo degli architetti e la più grande
delle archistar, può essere lasciata una cambiale in bianco con i soldi pubblici, quindi anche forse
era opportuno, per chi oggi taccia e parla dei costi dell’eventuale abbattimento di una parte della
teca di Meier ovviamente e magari anche dei costi sostenuti, della lievitazione dei costi per tante
altre opere comunque importanti, fondamentali per la nostra città, che ci saranno, però c’è un
rapporto, ieri si è detto, penso l’abbia detto l’Architetto Fuksas, che ognuno deve fare il suo
mestiere.
Gli architetti è giusto che facciano il loro mestiere, se sono architetti bravi e di fama internazionale
lo devono fare, lo devono fare bene, come lo sanno fare loro, la Pubblica Amministrazione deve
fare il suo lavoro, quindi deve far rispettare i tempi delle consegne, deve evitare la lievitazione dei
costi, cosa che purtroppo non è stata fatta in passato, dobbiamo dire, quindi è una risposta
comunque importante che va data chiaramente anche a chi è intervenuto in questi giorni appunto
parlando di questo importante convegno. E credo che affrontare il tema delle periferie è
sicuramente importante, perché siamo di fronte a un problema fondamentale per la nostra città,
abbiamo una carenza infrastrutturale evidente, non si è detto, non è stato spiegato appunto nel
filmato iniziale, che noi abbiamo un deficit per esempio per quanto riguarda i servizi primari, perché
chiaramente non l’abbiamo messo magari nelle note informative per i professori e per ovviamente
gli illustri ospiti, che abbiamo a Roma una mancanza di 50 mila impianti, 50 mila lampioni per
l’illuminazione pubblica per illuminare la nostra città. Abbiamo intere strade, interi quartieri dove
purtroppo non c’è questo servizio elementare, quindi si richiederebbero investimenti intorno, è
stato calcolato ai 150 milioni di euro per illuminare tutte le zone ovviamente non illuminate, e su
quello abbiamo iniziato a lavorare raddoppiando gli investimenti. Abbiamo anche ragionato sulle
infrastrutture, per esempio, che riguardano altri elementi fondamentali, le fognature, dove
purtroppo non c’è adeguata infrastrutturazione, per non parlare ovviamente di quello che si è detto
oggi, anche i servizi ovviamente tipo le scuole o le piazze, i luoghi di aggregazione. Per fare tutto
questo ci vogliono ovviamente delle risorse, è naturale ed è ovvio. Per attirare queste risorse cosa
possiamo fare? Cosa possiamo immaginare?
Stiamo iniziando a ragionare sulla reale densificazione, come si è detto, ieri il moderatore del
pomeriggio ha detto, sì, ma la densificazione è la stessa cosa che si diceva precedentemente. Non
è vero, al contrario la densificazione a Roma non si è fatta, non si è fatta demolizione e
ricostruzione, si è consumato Agro Romano sempre di più, perché questo è evidente, quindi noi
nel nostro studio che abbiamo distribuito e mandato alcune settimane fa, a dimostrazione che poi
alcune idee possono essere portate avanti insieme, come ieri si è parlato di realizzare altre piazze,
piazze vere, non le piazze del progetto Cento Piazze, quindi piazze che abbiano un significato
importante per la nostra città, e quindi credo che sia importante, come si è detto pure che bisogna
finirla di consumare altri spazi, altro Agro Romano, quindi porre un limite, e penso sia un dato
fondamentale, all’espansione della nostra città, visto che poi però quelle infrastrutture di cui
parlavo prima dobbiamo realizzarle, noi le realizziamo solamente intervenendo in qualche modo,
quindi aspettando una normativa, delle normative regionali e nazionali che rendano possibile la
densificazione. Naturalmente ci sono tanti studi, si parlava di verticalità, non dobbiamo aver paura
ovviamente di parlare di questo, però se la verticalità è Corviale, verticalità, non in alto purtroppo
51
adagiata, è una verticalità che chiaramente non va bene. Ci sono sicuramente altri studi. Noi
abbiamo evidente quello che è stato fatto anche nella nostra città, il Professor Krier ha portato
avanti importanti studi per quanto riguarda anche una densità che sia anche modulare, che sia
ovviamente intensiva, ma ovviamente graduale, dove Garbatella, le città giardino, Montesacro, ci
sono comunque anche palazzi alti, sei, sette piani, ovviamente sono di diversa altezza, e quindi
densità, non proprio ovviamente limitate, però nessuno pensa che Garbatella o Montesacro o
anche Colli Aniene, perché va detto che anche negli anni scorsi, ci sono alcune zone della città
che sono state fatte anche recentemente dove la gente vive, chiaramente ognuno di noi ha
un’esperienza, i romani soprattutto, hanno un’esperienza diretta quando si parla di queste materie,
vive bene, ci sono degli spazi verdi, spazi larghi, non si tratta di alveari, non sono state firmate
cambiali in bianco a nessuno, ai progettisti che magari per loro ideologie hanno portato avanti dei
progetti che ovviamente hanno poi favorito il degrado sociale, perché noi siamo di fronte a queste
scelte, a queste importanti emergenze, e si è anche detto degli spazi immensi che ha la nostra
città, degli spazi all’interno della città, dentro addirittura il Raccordo Anulare o comunque nelle
adiacenze, non parliamo di spazi ovviamente lontanissimi. In questi interventi anche edilizi di
ristrutturazione o di nuove edificazioni, abbiamo proprio la cessione, da parte dei privati, di aree
sterminate al Comune, ci sono i problemi reali e magari ovviamente su questo ci aspettiamo dei
suggerimenti e anche la possibilità di un lavoro comune insieme, insieme naturalmente ai presenti,
ma insieme a tanti altri, perché nessuno ovviamente, come si diceva, firma cambiali in bianco, ci
sono tanti progettisti romani, italiani che sicuramente verranno valorizzati in futuro, ed è importante
ovviamente questo, perché il fatto di discutere prima è importante, prima nemmeno si discuteva
probabilmente da un certo punto di vista, si arrivava all’incarico o all’idea da parte del Sindaco,
dell’Assessore, della Giunta. Noi abbiamo iniziato una lunga serie di consultazione, oggi è un
primo momento, in realtà nemmeno un primo momento, è un momento, perché ce ne sono stati
tanti altri e tanti altri ce ne saranno, come si è detto prima. Quindi si potranno valorizzare tante
persone, tanti progettisti, tanti architetti, però ovviamente, come si è detto, sempre nel rispetto dei
ruoli e quello del pubblico amministratore è ruolo fondamentale, è importante per questo, e quindi
abbiamo davanti a noi, come dicevo, un problema fondamentale: cosa fare di tutti questi
grandissimi appezzamenti, di tutte queste aree ovviamente che vengono consegnate alla Pubblica
Amministrazione, e dove c’è una difficoltà di valorizzazione enorme, perché si tratta di milioni di
metri quadri che verranno sempre di più, ovviamente quando andranno avanti le procedure di
concessione da parte degli uffici, le possibilità di realizzare gli interventi, e da questo punto di vista
c’è la possibilità, come purtroppo è accaduto in passato, che queste aree purtroppo diventino
elementi di degrado, non di valore. Quindi un verde pubblico, che in realtà è un verde pubblico non
realizzato, quindi c’è difficoltà per reperire appunto i finanziamenti e realizzare, infrastrutturare
queste aree verdi, al contrario in molti casi si è favorito la possibilità appunto di aumentare il
degrado in quelle zone, che come si è detto sono zone spesso abusive, quindi paradossalmente in
quelle zone le case e i cittadini vivono meglio nella propria casa, perché sono state fatte bene,
perché le hanno fatte loro, le hanno fatte con attenzione, con amore e con cura. Mentre d’altro
canto abbiamo interventi pubblici o di grandi costruttori fatti male, paradossalmente. Però in quelle
aree di estrema periferia ovviamente non abbiamo spazi come le scuole, come le infrastrutture, la
possibilità della chiesa di realizzare l’oratorio, perché non c’è lo spazio fisico addirittura, quindi gli
spazi sociali ovviamente sono sicuramente sacrificati e su questo dobbiamo ragionare insieme a
chi ci può dare ovviamente dei suggerimenti importanti da questo punto di vista. Quindi è normale
che il gap infrastrutturale deve essere colmato, per colmarlo ci vuole sicuramente l’intervento
importante da parte della Pubblica Amministrazione, quindi noi abbiamo bisogno dell’aiuto del
Governo, della Regione, abbiamo bisogno anche di un nostro intento fondamentale, credo che - si
è parlato ieri, nei giorni scorsi, abbiamo presentato tutta la riqualificazione di Piazza Augusto
Imperatore - sia, per la nostra città, bello puntare sul nostro centro storico, siamo tutti orgogliosi
ovviamente di essere romani, però d’altro canto dobbiamo anche investire adeguatamente, ma
probabilmente molto di più in periferia per realizzare quello che vogliamo realizzare, perché anche
lì abbiamo una ricchezza, l’identità della periferia si sviluppa anche valorizzando ad esempio i
reperti storici e archeologici che abbiamo nella nostra periferia, l’abbiamo iniziato a fare, magari
ovviamente con primi esperimenti importanti. Quando c’è un ritrovamento importante in periferia,
quando c’è comunque un intervento che può essere valorizzato, quello deve essere fatto in loco, e
lì sicuramente si aumenta l’identità delle persone, quindi dal punto di vista della socialità quello è
un elemento importante, l’orgoglio di essere romani deve essere ovunque, per noi che residiamo
52
ovviamente in tutte le zone della nostra città, e quindi anche puntare su quello. Quindi preservare e
recuperare l’identità romana in tutta la nostra città, in ogni angolo della città chiaramente, questo
non deve essere fatto solamente nelle zone importanti e più centrali, deve essere fatto ovunque, e
su quello chiaramente è anche importante in qualche modo connotare la nostra capacità di essere
buoni amministratori, perché riqualifichiamo ovviamente con le piazze, con gli spazi di socialità,
valorizziamo la nostra eredità storica, perché quello deve essere fatto in ogni angolo della nostra
città, e chiaramente avvaliamoci di chi è capace, magari valorizzando che va detto, si parlava
ovviamente degli interventi a Tor Tre Teste, della chiesa di Meier, di altri interventi in periferia
importanti, se ne parla, è importante ovviamente che si cimenti, magari anche chi ha una
grandissima esperienza a livello internazionale, sulla periferia romana. Questo può sicuramente
attrarre maggiore attenzione, maggiore sviluppo, maggiori investimenti, che sono quelli ovviamente
che abbisognano in particolar modo alla nostra città. Grazie. (Applausi)
DE SANTOLI: Grazie. La parola al Sindaco di Roma, Onorevole Gianni Alemanno.
ALEMANNO: Io farò un brevissimo cenno, innanzitutto volevo ringraziare i tantissimi studenti
presenti, perché veramente è impressionante questo concorso (applausi), tra l’altro purtroppo ce
ne sono molti che stanno fuori, che guardano attraverso gli schermi, l’allarme che avete sentito
prima era proprio l’allarme che indicava che eravamo giunti al massimo della capienza, e spero
che possano seguire, poi siccome qualcuno se ne andrà, ci sarà modo di recuperare chi sta fuori.
Io volevo soltanto sottolineare tre punti che sono le relazioni che mi hanno preceduto, i punti più
delicati: il primo, più volte ribadito, la volontà di non consumare più Agro Romano, questo è un
tema molto forte, lo dico anche personalmente da ex Ministro dell’Agricoltura, è un punto di
orgoglio. Però ovviamente chi ci ascolta, chi è più avveduto dice, voi dite questo, però avete fatto il
bando per le aree di riserva, che sono appunto nelle realtà periferiche, negli spazi non costruiti,
questo per l’housing sociale. Ecco, questo ci apre un secondo problema, le aree di riserva
dovrebbero insistere, saranno scelte, perché ovviamente il bando è ancora aperto, nei non luoghi,
cioè nelle aree di confine fra il costruito e il non costruito, che sono aree che sulle carte sono aree
verdi, ma in realtà sono semplicemente aree dismesse, aree non agricole, aree non di parco,
quindi sono non luoghi, spesso di degrado. Però questo a sua volta pone un problema di limite,
perché mano mano, e lo abbiamo visto nelle tante diapositive che sono passate in questi momenti,
mano mano che i non luoghi vengono edificati, generano altri non luoghi, quindi bisogna fare una
doppia opera, un’opera di riempimento, di qualificazione di non luoghi, ma anche un’opera di limite,
perché questo appunto non continui a creare un processo infinito, perché se no l’Agro Romano
allora a quel punto viene compromesso, magari non immediatamente, nel futuro. Questo aggiunge
un altro elemento, si è detto demolizione e ricostruzione, si è detto densificazione, fino a che punto
e con che strumenti porre, si può arrivare nella densificazione, ovvero, tema controverso ma che
non si può non porre con forza, non mettere i piedi nel piatto, si possono fare le verticalità in
periferia? Se non nella città storica, in periferia? È contrario a un approccio ambientale, a un
approccio comunitario il fatto di fare i famosi grattacieli o le famosi torri in periferia, che possono
essere uno strumento potente dal punto di vista economico, dal punto di vista urbanistico, per fare
demolizione e ricostruzione, e per evitare di continuare ad espandersi, e quindi fare un’opera di
ricostruzione interna? Ecco, io credo che questi temi sono i temi attorno a cui ruota questa sfida,
perché il problema finale e profondo è questo: noi abbiamo una situazione nella cinta periferica
che è una situazione non solo e non tanto di carattere di servizi e di infrastrutture, tutte quelle che
mancano, ma è un problema di identità. Noi abbiamo detto, passare dalla espansione alla
ricostruzione, il termine è proprio demolire e ricostruire, ricostruzione di una identità, trovare gli
strumenti urbanistici, architettonici, estetici ed economici per fare questa operazione. Questi sono,
penso, i temi principali su cui vogliamo ascoltare qualcosa dai nostri illustri interlocutori. Grazie.
(Applausi)
DE SANTOLI: Grazie al Sindaco e cominciamo i nostri lavori per la parte tecnica. Siamo all’inizio
di una stagione di riflessione, abbiamo detto, si è detto, e anche di confronto. Io vorrei solamente
rubare cinque minuti, forse anche meno, per sottolineare alcuni aspetti che sono stati detti e
sollecitare una risposta da parte vostra. Le aree urbanizzate occupano solo il 2%, il 3% della
superficie del pianeta. Però nonostante questo, più della metà degli abitanti si riversa nelle città.
Proprio in questi anni c’è stata l’inversione di tendenza, per la prima volta nella storia ci sono più
persone che abitano nelle città che fuori. A favore di questo c’è anche da dire che le città
consumano i tre quarti delle risorse del pianeta, naturalmente provocando inquinamento,
53
riversando grosse quantità di inquinanti nell’atmosfera, liquami e quant’altro. Roma in particolare
ha 8 milioni di abitanti, quasi tutti concentrati nelle aree periferiche, abbiamo sentito 2 milioni e 850
mila abitanti, e sono quasi tutti concentrati, per il 90%, l’abbiamo detto, nelle zone periferiche, fuori
dal centro storico. C’è da dire che anche le periferie occupano il 95% del territorio comunale.
Quindi la prima riflessione da fare è questa: se è vero che il segno importante del XXI secolo sarà
quello del recupero del rapporto dell’uomo con la sua terra, e questo deve avvenire per forza,
soprattutto nelle città, per quello che abbiamo detto prima, come coniugare trasformazioni
urbanistiche con sostenibilità, lotta agli sprechi e lotta all’inquinamento? Questa prima riflessione
deve essere fatta soprattutto a partire dalle periferie, perché è sulle periferie che si gioca una
partita molto importante, di trasformazione concreta, operativa e non solo teorica. Inoltre abbiamo
sentito dire anche delle cose abbastanza importanti, che io voglio solamente richiamare: la
onerosissima gestione delle reti infrastrutturali. La periferia è l’esempio, ma io mi permetterei di
allargare questo esempio anche al centro, da questo punto di vista, con gravose perdite di
distribuzione energetica, le reti che abbiamo sono reti obsolete, hanno fatto parte di un progetto
infrastrutturale ormai vecchio, antico, obsoleto. E infine fabbisogno di opere di urbanizzazione
enorme, non ci sono i soldi per farlo. Quindi da questa importante considerazione, io direi e
sottolineerei anche che un qualsiasi tipo di intervento e di trasformazione urbana non può non
rilevare l’importanza delle infrastrutture, addirittura forse partire dalle infrastrutture per modellare la
nuova città. Naturalmente infrastrutture che si possono chiamare reti, che devono essere,
nell’epoca della information e communication technology, reti intelligenti. Poi è stata detta anche
un’altra cosa ieri, che il centro e periferia praticamente è difficile identificare i confini, si confondono
i due aspetti. In realtà forse, più che distinzione tra centro e periferia, noi qui possiamo
concentrarci su quante periferie esistono e su quante periferie vogliamo fare esistere in questa
città, e poi policentriche, centralità, adesso ne discutiamo, però è importante chiarire questo primo
aspetto. Quindi non la periferia ma le periferie. Ultimo punto è quello del ruolo del Comune. È stato
molto importante l’intervento dell’Assessore Corsini ieri, che ha sancito, semmai ce ne fosse stato
bisogno, l’importanza del ruolo della Pubblica Amministrazione come committente, come
committente intelligente, illuminato che riesce a dare delle informazioni, a delineare delle strade
perché possano essere perseguite. Probabilmente stiamo ancora pagando un’assenza da questo
punto di vista degli ultimi anni, tant’è vero che i libri di architettura, quando parlano di committenza
illuminante, difficilmente parlano dell’Amministrazione Pubblica, spesso e volentieri si rivolgono alla
Chiesa, gli interventi della Chiesa in questi ultimi anni qui a Roma sono stati importanti, e quindi
forse riappropriare questo ruolo da parte dell’Amministrazione comunale è la prima cosa,
interpretando i temi della costruzione della metropoli nel terzo millennio. Allora, se potessi dare un
tema a questa discussione, e lascio subito la parola alle illustri personalità, è forse: città sostenibili
nelle periferie, naturalmente cercando di capire cosa significa sostenibilità, non c’è il titolo sul
giornale del risparmio energetico, del collettore solare, del fotovoltaico, noi dobbiamo forse
cambiare una mentalità, perché questo millennio, partendo da questo secolo, deve far cambiare in
primis a noi, e poi un po’ a tutti, partendo dagli studenti che saranno la forza degli anni a venire,
ovviamente, un cambio di mentalità per interpretare meglio questi concetti. Scusate se ho fatto un
prologo un po’ troppo lungo, ma cominciamo a sentire i nostri ospiti. Santiago Calatrava, architetto
e ingegnere (applausi), lui ieri ha fatto riferimento costante alla prudenza, ha fatto riferimento
costante al rapporto con la storia, col passato, ma questo vale anche per le periferie? Lui sta in
questo momento costruendo un’importantissima struttura in periferia, e quindi sarebbe molto
importante sapere dalla sua voce questa esperienza come può essere utilizzata anche per altri
esempi. Grazie.
CALATRAVA: Ieri sera sono passato per i vicoli vicini al Pantheon e ho visto quantità di macchine
parcheggiate e sono anche arrivato alla Piazza di Ignazio di Loyola che è un capolavoro, non c’è
una cosa eguale di sensualità urbana, se mai l’urbanismo può diventare sensuale, sono quelle
case che sono davanti e creano questo teatrino straordinario, e c’erano dei grandi vasi di cemento
in quella piazza, con delle piante strane, e pensavo, questo l’avranno fatto perché non si
parcheggiano neanche qua. Dunque mi sono detto, è molto importante parlare del trasporto, molto
importante contribuire a questo dibattito, facendo così un vincolo del discorso che si faceva ieri fra
città storica e periferia. Per cui ho preparato una serie di diapositive che riguardano esperienze di
trasporto e vorrei farvele vedere. Questa è una stazione costruita nella città di Zurigo, che è un
sistema esemplare di tramways, linee che portano fino all’aeroporto e anche una correlazione fra
sistemi di trasporto, anche battelli sul lago, treni e così via, anche treni di vicinanze, e questo serve
54
per la S-Bahn, dunque sarebbe il treno di periferia, integrato vicino alla città storica, come potete
vedere le torri della cattedrale e anche certe case nei dintorni. Qua ecco si fece, pur se la stazione
doveva dare risposte alla necessità di avere per esempio un treno ogni due minuti, che passa
attraverso la stazione, però si fece anche uno sforzo di integrarla, soprattutto nella topografia, e
anzi rispondendo con dei materiali come il cemento e il cemento armato, però cercare di, tramite
soprattutto il verde e l’integrazione del contesto, di addolcire questo intervento. Questo è anche un
ponte fatto in un’altra città storica, in un contesto diverso, questa sarebbe Gerusalemme, ed è un
ponte per il treno leggero della città. Il ponte deve avere una grande portata, perché ci troviamo
sopra delle gallerie, con delle esigenze tecniche molto dure, perché anche il ponte è in una curva,
e avendo soltanto pochi punti dove si potevano creare degli appoggi fra l’altro, esigendo una
campata di 180 metri. Qua lo vedete anche, come si imposta nella curva e la difficoltà tecnica, che
significa rispondere alla necessità di dover costruire e creare infrastruttura per opere che servono
come un tramway in questo caso. Ecco qua anche una vista, approfittando di questo qua si è fatta
anche una piazza sotto il ponte e si è cercato, vedete, pur adoperando l’acciaio, si è adoperato, e
le funi anche, le sponde del ponte sono fatte con pietra di Gerusalemme, dunque cercando, come
dicevo, di integrare, anche i pavimenti intorno sono fatti con pietre di Gerusalemme, anche
l’illuminazione che serve per illuminare la piazza e creando così degli spazi urbani, anche un ponte
pedonale che serve fra l’altro per il traffico di quelli che vanno nel /Shabat/ alla Sinagoga che si
trova da una parte del ponte, e anche nel quotidiano. Dunque, eppure abbiamo cercato di fare
convivere due linguaggi, quello tecnico e quello anche della pietra locale, anche nei dettagli e un
po’ imparando dalla lezione di Roma, di queste opere in pietra che servono per il mobilio urbano e
rendono enormemente degna la città. Questo sia anche come risposta al dibattito enormemente
interessante che si è generato qua alla fine della giornata fra modernità e tradizione o integrazione
nel linguaggio locale, adoperando lo stesso tecniche moderne, che sono assolutamente
necessarie per fare queste opere che sono anche necessarie. Qua un caso estremo e diverso.
Pensate al treno Roma-Londra, una pensata che i francesi hanno fatto, i francesi sono quelli che
hanno inventato l’alta velocità, che è la grande rivoluzione del trasporto interurbano, loro
inventarono il TGV e sono enormemente avanzati. Questa è la prima stazione di alta velocità pura
costruita in Francia a cui io ebbi l’onore di collaborare, lavorando con ingegneri della SNCF e
anche gli architetti. Dunque, in questo caso si tratta di pensare come arrivare da Roma a Londra in
6-7 ore, pensate, vuol dire che i treni non possono più entrare nelle città perché la rete urbana fa
che il treno non possa più circolare a 300 o 350 chilometri all’ora, ma deve diminuire a 200, e
questo crea una serie di ritardi cumulativi, allora vanno di aeroporto in aeroporto. Ecco qua
l’aeroporto di Lione, quello a Parigi già fatto. Dunque si tratta di pensare che si va di aeroporto in
aeroporto e si crea un’altra rete locale, quello che adesso stiamo anche facendo, con una stazione
locale che porta non soltanto al centro città, ma porta anche a tutti i Municipi nell’area
metropolitana di Lione. Qua vedete una vista di questo elemento, che la Regione voleva un altro
carico simbolico, perché serve di porta e di segno alla Regione, il segno di rinnovo, eccetera,
questo era il discorso del tempo. Questi sono anche interni dove ci sono anche dei servizi, questa
stazione prevedendo, e questo ci fa pensare anche come sono avanzati, prevedendo che il tunnel
che collegherà la rete ferroviaria ad alta velocità italiana e quella francese verrà fatta e che si sta
facendo già di fatto. Dunque qua, anche stazione intermodale, intermodale fra il treno e
l’aeroporto, dove uno può consegnare i bagagli anche in stazione quando prende il treno e arrivare
direttamente dal treno all’aeroporto. Qua ci sono anche già fatte tutte le connessioni per questo
tipo di servizi, e quello che vedete qua è la riserva per quello che stiamo già costruendo, che è il
treno delle vicinanze, il treno metropolitano, che porterebbe alla città di Lione, come dicevo, e al
resto dei Municipi. Questo è anche un altro sforzo di una città che io amo, una grande qualità
urbana, Lisbona, è una città con delle piazze bellissime: Figueira, Rossio, Comércio, città
ricostruita dopo un grande terremoto 200 anni fa, che ha, dal mio punto di vista, una grande qualità
urbana nei terreni di Petrogal, che era la raffineria di petrolio, vengono destinati per fare l’EXPO.
Mi ricordo quando siamo andati per la prima volta a vedere i terreni della stazione, l’erba mi
arrivava oltre il petto, mi arrivava fino alla faccia, ed era tutto pieno di tubi, un terreno inquinati e
così via, e io vidi nello spazio di otto anni trasformare tutta quell’area nell’area dell’EXPO, che oggi
è una città viva, vissuta e normalmente pulsante in cui la stazione crea il centro, con la stazione di
bus, treni, eccetera. Qua vedete dunque i bus, la stazione dei bus, anche c’è il metrò che
discende, creando anche degli spazi, adoperando dei materiali molto semplici e creando, come
dicevo, soprattutto un punto di riferimento al trasporto urbano. Questo qua è anche interessante il
55
fatto, perché fu un manifesto per il campionato europeo di calcio. Non avevo mai pensato che una
stazione poteva, nella mente di qualcuno, convertirsi in un terreno di sport e di calcio, ma mi
sembra anche molto giusto. Ecco, qua vedete un intervento anche in un’altra città, è la stazione
più recente, è la città di Liegi. Liegi è una città con una grande disoccupazione, una città storica, è
la culla di Carlo Magno, la sua madre, e lui nacque anche a Liegi, una città che ha avuto un ruolo
importantissimo in Europa, pur essendo una città relativamente piccola, ma nodo cruciale di
comunicazione di tutte le linee di treno provenienti dall’Est, tramite la Germania, dunque BerlinoColonia, o Francoforte-Colonia, Liegi, Bruxelles, Parigi, Londra, eccetera. Allora è stato anche un
posto di grandi battaglie. Dunque un punto nodale nella geografia ferroviaria che ha bisogno di
rinnovo del quartiere. Dunque ecco qua la proposta che ci porta la stazione che collegherà la
collina di qua, dalla parte posteriore, tramite un boulevard al fiume. Ecco qua la stazione già
costruita con la vista notturna di Liegi. Se io ho bisogno di mezz’ora per andare da casa alla
stazione col bus e dopo ho bisogno di 30-35 per andare al Zeventem o al centro di Bruxelles, è lo
stesso prendere il bus che prendere il treno. Dunque l’alta velocità si trasforma in un tramway fra
città. Allora bisogna avere la stessa facilità e la stessa accessibilità, dunque non ci sono più
facciate, la gente arriva, esce dal treno ed entra nel treno come uno prende il bus in città. Per cui
c’è soltanto un tetto e la stazione articola così molto meglio anche le due parti della città e non è
così tanto una barriera, per cui noi abbiamo fatto dei grandi sforzi per comunicare una parte con
l’altra. Sopra la stazione c’è la collina e questa è una chiesa memoriale di una delle grandi
battaglie, di tante che ci sono state nei dintorni. Ecco qua la trasparenza anche che permette di
vedere anche i /casali/ e questa collina di qua che è un po’ il polmone della città. Qua anche dei
passaggi dentro la stazione, che cercano di comunicare, non soltanto con i binari ma anche una
parte e l’altra della città. Tecnicamente possiamo fare ed è stata fatta una volta sufficientemente
grande, che prenda anche un treno, costruita anche sul passaggio dei treni, ma soprattutto con
l’intenzione di avere un singolo spazio dove arrivano i treni e la gente discende. Questa sarebbe
una vista della città davanti alla stazione, dalla passerella stessa. Qua i dettagli dei supporti, in cui
la tecnica viene sacrificata ai minimi per evidentemente lasciar passare la gente e dare luogo a
una sensazione di leggerezza. E lo stesso però gli spazi di accoglienza, gli spazi di trattamento del
viaggiatore, volevano le Ferrovie belghe che fossero di alta qualità, introducendo anche di nuovo
materiale locale, che è questo granito nero che vedete nel pavimento che loro chiamano /piat bleu/
o petit granit, ed è una pietra locale, e così si portava a questo opus caementicium universale, li si
portava e gli si dava anche un tocco di natura locale. Ecco, questa è la volta vista da una parte con
una segnaletica, cercando un po’ di sottolineare il fatto che si possono fare dei posti anche a scala
umana e pur cercando di risolvere dei problemi importanti di trasporto. Dunque qua è un altro
caso.
Questo è il primo master plan fatto da Daniel Libeskind per Ground Zero, dove io ero molto lieto
ieri di vedere che Richard Meier fece vedere anche il suo contributo a questo concorso
internazionale e anche a questo fatto della ricostruzione di Lower Manhattan. Io sono stato
coinvolto in una seconda fase tramite un concorso per fare il trasporto, la parte di trasporto entro
Ground Zero. Qua si vede da una parte il mio piccolo contributo. Ecco qua, questo è il tetto della
stazione a cui io sto lavorando. In realtà non è una stazione, è anche un collegamento fra i diversi
edifici, dunque noi andiamo dal World Financial Center tramite una serie di passaggi che non
vorrei chiamare gallerie, ma vorrei chiamare proprio passaggi, piazze e così via, un tessuto urbano
che collega i diversi edifici e nutre il fatto della piattaforma multimodale con le diverse linee di
metrò e treno, viene anche nutrita dei servizi che sono dati anche agli edifici che ci sono lì intorno.
Cercai anche di creare una piazza e lasciare in modo oggettuale questa stazione che si legge
anche dai tetti e che deve essere bella, perché la si vede anche da queste torri enormi che la
circondano. Ecco qua una vista da Church Street con la Torre fatta dall’architetto Richard Rogers
accanto a quella fatta dall’architetto Norman Foster, dietro si vede il World Financial Center.
Adesso dovevamo vedere un video, un video breve che parlerà di più delle immagini statiche.
Dunque, vi dicevo, la stazione è anche un vincolo fra diverse parti, connette il World Financial
Center con Liberty Square e anche con le diverse linee di metrò e così via, e crea anche intorno,
seguendo questa esemplarità della grande stazione newyorchese, come dicevo ieri, parlavo della
Penn Station, probabilmente una delle più belle stazioni mai costruite, e della Grand Central, che
per me è anche un capolavoro di bellezza e di dignità per le opere di trasporto, e che segue, serve,
cominciò avendo 47 mila /utenti/ e oggi ne ha quasi 400 mila, ed è la stessa infrastruttura. Ecco
qua la parte centrale, vedete che si può aprire anche il tetto in modo di evitare l’effetto serra nei
56
giorni estivi. Ecco qua anche delle /piste/ che portano fino alle linee di metrò. Dunque da una parte
abbiamo tre linee di metrò condensate in una stazione, soltanto ristrutturata, e dall’altra parte
invece, tramite queste gallerie a livello arriviamo a quest’altra stazione, che ne ha due e che viene
completamente fatta ex novo. Sempre tramite questa grande hall che articola i diversi sistemi di
trasporto, si arriva a quello che si chiama la mezzanina della stazione reale che vedremo alla fine,
però c’è questa galleria anche che porta verso il World Financial Center, e quello che voi vedete da
parte è il muro che definisce l’impronta di una delle torri. Ecco, da qua scendiamo nella
piattaforma, diciamo dalla mezzanina scendiamo in stazione e questa è la parte esterna. Dunque il
riassunto, per farvi vedere come un progetto così può essere complesso, anche come sono
impegnativi dal punto di vista di tempo, la stazione di Liegi prende 13 anni di lavoro, questa
stazione prenderà almeno 7-8 anni di lavoro, forse di più, per cui è molto importante anche la
continuità e la perseveranza in questo tipo di atteggiamenti.
Un altro soggetto che io trovo di grande importanza è lo sport, lo sport è stato per la città di
Barcellona, e fu la prima volta che io ebbi l’occasione di fare un contributo modesto, come questa
torre per i Giochi Olimpici di Barcellona è la scusa per il rinnovamento della città. Nessuna città,
diciamo fu la prima che utilizzò la scusa dei Giochi Olimpici come elemento del rinnovo globale
della città, tramite la costruzione di nuove vie, di circonvallazione e il rinnovamento dei quartieri, il
recupero del fronte marittimo, eccetera, un programma enorme che ancora oggi continua e che
rivitalizzò non soltanto la città ma anche l’immagine che la gente aveva dei Giochi Olimpici. Per cui
io ebbi più tardi l’occasione di lavorare anche nei Giochi Olimpici di Atene, facendo il master plan
per l’anello olimpico e riprendendo un anello fatto per i campionati mondiale di atletica degli anni
’70, ripristinando gli stadi e anche facendo certe coperture. Quello che voi vedete sono delle viste
dell’insediamento di Atene intorno a questi edifici nuovi, e noi abbiamo privilegiato moltissimo l’idea
di parco, dunque furono piantati 3 mila alberi e 500 mila piante e cespugli, tutte spezie locali, molte
delle quali curiosamente anche importate dall’Italia, perché penso che avevamo finito con tutti i
vivai greci per fare questa piantumazione. Ecco qua anche fontane, acqua, anche questo spazio
che noi chiamavamo l’agora, che era un posto di incontro, anche una grande piazza, ecco qua,
questa piantumazione di cui io vi parlavo e che la trovo essenziale come elemento. Ecco, anche
elementi come questo muro cinetico che accompagnava e dava ombra il pomeriggio quando si
andava verso lo stadio. Quello che viene fatto è il ripristino dello stadio esistente, più questa
copertura anche fabbricata con l’aiuto di imprese italiane in questo caso. Ecco perché l’enorme
sforzo dei greci; pensate che la Grecia ha una popolazione penso di 8 milioni o 9 milioni di abitanti
e sopportare l’enorme stress di un evento come questo era incredibile. Ecco anche la fiamma
olimpica ed il momento in cui viene accesa, e mi piace questa foto perché sembra che
l’architettura aiuti questo atleta ad andare forse un millimetro al di là. Questa è l’ Università di
Roma Tor Vergata per cui noi stiamo facendo un intervento. Vedete lì il Policlinico, vedete anche
altri edifici, ma vedete anche un fatto insolito, che in una città ci vogliono anche degli spazi in cui
due milioni o tre milioni di persone possono essere assieme. Per cui io pensai che si poteva
implementare un progetto con un campus, diciamo con un grande spazio aperto in centro,
seguendo un po’ la tradizione del Circo Massimo, o seguendo anche un orientamento di spazi
aperti che qua in Roma, come vi dico, è visibile in tanti posti. Ecco qua, anche l’idea del verde e
l’idea di preservare e far emergere da questo verde questi edifici e lo schema generico di master
plan che io proposi anni fa, in cui si vede la parte di sport, nella parte bassa della proiezione più
abitazione per gli studenti e questa specie di campus col possibile sviluppo, con le facoltà che si
svilupperebbero a destra e a sinistra, creando una specie di grande parco, che diventa il campus,
che vuol dire anche il campo. La città dello sport, contiene due edifici, uno dedicato al nuoto, l’altro
dedicato agli sport, al palasport, anche con edifici complementari dedicati al nuoto nell’esterno, e
anche alla pallanuoto, e anche un grande parco piantumato nei dintorni. Qua anche una vista
dell’assieme virtuale, e abbiamo anche un piccolo filmato che è stato fatto come supporto alla
candidatura olimpica di Roma, e che vi farà vedere anche in modo più breve. Questi sono dei
riferimenti a edifici che voi conoscete tutti. E questo la zona di Tor Vergata con l’autostrada. Questo
è lo stato, mesi fa, delle opere, e questa è la prosecuzione dei lavori, queste sono già le strutture in
calcestruzzo finite, anche se riconosce il tetto della parte di nuoto e un’immagine che fa vedere
questa zona di arrivo, anche perché dietro ci sono i parcheggi e perché servirebbe uno “zoccolo”
con dei negozi simili a quei negozi che accompagnano il Palazzo della Musica, dal mio punto di
vista rivitalizzano e danno una grande qualità al posto. Anche qua al centro, fra tutti e due c’è
questo spazio che avete visto, che è anche uno spazio aperto, uno spazio dove si possono anche
57
creare delle attività parallele a quelle che accadono nei due stadi e li completano. Ecco qua il
Palazzo del Nuoto con una capacità di 12 mila persone. Questi sono i concourse che portano
anche ai gradoni che avete visto, questi sono anche spazi appositi per la stampa, che possono
dopo, più tardi, essere lo stesso questi qua aree che possono essere adoperate dall’università, sia
per la facoltà di scienze motrici che per la fisioterapia e altre scienze dello sport eccetera. Questo è
l’altro palazzo dedicato al palasport. È molto importante l’insediamento, da una parte bisogna
avere per legge e anche per la necessità dello spazio esteso, dei grandi spazi che lo contornano,
ma noi abbiamo soprattutto voluto dare un carattere di parco che sia continuazione dell’orto
botanico, che è proprio accanto qua, vedete anche le piscine esterne, anche coperte loro e anche
il palazzo della pallanuoto, o semicoperte in realtà quelle esterne. Questo è anche importante,
pensarci all’uso post-olimpico, dunque dato che ci sono le piscine esterne, quelle interne possono
essere riconvertite, che sono anche loro coperte, possono essere riconvertite anche in uno spazio
complementare a quello esistente, quello che darebbe luogo ad avere due elementi che
potrebbero simultaneamente arricchire con le loro attività non soltanto l’università, ma anche il
quartiere e anche tutta la città. Questa forma è un po’ curva, come molte cupole di Roma.
Grazie a tutti per l’attenzione, grazie.
DE SANTOLI: Grazie all’Architetto Santiago Calatrava per il suo intervento e le sue suggestioni.
Peter Calthorpe, fondatore di New Urbanism, architetto e urbanista, sappiamo tutto, ieri ha fatto un
intervento bellissimo sul discorso della lotta al climate change. Siamo in attesa di sapere da lui il
prosieguo di quella storia, grazie.
CALTHORPE: Continuerò la storia che ho iniziato a raccontare ieri, devo dire comunque che l’idea
che una stazione possa diventare un monumento, una cattedrale per le prossime generazioni è
perfettamente in linea, ritengo, con le idee sulle quali lavoro io. In altre parole i sistemi di trasporto
devono rappresentare il tessuto connettivo delle nostre città future, non dobbiamo pensare alle
nostre città come a degli oggetti isolati all’interno di una zona metropolitana, dobbiamo pensare ad
un continuum, non esiste una città nuova e una città vecchia, esistono soltanto delle zone
metropolitane policentriche, non dobbiamo pensare in termini di centro e periferia, e per ottenere
questo risultato dobbiamo lavorare proprio sul sistema dei trasporti. Cercherò di illustrare quello
che abbiamo fatto noi nell’ambito della pianificazione del territorio regionale. È possibile progettare
queste zone esattamente come si fa per le città, per i quartieri. In tutti i casi occorrono dei confini
che stabiliscono appunto i limiti della crescita, la crescita intesa in senso ecologico. In ogni caso
c’è bisogno di un meccanismo di mobilità consono, nel quartiere ovviamente si parla di
pedonalizzazione, mentre invece nella regione si cerca di sviluppare delle reti viarie, delle reti di
trasporto e, nel caso di Portland, si è deciso invece di estendere verso la zona circostante della
città un sistema di ferrovia leggera. Ora si tratta quindi di investire nei trasporti, in questo caso
ferroviari, e questo ha creato una differenza notevole in pochissimo tempo. In questo grafico
vediamo la divergenza di una regione dove adesso si assiste ad un declino nell’uso della
automobile privata, rispetto invece a quello che accade nel resto del paese con le note
conseguenze ambientali. Occorrono delle decise politiche per ottenere questo risultato. Qui
vediamo la città di Portland e come si è trasformata, soprattutto lungo il fiume. Molti dicono che è
impossibile togliere parcheggi, togliere strade dalla città, ma non c’è scelta, perché questo è l’unico
modo per ridare vita ad una città. E questo si fa pedonalizzando e sviluppando il trasporto
pubblico. Qui vediamo il centro, il cuore della città che era una specie di parcheggio che adesso è
stato trasformato in una piazza. Ecco, sono queste le decisioni coraggiose che devono essere in
qualche modo perseguite. Prendiamo il caso per esempio della città di Los Angeles, sappiamo
bene che nella prossima generazione nella città di Los Angeles tutto dipenderà dai sistemi di
trasporto, sappiamo che tradizionalmente la città di Los Angeles si è sviluppata in maniera molto
lineare, non vi era una impronta europea, però comunque era molto urbana, con una realtà
pedonale. Tutto questo è finito nella Seconda Guerra Mondiale, dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Ora, riuscire a lavorare su una scala così grande richiede alcuni elementi certi, i vincoli sono
rappresentati dai limiti ambientali, la montagna e l’oceano sono un confine oltre il quale è
ovviamente impossibile immaginare la crescita della città. E poi dobbiamo guardare anche alla
struttura regionale. Qui vediamo le zone ad alta densità di occupazione, quelle a bassa densità di
occupazione e i collegamenti marittimi dall’oceano hanno in realtà condizionato il tessuto che poi si
è venuto a creare intorno a questi centri vitali, economici. E quindi dobbiamo pensare a una
58
regione sulla base della sua struttura economica. Ovviamente abbiamo tutte le grandi reti viarie, gli
aeroporti intorno alla città rappresentano le nuove vie d’accesso ad una regione che però è
diventata poco funzionale. Come ripristinarne la funzionalità? Oggi si sta costruendo il primo
sistema di ferrovia leggera, molti sono cinici, ma nel corso dell’ultima lezione si è deciso di
finanziare il prolungamento della rete ferroviaria leggera. Tutti capiscono che ormai il futuro non
può essere l’uso dell’auto privata, e quindi anche i cittadini hanno voluto sostenere questa
iniziativa. Questo è il sistema dei treni già esistenti e questo è l’allargamento, allungamento della
rete. Qui vediamo la rete dei trasporti pubblici su strada e quindi si sta assistendo a una
trasformazione basata su un rinnovamento della rete dei trasporti. Circa metà della popolazione,
per la regione, che dovrà arrivare a 70 milioni secondo le previsioni, potrebbe essere in grado di
utilizzare il sistema di trasporto pubblico raggiungendolo addirittura a piedi. Questo è quindi un
progetto che include tutta la regione metropolitana. Qual è la prospettiva? Beh, innanzitutto
dobbiamo pensare all’ambiente come ad uno dei beni più preziosi, l’evoluzione vuole che il
trasporto rappresenti una base intorno alla quale lavorare. Ora qui non abbiamo a che fare con
una bella architettura, ma non è necessario, essenzialmente c’è bisogno di un’urbanizzazione,
bisogna creare un’esperienza pedonale che sia continua e che possa essere funzionale, prima o
poi forse arriveremo a delle grandi opere architettoniche, però innanzitutto dobbiamo puntare su un
urbanismo solido. Questo è un esempio di quello che è accaduto nella mia città, Berkeley, questa
è University Avenue, la strada d’accesso a una delle più grandi università, quella che era forse una
delle più grandi università, non lo è più purtroppo, comunque una delle più grandi, principali
università al mondo. Qui in basso vediamo l’incidenza della criminalità e ovviamente tutto accade
intorno a questa strada d’accesso all’università, la University Avenue. Qui in alto vediamo quello
che normalmente caratterizza questa strada, in basso vediamo invece l’urbanismo che sta
sviluppandosi lungo questa strada di accesso. Ora potremo dire che l’immagine sulla destra sia
kitsch? Non è un bel esempio di architettura, quella a sinistra forse è un’architettura più
progressista, ma questo non importa, quello che conta è che ci sono degli esercizi commerciali al
piano stradale e poi sopra vi sono delle abitazioni che creano quindi un maggiore senso di
comunità. Tra l’altro gli edifici sono caratterizzati tutto sommato da dei prezzi contenuti e adesso,
grazie a questo sistema, si è passati da un alto tasso di criminalità a dei tassi più bassi della
Regione. Questi sono esempi di rigenerazione, utilizzando dei principi molto semplici di urbanismo,
il ripristino di un concetto tradizionale tutto sommato, di una strada con marciapiedi, con esercizi
commerciali, edifici abitativi, e questa è una tradizione che dobbiamo riconsiderare e accettare.
Questa è una vecchia zona industriale invece, che è stata trasformata. Forse la cosa più
significativa riguarda l’era Clinton, noi abbiamo, durante la sua Presidenza, lavorato in tutti gli Stati
Uniti per cercare di trasformare gli edifici di edilizia popolare, questa era una zona terrificante, a
Chicago, era troppo pericoloso addirittura uscire dalla macchina e girare a piedi. Questo è stato
abbattuto e si è ricostruito con un intervento, questo è un intervento modernista, come sappiamo,
di torri nei parchi, però in basso. Invece vediamo il tessuto storico di uso misto e una scala molto
più umana nel tessuto storico della città. Noi abbiamo quindi seguito questo principio molto
semplice, non occorre essere un grande artista per creare un urbanismo semplice come questo,
che però è fondamentale per la vita quotidiana. E queste sono le case che sono state costruite al
posto di quei casermoni. Certo non è un’opera architettonica straordinaria, però si ha un terzo di
edilizia popolare, un terzo di edilizia a prezzi di mercato, un terzo invece a prezzi agevolati. Quindi
si tratta di un contesto che può così ricostituire l’identità della strada e garantire maggiore
sicurezza. A Chicago poi abbiamo cercare di aggiornare il piano di Daniel Burnham e il sistema di
trasporto pubblico rappresentava la spina dorsale di questo progetto. È chiaro che alla fine non c’è
una soluzione al problema della congestione del traffico e del degrado ambientale dovuto all’auto
privata, l’unica soluzione è il trasporto pubblico. Più di recente abbiamo adottato una iniziativa che
riguarda l’intero Stato della California, per cercare di ridurre le emissioni entro il 2050 del 20% dei
livelli originali, secondo quello che inizialmente era stato previsto dal Protocollo di Kyoto per
cercare di salvare il pianeta, semplicemente. E è risultato che i due strumenti più significativi per
raggiungere questa riduzione delle emissioni sono architettura ecosostenibile e l’urbanismo,
ovvero gli argomenti di cui parliamo oggi. Abbiamo modellizzato diverse configurazioni per lo
sviluppo nello Stato della California e, anche se so che sto prendendo più tempo del dovuto, se mi
permettete vorrei illustrare brevemente il contenuto di questo grafico: a sinistra vediamo
l’emissione di carbonio per unità abitativa nel ’90 in California; sopra abbiamo le emissioni dovute
al trasporto, e in basso agli edifici. E questa è la tendenza verso la quale andiamo, questo
59
porterebbe alla crisi totale della nostra società umana. Ora si tratta invece di cercare di rendere più
ecosostenibile l’edificio, abbiamo bisogno di macchine più efficienti, abbiamo bisogno di
biocombustibili, abbiamo bisogno di cavalli, come ha detto il mio caro amico Léon Krier ieri. Con gli
edifici si tratta ovviamente di progettare degli edifici intelligenti, ecosostenibili, e questo è l’altro
passaggio fondamentale, e questo per cercare di trovare una soluzione definitiva, poi c’è bisogno
della biomassa, dell’energia eolica, idroelettrica, quindi l’energia verde, e questo ci permette di
raggiungere un obiettivo fondamentale, che è anche associato a uno stile di vita più sano, più
urbano, che produce pro capite appena il 12% di quello che è l’attuale livello di emissioni, quindi si
tratta di un cambiamento radicale nell’impatto ambientale. E questo si associa ad un ambiente
urbano migliore. La differenza, per quanto riguarda le emissioni del gas effetto serra, la vediamo
qui, se usiamo degli edifici intelligenti, se interveniamo sul tessuto urbano possiamo addirittura
arrivare ad una riduzione notevole che sarebbe pari a quella che si otterrebbe qualora vi fosse una
foresta grande quanto lo Stato della California. Questo è un disegno che vorrei dedicare a Léon
Krier, anche se l’ho fatto molto tempo fa, questo è un sistema energetico che si basa sul fatto che
si può, invece che andare in palestra, partecipare alla produzione di energia elettrica, 200 persone
che possono in questo modo produrre energia per la città, la bellezza è che ovviamente sarebbe
anche un monumento, un monumento allo sforzo, l’impegno della cittadinanza, ed è anche un
interessante concetto, perché man mano che si verticalizza la molla, si sa che c’è bisogno di più
energia, quindi più moto. È un meccanismo sano, ecocompatibile, oltre agli edifici intelligenti, oltre
a un intervento sul tessuto urbano, abbiamo bisogno di interventi sostenibili, quindi Léon, non è
proprio il cavallo di cui parlavi tu, però è un po’ come farsi sei piani di scale a piedi, lo volevo
dedicare a te.
E con questo ho concluso il mio intervento, io ritengo che la cosa più importante appunto sia quella
che viene ricordata qui, in questo ultimo lucido.
DE SANTOLI: Grazie a Peter Calthorpe e alle sue importanti suggestioni, intanto favorire la
coesione sociale e architettura vista come mezzo per favorire la coesione sociale, pianificazione
energetica insieme a quella urbana, e anche grazie dell’idea delle 200 biciclette, che ne dite se la
facciamo anche a Valle Giulia?
La parola a Léon Krier, architetto importante, di cui abbiamo già sentito le idee.
KRIER: Vorrei dire che abbiamo bisogno di un po’ di più di 10 minuti, perché è un po’ assurdo
viaggiare tre giorni per parlare poi sette minuti, siamo qui per lavorare e prendere il tempo di cui si
ha bisogno. Questo per dire che anche io sono un grande ammiratore di Calatrava, di Fuksas, di
Meier, di Piano anche, di tutti gli architetti presenti qui, perché sono bravissimi e per fare lavori
come costruiscono è un lavoro eroico, è quasi impossibile, in questo stato di decadenza generale
della cultura architettonica, di fare queste opere, è una cosa eroica. Dunque non è un affare
personale se io critico Piano o Fuksas, e ripeto quello che ho detto ieri, per non dire che parlo
dietro le spalle del povero Piano. Io ammiro il tuo lavoro a Beyeler Foundation a Basilea, mi piace
moltissimo, dunque non è contro di te, ma questo che ho mostrato ieri è che siamo a un problema
di scala con l’architettura, con il capitalismo come l’abbiamo ereditato, con questa immensa
concentrazione di scala finanziaria, produttiva, bancaria, istituzionale, e c’è un problema umano lì,
perché esiste la scala umana, e non si può lasciare andare le cose, si deve avere una scala
diversificata, perché gli umani sono molto diversi, sembrando anche tutti uguali. E dunque questo
è il paragone alla stessa scala del Parco della Musica, dove siamo, e poi di diversi edifici
importanti come il Museo di Frank Gehry a Bilbao, la Città della Musica a Parigi, il Palazzo di
Giustizia a Bruxelles, e questo è il nostro Palazzo di Giustizia a Lussemburgo, e vi raccomando di
fare la visita perché è molto interessante, anche se i media tutti sono contro, ha preso 18 anni per
costruire, io ho abbandonato dopo sette anni, perché si lavora con cretini nell’amministrazione, mio
fratello ha continuato, ha finalmente realizzato quest’opera bellissima, tutti che lavorano lì sono
contentissimi. Ma i media sono terribilmente contro, perché gli architetti controllano questi media e
la gente adesso in strada dice, a nostra sorella dice, ma Marian, perché i tuoi fratelli non sono
moderni? È una cosa incredibile l’influenza dei media sulla percezione della gente, e si deve
essere coscienti di questo. Io penso che un Palazzo della Musica, sono anche pianista, dunque
conosco abbastanza bene i problemi degli auditori, io ho fatto questa proposta di fare come il
Palazzo di Giustizia a Lussemburgo, invece di fare un immenso edificio, di fare come un villaggio,
un piccolo casolare della musica. E qui si vede che è molto più vicino a destra, e la pianta, come
60
propongo per i /Parioli/ per fare una piazza centrale qui, costruendo su un terreno di una villa, di
fare una piazza italiana all’interno di questo quartiere, dunque si vede che le scale sono
abbastanza vicine e questa è la scala umana a mio avviso, ci sono anche testi scientifici su che
cosa è la scala umana. Qua è il Palazzo di Giustizia nel corpo della città di Lussemburgo, su
sponde di roccia. Qui c’è questo immenso organismo istituzionale che /confrontante/ alla gente,
perché una grande struttura che è cresciuta su 200 anni, io sono responsabile per il master plan e
ho diviso tutti i segmenti delle stanze della giustizia in diversi edifici, uno per il Tribunale e uno per
la Corte Superiore, e questo qui per esempio è il Tribunale per i giovani, e dunque non sono
confrontato, è un immenso palazzo impressionante come avete anche a Roma, perché ora siamo
tutti democratici, è una cosa evidente, non abbiamo bisogno di immensi edifici che fanno
impressione per dire: la giustizia è una cosa che si deve rispettare, rispettiamo la giustizia, è una
cosa evidente (applausi). E questa è la mia visione del Palazzo, palazzo di due o tre piani, con una
torre, la torre costata 3-4 milioni di più per non farla e questo lavoro l’ha realizzato mio fratello.
Dunque fare il tradizionale non è una cosa di modestia, si può fare anche il monumentale, il
grandioso, come avete in questa città, ma in cosa tecnologica, se si costruisce con materie naturali
si ha una logica diversa da quello che quando si costruisce con cemento, e quando c’è un genio
come Calatrava si ha veramente la bellezza, perché al sentimento della bellezza, della
composizione delle proporzioni, dell’eleganza, anche facendo dei lavori immensi, ma comunque il
cemento in mano di uno che non sa costruire fa delle bruttezze assolute, e questo lo vediamo ogni
giorno. Questo è un progetto fatto con Pier Carlo Bontempi, bravissimo, probabilmente il miglior
architetto in Italia, insieme abbiamo fatto questo lavoro. Si possono anche fare edifici spettacolari
oggi, di grande scala, non si ha bisogno di cemento armato.
Questa è una piazza che devo fare per il mio amico Fuksas, che sono parcheggi sotto Piazza
Marconi all’Eur, che faccio con il gruppo romano CESAR, e non riusciamo da due anni a incontrare
la signora Galloni che deve dare il permesso, dice mi far sapere, io viaggio da Londra o da New
York e non vi incontra, fa dare una informazione, lei non può fare un progetto mimetico, la natura è
mimetica, noi siamo tutti mimetici, se no non si esiste, è una cosa assurda. Dice che è la legge,
non c’è legge così, è l’arbitrarietà, ma abbiamo bisogno di questi parcheggi per non rovinare
questa piazza.
FUKSAS: Scusa se ti interrompo, c’è una cosa importantissima, che non si può aprire il Palazzo
dei Congressi fra due anni se lui non ha fatto i parcheggi. Questo è un piccolo dettaglio che forse
bisognerebbe spiegare a qualcuno ecco, al Sindaco.
ALEMANNO: Questo è un problema diffuso a Roma.
KRIER: Voglio lavorare nello spirito di questa piazza, che è una bellissima piazza, ma è rovinata
da volgarità recenti. È stata fatta da Quaroni e altri maestri che dopo la guerra non ne volevano
sapere, perché da fascisti sono divenuti comunisti, ma non è nostra colpa, erano bravi architetti.
Massimiliano questa è una città che adesso è costruita a metà, dunque per te non esiste, ma
comunque il Principe di Galles, che è cliente, è un genio assoluto e deve essere rispettato. Come
organizzare tutte queste energie che vogliono costruire grandi, piccoli e medi edifici di lavoro, di
abitazione, di commercio per non fare un caos, come si conosce oggi. La base è l’urbanismo
tradizionale e l’ utilizzo di materie naturali, preferibilmente della Regione, ma siamo anche persone
fatalmente moderne, contemporanee, è un discorso assolutamente inaccettabile dire che non
siamo contemporanei, si deve guardare nel dizionario cosa significhi contemporaneo o moderno,
non ha niente a che fare con cemento armato o con stile, è una fatalità, dunque non è una qualità
di essere moderno, è inevitabile. Dunque questo esiste. E dopo il problema che avremo con l’oil
peak, con il picco dell’olio, ritorneremo ad un modo tradizionale di operare nelle città e dobbiamo
prepararci, raccomando assolutamente di leggere il libro di James Howard Kunstler e quanto è
importante Rifkin in 1980 per avere questo libro “Antropia”, che chiaramente voi conoscete bene.
Leggere il libro di Kunstler è importantissimo per ognuno, è un dovere, si chiama in inglese “The
Long Emergency”, La lunga emergenza, che ha da fare con oil peak, si deve studiare questo,
perché ne siamo tutti coinvolti. E adesso avrò bisogno di cinque minuti per parlare di Firenze. Ho
fatto questo piano guida per Novoli, a destra è la città storica di Firenze, poi la periferia a sinistra.
L’Amministrazione che giudica questo progetto è seduta in questo palazzone, assolutamente
orrendo, il /medio/ di Novoli, e quando l’Amministrazione è così male alloggiata, come mai può
avere l’autorità di pronunciarsi su quello che fanno gli altri? Perché il fatto più grave in Italia non è
61
l’abusivismo, è l’architettura ufficiale, almeno in questi palazzoni si vive. Dunque l’area di Novoli è
grande come il centro storico di Firenze, un’immensa area definita dall’Arno, le cascine e poi la
ferrovia che circonda, e queste sono centinaia, non so esattamente, ma migliaia di ettari, è un’area
immensa, con la fabbrica Fiat al centro, questo è dal 1990. Non ha avuto mai una struttura urbana,
perché era una periferia industriale. La prima cosa è di definire geograficamente, per avere un
nome si deve avere anche una forma, la toponomia e la forma devono essere coerenti per essere
leggibili, come il centro storico di Firenze nel famoso piano del ‘900, che ha questa bellissima
forma arrotondata, e direi che per l’Amministrazione qui, se voi parlate di guadagnare dei terreni
nella periferia, e chiaramente da quel che il Sindaco ha detto, è di integrare queste aree
frantumate che sono tra i terreni già sviluppati e la campagna, e si devono arrotondare questi
elementi, e non solo arrotondare amministrativamente ma geograficamente con una traccia
pedonabile, percorribile, che è più che uno spazio, uno spazio comune, uno spazio collettivo;
Dunque è fondamentale che il limite sia uno spazio percorribile, non solo una linea amministrativa.
Per questo si devono avere gli strumenti, non solo per circolare, per illuminare, ma soprattutto per
creare questi limiti all’interno di un grande organismo come Roma o Firenze, in questo caso. Fare
questo sembra difficilissimo, ma studiando i dettagli non è difficile, mancano gli strumenti
costituzionali pianificatori per farlo. Non sarebbe impossibile averli, serve questa volontà e poi si
avranno anche le leggi. All’interno di questo grande ambito si divide il terreno in tanti quartieri, di
natura antropologica, vicini alle dimensioni dei quartieri storici dai Rioni, una ventina a Novoli.
Ognuno di questi quartieri dovrebbe avere una piazza centrale, non solo un limite ma anche un
centro, e poi tra il centro e il limite si può avere anche un certo caos che può essere pittoresco, ma
lì in alto a sinistra si vede… questo è il centro storico: ha la stessa scala di Firenze, venti,
venticinque ettari, dimensione che si percorre in dieci minuti di camminata, ma questa camminata
deve essere gradevole, perché abbia un significato, dieci minuti camminando sull’autostrada, voi
conoscete questa esperienza. Osservando tutta l’area immensa di Novoli, adesso leggibile, non
solo dall’aereo ma anche su terra, deve avere un centro che non è solo una piazza, ma un grande
parco, uno spazio collettivo importante. Questo era previsto nel piano politico, nel piano di
sviluppo, io l’ho messo lì come tra due percorsi importanti, via Novoli e via… non so, era tanti anni
fa, era una avenue, un corso importantissimo, attraverso il quale la Fiat trasportava gli aerei che
costruiva, dalla fabbrica verso l’aeroporto vicino. Dunque c’è il Parco Centrale, Central Park, e poi
l’orrendo Palazzo di Giustizia, costruito contro di me, ho garantito che non farò problemi,
comunque si è costruito. E quando si mette su questo edificio orrendo, che è uno strumento di
tortura psicologica sul piano… guardate, l’inserimento sul piano di centro storico, è terribile. La
divisione in quartieri, ognuno col suo centro, i nuovi interventi in nero, il Parco Centrale in verde e
poi, a sinistra, la struttura viaria esistente, questo è ciò che si dovrebbe costruire in 20 anni, forse
25 anni, una struttura viaria urbana, sistematica, per evitare i vicoli ciechi e tutti i problemi che
conosciamo. Questo invece è lo stato attuale… dopo il regime, dopo la morte di Franchini,
l’artefice di questo progetto, ripreso da una Amministrazione corrotta, non perché socialista , ma
perché ha chiamato degli architetti senza qualità, per poi attuarlo. Non c’è tempo di spiegare tutti i
dettagli, ma l’importanza di questo progetto è funzionale, sociale, istituzionale, architettonica, di
grande varietà che corrisponde alla ricchezza della funzionalità. L’architettura non è kitsch, riflette
la complessità delle funzioni. Gli abitanti mi hanno invitato a fare una conferenza su questa piazza,
quando ho visto la piazza ho rifiutato, non ho potuto farlo. Questo è il Palazzo della Regione: come
si può integrare questo orrore? Hanno invitato architetti che non sono d’accordo con questo piano
guida, come Christian De Portzamparc, un bravo architetto, che però non capisce l’esigenza di
un’architettura codificata come architettura fiorentina tipica, è facile, è una cosa razionale, si può
fare, ci sono tracce evidenti sul terreno, ma gli architetti rifiutano. In basso il progetto di De
Portzamparc e le mie correzioni in alto, la mia ultima occasione di revisione, dopodiche siamo
andati via. Sono riuscito a realizzare una cosa simile, più piccola di Novoli, ad Alessandria con
l’architetto Tagliaventi, non sono d’accordo con i dettagli, sono un po’ brutti, ma comunque
l’insieme è un vero centro urbano con funzionalità mista e una banca che ha un aspetto di tesoro
greco, come voi lo conoscete, c’è anche la chiesa; abbiamo proposto un campanile, che il prete
rifiutava, voleva un parcheggio. Un aspetto rilevante per Roma è lo studio delle aree circondanti
l’area Fiat, aree costruite dopo la guerra in modo caotico, con edifici alti e bassi, senza qualità,
bruttissimi, chiamate aree sature: sembrano sature, ma a mio avviso c’è molto spazio. La priorità è
una piazza centrale al posto di un edificio ad un piano. Ci sono tecniche che esistono oggi per
ristudiare questi terreni, modificarli, ma è necessario lo strumento legale per costruire, perché in
62
una situazione condominiale è quasi impossibile trovare un accordo, si ha bisogno anche in
situazioni condominiali di cominciare a avere delle possibilità di sviluppo. Invece l’Amministrazione
ha fatto l’errore di… io avevo proposto di completare queste aree sature, con edifici di due piani,
adesso ho visto che hanno seguito in parte il piano ma realizzando edifici di nove piani e penso
che non si possano realizzare città così. Grazie per la vostra attenzione.
DE SANTOLI: Vorrei ringraziare personalmente Léon Krier per il riferimento alle trasformazioni
energetiche che devono essere introdotte in via prioritaria in qualsiasi trasformazione urbana.
Essendo stato chiamato in causa Renzo Piano, mi sembrava importante dare la parola a lui per
rispondere in qualche modo alle sollecitazioni di Léon.
PIANO: Intanto devo dire che è una bellissima cosa un dibattito così, d’altronde oggi non ho
portato immagini, perché era inutile portare fotografie di architettura, visto che ci stiamo dentro e
ce la godiamo. Trovo che sia una bellissima iniziativa, il dibattito è fondamentale. Non è il dibattito
per persuadere gli altri delle proprie opinioni, è il dibattito per capire, i progetti complicati vanno
capiti, non è una perdita di tempo. Il vecchio Norberto Bobbio diceva sempre una cosa molto
saggia: “c’è di meglio nella vita che passare il proprio tempo a convincere gli altri delle proprie
idee, ad esempio avere delle idee giuste”, mi sembra ovvio. E per avere le idee giuste bisogna
anche litigare un po, litigare fa bene. Io non c’ero ieri, si è litigato, forse non abbastanza,
comunque continuiamo pure, perché il dibattito serve solo quando è irritante, bisogna metterselo in
testa, quando si è tutti d’accordo non serve a niente, assolutamente a niente, basta essere leali,
basta essere onesti, basta dire quel che si pensa, rappresentare se stessi, e il dibattitov diventa
interessante, perché vero e autentico. Quindi lo trovo una bella cosa. E poi queste cose servono
sostanzialmente perché si discute, poi ci sono degli amministratori, abbiamo il Sindaco, a cui sono
molto grato, perché non ho visto molti sindaci passare giornate intere in un dibattito, normalmente
scappano. E io ricordo, me l’hanno riferito, che quando, eletti democraticamente in Atene, gli
amministratori, 3 mila anni fa, facevano una promessa molto bella, dicevano: “prometto di restituire
Atene meglio di come l’ho trovata”. È una bella promessa, no? in greco credo che bello sia anche
buono, e d’altronde una città per essere bella deve essere anche più buona, deve essere anche
più giusta, se no non basta. Quindi questa idea di fare questi dibattiti, poi alla fine al buon
ascoltatore serve, perché sono cose molto importanti. Mi piace che avvenga qui. Ero un po’
preoccupato arrivando, perché avevo capito che Léon Krier, che rispetto moltissimo - non sono
d’accordo assolutamente con lui, però lo rispetto molto - voleva demolire l’Auditorium, invece
scopro che non vuole affatto demolirlo, vuole riempire tutto attorno di altri edifici più piccoli. Ma
questo non è mica poi così male. Devo darti qualche dritta sulle fondazioni, perché c’è un po’ di
pasticci da sistemare, e io sulle fondazioni sono bravissimo. Fai solo alla svelta, perché se non ci
metti le casette io ci metto gli alberi. Guardate che non scherzo, cerco di persuadere il Sindaco a
fare del Parco della Musica, di Villa Glori e del parco che è attorno allo Stadio Flaminio un parco
unico, è bellissimo, una cosa molto bella che circola da un po’ di tempo. E credo che questa cosa
sia importante. Piantare alberi in città è molto bello, specialmente poi quando si piantano nel
centro storico. Comunque torniamo un po al punto: le periferie. Chi di voi conosce questi luoghi da
15 anni, sa che questo era un luogo periferico nel cuore della città. La periferia è un’idea, è un
concetto, è un modo di essere, non è geografica, a volte ci sono frammenti di periferia intrappolati
all’interno della città, questo era un luogo periferico. Lo spazio tra Viale Pilsudski e Via de
Coubertin, qui accanto all’Auditorium, e Viale Tiziano, era uno spazio sostanzialmente preso dallo
Stadio Flaminio e dai suoi parcheggi. Non c’è nulla di peggiore di quest’ultimi, sono una cosa
diabolica, io li detesto, anche perché quando sono pieni, sono troppo pieni, quando sono vuoti
sono troppo vuoti, e lasciano dei deserti, che sono deserti fisici e deserti affettivi. Questo era un
luogo pericoloso, un luogo mal frequentato, per tutti era un luogo dal quale si cercava di sfuggire.
Ecco, questo fatto che ci siano nelle città, le più belle, e Roma è una delle città più belle del
mondo, forse la più bella del mondo, ci restano intrappolati dei buchi neri, restano intrappolati dei
pezzi di periferia, e cosa è stato fatto? È stata fatta una cosa giusta, una struttura culturale per la
musica, ma non solo, perché poi si è constatato che ci porti la musica, ci porti la gente, ci porti la
vita, diventa un luogo di orgoglio civico, di incontro, di dibattito, come si prova oggi, più o meno
giusto nella scala, non ha tutti i torti Léon Krier, la scala sulla città è un tema molto importante.
Sostanzialmente non si tratta solo di fare luoghi culturali, si tratta anche di fecondare i luoghi,
fertilizzarli, portargli della vita. Ci sono dei pezzi di periferia intrappolati nella città; è vero al punto
che diventa difficile stabilire dove finisce la città e comincia la periferia, perché a volte le due si
63
compenetrano. A Roma abbiamo l’esempio dell’Eur, non certo periferia, però un’attenzione la
metterei per portargli della vita, accolgo con molto entusiasmo questo Centro Congressi fatto da
Massimiliano e Doriana Fuksas, perché è un altro modo per portare una vita associativa in un
luogo che ha bisogno di mix. La vera qualità delle città è la miscela di tante funzioni culturali, della
comunità, residenziali, del lavoro, del tempo libero. Quindi andare a fecondare l’Eur attraverso
queste attrezzature, particolari attrezzature che portano all’incontro, al dibattito, allo scambio, le
città sono luoghi di scambio, ecco questa cosa io la trovo molto importante. E quindi comincerei col
dire che certo non c’è questo confine tra la periferia e la città, soprattutto perché in città ci sono
zone periferiche. Roma non ha molte zone industriali dismesse, però molte altre città sono ricche,
ricchissime. Io personalmente passo la mia vita a lavorare sulle zone industriali dismesse, un po’
dappertutto, da New York, dove lavoriamo per la Columbia University, in una zona semi-industriale
dismessa ad Harren, a Londra, dove si lavora sulla zona dismessa ferroviaria, che è la London
Bridge Station, e queste zone, dismesse per ragioni industriali o anche di servizio, sono delle
autentiche occasioni. Ma parlando della periferia Roma è un caso un po’ particolare, i rapporti che
ho ascoltato stamattina sono talmente completi, sono talmente interessanti che direi delle banalità,
però mi sento di dire un paio di cose. Io conosco molto meglio la periferia di Milano, perché ci ho
lavorato, o altre città, beh la regola numero uno per occuparci di periferie è smettere di farne di
nuove, le città si sono ampliate a macchia d’olio e hanno creato periferie. È venuto il momento, di
pensare alla crescita della città, non in maniera esplosiva, aggiungendo altre periferie, ma in
maniera implosiva, cioè facendo l’opposto, completandole, lavorandoci dentro, lavorando sui buchi
neri che sono rimasti, sulle zone periferiche che sono rimaste intrappolate, sulle zone di cornice.
Questa idea di smettere di fare nuove periferie è la cosa più importante. La qualità più importante
in questa crescita, che oserei chiamare crescita sostenibile, potremmo passare intere giornate a
parlare della sostenibilità energetica, e naturalmente parlando di città e parlando di periferie, Ma
dobbiamo anche parlare di una sostenibilità di comunicazione, è chiaro che le periferie più si
allontanano più creano problemi infrastrutturali, di servizi, la città diventa invivibile, ingestibile,
perché i costi umani, i costi infrastrutturali diventano insopportabili. Quindi si tratta
sostanzialmente, non tanto di non crescere, ma di crescere in maniera sostenibile, costruendo sul
costruito. Si può crescere nelle città, si può completarle, si può trasformarle da periferia in città
costruendo su ciò che è già costruito. C’è un buon termine inglese che si usa spesso, brownfield: è
un terreno non più vergine, è un terreno costruito. Smettiamo di rosicchiare all’Agro Romano,
smettiamo di divorare l’Agro Romano, smettiamo di costruire sulle zone verdi, facciamo il contrario
caso mai, cerchiamo di trasformare i brownfield in greenfield, se è possibile. Parlare di non crescita
è leggermente deprimente, diciamoci la verità, come fa una città a rinunciare all’idea di crescere?
Si tratta di crescere in maniera sostenibile, in modo ragionevole, perché quello che si è fatto nella
seconda metà del secolo scorso è stato irragionevole. L’energia è limitata, quindi è difficile
controllarla. È evidente che questo è il problema, quindi costruire sul costruito è veramente molto
importante. C’è un tema su cui il Sindaco mi ha un sollecitato e voglio solo accennarlo, perché così
almeno do l’occasione a Léon Krier di litigare un po anche con me: è il come costruire, perché
credo che ci sia l’idea che è più ecologico costruire in maniera diffusa. Non sono assolutamente
appassionato dalle torri e dai grattacieli, anche se mi è capitato di farne, a New York, ne faccio uno
a Londra, però l’idea che una crescita sostenibile non può essere dispersiva, non può essere fatta
di piccolissima scala, perché ti mangi fatalmente il territorio, cioè fai un uso eccessivo del territorio,
e poi naturalmente sostanzialmente, se costruisci in maniera dispersiva, non è d’altronde che lui
dica questo per la verità, tu non stai sostenendo che bisogna occupare tutto il territorio, però l’idea
di lavorare un po sulle tipologie più compresse, senza decisamente arrivare ai grattacieli. Le torri
godono di pessima reputazione, lo sappiamo, e la meritano un po, perché sono quasi sempre
oggetti ingombranti, antiecologici, consumano energia in maniera vorace, e poi sono aggressive,
arroganti, tutti lo sanno, sono simboli fallici in qualche maniera, hanno a che fare con questa
simbologia pesante, e poi sono quasi sempre, dato che si devono difendere da sole, misteriose, si
nascondono, con vetri scuri o riflettenti. Però lasciamo perdere questo modello. Credo che valga la
pena di riflettere sul fatto che forse un atteggiamento più saggio è quello di esplorare le tipologie
un po’ più compresse, non sto parlando di palazzoni, ma la casa alta ad esempio, se invece di
usare la parola torre, uso la parola casa alta, che appartiene alla cultura italiana, devo dire, della
storia, credo che sia già più interessante, cioè in qualche maniera bisogna prendere atto che
costruire in maniera diffusa fatalmente allontana, cioè rende i percorsi più inagibili, allontana il
costruito e sostanzialmente tende a occupare tutto il territorio, e credo che questo sia molto
64
pericoloso. Si può benissimo lavorare sulla scala, si può lavorare su tutti questi aspetti, ma credo
che l’idea di lavorare su delle tipologie che non divorino il territorio troppo rapidamente, sia un
dovere che noi architetti abbiamo, grazie.
DE SANTOLI: Ringraziamo Renzo Piano per le belle suggestioni, impressioni e suggerimenti.
Darei la parola adesso a Richard Meier, lui ha una esperienza da raccontare importante, speriamo
che anche in questo suo breve intervento possa dirci qualche cosa, di riqualificazione della
periferia romana con una progettazione e una realizzazione di una chiesa molto bella, che tutti voi
conoscete. Quindi Richar, the floor to you.
MEIER (interprete): Grazie, prima di parlare della chiesa, vorrei parlare degli edifici alti, perché io
vivo, io lavoro da sempre a New York, e New York è una città di edifici alti, lo è sempre stata, e lo
sarà sempre, perché l’aspetto economico della situazione è tale per cui è impossibile costruire
edifici bassi. Questo è un progetto sull’East River, proprio a sud dell’edificio delle Nazioni Unite,
questa è un’area residenziale attualmente vuota, non c’è niente e il costruttore, che ha speso
moltissimo denaro per assicurarsi questo sito, voleva costruire delle case di abitazione per famiglie
a medio reddito lungo il fiume. Quindi gli edifici proprio creano attorno a sé un parco lungo il fiume,
parco che non appartiene solo alle persone che vivono in queste case, ma all’intera comunità. Qui
a Tor Tre Teste, che si trova alla periferia della città, vi è una chiesa che doveva essere costruita
per il 2000, il Vaticano voleva una chiesa per l’intera comunità, e quindi il sito è proprio nel bel
mezzo di edifici esistenti a scopo residenziale. Questo è il sito, vedete le case, gli edifici
residenziali costruiti all’inizio degli anni ’60, quindi si vede che il centro di Roma è piuttosto lontano.
Quindi nel riflettere su come costruire questa chiesa, si tratta di calcestruzzo precompresso
bianco, bianchissimo, fatto in fabbrica e poi portato sul sito. La parte curvilinea della chiesa è un
santuario e quella rettilinea è invece uno spazio per la comunità. La chiesa è situata in un’area
desolata, quindi lo spazio attorno alla chiesa, la piazza che la circonda fa parte sia della chiesa che
della collettività, appartiene alla chiesa e alla collettività, le persone vengono qui, si affacciano ai
balconi, tutti fanno parte delle attività della chiesa stessa. Quindi questa chiesa potenzia
l’ambiente, è un centro importante in questa area desolata. Il Vaticano ha l’intenzione di, appunto,
ravvivare, rivitalizzare parti della città con piccoli interventi come questo, portare la chiesa alle
persone che vivono in comunità dove non vi sono chiese. Volevo appunto condividere con voi
questa esperienza, per farvi vedere come dei piccoli interventi possono avere un impatto
importante sulle comunità, che magari non hanno uno spazio pubblico dove le persone possano
riunirsi come invece è il caso qui.
DE SANTOLI: Bene, grazie all’Architetto Meier. Adesso passerei la parola a Massimiliano Fuksas.
FUKSAS: Renzo Piano non ha detto tutto, ma non contro il nostro amico Krier, che tutti stimiamo e
tutti amiamo. La cosa secondo me interessante è che Renzo ha un po’ più di anni di me e mi ha
spiegato come si doveva vivere, lui prova, da anni sta cercando di spiegarmi come dovrei vivere.
Io sono un pessimo allievo e vivo in un modo, e lui ogni tanto mi dice, ma non si fa così. In qualche
cosa sono molto vicino a lui, anche perché io sto per costruire una torre non lontano da una torre
che sta costruendo, è in costruzione a Torino, ma sto per iniziare a costruire un master plan vicino
al progetto del Lingotto, dell’ottimo intervento al Lingotto a Torino. Però la cosa si è riprodotta e si
sta riproducendo in continuazione, perché a Roma il mio vicino, il mio carissimo vicino, sarà un
progetto di Renzo, che è quello che affaccerà questo edificio, che avrà una grande serra anche,
che affaccerà sul lago, che completerà in effetti il senso di quella parte del quartiere, perché il
Palazzo dei Congressi si costruisce su un ex parcheggio, su un’area che è stata abbandonata da
sempre, da appena c’è stato un po’ di completamento dell’Eur, cioè dagli anni ’60, e vicino c’erano
le famose torri di Ligini e al posto delle torri di Ligini ci sarà un’altrettanto ottima architettura che
sarà quella di Renzo. Perciò il progetto sono case, sono abitazioni, allora si può mettere insieme
gli uffici che già ci sono, le abitazioni che abbiamo, però si completa la vita di un quartiere. In fin
dei conti, l’Eur non si sa se è periferia, dalle carte è parte del centro storico, per fortuna, è stata
assunta a parte integrante del centro storico. Mi piacerebbe farvi vedere quello che faremo di
questo Palazzo dei Congressi di cui tutti parlano. Pochi giorni fa sono stato invitato da Valle Giulia,
dalla Facoltà di Architettura, a parlare del cantiere del Palazzo, qui il Presidente, chi presiede, che
è anche il Preside della Facoltà di Architettura, mi ha accolto e abbiamo parlato in dettaglio. La
prima cosa da dire del Palazzo dei Congressi è che ha il 62% di riduzione del CO 2. Di questo non
abbiamo mai parlato, perché l’ottimo Ingegnere Cremo di Ai che ha seguito tutta la parte proprio
65
dei consumi, della riduzione, e poi ha una cosa importante, che tutta la copertura è integralmente
in fotovoltaico. In più ha la doppia facciata, ma una facciata importante perché di vetro, con uno
spazio aperto che sta all’interno di questa cosa. Siamo nati per incontrarci, non c’è verso, non ci
possiamo evitare per nessun motivo. Io vi faccio vedere delle immagini rapidissime per dirvi che,
come si è detto fino adesso, non c’è architetto che non lavora, che interviene negli scali importanti,
che non lavora sulle aree dismesse, questa è l’attività principale dell’architettura di questo secolo,
e anche un po’ del passato. Questa è l’area del Comune di Roma, che è 1.285,3 chilometri
quadrati, e questo è il Comune propriamente di Parigi. Non sarà più così, perché le Grand Paris
cambierà le proporzioni e probabilmente sono proporzioni molto simili. Ecco, l’estensione del
Comune di Parigi, che grosso modo ha un diametro di 12 chilometri, vi mostra quali sono il fatto
principale, la difesa dell’Agro Romano a Roma, e lo ripeto, è una delle cose più importanti per dare
la caratteristica a Roma di essere la città che è, di avere la spina, il cuneo straordinario dell’Appia
Antica che arriva fino al centro, fino al Campidoglio, questa è la cosa da conservare e da tenere, è
uno dei beni più importanti. Le due torri di Vienna che ho costruito alcuni anni fa, era un’area
dismessa di una fabbrica di mattoni, Wienerberger, su una collina, questa collina è il limite della
città ed è l’ingresso dalla strada che viene da Trieste e viene dal sud probabilmente, anzi dal sud
sicuramente. Quello che ha di importante che era un progetto che doveva crescere insieme ad altri
progetti, che doveva essere l’ingresso, questi non erano ancora costruiti, gli edifici intorno, lì c’è
altra gente, perciò era l’ingresso a una città, un’area enorme, che era un’area di quel genere.
Un’altra area dismessa è l’area sulla quale stiamo costruendo, abbiamo appena iniziato a
Marsiglia, sul porto, sui docks, un progetto pubblico e privato, ci sono uffici, ma ci sono anche
spazi pubblici, c’è il cinema, ci sono tante altre cose. Ecco, questo è il complesso, lì quell’edificio a
cui mi sono, non dico ispirato, ma abbiamo creato le stesse masse di proporzione, questo che
chiamiamo i delfini, c’è un grande cinema di proprietà, ci sarà un grande cinema di proprietà di
Besson, del regista e produttore Besson, c’è un enorme silos, che non è stato per fortuna
abbattuto e sulla parte del silos c’è l’ingresso effettivo fra due autostrade, ci troviamo. Oppure a
Torino, che avevo evocato, che ha un consumo energetico molto basso, è rientrato in tutte le label
europee, ed è per la regione che se avessimo costruito, seguendo il discorso precedente, se
avessimo costruito questi edifici in orizzontale, avremmo distrutto completamente il parco che voi
vedete, perché l’edificio, questo è il master plan, questo è il Lingotto che vedete bene, la Fiera e
l’Oval in alto, non avremmo assolutamente avuto tutta quella quantità di verde in cui metteremo dei
boschi e avremo perciò un luogo completamente pedonale, compreso un quartiere di abitazioni
che attraverso Via Nizza si ricollega e ricuce una parte di quartieri più difficili di Torino attualmente.
E poi c’è una stazione. Ma il mio sogno per la periferia di Roma, ovviamente, è quello che ho
dichiarato più volte, quello di una sala per la musica dei giovani, ecco ci vuole una sala per la
musica, i miei amici che fanno musica hanno bisogno di un grande spazio, lo spazio, ne abbiamo
fatto uno a Strasburgo, in Francia, per 12 mila persone, è costruito col tessile, questo vi fa pensare
un pochino a quale riflesso potrà avere con la nuvola, non è esattamente questo tipo di tessuto,
ma è qualche cosa di molto simile, questo si chiama atex, ovvero è una tela che ha due facce di
silicone, questa è la notte, ed è un edificio che è costato 48 milioni, però dà la possibilità a 12 mila
persone per volta, quasi tutti giovani, di avere una buona acustica e di avere degli spettacoli alla
periferia su un’area dismessa che era un’ex raffineria. Questa è la Fiera di Milano, altra raffineria,
altra area dismessa, ed è diventata un’altra cosa di questo genere. Incomincio il cantiere in una
grande area, non dismessa, inesistente, perché questa era una laguna, il cantiere dell’aeroporto…
questo è il mio sogno di avere, quello che diceva Ricky Burdett ieri, di avere un aeroporto
internazionale veramente importante a Roma, con linee che ci collegano un po’ da tutte le parti, e
questa è una sofferenza per una grande città, per la mia grande città di Roma ecco, lì soffriamo
enormemente. Questa qui era, alcuni mesi fa erano le palificate, e poi che cosa c’è sotto? C’è un
treno che va da Hong Kong a Shenzhen, passando per l’aeroporto e ricollegando tre aeroporti in
questo modo. Questo è il progetto che stiamo costruendo, adesso è molto più avanzato. Questo è
tutto e questa è la cosa che io vorrei. Ecco, questo è l’Agro Romano, quanto è e quanto è
straordinario come spazio per vivere. Grazie.
DE SANTOLI: Grazie a Massimiliano Fuksas, anche per averci ricordato l’attenzione da assegnare
alla gestione del processo edilizio. Ne abbiamo parlato anche ieri sulla necessità di un controllo
puntuale, dei tempi delle realizzazioni oltre che dei costi ovviamente. Bene, a questo punto
passerei la parola a Franco Karrer, intanto facendogli gli auguri per la freschissima nomina a
Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, credo che sia di questi giorni il suo
66
insediamento, è la più alta carica dello Stato in materia di lavori pubblici, quindi è un compito molto
gravoso e molto impegnativo. Con Franco penso che parleremo in termini di regolamentazione, di
politiche delle periferie, in particolare cercando di evidenziare questa contraddizione, magari
proponendo anche delle soluzioni, che esiste tra la densificazione anche abitativa di cui abbiamo
parlato e il contenimento, nonostante questa maggiore densità, il contenimento dell’espansione
urbana. Grazie Franco.
KARRER: L’impegno ad essere qui – come bene sanno gli organizzatori di questo «workshop
internazionale» -, l’ho preso in un’”altra vita”. Cioè prima di essere chiamato a presiedere il
Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Mi fa piacere mantenerlo in quanto, purtroppo, credo che
questa sarà una delle ultime occasioni nelle quali nei miei interventi pubblici potrà prevalere lo
spirito del ricercatore rispetto a quello che il nuovo ruolo istituzionale mi imporrà. Con lo spirito del
ricercatore entro subito nel merito del tema, iniziando con il dirvi cosa mi intriga di più nella
letteratura scientifica sulle periferie oggi. Alla rinfusa: i contributi della ricerca geografica? di quella
architettonica?; di quella urbanistica?; di quella antropologica?; di quella sociologica? Da tutte, e
da altre ancora sono interessato ed incuriosito, ma più di tutte mi interessano: la lettura che delle
odierne periferie ne fanno gli scrittori: si sta, come noto, formando un vero e proprio genere
letterario; i frammenti di vissuti, di interpretazioni, etc. che si trovano sulla stampa o che, in
generale, ci arrivano dei mass-media; il cinema, che ne ri-fa la «location» privilegiata di tanti films;
la pittura, che legge di nuovo le periferie alla ricerca di immagini nuove, dalle quali ci giungono
interpretazioni stimolanti perché in controtendenza e che altrimenti non avremmo. Di tutto questo
ho riflettuto di recente per un volume che riprende alcuni interventi sulle nozioni di sito, spazio e
luogo, in se stessi e in rapporto ai flussi di relazioni fisiche ed a-fisiche che li investono, in
occasione di un seminario di studio sulla nozione di luogo ed inevitabilmente di non – luogo, di
iper e/o superluogo, promosso dalla Facoltà di Architettura dell’Università Mediterranea di Reggio
Calabria1. Vi risparmio un ritorno su quei temi. Vi do solo un piccolo ideale aggiornamento:
a) dalla letteratura sulla periferia urbana, il lavoro di Gianni Biondillo e Michele Monina,
Tangenziali. Due viandanti ai bordi della città, Guanda, 2010, sulla periferia di Milano, che prende
spunto dalla sterminata letteratura sulla «londonorbital»; e quello di Andrea Carraro, Da Roma a
Roma. Viaggio nelle periferie della capitale, Ediesse, 2010, un «collage» di episodi, quasi
frammenti, tratti dal grande palinsesto della periferia romana.
Molti altri che non cito mi sono serviti per riflettere su differenze e analogie delle nozioni di sito,
spazio e luogo di cui all’occasione di studio già richiamata;
b) la pittura, con la rivisitazione della tangenziale est di Roma che ne ha fatto Reggio, a mio
giudizio uno dei più bravi pittori iperrealistici italiani. Al quale l’Accademia di S. Luca circa un anno
fa ha dedicato una piccola mostra che si sviluppava sulle pareti delle scale del palazzo dove ha
sede.
c) dai mass-media mi ha molto colpito la notizia che l’astensione massiccia al recente voto
amministrativo in Francia, ha riguardato in misura quasi totale le periferie urbane. Sia al primo che
al secondo turno! Al punto che ci si domanda se le «eméutes», cioè i moti di protesta anche
violenta, siano preferibili all’astensione dal voto («Monde», 23 marzo 2010).Così come mi ha
colpito il ruolo del mecenate americano Irwin Moskowitz, sionista, che, fra l’altro, acquista palazzi
nella parte est di Gerusalemme allo scopo di promuovere la presenza ebraica in quella parte di
città. Molto diverse fra loro, ma pur sempre «immagini» di periferia. Complessivamente molto
meno negative di quelle correnti tra gli addetti ai lavori e nell’opinione pubblica. Tutte queste
letture, nella loro diversità, ci dicono che molte categorie che usiamo nelle nostre discipline non
sono pienamente adeguate a comprendere; e se non sono adeguate a comprendere figuriamoci
se sono adeguate ad intervenire. «Eméutes» ed astensione dal voto si combattono con le politiche
di inclusione: nel caso della Francia, per superare le fratture sociali profonde, il diverso successo
scolastico delle femmine rispetto ai maschi e per garantire un po’ di lavoro a tutti. Le dosi della
miscela sono diverse da paese a paese, da città a città, ma gli ingredienti di una politica mirata
sono senz’altro quelli. La «risignificazione» fisico – formale delle periferie è ricetta utile comunque
e ovunque. Ma insufficiente da sola. Ma sia la prima che la seconda delle ricette, mostrano che è
davvero giunto il momento per passare - come si dice in Francia – dall’«aménagement» al
1
Il volume è in corso di stampa.
67
«ménagement» urbano! E che si tratti di un «ménagement» integrato è anche del tutto ovvio.
Meno pianificazione astratta, più concreta pianificazione di gestione. Ma non per questo è meno
difficile attuare una tale inversione di rotta; prima nella concezione delle politiche urbane e, poi,
nella loro attuazione. Il divario che c’è tra il nostro ed altri paesi in materia di politiche urbane
esplicite è purtroppo molto grande. Paradossalmente meno per quanto riguarda gli strumenti. A
questo livello siamo ricchi di strumenti urbanistici e di pseudo strumenti urbanistici; anche di leggi
per sviluppare l’occupazione, sul modello originario della rigenerazione urbana che ha ispirato il
programma europeo «urban» al quale anche si ispirano le nostre «zone franche urbane» - mi
riferisco alla l.n. 217/1996 dovuta all’ex ministro Bersani -; nonché della panoplia degli strumenti
che attuano il cosiddetto «social housing» (“zone F”, utilizzabili per la residenza sociale;
facilitazioni nel cambio delle destinazioni d’uso; uso esteso del convenzionamento urbanistico;
premialità urbanistica; etc.). Una seconda considerazione riguarda l’esistenza o meno del
problema periferia in quanto tale. Mi vado convincendo che tale problema stia rientrando, per
essere sostituito da altri. Mi spiego – o, meglio, cerco di spiegarmi – ricorrendo ad una citazione:
«la priorità non è più territoriale (centro / periferia), ma dimensionale. Ovvero, per gravità del
problema». Vi domanderete da dove l’ho tratta. Non certo dalla pianificazione urbanistica, bensì
da quella dei rifiuti. Dalla gestione pianificata dei rifiuti. Ripensatela alla luce di ciò e ritornate alla
città. Converrete che quasi non c’è più una differenza intrinseca tra le varie parti di città, c’è solo la
diversità dimensionale dei problemi. Ciò detto vengo a riflettere – come mi si è chiesto - sulla
parte di città più estrema, ma non solo nel senso della posizione geografica, bensì per alcune sue
caratteristiche proprie. Laddove la densità insediativa è così bassa, ad esempio, che sfugge
all’azione urbanistica pubblica. E la grana dei problemi è così fine che il «passino» delle politiche
non la intercetta. Siano quelle urbanistiche che delle reti fisiche. Per definirla possiamo usare le
categorie dell’«urban fringe» e/o del peri-urbano. Ma, si sa, anche queste sono categorie incerte.
Per dirla con Jacques Donzelot, la città odierna segue tre velocità: della relegazione, della
periurbanizzazione e della gentrificazione (Cfr., “La ville a
trois vitesse: rélegation,
périurbanisation, gentrification”, «Esprit», marzo – aprile 2004). L’aspirazione del cittadino
«relegato» è quella di divenire «periurbano». Il «gentrificato» - termine che ha assunto un
connotato positivo oramai -, vive nelle aree centrali soprattutto, ma non esclusivamente, a mó di
un novello borghese. La classe media vive nel periurbano. Il relegato sempre più spesso abita la
città dell’habitat sociale. La prima cosa che dobbiamo dire è che questi siti sono sia inclusi
nell’urbanizzato che ne costituiscono la «coda». Nel secondo caso sono «eccentrici» rispetto alle
varie centralità (romane), ma «centrali» rispetto al sistema insediativo più ampio. Entra in ballo,
evidentemente, la questione della intercomunalità in generale e, in particolare, della confinazione
dell’area metropolitana e quindi delle politiche conseguenti. Se, come è, il confine di “Roma, città
metropolitana” o «tout court» di “Roma Capitale” – ex l.n. 42/2009 2 – coincide con il confine del
territorio comunale, la pianificazione urbanistica romana non può non farsene carico come un
problema proprio, senza trascurare l’«atout» di cui ho detto e cioè di essere siti centrali rispetto ad
un sistema insediativo intercomunale. Soprattutto se sono investiti dai «flussi di relazione»,
fisiche e a - fisiche. E quindi di queste si nutrono e si avvantaggiano. E se la grana dei loro
problemi sfugge all’armamentario «hard» dell’urbanistica – quello degli strumenti di cui sopra -,
non si può che applicare quello più «soft» del «welfare municipale» e della «fiscalità» territoriale.
Per quanto riguarda il «welfare municipale», nell’ottica dello «special district» statunitense
soprattutto. Che, non a caso, è un tipico strumento del «ménagement» urbano. Da tempo lo
studio. Da ultimo, me ne sono occupato nella ricerca nazionale (PRIN) sul welfare urbano, i cui
risultati in sintesi sono rappresentati dal volume Welfare e governance urbana, Officina Edizioni,
Roma 2004. Non ho tempo per illustrare ulteriormente la «ricetta».Voglio fare solo una
considerazione inerente il contesto complessivo nel quale il fenomeno si sviluppa, per mettere in
allarme sulla misura dello stesso. Infatti, se si usa la densità statica – cioè «popolazione per
ettaro», ad esempio – si ha una misura. Se si usa quella delle «abitazioni per ettaro» si ha un’altra
misura. Se si considera la densità dinamica tanto cara a Vincent Fouchier 3, si ha un’altra misura.
E via dicendo se usassimo altri indicatori: la composizione dei nuclei familiari, il livello di reddito,
etc. Tutto ciò per dire che dobbiamo guardare anche la condizione complessiva, di contesto:
2
3
Rinvio per una più sistematica riflessione a S. Gattamelata, Riflessione de jure condendo, in merito alle funzioni ai
poteri di Roma Capitale, «Rivista Amministrativa della Repubblica Italiana», fascicolo n. 6 del 2009.
Molto interessante la tesi di dottorato in Progetti e politiche urbane di F. Minora, Interpretare la densità. Evoluzione
di un concetto complesso, XX ciclo, Politecnico di Milano.
68
probabilmente quel fenomeno è frutto più delle tante «fratture» che il processo d’urbanizzazione
presenta che per se stesso. Cosa intendo dire? Che la morfologia naturale, la politica dei parchi e
delle reti, il basso grado di «mixité» della struttura insediativa, etc., sono anch’esse cause
primarie del fenomeno, che occorrerebbe indagare più approfonditamente. Insieme, ovviamente,
alle questioni proprie all’economia immobiliare ed urbana più in generale. La questione delle tariffe
dei pubblici servizi è anch’essa decisiva, sia nel determinare il fenomeno che nel gestirlo. Dal loro
studio dovrebbero derivare le risposte che stiamo cercando e che, complessivamente,
rappresenterebbero l’«accompagnamento» della politica di cui sopra. Una politica tipicamente
«integrata» per realizzare una città «integratrice».Venendo alla conclusione, non posso non
rilevare come il mio dire possa essere apparso «stonato» in questo workshop, teso soprattutto a
mettere in evidenza la capacità risolutiva dei problemi urbani, anche di quelli della periferia,
dell’architettura in tutte le sue manifestazioni. Non sottovaluto cero tale capacità. Ma sono anche
convinto che solo se questa agisce nel contesto di quella politica di cui ho detto, può essere
realmente efficace4. Per fare cosa? Per trasformare siti in spazi, quindi in luoghi. Vissuti perché
amati in quanto propri a chi li abita, ma anche a chi non li abita.
DE SANTOLI: Bene, grazie anche a Franco Karrer. Come vedete il discorso si fa molto
interessante abbracciando temi diversi. Dunque io so che Renzo Piano non parteciperà al dibattito
del pomeriggio, la prosecuzione dei nostri lavori, quindi gli chiederei, magari riprendendo questo
concetto abbastanza interessante che si sta svolgendo oltreoceano, ma che probabilmente è
arrivato già da noi, della Gentrified Zone, quindi magari chiederei a lui un commento su questo.
PIANO: Quello che Karrer ha detto, ha fatto riferimento a un fenomeno che è significativo. In
America si definisce gentrification il processo di omologazione delle zone urbane che perdono il
loro carattere. Questo ha avuto sempre un valore negativo, gentrification come omologazione,
come perdita di identità. Stranamente, ha ragione, quel che succede è che nel gergo ad esempio
di New York, dove lavoro, dove abito, gentrification sta prendendo un senso diverso, cioè di
civilizzato, cioè di urbanizzato. È questa l’essenza vera, che le periferie sono la città che sarà o
che non sarà, ma se non sarà sono guai seri, sono guai seri, perché la gente abita nelle periferie,
non abita nei cuori della città. A Manhattan viene considerata periferica l’area che si trova a nord
della 125ª strada, che si chiama anche Martin Luther King Boulevard. Ecco, il progetto che stiamo
facendo per la Columbia University è il progetto del nuovo campus che si trova proprio su
Broadway e la 125ª, è un’area che si chiama West Harlem e che è gentrified, cioè è un’area che si
sta trasformando. Io ho vissuto in prima persona tutta questa vicenda, perché sono sei anni, sette
anni che si lavora su questo progetto, ormai siamo in cantiere, stiamo costruendo i primi edifici, un
grande centro di ricerca medica e altre cose, ma assisti a questa trasformazione nella quale il
dibattito è stato, non solo irritante, persino feroce talvolta, perché i processi di partecipazione non
sono mica uno scherzo, proprio perché non possono essere fatti per persuadere, a forza di
argomenti, la gente, ma per capire, per capire profondamente. I progetti urbani sono sempre così,
hanno sempre bisogno di tempi relativamente lunghi, perché hanno bisogno di tempi di
maturazione. Noi facciamo un mestiere pericolosissimo, se un architetto si sbaglia, fa qualcosa
che resta sbagliato per sempre, i nostri errori durano a lungo, troppo a lungo, quasi come quelli dei
Sindaci quando si sbagliano. Quindi dobbiamo stare molto attenti, e quindi è una specie di antidoto
questo di discutere, però trasforma anche le persone. Io conosco molta gente, ad esempio il
parroco di West Harlem, che conosco benissimo, che hanno trasformato il loro modo di vedere le
cose. Quindi è anche per questo che la parola gentrified diventa poi quasi positiva, perché ci si
rende conto che non è tutto un problema, cioè è un modo di trasformarsi, è questa la cosa più
delicata. Qui è dove l’architettura, l’urbanistica e l’antropologia si fondono, la situazione a Harlem è
complessa antropologicamente, non è nemmeno più nera, specialmente West Harlem è al 40%
nera e al 45% latino-americana, e poi ci sono naturalmente i bianchi. Ma non c’è più quel
connotato, è una realtà molto complessa, molto vivace, nel momento in cui Columbia decise di
andare lì a fare il nuovo campus, sapeva benissimo di fare una scelta difficile, però la Columbia
University è la Columbia University in the city of New York, è una università urbana, e quindi rifiutò
giustamente Lee Bollinger, il nuovo Presidente che ha fatto questa scelta, di andare nel New
Jersey o altrove, in un paradiso nel verde, decise di stare lì. E quindi questi fenomeni di
trasformazione sono… un po’ hanno a che fare con le pietre, con il cemento, con gli edifici, con il
costruito, ma tantissimo hanno a che fare con trasformazioni antropologiche, con le abitudini, col
4
Cfr., J. Donzélot, “La droitisation des plans banlieue”, «Esprit», marzo – aprile 2010.
69
modo di vedere le cose. Per questo volevo fare questo commento sulla parola gentrified, perché
non a caso Karrer l’ha citata giustamente, perché prova che negli ultimi, credo, dieci anni, diciamo
così, negli ultimi dieci anni questa parola ha cambiato di significato, e questo va assieme al
fenomeno in cui ci si rende conto… Guardate, il fenomeno delle periferie è quello che negli anni
’70 era il fenomeno della difesa dei centri storici. Io ricordo, erano i primi anni, mi ero laureato più o
meno, beh un po’ prima, ma insomma non troppo, e il grande tema era salvare i centri storici,
rendersi conto di come i centri storici fossero l’anima, l’essenza, l’identità delle città, e guardate
che in quegli anni si demolivano i centri storici, mica facevano scherzi, si demolivano e basta,
dappertutto. Quindi quello è stato il vero tema di quegli anni, il tema degli inizi di questo secolo è
un altro, è quello delle periferie. Come riusciamo a cancellare questa parola, che ahimé ha un
connotato negativo? E come riusciamo a trasformare le periferie in città? E questo è la vera nostra
scommessa, o ci riusciamo o se no è un disastro, perché lì è la barbarie che vince e allora a
questo punto noi perdiamo il controllo. Grazie.
KARRER: Riprendo momentaneamente la parola per dire, cercando di non farsi dire quello che in
un bellissimo libro si dice, cioè quando si commenta la interazione fatta dalla Università di
Columbia, con un titolo, lo traduco: il passaggio dal welfare state al real estate.
DE SANTOLI: Bene, grazie. Allora avete visto che stiamo sconfinando verso il sociale. Allora
abbiamo anche due sociologi qui che ascolteremo con estremo interesse. Matteo Colleoni è
docente presso l’Università degli Studi Milano Bicocca e ha molto studiato l’effetto della mobilità
sullo stato sociale. Prego.
COLLEONI: Sì, buongiorno, grazie per l’invito. La nostra Università, insieme in realtà a diverse
altre università europee, lavora da diversi anni, ormai dieci anni, in un forum internazionale sulla
mobilità sostenibile, nelle aree metropolitane. Si tratta di un forum che si è occupato di tante cose
evidentemente, ma soprattutto si è occupato di vedere come la localizzazione all’interno delle aree
metropolitane ha dei rapporti con gli insediamenti, quindi come i luoghi in cui noi abitiamo, nelle
aree metropolitane, influenzano i tipi di insediamenti, e dall’altra parte come questo si riflette sulla
mobilità e sull’accessibilità delle popolazioni. Si tratta evidentemente, dal nostro punto di vista, non
tanto soltanto dalla sociologia, ma anche dalla economia urbana, di un aspetto importante, perché
da questo dipende anche il sentimento di integrazione che le popolazioni hanno rispetto i propri
territori. Innanzitutto una precisazione: quando parlo di localizzazioni, in realtà a livello
internazionale tendiamo a distinguere tra localizzazioni centrali, che non sono necessariamente i
centri storici, poi localizzazioni intermedie e poi localizzazioni periurbane. Capire dove si colloca la
periferia non è sempre semplicissimo all’interno di questi contesti, perché dipende molto dalle aree
metropolitane in cui noi lavoriamo. Il secondo aspetto riguarda il tipo di insediamenti, la seconda
precisazione. Noi distinguiamo tra insediamenti residenziali, insediamenti produttivi ed
insediamenti di servizio, anche se sugli insediamenti di servizio tendiamo a usare un termine
inglese, opportunity, perché tiene conto non soltanto dei servizi veri e propri, quelli a cui tutti noi
accediamo, ma anche i beni, tra cui anche gli spazi pubblici. Questa è una precisazione. Sulla
base di questa precisazione vorrei mettere la mia attenzione, la vostra attenzione, su due aspetti: il
primo riguarda, in queste aree metropolitane, in una visione comparata europea, come sta
cambiando il rapporto tra localizzazione e tipo di insediamento, e secondo punto, la conseguenza
su mobilità e accessibilità. Primo aspetto. Abbiamo osservato ovunque, facendo comparazioni tra
area metropolitana di Milano, Vienna, Barcellona, Londra, Parigi e anche Berlino, che tutto
sommato, nonostante negli ultimi periodi ci sia una modifica positiva, i centri storici, o meglio i
centri metropolitani, continuano a avere una più alta concentrazione di opportunità che hanno una
più alta specificità, quindi hanno un più alto bacino di utenza, hanno una più alta capacità di
attrazione. Beh, è abbastanza evidente questa cosa. E viceversa, allontanandoci verso le aree
intermedie, questa specificità tende a diminuire. Il problema non è tanto il fatto che le opportunità
che si collocano nelle fasce intermedie e periferiche sono meno specifiche, perché è evidente, non
possiamo mettere in un’area di carattere periurbano un servizio che abbia un’utenza di tipo
internazionale. Il problema è però che parliamo di opportunità, quindi di servizi che hanno
normalmente un’utenza di carattere locale, non un’utenza di carattere internazionale, e quindi vi
sono delle aree del periurbano, di alcune aree metropolitane che, nonostante un piccolo
miglioramento, continuano a mettere in evidenza la difficoltà da parte dei residenti di accedere a
servizi di base. E quindi questo è un primo problema, quindi delle aree metropolitane che ancora,
nelle zone più marginali, non diano la possibilità alle persone di accedere a dei servizi, che in
70
quanto locali, dovrebbero avere un loro bacino di utenza. È questo il primo aspetto. Questo
problema si pone tra l’altro soprattutto nelle aree metropolitane di tipo mediterraneo poiché, a
livello di centro e di nord Europa, abbiamo visto che questa specificità, cioè questa possibilità di
multifunzionalità comincia a diffondersi piano piano anche verso le zone un po’ più di carattere
periferico. Il secondo aspetto della mia riflessione, molto breve, riguarda le conseguenze sulla
mobilità. È evidente, non occorre fare delle ricerche internazionali per sapere che chi abita più
lontano dai centri abitati, di carattere storico, dai centri metropolitani, ha una mobilità più
consistente. Sarebbe una banalità dirlo, soprattutto in un’assise internazionale. Quello che invece
noi mettiamo in evidenza è che i profili, che è una cosa leggermente diversa, di mobilità di chi abita
in aree più svantaggiate, o periferiche o periurbane, tendono a mostrare una più difficile
accessibilità da parte delle persone alle risorse della città. Ora attenzione, che rapporto c’è tra
mobilità e accessibilità? Non è un rapporto di tipo lineare, è un rapporto curvilineo, e ne abbiamo
esperienza tutti noi quotidianamente. In assenza di mobilità non c’è accessibilità evidentemente,
ma quando la mobilità è accessiva pure non c’è accessibilità, è un rapporto curvilineo, c’è un
equilibrio ideale, in cui noi diciamo, abbiamo la giusta mobilità per poter accedere alle opportunità
del territorio. Allora le persone che vivono in aree più svantaggiate, ripeto, hanno dei profili di
mobilità che mostrano maggiore difficoltà di accessibilità. E questo perché? Per tre o quattro punti
fondamentalmente, e poi finito questi tre o quattro punti mi soffermerò su quattro sintesi di
suggerimento. I tre quattro punti sono i seguenti: la durata della mobilità. Noi ci spostiamo
mediamente in Italia per un’ora e 24 minuti, più 24 minuti rispetto soltanto a 15 anni fa, secondo i
dati dell’indagine multiscopo dell’ISTAT sull’uso del tempo condotto tramite bilanci temporali, un po’
superiore rispetto a quell’ora e 14 minuti che è stato messo in evidenza con riferimento al caso di
Chicago nelle presentazioni precedenti. Guardate che si tratta di una durata molto consistente, e
guardate un’altra cosa, che questo incremento di tempo dedicato alla mobilità è il più forte
incremento di uso del tempo insieme al tempo libero negli ultimi 15 anni in Italia, che fa proprio
venire l’idea di un cambiamento antropologico dell’uomo moderno. Una volta quello che definiva la
nostra identità era dove abitavamo, quindi la residenzialità, la staticità e il lavoro. Oggi dedichiamo
sempre più tempo invece al tempo libero e alla mobilità, quindi proprio un cambiamento di
carattere antropologico. Chi abita nelle aree più marginali non si sposta per un’ora e 29 minuti, ma
per 2 ore e 10 minuti. Quindi ha una durata della mobilità che è molto, molto più consistente. Il
secondo aspetto, quando parliamo appunto di profili di mobilità, è che è la frammentarietà della
mobilità, chi abita in aree più svantaggiate non soltanto si sposta per più tempi, e così tanto che a
volte non accede a nulla, ma anche ha una mobilità molto più frammentaria. Cosa vuol dire
frammentarietà? Vuol dire che noi facciamo le cose per unità temporali sempre più piccole e
ripetute nel tempo. Guardate che questa è una caratteristica per chi studia l’uso del tempo, tipica
della modernità. Noi siamo tutti più frammentari nell’uso del tempo e di tutte le nostre attività. Chi
abita molto lontano dai centri più ricchi di servizi ad alta specificità frammenta la propria mobilità,
per forza, perché deve per forza fare più spostamenti per poter raggiungere i servizi che sono
molto dispersi sul territorio. Gli inglesi ancora usano un’espressione molto bella per definire questo
disagio, che si chiama distance decay, cioè l’impossibilità di poter fare delle attività perché sono
distribuite in maniera tale che ci sono troppe barriere nello spazio e nel tempo per poterle fare, con
una ovviamente conseguenza di regressione. Il terzo aspetto riguarda la monomodalità. Anche
questo è abbastanza evidente, più siamo lontani dai centri ricchi di servizi, di infrastrutture, ma di
servizi appunto ad alta specificità, più tendiamo a usare l’auto. L’uso dell’auto è in aumento, ormai
coinvolge… il 59% degli spostamenti vengono fatti in auto, dieci anni fa, secondo il censimento,
soltanto quello precedente, erano il 48%. E viceversa gli spostamenti con le modalità lente, i mezzi
pubblici, gli spostamenti a piedi, gli spostamenti in bicicletta, che ormai sono il 17%, una volta
erano il 23%, siamo ben lontano da quella soglia europea che è la soglia del 30%. Chi abita in
aree svantaggiate vi si sposta per il 12%, con modalità di spostamento lente. Quindi una centralità
nello spostamento di carattere meccanico, che è bene evidente quando noi visitiamo le città. Il
caso di Roma tra l’altro non è neanche talmente brutto rispetto al caso di Milano, in cui lo spazio
pubblico è completamente deturpato dalla presenza di auto parcheggiate. Considerate una cosa
particolarmente grave, che il 90% degli spostamenti urbani ha una durata a una distanza non
superiore a 6 chilometri, in Europa il 90% degli spostamenti urbani è inferiore ai 6 chilometri, e
quindi è una distanza che è molto contenuta, e che quindi tutto sommato consentirebbe di fare
degli spostamenti anche attraverso altri tipi di modalità. E poi vi è un ultimo aspetto, per cui noi
diciamo che il profilo di mobilità delle persone che vivono in aree più marginali tende a declinarsi in
71
più difficile accessibilità, e quindi riguarda il costo della mobilità. Purtroppo non vi sono studi su
Roma e purtroppo neanche su Milano, ma su Parigi sì. Se voi abitate a Saint Germain avete
mediamente un bilancio su cui la mobilità vi pesa per il 5%, se abitate in certi quartieri periferici vi
pesa per il 26%. E in fondo abitare nelle aree più svantaggiate non porta soltanto l’incremento
della mobilità, è ovvio, ma avere profili di mobilità di tipo inaccessibili, e l’accessibilità in fondo ha
delle soglie europee. Noi sappiamo che affinché un servizio di base sia accessibile deve essere
distante in minuti 15 a piedi, questo è uno standard di carattere internazionale (applausi), vuol dire
che un servizio di base deve essere possibilmente raggiunto entro questa distanza, i servizi
fondamentali devono essere raggiunti in 15 minuti, attraverso un passo medio delle persone, che
varia in realtà in funzione della localizzazione geografica, ma comunque abbastanza accettato.
Sulla base di questo, negli ultimi due minuti posso suggerire… nulla, personalmente, ma posso
invece dire cosa le ricerche internazionali che vengono fatte all’interno di questo forum suggerisce
di fare alle Amministrazioni, quattro cose, veramente molto veloci, qualche secondo per punto. Il
primo, si parla molto di densificazione, giustamente, densificazione però attenzione non soltanto
delle residenze, ma dei servizi che presentano una migliore, una più alta specificità, che hanno un
più ampio bacino di utenza e che valorizzi tra l’altro le risorse locali, perché le esperienze che sono
state fatte per esempio in Svezia o in Norvegia, dove abbiamo lavorato con i colleghi urbanisti
scandinavi, hanno dimostrato che decentralizzare il centro nelle periferie non è sempre efficace,
molte volte è più efficace invece quello di portare appunto dei servizi a più alta specificità che
aumentano i bacini di utenza, e quindi trattengono di più le persone nelle proprie residenze, nelle
proprie località, valorizzando le risorse locali. Il secondo aspetto, integrare delle politiche di
mobilità che abbiano appunto questa capacità, cioè di creare grandi infrastrutture che aumentano
la mobilità radiale, importantissimo, ma soprattutto che aumentino la mobilità di carattere lento, la
mobilità lenta è di carattere fondamentale, oggi la mobilità lenta è un privilegio di chi abita nei
centri storici. A Milano noi abbiamo delle mappe bellissime in cui si vede che l’uso della bicicletta è
soltanto prerogativa di chi abita in pochissimi quartieri attorno al Duomo, tutti gli altri la bicicletta
non l’utilizzano. Per potere incrementare la mobilità lenta occorrono tante cose, è impossibile
parlarne, occorre innanzitutto avere quartieri più belli, non c’è niente da fare. Nessuno ama
passeggiare in località brutte, d’altronde è per quello che andiamo nei centri storici, perché sono
molto belli da passeggiare, però delle soluzioni per poter muoversi in bicicletta, a piedi nei quartieri
periferici ci sono, e sono applicate e sono molto studiate. E dall’altra parte fare delle politiche non
soltanto regolative, politiche persuasive che lavorano sulle comunità di pratica, cioè quelle
comunità che sono più disponibili a cambiare i propri comportamenti. La mobilità non è un aspetto
che ha a che fare con la razionalità, ha a che fare con le abitudini, e come tutte queste cose
richiedono tempi molto lunghi di cambiamento. Vi ringrazio. (Applausi)
DE SANTOLI: Grazie. Passiamo a Franco Martinelli per completare il discorso intrapreso con
Colleoni e prego, la parola… Franco Martinelli è un professore di sociologia urbana e rurale della
Sapienza.
MARTINELLI: Sono un sociologo che ha lavorato per molti anni all’Università La Sapienza di
Roma, e come sociologo ho condotto anche ricerche numerose su aspetti diversi di questa realtà.
La prima cosa che vorrei comunicare è che bisogna vedere prima di tutto qual è l’aumento della
popolazione di Roma. Allora in un mio libro che era intitolato “Ricerche sulla struttura sociale della
popolazione di Roma” del ’63, io avevo rilevato alcuni dati, al censimento del ’51 Roma aveva 1
milione e 651 abitanti, nel ’61, dieci anni, dopo aveva 2 milioni 181 mila abitanti, quindi con una
differenza di 280 mila abitanti in più. Se invece… a quei tempi il Comune di Roma era suddiviso in
rioni, quartieri, suburbi e Agro Romano. Se si va a vedere qual era la proporzione della
popolazione nel rione rispetto al resto della città, si vede che mentre nel ’51 i residenti erano nel
centro storico, nel centro dei rioni, erano 424 mila, della popolazione residente, ed erano 444 mila
di popolazione presente, cioè c’era più popolazione presente che popolazione residente, 10 anni
dopo, nel ’61, si arriva che gli abitanti nel centro dei rioni sono 311 mila, quindi cominciano a
diminuire nella popolazione residente, e sono invece 274 mila nella popolazione presente. Quindi
c’erano più popolazione presente che popolazione residente. Mi colpisce il fatto che tutte le volte
che si danno dei dati sul Comune di Roma, e anche altrove, non si fa questa distinzione che
l’ISTAT fa fra popolazione residente e popolazione presente, che allora si faceva. C’era una
differenza di 37 mila abitanti. Dal ’61, con un totale di 2 milioni 188 mila abitanti, si arriva però
adesso nel 2010 che si parla di 2 milioni e 255 mila abitanti. Questo perché? Perché in effetti la
72
mobilità della popolazione del centro di Roma, e di tutta la città, non deve essere calcolata soltanto
sulle zone periferiche del Comune, ma devono essere calcolate almeno sulle zone della regione
Lazio, cioè tutto il pendolarismo che viene a Roma, in Centro, nelle periferie, non viene soltanto
dalle zone esterne, diciamo il centro storico del Comune di Roma, ma viene per lo meno dagli altri,
anche dagli altri quattro Comuni della regione Lazio e anche più lontano, perché sappiamo tutti che
il pendolarismo su Roma viene anche da Comuni che sono in Toscana e che sono nel napoletano.
Allora, detto questo, io volevo vedere… Quindi il discorso che si deve fare è che intanto la
popolazione nei rioni, nel centro storico di Roma diminuiva e continua a diminuire, adesso siamo a
125 mila abitanti al centro dei rioni. E questo perché? Vedremo dopo perché, perché tutto
sommato non si può considerare una popolazione, sia pure di una zona che sia il centro all’interno
delle mura Aureliane, come popolazione solo residenti, ma dobbiamo considerare che nella zona
interna alle mura Aureliane, il centro storico allargato, ci sono anche delle persone che sono
presenti e non calcolate nella popolazione residente, cioè ci sono tantissime persone, per esempio
anche qui intorno, per esempio tutti quelli che vengono per ragioni politiche, per ragioni
commerciali eccetera, che hanno una seconda casa a Roma, e questa seconda casa però non li fa
risultare come popolazione residente, la popolazione residente della famiglia sta dappertutto, la
popolazione di Roma, semmai al massimo, per non pagare l’Ici, può essere di un familiare, ma
quindi questa popolazione, 125 mila abitanti che stanno nel Comune di Roma, secondo me sono
da rivedere. Allora, come sociologi noi abbiamo considerato di una città, che può avere un
processo di fondazione, di estensione e sviluppo e anche un arresto e degrado, come è avvenuto
anche per Roma, Roma ha avuto dei periodi in cui era ormai riunita intorno al Vaticano, quindi ogni
città può essere analizzata in relazione alla città, quella che io chiamo città materiale o struttura
urbanistica, la chiamo così, struttura urbana o urbanistica, costituita da fabbricati di residenza, di
produzione economica, le fabbriche e anche naturalmente attività di consumo, centri commerciali e
relative infrastrutture, la struttura urbanistica, quindi le relative infrastrutture sono: viabilità stradale
e ferroviaria, stazioni, aeroporti, centrali reti di distribuzione dei servizi, acquedotti, centrali
elettriche, centrali telefoniche, centri di trasmissione di comunicazione e struttura sociale nelle sue
componenti di composizione e distribuzione della popolazione, cioè da una parte la struttura
materiale della città, dall’altra parte la struttura sociale, la popolazione, la sua stratificazione in
classi, ceti e comunità nella varietà dei comportamenti, nella diffusione dei valori culturali. Le due
componenti, di struttura urbanistica e di struttura sociale, possono manifestarsi a livelli diversi, cioè
possono essere coincidenti nelle stesse aree di insediamento, oppure possono essere differite nel
senso che in certe aree di insediamento ci sono… di struttura urbana elevata, ci sono per esempio
posizioni di struttura sociale bassa, poi darò anche degli esempi. È difficile seguire questi fenomeni
di condensazione, perché se noi per esempio pensiamo al centro storico e vediamo l’area
all’interno dei servizi, dovremmo spiegare come mai all’interno dell’area dei servizi, ci sia per
esempio tutta la zona di Piazza Vittorio, dove c’è una popolazione di stranieri, una comunità di
cinesi, tanto per dire, e poi ci sono anche degli episodi di uso dell’abitazione in modo intensivo, se
vogliamo dire, no? Comunque quali sono gli elementi che possiamo chiamare degrado urbanistico
e quali sono gli elementi che possiamo chiamare disagio sociale? Degrado urbanistico, cioè che
può essere esaminato sia nella posizione dell’insediamento esterno rispetto al centro cittadino,
oppure rispetto ai centri direzionali e commerciali, che possono essere anche fuori dal centro città,
rispetto alla rete stradale ferroviaria e al sistema dei trasporti pubblici. Quindi il disagio del degrado
urbanistico si può avere in queste zone, si può avere nel senso di considerare la struttura
urbanistica nelle sue componenti di viabilità, luoghi di centralità interna, accesso alla rete stradale,
collegamento con altri insediamenti dei quartieri, qualità architettonica degli edifici, disposizione dei
servizi interni negli edifici, cortile, corridoio, ascensore, tipologia degli edifici, tipologia degli
appartamenti /…/. Poi, sempre il degrado urbanistico lo si può vedere in relazione alla dotazione di
servizi commerciali per quartiere, che possono essere mercato centrale, supermercato, grandi
magazzini o niente, servizi amministrativi pubblici e privati, cioè servizi scolastici e culturali, servizi
sportivi, accesso ad ospedali, cliniche, ambulatori, studi medici e dentistici, servizi psichiatrici,
attrezzature per la socialità e la vita culturale assenti o insufficienti, centri sociali giovanili che ci
sono o non ci sono, sedi di partito o sindacati, chiese, associazioni culturali, campi di bocce,
giardini pubblici, dotazione di verde pubblico. Questo è tutto quello che riguarda l’aspetto della città
in termini urbanistici, in termini materiali, che può essere in aumento oppure in degrado. La
condizione di disagio sociale, che noi studiamo di più, riguarda caratteristiche specificamente
sociali, principalmente di carattere occupazionale. La disoccupazione, disoccupati di lunga durata,
73
lavoratori in cassa integrazione, pensionati in anticipo, giovani inoccupati, disoccupazione e
inoccupazione femminile, lavoro nel mercato illegale di giovani, lavoro domestico e lavoro a
domicilio, lavoretti. Fenomeno riguardante l’integrazione sociale, presenza di immigrati da altre
regioni italiane, che sono 60 anni che Roma attrae popolazioni da altre regioni italiane, presenza di
immigrati stranieri, legali o clandestini, presenza di disabili, malati mentali e malati cronici sfrattati.
Beh faccio riferimento a Tor Bella Monaca, dove un edificio era dato tutto ai disabili. Fenomeno
riguardante la devianza, presenza di ex carcerati, organizzazioni criminali, che ci sono, furti d’auto,
furti in appartamenti, borseggi, scippi, furti in esercizi commerciali, rapine, violenza e violenza
sessuale. Le due componenti, degrado urbanistico e disagio sociale, che possono essere in aree
specifiche congiunte oppure possono essere in aree separate, dove c’è l’uno ci possono essere…
devono naturalmente vedere interventi di recupero urbanistico che riguarda naturalmente
l’urbanistica, di sostegno sociale che riguarda invece i sociologi. Concludo dicendo che elencherò,
nel pomeriggio, quali sono le diverse popolazioni di Roma che noi consideriamo. E detto questo
appunto, naturalmente come sociologi noi ci occupiamo piuttosto della struttura sociale e quindi dei
diversi tipi di popolazione, devo dire anticipatamente, perché vedo che il tempo scorre, che in
effetti è estremamente difficile localizzare sul territorio tutte queste diversità di presenze sociali in
una città, e in particolare anche nella città di Roma. Grazie.
DE SANTOLI: Grazie Professor Martinelli, Bruno Dolcetta possiamo in mezz’ora chiudere questa
prima sessione, naturalmente rimandando al pomeriggio per l’ampia e approfondita discussione.
Grazie.
DOLCETTA: Prima di tutto volevo riprendere alcuni elementi della relazione del Professor Coccia
che a me francamente è sembrata di grande lucidità e una buonissima guida alla lettura sia della
struttura della città di Roma, dei suoi problemi, sia della lettura critica del Piano Regolatore, che
sono due cose che devono essere tenute molto ben legate. E poi riprendendo una citazione che
ho fatto in altre occasioni, io dividerei questa attenzione al problema dell’urbanistica del futuro per
Roma su tre livelli: partirei da una citazione, che è quella che le nazioni competono attraverso le
loro città. È una citazione antica, Patrick Geddes ai primi del ‘900, pronunciata al momento in cui
andava a visitare la competizione che c’era in atto tra le città, e una grande visita che faceva alle
città tedesche. Questo è il primo livello di attenzione del piano, cioè Roma ha un dovere di
competere sostanzialmente, perché capitale d’Italia, deve avere capacità competitiva nei confronti
del resto del mondo, tra le città capitali e non. E in fondo questo è un tema che secondo me
andrebbe sviluppato, dimensionato, capito, misurato, nel senso che la competizione non è un dato
astratto ma si può leggere, capire, misurare. E appunto, riprendendo la valutazione del Professor
Coccia, direi che la prima delle questioni è che non sarà un territorio equipotenziale che riesce ad
esprimere capacità competitive. E perciò introdotto il concetto di gerarchia e di scelta all’interno
della struttura possibile, delle strutture possibili, delle strutture di forma possibili per Roma, è un
dato decisivo, quando fa delle distinzioni e individua due grandi compendi e stabilisce alcune
regole all’interno di questi compendi per sceglierli, mi pare che faccia una cosa di grande
importanza, che consente di mettere ordine ad una delle questioni aperte dal nuovo Piano
Regolatore. All’interno del Piano Regolatore, ma gerarchizzare, sono questioni di grande forza.
Devo dire che l’ordine gerarchico, per come l’ho letto nella relazione Coccia, ma per come anche
francamente penso di poter leggere, indipendentemente guardando tutte le altre città, il primo
livello per scegliere la gerarchia, è che ci siano le relazioni con la mobilità di primo livello. Non
esiste una città che sia di primo rango se non ha un aeroporto internazionale. Le aree che possono
collocarsi all’interno dell’ordinamento gerarchico al primo livello sono quelle che hanno la
possibilità di essere contemporaneamente collegate con settori e reti, non dirò dedicate, ma
certamente fortemente organizzate in questo senso, alla grande rete ferroviaria, meglio se l’alta
velocità oggi, l’innovazione è certamente fondamentale, alla rete dei trasporti aerei, e naturalmente
il tutto dentro un sistema di relazioni metropolitane in sede propria. Quindi questo problema della
gerarchia è anche un grande ordinamento delle cose da fare, è anche una grande
temporalizzazione delle cose da fare, dove concentrare e concentrare investimenti e progetti, a
partire da questo imperativo, che è quello del competere attraverso le città, la forza delle città.
Calatrava ci ha mostrato immagini molto eloquenti del modo col quale le altre città del mondo si
attrezzano attorno a queste questioni di un’organizzazione della mobilità che diventa struttura della
città. Devo dire che qui ieri, non ripeterò nulla delle cose che abbiamo detto ieri, contando sul fatto
che quasi ci conosciamo, anche con coloro che sono intervenuti, per dire che probabilmente il
74
tema della pedonalizzazione, che è un elemento di fondamentale qualità, come è stato appunto
ben ricordato anche da Colleoni, all’interno di questa struttura gerarchica di primo livello, la
questione della pedonalità, la forma dell’organizzazione dello spazio attorno a una forte enfasi
sulla pedonalizzazione, può essere uno degli elementi distintivi, cogliere contemporaneamente
molte opportunità e molte fonti di grande caratterizzazione. Questo per il primo livello. Il secondo
livello è non una raccomandazione, neanche un suggerimento, diciamo una suggestione che vorrei
dare, bisognerebbe cominciare a lavorare intorno al concetto di manutenzione, perché una
manutenzione sub specie romana, naturalmente non una manutenzione astratta, ma una
manutenzione sub specie romana, perché un’eccessiva dispersione di valutazione intorno a
situazioni, fatti e così via eccetera, senza che ci sia un contenitore prima di tutto concettuale e di
atteggiamento di spirito, che le raggruppi all’interno di una grande categoria di azioni possibili, che
sono al tempo stesso fisiche e però anche sociali, che portano dentro al welfare
contemporaneamente all’azione sullo spazio, mi sembra una questione importante, sarà
prevalentemente per un lungo, lungo periodo di tempo una manutenzione straordinaria. E qui
volevo fare due piccole uscite che sembreranno, e forse sono, un po’ demagogiche, che però mi
pare che possano saldare alcune riflessioni intorno a questo concetto di manutenzione,
manutenzione che in realtà vuol dire avere cura diretta, manu-tenere insomma fatta direttamente.
È un concetto che sono più abituati a capire e coltivare quotidianamente le donne, forse
bisognerebbe ricorrere alla grande sapienza dell’aver cura, componendo anche nella discussione
un punto di vista francamente esperto e direi nato, o comunque culturalmente fondatissimo. Il
secondo aspetto della demagogia è che probabilmente a questo concetto di diffusione degli
interventi potrebbero essere dedicati veramente i giovani architetti, cioè è uno spazio in cui si
potrebbe imparare ad esercitare, non solo le speranze di fare le grandi, grandissime opere
internazionali, ma a recuperare criticamente e con grande entusiasmo quella che è la dimensione
fondamentale dell’architettura, cioè di essere un’attività sociale, nel senso dedicata a tutte le scale,
scendendo di qualsiasi scala. E su questo argomento io penso che dentro un dipartimento che
abbia naturalmente grande capacità di coordinamento, di suggestione eccetera, un grande settore
che dia una accezione specifica a partire dal confronto con i problemi romani eccetera, del
concetto di manutenzione, potrebbe fare qualche chiarezza intorno alle scale degli interventi, e
anche a distribuire risorse, perché quanto… Questo perché? Il dovere dell’ospite imporrebbe di
non dirlo, però quando ci si avvicina a Roma nel modo tradizionale, che è quello in automobile, nel
momento in cui si arriva sempre più vicino, quello che colpisce duramente è una certa aria di
sciatteria per così dire, che impedisce di dire, sono arrivato a Roma Questa idea delle green belt,
che è una questione di paesaggio, bisogna costruire paesaggi a partire dall’insieme delle scale, ed
è un esercizio secondo me didattico straordinario, e anche operativo, tecnico eccetera, al quale
dedicherei molte risorse, perché non si sa mai qual è il processo che innesca poi altri processi
virtuosi, se si ha la capacità per così dire un po’ di non sopportare una visione della propria città
che non sia all’altezza delle proprie aspettative, all’altezza delle proprie cose, questo innesta una
serie di processi che dopo pretendono che tutta la qualità venga trasferita a tutte le scale. Però se
non si comincia anche dalle piccole… se non si aggrediscono anche le piccole scale, temo che
l’esercizio resti un effetto di grande abbagliamento. L’abbagliamento è quella cosa per cui le cose
luccicano così tanto che in realtà accecano, cioè non si riesce poi a vedere le cose importanti. Il
terzo ed ultimo è quello della fascia intermedia, effettivamente ci sono cose che non possono
essere contenute all’interno della grande strategia della competizione internazionale, che deve
smuoversi con dinamiche, investimenti e naturalmente grandi opere, grandi immagini e così via
eccetera, è quella della manutenzione e ci sono tutte le fasi intermedie Concetti come
densificazione, progetti speciali eccetera, si possono e si debbono innescare. Rispetto alla
domanda del Sindaco, di che cosa si possa fare all’interno della densificazione, come immagine
fisica, io rinvierei a studi, cioè densificazione significa soltanto aumentare la densità di utilizzazione
dell’unità di spazio. Quindi il problema di come lo si realizza questa densificazione, che è
sicuramente un'operazione di grande utilità, per lo meno in alcuni contesti, è una questione di
scelta, cioè la casa alta piuttosto che la casa densa, piuttosto che grandi blocchi di tradizione
anche romana piuttosto che… che sono appunto una ricerca delle tipologie eloquenti o delle
tipologie adatte a un certo contesto per costruire un certo paesaggio. L’unica cosa che posso dire
della mia personale sensibilità, con tutti quanti i limiti che evidentemente ha una visione del tutto
personale, non amo le case alte, i grattacieli isolati, mi sembra che determinano un elemento di
fuori scala per sé e per gli altri, che mi mette sempre a disagio. Ci sono una serie di case alte
75
distribuite in Italia che demolirei volentieri, ma senza nessuna aggressività, che riterrei
un’operazione civile demolire, perché i grattacieli sono un gioco di squadra sostanzialmente e di
squadre molto grosse, o sono tanti o è meglio non farne proprio nessuno. Questa idea dell’esibirsi,
farsi vedere da lontano è una sciocchezza, ci si muove su altre scale, in un altro modo.
DE SANTOLI: chiudiamo questo primo incontro. Diamo appuntamento al pomeriggio, dove
completeremo il giro e dove daremo la palla per ulteriori incontri di suggestione. Grazie a tutti.
76
9 aprile 2010 - POMERIGGIO
COLAROSSI: il programma del pomeriggio: mancano i due interventi, di Cordeschi e di
Portoghesi; dopodiché ci sarà una breve conclusione della mattinata, del primo giro di interventi da
parte del Professor De Santoli, e poi farò io una brevissima introduzione alla seconda tornata. E
quindi io darei subito la parola a Stefano Cordeschi:
CORDESCHI: Buongiorno. Dicevo ieri che la città è un corpo unico, quindi non è possibile parlare
di centro e periferia come parti separate, ma questo è abbastanza ovvio, è strumentale questa
divisione. Quello che vorrei dire in più è che la periferia è qualcosa di profondamente legato al
centro, cioè la periferia è quella che noi abbiamo fatto, quindi quando diciamo che è brutta,
dobbiamo capire perché è brutta. L’abbiamo fatta noi brutta e c’è sempre comunque – siccome
sono un ottimista inguaribile – c’è sempre la possibilità di cambiarla. Tutte gli esperimenti che sono
stati fatti sulla periferia hanno avuto un motivo, cioè i grandi interventi del Primo Piano di Edilizia
Economica e Popolare seguivano un’idea, un’idea di città, sono stati fatti anche degli errori, non
sono riusciti a legarsi al tessuto, però c’era dietro un tentativo. Quindi ogni volta bisogna cercare di
capire cosa c’era dietro questo esperimento. È ovvio che gli elementi fondamentali sono la
vascolarizzazione dei tessuti, quindi portare il trasporto pubblico ovunque e – come si diceva prima
– non consumare più suolo. La campagna romana non è solo campagna, la campagna romana è
un monumento, cioè un valore culturale. La campagna romana non sono pratini verdi e boschetti,
la campagna romana è quella che Stendhal definitiva la più grande tragedia che sia mai stata
scritta. Cioè è un paesaggio drammatico dove i ruderi e gli alberi si confondono, o dove le forre e i
montarozzi stanno insieme a fare un paesaggio unico. Quindi, conservare questo territorio significa
conservare un valore, conservare un monumento, per quello è fondamentale, non è solo l’erba e
l’aria aperta. Per quello, dicevo in conferenza stampa, che rispetto alla critica che c’è troppo verde
dovremmo parlarne, perché i corridoi ecologici – cioè queste parti di campagna che vengono
conservate – secondo me hanno un ruolo. Al limite si può pensare sul bordo di questo sistema,
razionalizzarlo laddove questo verde è incluso in aree ormai decisamente destinate alla città. E
cosa fare nella periferia? Si è parlato di densificazione. Ora la densificazione è giustissima, per
certi versi noi seguitiamo a ragionare, a pensare alla città come se si dovesse ancora fare la città
futura, ma questa città futura probabilmente non serve più, cioè siamo rimasti con una idea – come
dire – che apparteneva al secolo scorso, l’idea che la città si deve sviluppare in queste forme.
Oggi, secondo me, dobbiamo stare dentro la risacca del cavallone, cioè l’onda è passata, torna
indietro sulla battigia e noi riguardiamo tutto quello che abbiamo fatto. È il momento giusto per…
densificare non significa occupare lotti residui, significa ripensare quello che abbiamo fatto e
migliorarlo. Questo prevede due tipi di attenzione nuova, notevole: una da parte delle
Amministrazioni, ovviamente, devono mettere in piedi gli strumenti perché questo avvenga; per i
progettisti, che devono lavorare su un testo già scritto e quindi devono avere attenzione e devono
saper trovare – in contesti anche apparentemente impossibili – i modi per migliorarlo. Prevede
anche una maggiore attenzione degli imprenditori, perché lavorare dentro questi tessuti significa
essere bravi imprenditori, significa tirare fuori il reddito da operazioni che non sono trasformare un
campo di grano in una città, cioè, forse non proprio del tutto, ma è molto più facile, no? Invece,
entrare nei tessuti, densificare, quindi riuscire a tenere in piedi un’operazione finanziaria dentro la
città è forse più difficile e prevede più programmazione, ma può dare anche più soddisfazioni,
perché un tessuto con già le infrastrutture, con l’urbanizzazione primaria e secondaria è molto più
appetibile di un campo di grano trasformato in città. Quindi, prevede una nuova attenzione verso la
città e questa è ecologia, al di là dei pannelli solari, al di là del consumo energetico. Io ci ho
provato e mi espongo. Ecco, qui vedete, ci sono tre interventi che vi faccio vedere molto
rapidamente che sono su due periferie molto diverse: il problema di Tor Bella Monaca, la
densificazione di Tor Bella Monaca. L’altro è Casale Nei, che sta dentro la centralità di Bufalotta ai margini della centralità – è un piano di zona e poi, invece, un progetto urbano a Magliana, che è
la demolizione e ricostruzione di un’area dismessa. Questa è Tor Bella Monaca: è uno degli ultimi
interventi del Primo Piano per l’Edilizia Economica e Popolare, è un progetto con potenti
infrastrutture, urbanizzato, fatto con dei criteri. Si voleva anche tirar fuori un’immagine di città, che
però non è uscita. Non è uscita perché la ripetitività dei tipi, l’immagine nel suo complesso non è
riuscita a dare quel effetto città che si auspicava. Peraltro ci sono tutti gli elementi che servono per
77
costruire un quartiere. Quando si parlava dei parcheggi – non mi ricordo chi lo diceva, che odiava i
parcheggi – ecco, guardate questo esempio: questa è Tor Bella Monaca, questi sono i famosi
parcheggi di standard, cioè quelli che gli architetti che hanno poca voglia di lavorare, invece di
diffonderli in giro cercando di portare le macchine sotto le case, fanno una grande superficie da
una parte. Ma quello che è divertente di questa immagine è che vedete che c’è un obelisco di
metallo, fatto da una giovane scultrice romana, che rappresenta in modo struggente un bisogno di
città che non c’è, ecco, questo è uno spazio pubblico. Quello che vi faccio vedere è una
densificazione fatta all’interno del progetto URBAN che sono fondi comunitari, che vengono
assegnati ai quartieri in difficoltà, ai quartieri che hanno problemi sociali, e che servono non solo
per realizzare spazi pubblici, ma anche per l’imprenditoria giovanile, per programmi culturali e
sviluppo, eccetera. Quindi è un programma complesso. Dentro questo programma noi ci siamo
occupati dei problemi urbanistici in parte, cioè abbiamo cercato - in qualche modo - di ridefinire i
vuoti e dargli un senso. La prima operazione che vi facciamo vedere è questa, è la perimetrazione
del grande spazio pubblico dove sta la chiesa di Spadolini, che era completamente senza forma e
si ramificava vicina a quella scuola, messa stranamente a 45 gradi come tutti gli edifici per servizi –
non si sa in base a quale criterio – per liberare quel parco che vedete sotto, cioè queste volumetrie
dovevano andare in quel parco. Quindi, questo esempio è un esempio chiaro di che cosa è il
diradamento e la densificazione: le casette piccole che vedete, sono case abusive. L’intervento di
Edilizia Economica e Popolare è quello sopra. Nelle zone abusive bisogna diradare, nelle zone
invece troppo vaste, piene di terre di nessuno, eccetera, bisogna densificare. Allora, le volumetrie
che prima stavano in quel parco sono state delocalizzate su un’area standard in eccesso, e sono
state posizionate in modo da perimetrare in parte questo nuovo spazio di una piazza che non è
mai stata piazza. Queste sono le case realizzate, fatte da un gruppo di imprenditori giovani che ci
avevano voglia di rischiare su questo quartiere non difficile, Tor Bella Monaca ha una fama, in
parte anche ingiustificata, di Bronx romano. Il motivo è che la logica per l’assegnazione degli
alloggi era fatta in base al disagio, ovvero, più disagi assommavi e più avevi diritto alla casa. È
chiaro che in questo caso si fanno delle bombe sociali, cioè se si mettono insieme tutte le persone
che hanno grandi problemi è chiaro che succede questo. Questo intervento non è solo un
intervento fisico di perimetrazione di un’area, ma è anche l’inserimento in questo tessuto sociale di
un popolo diverso, che acquista la sua casa, che tiene al suo giardino e che forse a contatto con i
vicini può creare una dinamica diversa, no? ovviamente non vi parlo dei progetti, perché qui gli
architetti sono tanti, per cui ci capiamo. Sono degli edifici tradizionali che dovevano, rispondono
perché dovevano rispondere alle regole del mercato, edilizia residenziale in una zona dove il
mercato non era straordinario, per cui abbiamo lavorato relativamente con pochi soldi dentro una
logica di mercato. La seconda operazione, sempre per perimetrare questo spazio, il nuovo Teatro
di Tor Bella Monaca. Scusate, credo che sforerò un pochino il tempo, ma… Il Teatro di Tor Bella
Monaca che è il nuovo Teatro di Tor Bella Monaca che abbiamo realizzato con 1 milione e mezzo
di euro – mi sembra che Fuksas parlava di 45? – con 1 milione e mezzo di euro questo teatro da
300 posti, che sostituiva un edificio polifunzionale, dove però già le avanguardie romane - non se
vi ricordate il Beat ‘72, Memè Perlini, tutte queste persone - avevano portato già spettacoli nella
periferia, quindi si era deciso in qualche modo di consolidare questa vocazione. All’inizio si voleva
fare pochissimo, io mi sono imposto per fare un vero e proprio teatro, l’abbiamo portato in fondo
con grande fatica, su incarico di Risorse RpR SpA e con il patrocinio dell’Amministrazione, ma lo
devo dire, grazie alla mia personale tenacia, altrimenti non ci sarebbe stato. E a quella di Michele
Placido che alla fine ci ha aiutato. Accanto al Teatro doveva nascere la nuova Caserma della
Polizia, che stava in una sede del tutto impropria, che purtroppo è rimasta sulla carta – con mio
dispiacere – perché è un progetto che ancora mi piace. Ecco, lo spazio che vedete sotto, invece,
che è uno sterminato parcheggio – è quello dell’obelisco – è stato diviso in due, perimetrato e reso
a dimensioni, come direbbe Krier, umane, con l’idea di far diventare una piazza lo spazio
antistante. Questa era è la situazione: vedete, uno spazio atroce, parcheggi uno dietro l’altro, c’è
uno spazio senza senso. Con quel obelisco là, che io ho preso per una promessa: significa che
c’era bisogno di città. E quindi noi abbiamo fatto un’operazione usando, vedete, delle tipologie che
sono delle tipologie, se volete, commerciali, quelle della palazzina che però ha una storia a Roma
non banale. Siamo riusciti a perimetrale questo spazio, adesso dovranno partire i lavori di
ristrutturazione della piazza e io credo che sia un’operazione che ha un senso. L’ultima operazione
in alto, invece, è la Casa dello Studente, con un accordo per cui questa veniva realizzata dai privati
e poi ceduta all’ADISU, insomma all’Università, ai limiti del comparto R5, comparto dove c’è un
78
livello di criminalità elevato, è l’unico punto di Roma dove la gente gira in motocicletta senza
casco, c’è quest’aria tipo Forcelle, insomma. Entrare nei cortili è pericoloso, vieni fermato, ti si
chiede che vuoi, perché stai lì, eccetera. Immettere in questo spazio trecento studenti universitari,
dotarli di una sala studio, di una sala computer, far capire a questi ragazzi che non esiste
solamente il crimine, ci è sembrato una cosa importante. Come importantissimo è stato il Teatro,
perché il Teatro, alla fine, ha attirato la curiosità di molti giovani della zona e alcuni, dediti prima
allo scippo, hanno scoperto di essere attori. Quindi sono state due operazioni molto importanti.
Questa è la Casa dello Studente finita, quella bianca che vedete sono le sale studio con la luce
dall’alto, il resto sono gli alloggi. Tutti gli edifici hanno degli accorgimenti bioclimatici di tipo passivo,
cioè soprattutto uno studio sulla ventilazione naturale, che abbiamo sempre fatto. Ultimo progetto,
quello che vedete in alto, sono ancora delle residenze con un centro per il trattamento dei ragazzi
autistici che è un problema gravissimo, perché fra i vari elementi di disagio di Tor Bella Monaca,
c’era anche quello. Era sul giornale di una settimana fa, quel ragazzo che si è buttato dal balcone.
Un dramma di questo genere, abbiamo capito il disagio terribile delle famiglie. Per cui questo
progetto che deve partire fra poco, sono tre edifici alti – non sono torri - che come opera a
scomputo forniscono alla comunità quello che vedete sotto che è un centro di trattamento,
rieducazione dei ragazzi autistici con un progetto interessante, fatto in collaborazione con degli
analisti sul cos’è lo spazio giusto per queste persone, insomma. Tor Bella Monaca, che è un
quartiere che ha una sua durezza, che ha un suo impatto, ha avuto questi apporti in più, cioè
queste densificazioni che sono servite a perimetrare gli spazi pubblici ma anche a dare più vita al
quartiere. Altra operazione, invece, in un altro piano di zona, a Casale Nei, vicino all’intervento
della centralità di Porta di Roma – che è quella in alto – è un’operazione simile di densificazione,
più semplice, però, perché erano già dei lotti edificabili, il paesaggio è quello di tante nostre
periferie. Tor Bella Monaca è più dura di questa. Questa è una zona più tranquilla, però in qualche
modo è anche più energica. Qui c’è solo un’edilizia diffusa di bassa qualità. Il mandato era quello
di innalzare la qualità del quartiere, chiesto proprio sulla carta, che è sempre imbarazzante per un
architetto perché sempre il dubbio, ce la faccio, non ce la faccio? Questo è il progetto: sono tre
edifici che chiudono gli ultimi lotti residui del quartiere, li perimetrano e danno un senso agli spazi
verdi interni. Il mio modello era quello dei communal garden londinesi, cioè dove il verde è un
verde privato che però godono tutti. Questa è la realizzazione del blocco quello grande, di quella
parte di poligono. Questa durezza da fortilizio è un po’ voluta per un discorso lungo che non faccio
per annoiarvi. Questi sono dei particolari, questo invece è l’interno che è uno spazio molto più
domestico, dove affacciano gli appartamenti piccoli, le cucine delle case, su un grande parco che
oggi è pieno d’alberi – adesso vedete vuoto – dove la vita della famiglia si svolge in modo più
tranquillo. Queste case, che all’inizio hanno sgomentato un po’ perché non c’erano abituati, hanno
però praticamente distrutto il mercato intorno perché si sono tutti comprati queste e non quelle
fatte di fronte, che sono rimaste ancora là e hanno ancora i cartelli appesi. Quindi riteniamo che,
insomma, questa operazione sia stata alla fine valida. Ecco, questa è un’immagine del Lotto Z più
il Lotto H dove vedete che la nostra idea era di costruire un pezzetto di città, una città decente, una
città più vivibile, con delle case decorose, con degli alberi, eccetera, e chi ha dovuta usarla ha
molto apprezzato questo discorso. Ultima cosa che vi faccio vedere. Ecco, invece a Magliana –
siamo all’Eur – questo… si è parlato prima della chiusura dell’anello con l’allaccio a Via Isacco
Newton… questo è un progetto urbano che paga in qualche modo l’allaccio a Via Isacco Newton.
Questa è l’area, è un’area dismessa, con un vecchio capannone sopra, molto degradata, in fondo
vedete il Palazzo della Civiltà Italiana dell’Eur. Questo è l’unico caso di articolo 11, di progetto
urbano assegnato per concorso. È stata un’iniziativa pubblico-privato, cioè i promotori e
l’Amministrazione, vista la delicatezza del punto, perché è l’arrivo della Roma-Fiumicino, hanno
deciso di fare un concorso e non farlo procedere all’assegnazione. Hanno invitato dieci gruppi
piuttosto forti, noi abbiamo vinto con questo progetto: vedete la localizzazione che è un progetto
che con i suoi oneri a scomputo serve a completare la viabilità, l’allaccio con l’Isacco Newton, ecc.
È, credo, interessante perché è un centro commerciale più un albergo, più dei servizi privati, quindi
non c’è residenza, ed è un tentativo – non mi risulta che ce ne siano altri – di integrare un grosso
centro commerciale con un piazza pubblica, ovvero fare in modo che l’operazione produca anche
dello spazio pubblico e che il centro commerciale non sia uno scatolone in mezzo a una pianura,
ma sia uno spazio che in qualche modo partecipe della città. Ecco, vedete questi modelli: sono
due lastre – una verticale, una orizzontale - c’è uno spazio pubblico e un nuovo parco,
recuperando una zona verde alle spalle, saltando la ferrovia con un sistema di scavalco anche
79
ciclabile, e quindi fare in modo che il centro commerciale con il centro convegni e l’albergo, sia uno
spazio che vive nella città, che non sia da solo. Quindi alla domanda: Si possono fare centri
commerciali integrati con la città? La nostra risposta è sì. Ecco, questa è un’immagine da Via della
Magliana Nuova. È ovvio che il confronto con le emergenze dell’Eur, monumentali, Palazzo della
Civiltà Italiana e la chiesa, era fondamentale. Per cui vedete che i riferimenti all’architettura
monumentale dell’Eur sono abbastanza chiari, sono nella perentorietà della forma e anche su quel
leggero senso di fuori scala che è tipico dell’Eur, però vedete che l’attacco a terra è sospeso, cioè
è un edificio che ha – come dire –la potenza di quegli altri, ma il qualche modo la leggerezza e
l’incapacità di toccare terra di un edificio contemporaneo. Vi ringrazio.
COLAROSSI: Grazie a Stefano Cordeschi perché hai semplificato e proposto una discussione,
una possibile modalità di densificazione. Credo che emerga subito una questione importante: che
una denominazione, densificazione poi va declinata nei modi diversi che vengono consentiti o
richiesti dalle situazioni di contesto. E questo è anche forse uno degli elementi di riflessione.
Adesso do la parola al Professor Paolo Portoghesi.
PORTOGHESI: Nel proporre, come ho già fatto, un sistema di piazze o meglio di nuove centralità,
avevo molti dubbi – devo dire – perché sulle possibilità di fare una piazza moderna si sono
espressi in più occasioni sociologi, esperti del modo di vita attuale. Inizio con una citazione di
Abruzzese di qualche anno: il metaterritorio delle comunicazioni di massa e più in generale dei
consumi e delle mode, interviene, anzi è da tempo intervenuto, sulla morfologia urbana, nel senso
che è intervenuto sui modelli e modi di percezione del territorio. Proprio questo processo di
mediatizzazione è stata una delle cause principali della crisi storica della piazza disgregata, o
meglio, destrutturata dalla dimensione domestica della piazza elettronica. Ecco qui si inserisce un
dubbio drammatico, se abbia un senso riproporre un modello come quello della piazza che è nato
in condizioni sociali completamente diverse. Ma lo stesso Abruzzese poi dice: Dall’altro lato, il
nesso, per così dire, corporale oltre che sociale, che si è andato stabilendo tra bisogni e tecnologie
elettroniche, può fornire strumenti adeguati alla ricostituzione in loco delle piazze o ad una loro
nuova fondazione. Ecco, quindi che già in una visione sociologica esiste il dubbio, ma non la
premessa totalmente negativa. E si individuano due alternative: ricostituzione in loco o una loro
nuova fondazione. Ecco, l’intervento che mi ha preceduto di Cordeschi, è un intervento che accetta
la occasionalità dell’intervento nel tessuto urbano, cioè accetta che il destino dell’architetto è quasi
sempre quello di intervenire in una situazione già compromessa, che attraverso il suo lavoro può
migliorare. Io aggiungerei, può migliorare, ma non riscattare dalle sue sostanziali incapacità di
cambiare il modo di sviluppo della città. Ecco, questo convegno ha un titolo molto coraggioso,
“Nuovi modelli di trasformazione urbana”, quindi si tratta di trasformare la città e di individuare
nuovi modelli di trasformazione. Ecco, io credo che questo - anzi fondamentale - nuovo modello di
trasformazione sia il fatto di costruire pezzi di città integrati, /informati/ alla sostenibilità e che
abbiano al loro centro questo spazio tipico di scambio, di colloquio, di… quello che insomma lo
stesso Abruzzese aveva chiamato tanti anni fa “il luogo degli sguardi”. Effettivamente, se voi
riflettete, la piazza è il luogo dove ci si guarda, dove c’è una sosta – rispetto al percorso – e nasce
l’occasione per l’incontro, lo scambio, lo sguardo… ecco, si dirama… adesso, questa è una
funzione che compie il supermercato: no, non è vero, assolutamente. La merce che è esposta nel
supermercato rende molto difficile l’incontro e lo scambio, e lo sguardo è tutto concentrato verso le
merci. Allora, vi mostro una serie di immagini per introdurre il discorso. Questa è Roma prima di
Roma. Voi sapete tutti che c’erano i pagi, c’erano cioè dei villaggi, piccoli villaggi che insistevano
soprattutto sopra i sette Colli ed erano una realtà assolutamente frammentata, unificata solo dal
valore che aveva assunto il passaggio del Tevere in corrispondenza dell’Isola Tiberina. Ecco,
Roma prima di Roma era caratterizzata da questa enorme palude del Velabro che occupava una
parte centrale tra il Palatino e il Campidoglio. Poi, in asse più o meno con il Campidoglio, tra le due
montuosità del Campidoglio vero e proprio e dell’asilo, nasce una struttura di incontro e di
scambio, il Foro, che ha, sì, un modello greco nell’agorà, ma che rapidamente conquista anche
una sua autonomia. La realizzazione del Foro coincide con la unificazione della città, cioè i pagi, a
un certo punto, diventano parti di una città, si creano le condizioni per la vita urbana. La struttura di
Roma è una struttura centrale, una struttura irraggiante fin da principio e che in epoca augustea
viene interpretata. C’è un passo di Plinio, che ha destato mille interpretazioni diverse, in cui si parla
di questo nome e di questa forma nascosta, segreta, della città. Probabilmente Augusto ha cercato
di evidenziare questa forma segreta attraverso un sistema stellare, che poi è passato alla storia
80
come sidus Augusti, cioè stella di Augusto, e un nostro caro scomparso collega, Lugli, aveva
dedicato una parte della sua vita a interpretare questo passo misterioso, ricostruendo quella che
era la forma nascosta della città. Qui vedete un esempio: spiegarvelo richiederebbe troppo tempo.
Questo serve soprattutto ad indicare questa straordinaria qualità di Roma di essere rivolta verso
l’esterno, quasi in modo aggressivo, che poi si è realizzato nell’Impero. Ecco, il Foro è stato il
centro spirituale e sociale della città per molti secoli; poi la città si è frammentata, il Foro ha perso
la sua funzione. Quando gli Italiani hanno ereditato la città pontificia, avrebbero potuto scegliere –
come suggeriva Sella – di costruire una città nuova accanto a quella antica, invece scelsero di
circondare la città, occupando soprattutto quelle Ville che erano state la ragione dello splendore
della città, e soprattutto anche della sanità dell’area urbana rispetto ai dintorni della città, che erano
ancora oppressi dalla malaria. Ecco, però al posto delle Ville si realizzò, gradualmente, una corona
di piazze che quindi in qualche modo ribaltavano la città storica, sia pure meccanicamente, e devo
dire che questo sistema ha funzionato abbastanza. L’ho già detto, questa corona di piazze ha una
forte identità ed innerva quella immediata periferia del centro storico che oggi consideriamo centro
storico anch’esso, perché insomma, in un certo senso ha conquistato questa dignità di tessuto
urbano a pieno titolo. E devo dire che l’architettura moderna ha dato un contributo forte
all’identificazione di questi spazi. Basta pensare a Mario Ridolfi che ha costruito l’edificio delle
Poste di Piazza Bologna. Ecco, noi invece siamo stati testimoni di un fenomeno di crescita della
città in cui, ogni tanto, appaiono in netto contrasto alcune firme di architetti che hanno, in qualche
modo inconsapevolmente, ripreso il tema della piazza, privatizzandolo. Qui vedete, per esempio,
questi cerchi, forse addirittura disegnati da /Noidre/, ma io non credo, in genere analizzando il
tessuto che circonda… il tessuto della seconda periferia, vediamo questi strani segni
profondamente diversi da tutto il resto. Sono gli interventi della mano pubblica, la quale
ovviamente vuole distinguersi e lo fa scegliendo in un certo senso la qualità, tuttavia questa qualità
urbanistica appare assai immotivata. Generalmente questi quartieri assolvono soprattutto il
compito di differenziarsi, introducendo un tema che è tipico dell’arte e della cultura
contemporanea, quello di lavorare per differenza, cioè la cosa più importante è fare qualcosa che
non è stato già fatto e che, addirittura, è il rovescio di quello che è stato fatto. Allora, se prima le
piazze servivano agli incontri, agli scambi delle persone, adesso invece servono come corti
ingrandite a celebrare una teorica comunità di persone unite dalla stessa condizione residenziale.
Qui vedete il tessuto, in un certo senso tradizionale della città costruita dalla speculazione edilizia
che segue la logica ippodamea, e poi vediamo un segno d’autore, questo quartiere che vedete
sulla sinistra in basso, è stato disegnato da uno dei più grandi urbanisti italiani, Ludovico Quaroni.
Naturalmente Quaroni aveva disegnato non soltanto queste case disposte a raggiera - che sono la
parte dormitorio del quartiere – ma anche dei servizi che poi non sono stati realizzati o realizzati
solo in piccolissima parte. Ecco, qui abbiamo altri esempi di questa sostituzione della logica
urbana con una logica individualistica, personale, a cui fa eccezione l’episodio dell’Eur, non per
niente si dice che l’unica parte di Roma moderna sarebbe l’Eur, anche se poi per tanti aspetti
questo complesso è in contraddizione con la modernità. E però ha una vitalità che gli deriva dal
rapporto con la città storica, dalla volontà di articolarsi attraverso due modelli fondamentali dello
sviluppo urbano, soprattutto ottocentesco, la strada e la piazza e l’interrelazione tra questi due
elementi. Ecco, oggi la città è quello che abbiamo visto in tante discussioni, è una città con una
densità bassissima, che si sviluppa nel territorio come una piovra attorno alle strade consolari.
Qualche braccio della piovra si dimostra più vorace degli altri e quindi… ce n’è uno che sta per
raggiungere il mare. C’è stato un tentativo di interpretazione di questo modello, creando una
specie di sbarramento verso est, che è stato l’asse attrezzato, che non si è realizzato. Oggi, c’è
questa realtà, questo, per esempio, l’anello del ferro che costituisce una delle premesse per la
riorganizzazione della città come corpo integrale, fatto di un centro e di una serie di zone che
mano a mano che si allontano dal centro diventano sempre più diffuse, sempre più disorganizzate,
sempre più caotiche. Esiste una possibilità di contrapporsi al caos urbano che è quello di negarlo,
in un certo senso, almeno provvisoriamente. È un atteggiamento che ha un margine di utopia, ma
anche un forte margine di carattere realistico. Ecco, non sto ad illustrarvi perché occuperei troppo
tempo, questa è un’analisi dei tessuti morfologici. Questo meraviglioso cuneo verde, sì, fu pensato
da Piacentini ma se noi lo vediamo esistente, sia pure attanagliato da tutte le parti, è merito di
Cederna. È merito di Antonio Cederna a cui un giorno ho attribuito il titolo di massimo architetto
moderno, massimo architetto moderno vissuto nel secolo XX. Ha fatto delle battaglie, delle smorfie
tremende, la faccia di Cederna noi la ricordiamo come una persona in lotta contro il mondo. È lui
81
che ci ha salvato questo tesoro. Ecco quindi da dove si può ripartire, da delle decisioni forti, da
delle decisioni che non accettano le condizioni realistiche dell’intervento, ma scelgono soluzioni
alternative. E insisto, la piazza rimane uno degli elementi fondamentali. Mi sono divertito a
contrapporre a questa immagine di piazza, che è una delle più note nel mondo, una piazza in cui –
come vedete – ci sono inseriti due edifici moderni: uno è quello costruito da Ridolfi a Terni e l’altro
è la famosa Casa del Fascio di Terragni. Sono due edifici su cui si può costruire una architettura
italiana che riesca a superare i limiti della modernità e della contemporaneità, perché accontentarsi
della contemporaneità vuol dire rinunciare a far sì che ogni generazione possa riscrivere la storia a
modo suo. Ecco, questi due edifici che fanno tesoro dell’insegnamento della storia,
dell’insegnamento dell’architettura italiana. Ecco, io vi mostro solo alcune immagini in cui ho
cercato, senza riuscirci, di proseguire quel discorso. Questo era un progetto per la Città della
Scienza, quando si pensava di utilizzare il Mattatoio per una struttura fortemente unitaria, non di
dividerlo in diverse funzioni o di trasformarlo in un pezzo di Università, che poi ha tanti altri pezzi
disseminati altrove. A Roma ci sono delle collezioni scientifiche importantissime che si era pensato
di riunire in una struttura, e poi non lo si è fatto. Ecco, un altro tentativo di costruire un’alternativa al
tessuto, rispettandone però le valenze, è rimasto sulla carta, purtroppo, per ragioni di diritti civici
del Comune di Frascati, perché in fondo questo territorio grandissimo di Roma non è totalmente
libero, ci sono perfino dei diritti civici di alcuni paesi vicini.
Questa è un’altra indicazione per Roma nella frazione di Pietralata, in cui si cercava di unire lo
sviluppo in altezza alla scala umana. Questo è uno dei pochi esempi di cose che sono riuscito a
fare a Roma: è una piazza, ma è una piazza residenziale in cui non abbiamo potuto mettere
nemmeno un negozio, quindi è ancora un’idea della privatizzazione. Ho cercato di portarmi dietro
delle eco delle piazze storiche, di questa piazza che stamattina è stata esaltata come uno
straordinario esempio di cultura urbana, questa Piazza Sant’Ignazio, di cui io ho cercato di
riproporre questa cordialità e nello stesso tempo il colore. Ecco, io non credo che a Roma si possa
lavorare senza tenere conto della forza del colore e della materia. È una città con un forte impianto
materico e che ha bisogno del colore. Ecco, quindi insisto, secondo me sono venuti una serie di
rafforzamenti all’ipotesi, perché queste nuove centralità che sorgono intorno a delle piazze
occuperanno, sì, delle porzioni del territorio, ma ce ne sono tante interstiziali che non sono Agro
Romano, che non hanno alcuna valenza di carattere agricolo o paesaggistico, che propongono
magari non dei contorni geometricamente precisi, ma dei contorni irregolari, e che sarebbero una
straordinaria occasione di sfida per la cultura architettonica. Io proporrei che venissero fatti dei
concorsi per queste piazze e che queste piazze non fossero disegnate da un’unica mano, in fondo,
sono pochissime le piazze disegnate da un’unica mano a Roma. In definitiva, anche la Piazza del
Campidoglio non è opera solo di Michelangelo, ma anche di Giacomo Della Porta e Carlo Rainaldi,
e tanti altri. Perché questo? Perché, secondo me è essenziale che questa ricchezza straordinaria,
che sono le migliaia di architetti che vivono a Roma, siano utilizzate in modo particolare le giovani
generazioni. E gli si deve dare l’occasione di gareggiare tra loro per formare la scena urbana, la
scena della vita della città. Questo non può avvenire con le attuali regole, quindi mi rivolgo al
Sindaco perché solleciti, non so se l’abrogazione o la trasformazione della legge Merloni o
l’individuazione di formule di concorso che non richiedano per partecipare le dichiarazioni dei
redditi, il numero dei dipendenti… (applausi). Ecco, secondo me, veramente, uno dei grandi temi è
quello di conciliare l’architettura con la democrazia. La democrazia dovrebbe aver messo in crisi
completamente la nostra disciplina, invece solo raramente gli architetti si occupano di questo tema.
Io ricordo Mario Ridolfi che era uno che se lo poneva e se lo poneva drammaticamente, questo
problema. E questo problema rende necessario che ci siano gli strumenti di accesso, soprattutto
per i giovani, alla progettazione della città indipendentemente da quelle che sono le caratteristiche
del mondo professionale. Certo, oggi la progettazione di un edificio complesso richiede una
struttura organizzata, comprende una straordinaria responsabilità. Ma dei concorsi che consentano
a tutti gli architetti di partecipare e di suggerire delle idee che possono essere poi realizzati da
strutture che hanno le competenze necessarie per farlo con ogni garanzia. Quello che è essenziale
è che ci sia la libertà per tutti di contribuire a questa grande costruzione collettiva che è la città, la
quale ha un grande bisogno di coralità. Vorrei concludere leggendo un pezzo di una elegia duinese
di Rilke: Angelo!: Ma ci sarà una piazza, che noi non conosciamo, dove, su tappeto indicibile, gli
innamorati che qui non arrivano mai all’adempimento, potranno mostrare le alte, ardite figure dello
slancio del cuore, le loro torri di gioia, le scale che da tanto, dove sempre mancava terreno.
S’appoggiavano soltanto l’una all’altra tremanti. Oh, poterlo dinanzi a innumerevoli taciti morti
82
spettatori d’intorno, le getterebbero allora le loro ultime monete sempre risparmiate, sempre
nascoste, che noi non conosciamo, le monete sempre valide della felicità, alla coppia che sorride
finalmente davvero sul tappeto placato.
COLAROSSI: Io ringrazio il Professor Paolo Portoghesi per questo appassionato racconto sul
declino e sulla scomparsa della forma urbana, letti attraverso il declino e la scomparsa della
piazza. Credo con un’apertura in termini positivi e cioè con una prospettiva: ripartiamo dalle
piazze. Io colgo questo messaggio da quanto dettoci dal Professor Portoghesi. Terminato il ciclo
dei primi interventi io do adesso la parola al Professor De Santoli che farà una sintesi conclusiva di
questo primo ciclo.
DE SANTOLI: Come potete immaginare è molto complicato cercare di sintetizzare tutto quello che
è stato detto in questo primo giro di tavolo. Intanto, ringrazio tutti anche per la straordinaria
attenzione dell’uditorio, ore e ore passate così con la sindrome di Stendhal che incombe perché tra
le immagini, i suoni, le parole, le poesie, la nostra attenzione è stata messa a dura prova.
Calatrava stamattina ha detto molte cose importanti. Io avrei enucleato due aspetti: l’importanza di
prevedere le infrastrutture a partire dalla mobilità, soprattutto nelle zone periferiche, e la grande
rilevanza anche simbolica – oltreché funzionale, ovviamente – di un intervento in periferia per la
ricostruzione di una identità.
Peter Calthorpe ha parlato tanto e ha parlato molto bene, sia ieri che oggi, del connubio tra
pianificazione urbana e pianificazione energetica. Ma sia la pianificazione energetica che la
pianificazione urbana devono trovare nuove modalità di espressione.E il campo d’azione
ovviamente principale è proprio quello delle periferie.
Krier ha parlato, come l’ha chiamata lui, della “scala umana” che prevede scelte di un certo tipo, il
che non obbligatoriamente costringe a fare cose piccole, mi sembra di capire. Quindi, il tema non è
tanto nella dimensione, ma nel recupero della scala umana.
Renzo Piano ha fatto capire che effettivamente spesso e volentieri tante periferie, pezzi di
periferie, si trovano dappertutto e la città ingloba, introietta questi pezzi di periferia lasciandoli così,
intatti. Probabilmente l’operazione da fare è proprio un’operazione di riaccorpamento,
riqualificazione, maturazione, per dirla con le parole che sono state dette ieri, prese a prestito da
Giovannoni.
Interessante è la sua visione sulla simbologia pesante del grattacielo.
Richard Meier, invece, in contraltare - come se fosse effettivamente fatto apposta – ha parlato dei
grattacieli. Il progetto si deve inserire nella città come un elemento nuovo, nel rispetto delle
caratteristiche del tessuto urbano.
Fuksas ha ripreso un concetto molto importante, importantissimo, che è quello dell’attenzione ad
assegnare alla gestione del processo edilizio il giusto ruolo. E quindi, controllo dei tempi e controllo
dei costi a partire dal committente, dall’Amministrazione.
Franco Karrer tra le tante cose che ha detto - a parte il concetto di gentrification che ha accolto la
particolare attenzione di Renzo Piano – ha cosa affrontato un argomento molto interessante: il
discorso delle reti, dei flussi e delle reti. Probabilmente un nuovo approccio per un modello di città
dovrebbe passare almeno per l’analisi di una città di rete, fatta da maglie e da nodi.
Colleoni prima e Martinelli dopo, hanno fatto riferimento al processo importante di partecipazione.
Devo dire che il rispetto del principio della progettazione partecipativa garantisce anche il senso di
appartenenza e di gradimento da parte dei cittadini, oltreché degli amministratori. C’è un esempio
importantissimo che è Grenelle, nella Francia di Sarkozy. Il documento più importante che è stato
prodotto in questi ultimi anni riguarda il piano ambientale, prodotto attraverso una lunga opera di
grossa partecipazione: Grenelle era una famosa strada del ’68 dove cominciarono i primi dibattiti
con i Comuni.
Quindi, da questo punto di vista l’Università si candida per dare un supporto all’Amministrazione,
nel senso di coordinare in qualche modo questa partecipazione.
Dolcetta ancora ha ribadito il problema delle reti e naturalmente il problema della manutenzione
urbana e la pedonalizzazione.
83
Cordeschi, attraverso i suoi interventi, ha in qualche modo ribadito quello che teoricamente aveva
detto ieri: un mix di approcci, sia bottom-up, dal basso verso l’alto, che top-down, dall’alto verso il
basso, dove la programmazione potrebbe anche essere vista dall’alto verso il basso, ma la
risposta e l’offerta naturalmente no.
Molto poetica la visione di Portoghesi della Piazza vista come luogo di scambio.
Quindi, per concludere, , da tutte le cose che sono state dette per un modello di città nuovo
l’approccio mi sembra di tipo olistico. Gli argomenti sono tanti, c’è l’economia, c’è il sistema
produttivo, c’è l’ambiente, c’è la mobilità, c’è la governance, c’è lo stile di vita dei cittadini, c’è
l’energia. Forse la sintesi, che bisogna comunque trovare tra tutti questi argomenti, potrebbe
essere garantita dall’analisi concreta di un sistema a rete. La piazza in realtà – se ci pensate – non
è altro che un nodo di una rete, potrebbe essere il nodo di una rete. E quindi considerare ogni
funzione come servizio disponibile per ogni cittadino che può connettersi in rete, così come si fa
con Internet, on demand, in contrapposizione al sistema gerarchico verticale. Grazie.
COLAROSSI: Allora: secondo giro, o meglio, il secondo giro e poi conclusione. Io adesso farò una
brevissima ricapitolazione di alcune delle questioni che sono emerse questa mattina soprattutto
dalle relazioni dell’Assessore Ghera e del Professor Coccia e da alcune cose dette poi – subito
dopo – dal Sindaco. Cinque, sei minuti, non di più. Ma è soltanto come promemoria per il secondo
giro di interventi per i nostri relatori, se vogliono porre attenzione su queste cose. Poi darò la
parola per un secondo giro, appunto, ai relatori: non avrete a disposizione più di dieci minuti a
testa. Ecco, quindi qui vi prego di mantenervi nei termini. Forse sforando un po’ arriveremo un po’
oltre le cinque e mezzo, e poi dopo ci saranno le conclusioni del Sindaco.
COLAROSSI: Credo sia utile, per il dibattito, riassumere le principali questioni ed idee emerse nel
workshop fino a questo momento, con particolare riferimento alle relazioni degli Assessori Corsini
e Ghera e dei Direttori Ing. Stravato e prof. Coccia.
Tento di darne una sintesi: che come tutte le sintesi, sono frutto di un lavoro di selezione e
interpretazione.
Per ognuna delle due giornate, mi sembra di poter evidenziare tre grandi questioni, con le relative
problematiche che da quelle si generano, e tre condizioni necessarie comunque da soddisfare, per
ottenere i risultati di qualità urbana che ci si attende dagli interventi.
I nodi problematici emersi dalla prima giornata (tema: “Città storica: le aree dismesse come
provocazione di sviluppo”) possono essere ben riassunti, citando l’intervento del Sindaco, da uno
slogan, “una Città nuova dentro la Città vecchia”, che riassume il problema: la nuova situazione di
disponibilità, per l’Amministrazione Comunale, di una rilevante quantità di aree ed edifici dismessi
o dismettibili di proprietà demaniale, localizzati anche nella città storica, ma, che a seguito dei
provvedimenti legislativi di “federalismo demaniale”
(L. 42/2009), potranno passare nella proprietà comunale. Come armonizzare i nuovi possibili
interventi (la Città nuova) con gli straordinari, unici valori della Roma storica (la Città vecchia)?
Ecco allora le tre grandi questioni: quali processi per l’attuazione degli interventi, quali priorità,
quali contenuti. Tre grandi questioni che sono anche tra loro fortemente correlate.
I processi: occorre anzitutto individuare adatte procedure, metodi e strumenti per gli interventi; che
accolgano anche un adeguato spazio per la concertazione e la partecipazione. Con l’obbiettivo di
ottenere risultati di alta qualità urbana anche dal punto di vista sociale.
Le priorità sono di due tipi: quale priorità tra le diverse aree e i diversi interventi possibili, e quali
priorità all’interno delle singole aree di intervento.
Per le priorità tra aree, ne sono da registrare alcune che l’Amministrazione propone: i sistemi di
interventi del Polo congressuale dell’EUR, dell’Area Culturale di Via Petroselli, del Waterfront di
Ostia e del Parco Fluviale delle Olimpiadi.
84
Quanto alle priorità interne alle aree, queste dovranno essere individuate sulla base del confronto
tra obiettivi degli interventi, opportunità dell’offerta e migliori condizioni per avviare prima e
sviluppare poi l’attuazione dell’intervento.
I contenuti sono sia di natura funzionale che morfologica. I contenuti funzionali sono
evidentemente collegati alla questione delle priorità, ma ancora una volta si pone il tema della
qualità urbana: quali attività, quali attrezzature per rafforzare e migliorare le immagini e gli usi, e in
definitiva l’attrattività anche internazionale della città storica.
Quanto all’Immagine della città storica alla sua definizione concorrerà inevitabilmente, e in modo
determinate, la delicatissima questione dei contenuti morfologici degli interventi. Questione che si
divide tra i due estremi: dal punto di vista delle relazioni urbane degli interventi con il contesto
immediato, che possono essere definiti l’uno degli innesti, o intarsi (interventi caratterizzati da forti
correlazioni con il contesto), e l’altro delle inclusioni o incastonamenti (interventi che si pongono in
relazione di discontinuità con il contesto). E ancora, per quanto riguarda il linguaggio
architettonico, tra gli estremi del mimetismo e quello della discontinuità. Con tutte le possibili
posizioni e soluzioni intermedie tra i due estremi.
Ma le questioni relative a processi, priorità e contenuti possono essere affrontate e se ne possono
proporre soluzioni solo se prioritariamente e parallelamente siano soddisfatte tre condizioni
necessarie per le migliori qualità urbane degli interventi: condizioni di accessibilità e parcheggi, di
attenta valutazione degli effetti urbanistici sull’intorno degli stessi interventi, e predisposizione, da
parte dell’Amministrazione, di regole, linee-guida e indirizzi progettuali, insomma strumenti, anche
di gestione e coordinamento degli interventi, che possano guidare i progetti e gli interventi verso i
migliori livelli di qualità ambientale ed estetica.
Nella seconda giornata (tema: “Periferie: dall’espansione alla ricostruzione dell’identità”) le tre
grandi questioni, che possono anche essere intese come obbiettivi strategici per l’assetto urbano
futuro delle aree periferiche della città, sono collocabili in tre categorie generali di componenti
urbane: le centralità urbane, i quartieri e la rete verde. Tre categorie di componenti che, a ben
guardare, rappresentano le tre categorie di luoghi necessari alla qualità urbana, o per meglio dire,
alla qualità dell’abitare che può essere concepita nelle quattro articolazioni: delle qualità
ambientali, delle qualità funzionali ed economiche, delle qualità sociali e delle qualità estetiche.
L’obbiettivo strategico della costruzione di centralità urbane (ma sarebbe meglio definirla come
questione della costruzione di centri città nella periferia) si può proporre in termini di tre
problematiche: localizzazione e priorità, contenuti, processi di costruzione del centro città.
La localizzazione e le priorità: per funzionare effettivamente come centri città, le localizzazioni
necessitano di una verifica in relazione alle parti di città da servire; rispetto, cioè, a quali ambiti
urbani e come la centralità può effettivamente svolgere il ruolo di centro città. Anche in questo caso
vanno registrate le priorità proposte dall’Amministrazione, che individua due direttrici primarie:
quella della Via Palmiro Togliatti e quella della ferrovia Roma – Ostia.
I contenuti: funzionali e morfologici. Vale a dire: quale modelli di centri città?
Centri città che nello tesso tempo siano in grado, all’interno di un impianto a tessuto, di accogliere
un mix di funzioni, sia di piccole dimensioni, adatte ad essere distribuite nel tessuto, sia di grandi
dimensioni, ma inserite nel disegno urbano complessivo del centro. Tessuti con attività commerciali
diffuse e distribuite a formare centri commerciali naturali, contribuendo così alla forma e alla vitalità
dei nuovi centri città. Centri città che per la loro localizzazione e caratteristiche di contesto urbano
esistente possano permettere interventi di demolizione e ricostruzione con densificazioni edilizie e
intensificazioni di qualità urbane.
O centralità urbane caratterizzate da attività commerciali di grandi dimensioni e da attrezzature di
grandi dimensioni, sostanzialmente separate e isolate dai quartieri circostanti.
Processi di formazione: come introdurre la dimensione temporale (i tempi di costruzione della città)
nel progetto e nel processo di costruzione di un centro città; e quali modalità di governance e di
individuazione delle priorità negli interventi per avviare il processo e rendere attrattivo fin da subito
il centro città.
85
I quartieri sono il luogo del radicamento delle vite quotidiane degli abitanti. È, questo del
radicamento degli abitanti al loro quartiere, forse uno degli aspetti che caratterizzano la periferia
romana. Per questo, il miglioramento delle condizioni dell’abitare nei quartieri esistenti può essere
ritenuto uno degli obiettivi strategici per l’assetto futuro della periferia della città. Miglioramento che
può essere ottenuto potenziando e migliorando la funzionalità e l’estetica dei luoghi più importanti
dei quartieri: i centri di quartiere, con i loro spazi pubblici, in particolare con la costruzione o
l’adeguamento di piazze, passeggiate e giardini, e la dotazione di attrezzature e servizi, anche, e
anzi auspicabilmente quando possibile, di scala superiore a quella del quartiere.
Il miglioramento della qualità degli spazi pubblici del quartiere comporta il riassetto della mobilità
interna del quartiere stesso. Privilegiando, dove possibile, l’incremento della mobilità dolce:
pedonale e ciclabile, ma, per quest’ultima, in particolare quella utile agli spostamenti quotidiani.
Possono contribuire al miglioramento dell’assetto funzionale ed estetico dei quartieri esistenti
anche operazioni di demolizione e ricostruzione con densificazioni e intensificazioni.
E non poteva non porsi, a questo proposito, la questione della contrapposizione tra densificazione
di tessuto in compattezza, e quella in altezza. Vale a dire, in termini banali ma chiari, la
contrapposizione tra tessuto compatto e grattacieli. Si possono fare grattacieli a Roma? Perché si
o perché no? Il dibattito è, ovviamente, aperto.
Un problema a parte è quello poi dei nuclei residenziali radi, che sono classificati sotto la generica
definizione di Toponimi e interessati da operazioni di recupero con la partecipazione, anche
economica degli abitanti. Per questi nuclei, che non possono essere definiti quartieri veri e propri,
per le loro caratteristiche dimensionali, morfologiche e di monofunzionalità residenziale e di scarsa
dotazione di attrezzature e di servizi, occorre individuare strategie specifiche per il loro futuro, in
quanto borghi semi-rurali.
Con il termine di rete verde si intende il sistema delle aree verdi costituito da parchi regionali e
urbani, corridoi ecologici, giardini pubblici, viali alberati, ma anche aree agricole.
Vale a dire quanto ancora resta della meravigliosa (una volta) Campagna Romana.
Per questo imponente complesso di aree le problematiche da risolvere, per quanto riguarda le
aree destinate a proprietà pubblica, sono essenzialmente due: una di fattibilità e una di gestione.
Fattibilità significa, infatti, in primo luogo possibilità di acquisizione delle aree alla proprietà
pubblica e successivamente realizzazione del parco o giardino, con il problema del reperimento
delle risorse finanziare necessarie e dell’individuazione delle priorità (quali luoghi e quali usi,
efficaci ed effettivi in relazione all’impiego di risorse pubbliche).
Anche la gestione comporta uso di risorse per la manutenzione e il controllo. E dunque anche per
questo è aperto il problema della attuazione delle previsioni del Nuovo PRG.
Anche in relazione a questi tre obbiettivi strategici per l’assetto futuro delle periferie romane, sono
da soddisfare tre condizioni necessarie alla qualità dei risultati degli interventi: la mobilità, il
contenimento delle aree edificate e la definizione di regole e indirizzi per la qualità urbana
Mobilità significa definire le migliori condizioni per le connessioni tra i diversi centri città, tra
quartieri e centri città (condizione quest’ultima indispensabile perché un centro città possa davvero
essere tale), tra quartiere e quartiere. Si richiede perciò una politica della mobilità alle diverse
scale; da quella urbana, anzi metropolitana, a quella locale.
Il contenimento delle aree edificate è la premessa e la condizione per la salvaguardia della
campagna romana. Obbiettivo che poi richiederà anche politiche di sostegno alle attività “verdi”.
Quanto alla condizione di formulazione di regole e indirizzi per la qualità urbana (ambientale ed
estetica) e per governare i processi, si tratta di una condizione necessaria che attraversa tutti i tre
grandi obbiettivi strategici: dalla costruzione dei centri città, agli interventi di miglioramento dei
quartieri (in particolare per quanto riguarda eventuali demolizioni e ricostruzioni, densificazioni e
intensificazioni), alla formazione di parchi, alla gestione dei parchi e delle aree verdi in genere. E
richiederebbe , per questo, un impegno dell’Amministrazione per la formulazione delle regole e
indirizzi, anche in relazione ai necessari processi di partecipazione degli abitanti.
86
Dalle questioni poste in questa prima parte della seconda giornata del convegno, e dalle condizioni
necessarie da soddisfare, se ne può trarre una sintesi estrema, anche in questo caso, come per la
prima giornata, espressa attraverso uno slogan significativo.
Infatti, credo che si possa ritenere, ed anzi richiedere, che questioni e condizioni per l’assetto
futuro della periferia vadano affrontate conformando le soluzioni possibili a principi di sostenibilità.
Per cui un eventuale slogan che riassuma un obbiettivo desiderabile e condivisibile per il futuro
della periferia romana potrebbe essere: “Città sostenibili nella periferia”. Sottolineando così una
visione dell’assetto della periferia di Roma articolata per parti riconoscibili e identificabili e
assegnando al concetto di sostenibilità un significato ampio e complesso: non solo sostenibilità
ambientale, ma anche sostenibilità socio-economica, sostenibilità funzionale, sostenibilità estetica.
Questo è tutto quanto volevo dire, adesso vi darò la parola per un secondo giro e inizio col dare la
parola a Calthorpe
CALTHORPE (interprete): Io vorrei toccare una nota un po’ polemica, se posso. Quando
possiamo prendere in considerazione la costruzione di edifici a più piani, grattacieli, in una città
come Roma? Si tratta di una questione fondamentale che mi terrorizza, se vogliamo, e per
illustrare quanto sto dicendo, permettetemi di sottolineare che dovrebbe esservi una metodologia;
quando si tratta di costruire grattacieli non dobbiamo procedere così, a casaccio, dobbiamo avere
una razionalità e la proposta che vorrei fare a tal proposito è la seguente: innanzitutto, non
dovrebbero esservi edifici alti, grattacieli nel centro storico, questo rovinerebbe il profilo della città,
che è un tesoro comune che non dovrebbe essere in alcun modo violato dalla costruzione di
grattacieli. In secondo luogo, se vogliamo considerare la possibilità di costruire degli edifici alti, dei
grattacieli, nelle zone periferiche deve esservi un bisogno effettivo di tali edifici: innanzitutto
dovremmo dimostrare che la crescita dell’area è tale per cui non bastano gli edifici più bassi, ed è
soltanto con l’uso di grattacieli che è possibile salvaguardare il confine urbano e gli spazi verdi. E
farò un esempio: questa è la città di Toronto, dove abbiamo appena portato a compimento un
progetto per un centro periferico. Nella città di Toronto vi è un piano che ammiro moltissimo, in
quanto contiene una serie di qualità che potrebbero valere per molte città; innanzitutto la cintura
verde è molto ampia e comporta forte impegno per il Sindaco e per l’Amministrazione comunale.
Poi sono stati identificati dei centri ad alta densità e ad alta crescita. Uno di questi centri richiede,
secondo me, la costruzione di grattacieli, e ve lo spiegherò tra breve. Questa è una vecchia zona
industriale in periferia, con tre diverse direttrici, un sistema di ferrovia leggera, un sistema di treni
pendolari e una strada ad alta velocità. Ora, il livello di servizi è quello che deve poi portarci a
decidere che tipo di sviluppo vogliamo, per esempio a Manhattan abbiamo un’alta densità di
sistemi di trasporto e quindi sono giustificate queste alte densità, altrimenti non dovrebbe essere
consentito uno sviluppo ad alta densità in assenza di adeguati sistemi di collegamento, di
trasporto. Per cui dobbiamo prendere in considerazione tutto ciò quando guardiamo a una città
come Roma. Questo è invece un piano che potrebbe essere interessante per il nostro dibattito sul
nuovo urbanismo. Vi sono dei piccoli isolati con aree verdi, ogni isolato è al massimo 100 metri,
quindi una dimensione ritengo a misura d’uomo; si basa tutto su strade che sono fiancheggiate da
strutture di interesse con tradizionali edifici a cortile, ampi marciapiedi, eccetera. Vi sono dei
controlli lungo il confine degli spazi pubblici, abbiamo visto delle immagini di piazze che erano solo
travertino, senza dei fronti attivi, e questa è una formula certa per un disastro urbano, e se
qualcuno usa il termine urbano per cose del genere, questo è un errore clamoroso. Vi ricorderete
alcune immagini, e non farò i nomi, ma credo che mi abbiate capito. Quindi le attività lungo i confini
degli spazi pubblici sono importanti per un vero urbanesimo. Non è solo la forma che conta, ma è
l’attività che conta, quindi il modo in cui l’edificio confina con la strada è essenziale per garantire
una buona struttura urbana, e questo è un aspetto che non può essere tralasciato da questa
equazione. In un luogo per esempio come questo, con i livelli di servizi di trasporto, noi possiamo
calcolare quella che dovrebbe essere l’intensità di sviluppo idonea sulla base dei sistemi di
trasporto e quindi ci sono alcuni edifici alti, alcuni grattacieli; questo per conservare lo spazio verde
intorno a Toronto. Sessanta ettari, 15 mila unità abitative, 20 mila posti di lavoro: c’è un buon
equilibrio tra posti di lavoro e unità abitative. La configurazione di queste torri è tale per cui non
vediamo degli edifici isolati dalla strada, sono sempre e comunque edifici che si collocano su delle
piattaforme di scala variabile, che sono sempre orientate verso gli spazi pubblici, delle piattaforme
87
quindi che garantiscono una buona compenetrazione. Alcuni miei colleghi mi hanno dato
dell’eretico per queste mie affermazioni. Non è quello che propongo per Roma perché non credo
che Roma abbia sistemi di trasporto idonei e non credo che abbia neanche una domanda di
crescita tale da giustificare una soluzione del genere, quindi io concludo con il punto di partenza:
grattacieli a Roma, no. Peccato che il Sindaco in questo momento non c’è, perché potrebbe
contestare quello che ho detto.
COLAROSSI: No ai grattacieli. Adesso chiedo l’intervento del Professor Franco Martinelli.
MARTINELLI: Grazie molte. Io sono un professore di Sociologia urbana e rurale nell’Università di
Roma, quindi essendo un professore di sociologia urbana mi sono occupato di tante cose
riguardanti la città, ma certamente non delle costruzioni urbanistiche; quello che a me interessa
della popolazione è appunto la popolazione che vive nei centri o nelle periferie. Recentemente ho
scritto un libro intitolato Periferie sociali estese o diffuse, perché io distinguo, distinguevo e
distinguo, dal punto di vista naturalmente della ricerca, la differenza tra la ricerca sul sociale, cioè
sulla popolazione, sulle condizioni di vita della popolazione, e la ricerca invece della costruzione
edilizia e urbanistica. Su questo tema sono in grado di dire alcune poche cose, ma per esempio le
cose che ci interessano dal punto di vista della periferia sociale, io ho detto “le periferie estese e
diffuse”, perché noi le troviamo sia all’esterno della continuità urbana e sia all’interno. Allora,
diffuse, bisogna da questo punto di vista vedere quali sono le diverse popolazioni che si
distribuiscono nella città dal centro all’esterno. Ci sono dei sociologi, tra cui Martinotti di Torino, i
quali hanno diviso la popolazione in popolazione residente, la popolazione dei residenti e degli
abitanti - in centro o nelle periferie - quella dei pendolari per lavoro o per studio, quella dei
consumatori, quella degli immigrati, degli stranieri, quella dei senzacasa e le periferie etniche. A
proposito della popolazione residente, che sarebbe quella che risiede in una data area urbana, qui
c’è da distinguere tra residenti e abitanti perché i residenti sono quelli che hanno la residenza, gli
abitanti sono quelli che hanno a disposizione a Roma un’abitazione e sono numerosissimi, più dei
150 mila (dati Istat). Prendiamo in considerazione l’area interna alle mura Aureliane, oppure al
limite al centro allargato, e consideriamo la popolazione non residente che abita negli alberghi, o
che ha seconde case a disposizione, seconde case che in genere possono avere le persone di
medio-alto livello. Questa popolazione residente e abitante nel centro della città, e comunque in
quello che noi consideriamo centro, è divisa per classi di età, per struttura familiare, per posizione
nella professione, per titolo di studio; quindi è una popolazione, quella residente e abitante nel
centro, probabilmente con un reddito elevato, un buon livello culturale e un livello economico
superiore, o perlomeno più alto. In questi ultimi tempi a Roma si è osservato che c’è una
popolazione che ha delle caratteristiche di possibilità di buone abitazioni, e una popolazione invece
che non arriva all’abitazione.
Dopo la popolazione residente c’è la popolazione dei cosiddetti pendolari: possono essere
pendolari per lavoro, pendolari per ragioni di studio; questi naturalmente a volte sono pendolari
mattina-sera, a volte sono pendolari per una parte della settimana, e gravitano, per motivi di lavoro
o studio, per lo più intorno al centro, pur avendo abitazione all’esterno, intendendo per esterno non
soltanto il Comune di Roma, cioè la parte dell’Agro Romano, ma per lo meno tutta la Regione
Lazio.
Poi c’è la popolazione che va nei centri per spese, i cosiddetti consumatori, per spese o per
turismo. I consumatori per spese sono tutti quelli che vanno nel centro per esempio, o nel centro
allargato, per fare delle spese importanti e sono anche queste persone che vengono anche da
molto lontano. Quelli che vengono per turismo e che tutto sommato soggiornano molto spesso
negli alberghi oppure altre volte invece fanno del turismo dalla mattina alla sera, invece hanno
interessi diversi, e usano il centro della città in modo diverso: ci sono, infatti alcune nostre ricerche
da cui risulta che praticamente i musei visitati sono tre o quattro – la Galleria Borghese,
naturalmente i Musei Vaticani, il Museo Capitolino – mentre gli altri musei sono poco frequentati.
Qui c’è il discorso della modificazione dell’atteggiamento nei confronti del turismo: c’è stato un
autore, Henry, il quale distingueva il turismo di massa (quello che si accontenta soltanto di dire
sono stato a vedere la tale mostra), dal turismo invece di affezione, tra i quali nelle ricerche fatte
88
viene fuori che sono piuttosto i romani di età piuttosto alta. E poi naturalmente, oltre ai residenti, i
pendolari e i consumatori ci sono altri tipi di comunità che stanno o fuori della cerchia della città
compatta, oppure stanno anche allo stesso interno. È per questo che io dico, “le periferie”. Io
distinguo le periferie urbanistiche dalle periferie sociali, perché le periferie sociali ritengo che
possano essere estese, molto ampie, oppure possano essere diffuse: ci possono essere, per
esempio, le comunità di stranieri che molto spesso sono in alcune zone del centro, per esempio
Piazza Vittorio, ma tante altre, che riproducono – qui a Roma come in altre parti d’Italia – quel
fenomeno che già da molti anni si verificava a San Paolo del Brasile e anche a Mosca fino ad
adesso, dell’abitare nei cortisos, questa è una parola portoghese, o nelle kommunalke, che è una
parola russa. Il cortiso o la kommunalka è una abitazione di un certo numero di stanze in cui non è
affittato l’appartamento, ma sono affittate le stanze singolarmente a delle famiglie, per cui in un
cortiso o in una kommunalka ci possono essere anche 50-60 persone. Questo avviene non nelle
periferie esterne, ma avviene vicino al centro di Roma, appunto ho dato quell’indicazione, ma ce
ne sono altre. Quindi a queste periferie sociali - che possiamo chiamare periferie diffuse, perché
non sono all’esterno della continuità culturale - si aggiungono le periferie interne etniche.
Per i pendolari si pone il problema della mobilità. Una mobilità che probabilmente in parte viene
dall’esterno, ma in gran parte viene, per quello che è stato anche detto, dall’abitudine di usare il
mezzo privato anche per piccoli spostamenti, e questo è un fatto culturale che ci portiamo dietro e
che è difficile da risolvere.
Volevo dire alcune cose, per esempio noi abbiamo fatto una ricerca sul quartiere Ostiense, una
ricerca Trasformazione di un insediamento industriale in una centralità urbana, e lì è venuto fuori
che sicuramente la modificazione (ottenuta attraverso il fatto di avere inserito università, musei,
teatri e librerie, la sezione dei Musei Capitolini presso la Centrale Montemartini) è importante e di
proporzioni culturali, di conservazione della memoria. Però il risultato finale di questa ricerca, è che
praticamente gli interventi sono stati programmati non in modo coerente, per esempio qui si
denuncia in conclusione che fioriscono speculazioni immobiliari ma per calmierare il mercato degli
affitti si dice; sarebbe stato utile costruire per prima la Casa dello studente insieme ad alloggi
anche per i ceti meno abbienti e poi riuscire a mantenere la popolazione che invece se n’è andata
via. Per quanto poi riguarda il problema delle caserme, io mi domando quale tipo di popolazione si
potrebbe favorire per occupare questi spazi. Cioè, praticamente, o si fa una grande piazza e non si
sa come usare questa grande piazza, o si costruiscono per esempio una sede universitaria con
Casa dello studente universitario, oppure non saprei con quali criteri di bisogno si possano mettere
nel centro di Roma delle persone con tutte le qualifiche di priorità che hanno nella ricerca di una
popolazione urbana.
COLAROSSI: Grazie al Professor Martinelli. Adesso vorrei chiedere l’intervento del Professor
Franco Karrer.
KARRER: Non c’è il tempo adeguato per poter argomentare. In questo intervento di replica infatti
è dovuto essere icastici. Riprendo quindi la parola esclusivamente per meglio chiarire qualche
considerazione già svolta questa mattina e per aggiungere poche altre riflessioni.
•
La prima cosa che reputo maggiormente positiva della odierna giornata è questa sorta di
accreditamento che è stata fatta dalla parte/parti di città che chiamiamo periferia. Al punto che
questo termine è divenuto pressoché del tutto improprio. L’Assessore Corsini mi diceva che
sta pensando a nuove denominazioni: «l’altra» parte di città o «l’oltre». Il recente lavoro di
Thierry Paquot sulle periferie, a mó raccolta di antologica di situazioni, può essere molto utile al
riguardo5.
Credo anch’io che il problema di «nominarla» non sia secondario.
In tutte le sue parti componenti oltre che complessivamente, rifuggendo da categorie e
definizioni omologanti. È ovvio il (mio) riferimento al «nomos della terra» di Carl Schmitt. Se
vogliamo ragionare, con la prudenza del caso, perché il rischio di essere regressivi è forte, di
identità che proviene dall’appartenere / possedere / un luogo e di vivere un luogo, quel luogo
deve, al minimo, avere un nome, suo proprio, distintivo.
5
Cfr., Thierry Paquot, Banlieues, Presse Polytechniques et universitaires romandes, 2008.
89
Quando chiedo ai miei studenti dove vivono allo scopo di comprendere che rapporto c’è tra i
loro vissuti e la città e, a volte mi si risponde «in “167”», comprendo quanto sia decisivo il
«nomos della terra» ancora oggi.
•
Seconda osservazione. Tra le molte definizioni del contemporaneo processo di
urbanizzazione, quella che ritengo ancora oggi una delle più valide la dobbiamo al geografo
Pierre George, purtroppo non più studiato per come merita. Per il nostro geografo “l’a-spazialità
relazionale e la discontinuità fisica”, sono le due caratteristiche fondamentali del moderno
processo di urbanizzazione. Nell’epoca di «internet», di telefonia mobile, etc., è superfluo dire
ancora qualcosa sul concetto di a-spazialità relazionale. Mentre è il caso di dire qualcosa sulla
discontinuità fisica del processo di urbanizzazione. Perché questa caratteristica rappresenta il
punto dolens della moderna pianificazione e progettazione urbana. Non siamo capaci né a
livello ideologico - metodologico né degli strumenti, di governare lo spazio discreto e/o
discontinuo che è lo spazio della contemporaneità.
Inevitabilmente riproponiamo i modelli del «continuismo» fisico dell’urbanistica classica. Non
sappiamo governare il vuoto, il non «costruito».
Tipico il caso dei cosiddetti corridoi ecologici, spine verdi, etc. Le disegniamo sulle carte, ma
sulla carta in larghissima misura restano. Nella legge francese che ha nome «Grenelle» di cui
parlava il Prof. De Santoli poco fa, in discussione da diverso tempo nel Parlamento di quel
paese e che proprio in questi giorni – per effetto della recente consultazione elettorale
amministrativa -, dovrebbe essere abbastanza radicalmente modificata, i corridoi ecologici
sono stati posizionati molto in basso nella gerarchia degli obiettivi ambientali. Erano al primo
posto in precedenza. Perché ciò? Per via della pressoché totale non fattibilità amministrativa. O
per lo meno per la grandissima difficoltà a concretamente realizzarli.
Dove il problema della fattibilità amministrativa lo si pone, si è coerenti con la capacità /
possibilità di risolverlo. E quando non ci si riesce, come si vede, si è capaci di invertire la rotta.
Sentivo dire in qualche intervento della mattinata che «tanto questi spazi non si devono
espropriare»; pertanto si possono anche solo prevedere senza doversi fare carico delle
conseguenze di tale previsioni.
Ciò non può essere più. Sappiano infatti che questi spazi non solo producono «fratture», ma
divengono facilmente «terre derelitte», abbandonate dai proprietari che non hanno interesse a
manutenerle. Quindi divengono siti insicuri, detrattori e magari siti interessanti per chi vuole
realizzare interventi illegali o è costretto a rifugiarvisi per mancanza di alternative abitative alla
sua portata.
•
La terza riflessione riguarda la questione della densità / densificazione. Dobbiamo
interrogarci su cosa intendiamo con questi concetti. È alla popolazione per ettaro che ci
riferiamo? O è alle abitazioni per ettaro? È alle famiglie per ettaro? Al loro reddito in rapporto
allo spazio? Credo che l’esempio più evidente di quanto sto dicendo sia rappresentato da
qualche quartiere latino – americano o asiatico. L’alta densità caratterizza questi quartieri substandard sotto tutti i punti di vista. Neanche l’alta densità da sola come si comprende da questi
esempi, è da sola una ricetta valida. Ed ancora: la ricerca scientifica in materia ha da tempo
mostrato che è alla «densità dinamica» (vedi i lavori di Vincent Fouchier) che dovremmo
riferirci. Non certo a quella statica. Soprattutto se guardiamo la questione dei flussi di relazioni,
di persone e di cose. Se ragioniamo di accessibilità e mobilità, non si può non considerare ed
operare con la densità dinamica.
90
Al contrario, se restiamo esclusivamente alla densità edilizia, non possiamo non riconoscere
che la ricetta della bassa densità territoriale accompagnata dalla alta densità fondiaria, è
quella forse ancora oggi vincente6. Ma insufficiente.
Ovviamente bisogna ragionare su cosa è «bassa» od «alta» densità. Personalmente ritengo è
che alla densità / intensità del flusso che dobbiamo prioritariamente guardare.
•
Collegata a questa – quarta riflessione – un’ulteriore riflessione sull’assioma della
«costruzione della città su se stessa», traduzione italiana della più nota espressione francese
«batir la ville sur la ville».
Ebbene, come nel caso della lotta allo «sprawl», alle politiche di contenimento del cosiddetto
consumo di suolo (il Parlamento europeo è da tempo impegnato perfino in una direttiva al
riguardo!), anche nel caso della ricostruzione della città su se stessa, i successi sono molto
scarsi. Sì, qualche densificazione o qualche sostituzione edilizia si sono realizzate, il recupero
di zone industriali dismesse, di «brown field» o «friches» che dir si voglia, si fa. M tutto ciò non
segna una reale inversione di tendenza: l’insediamento diffuso vince ancora ed in misura
massiccia. Tanto più che latita una concreta e compiuta politica di rinnovo urbano a base la
sostenibilità ambientale.
La domanda sociale è a favore del diffuso per via della preferenza per l’habitat individuale; le
politiche pubbliche e le teorie urbanistiche sono favorevoli alla città compatta.
Una contraddizione di cui bisognerà pur prendere atto. Non è possibile continuare a costruire
politiche – ovviamente, dove si fanno politiche – totalmente rifiutate dalla società!
L’urbanistica può sì essere «civile», quasi educazione civica e precettrice della società, ma
non può non constatare i suoi insuccessi. Non si può accontentare del «benpensantismo».
Deve risolvere i problemi.
•
L’ultima considerazione me l’ha suggerita il giudizio positivo ad una mia affermazione –
che ritengo addirittura banale –, che ne ha dato un giornalista poco fa. Dicevo: la periferia è tale
se la guardo dal centro di una agglomerazione, ma se la guardo dall’esterno di essa è il centro
dell’agglomerazione ad essere periferia e la periferia centro! Conferma che non è la posizione
geografica a stabilire cosa è centro e cosa è periferia, ma anche del fatto che la scala giusta
della sua pianificazione è quella intercomunale e/o di area vasta. Una cosa è se si ha questo
orizzonte, un’altra cosa è se si ha l’orizzonte dei confini comunali, per quanto ampio possa
essere il territorio di un comune.
L’obiettivo della riforma delle collettività locali in discussione in questo periodo in Francia per
quanto riguarda Parigi – ribadisco che è a questa fattispecie di Grand Paris, non a quella della
consultazione architettonico – urbanistica (in Francia già dimenticata!) voluta dal Presidente
Sarkozy – che io soprattutto guardo. Per il governo centrale l’obiettivo è quello di ampliare i
confini di Parigi perché arrivi a 6.000.00 di abitanti. Diversa la posizione della Regione de l’Ile –
de – France e dello stesso Comune di Parigi.
Con l’aumento della popolazione e l’ampliamento del territorio si vuole elevare la capacità
competitiva di Parigi rispetto alle altre città mondiali. Con il territorio e la popolazione così
acquisiti, si acquisiscono anche periferie urbane e cittadini «periferici». Ma le periferie
coincidono con i bacini di mano d’opera più ricchi e per di più di popolazione giovane, perché
nelle periferie la distanza tra residenza e lavoro è più ridotta, etc. Quindi si acquisisce ricchezza
e potenzialità di sviluppo, non solo problemi.
6
Molto interessante l’analisi di 14 esempi di insiemi residenziali innovativi fatta da Nicolas Bassand nel n. 8 della
rivista «Cahiers de théorie», uscita è programmata per l’autunno 2010 (Laboratorio di teoria e di storia (THL), Scuola
politecnica di Losanna). L’obiettivo è quello di misurare l’evoluzione qualitativa della nozione «densità» nell’habitat
residenziale.
91
Mi sembrano questi motivi validi anche per noi, perché sia quella della intercomunalità,
comunque dell’area vasta, la «scala» sulla quale dimensionare la politica urbana che riguarda
in particolare questa porzione di città che, per una volta ancora, chiamo periferia.
Grazie.
COLAROSSI: Grazie a Franco Karrer per i suoi punti densissimi.
Professor Léon Krier, per favore.
KRIER: Penso che Sarkozy è molto ambizioso e ha l’idea di rompere con il passato, come diceva,
ma se si guarda agli architetti che impiega per il Grand Paris, sono gli stessi che hanno lavorato
prima e dunque avrà lo stesso ma più grande, sarà peggio del primo perché hanno perso
totalmente… Io ho visto, ho seguito questo sviluppo e abbiamo domandato un’oretta con il
Presidente, che ha rifiutato. In Francia ci sono modelli alternativi realizzati con grande successo,
ma che sono totalmente ignorati dai mezzi di informazione. C’è Plessis-Robinson nella banlieue
parisienne realizzato dal Sindaco Philippe Pemezec tanti anni fa, che mi chiese una consiglio e io
avevo una depressione e non potevo lavorare, quindi ho raccomandato Spöri e Breitman, e loro in
vent’anni hanno trasformato un luogo assolutamente sporco. Plessis-Robinson era terribile, era
chiamato la periferia rossa, adesso c’è una media borghesia ed è divenuta una città molto
gentrificata, nel senso buono, e vale la pena di prendere contatto con Philippe Pemezec, che è un
genio. s Sarkozy l’ha visitata, ma non ne parla, è una cosa incredibile, questa idea di modernità…
se si guarda solo il dizionario, si impara immediatamente cos’è, e c’è questo fantasma che rimane,
che la modernità è una cosa da fare con stile e con idee, non ha nulla a che fare con l’architettura.
Ci sono modelli interessanti, ci sono modelli interessantissimi superiori a Roma, c’è la periferia
romana costruita nei primi anni del fascismo che è una meraviglia, Montesacro – penso che il
Sindaco l’ha citata – Garbatella… e a Montesacro c’è una piazza decente, non è una bella piazza
come quelle del centro, ma funziona e soprattutto è una vera piazza italiana fatta da scale diverse,
usi diversi, simboli diversi che sono veridici. A Garbatella la piazza è sbagliata, perché non era
stata fatta negli anni Venti e poi dopo la guerra hanno messo due edifici che la sciupano, ma si
potrebbe fare di questo luogo, con una bella chiesa, con una bella scuola, aiutandosi con qualche
muro e con un po’ di intonaco si può fare una vera piazza italiana, perché Garbatella è un gioiello,
è preso e studiato e apprezzato da tutti i nuovi urbanisti, vengono tutti qui a studiare Garbatella, da
Notre Dame o con i miei studenti di Yale andiamo regolarmente a studiare Garbatella, e lì è un
materiale formidabile. A La Sapienza hanno tanti documenti su questo. Dunque per gli architetti è
importante studiare queste cose che avete davanti al vostro naso e soprattutto non impiegare
architetti che non vogliono fare questo, perché ci sono in questo paese, in questo mondo ci sono
architetti che sanno fare dell’architettura tradizionale, non c’è bisogno di convertire i moderni.
Insomma hanno già abbastanza lavoro e non bisogna fare la promozione dei grattacieli, dei
grattaterra, di tutte queste strutture che dominano il mondo. La gente mi domandaperché voialtri
non fate la promozione di /Foster/ o di Zaha Hadid, perché non hanno bisogno, sono iperpotenti,
dominano i media e il mercato, dunque non hanno bisogno della nostra promozione, ma
comunque questi valori italiani, civici, che sono talmente preziosi per questa società, sono
estremamente minacciati, fragilizzati e hanno bisogno di un sostegno legale e anche ideale.
Adesso c’è anche in questo paese una cultura letteraria estremamente raffinata che serve a
sostenere questi argomenti dal punto di vista intellettuale, c’è il libro di Paolo Portoghesi sulle
piazze romane, ci sono tante piazze e tutti gli esempi sono lì, bisogna ancora fare qualche misura.
Questi sono strumenti tecnologici per fare buone piazze. Non è storia. Io me ne frego ufficialmente
della storia, non si parla di far rivivere la storia, vogliamo vivere noi stessi e questo ha bisogno di
avere una tecnologia tradizionale per fare piazze che hanno il valore di quelle piazze meravigliose
che avete. Avete soprattutto in questa città il manuale del recupero di Roma, inventato, lavorato e
poi completato da altri, ma soprattutto ideologicamente preparato e brillantemente disegnato; il
Manuale del recupero fatto da Paolo Marconi, una cosa assolutamente incredibile (è stato seguito
da altre città, da Palermo, da Civitavecchia, Città di Castello, li ho tutti, sono preziosissimi, sono
soprattutto preziosi per far rivivere l’artigianato che sa fare quelle cose e da parte di Fuksas, dire
che questo artigianato non esiste più, è una menzogna. Il talento di manualità si legg: già Aristotele
parla di questo, che sono i talenti umani, la manualità umana e l’intelligenza manuale data a
ognuno di noi diversamente e mai tutte insieme in una persona, che creano l’economia umana e
che creano i mestieri e questi mestieri non sono storici, sono legati alla nostra condizione umana,
92
alle mani, ai piedi, agli occhi, a tutti i sensi che abbiamo, e dunque si deve riorientare l’educazione
nazionale su questi mestieri invece di imparare delle cose astratte che nessuno o che poche
persone capiscono. C’è anche una letteratura pubblicata soprattutto adesso per il Congress for the
New Urbanism, infatti il Congresso del nuovo urbanismo non è il congresso di nuovo urbanismo, è
il congresso dell’urbanismo tradizionale, ma perché non esisteva in America l’urbanismo
tradizionale da cento anni, si doveva chiamarlo nuovo perché così si vende meglio, ma non è
nuovo, non c’è niente di nuovo, e soprattutto in questa letteratura, attorno al Congresso del nuovo
urbanismo, ci sono adesso i libri pubblicati, tra gli altri da me, ma soprattutto da Andrés Duany, e
ce n’è uno che si chiama /Avant-Transact, Smartcode for Avant-Growth/, è un libro fondamentale
che si dovrebbe immediatamente tradurre qui, perché ne avete bisogno. Sono delle cose evidenti,
perché nell’età della comunicazione si ha bisogno di idee adesso, non fra vent’anni. E c’è un
manuale che si prepara da Galina Tachieva cioè un manuale che sarà pubblicato in settembre e
che si chiama Sprawl Repair Manual, e Sprawl è questo che avete in periferia, Repair Manual,
come si ripara la periferia. Sono queste cose che si devono promuovere, perché le altre cose
dominano. Si parla, lei ha parlato Karrer, della gerarchia dei flussi, è quello che è importante, io ho
cercato la gerarchia degli ordini di circolazione, ma la gerarchia dei flussi, è questo che è
importante, e studiare soprattutto, perché questo manca, la gerarchia dei flussi quotidiani,
settimanali, trimestrali, annuali, generazionali: si muore una volta, si va una volta al cimitero, ma
quotidianamente si va a mangiare, si va a scuola, si va al commercio di prossimità,
settimanalmente si va in chiesa, nei centri commerciali e tutte queste cose, si deve capire che tutti
questi flussi gerarchici possono produrre una città vivibile, bella o una città che non esiste, che è
solo sostenuta dalle energie fossili. Adesso, per finire, molto dell’abusivismo italiano, dopo la
guerra, ha creato luoghi che sembrano mediocri, ma che sono in effetti non così mediocri, non
sono brutali come sono questi quartieri che abbiamo visto e studiato del grande Quaroni, con
questi edifici orrendi, terrificanti. Queste periferie in genere sono state disegnate da architetti di
municipalità, si sono costruite palazzine che sono banali, ma la gente è relativamente felice qui, e
noi abbiamo studiato questo a Bagnaia, abbiamo messo i nostri studenti, e io, per la Scuola del
Principe di Galles, davanti a questi palazzoni orrendi, piccoli, mediocri, e la gente esce e dice, ma
perché disegnate… i nostri edifici non sono belli, andate nel centro storico, ma eravamo già nel
centro storico, e nel centro storico gli avevamo fatto fare buoni e cattivi esempi di porte, ciminiere,
camini, balconi, buoni e cattivi, non è difficili trovarli, sono dappertutto, ce ne sono di buoni in Italia,
ma anche cattivi. In genere nel centro storico sono buoni e fuori sono cattivi e generalmente,
quando si studiano questi elementi, i buoni sono tecnologicamente coerenti e sono fatti con
materiali naturali e con intelligenza, e i cattivi sono imitazioni mediocri di forme tradizionali, ma
sono falsi, e in genere sono rotti. E dunque con queste informazioni di buono e cattivo abbiamo
studiato poi i prospetti mediocri. Questo era molto più lavoro che disegnare le belle cose, perché ci
manca sempre di vedere le cose brutte e si deve imparare a vedere tutto quello che c’è e poi a noi
architetti importa di correggere quello che non va e poi con queste informazioni tecnologiche,
giuste, autentiche abbiamo corretto queste prospettive. E fa bene. Dopo una settimana se
resistono gli studenti dopo non vi lasciano più perché veramente una volta che si vede quello che
non va e con quanto poco si possono correggere delle situazioni banali in cose di qualità, ci si
rende anche conto che tutto questo flusso di normative che vengono da Bruxelles servono a
brutizzare le città, a renderle orrende; invece si dovrebbe fare un codice, aumentare di un codice
estetico. L’illuminazione in genere adesso fa danni terribili, luoghi bellissimi la notte diventano
banalissimi e questa luce di sodio arancio si dovrebbe finire domani, perché è terribile per le città.
Adesso io ho fatto una guerra terribile in Inghilterra per anni contro queste luci e adesso quasi tutte
le città sono ritornate al bianco, non per merito mio, ma io ho cominciato la battaglia, e Roma se
cambia sarà di nuovo una città magica. Ho visto che in qualche posto hanno già cominciato con le
luci bianche, è fantastico, il cambiamento è immediato. Dunque, queste tecniche di prima e dopo
sono, penso, il modo per renderci conto, ma siamo già più avanzati qui. Grazie.
COLAROSSI: Grazie per il trascinante intervento, ma non soltanto questo, anche quello di questa
mattina del Professor Krier. Adesso chiederei al Professor Matteo Colleoni di intervenire.
COLLEONI: Si domandava il discorso di che assetto dare alla mobilità, una domanda chiaramente
immensa, e mi limito a tre osservazioni molto veloci. Per quanto riguarda ovviamente, come si è
visto stamattina, in coerenza con quanto visto stamattina, l’aspetto della domanda di mobilità.
Quindi come cambiare assetto alla mobilità affinché ci sia una migliore accessibilità dalle periferie
93
verso il centro. Allora, il primo aspetto su cui si deve lavorare riguarda la possibilità di dare a tutti
delle alternative di scelta nell’uso dei mezzi e nell’area metropolitana di Milano, e quindi non
un’area secondaria; ancora oggi il 40% delle popolazioni, dei territori non hanno alternative di
scelta nei mezzi per gli spostamenti, e questo è un grosso problema, vuol dire che sono costretti
ad affidarsi soltanto all’automobile per potersi muovere, soprattutto per la mobilità di carattere
circolare, questo vale un po’ meno per la mobilità di tipo radiale. E quindi la prima azione che
dobbiamo fare complessivamente, e non è un’azione che è possibile fare a livello comunale, ma a
livello sovracomunale di area metropolitana, dare a tutti delle possibilità di alternative di scelta. Il
secondo aspetto che mi sembra importante, sempre non sulla base delle mie considerazioni, che
valgono poco, ma sulla base invece di quello che è stato studiato a livello di comparazione delle
aree metropolitane, cercare di arrivare al 30% di utilizzo di mobilità lenta o su mezzo pubblico. È
una soglia importante, è una soglia che a Friburgo, che lo so non è comparabile con Roma e
neanche con Milano, ha consentito un decremento nel giro di tre anni del 5% di emissioni di
anidride carbonica, che comunque il 5% è una quota molto consistente. Le quote attuali di utilizzo
dei mezzi sono troppo basse, nelle aree periurbane il 13% è bassissimo, dobbiamo cercare di
arrivare possibilmente al 20% di utilizzo di mobilità lenta. Il terzo aspetto, è veramente l’ultimo
aspetto che prendo in considerazione, riguarda il fatto di lavorare – lo so che adesso apro un
argomento molto vasto, ma lo chiudo subito – lavorare sui motivi per cui le persone usano il mezzo
privato. Facevamo queste considerazioni nel forum appunto sulla mobilità sostenibile. Perché
usiamo l’auto? Usiamo l’auto perché è autonoma, è bella, è sicura fondamentalmente, e la
pubblicità si muove tutta in queste direzioni, normalmente. Dobbiamo cercare, e ci sono delle
esperienze abbastanza interessanti che cercano di aumentare questo tipo di attributi anche per
quanto riguarda le altre modalità di spostamento, e faccio soltanto pochissimi esempi: un esempio
è Valencia. Valencia per esempio ha un sistema di trasporto su gomma, di autobus, che è stato
fornito negli ultimi anni di pannelli informativi. Questi pannelli consentono alle persone di sapere ad
ogni fermata dove sono, importantissimo per i turisti tra l’altro, consentono con degli speaker molto
alti alle persone anziane di sentire, di capire dove sono - e tra l’altro, con l’incremento delle
popolazioni anziane, questo è un aspetto di grande importanza - e consentono soprattutto di
essere più autonomi; d’altronde con l’auto si è massimamente autonomi, con il mezzo pubblico,
per definizione, non si è autonomi. Dobbiamo cercare di creare dei supporti affinché il soggetto si
senta un po’ più autonomo. Questo non rende ovviamente alternativa la scelta del mezzo pubblico
rispetto all’auto, però può far pensare l’attore, nel momento in cui decide come mi sposto, di
andare anche verso quella direzione. L’altro aspetto è la sicurezza. In realtà per noi il discorso
della sicurezza non è centratissimo, quello di cui c’è bisogno, più che di sicurezza è una sorta di,
consentitemi, accompagnamento nella mobilità ed è sorprendente che dove ci sono dei sistemi – e
mi limito all’Europa, non conosco bene il nord America – dove ci sono dei sistemi di mobilità molto
ben strutturati, come ad esempio Parigi e Londra che hanno messo in campo in questi ultimi
periodi dei sistemi per consentire di accompagnare di più i clienti (ad esempio in Inghilterra ci sono
già da diverso tempo gli assistenti alla mobilità). Anche le Ferrovie dello Stato hanno cominciato a
pensare a queste figure, che sono quelle figure che poi sono un po’ scomparse, che dovrebbero
aiutarti quando tu arrivi in una stazione a trovare il treno giusto, se tu non sai muoverti. D’altronde,
se la mobilità diventa sempre più complessa, è molto facile non sapersi muovere. Io stesso,
quando arrivo a Roma da Milano a volte mi perdo, nel senso che non ho le informazioni
fondamentali per potermi muovere. Gli amici della RER di Parigi hanno fatto e stanno facendo i
corsi che si chiamano Apprendre la mobilité, cioè imparare la mobilità. Vi si rivolgono persone
anziane e ovviamente gli immigrati. Apprendere la mobilità, certo, c’è chi dice, soprattutto coloro
che abitano nelle periferie, c’è chi dice in senso ironico, oltre al fatto che sono costretti a vivere
nelle periferie, li mandiamo anche a scuola. È vero, c’è questa contraddizione, però è vero che
apprendere la mobilità per alcuni soggetti può essere sicuramente una scelta che aumenta la
domanda verso quella direzione. Vi ringrazio.
COLAROSSI: Grazie a Matteo Colleoni. Tutti speriamo che la mobilità lenta o dolce arrivi oltre il
20% naturalmente, è una speranza di tutti quanti. Il Professor Bruno Dolcetta.
DOLCETTA: Ieri ho detto alcune cose che pensavo, questa mattina ne ho dette altre, nel
pomeriggio ho pensato di introdurre anch’io un esempio, un esempio importante, che vorrebbe
essere al tempo stesso – lo dicevo sia per il Sindaco, per l’Assessore, per tutti noi – al tempo
stesso consolatorio e anche preoccupante però. Adesso vediamo in che senso consolatorio e in
94
che senso preoccupante. Riguarda un caso in una città che voi tutti ben conoscete, che tutti
conoscono bene. Ad Amsterdam, Amsterdam è un luogo dell’anima per chi si occupa di
urbanistica, nel ’46 Astengo scrisse un primo articolo famoso che si chiamava La lezione di
Amsterdam e tutti abbiamo appreso un’infinità di cose da Amsterdam, e continuiamo ad
apprendere dall’urbanistica olandese un’infinità di cose, per cui è uno dei paesi nei quali
l’urbanistica è sostanzialmente continuamente seguita in una forma quasi ossessiva di perfezione.
Ed Amsterdam a un certo momento, dopo aver concluso la realizzazione fedelissima del piano del
1935, quello di Cornelius van Eesteren, che ha dato forma a tutta una serie di paradigmi
dell’urbanistica contemporanea, a partire appunto dal grande viaggio del quarto CIAM ad Atene, in
cui fu presentato, finita quella espansione fedelissima, Amsterdam decise di fare un salto ancora
più grande e cioè di costruire un quartiere di dimensioni cospicue. È una dimensione alla stessa
scala dell’intero centro di Amsterdam, quindi nessuna paura dal punto di vista del controllo della
dimensione, d’altra parte il contesto amministrativo e tecnico olandese è esemplare. E ha costruito
Bijlmermeer, adesso si dice Bijlmer, più semplice, con 110 mila abitanti previsti e quando si
prevede in Olanda poi dopo si realizza. Il primo è un grandissimo programma, progetto di
Amsterdam sud, lì si vede sulla sinistra in alto la forchetta della addizione di Amsterdam sud, di
Berlage, e subito dopo vedete il cambio di scala potente dell’insediamento di Bijlmer. Questo è il
primo piano e questo è il secondo, il plastico del progetto originale. Devo dire che e non so se
questo valga anche per altri che si sono occupati, che si occupano di urbanistica, che quando
abbiamo visto il disegno ci era sembrato un disegno straordinario, di una plasticità, di una bellezza,
di una capacità evocativa insomma straordinaria, ed era un’applicazione fedelissima di quella che
è stata considerata appunto, i dettami della Carta di Atene in quasi tutti gli elementi, l’immenso
parco, una tipologia avvolgente in questo caso, di una dimensione che potremmo dire leggermente
terrificante, ecco, con edifici lunghi 300 metri, un’altezza di 11, 12 piani, completamente
omogeneo, all’interno di una tipologia servita da grandi corridoi che servivano l’intera situazione e
poi, come fa l’Olanda, realizza. Allora, consolatorio in che senso? Nel senso che è stato un
disastro tragico, clamoroso, pesantissimo, di cui l’amministrazione di Amsterdam si è resa conto
progressivamente e questo per varie ragioni, perché risultava ingestibile una struttura di questo
tipo, perché invece in realtà poi era immaginata destinata a un certo tipo di utenza e popolazione,
viceversa c’è stato un ricambio quasi totale degli utenti possibili ed erano prevalentemente
immigrati dal centro Africa e così via, eccetera. E ad un certo momento l’Amministrazione, per
questo dico consolatorio, perché gli errori si fanno, si sono fatti dappertutto, si sono fatti anche su
scale di una dimensione veramente preoccupante, consolatorio in questo senso. Se vogliamo
metterci tutti insieme a dire, beh, non siamo i soli ad aver sbagliato, non siamo i soli eccetera,
ecco, questo è consolatorio. Che cosa c’è invece di molto preoccupante? Il fatto che
l’Amministrazione di Amsterdam ha deciso di intervenire su questo aspetto e ha deciso che non
poteva mantenere una situazione di questo tipo che era esplosiva da ogni punto di vista e che era
praticamente tragica. E ha fatto un grande progetto, che è ancora in corso di realizzazione
progressivamente, di progressiva riduzione, distruzione, cambiamento radicale del grande
progetto. Stiamo parlando sempre di una parte di città da 100-110 mila abitanti, quindi non stiamo
parlando di un piccolo quartiere, stiamo parlando di un’operazione colossale. Certo, a dir la verità,
Amsterdam ha il 50% di patrimonio abitativo in mano pubblica, o comunque attraverso le sue varie
forme di mano pubblica, quindi diciamo lavora su un suo patrimonio, prevalentemente su un suo
patrimonio, e quando si occupa del problema della casa ha grossomodo un dipartimento forte di
circa un migliaio di operatori, molti dei quali, come i vigili urbani, stanno sulle strade a conoscere
personalmente e direttamente quello che è il problema della casa, quindi stiamo parlando certo di
un contesto molto diverso. Però la decisione è stata quella di eliminare, di progressivamente
chiudere la questione di Bijlmer e trasformarla però naturalmente, evidentemente, in altro e
diverso. In giallo sono le aree che sono state costruite su aree prima non edificate, in rosso –
siamo nel 2004 – la sostituzione del patrimonio edilizio precedentemente realizzato. Qui abbiamo
poi successive operazioni. In che cosa consiste sostanzialmente questa operazione? In una cosa
francamente molto raffinata, molto elegante e anche molto articolata e cioè la distruzione di una
buona parte, se non ricordo male mi ha aiutato Andrea Sardena che mi segue nei corsi e che è un
dottorando che si occupa di questa materia, mi pare che sia l’80% l’obiettivo della riduzione del
patrimonio edilizio precedente, questo delle grandi anse e delle grandi cose, con sostituzione e
anche riduzione degli spazi aperti che erano diventati un grandissimo problema, cioè stabilendo
nuove relazioni, nuovi tipi di rapporto tra il costruito e il parco. Questo nel senso la saggezza dice
95
che non sempre quanto più verde tanto meglio, ma verde equilibrato, socialmente controllato,
naturalmente ricco, perché questa è una delle caratteristiche dell’urbanistica moderna che viene
dal salutismo e tutta una serie… sono dei paradigmi che non possono essere mai e non devono
essere mai dimenticati, ma sostanzialmente è così. Nel 2007 quindi è così, e si continua, si
distruggono sostanzialmente le grandi anse e si sostituiscono, si densifica, si trasformano gli spazi
di relazione facendo delle operazioni anche di grande e interessante intervento sugli edifici che
vengono mantenuti. Qui c’è una operazione molto bella dell’attacco a terra, con due piani
trasformati, esistenti, svuotati e rimodellati, resi autonomi e trasformati in duplex, in alloggi
individuali e duplex, al centro viene introdotta una serie di collegamenti verticali in modo tale che
quei lunghissimi 300 metri distributivi non sono più tali, ma vengono sezionati e organizzati e con
anche operazioni ovviamente di nuovi materiali, nuove situazioni, con avancorpi, con situazioni di
questo tipo. Ne vediamo qui degli esempi… occuperò non più di dieci minuti. Naturalmente allora
ne vengono fuori che, laddove è necessario, si introducono allora nuove qualità negli spazi aperti
che cominciano a diventare non più quei terribili luoghi non controllati, ma che sono luoghi
controllati. Si introducono nuovi servizi, si costruisce di più, diciamo che si adombrano degli spazi
urbani, si sostituiscono e si è costruita una grande… una fermata del treno, del treno interno, e poi
si è sostituito ancora edifici che hanno cambiato di scala, che sono non più di quattro piani, che
hanno materiali diversi, che diversificano profondamente l’offerta. In che senso… che cosa
possiamo trarre da questo? Molto brevemente, è rivenuta avanti, se questo può sembrare un
leitmotiv che è più volte risuonato ieri ed oggi a questo tavolo, che ha rivinto la tipologia e la
morfologia urbana tipicamente amsterdolese, che ha riportato edifici a blocco, che ha riportato gli
edifici di dimensione minore, che quando ha mantenuto uno di questi antichi, originali e ottimistici
aspetti dell’edilizia moderna, li ha poi invece ridotti ad exemplum e li ha trasformati reinserendo,
invece che i nuovi edifici nell’antico, ha inserito un vecchio edificio nel nuovo tessuto.
Un’operazione che ha investito quasi tutte le parti della /cosa/. Perché allora preoccupante questo?
Perché di periferie sulle quali sarebbe opportuno intervenire, se non proprio con la stessa terribile
necessità, però ne abbiamo molte, ma qui c’è una capacità dell’Amministrazione Pubblica e una
determinazione e una perseveranza e un disegno di trasformazione che, facendo tesoro degli
errori, per così dire, li vuole trasformare in un successo. È circa vent’anni che ci lavora, ma
concluderà abbastanza rapidamente. Come vediamo lo sfondo è del vecchio edificio e i nuovi
edifici hanno altra scala, riducono… cioè, questa grande capacità di rileggere anche gli errori e di
trasformarli in un’occasione di riflessione e di costruzione della città. Credo che sia finito.
(Applausi)
COLAROSSI: Grazie, un esempio davvero interessante, di grandissimo interesse.
DOLCETTA: Ce ne sono moltissimi in giro per l’Europa di esempi di questo tipo, non è un caso,
cioè si sta ritornando sui progetti degli anni Cinquanta, Sessanta, le periferie francesi, eccetera,
eccetera. Qui si tratta di di prendere atto che alcune ipotesi, che sembravano straordinarie sulla
carta e che rispondevano a una contemporaneità diffusa, sono stati dei gravi errori, e tornare su
questi errori e rimodellare il tutto ha un grande senso civile, se vogliamo. La storia non si ferma e
bisogna fare in modo di non esserne travolti.
COLAROSSI: Si può tornare… si possono risolvere degli errori già fatti. Professor Santiago
Calatrava, per favore.
CALATRAVA: Vorrei prima di tutto chiedere scusa perché questa mattina ho parlato a lungo e
avevo perso un po’ il senso del tempo, per cui sarò molto breve, facendo qualche precisazione.
Quando parlai della Piazza di Sant’Ignazio, effettivamente è una delle più belle piazze, anche in
questo percorso fatto ieri sera, che io consiglio di fare, perché è evidenza di un modo così chiaro e
così il contrasto fra tutte queste macchine parcheggiate e la bellezza dei posti, che richiama
effettivamente… bisogna trovare soluzioni per gestire il trasporto pubblico, ed è urgentissimo. Io
credo che è una delle grandi urgenze, per cui io feci vedere effettivamente queste stazioni in cui io
sono stato coinvolto, stazioni che parlano sia del trasporto urbano che del trasporto interurbano e
che sono dei generatori di città di una grandissima efficacia. Non soltanto evitano questo traffico
che affluisce alle città, di macchine che entrano e escono dalle città, ma anche per se stesse sono
capaci di avere la forza di diventare delle porte della città e dare significato ai luoghi di periferia, e
dare anche un senso a quei posti in cui si arriva con il treno, creando anche delle altre piccole
porte e creando allo stesso tempo, e avendo la capacità di generare città, nel senso di creare di
96
nuovo una nuova piazza e di creare un nuovo accesso attraverso il quale si arriva a tutta questa
rete di elementi. Dunque bisogna vederle effettivamente come i generatori più efficaci di città che
io sappia. Di fatto, per esempio, se voi guardate – tornando a questo paragone fra Roma e New
York – quando venne costruita Grand Central Park Avenue, non esisteva neanche il midtown, non
esistevano tutti questi edifici straordinari che sono stati costruiti intorno alle stazioni, perché
effettivamente sono dei posti, sono le grandi porte delle città e sono anche, come dicevo, elementi
che generano città. D’altra parte parlai anche dei giochi olimpici, o degli eventi come l’Expo in cui
sono stato coinvolto diverse volte, come le scuse che impulsano e danno un impulso che, se ben
pianificato e se ben ordinato, può effettivamente essere l’opportunità di continuare a consolidare e
a creare città. Nel caso di Tor Vergata, le ambizioni che noi tutti abbiamo sono di creare da una
parte un elemento funzionale e anche un elemento referenziale per quella parte della città, non
soltanto per l’Università, ma anche per le vicinanze e anche portato a livello della scala olimpica
che la città vuole, anche per tutta la città. Questo può essere non soltanto attraverso una stazione
di metropolitana costruita lì, anche un centro di generazione di una città del futuro in cui ci sarà la
Banca d’Italia, ci sarà anche l’aerospaziale, ci sarà l’estensione di questa Università che potrebbe,
come seconda Università di Roma, diventare una specie di… fare che quella zona lì diventi una
specie… non è un sogno, è effettivamente una realtà, una specie di Silicon Valley e anche allo
stesso tempo un posto visibile, un posto vivibile. Questo è il mio sogno, una grande zona verde
assieme al parco botanico in cui si potrebbe per esempio proporre di fare una piantumazione
almeno di 12 mila alberi, tanti come gli atleti che vengono a partecipare a questa Olimpiade a
Roma. D’altra parte vorrei dire è importante anche tenere in conto un aspetto che io vorrei
sottolineare, fra le tante cose interessanti che ho ascoltato in questi giorni dai miei colleghi, ed è
questo concetto dell’Agro Romano. Il Professor Portoghesi fece menzione che questa città ha
4.000 anni di storia, dunque pensate che noi siamo capaci di star qua di nuovo entro cent’anni,
discutendo sul futuro della città, vediamo quanto sono cent’anni. Cento anni contro 4.000 anni
sono 36 minuti su 24 ore o 4 ore di una settimana o 16 ore di un mese, o 8 giorni di un anno,
dunque, non è niente, cent’anni non sono niente dal punto di vista del tempo, per cui noi dobbiamo
vedere la proprietà che questa città ha e anche i cittadini romani hanno di questo Agro Romano,
non tanto come una proprietà ma come una eredità che dobbiamo noi stessi lasciare a quelli che ci
seguono, per cui bisogna trattarla con una grande dignità, e bisogna essere coscienti che noi
saremo giudicati con lo stesso rigore con cui noi giudichiamo quelli che ci hanno preceduto. E
bisogna anche pensare, come qualcuno mi disse tempo fa, che le opere ci sopravvivono e che
parlano di noi, e che parlano della nostra epoca e che noi effettivamente abbiamo tutto il diritto di
dire la nostra, e anche l’obbligo di farlo, però consapevoli che effettivamente non abbiamo qua
degli accampamenti permanenti, come si dice. Allora, in quel senso lì vorrei anche, come avevo
cominciato, vi ricordate, o quelli che forse si ricordano, volevo parlare in modo personale del mio
rapporto con Roma e voglio continuare a farlo per concludere e dire che quello che mi ha più
colpito (a parte l’amore che ho per la bellezza e per le bellezze fisiche di questa città e per le
esperienze ottiche che uno può avere camminando nei vicoli e nelle strade, i monumenti… anzi,
ieri sera nel Castel Sant’Angelo, cosa splendida) la cosa che mi ha colpito sempre di più è la
vostra capacità di accoglienza, e la vostra generosità. È curioso perché guadagnate… prendete la
gente non per la volontà soltanto, ma anche per il cuore, quello che ci fa a noi vostri, di voi, per
quello enfatizzavo io che voi siete romani di Roma e noi siamo romani d’altrove. Allora in questo
periplo un po’ errante che ho avuto nella mia vita sono due le città che mi hanno conquistato così,
una è questa, Roma, e l’altra è New York, di cui ho parlato tante volte oggi. Dunque volevo di
nuovo ringraziarvi e dirvi, conservate questa qualità, perché è quella che vi rende forti, soprattutto
in un mondo di globalizzazione, perché vi rende effettivamente universali. Grazie mille.
COLAROSSI: Grazie a Santiago Calatrava, sono due le suggestioni, mi pare, che se ne possono
ricavare, una i cento anni, i cento anni come misura dei tempi della città ma soprattutto come
riferimento anche per il concetto di sostenibilità. Quello che noi facciamo oggi forse durerà molto
tempo, forse ci vorrà molto tempo ma insomma, comunque l’obiettivo, la prospettiva è quella del
futuro. E poi questa di Roma, dei romani che non sono romani, mi sembra anche un’indicazione
molto molto importante e interessante. Adesso finiamo il giro degli interventi con una replica da
parte di Cordeschi e di Portoghesi. Cominciamo con Stefano Cordeschi.
CORDESCHI: Visto che abbiamo parlato di questi argomenti di parti della città da ristrutturare,
questo progetto che vi faccio vedere, che è arrivato alla fase esecutiva, cioè stanno partendo i
97
lavori, che io ho tenuto da parte perché non pensavo che fosse attinente, e invece mi sembra che
può essere interessante se non altro per fare dei paragoni. Ah, no, scusate, prima c’è un piccolo
intermezzo, che abbiamo visto la demolizione e ricostruzione in un’area dismessa e questo invece
è il riutilizzo del Mattatoio, questa è l’area dove si insedierà, si sta insediando Roma Tre, ed è la
trasformazione di uno dei padiglioni di Gioacchino Herzog, il padiglione 8, per ospitare nuovi spazi
per la didattica e la nuova Aula Magna di Roma Tre, progetto che in questo caso ho fatto come
professore e non come professionista. Ecco, questa è la proposta finale che è andata in appalto
integrato e verrà realizzata adesso, è una nuova macchina teatrale infilata dentro l’edificio preesistente, che non viene toccato, quindi ha superato tutte le approvazioni della sovrintendenza,
però ve lo faccio vedere per dire… perché mi pare che una delle domande era, all’interno di queste
aree quando si ritiene giusto conservare, se è possibile fare operazioni innovative. Ora, se questa
sia bella o innovativa non lo so, però è possibile, perché questo verrà realizzato. Però quello di cui
vi volevo parlare è questo progetto che abbiamo portato in fondo, è un project financing che si è
concluso con l’approvazione dell’esecutivo, che è il completamento del Centro Direzionale di
Napoli, l’ho portato molto succinto perché pensavo di non farvelo vedere, ma a questo punto forse
invece era interessante e è un peccato non vedere il progetto di Kenzo Tange, cioè tutte le cose
prima. Quindi sarà molto breve. La parte che vedete sulla sinistra è la parte realizzata del Centro
Direzionale, la parte a destra, perimetrata in rosso, era la seconda parte, perché doveva essere
molto più grande perché c’era una fiducia nel futuro che poi è venuta meno, quindi le grandi sedi
della Provincia, della Regione, cioè grandi istituzioni che poi invece non sono state più fatte perché
è cambiata l’economia. Questo che vedete è un progetto mutilato, la parte a sinistra è il Centro
Direzionale con i tribunali di Pica Ciamarra ed altri, i grandi edifici sulla piastra e quello che vedete
al centro invece è il mercato ortofrutticolo abbandonato, area dismessa molto grande, sulla destra
invece i quartieri Ascarelli e Luzzatti e poi tutto il parco delle raffinerie che è un territorio immenso,
tutto da riqualificare. Il Centro Direzionale di Napoli è un’assurdità, cioè è un pezzo di città
americana al centro di Napoli e ha avuto, un po’ come Canary Wharf, grandi difficoltà a partire,
perché tutte queste grandi volumetrie non sono andate sul mercato, cioè non è che tutti le
volevano, quindi c’era un ottimismo e anche altro che hanno portato a fare questa follia, rimasta
peraltro mutilata. Questo è il Centro Direzione che finisce oggi sul mercato ortofrutticolo, con questi
palazzi enormi, quello a sinistra ad esempio è galleggiante perché sta completamente in falda, qui
la falda è un metro sotto, il mercato ortofrutticolo è stato completamente abbandonato e oggi è un
posto anche abbastanza pericoloso. Il Centro Direzione è rimasto mozzo, letteralmente mozzo, nel
senso che la piastra alta due piani e sulla quale sono montate tutte queste torri, è proprio segata a
metà, ci sono ancora i ferri d’attesa, cioè aspettava un proseguimento che non c’è stato. Il Comune
di Napoli ha lanciato un project financing che ha raccolto un gruppo di imprese a livello nazionale,
per le quali ho fatto il progetto e abbiamo vinto, e il progetto è questo, siamo riusciti… io sono
riuscito a governare le opere pubbliche, purtroppo non quelle private, ma a orientare solamente
alcune scelte, ma non a farne una progettazione. Questo qui è un grande parco di nove ettari, che
abbiamo proposto al posto dell’ortofrutticolo, che doveva arrivare fino a quassù, però non c’è stato
l’accordo con questi proprietari, e sarebbe stato molto più bello perché arrivava fino a Via di
Poggio Reale e quindi l’idea di inserire dentro Napoli un grande parco al centro, che siamo a due
passi dalla Stazione Garibaldi, in una zona dove il verde non c’è. In una prima versione c’era un
grande lago artificiale alla fine di questo percorso, che è un percorso monumentale alla fine della
strada principale del Centro Direzionale, cioè dove stanno gli edifici più alti e che oggi finisce
mozza. In un primo momento c’era un lago, ci si affacciava, una grande scala che scendeva giù,
poi abbiamo cambiato idea e la versione finale invece è quella di lasciare in quota, cioè 12 metri
più in alto del parco un ponte che arriva e scende a destra e a sinistra su due colline e termina con
uno chalet, come lo chiamano i napoletani, con questo francesismo, cioè un edificio per delizie,
che è piccolo ma molto forte, è l’elemento finale. In un primo momento invece qui c’era un lago.
Siccome questo è stato approvato da poco e adesso non posso farvi vedere immagini accattivanti
dell’ultima versione, ma di quella precedente. Gli edifici rossi sono gli edifici privati che sono
residenza, commercio e una parte di ricettivo e terziario, quelli arancioni sono invece le opere
pubbliche che verranno realizzate e sono un centro natatorio, uno spazio per il tennis, gli uffici
comunali sopra, una scuola, delle case in locazione per le categorie più svantaggiate, giovani
coppie e anziani. Noi abbiamo curato solamente il parco, le opere pubbliche del parco e le case in
locazione, che però non vi farò vedere in questa fase. Ecco, questa era la prima proposta del
parco con il grande specchio d’acqua, a sinistra però vedete che avevamo fatto un’ipotesi per cui
98
rimaneva in piedi l’Isola 8 del Centro Direzione di Tange, e poi abbiamo cercato di ordinare quanto
più possibile opere private sull’altro lato, accettando questa impostazione che permetteva la
visibilità del parco dai quartieri Luzzatti e Ascarelli. È stato un progetto con dei problemi notevoli,
ad esempio vedete che il parco in basso ha un triangolo nero, ecco, quella parte doveva essere
eliminata, però io tutte le volte proponevo almeno di rettificare il parco, e vedevo sempre che mi
arrivavano calci sotto il tavolo, cose di questo genere… alla fine mi hanno spiegato che era della
camorra. E poi c’è un altro problema, questo edificio qua che ha una storia quasi divertente, cioè
questo è l’unico edificio che ancora funziona, che doveva essere una struttura del mercato
ortofrutticolo dove però fabbricano televisori e quindi adesso c’è un contenzioso con
l’Amministrazione per mandarli via, ma questo fatto della fabbrica di televisori dove si dovevano
smaltire le zucchine fa parte della fantasia napoletana. E questa è una delle versioni intermedie,
non ancora quella finale, del nuovo parco, è un parco molto strutturato, molto architettonico con
degli spazi per il tempo libero, ad esempio quello al centro che vedete è uno spazio di ristorazione
dove si fanno anche mostre, eventi, eccetera, che verranno gestite dai proponenti per trent’anni e
poi passeranno all’Amministrazione, come anche il centro natatorio, come anche tutte le
attrezzature sportive. L’operazione adesso è arrivata al progetto esecutivo e quindi dovrebbe
partire, credo che siano già cominciate le demolizioni. Quella specie di vermone che vedete qua,
questo, invece quella lì è la stazione della metropolitana che si doveva connettere con noi dello
Studio Miralles Tagliabue e quella in alto, ci dovrebbe essere, qui non si vede in questa
planimetria, ma la stazione della metro che dovrebbe fare Mario Botta. Non siamo mai riusciti a
avere da Mario i disegni per capire e invece ci è arrivato questo strano serpente, dalla Tagliabue,
alla quale ho fatto notare che questa forma, che è una specie di scavo che taglia la piastra del
Centro Direzionale, in realtà taglia come fosse margarina un solaio in cemento armato alto due
metri. Però mi hanno detto che io sono rigido, e allora c’è stata tutta una storia in cui mi dicevano,
ma sii un pochino più moderno, e io gli dicevo, che vuol dire essere moderno?, cioè avrei dovuto
fare anche dall’altra parte della strada dentro il parco un terminale formalmente più sexy, non so
come chiamarlo. Invece noi abbiamo preferito tenerci in un rigore assoluto perché secondo noi in
quel pezzo di Napoli complesso, vissutissimo, rumoroso, coloratissimo, confuso anche, perché ci
sono strutture di tutte le epoche, ci voleva uno spazio di bonaccia, e allora gli abbiamo spiegato
che la bonaccia era fare una cosa semplice. Grazie. (Applausi)
COLAROSSI: Grazie Stefano Cordeschi. L’ultimo intervento il Professor Paolo Portoghesi.
PORTOGHESI: Per rispettare i tempi il mio vuole essere solo un telegramma rivolto al Sindaco.
Abbiamo visto sui giornali la proposta che riguarda la teca dell’Ara Pacis che mi sembra un
risultato importante. Nei disegni però sembra che l’ingresso della galleria che dovrebbe sostituire il
Lungotevere sia messo in modo tale da inevitabilmente passare attraverso i ruderi supposti del
Porto di Ripetta. Quindi io pregherei il Sindaco di assicurarsi che comunque questo tesoro
nascosto, ipotetico, non venga messo in crisi, anche perché questo probabilmente porterebbe poi
ad allungare enormemente i tempi. Questo è possibile. Mi rendo conto che quello di restaurare il
Porto di Ripetta è un sogno (applausi), è un sogno difficile, richiede la distruzione di un ponte,
perché francamente poi può rimanere come un moncone da una parte, ma in realtà il ponte perde
ogni sua ragion d’essere, e certo, è un organo fondamentale della città che viene riproposto, che
potrebbe anche essere ricostruito in modo diverso da come lo aveva disegnato lo Specchi, è
importante però che non venga reso impossibile secondo me questo sogno, cioè non sempre è
possibile lasciare come il Pritaneo riteneva suo dovere una città migliorata, ma è fondamentale
non toccarne le potenzialità nascoste. Ora io credo che il Sindaco stia facendo veramente
qualcosa per lasciare ai suoi eredi una città migliorata, e lo pregherei di non commettere questo
errore e quindi di far sì che il tracciato del tunnel, se di tunnel si dovrà parlare, risparmi questo
aspetto. A questo punto, questo sogno lo lascio in eredità non ai miei figli, che purtroppo non ne
ho, ma ai miei allievi, pensando che appunto un giorno quello che oggi appare impossibile possa
essere realtà.
COLAROSSI: Io termino il mio compito di moderato moderatore con brevissimi ringraziamenti
all’Amministrazione comunale, al Sindaco Alemanno per questo importantissimo evento, al
pubblico che mi sembra abbia assistito con interesse a tutte quante le relazioni, e naturalmente a
tutti quanti i relatori qui presenti. Grazie e lascio la parola al Sindaco di Roma, Gianni Alemanno.
99
ALEMANNO: Io penso che questi due giorni siano stati importanti, vedo che c’è stato un
riconoscimento unanime rispetto allo sforzo che è stato fatto e, ripeto, non è lo sforzo di due giorni,
ma è un lungo lavoro di preparazione. Ringrazio tutti i relatori che si sono fatti sequestrare per due
giorni in pratica, e ringrazio ovviamente questo pubblico che veramente ci ha seguito con grande
pazienza. Credo che sia importante perché noi dobbiamo compiere uno sforzo di trasparenza, fare
eventi di questo genere in un certo senso a monte, all’inizio, all’origine di un processo di
trasformazione significa fare uno sforzo per fare emergere le intenzioni. Pensate a tutte quelle
volte che magari calano sul territorio degli interventi in cui c’è il sospetto della speculazione,
dell’interesse particolare, più o meno legittimo, eccetera, ecco, muoversi in trasparenza, muoversi
con un principio di partecipazione, con un principio di comunicazione, significa anche scongiurare
questo sospetto e andare verso percorsi virtuosi, quasi costringersi a andare su percorsi virtuosi.
Io non voglio neanche eludere le richieste che ci sono state in forme diverse, fino alla signora che
ha parlato prima chiedendo la parola, di partecipare proprio direttamente. Non l’abbiamo potuto
fare qui perché secondo me aprire un dibattito anche per poche persone poi è rischioso, che in
genere poi chi chiede la parola spesso succede, e non voglio offendere nessuno, che magari
quello che ha la richiesta più bislacca da fare più che quello che ha la richiesta più fondata. Però,
siccome viviamo in un tempo in cui qualche cosa la tecnologia ci offre, noi metteremo le relazioni
nel nostro sito istituzionale, nella parte del Progetto Millennium, e apriremo il dibattito sulla rete,
per cui le relazioni e poi progressivamente gli atti che andremo a pubblicare di questo convegno,
saranno oggetto di un confronto su internet, attraverso un blog, nel sito istituzionale nella parte
Progetto Millennium, e ci impegniamo a farlo seriamente, non semplicemente a farci in qualche
modo scrivere dei post o altre cose di questo genere. Quindi da questo punto di vista già avevamo
aperto il dibattito a livello della rete e lo utilizzeremo proprio perché ci sia la possibilità anche su
questo evento specifico, non solo sugli eventi successivi, la possibilità di intervenire direttamente.
Detto questo, prima di giungere rapidissimamente alle conclusioni, ovviamente devo rispondere a
Portoghesi. Innanzitutto la questione del Porto di Ripetta è un tema che è posto con grande forza
dal Professor Tamburrino, che è un po’ l’animatore del nostro piano strategico della mobilità
sostenibile e bisogna capirsi, perché c’è chi dice che ci sia ancora significativamente la discesa al
Tevere a Ripetta, c’è chi dice che sia rimasto molto poco. Certamente non si potrà distruggere
nulla, questo è escluso, anche se volessimo la sovrintendenza archeologica da questo punto di
vista ci blocca per decenni se trova un sasso, figuriamoci se noi andando a scavare troviamo
realmente le vestigia del Porto di Ripetta. In realtà, dove è previsto il tunnel, è un’area – come si è
visto anche nella sezione – di terreno di riporto sopra il grande collettore della sponda del Tevere,
però prima di dare il via al progetto faremo una verifica, cioè andremo un attimo a interrogarci se
effettivamente il sogno della riemersione del Porto di Ripetta non possa essere addirittura il
completamento, la sfida ulteriore rispetto al discorso dell’Ara Pacis e del Tevere, quindi non
escludo nulla. Certamente quello che posso escludere è che si possa distruggere anche una
benché minima parte del Porto di Ripetta, questo è totalmente escluso. Spero di aver risposto con
questo. Adesso io ritornerei un attimo sui tanti temi. Ripeto, noi dobbiamo metabolizzare, fare gli
atti, studiare, comprendere perché qui sono state dette moltissime cose e tutte meritano un
approfondimento. Io però prenderei degli impegni: innanzitutto credo che noi dobbiamo fare uno
sforzo per individuare due scale diverse, la scala urbana e la scala di quartiere. Nella scala di
quartiere credo che noi dobbiamo, diciamo così, cogliere con grande attenzione tutta quella che è
stata la suggestione che è venuta dal Professor Krier e tutto quello che è stato in qualche modo
manifestato in termini di grande attenzione al dato della tradizione, perché è una grande spinta a
recuperare la dimensione comunitaria, identitaria dei quartieri, non recuperiamo la periferia se non
facciamo questo. E quindi da questo punto di vista noi dobbiamo fare uno sforzo per cercare di
ridare anima ai quartieri attraverso questa attenzione. In questo quadro credo che sia ineludibile, e
questo è un impegno che prendo, la questione delle piazze, posta dal Professor Portoghesi. Io
credo che noi possiamo e dobbiamo fare il grande concorso per fare le piazze in periferia, non ci
possono essere soltanto 31 piazze nelle periferie romane, faremo questo grande concorso per fare
nuove centralità, piazze di periferia e, se il Professor Portoghesi sarà disponibile, affideremo la
Presidenza a Portoghesi della Commissione che dovrà valutare questo concorso in maniera tale
che riusciamo… (applausi), e le faremo queste piazze, penso che le faremo con i materiali
tradizionali, perché non credo che si possano utilizzare dappertutto i materiali tradizionali, ma
credo che sia necessario fare questo. Come credo che ci sia un grande bisogno di attenzione
all’arredo urbano, cioè c’è stata trascuranza da questo punto di vista in centro come in periferia, la
100
vivibilità di una città si fa anche molto riprendendo la materialità, pensate per esempio agli esempi
che ha portato Calatrava proprio della percezione diretta di come è fatto l’arredo urbano, pensiamo
alle esperienze di Barcellona, eccetera, dobbiamo fare uno sforzo da questo punto di vista.
Andando invece sul versante della scala urbana, io credo che il tema dei grandi segni non sia
eludibile e questo perché? Perché noi abbiamo detto, primo, quello che è emerso da parte di tutti,
difendiamo l’Agro Romano e quindi l’altro grande impegno è difendere l’Agro Romano e
effettivamente anch’io condivido che sia, tra le tante immagini agricole, di campagne italiane, io
penso che veramente l’Agro Romano sia forse il più bello, perché batte anche la Toscana, batte
anche la Pianura Padana e altre cose, perché è veramente una grandissima immagine, e quindi la
difesa dell’Agro Romano deve essere un grande impegno, chiaro, epocale, definito da parte della
nostra Amministrazione. Contemporaneamente dobbiamo evitare i non luoghi, cioè dobbiamo
evitare quelle situazioni di bordo indefinite, di realtà non costruite, che generano degrado e altre
realtà di questo genere, e dobbiamo evitare che il riempimento, la qualificazione di non luoghi crei
altri non luoghi, per cui dobbiamo dare un limite, un margine, dobbiamo porci il problema del limite,
del margine, recuperare l’idea del margine della città, per fare in modo che dentro le periferie ci sia
poi quell’opera di densificazione e di identità, quindi noi dobbiamo lavorare su questo versante.
Ecco, io credo che ci dobbiamo domandare se non sia anche il caso in qualche modo di ricostruire
un concetto di porte di accesso a Roma, cioè se dentro l’area costruita non si debba ricostituire un
grande margine, magari una grande cintura verde, e anche delle porte di accesso sulle strade
consolari. In fondo anche la Città dello Sport di Calatrava è questo, la città di Calatrava già la
vedete, chiaramente sarà un grande segno arrivando a Roma. Ecco, noi dobbiamo lavorare su
queste realtà con dei segni che dicono state entrando a Roma, non state entrando ovviamente
nelle mura Aureliane, che quello è il centro storico, state entrando nella Roma nuova che non vi fa
attraversare tante periferie, tanti chilometri di periferia indistinti prima di arrivare alle bellezze di
Roma, che già comincia a dare dei segni fortemente architettonici. Quindi dobbiamo recuperare
questa realtà. E anche sul versante della questione delle torri, c’è spazio, non c’è spazio, è una
cosa vietata, non è una cosa vietata, eccetera… ecco, io lì penserei – e questo va studiato
attentamente – però se noi dobbiamo ammettere la presenza delle torri dentro la città di Roma,
credo che sia una grande questione proprio popolare, nel senso che noi possiamo discutere a
lungo di questa vicenda, però poi ci saranno posizioni culturalmente diverse. Io poi penso
veramente che sia il popolo romano che debba scegliere, quindi io non escluderei, magari nella
primavera prossima, di fare un grande referendum cittadino, nel senso di far decidere al popolo di
Roma se alcune forme architettoniche verticali siano totalmente vietate o sono possibili, che non
sia necessariamente farle o farle dappertutto, per carità, perché poi abbiamo visto anche appunto il
Centro Direzionale di Napoli e tutti quanti siamo in qualche modo rabbrividiti in maniera molto forte.
Però io credo che su alcune questioni la primavera prossima, in cui per fortuna non ci sono
elezioni, non ci sono scadenze, sia il caso di fare un pacchetto di referendum popolare tra cui uno
dei temi è questo: Roma deve avere o non deve avere le torri nelle proprie periferie, e altre cose, è
totalmente vietato o è possibile? E questo è un tema che credo che poi alla fine siano i romani a
dover scegliere dal punto di vista chiaro. Detto questo, come facciamo tutta questa realtà, tutti
questi interventi, quello di ieri e quello di oggi? Abbiamo detto, noi dobbiamo fare delle varianti al
piano regolatore, che siano proprio dei piani di assetto complessivi per le aree di valorizzazione,
quelle di cui abbiamo parlato ieri, le aree dismesse, sia per quanto riguarda le modifiche nella
periferia. Probabilmente non sarà una sola variante, dovremo farne più successive per evitare poi
di pretendere di farle tutte quante assieme e quindi di metterci molto tempo, però dobbiamo
affrontare queste varianti, e che saranno il tema della conferenza urbanistica della città che
dobbiamo fare al termine di questo processo, proprio coinvolgendo tutte le varie realtà. Concludo
tornando a un punto, Dolcetta ha parlato di nuovi miti e questo è un aspetto che noi dobbiamo
trascurare, perché la città nuova si fa con il cittadino diverso, con il cittadino nuovo, e quindi noi
dobbiamo fare uno sforzo culturale per lanciare nuovi miti di cittadinanza attiva. Questo è il dato
fondamentale, noi dobbiamo fare in modo di trasmettere fra le persone una cultura diversa che
liberi un po’ dal consumismo tecnologico. Se noi non ci liberiamo, non riduciamo o comunque non
ne riduciamo l’incidenza sulla nostra vita quotidiana del consumo tecnologico, noi possiamo
discutere di piazze, di comunità, di interventi urbanistici, ma poi il cittadino non riuscirà a fare a
meno della macchina, non riuscirà a fare a meno di comportamenti sbagliati e altre cose. Da
questo punto di vista noi dobbiamo fare in modo che la trasformazione della città sia
accompagnata da una trasformazione delle prevalenze, delle egemonie culturali che vivono in
101
questa città, Roma ha la potenza culturale, ha le tradizioni, ha l’identità per trasmettere un’idea di
cittadinanza in cui il rapporto con l’ambiente, il rapporto con il proprio corpo, il rapporto col proprio
prossimo possa essere ispirato a quel nuovo umanesimo che speriamo possa essere il messaggio
che Roma riuscirà a proiettare per il futuro. Grazie.
102