Credito agrario. La valutazione finanziaria delle aziende

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Credito agrario. La valutazione finanziaria delle aziende
Elena Vicini
Voglio morir cantando
Il romanzo della mia vita
Elena Vicini, Voglio morir cantando
Copyright© 2012 Edizioni del Faro
Gruppo Editoriale Tangram Srl
Via Verdi, 9/A – 38122 Trento
www.edizionidelfaro.it – [email protected]
Prima edizione: aprile 2012 – Printed in Italy
ISBN 978-88-6537-001-8
In copertina: Fotografia dell’autrice, Parigi, Jardin du Luxembourg, 2005
Alla piccola Anita,
splendida e misteriosa come la luna
Voglio morir cantando
Il romanzo della mia vita
S
arà perché mia madre cantava sempre la sera per farci addormentare, quando eravamo piccole, io e le mie cinque sorelle,
sarà perché abbiamo ereditato tutte il suo bel timbro di voce e la
sua intonazione perfetta… anche l’unico fratello però, da fanciullo, possedeva una voce argentina, tanto da far pensare ai miei genitori di provare a farlo entrare nel coro del Duomo… sarà perché
tutti insieme, da grandi, avevamo fatta nostra la tradizione dei cori
di montagna che diligentemente noi sorelle cantavamo, nei momenti di importante convivialità familiare, sotto la direzione del
fratello che conosceva la musica, avendo studiato la fisarmonica,
per volontà paterna e sua personale dedizione… Era bello sentirlo
suonare quello strumento da festa paesana che portava allegria in
casa. Ricordo che il mio pezzo preferito era una riduzione per fisarmonica del “Concerto di Varsavia”, su cui poi, crescendo, avrei
imparato a volteggiare ballando, attività artistica che amavo molto
da bambina.
A Natale, soprattutto, non mancavamo mai di intonare, dopo
il lauto pranzo, i cori di montagna e altre canzoni tradizionali.
Il papà e la mamma si aggiungevano a noi ed era un momento
magico rimasto impresso per sempre nel nostro DNA familiare.
Ricordo in particolare quella volta in cui, la sera della vigilia di
Natale, nostro padre ci aveva portato sulla grande terrazza che sovrastava il nostro appartamento, al 12° piano nel sito di via dei
Pellegrini e, nonostante il gelo, ci aveva chiesto di cantare sotto le
stelle “Stille Nacht” per tutti i nostri vicini di casa. Poi, una volta
rientrati, aveva voluto farci ripetere l’esibizione mentre era al telefono per fare gli auguri a un suo caro amico che viveva solo. Tutto
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ciò noi lo trovavamo assolutamente normale e non ci costava affatto perché, prima di tutto, amavamo tutti cantare e poi perché
era un nostro atteggiamento abituale, per educazione ricevuta, il
condividere i momenti di gioia con gli altri. Diventata madre a
mia volta, anch’io avevo preso l’abitudine di addormentare i miei
figli piccoli cantando, ma il patrimonio di melodie nel frattempo
si era arricchito.
Oltre alle filastrocche materne, intonavo dei brani molto più
impegnativi studiati alla Scuola d’Arte Drammatica del Piccolo Teatro: canzoni della resistenza italiana, spagnola e francese,
canzoni di Brecht-Weil (in particolare amavo la “Moldava” e una
“Ninnananna”, bellissime entrambe), ricordi di brani più impegnativi imparati invece durante il periodo scolastico nell’istituto
religioso in cui ho frequentato tutti gli ordini di studio, dall’asilo
alla maturità, in particolare la spericolata, dal punto di vista della
difficoltà, “La Vergine degli Angeli” e il “Va Pensiero” verdiani,
mai più dimenticati. Tutto questo “curriculum” mi ha portato
poi, in epoca più recente, ormai sessantenne, a recuperare questo
retaggio canoro per iscrivermi alla “Schola Cantorum” di Parigi,
città da me amatissima da sempre, ancora prima di vederla, per
la risonanza intellettuale e artistica che suscitava in me, dove ho
vissuto per quasi cinque anni.
La sede della “Schola” era di una bellezza fanée, mi muovevo tra
le sale e gli scaloni dell’edificio antico, bisognoso di ristrutturazione, con una naturalezza e un’affezione che derivavano dal fatto che
i muri scrostati, i tappeti sdruciti, le assi del pavimento sconnesse,
i serramenti che non chiudevano bene e nel contempo il giardino
interno, luogo di pause per prendere respiro con il caffè acquistato
alla macchinetta e il teatrino per i concerti e gli esami di fine anno,
corrispondevano particolarmente alla percezione che avevo di me
stessa, anima nobile come il lampadario di cristallo del salone buono e, nel contempo, essere in disfacimento sotto i colpi bassi della
vita. Ho amato molto quel luogo e sarò eternamente grata a coloro
che mi hanno permesso di frequentarlo, sebbene non come “pro10
fessionista” ma come “amatore”. I due corsi infatti erano distinti,
anche se tenuti dagli stessi professori. Alla fine dell’anno si passava
al successivo solo se si aveva dato prova di impegno e capacità, altrimenti si veniva invitati ad allontanarsi.
Amavo talmente quel luogo e lo sentivo così affine a me che
avevo acquistato un appartamentino a pochi metri di distanza.
Perciò, anche quando non avevo lezione, talvolta passavo di lì e
andavo a prendere un caffè alla macchinetta nella saletta adibita a ristoro, dove spesso incontravo mamme con le loro figlie che
facevano uno spuntino in attesa della lezione, dopo essere uscite
da scuola. Oppure incontravo un signore dai capelli bianchi e il
fisico asciutto, il custode e “factotum” della scuola, anima solitaria che vi abitava e provvedeva all’intrattenimento degli ambienti:
cambiava lampadine, aggiustava qualche leggìo scardinato e faceva le pulizie. Aveva un sorriso per tutti, anche per me e quando
mi vedeva scambiava volentieri quattro chiacchiere. La “Schola”
era un Conservatorio privato, dove si tenevano corsi di musica, di
teatro e di danza. In genere gli allievi e le allieve erano giovani o
giovanissimi, ma accettavano anche persone adulte se mostravano
attitudini serie, soprattutto per la Corale.
Il maestro del coro, di cui anch’io facevo parte, organizzava
tutti gli anni un concerto pubblico in un’importante Basilica del
7° Arrondissement, dove normalmente accorreva un folto pubblico, soprattutto se il programma era particolarmente interessante.
Ricordo che il primo anno ci avevano fatto studiare il “Magnificat” di Bach. Essendo io arrivata nel mese di gennaio, quando gli
altri erano già ad un certo livello di preparazione, avevo preferito
restare tra il pubblico e fare il servizio d’ordine, accompagnando
le persone al loro posto.
L’anno successivo invece mi sono esibita con gli altri, come voleva il maestro, anche se ne avrei fatto volentieri a meno. Eppure
a dodici anni ero già stata una corista del coro della Parrocchia di
cui facevo parte, unica bambina fra tanti adulti, perché, essendo
nell’età difficile in cui la figura paterna era diventata per me uno
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scudo contro il male di vivere che mi aveva già pesantemente colpito, per stare con lui, mi recavo tutti i mercoledì sera nella chiesa
parrocchiale dove il nostro maestro, un musicista compositore che
suonava anche l’organo, ci insegnava i vari pezzi della Messa da lui
composta. Ricordo che quello che amavo di più era l’“Agnus Dei”,
forse perché sentivo mia la sofferenza dell’Agnello di Dio che le
note esprimevano con una dolcezza consolatoria.
Così il Natale si trasformava per me in un tour de force canoro
perché si cominciava la sera della vigilia con “Stille Nacht” sotto le stelle, poi si andava alla Messa di mezzanotte cui seguiva, di
ritorno a casa, una desideratissima cioccolata con panettone per
tutti i sopravvissuti. La mattina dopo ero di nuovo di turno per la
Messa Cantata delle h.10 e il pomeriggio, dopo il caffè, si digeriva
con i cori di montagna, per finire con il “Va pensiero”, meraviglioso compimento di una festività in cui, col passare degli anni, alla
spensieratezza gioiosa della tombola si erano spesso alternate le
cocenti lacrime della mia vita agra.
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La bambina triste che amava ballare
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a piccola ero una bambina triste, eppure mi piaceva ballare.
Avevo una propensione innata per la danza classica e se ne
accorse una manciata di anni dopo anche l’insegnante di mimo
della Scuola del Piccolo Teatro, Marise Flash, che era stata allieva
del grande mimo Lecoque. Quando ci insegnava le famose “camminate” (ad esempio a muoverci come un felino) oppure le varie
“cadute”, indispensabili per un attore, ad esempio quando deve
fingere uno svenimento o una morte senza farsi del male, ogni tanto si arrabbiava con me e urlava: «No, Vicini, così è troppo! …».
intendeva dire che dovevo essere più sobria nei movimenti e poi,
addolcendosi, aggiungeva «tu saresti stata una grande ballerina
espressionista!».
Non so se avesse ragione, in ogni caso non sarei mai potuta diventarlo perché, da piccola, al solito, mio padre mise il veto alla
richiesta di andare a lezione di danza classica. «Non si può». Il
ragionamento era: se faccio questo per te, devo fare altrettanto per
gli altri figli e non ne ho la possibilità. Lui amava i bambini, diceva, inoltre era un cattolico praticante di quelli serissimi, al punto
che fino a 50 anni, prima di recarsi al lavoro, era andato tutte le
mattine nella vicina chiesa a servir messa. Il suo ruolo di direttore
di un’importante libreria legale del centro gli piaceva molto e per
fortuna gli permetteva di mantenere la famiglia: pane e studi per
tutti, ma niente optionals. Era un uomo responsabile, confidava
molto nella Provvidenza Divina, ma sapeva che bisognava darsi
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