Pdf Opera - Penne Matte

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Pdf Opera - Penne Matte
I libri di Davide Consolandi
La Volontà del Fabbro - Edizioni I Doni delle Muse
Questione di sopravvivenza - Edizioni Lettere Animate
Senza catene - Edizioni Autoprodotte
NEMESI
di Davide Consolandi
Copyright © Davide Consolandi, 2015
II Edizione, Edizioni Autoprodotte, luglio 2016
«Dolce è la vendetta; specialmente per le donne»
G. G. BYRON - Don Giovanni
Jonathan, detto Castigo, si svegliò con un vibratore infilato nel retto ma, contrariamente a
quanto si possa pensare, non se ne accorse immediatamente.
Fu un risveglio dolce il suo, di quelli tipici dopo una lunga notte di sonno. Sbatté le palpebre
cercando di abituare gli occhi alla luce soffusa. Fece schioccare le labbra, provò a deglutire,
ma la bocca era secca, la lingua un’appendice di carne morta su un palato di carta vetrata.
Avvertì un lieve ronzio tra le tempie, che crebbe d’intensità con il passare dei secondi fino a
trasformarsi in un dolore pulsante.
Con il cervello che lentamente cominciava a mettersi in moto, si sforzò di prendere coscienza
di sé stesso: giaceva supino su di un letto, nudo, e quando provò a muoversi non ci riuscì, i
muscoli di braccia e gambe si rifiutavano di rispondere. Nonostante il mal di testa si sentiva
stranamente rilassato. Troppo rilassato. Come dopo un’abbondante sniffata di Vicodin.
Rinunciò ad alzarsi per il momento, tentando invece di capire dove si trovasse. Era sicuro di
non essere a casa sua, l’odore di incenso nell’aria era una prova schiacciante. C’era anche una
vaga nota di fumo passivo in sottofondo.
Con uno sforzo non indifferente riuscì a ruotare la testa. Era al centro di un’ampia camera
da letto dalle pareti bianche e il soffitto basso e nonostante la vista annebbiata riuscì
a distinguere tre file di faretti a led che, spenti, lo fissavano dall’alto. L’unica fonte di luce
proveniva da una lampada a stelo posizionata in un angolo della stanza, alla sua sinistra:
sopra di essa, quello che sembrava uno scialle di seta rossa trasformava la luce calda e
morbida della lampada in una tonalità rossastra che donava all’ambiente un’atmosfera da
boudoir. Un’ampia finestra occupava gran parte della parete, regalandogli un panorama
metropolitano immerso nell’oscurità della notte. Sotto ad essa si trovavano due puf in pelle
nera, situati alle estremità di un tavolino in vetro e acciaio che ospitava diversi oggetti, tutti
indistinguibili nella penombra del locale tranne una bottiglia di Jameson, due bicchieri e un
posacenere sul punto di straripare.
Davanti a lui spiccavano tre dipinti astratti, tutti dai colori vivaci, mentre alla sua destra, agli
estremi opposti della parete, vi erano due porte, una chiusa e l’altra aperta per metà, dalla
quale si intravedeva un bagno.
Si sforzò di ricordare come fosse arrivato lì, ma tutto ciò che riuscì a richiamare alla mente
era il suo ingresso al bar.
Devo alzarmi, pensò scuotendo la testa per allontanare il senso di stordimento. Raccolse tutte
le proprie forze e tentò di mettersi seduto ma una scarica di dolore improvvisa lo costrinse
a fermarsi: gli attraversò il corpo, sovraccaricando il sistema nervoso, togliendogli il fiato.
Inarcò la schiena, digrignando i denti, mentre per un riflesso muscolare i glutei si strinsero,
provocandogli una nuova ondata di sofferenza che gli strappò un grido, rendendolo allo
stesso tempo consapevole del corpo estraneo che penetrava il suo sfintere.
«Ho qualcosa nel culo…», mormorò con le lacrime agli occhi, senza crederci veramente, ma
quando l’ennesima stilettata di dolore liquido lo assalì per la terza volta, urlò con convinzione:
«Cristo santo, ho qualcosa infilato su per il culo!».
Si immobilizzò immediatamente, senza trovare il coraggio di respirare. Il terrore si impadronì
di lui scacciando la sensazione di torpore iniziale. La paura portava adrenalina. L’adrenalina
portava lucidità.
Rimase fermo per un tempo che sembrò infinito, con le lacrime che gli rigavano le guance e il
sudore che inzuppava lentamente le lenzuola, prima di trovare il coraggio di muoversi. Devo
capire cosa mi hanno fatto, pensò cercando di dominare il panico.
Con la massima cautela fece per portare una mano verso i glutei, scoprendo con suo grande
stupore di avere entrambi i polsi ammanettati alla testata del letto.
«Che cazzo sta succedendo?!», esclamò con un tono di due ottave troppo alto, avvertendo una
morsa di disperazione stringergli la bocca dello stomaco.
«Ben svegliato», disse una voce di donna alla sua sinistra. Jonathan vide una sagoma nascosta
nella penombra in un angolo vicino alla grande vetrata e una brace di sigaretta brillare nel
buio.
Come ho fatto a non notarla prima?
La luce dei lampioni all’esterno la illuminava quel tanto che bastava per distinguerne le forme,
un perfetto insieme di linee sinuose che disegnavano una figura dalle proporzioni perfette.
«Chi sei?», le chiese, cercando di mascherare come poteva la paura nella propria voce. Era in
preda ai sudori freddi e il cuore sembrava volergli schizzare fuori dal petto.
«Così mi ferisci», disse lei portandosi la sigaretta alle labbra. Fece un lungo tiro e la luce del
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braciere mostrò per qualche secondo un viso di una bellezza priva di paragoni.
«Abbiamo scopato fino a mezz’ora fa», continuò, pronunciando quelle parole senza alcun
pudore né vergogna. «Ragazzi, una prestazione da applausi, tra le migliori che ho avuto,
lasciamelo dire. Possibile che non ricordi?». C’era qualcosa nella sua voce, una fredda nota di
distaccato interesse che provocò a Jonathan la pelle d’oca.
Tutto questo è impossibile, si disse, cercando di ricordare cosa fosse accaduto quella notte.
Non esiste che abbia deciso di provare lo strap-on, non importa quanto abbia bevuto.
Una serie di immagini confuse gli affiorarono alla mente: un vestito giallo, il bruciore del
whisky giù per la gola, il jukebox che suonava The Jack degli AC/DC… e una donna lanciata
in una danza sfrenata e provocante che lo fissava con quegli occhi scuri, così profondi…
dopodiché c’era solo il vuoto.
«Ecco…», disse inumidendosi le labbra nervosamente. «Io… ho ricordi confusi della serata».
«Sarà stato il whisky, che dici? Quel bastardo è in grado di portarti via tutto ciò che hai di più
caro». Il tono della donna era così tagliente da risultare quasi letale.
«Già. Probabile». Jonathan deglutì. «Senti...».
«Ti ricordi come mi chiamo?», lo interruppe spiazzandolo. Non aveva la più pallida idea del
suo nome.
«Dannato whisky», rispose con un sorriso forzato.
Per la prima volta la donna si mosse, dirigendosi al tavolino con passo deciso, senza però
uscire dal velo di oscurità che la celava. Jonathan osservò la sua sagoma scura sedersi su uno
dei puf e spegnere il mozzicone nel posacenere.
«Al contrario di te, io ricordo il tuo nome, Jonathan. E ti dirò di più, conosco anche il tuo
soprannome…».
Una cappa di silenzio calò nella stanza.
«…Castigo».
Ascoltare il suo nome di battaglia uscire dalle labbra di una donna in quel modo così irrisorio,
così irrispettoso, provocò in Jonathan un accesso di rabbia che gli accese le guance di un
rosso vivo. Aprì la bocca per zittirla, ma lei lo anticipò.
«Sono stati i tuoi amici a battezzarti così, non è vero? Dopo tutte quelle storie, tutti quei
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racconti così dettagliati… Ne andrai fiero, immagino».
La donna prese la bottiglia di whisky e ne versò un dito in un bicchiere.
«Ti diverte raccontare della facilità con cui adeschi ragazze ubriache, totalmente indifese, nel
cuore della notte, in bar di second’ordine o per strada».
Si portò il bicchiere alle labbra e lo vuotò in un sorso.
«Ti piace entrare nei particolari mentre descrivi loro come le scopi. Come le castighi. E
scommetto che mostrare a tutti i video amatoriali che fai con il cellulare ti riempia di orgoglio».
Jonathan la fissava con la bocca aperta e gli occhi sgranati per lo stupore, incapace di replicare.
Era la prima volta che una donna si rivolgeva a lui in quel modo, spogliandolo del suo ruolo
di maschio, coprendolo di ridicolo. Avrebbe voluto urlarle di stare zitta, di chiudere quella
bocca da troia, o ci avrebbe pensato lui. Invece rimase zitto, con i polsi ammanettati che
cominciavano a dolere e un bruciore pulsante all’ano.
«Credevi non me ne fossi accorta?», riprese lei con ironia. «Eri talmente ubriaco che non
hai neanche cercato di nasconderlo». Il suo viso era ancora nascosto nella penombra ma
Jonathan era sicuro che stesse sorridendo.
Lei raccolse un oggetto dal tavolino e prese ad armeggiare con le dita continuando a parlare:
«Devo farti i miei complimenti, è un video davvero niente male».
Improvvisamente il silenzio che avvolgeva la camera da letto fu interrotto da una serie di
gemiti e mugolii inconfondibili.
Jonathan strinse gli occhi, cercando di mettere a fuoco l’oggetto che la donna teneva tra le
mani: era il suo smartphone. Nello stesso momento lei girò lo schermo verso di lui: l’ampio
display a cristalli liquidi mostrava due corpi nudi, avvinghiati l’uno all’altro, che in quella
stessa camera, nello stesso letto a cui era ammanettato, erano in piena estasi da sesso
sfrenato. Jonathan riconobbe la propria voce registrata incitare la donna a non fermarsi e a
continuare ancora, ancora e ancora.
«Che ne dici?», gli chiese sempre più divertita. «Ogni tanto l’inquadratura va fuori fuoco,
ma nel complesso la tua esperienza di videoamatore è evidente. Con un montaggio decente
potresti anche tirarci su qualche soldo».
A quel punto Jonathan non riuscì più a trattenersi.
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«Ma chi cazzo ti credi di essere, puttana?!», urlò. «Te ne stai lì seduta a giudicarmi, quando
ieri sera non cercavi altro che qualcuno che ti pagasse da bere e ti scopasse come si deve!».
«Oh, finalmente tiriamo fuori le palle!», rispose lei ridendo mentre appoggiava nuovamente
il telefono sul tavolino. «Cominciavo a pensare che le avessi perse insieme alla verginità del
tuo ano».
«Vaffanculo!», replicò lui in preda alla furia. Si aggrappò alle manette e facendo forza su
braccia e addominali riuscì a mettersi seduto. Fu colpito da una nuova scarica di dolore,
ma strinse i denti e si sforzò di ignorarlo. «È inutile che ti nascondi dietro il sarcasmo, sai
benissimo che è così. Quando vi sentite sole uscite in cerca di un uomo che vi dia qualche
attenzione e che concluda la serata sbattendovi a dovere in qualche latrina dimenticata da
Dio, scoprendo quanto vi piace!
«Non appena siete in gruppo invece vi raccontate un mucchio di cazzate a vicenda, vantandovi
di non darla a nessuno. Vi illudete di avere il potere grazie al buco che Madre Natura vi ha
piazzato tra le gambe, distribuendolo a vostro piacimento. Ma non è così. Siete geneticamente
programmate per essere scopate. Oltre a quello servite a ben poco». Si accorse di aver tirato
fuori tutto in una volta, senza respirare. Stava ansimando.
L’ho lasciata senza parole la stronza, pensò mentre riprendeva fiato, fissando la sagoma
seduta nell’ombra. Era immobile ma riusciva a sentire i suoi occhi addosso che lo scrutavano.
Come risvegliandosi da un leggero assopimento, la donna si accese una nuova sigaretta.
Prese un’ampia boccata di nicotina, espirando poi con soddisfazione, prima di replicare con
estrema calma: «Punto di vista interessante il tuo, devo ammetterlo. Forse l’unico possibile
per un uomo di quarant’anni che gli tira solo con ragazze indifese o vulnerabili, le uniche che
riesce a portarsi a casa».
«Cosa? Io... non è vero che...».
«Stai zitto», lo ammonì, interrompendolo. «Ma guardati, fai pena. Vai in giro atteggiandoti
come se avessi dieci anni di meno. Mostri a tutti il portafoglio gonfio e la macchina sportiva
quando in realtà vivi ancora con tua madre». Jonathan rimase di stucco.
«Come fai...», iniziò a chiederle prima che lei intervenisse di nuovo: «Ho detto di stare zitto!».
Questa volta il tono era perentorio e lui si ammutolì, trattenendo a stento la rabbia. La donna
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aspirò avidamente il fumo dalla sigaretta prima di riprendere.
«Ma tutto questo odio da dove arriva, mi chiedo. Forse mamma non è stata buona con te, da
piccolo? Scommetto che non si è mai tirata indietro dal rifilarti qualche sberla quando ce
n’era bisogno. E anche quando non ce n’era. Ti sminuiva continuamente, ti umiliava a casa e
in pubblico, punendoti quando non ascoltavi ciò che ti diceva». Si nutrì di un’ultima boccata
di fumo e spense la sigaretta, infine aggiunse: «Ammiro tua madre, davvero. Una donna di
gran carattere».
Jonathan era rimasto ancora una volta senza parole, incapace di spiegarsi come quella donna
potesse sapere così tanto sul suo conto.
«Se in passato fossi stata più simile a lei, forse tutto questo non sarebbe accaduto» riprese
lei, continuando il suo monologo. «Sai, fino a non molto tempo fa ero il tipo di ragazza che
hai descritto prima: sola e disperata, alla costante ricerca dell’attenzione di un uomo. Colpa
di alcuni problemi irrisolti con la figura paterna, mi hanno detto. Comunque, dopo diverse
relazioni di merda, decisi di trasformare il mio problema in un mestiere, l’unico possibile
per una ragazza come me. Dopotutto, pensavo, farsi scopare per soldi non poteva essere
così male». Si interruppe per un attimo, girandosi per guardare fuori dalla finestra. Aveva
cominciato a piovere.
«Tutto, però, è cambiato nel giro di una notte… e devo ringraziare mia sorella per questo.
Sono stata costretta, capisci? Per la prima volta nella mia vita ho dovuto dimostrare di avere
un minimo di carattere. Proprio come tua madre», concluse seccamente.
Ma di che cazzo sta parlando? Jonathan era sicuro che la donna stesse delirando, così decise
di prendere in mano le redini del discorso.
«Ascolta, non so perché tu stia facendo tutto questo…», cominciò, ma in quel momento
l’oggetto che violava il suo sfintere cominciò a vibrare violentemente, causandogli una
sofferenza che mai avrebbe creduto possibile. Si buttò all’indietro con forza e sbatté la testa
contro la testata del letto, mordendosi la lingua. La bocca si riempì del sapore metallico del
sangue. Le braccia si tesero in uno spasmo involontario e i polsi sfregarono sull’acciaio delle
manette, causandogli diverse abrasioni che iniziarono subito a sanguinare.
«Ti avevo avvertito di non parlare più. Due volte», disse lei con pacatezza.
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Con gli occhi pieni di lacrime, Jonathan si voltò a guardarla: stringeva qualcosa tra le mani,
un oggetto rettangolare con una luce violacea che lampeggiava a intervalli regolari, simile a
un telecomando. Un vibratore… è un fottuto vibratore anale!
«Basta!», la implorò piagnucolando. «Ti prego, spegnilo!».
La vibrazione si fermò così come era cominciata e Jonathan sentì il proprio corpo rilassarsi,
avvertendo un’imbarazzante sensazione di umido tra le cosce. Allungò il collo per controllare:
si era pisciato addosso.
«Sono curiosa», ricominciò incurante la donna. «Cosa faresti se, durante una delle tue
battute di caccia in cerca di facili prede, incontrassi invece una donna abbastanza forte da
respingerti?».
Jonathan rimase in silenzio.
«Oh, andiamo… rispondi. Hai il permesso di parlare ora».
«Non capisco cosa mi stai chiedendo».
«Sei un misogino, non uno stupido. Rispondi alla domanda».
«Davvero, non so che dirti».
«Coraggio palle mosce! Dimmi la verità! Dimmi...»
«ME LA PRENDO, VA BENE?!» sbraitò. «Gli insegno come si deve comportare una donna! Gli
spiego come rimanere al suo posto: piegata a novanta mentre lo prende nel culo. E che l’unico
momento buono per aprire la bocca è quello per farmi un pompino. Contenta?».
La donna afferrò quella che sembrava essere una pochette dal tavolino, ne estrasse qualcosa,
dopodiché si alzò in piedi. Avanzò con calma verso di lui, uscendo finalmente dalla penombra
e il cuore di Jonathan si fermò per un momento. Ciò che aveva intravisto nel tenue bagliore del
braciere di sigaretta poco prima si rivelò meglio di quanto aveva creduto: era una delle ragazze
più belle che avesse mai visto. Era giovane, sotto i trent’anni, con un fisico atletico e asciutto.
Non superava il metro e sessanta di statura. I capelli a caschetto, nerissimi, incorniciavano
un viso dai lineamenti dolci, privo di imperfezioni, mentre il corpo nudo mostrava una
carnagione olivastra e una pelle di pesca. Sopra i seni piccoli spiccava un tatuaggio, un’unica
parola scritta in un carattere gotico che seguiva la forma di un arco discendente: Nemesi.
Quello che però colpì maggiormente Jonathan furono gli occhi. Erano neri. Profondi. Tristi.
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Fissandoli, mentre lei si avvicinava, ricordò che erano stati il motivo principale per cui
l’aveva scelta. Per la loro infinita tristezza. In preda ai deliri dell’alcol era stato risucchiato
all’interno di quei due buchi neri, da quando era entrata al bar fino al tragitto in macchina
per raggiungere casa di lei. Perfino durante il sesso non era riuscito a smettere di guardarli.
La ragazza si fermò davanti a lui.
«Era questo che dicevi a mia sorella mentre la violentavi?», gli domandò con freddezza. «Era
questo che le ripetevi mentre la pestavi a sangue in un vicolo?».
Fu come se un macigno cadesse sul petto di Jonathan. Non riusciva a muoversi, a respirare.
Vedeva il proprio volto riflesso nello sguardo di lei: i capelli castani spettinati, il principio di
barba che iniziava a spuntare dalle guance, l’espressione di terrore che si stava disegnando.
Fissando quel viso impassibile, ricostruendo la serata passata in sua compagnia, capì una
verità importante: non solo i sogni, anche gli incubi possono diventare realtà.
«Era ancora viva quando te ne sei andato, sai?», continuò. «È morta dissanguata. I medici
hanno detto che ha impiegato circa tre ore a spegnersi definitivamente. Ma è stata fortunata,
mi hanno spiegato. Con tutte quelle lesioni il suo corpo non era in grado di sentire più
alcun dolore, come se il cervello si fosse scollegato dal sistema nervoso. Un meccanismo di
sopravvivenza».
Lei gli mostrò l’oggetto che poco prima aveva estratto dalla borsetta: era una foto. Vi era
impresso il volto di una ragazza giovane e sorridente, con due grandi occhi azzurri, i capelli
biondi e una spruzzata di lentiggini sulle guance rosse.
«Te la ricordi?», gli chiese con voce incrinata e il terrore della consapevolezza colpì Jonathan
come un pugno allo stomaco. Certo che ricordava quella ragazza. L’aveva incontrata qualche
settimana prima fuori dal Jimmy’s, in una serata fiacca. Aveva passato la maggior parte del
tempo alternando una pinta di birra a una striscia di coca, fino a quando non l’aveva notata
camminare fuori dal locale. In quel momento era completamente fuori di sé. Lei aveva fatto la
difficile, ma all’inizio non lo fanno un po’ tutte? Così l’aveva trascinata nel vicolo sul retro del
pub per insegnarle un po’ di buone maniere. La ragazza aveva fatto resistenza più del dovuto
e lui era stato costretto ad andarci giù pesante. Ma non credeva di esserci andato così pesante.
«Si chiamava Sara», continuò lei, senza staccargli gli occhi di dosso. «Aveva ventisei anni. Si
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era appena laureata e aveva cominciato a lavorare in uno studio di architettura in attesa di
iscriversi all’esame di stato. Era lì per cercare me quella notte. Avevamo litigato a causa del
mio lavoro, voleva che ci chiarissimo… INVECE HA INCONTRATO TE!».
Improvvisamente la maschera di freddezza che la ragazza aveva indossato fino a quel
momento si frantumò, lasciando trasparire tutta la sua furia. Afferrò il vibratore con violenza,
spingendolo dentro di lui con un ghigno di perverso piacere. Jonathan urlò come mai prima
di allora, fino a rimanere senza fiato.
«Ci sono volute cinque ore prima che qualcuno la trovasse!», continuò a inveire la ragazza.
«Cinque ore prima che si accorgessero di un corpo steso a terra in una pozza di sangue,
abbandonato come spazzatura!».
È la fine, pensò lui sul punto di svenire. Tutto a un tratto, però, la tortura si interruppe. Tra le
lacrime Jonathan vide la donna prendere dei respiri profondi mentre cercava di riacquistare
il controllo. Nonostante il continuo singhiozzare, decise di provare a parlarle.
«Ti prego…», mugugnò, «…abbi pietà. Cambierò, te lo giuro».
Lei prese un ultimo grande respiro, dopodiché sistemò la foto della sorella sul comodino, in
piedi, appoggiata all’abat-jour. Voleva che Sara vedesse.
«Ascolta, ascolta. Facciamo così: vado a costituirmi. Anzi, ci andiamo insieme», tentò di
convincerla. La ragazza si voltò e si diresse nuovamente al tavolino da dove raccolse la sua
pochette. Lui continuò a supplicarla.
«Puoi portarmici anche così, nudo, ammanettato».
Lei aprì lentamente la zip della piccola borsa e ne estrasse due oggetti di metallo, che
luccicarono debolmente alla luce della lampada.
«Ti supplico…», frignò lui. Senza battere ciglio, la donna si infilò i due oggetti tra le dita di
entrambe le mani. Erano dei tirapugni.
«Ora ti ricordi come mi chiamo?», gli chiese lei mentre si avvicinava nuovamente al letto e
Jonathan esplose in un pianto disperato.
Senza più il controllo di sé iniziò a farfugliare: «Ti scongiuro, non farmi del male!».
La donna sembrava non ascoltarlo. Con un sorriso disegnato sulla labbra sottili, gli si mise
sopra, a cavalcioni, dopodiché si chinò appoggiando la bocca al suo orecchio. Jonathan sentì
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il fiato caldo di lei sulla pelle sudata mentre gli sussurrava: «Mi chiamo Lola». Avvertì il
metallo freddo del tirapugni sul petto, mentre la donna lo faceva scorrere lentamente fino
a raggiungere il suo inguine. Non riuscì a trattenere un brivido e fu colto da nuovi spasmi di
dolore.
«Ma questa notte puoi chiamarmi Nemesi», continuò lei, rialzandosi.
«Per favore! Per favore…», la supplicava inutilmente.
«Sono la dea della vendetta e personificazione della giustizia», sentenziò senza prestargli
attenzione. «Per tutte le donne di cui hai abusato, violentandole, umiliandole, trattandole
come delle nullità». Nemesi allargò le braccia, inarcando la schiena, con i seni sodi sporti
all’infuori.
«No, ti prego!», continuava a piagnucolare lui, con il naso sporco di muco.
«Per Sara, che hai lasciato morire come un cane sull’asfalto dopo esserti preso la sua dignità»,
proseguì lei, facendo schioccare il collo con due movimenti secchi a destra e a sinistra.
«Ora assaggerai tutta la mia collera. La nostra collera», disse guardando la foto della sorella
sul comodino. Alzò il braccio per sferrare il primo colpo e il tirapugni stretto tra le sue dita
scintillò alla luce della lampada.
«Occhio per occhio pezzo di merda!», gridò Nemesi.
A Jonathan il tempo sembrò dilatarsi. Seguì il braccio della donna abbassarsi al rallentatore,
mentre una serie di immagini gli scorrevano davanti agli occhi, dall’infanzia all’adolescenza,
un’umiliazione dopo l’altra, fino all’età adulta dove ancora viveva all’ombra di sua madre.
Il primo colpo lo raggiunse alla faccia con violenza inaudita, spaccandogli lo zigomo, e
un’esplosione di macchie nere gli invase il cervello. Il secondo pugno lo colpì alla mascella,
fratturandogli la mandibola e scheggiandogli diversi denti. La bocca gli si riempì di sangue.
Il terzo colpo era diretto alla tempia e gli provocò un momentaneo blackout. Un velo bianco
si parò davanti ai suoi occhi e il cervello sembrò smettere di funzionare, non registrando più
alcun dolore. Purtroppo, pochi secondi dopo, riprese la sua attività.
Ti prego Signore… lontano. Portami lontano, pregò. Voleva rifugiarsi in qualsiasi altro posto,
l’importante era non rimanere lì.
I pugni continuavano ad arrivare senza sosta. Sentì le costole fratturarsi e il dolore diffondersi
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in ogni terminazione nervosa del suo corpo. Un colpo allo stomaco gli svuotò i polmoni,
lasciandolo senza fiato. Sputò un grumo di sangue e saliva che gli inondò il viso oltre a
macchiare il tessuto bianco del cuscino.
Mentre lo zigomo rotto iniziava a premere sul suo bulbo oculare e l’afflusso di sangue faceva
gonfiare l’occhio riducendolo a una stretta fessura, vide Nemesi mettere una mano sulla sua
spalla destra, bloccandogliela, mentre con l’altra iniziava a picchiare furiosamente sul suo
braccio. Avvertì l’omero spezzarsi dopo il quarto colpo e quello che emise non fu un urlo, ma
un lamento straziato, molto lontano dal poterlo definire umano.
Mentre lentamente cominciava a perdere sensibilità e conoscenza, vide la figura di quella
donna minuta e determinata continuare a menare pugni con una furia cieca. Il suo corpo,
bellissimo e perfetto, era ricoperto di una patina rossa, un velo sottile tessuto dagli schizzi
del suo sangue. Lo sguardo era famelico, bramoso, gli occhi erano in fiamme. La vide passarsi
la lingua sulle labbra, come un animale affamato. Aveva il fiatone. Le vedeva il petto alzarsi e
abbassarsi velocemente, tanto che il tatuaggio sopra i suoi seni, con i capezzoli turgidi e pieni
di eccitazione, sembrava aver preso vita.
Il cervello cominciò a spegnersi, incapace di sostenere tutto quel dolore e improvvisamente
capì cosa intendevano i medici per meccanismo di sopravvivenza. Non sentì più niente,
perdendo qualsiasi cognizione di tempo e spazio. Nello stato di semi-incoscienza in cui era
caduto, riuscì solamente a distinguere una serie di rumori sparsi: acqua che scorreva, un
fruscio di vestiti, tacchi che sbattevano sul pavimento.
Prima di perdere conoscenza del tutto, Jonathan, detto Castigo, sentì una voce lontana dirgli:
«Ricordati il mio nome». Poi una porta sbatté. Dopodiché ci fu solo il buio.
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