RIMBAUD

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RIMBAUD
RIMBAUD
guerra feroce e mortale al destino
C
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L
U
C
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I
Carlo Carlucci
Rimbaud
guerra feroce
e mortale al destino
A Bar
archbar digital / lapis
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questo saggio di carlo carlucci su arthur rimbaud inaugura la
produzione di testi digitali dell’archivio barocco nella serie
poeti/documenti. L’altra serie è dedicata a edizioni, traduzioni o
commenti di classici della cultura europea.
I disegni a pp. 14 e 144 sono di Vieri Carlucci.
Il commento iconografico è a cura della redazione di archbar e non
investe necessariamente la volontà dell’autore.
invio negro
D
UNQUE
RIMBAUD fu come Pinocchio. Entrambe le novelle, esemplari, ebbero non lieto fine.
In principio erat lignus et lignus erat apud pinoculum et lignus erat Pinoculus. ma poi il
pinocchio (P*) si fece carne. lignus caro factus est. uomini-carne finsero un burattino a
loro immagine ed uso, e questa fu la storia; una brutta storia. il filo era d’acciaio temprato e ogni
tentativo di darvi un colpo piccoletto di cesoie è valso in terra milioni di morti (“O millions de
Christs aux yeux sombres et doux”). ® non era nato P*, la famiglia (abbandonata dal padre, militare
di qualche lettura o ambizione se aveva assegnato ai due figli maschi i nomi pesantucci da portare,
per allora, di Arturo e Federico) non era certo florida ma non così all’osso come l’artier legnaiuolo
cepparello, geppetto per gli amici, la bambina dai capelli turchini era in casa, anzi ce n’era una
coppia (Vitalie, che non arrivò a diciassette anni, a tempo per vedere la cattivissima piega presa dal
carissimo fratellino, e Isabelle, la soeur Rimbaud), ® andava a scuola diligentemente ma è dir poco
e non avrebbe sbolognato i suoi libri per tutto l’oro del mondo, può darsi che il gatto-e-la volpe si
fossero per lui unificati nel generoso e modesto (voire mediocre di buona volontà) professor
Izambard. l’unica cosa che a ® non andava a genio, della scuola, era d’essere un gioco troppo facile
per lui, se la beveva in una sorsata e, per metterci qualche bollicina, pensava da solo a impregnarlo
di qualche difficoltà. L’ironia, per esempio, preclusa come sappiamo al mondo degli adulti,
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marzio pieri
comecché professori di retorica (lo era Izambard). L ASCIATE
ALL’ATTACCAPANNI OGNI VOGLIA DI RISO.
LA
RISATELLE O VOI CH’ENTRATE.
PERSONA EDUCATA NON RIDE PER TERRA,
LASCI
spegne il riso nella
sputacchiera. Dante e d’Annunzio e perfino Marinetti, la mummia, vi fu sempre chi li frugava alla
ricerca di lievissime crespe di riso. Dice: scherzavano. Imitando Aube del ragazzaccio Rimbaud,
d’Annunzio si tiene l’acqua sporca dell’estetismo pre-debussiano (il futuro suo Claudio di Francia !)
e butta via il meglio, la pillula Satie, la cannula pinocchiarda. Provai a spiegarlo a uno dei rari
rimbaldisti italiani (un professore d’università che amava il tennis quanto le lettere) e me ne tenne
rancore. professore e cattolico: peggio che andar di notte. ® magari scriveva, in punta di sonetto:
‘meglio che andar di corpo’ (exemplum fictum) e da allora ci sarebbero stati plotoni di enigmisti a
spaccare il capello in 68, hanno però delle giustificazioni: lui si piaceva un mare (le fotografie che
ne restano, sempre quelle, non gli dànno tutti i torti) e insieme si dispiaceva una montagna.
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Invio Negro
Vi sarà certo capitato di aver tanto in ischifo una persona che non riuscite a far a meno di
guardarla. l’ironia era un mezzo per confondere gli altri (diciamo: per appannare la fotografia,
inesorabile) ma anche una bomba molto rischiosa da tenersi in mano per uno che si prendeva tanto
sul serio. ® è uomo di fretta; la in fondo ancora oscura sua sperienza della Comune (in realtà tutto
uno scappa-e-fuggi, un gioco di sponda fra casa di mamma e rughe sanguinose della Parigi
affamata, un torna per non esserci proprio venendo via o arrivando il giorno prima o il giorno dopo
l’evento tanto atteso) mette il THE END alla curiosità rimbaldiana del ‘politico’.
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marzio pieri
La scalata ai poeti lo porta presto à coucher avec Verlaine. L’ultimo fotogramma è il colpo di pistola.
® ha venti anni, non permetterò mai a nessuno di dire che i vent’anni sono l’età più bella della vita,
l’affaire Verlaine è durato dall’autunno del ’71 alla metà del luglio ’74, con l’apparizione della Mère
Verlaine che si mette alle costole di ® e va con lui, ora a Londra ora in Belgio, in cerca del figliuolo
déreglé. queste cose sapeva raccontarle Rossini (‘Il Francese in Londra’), Offenbach (Orphèe aux
enfers, la cui seconda versione, guardacaso, va in scena a Parigi nel febbraio dello stesso 1874),
bastava la decente migrazione di uno des amants da un sesso all’altro (‘Bradamante cangiata in
miglior sesso’).
Kiri Te Kanawa
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Invio Negro
Arthur è un tenorino discendente dall’angelismo dei castrati, Donna Verlenia una donna di mezza
età, vedova e ancora piacente (soprano Colbran), Paolo un basso nobile, o anche un basso comico, o
un tenore corto o baritenore (?), basta che faccia bene la parte del ‘Furioso’ (come nel Furioso
all’isola di San Domingo di Donizetti, opera per l’appunto semiseria, ossia déreglée, che il gran
librettista Ferretti, quello di Cenerentola o la bontà in trionfo, in aggiunta consuocero del Belli,
impasticciò a partire da Cervantes, e per la quale il colpo di genio del praticone Donizetti fu
l’invenzione di una voce che prima non c’era, e ora mancava, quella del baritono romantico, difatti il
primo ‘furioso’ fu Giorgio Ronconi, che sarebbe poi stato il primo Nabucco di Verdi). dovrò
chiamare in soccorso Giuseppe Gioachino Belli? sonetto 801 ed. Vigolo: La stramutazzione, che vuol
dir metamorfosi:
La sai la gran notizzia? Anna Bbalena,
Quella donna co ttanta de ficona,
Che ccantava in commedia a Ttordinóna,
È ddiventata omo, e sse lo smena...
Si tratta del soprano Galzerani, passata dalla protagonista dell’opera ‘inglese’ donizettiana (prima
della trilogia ‘elisabettiana’ del musicista bergamasco, che include dal 1830 al 1837 anche Maria
Stuarda ed Elisabetta la calva) al protagonista, Romeo, en travesti, dei Capuleti e Montecchi di
Bellini, come chiarisce il sonetto 825 (La prima canterina): “Sì, Romea, la regazza de Ggiulijetto...”.
Lotte Schoene, il paggio Urbain (Les Huguenots)
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marzio pieri
Così the soldier GGB, uno che non avrebbe scritto versi se il punto da conseguire fosse stato quello
d’ingabbiare il reale nel petrarchesco, ancora !, e nel poetese. Albertino, il ragazzo di Marcel(la)? I
sessi non esistono, han meno consistenza del poggiare per terra, all’alzarsi da letto al risveglio, il
piede ‘buono’ o quell’altro. I nomignoli bastano a fare il resto (vedi il Rosenkavalier, che della gioia
conosce soltanto la rinuncia). Così, se l’appuntato Giosè ‘si prende’ per un Tàgio dei caffè di Siviglia,
che fa chiamarsi Carmen in cima del bocchino, e lo lascia scappare dopo che ha ferito con arma da
taglio proibita un cameriere che gli ha fatto le lingue, va prigione al posto suo, lo segue a ‘spacciare’
fra i paesini di bassa montagna, poi ‘il’ Carmen si invaghisce a sua volta di un centroattacco della
Hispánica Virtus (dilettanti) e si lascia ammazzare dal Giosè il giorno che colui debutta in serie C...
sono così difficili da trarre le conclusioni? Poeti dall’inferno, ok; ma allora, il bell’Arturo, meglio Di
Caprio facciadaschiaffidangelo (in Eclipse total della Holland), o lo schizoide Stamp voluto da Nelo
Risi (Una stagione all’inferno, 1971)? Nel 1968 Terence Stamp, attore maledetto, era pur stato il
Toby Psycho Dammit di Fellini, da Poe, che si gioca la testa con la bambina Morte.
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Invio Negro
Ma è tutto un gioco di capovolgimenti e di combinazioni, poi. A febbraio l’Orfeo all’inferno, in aprile
® mette in cantiere un ‘Libro Nero’ (livre nègre), nel giugno ‘il’ Carmen tira al ‘Giosè’, e finisce in
galera, in estate il libronero è completato ma cambia titolo: Une saison en enfer. Don Josè
all’inferno? ® tira le somme e comincia quei cinque anni di pellegrinaggi depistanti (noi: e lui),
compreso uno sbarco a Batavia ch’è proprio dietro l’angolo, come ‘coloniale’ del regio esercito
olandese (appena arriva che diserta), e una salita in Svezia e Danimarca impiegato in un circo,
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marzio pieri
On ne part pas. — Reprenons les chemins d’ici, chargé de mon vice, le vice qui a poussé ses racines de
souffrance à mon coté, dès l’âge de raison...
finché nel dicembre 1880 sbarca ad Harrar. qui (dove riparava da Cipro, per aver
caravaggescamente assassinato, sembra, un operaio con una sassata) sembra aver trovato pane per
i suoi denti, scrive forse la cosa sua più bella: il rapporto dell’esplorazione di terre sconosciute
dell’Ogadina (Ogadèn, nel Corno d’Affrica), scritto e pubblicato per la Société de Géographie.
pensate se al liceo quel ragazzo dai diavoli invece che un maestro di retorica avesse incontrato un
professore di geografia, mettete pure uno tornato d’Africa dopo avere viaggiato con Livingstone,
che proprio il 10 novembre 1871 vien ritrovato – “l’esploratore scomparso” – da Stanley nei
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Invio Negro
paraggi del lago Tanganika. Noi crediamo di vivere le ‘nostre’ vite, invece spargiamo semi, perlopiù
invisibili e inverificabili. Tutto ritorna, dunque nulla è mai stato. Doctor Plato, I presume...
No, si sbaglia, sono Tom Mix. Nel 1960 l’Oscar per il miglior film straniero va a una pellicola già
presentata (e premiata) a Cannes l’anno prima, l’Orfeo negro di Marcel Camus, da Vinicius de
Moraes, poeta e diplomatico (come Claudel e come Saint-John Perse), musicista e cinefilo, amico di
Neruda e di de Andrade, di Ungaretti e di Orson Welles. Come le Livre nègre, segnatamente orfico,
era disceso agli Inferi, così l’Orfeu negro di Camus veste carioca. Sono riti che non hanno Sibilla.
L’Orfeu si mangiò il proprio Orfeo come Orfeo fu mangiato dalle femine (Camus fece altri sette film
senza ritrovare né la vena né il successo di quello). Marcel si mangiò l’altro, lui davvero non orfico,
Camus. Albert Camus muore in un incidente d’auto (da lui sempre temuto) il 4 gennaio 1960.
Doveva prendere il treno, ci aveva il biglietto nel portafoglio.
et la voix féminine arrivée au fond des volcans et des grottes arctiques...
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marzio pieri
Ed ecco che cosa va inteso per déréglement, per déraillement des sens. Non è una azione, solo una
ubbidienza.
mp
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RIMBAUD
perché rimbaud ?
È possibile che tutti coloro che si avvicinano all’opera di Rimbaud abbiano
qualcosa in comune, un sostrato profondo che li caratterizzi - come dire - un tocco,
un piccolo carisma di diversità?
All’animale basta un minimo indispensabile; gli
dèi sono soddisfatti del loro splendore; ma
l’uomo non può trovare riposo permanente
finché non abbia raggiunto il bene supremo.
Egli è il più grande fra gli esseri viventi perché
è il più insoddisfatto, perché sente più di
qualsiasi altro il peso delle proprie limitazioni.
È forse la sola creatura capace di essere invasa
dalla frenesìa divina per un lontano ideale.
Sri Aurobindo
Se tu sei destinato a Rimbaud o Rimbaud è destinato a te, è qualcosa cui non si può
sfuggire. Presto o tardi lui entrerà come un vento nella tua vita. L’ordine delle tue
carte potrà esserne sconvolto o il loro disordine ricomposto.
I nostri occhi aperti che scorgono con infinito
stupore l’incessante trasfigurazione di qualsiasi
significato.
A. Pizzuto
Arthur Rimbaud era stato dominante della vita del poeta Antonio Rinaldi, un
carissimo e fraterno amico. Un giorno Rinaldi, giovane professore supplente di
storia dell’arte al Liceo Galvani di Bologna, era entrato in una classe dove Pier
Paolo Pasolini sedeva fra gli alunni. L’anno scolastico era il 1938-39. Quando quel
giovane professore, laureato con Longhi, in luogo della prevista lezione di storia
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Carlo Carlucci
dell’arte preferì leggere la sua traduzione de “Le Bateau Ivre”, il giovane Pasolini
ebbe la cosiddetta ‘folgorazione’, seppe cioè che sarebbe stato disperatamente
poeta.
“Mi apparterrò.”
V. Agnetti
Cos’è, come la chiamava Shakespeare, la “stuff of dreams”, ovvero la sostanza dei
sogni?
Era un periodo in cui mi ricordavo i sogni perché mi concentravo per ricordarli. Il
poeta di Charleville volle entrare con irruenza dentro la mia vita. Non scrivevo più
da anni, assorbito da altre incombenze. Il sogno che ebbi fu una specie di film assai
preciso in atmosfere e dettagli. Una casa di campagna, una sala d’arredamento
ottocentesco, un tavolo ovale, un ragazzo un po' scompostamente seduto che
assomigliava vagamente all’attore Gérard Philippe. In fondo o sullo sfondo, due
figure femminili nei lunghi abiti dell’Ottocento. «Sono Arthur Rimbaud», esordisce
questo personaggio del sogno, «non preoccuparti della tua creatività poetica. Se
non ti riesce di scrivere, cioè. È qualcosa che deve avvenire quando deve avvenire.
Sai, quando ho scritto ‘Le Bateau Ivre’ ero mezzo ubriaco anch’io, non mi rendevo
conto; adesso è una poesia che l’hanno messa perfino nei libri di scuola.» Seguì il
silenzio a queste parole. Poi, con gentilezza, indicando le due figure femminili
appartate sullo sfondo: «Loro, sai, sono le mie zie.»
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Rimbaud
Gaele Covelli (Crotone, 1872 – Firenze, 1932)– La prova dell’abito da sposa
Mi era diventato lampante come l’uomo non
solo languisse nelle catene della vita esteriore,
ma che fosse anche impossibilitato a parlare ...
le sue parole (gesti o movimenti) gemevano
sotto il peso millenario di una apparente e
deformata sincerità ... In che modo il nuovo
dovrebbe scaturire in tutta la sua purezza? ...
dai più remoti distretti dello spirito, parole e
gesti ed immagini come nel sogno velati e come
in sogno svelati ... allora il mio sogno si figge
nella nuova chiarità, il suo peso obbedisce ad
un’altra forza di gravità, il suo colore parla ad
un paio di occhi nuovi che le mie palpebre
chiuse si sono donate a vicenda, il mio udito è
trasferito nel mio tatto, dove impara a vedere.
P. Celan
A quel tempo cercavo ancora di tradurmi l’inspiegabile nei termini della
razionalità.
La motivazione di quel sogno mi apparve ben presto chiara. Ero soffocato dalle
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Carlo Carlucci
incombenze del quotidiano, non riuscivo e non volevo più scrivere e quindi mi ero
prodotto una benefica, calmante autosuggestione. La stessa razionalità, però, la
quale doveva tutto appianare e chiarire, s’impuntava su un dettaglio, sull’indizio
che non tornava con il contenuto del messaggio: le due zie. Passa il tempo, poi
torna nuovamente a galla quel particolare delle due signore sullo sfondo del sogno
e questo particolare continuava a minacciare l’interpretazione razionale che me
n’ero fatto. Ma se Rimbaud avesse veramente avuto due zie? Ne avevo scorso la
biografia, nessuna zia degna di nota; dunque, la conclusione: un quadro razionale
con due ombre illogiche sullo sfondo. Dovevano passare degli anni; poi, una
mattina di un grigio febbraio fiorentino, i passi che mi stavano conducendo in Via
Cavour si fermano quasi nei pressi di Piazza S.Marco, entrano in una libreria di
Reminders - libri a metà prezzo - le mani afferrano un’edizione (Newton
Compton?) delle opere di Rimbaud; le dita sfogliano le pagine, aprono a “Le
cercatrici di pidocchi”, vanno quindi alle note di postfazione: trattasi di un
soggiorno del poeta presso le signorine Gindre, a Douai, zie dell’amico e professore
Izambard, dopo che questi aveva pagato una multa affinché Rimbaud venisse
liberato dalla carcerazione a Mazas - era stato sorpreso a viaggiare in treno senza
biglietto -. Le signorine Gindre, pare fossero affettuosamente chiamate da Rimbaud
‘le mie zie’. Uscii rapidamente. Il grigio, il freddo, l’anonimo e la morte di quanto
animava la strada mi apparvero raddoppiati ed insieme squarciati da qualcosa una luce? - che non conoscevo.
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Rimbaud
Quando iniziò la morte assente.
Il libro si chiude e la mano indica una parola
che non esiste.
Non è più la parola sulla pagina che interessa,
ma l’attesa dentro la mano.
V. Agnetti
La vera ricerca dell’anima è così lontana
dall’ultimo cerchio dell’introspezione da essere
fuori di esso. Fino a quando non avrai
raggiunto quel piccolo anello rosso ed ardente
non sarai vivo. Il numero dei defunti che vivono
e camminano è a dir poco sorprendente.
D. Thomas
Passano le vicende e gli anni. Un giorno irrompe luminosissimo nel piccolo
orizzonte del mio ego il Leopardi, morto-ammazzato e poi sepolto da una scuola
che con “La donzelletta vien dalla campagna” aveva cominciato - fin dalle
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Carlo Carlucci
elementari - a cucinarmelo superficialmente e maldestramente. Fu un ritrovare
finestre sopra l’infinito, un rivitalizzare l’intelligenza, persino l’amor patrio; altro
che quelle sciocchezze sul pessimismo che lo stesso poeta aveva disperatamente
respinto. Ma prima del Leopardi vi era stato, nel 1984, il decisivo incontro con Sri
Aurobindo e Mère. Sri Aurobindo era indiano di nascita; di istruzione europea,
divenne spirito e coscienza universale per auto-formazione. Huxley lo ha definito il
Platone del XX secolo, ma si sarebbe quantomeno approssimato al vero se avesse
citato la figura di Socrate. In realtà, Sri Aurobindo si è avventurato ed ha realizzato
là dove nessuno ha mai tentato o osato. Assieme a lui e dopo la sua morte liberamente auto-autorizzata come sanno fare i grandi yogi - il cammino è stato
continuato da Mère, con il necessario apporto e sostegno di Sri Aurobindo ‘di là dal
velo’. Dopo la scomparsa di Mère nel 1973, il cammino verso l’impossibile - l’unico
praticabile - continua, sull’Himalaya, con Satprem, loro discepolo. Così, sulla
dimensione di questo inarrivabile, di questo irraggiungibile, verso cui
insensibilmente ed anche insensatamente tendiamo, ho potuto affacciarmi sugli
infiniti del poeta di Recanati.
Dovunque. Fuori dal mondo.
Gettarsi in fondo all’abisso, cielo o inferno, che
importa? Nel fondo dell’ignoto per trovare il
nuovo.
C. Baudelaire
Quanto tempo è trascorso da quando ho smesso
di assomigliare a me stesso.
De Lautreamont
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Rimbaud
Un giorno, un amico - Luigi Bianco - mi chiede di scrivere sul Nuovo per la rivista
‘Harta’, che in sanscrito significa ‘Progetto Comune’. Era difficile, perché il Nuovo ci
visita, arriva sconvolgente all’improvviso, poi ci lascia perché siamo
sostanzialmente impreparati.
E questo amico avrebbe poi preteso addirittura una finestrella su questo nuovo,
con una rubrica ‘Nel vuoto del nuovo’. E qui, oltre a Leopardi, Sri Aurobindo, Mère,
Satprem1, respirati come ossigeno dal mio asfissiato ed asfissiante ego, il mio
amico Rimbaud si fa avanti per darmi una mano. Le mie dita si dirigono verso le
sue pagine, sempre e solo sfiorate. Andarsene per sempre è un accadimento
confortato dal clan delle apparenze.
Il sapere è ormai sospetto d’esigere, un’ombra, l’amarezza al bianco-lucente sole.
Una vanità implorata. La necessità di un altro ossigeno. Sospetto altero è il sogno.
1 MÈRE. Nata a Parigi nel 1878 col nome di Mirra Alfassa, riceve una educazione scientifica, matematica.
Attratta dalla musica, dalla pittura, è amica di Rodin, Monet e altri grandi impressionisti, vivendo uno dei
momenti più rivoluzionari dell’arte moderna. Sposa un pittore, studia l’occultismo in Algeria, divorzia per
sposare un filosofo, che come per caso la conduce a Podinchéry, allora India francese. E qui, alla vigilia della
guerra mondiale, Mère incontra Sri Aurobindo. Sarà lui a chiamarla così: la Madre. Soggiorna lungamente in
Giappone, dove pratica a fondo lo zen. Nel 1920 si stabilisce a Pondichéry. Vivrà trenta anni accanto a Sri
Aurobindo, assumendo la responsabilità di un ashram che lei stessa definirà “campionario delle difficoltà
umane”. Intanto si immergerà in quello yoga della materia, o delle cellule, che Sri Aurobindo aveva iniziato e
che lei, pur nella resistenza che la circonda, porterà fino in fondo, quando nel 1973 sarà costretta ad
andarsene. L’Agenda è la storia di questa esperienza.
SATPREM. Nato a Parigi nel 1923, internato perché appartenente alla Resistenza nei lager nazisti, passa gli
anni successivi della giovinezza a vagabondare dall’Egitto alle foreste amazzoniche, dalla Africa Nera al Tibet,
assillato dal bisogno di trovare qual è davvero il senso della condizione umana. Nel 1947 incontra brevemente
Sri Aurobindo; sarà questo fatto a spingerlo a tornare in India e a restare per vent’anni accanto a Mère,
cercando di spiegare in numerosi libri la rivoluzione che Sri Aurobindo e Mère rappresentano. Intanto annota
giorno per giorno le esperienze che Mère gli va rivelando e che costituiranno l’immenso giornale di bordo che
sono i 13 volumi dell’Agenda. Di lui sono recentemente apparsi: “La Rivolta della Terra”, Edizioni
Mediterranee; “Ricerche evolutive”, 1990; “Evoluzione 2 (chi verrà dopo l’uomo e soprattutto come?), stesse
Edizioni, 1993.
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Carlo Carlucci
Non più il nulla dei passi senza fine e passi. Epigrafi, le ore al nostro arreso,
rassegnato, rancoroso, irriducibile pianeta. Appesi segnali di disegnato, ignudo
ignoto.
Da dove sono venuti quegli uccelli d’oro di
Rimbaud? E verso dove volano? Non sono
colombe né avvoltoi; abitano l’aria. Sono
messaggeri particolari, covati nell’ombra e
liberati alla luce di un’illuminazione. Non
hanno alcuna somiglianza con le creature
dell’aria e nemmeno sono angeli. Sono i rari
uccelli dello spirito, uccelli di passaggio che
trasmigrano di sole in sole. Non sono
prigionieri della poesia, anzi, vi si liberano.
Si alzano sulle ali dell’estasi e svaniscono nella
fiamma. Avendo come condizione l’estasi, il
poeta è simile ad un prodigioso, sconosciuto
uccello intrappolato nelle ceneri del pensiero.
Se ha la fortuna di liberarsi, è per compiere una
sacrificale trasvolata verso il sole.
H. Miller
Stéphane Mallarmé avec Méry Laurent
Ed ecco, con tattilità di cieco, cosa le mie dita leggono le parole del poeta: «... la
musica sapiente manca al nostro desiderio.» ... «Che cos’è il mio niente di fronte allo
stupore che vi attende?» ... «E se l’Adorazione se ne va, risuona la sua promessa,
risuona.’ ...
‘Basta con le superstizioni e i vecchi corpi, le famiglie e le età: è tutta l’epoca che è
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Rimbaud
andata a picco.» ... «Noi andiamo allo Spirito. È certissimo. È oracolo, quanto dico: lo
comprendo, e non sapendo come spiegarmi se non con parole pagane, allora vorrei
tacere.» ...
Se dovesse in Francia, per l’avvenire, rinascere
una religione, questa sarà l’amplificazione di
mille gioie dell’istinto del cielo in ciascuno (e
non un’altra minaccia di ridurre questo fiotto
all’elementare livello della politica).
S. Mallarmé
Leopardi si era arrestato dinanzi alla terribile incredulità della morte, di fronte a
questo nascere per morire, all’infinito, nella perennità dei corsi e ricorsi della
Storia. Nessuna speranza per la sua intelligenza in quell’avvenire di progresso su
cui si apriva il secolo. In quei deserti lavici ove si trovava a vivere la sua ultima
stagione ed a scrivere l’ultima poesia “La Ginestra”, sotto quel magma solidificato
giacevano sepolte Ercolano e Pompei; quel deserto lavico era l’emblema delle
“magnifiche sorti progressive” e “monito al secolo superbo e sciocco”.
‘Siècle d’enfer’, l’avrebbe chiamato Rimbaud. ‘Pessimismo cosmico’: così la critica
ha definito quello di Leopardi, e oggi viviamo sotto plumbei cieli di diossido di
carbonio, con le decine di mini-Hitler sparsi per il globo, i loro massacri e tutte le
terrificanti sorti progressive che abbiamo fin qui avuto. E quella speranza del poeta
di Recanati nella volontà degli uomini i quali, dovendo avvedersi un giorno
dell’ampiezza e della profondità delle tragedie che li accomunano, dovranno per
forza di cose avviarsi alla comunione, federarsi contro il fatale incombere dei
comuni mali. E quella sua fede nella bellezza della poesia, nella necessità delle
illusioni, quella sua fede nell’impossibile non sta diventando sempre più
necessaria? Pessimismo tutto ciò? Perché non invece uno straordinario, unico,
altissimo, decisivo e anche paradossale ottimismo?
Rimbaud, con passi di vento tra i torvi bagliori di cinetiche città incivili, aveva visto
oltre il nulla il Nuovo, ma per tradurre le visioni sarebbero occorsi ‘dei verbi
ascetici e delle parole mistiche’ e non le comuni ‘pagane’ parole. E ancora, quel ‘Il
faut être absolument modernes’, nel niente che ci vive, in questa morte che vive tra i
vecchi corpi. Ma come poterlo essere ‘assolutamente moderni’? Quanto non lo è,
non è difficile scoprirlo: basta fermarsi un attimo nella catena di insulti cui
abbiamo condannato l’unicità del nostro vivere. E se fra le lancinanti fitte che ci
assalgono, disperato, un grido d’aiuto ci sale alle labbra, ecco che forse
debolissimo, tentennante, ma sicuro un inizio ...
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Carlo Carlucci
Come se fra migliaia d’anni mi voltassi a
guardare indietro e nel presente di adesso
vedessi l’inizio della leggenda.
Mère
Son testimone e aspetto.
W. Whitman
Mother Sybilla (Guercino)
Walt Whitman (Robert Shetterly)
Stavo dimenticando il punto più importante di una qualsiasi introduzione: quello
di illustrare le ragioni, i fini, che mi hanno spinto a questo studio, nonché ambito e
criteri che lo uniformano. A me pare sempre più decisivo quanto ho già detto: se tu
sei destinato a Rimbaud o Rimbaud è destinato a te, è qualcosa cui non puoi
sfuggire. Prendiamo il caso di Henry Miller ed il suo libro ‘Il tempo degli assassini’,
dedicato al poeta di Charleville.
L’ho letto, quasi per dovere professionale, anche se nel profondo presentivo di
dover fare qualche scoperta. Il titolo è il rintocco conclusivo di ‘Mattinata
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Rimbaud
d’ebbrezza’, un brano delle ‘Illuminazioni’, ma è anche un titolo sonoro, da
effetto televisivo. Mi immaginavo che il Miller teorico dello sregolamento sessuale
fosse stato attratto dalle sregolatezze che hanno accompagnato quella stagione
all’inferno del Rimbaud e invece, pure nel tracimare qua e là della ridondanza
tipicamente milleriana, mi sono trovato di fronte ad una scrittura che non si può
non definire di qualità ‘mistica’; eccone qualche esempio: «Quando questi morti si
desteranno - e si desteranno - la poesia sarà propriamente la sostanza della vita ...
Stiamo ancora usando il linguaggio dell’Età della Pietra. Se gli uomini non riescono
ad afferrare l’enormità del presente, come saranno capaci di pensare in termini di
futuro? Adesso, in un colpo solo, di quel misterioso passato è stata fatta piazza
pulita. Non è rimasto a guardarci in faccia che il futuro. Si spalanca come un
baratro. ... Io sto ancora adoperando il linguaggio dell’Età della Pietra, come vi
potete accorgere. Parlo come se l’atomo di per sé stesso fosse il mostro, come se
fosse lui e non noi ad esercitare il potere ... l’uomo non ha nemmeno cominciato a
pensare. È ancora quattro zampe. Sta barcollando nella nebbia, con gli occhi chiusi,
il cuore che gli martella di paura ... All’uomo è stata data una seconda vista perché
potesse discernere attraverso ed oltre il mondo dell’apparenza. Il solo sforzo che
gli è richiesto è che apra gli occhi dell’anima ...»
Sri Aurobindo, dopo quattordici anni di educazione in Inghilterra tornò in India e lì
a poco a poco le sue simpatie si volsero alla causa del riscatto del suo popolo dal
colonialismo inglese. Verso i primissimi anni del Novecento entrò in un movimento
di resistenza clandestino, finché fu arrestato con l’imputazione di appartenenza
alla resistenza armata, il che poteva comportava la condanna a morte. Aveva nel
frattempo già iniziato delle pratiche yoga per rafforzarsi e prepararsi nella lotta al
colonialismo. Nell’anno di carcerazione ebbe l’occasione di conoscere uno yogi che
gli indusse la trance yoghica. Rilasciato quasi miracolosamente nel 1909,si
allontanò dalla attività politica diretta per seguire la sua ‘sadhana’, o cammino
verso la perfezione. Qualche tempo dopo, veniva isolato - sempre tenuto sotto
controllo dalle autorità britanniche - nel possedimento francese di Pondicherry
con alcuni compagni che lo avevano seguito.
Ad uno dei vecchi compagni delle sue battaglie politiche il quale gli chiedeva
quando avrebbero ripreso la lotta contro l’imperialismo inglese, rispose che quella
lotta l’avrebbe potuta intraprendere chiunque avesse avuto un po' di coraggio e
spirito di sacrificio; la vera battaglia che ora lui doveva intraprendere era invece
contro la natura universale. Si doveva in qualche modo formare una nuova
religione che riassumesse e correggesse le antiche; una religione basata non sui
dogmi, ma sulla conoscenza e sulle esperienza dirette.
Insomma qualcosa approssimabile a quell’ultrafilosofia’ invocata da Leopardi,
l’unica a suo dire capace di “penetrare l’insano, indegno mistero delle cose”.
A Tommaso Boni Menato, che in quel di Roma ha fondato l’Istituto di Ricerche
Evolutive e che ha curato fra le altre cose la traduzione degli imponenti tredici
25
Carlo Carlucci
volumi dell’’Agenda di Mère’, avevo accennato di questo progetto di lavoro su
Rimbaud e gli avevo chiesto, su una terna, quale titolo gli sarebbe sembrato più
appropriato: a questo punto, si dovrebbe veramente e finalmente parlare non dei
confini o dei limiti di questo studio, ma degli infiniti cui esso ha cercato di tendere,
attraverso i lampi, le apparizioni, le visioni che inestricabilmente percorrono tutto
l’intenso, intatto arco della poesia di Rimbaud. I titoli proposti erano: 1°) ‘Mi
apparterrò’ (Vincenzo Agnetti) ; 2°) ‘I suoi sguardi, il suo respiro, il suo corpo, la
sua luce’ (Arthur Rimbaud) ; 3°) ‘Di far guerra feroce e mortale al destino’
(Giacomo Leopardi). Menato ha voluto scegliere quest’ultimo, lievemente
raccorciato, e così l’ho mantenuto. A tutti gli effetti, per il Rimbaud poeta, di questo
si è trattato: di una guerra, feroce e mortale - la sua stessa vita si è giocato - al
destino. La letteratura, la poesia stessa, erano per così dire un fattore secondario,
una sorta di testimonianza non certo del vissuto, delle cieche vicende di un
qualunque io, ma di un’autentica lotta verso la conoscenza senza limiti e la
trasformazione, la trasformazione radicale dell’essere dentro la vita mortale.
Dopo che Verlaine lo ebbe chiamato a Parigi, invocandolo come ‘cara, grande
anima’, così lo ricorda l’amico Delahaye: «Alla vigilia della partenza - fine
26
Rimbaud
settembre 1871 - Rimbaud mi lesse il ‘Bateau Ivre’. “L’ho scritto”, disse, “per
presentarlo a quelli di Parigi.” E quando gli dissi che con la sua poesia avrebbe
eclissato tutti, anche i più famosi, lui si fece malinconico e pensieroso: “Ma che ci
vado a fare laggiù? ... Non so come comportarmi, non so fare dei discorsi ...
No, quanto alle idee, al pensiero, non mi fa paura nessuno ...»
E mi diceva nella sua lettera Boni Menato: «... Alla luce appunto della ‘Agenda di
Mère - che ingloba e, come si suo dire, porta avanti il lavoro di Sri Aurobindo rivisito anch’io a mio modo l’imbarazzante eredità del ‘poète voyant’. Perché
‘imbarazzante’? Perché la rivolta, la ricerca, la sete, la tensione - chiamiamola come
vogliamo - di Rimbaud è dominata dall’ego. D’altronde, lui stesso lo aveva intuito
molto bene: ad esempio - ma solo ad esempio - là dove afferma ‘Je est un autre ...’
E poi, pur con potenti escursioni nel cuore, la sua visione resta confinata nella
mente, non riesce a calarsi nella carne. Ecco allora - poiché l’ego è appunto
dominante - il senso distruttivo dell’échec. È ancora e sempre l’ego, l’ispiratore
della sua rinuncia. In tal senso, l’intera vicenda poetica ed umana di Rimbaud mi
suona non solo come un potente stimolo, ma come una grande lezione. Alla luce di
questa considerazione basilare, eppure tutt’altro che scontata per gli innumerevoli
studiosi dell’’enigmatica’ opera di Rimbaud dei titoli da lei proposti etc. ...»
Il dono segreto di questa poesia sta davanti ai nostri occhi aperti che, per ripeterci
con Pizzuto: «...scorgono con infinito stupore l’incessante trasfigurazione di
qualsiasi significato».
27
I
il sole e il corpo
Isabelle Rimbaud aveva accennato in una lettera alla precocità letteraria del
fratello Arthur che aveva cominciato a scrivere verso i sette anni di avventure in
luoghi favolosi e a volte leggeva ai fratelli quanto aveva scritto e poi
invariabilmente bruciava questo precocissimo narrato.
Una composizione latina in esametri classici, del novembre 1868, rinvenuta nel
‘Moniteur de l’Enseignement Secondaire Spéciale et Classique’ di Douai, ci rivela
un Rimbaud quattordicenne già abile e consumato versificatore, ma non solo. In
latino, la lingua dei miti e del nascente Occidente, il giovane Arthur-Orazio
esprimeva con quale potenza e fulgore fosse stato ‘vocatus’ alla Poesia.
Ampliando uno spunto oraziano (Ep. II,1,70) vediamo come il giovane poeta lucano
(traslato qui dalla natìa Venosa a Roma) per un’indisposizione del maestro Orbilio,
si trova finalmente ad avere una mattinata tutta per sé, libera dalle pressanti
preoccupazioni per lo studio. Il giovane poeta, quindi, se ne va in solitudine verso
la ridente campagna, ove una misteriosa e divina ispirazione dà ali ai suoi ‘sensi
deliranti’. Ed ecco che, mentre si è sdraiato in contemplazione sulla riva di un
fiume, giunge improvviso uno stuolo di candide colombe le quali, dopo avergli
cinto il capo e avvinte le mani con una catena vegetale di rami di mirto, lo
trasportano su un monte eccelso, dove una fulgida luce lo avvolge:
29
Carlo Carlucci
Tornano le colombe con una corona d’alloro intrecciato
Simile a quella che cinge Apollo,
Quando col pollice tocca le sottili corde.
Ma non appena mi cinsero la fronte d’alloro,
Ecco si spalancò il cielo e a me attonito
Febo volando apparve su un’aurea nube,
Porgendomi con mano divina l’armonioso plettro,
Quindi con fiamma celeste sul capo m’iscrisse:
TU SARAI VATE ... nelle nostre membra si diffuse allora,
Un insolito calore quale limpida fonte che ai raggi del sole
S’arroventi splendendo come cristallo.
Le colombe allora, svanito il primitivo aspetto,
Apparvero in coro di Muse, con dolci labbra intonando
Melodie e con morbide braccia reggendomi,
Tre volte i presagi inneggiando, tre volte le tempie cingendo d’alloro.
Con questi versi si apre il sipario e saetta la meteora di questa poesia senza uguali
e la metafora di una vita che straordinariamente si consuma in una manciata
d’anni nella disperata ricerca di un Ineffabile che comunque dovrà venire.
Il prezzo di questo straordinario a lui elargito, Rimbaud seppe pagarlo per intero,
affidando tutto sé stesso senz’ombra di riserve o di calcolo a quanto lo chiamava,
rischiando la distruzione, entrando nei delirî, nelle allucinazioni, nell’inferno, per
approdare alle illuminazioni e quindi definitivamente uscirne angelo in esilio fino
alla morte.
Non è un caso che in una composizione scolastica come alunno di seconda del
Collège di Charleville - questa volta in francese - Rimbaud avesse scelto l’incipit
30
Rimbaud
con l’invocazione alla Venere del De Rerum Natura di Lucrezio, nella traduzione
appena uscita di Sully-Prudhomme. La traduzione fu ritoccata in più punti e
migliorata.
Il mondo non conosce, o Venere, che il tuo impero!
Nulla potrebbe senza te innalzarsi verso il giorno:
Nessuno s’ispira senza di te, né può provare amore!
Al tuo divino apporto nella mia opera io aspiro! ...
Un divino femminile invocato a sostegno dell’ispirazione e che ritroveremo
balenante e misterioso lungo tutto il percorso della sua poesia.
Con la sua più lunga composizione latina - 89 esametri - ‘Giugurta’, Arthur vinse il
primo premio al Concorso dell’Accademia di Douai. Si tratta di un componimento
di notevole forza evocativa ed anticipatore delle simpatie populiste e
rivoluzionarie del suo primo periodo. Interessante per noi è l’epigrafe tratta da un
Balzac poco noto: «La Provvidenza, a volte, fa ricomparire attraverso i secoli uno
stesso uomo.»
Verso i quindici anni, Rimbaud decide di consegnarsi a quanto viene scrivendo e
dunque di conservare i suoi scritti. In una poesia del marzo 1870 appaiono le
sensazioni viste nel carme alla maniera di Orazio, il suo senso panico e quindi
l’abbraccio totale con la natura:
31
Carlo Carlucci
Non parlerò, a nulla penserò,
Ma l’infinito amore nell’anima traboccherà,
E, vagabondo, lontano assai io me ne andrò,
Nella Natura come con una donna la mia felicità.
“Credo in Unam” - poi ribattezzato “Sole e Carne”, che forse sarebbe più
appropriato tradurre in “Sole e corpo”, vista la valenza del termine francese ‘chair’,
unicamente per carne non commestibile e quindi il ‘corpo’ - rappresenta il primo,
concentrato sforzo (circa duecento versi) di dare voce ai tempi dell’Ineffabile.
L’Unam è una proteica divinità femminile: la Natura, innanzi tutto, impareggiabile,
superbamente aliena a dogmi, religioni ed ideologie:
E, quando si è distesi nella valle, si avverte
Che la terra è nubile e trabocca di sangue;
Che il suo immenso seno, sollevato da un’anima,
È d’amore come Dio, di carne come la donna ...
L’andamento del poemetto è ellittico, sinuoso; i lampi, gli éclairs, sembrano
dissolversi, perdersi o spegnersi, come per l’impossibilità di essere trasmessi con
le parole, e poi riapparire ingranditi o costellati di immagini.
I critici di maggior peso - Suzanne Bernard per tutti - nel riscontrare tanti echi ed
ascendenze da Victor Hugo (‘Le satyre’), a Banville (‘L’Exil des dieux’), alle
reminiscenze scolastiche (Lucrezio in particolare), da Leconte de Lisle (‘Poèmes
Antiques’), a De Musset (‘Rolla’), tende a considerare ‘Soleil et Chair’ nel suo
insieme come ‘carente di originalità, brillante esercizio di un alunno dotato.’
32
Rimbaud
Per quanto riguarda gli aspetti formali, è indubbio che il poemetto sia fortemente
intriso dei moduli parnassiani allora imperanti, popolato come appare di ninfe,
Pan, Afroditi, Cibeli e così via. Non dimentichiamo tuttavia che Banville era
l’originale destinatario e l’obiettivo era la speranza di una pubblicazione sulla
rivista “Le Parnasse Contemporain”. E di questa fastosa dovizia di immagini
classicheggianti, Rimbaud saprà presto liberarsi con una semplice scrollata.
I temi contenuti nel poemetto sono il rimpianto per l’Età dell’Oro, quella degli dèi,
del mondo classico, l’affermazione o la speranza che, senza più dèi, l’uomo
finalmente potrà conoscere, la constatazione che l’orgoglio delle nuove scoperte ha
gettato l’umanità in un baratro cieco, la necessità dell’amore della Madre Divina,
unica possibilità di redenzione dell’uomo dal suo stato di ignoranza.
Tale ambiguità, tale sorta di apparente confusione, di costante passaggio dal
rimpianto dell’Età perduta all’affermazione positiva, dalla negazione disperata alla
speranza, all’invocazione dell’amore del dio al femminile, esso solo capace di
redimere - elementi così tipici della poesia di Rimbaud - andrebbero letti ed
interpretati nel loro peso e valore, in quanto costituiscono il carattere distintivo
che individua ed isola “Sole e Carne” rispetto alla moda dei parnassiani. Colori,
suoni, moduli, sono spesso gli stessi; la tensione interiore, il quadro d’assieme, ‘le
bout’, assolutamente no. Nel passato e nel ciecamente orgoglioso oggi, sia la vita
sulla Terra che l’uomo come sua più elevata espressione artistica, sono stati
accompagnati e sostenuti da una ‘Unam’ - ‘Elle’, indissolubilmente e
progressivamente vista come Natura, Venere, Cibele, Donna, Astarte, Madre Divina.
È alla sorgente delle cose che punta la tensione del poeta: è all’uomo il quale grazie all’aiuto della Donna Divina - raggiungerà la méta, che si indirizza il suo
canto. Come nei Veda di cinquemila anni fa: «Hanno raggiunto la méta, sostengono
i ritmi del mondo e cantando intessono la gloriosa danza intorno alla sorgente
delle cose. La Donna, la Divina, è con loro, Colei che allontanerà da noi sete e
desiderio e rimodellerà la mente dell’uomo in forma di divinità.»
E così Rimbaud :
Tornano i tempi, i tempi del passato!
Perché l’Uomo è finito! L’Uomo ha giocato i suoi ruoli!
E nel gran giorno, stanco di infrangere idoli,
libero da tutti i suoi Dèi risusciterà,
Ed essendo del cielo, i cieli scruterà!
Il pensiero invincibile ed eterno, l’Ideale,
Tutto; il dio che vive sotto la sua argilla carnale,
Salirà, salirà, brucerà sotto la fronte!
E quando lo vedrai scrutar l’orizzonte,
33
Carlo Carlucci
Libero d’affanno, dei gioghi sprezzante,
Per la santa Redenzion tu verrai radiante!
E splendida dal seno del grande mare
Tu sorgerai sull’Universo vasto a versare
Nell’infinito sorriso, l’infinito amare!
I successivi 36 versi sono quelli che Rimbaud ha espunto nella stesura per il poeta
Demeny [1844-1918]. Ed è la parte dove, abbandonata tutta l’iconografia
parnassiana, lotta - il contagio del classicheggiante ha preso anche lo scrivente come un Laocoonte nelle spire del serpente del dubbio, sommerso dalla portata di
quanto la Musa gli viene rivelando in forma di Poesia.
Le tre sequenze di questa parte misteriosamente espunta, distaccate anche
spazialmente nei tre capoversi, recitano in successione :
O! L’uomo ha alzato la sua testa libera e fiera!
......................
Noi non possiamo sapere! Noi siamo oppressi
......................
Il grande cielo è aperto! I misteri sono morti
......................
Carlos Dugos, À luz da ideia
La chiave
Questo salire e scendere del dubbio; questa lotta impari col mistero della materia,
questo senso attonito avverso la portata della Rivelazione; questa ragione che è
34
Rimbaud
cieca; questo ‘Pensiero, destriero così a lungo, così a lungo trattenuto / si slancia
dalla fronte ...’: no, tutto ciò non è parnassiano. Sembra che lo stesso poeta non
riesca a capacitarsi di queste contraddizioni di logica che diventano luminosa
chiarità, o meglio ancora, con un ossimoro di Lezama Lima: “Misterio clarissimo.
Claridad misteriosa.”
E tale ‘Elle’, tale Cibele-Gea, la Madre Divina che nei versi soppressi ritorna come
‘Mère-Nature’ :
E l’Uomo può vedere? Può dire: ‘Io credo’?
E se l’uomo nasce così presto e se la vita è così breve,
Da dove viene? Sprofonda forse nell’Oceano profondo
Dei Germi, dei Feti, degli embrioni, al fondo
Dell’immenso Crogiuolo da cui Madre-Natura
Lo resusciterà, vivente creatura
Per amare nella rosa e crescere nel grano? ...
E l’incipit di questa sequenza esclusa spiega il primo verso del quarto e conclusivo
tempo del poemetto («Oh splendore della carne! Oh splendore ideale!»).
Oh! L’Uomo ha alzato la sua testa libera e fiera!
E l’improvviso raggio della bellezza primigenia,
Fa palpitare il dio nell’altare della carne!
Courbet, L’origine del mondo (1866)
La critica ha in certo modo approvato come opportuna la decisione di Rimbaud di
sopprimere quella che invece è a nostro parere è la parte più intensa e rivelatrice
35
Carlo Carlucci
del poemetto e quindi ha interpretato lo splendore della carne nella quarta e finale
sequenza : «Oh splendore della carne! Oh splendore ideale!», come una esaltazione
della donna (‘argilla ideale’). Ma il senso e la portata dell’invocazione sono ben più
vasti. Questa ‘chair’-corpo invocata si ripropone poi nel nuovo titolo “Soleil et
chair”, dove i due termini non sono in antinomia. È il corpo solare, quello della
nuova specie, che qui si prefigura; l’antinomia è invece all’interno del poemetto fra la vecchia specie - quella che continua a perpetuarsi :
Noi non possiamo sapere! Siamo annullati
Da un manto di ignoranza e di anguste chimere!
Scimmie d’uomini cadute dalla vulva di madri
La nostra pallida ragione ci nasconde l’infinito ...
e la nuova specie, per la quale
Il grande cielo è aperto! I misteri sono morti...
Corpo solare
E la scoperta dissonanza è il tempo con questo uomo del passato che è ancora eccome - in vita, e l’Uomo del futuro che si sta preparando. Un Essere che sarà ben
oltre l’uomo attuale, e ben lontano dalla sinistra, titanica intuizione di Nietzsche. Il
tempo, assieme allo spazio, appaiono come due ritmi del possibile - ma
36
Rimbaud
nell’Impossibile con cui Rimbaud dialogava, il Tempo è Uno ed è col Tempo
dell’Impossibile che Rimbaud ancora parla agli uomini dell’Oggi: il Futuro è qui,
anche se pare che ‘l’orizzonte ci sfugga in una fuga eterna’, questo ‘soleil’ che fa come più tardi avrebbe scritto Satprem - ‘fermentare le eresie del futuro’. E così,
per tutto il tempo della Poesia, una manciata di anni mirabili e terribili: il
giovanissimo angelo in esilio era appartenuto - per dirla con le parole di Pessoa - ‘a
ciò che non esisteva dove lui esisteva’.
Paul Klee, Angelo
E tutti i volti del divino femminile invocati, intravisti dal poeta in apparentemente
confusa ridda, sono l’emergere attraverso il poièin di un’antichissima verità,
indagata, conosciuta dalla saggezza dell’India. Nell’‘altare della carne’, il dio è il
‘purusha’ che deve emergere nel dualismo con Prakriti - la Natura - la quale a sua
volta è proiezione della Shakti divina o Madre Suprema o Madre Divina, la quale ha
presieduto alla creazione dell’Universo e ne sorregge l’evoluzione costantemente
dirigendo, filtrando, quasi calibrando le necessarie dosi dell’immenso potere
dell’Uno. Questa divina Shakti va costantemente invocata poiché è la sola che sia
capace di trasformare il nostro pensiero nella suprema gnosi. Gli aspetti di questa
37
Carlo Carlucci
Madre sono multiformi, proteici: vi è Mahakali, la Terribile - la Dèa Khali -;
Mahasaraswati, che sostiene ed illumina tutte le creazioni artistiche; vi è la Madre
del puro ed immenso amore; vi è la Personalità che induce l’estasi direttamente
dall’Amore Divino, colei che è venuta a portare uno splendore ed una forza
d’Amore, una Gioia ed un’Intensità finora sconosciuti sulla Terra. La gnosi del
poeta qui è pre-conscia, a-razionale, ed è ora all’una, ora all’altra delle diverse
Personalità del Divino Femminile che si dirige l’invocazione, l’attenzione,
dell’urgere poetico.
L’altro aspetto non indagato in “Soleil et chair” è il rapporto fra l’uomo e l’anzidetta
gnosi suprema.
La nostra pallida ragione ci nasconde l’Infinito!
Vogliamo vedere e il dubbio ci punisce!
Il dubbio, lugubre uccello che ci percuote con la sua ala ...
Mentre l’orizzonte fugge in una fuga eterna! ...
E qui ci soccorre Sri Aurobindo: «Oggi l’umanità cerca la spiegazione per ogni cosa
nella sua ignorante ragione, nella esperienza di superficie e negli accadimenti
esteriori. Non vede le forze nascoste e le cause interne ben note e visualizzate nella
conoscenza yogica tradizionale dell’India ... Quando avremo superato tutti i saperi,
allora avremo la conoscenza. La ragione è stata un aiuto, la ragione è ora un
impedimento.»
L’apparente inconcludenza dei bruschi passaggi che ci mostrano talvolta l’uomo
cieco e condannato all’ignoranza, talvolta invece improvvisamente assurto al
Sapere più alto - lo abbiamo visto - sono dovuti all’extra-spazio e all’extra-tempo
in cui si trova ad agire il poeta. Una volta Rimbaud vede l’uomo del passato, che è
38
Rimbaud
quello ancora del presente, e un’altra volta l’Uomo del Futuro, esso pure
appartiene a questo presente, quasi come un futuro retrodatato, o anticipato.
Poiché l’Uomo è finito! L’Uomo ha recitato tutti i suoi ruoli,
E nel gran giorno, stanco di distruggere idoli
Resusciterà libero da tutti i suoi Dèi,
E poiché appartiene al cielo, scruterà i cieli!
L’Ideale, il pensiero invincibile, eterno,
Tutto; il dio che vive nella sua argilla carnale,
Salirà, salirà fino ad ardere sotto la sua fronte!
Questo processo di ascesa di una forza nel corpo che sale fino alla sommità del
capo è completato dai versi successivi :
L’Uomo vuole tutto sondare - e sapere! Il Pensiero,
Destriero così a lungo, così a lungo represso
Si slancia dalla sua fronte! Conoscerà il Perché!
Che libero si slanci, e l’Uomo avrà la fede.
L’ascesa e quindi di apertura verso l’Illimitato è così descritto in una lettera di Sri
Aurobindo ad un discepolo: «La forza che Lei ha avvertito deve essere stata nella
sua evidenza il Potere di Kundalini2 che saliva per unirsi alla Forza sovrastante ...
L’apparente espansione del capo è dovuta all’unirsi della Mente con la Coscienza
dell’Essere o Divino sovrastante. Quella coscienza è vasta ed illimitata e, quando vi
si accede, la coscienza individuale rompe le sue barriere e si sente vasta ed
illimitata.»
Dunque, “Sole e carne” - meglio tradotto come “Sole e corpo” - non è tanto quel che
si dice (e come ha voluto la critica) un poemetto d’occasione, un giovanile esercizio
di formazione, in ossequio ai moduli in voga. Anche se nella superficie o
nell’apparato scenico, questo ossequio vi è stato, noi ci troviamo di fronte, in realtà,
alla prima vasta esplorazione di quell’Insondabile cui avrebbe teso con tutte le sue
forze, l’arco della poesia ulteriore.
2
[Kundalini: forza residuale della creazione presente nel corpo umano. Si situa nell’osso sacro, a livello
del più basso dei chakra o punti di energia – nota della redazione].
39
II
la guerra
Le Douanier Rousseau - La guerre (1893)
Il 15 luglio 1870 scoppia la guerra franco-prussiana. Charleville, nelle Ardenne, è a
due passi dal confine; il Collège di Rimbaud è requisito dalle autorità militari
francesi e viene trasformato in infermeria. La guerra voluta dai ministri di
Napoleone III è giudicata da Rimbaud una avventura folle. A Delahaye, che
sosteneva l’indubbia superiorità dei tedeschi, così il lucido e profetico poeta ebbe a
ribattere: «Idioti! Dietro quelle stridule trombe e melensi tamburi se ne
torneranno in patria a mangiare salcicce credendo che tutto sia finito. Aspetta e
vedrai. Sono militarizzati fino alla punta dei capelli e lo resteranno per un bel po'
sotto il tallone di padroni gonfi d’orgoglio che non li molleranno tanto facilmente. E
dovranno ingozzarsi di tutte le porcate della gloria ... Già vedo, sai,
l’amministrazione di ferro e di pazzìa che incasermerà la società tedesca. E poi
finiranno schiacciati da qualche coalizione di stati.» Uno straordinario anticipo di
quanto sarebbe accaduto nel secolo successivo.
40
Rimbaud
Sottratto agli obblighi scolastici, improvvisamente Rimbaud ha a disposizione tutto
l’otium necessario alla sua poesia. Il periodo fra l’agosto del 1870 ed il febbraio
1871 appare assai fecondo quanto alla produzione poetica, solo che l’attenzione è
catturata dagli avvenimenti esteriori e quindi vi è una sorta di ritrarsi
dall’insondabile e dalla profondità della visione verso la superficie.
È dell’ottobre 1870 la composizione “Il fabbro”, rievocazione di quel 20 giugno
1792, in cui il popolo parigino invase le Tuileries. Un macellaio, tal Legendre, prese
da parte il Re e gli fece indossare il berretto rosso; i 178 versi affrescano quel
giorno epico. Per l’ottica che ci siamo dati ci interessa solo un passaggio del
discorso del capo-popolo - qui più plasticamente rappresentato nella figura di un
fabbro - al Re :
Siamo operai Sire! Operai! Noi siamo
per i grandiosi tempi nuovi quando si vorrà sapere,
Quando l’uomo forgerà da mane a sera,
Inseguendo grandi effetti, cercando grandi fini,
Quando, lentamente vincitore, domerà le cose
E monterà sul Tutto come su un cavallo!
Oh splendido bagliore di fucine! Non più il male
Non più! - Ciò che non si sa potrà essere terribile:
Ma noi sapremo ...
Se il grande quadro della rivolta popolare qui rappresentato può essere visto come
premonizione della sollevazione del popolo di Parigi che si sarebbe avuta di lì a
qualche mese - la Comune - vi è anche chi ha voluto leggere nei versi sopra
riportati l’anticipo della ben più vasta e sovvertitrice Rivoluzione d’Ottobre. In
realtà, il poeta sembra accennare ad un sovvertimento ben più profondo che non il
noto conflitto della lotta di classe.
È improvvisamente e nuovamente la penna del poeta visionario, quella che delinea
questi ‘tempi nuovi’, quando l’uomo finalmente ‘vorrà sapere’, ‘inseguendo grandi
effetti, cercando grandi fini’. Questa gnosi superiore gli permetterà in attimi sublimi
di penetrare quel leopardiano ‘insano, indegno mistero delle cose’, facendo
intravedere il tempo in cui l’Uomo sarà capace di domare le cose e montare sul
‘Tutto come su un cavallo’. A quel punto e solo in questa condizione suprema
avverrà la conquista della Conoscenza (e non attraverso un semplice e meccanico
sovvertimento violento dell’ordine delle cose) ‘lentamente vincitore’ - nello
‘splendido bagliore di fucine dove Agni, il fuoco dei Rishi vedici, rigenererà l’Uomo
e finalmente’, ‘non più il male, non più!’ ‘Anche se ciò che non si sa potrà essere
terribile: ma infine noi sapremo ...’
41
Carlo Carlucci
Stremato dagli studi, dalla constatazione dell’inutilità di ogni sapere,
dell’impossibilità per l’uomo di sottrarsi alle ferree leggi della morte, il poeta di
Recanati aveva appena potuto intravedere come lontana, ultimissima ratio, una
sorta di “ultrafilosofia” che nemmeno tenterà poi di precisare nei suoi contorni,
pago dell’esile, equilibrata eternità delle sue ricordanze, del gioco delle sue
illusioni.
Verso quel Sapere, alla chiave dell’insano ed indegno mistero delle cose, tenderà
subito Rimbaud, che non conosceva il Leopardi, ma da dove Leopardi era giunto lui
partiva, per una sorta di staffetta che si passano i grandi poeti attraverso il tempo.
“Morti del novantadue” è un amaro sfogo contro i guerrafondai che hanno
portato al conflitto coi prussiani; “Al concerto” è il fresco ed impietoso quadro di
un pomeriggio di festa con la banda, i giardinetti della Stazione di Charleville ed i
trionfi notabili del luogo che in tanto squallore si pavoneggiano.
“Le risposte di Nina” con eleganza si muove sull’onda sfumata di un eros
adolescente, mentre ogni tanto una sospensione ci proietta dalla libertà fisica dal
contingente dentro la vastità del mondo naturale :
Ai freschi raggi
Del mattino azzurro, che vi bagna
Del vino della luce
Quando fremendo sanguina la campagna
Che d’amor tace
Da ogni ramo la verde goccia,
Il fresco germogliare
Avverte in tutto quanto sboccia
Il carnale amore.
In questa lunga passeggiata amorosa condotta in un dialogo malizioso, un critico tale Richard - ha osservato (e non del tutto fuori luogo) che “pur restando
l’espressione ancora banale e il fantasticare esteriore, questi versi ci sono
infinitamente preziosi, in quanto ci consentono di cogliere l’originario progetto del
desiderio di Rimbaud: trasformare la Terra in un vasto ‘corps amoureux’, aprire le
cose per provocare in esse il brivido ed il risveglio della carne e farvi apparire un
essere nuovo”.
Il nostro grande bosco la linfa sentirà
E il sole di luglio
Quel suo grande sogno indorerà
Di verde e di vermiglio.
42
Rimbaud
Odilon Redon, Le corbeau
43
Carlo Carlucci
Il breve componimento “I corvi” pare sia stato dettato - vi è qualche incertezza
sulla datazione - dalla bruciante sconfitta della Francia ad opera delle armate
prussiane. Veleggiano i corvi a migliaia sui campi di Francia, ‘dove dormono i morti
di ieri’ :
Coloro che in fondo al bosco incatena
Nell’erba da cui non si può sfuggire
La sconfitta che non ha avvenire.
Poteva essere o potrebbe essere un breve scorcio su un tragico paesaggio e
null’altro.
La sequenza dei due versi finali, a noi pare ci proietti all’improvviso ed
intensamente nell’ignoto. ‘Sfuggire / avvenire’ è una rima baciata presente anche
nel testo francese, ‘fuir / avenir’, e quindi ‘avenir’ è entrato come ultimo e
conclusivo termine della poesia, onde rimare con ‘fuir’. Quel senso d’ignoto che ne
deriva parrebbe dunque ascrivibile alla casualità della versificazione, per cui
finirebbe per perdere ogni senso, rientrando nella retorica del banale: con la morte
finisce la vita e quindi non vi è più futuro. E così la critica (Suzanne Bernard) :
«Tutta la poesia traduce quest’orrore per una sconfitta ed una morte stupide.» Ma
se invece il significato profondo, quello verso l’ignoto appunto, non fosse invece - e
questo anche alla luce della sua futura poesia - che la morte in sé, questo artificio
della Natura adottato nel suo processo evolutivo, venga ad essere la sconfitta
definitiva. Analogamente alla drammatica intensità di Leopardi: «A chi piace o a chi
giova codesta vita infelicissima dell’universo conservata con danno e con morte di
tutte le cose che la compongono?»
44
III
verso il battello
A sette anni intesseva i romanzi sulla vita
Del gran deserto ove brilla la libertà infinita ...
Ne “I poeti di sette anni”, cui si riferiscono i due versi sopra citati, con sobria ed
intensa lacerazione il poeta rievoca la propria infanzia, ed è questo raro momento
di referente biografico diretto.
... e nei suoi occhi chiusi vedeva dei puntini.
Una porta si apriva sulla sera: alla lampa
Lassù lo si vedeva brontolare sulla rampa,
Sotto un golfo di luce che pendeva dal soffitto.
D’estate soprattutto vinto ed afflitto
Testardamente nelle latrine al fresco si chiudeva
E lì tranquillo a narici dilatate rifletteva.
Quando dagli odori del giorno il giardino era lavato
Dietro casa, d’inverno e di luna illuminato,
Disteso ai piedi di un muro, sepolto nella marna
Per delle visioni schiacciando la pupilla storna, ...
In un quadro di grande solitudine emotiva, con l’unico sollievo del fantasticare, per
ben due volte lo vediamo intento al gioco delle pupille chiuse e pressate alla ricerca
di quegli effetti ottici in certo modo capaci di avvicinarlo allo straordinario. Non
quindi dei tentativi di veggenza infantile, bensì sintomi di un bisogno estremo questo sì - di superare la ‘réalité rugueuse’:
Quando nella stanza nuda, dalle persiane chiuse
Alta ed azzurra e d’acre umidità impregnata,
Leggeva la sua novella incessantemente meditata,
Piena di acquatiche foreste e di grevi, rossi cieli,
Ove fiori di carne sbocciavano in boschi siderali,
45
Carlo Carlucci
Pietà, vertigine, sconfitte ed un rovinare in niente!
E mentre si svegliavano i rumori della gente
Di sotto, disteso sopra lembi di rozza tela,
Solo e violentemente presentendo in sé la vela!
Il sogno, il fantasticare, il bisogno dell’evasione nutriti da letture di viaggi,
esplorazioni, romanzi d’avventura, in un primo momento sostavano sul dato
immediatamente offerto dalle letture e su tutta l’iconografia tipica dei favolosi
tropici: ‘acquatiche foreste’, ‘grevi, rossi cieli’ etc. -. Ma la stoffa del giovane
sognatore non era certo comune: la sua ‘stuff of dreams’ - come la chiamava
Shakespeare -, ovvero la sostanza del suo sognare, anelava a qualcosa di ben oltre
il noto-ignoto; ed ecco apparire i ‘fiori di carne nei boschi siderali’, le prime
immagini ultraterrene che lo accompagneranno poi nelle prove, negli
sconvolgimenti, nelle rivelazioni nella fase suprema della sua veggenza.
La sequenza finale porta al diapason la dicotomia che spacca il cuore del giovane
poeta: la realtà pesante, ipocrita, soffocante ed il suo anelito a travalicarla. Il tutto
si gioca magistralmente nell’immagine finale della rozza tela trasformata in
metafora di vela.
Un preannuncio del viaggio del battello incantato: un viaggio nell’immanenza
interiore, nel socratico ‘conosci te stesso’, verso l’Ignoto, oltre l’Incomprensione
che fin qui ci ha accompagnato.
Ingo Maurer, Lacrime di pescatore (2009)
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Rimbaud
“Cuore buffone” è una poesia ascrivibile ai giorni ed alle esperienze - in prima
persona - della Comune di Parigi. «Nel mese di aprile», secondo la testimonianza di
Delahaye, «in sei giorni di marcia arriva per la terza volta a Parigi e si presenta al
primo gruppo di federati. Quel fanciullo dagli occhi di miosotide e pervinca così si
rivolge agli insorti: ‘Ho fatto sessanta leghe a piedi per venire da voi ...» Viene
assegnato alla caserma Babylone e l’atmosfera è immediatamente deludente: orgie
di vino e cibo, ‘bacchici rutti’, ‘lazzi di truppa’, ‘schizzi di minestra’. Dalla prua della
sua baldanza giovanile, improvvisamente il cuore retrocede a poppa: «Il mio triste
cuore sbava a poppa ...»
Lo spirito, l’atmosfera dei rivoluzionari sono, di primo acchito, una terribile
delusione per quel grande cuore che avrebbe poi, nelle fasi più incandescenti della
veggenza intravisto - ‘battello incantato’ - «... quanto l’uomo ha creduto di vedere.» E
dunque, non più il dilemma amletico del ‘to be or not to be’, ma ‘Comment agir, ô
coeur volé?’, come agire o cuore defraudato? Se l’azione, anche l’apparentemente
più alta come quella per una causa rivoluzionaria, può essere accompagnata da
gesti, atmosfere così grossolane, basse, volgari (‘Tutte le nostre rivoluzioni’,
avrebbe un giorno scritto Satprem, ‘finiscono a gambe all’aria o dentro un letamaio
proprio perché non abbiamo fatto l’unica rivoluzione che c’è da fare’) qual è la
forma d’azione che poi non si riveli l’ennesima frode per il cuore? Con amaro
sarcasmo, nella ‘Saison’ avrebbe concluso: «L’azione non è la vita (la vera vita), ma
una maniera di sciupare la forza, uno snervarsi ...».
Commentando quella che è forse la sua più intensa ed aerea poesia, “Alla sua
donna”, Leopardi aveva scritto: «La donna, e cioè l’innamorata dell’autore, è una di
quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste ed ineffabile, che
occorre spesso alla fantasia, nel sonno e nella veglia ... l’autore non sa se la sua
donna sia mai nata finora o debba mai nascere: sa che ora non vive in terra e che
noi non siamo suoi contemporanei; la cerca fra le idee di Platone, la cerca nella
luna, nei pianeti del sistema solare ...» E, sullo stesso registro di intensità intuitiva,
ecco quanto scriveva Rimbaud nell’aprile del 1871 al poeta Demeny, pochi mesi
prima di attendere alla stesura de “Le sorelle di carità” :
«Sono da considerare miserabili coloro che non troveranno - donna o idea - le loro
sorelle di carità.» E così nella poesia :
Il giovane dinnanzi alle brutture di un tale mondo
Sussulta offeso in cuore infinitamente,
E colmo di quel dolore eterno e profondo,
Cerca la sorella di carità con la sua mente.
47
Carlo Carlucci
Ma non v’è donna che sia capace di soddisfare tale desiderio o di compenetrarsi in
una figura sostanzialmente trascendente - «... perché altro non è la donna che
mucchio di viscere, dolce pietà ... dai torpori immoti, odî ... cedimenti ... » - e quindi :
Quando la donna lo spaventa, sorretta un istante
Amore, richiamo di vita e canto d’azione,
Vengono la Musa verde e la Giustizia ardente
A dilaniarlo d’una augusta ossessione.
Incessantemente alterato da splendori e calme,
Dalle due implacabili sorelle abbandonato, lamentando
Con tenerezza fra le braccia della scienza alme,
Porta alla natura in fiore la sua fronte sanguinando.
Ma la nera alchimia e gli studi santi
Ripugnano al ferito, d’orgoglio cupo sapiente;
E atroci solitudini sente su di sé marcianti.
Allora bello sempre e della bara indifferente,
Che creda ai vasti fini, Sogni o ad un vagare
Immenso dentro le notti della Verità,
Dall’animo e dalle malate membra è il suo invocare,
O Morte misteriosa, o sorella di carità.
La prima delle strofe qui riportate, per la sua rapida contrazione di significati e di
passaggi, merita un attimo la povera pausa di una parafrasi per agevolarne, nella
ridda delle interpretazioni, il senso. Il poeta, viste le nostre buone intenzioni, potrà
perdonare quel tanto di lapalissiano che sempre accompagna una simile
operazione. E dunque, quando l’amore ci risveglia col suo richiamo di vita e canto
d’azione, la donna che necessariamente incarna questo amore ci delude e spaventa
- o spaventa lo spirito d’amore che ci anima - e quindi ci apriamo alla Musa Verde,
ovvero la Natura (piuttosto che l’assenzio, come qualcuno ha voluto intendere) e
all’ardente Giustizia e quell’aprirci allo sconfinato ed illimitato ci dilania
inesorabilmente.
Nelle alterazioni, nelle lacerazioni, negli sconforti, nelle calme, negli abbandoni - le
sorelle implacabili che lo lasciano possono ben essere la Poesia e l’Ispirazione (e
leggi qui anche la futura, sconfinata prigione dei commerci africani), che egli possa
pur sempre credere ai vasti fini, ai sogni, al vagare immenso dentro le ‘notti della
Verità’. Qui, più che mai, il suo grido è quello del Veggente. Cinque anni prima, in
48
Rimbaud
India - Rig Veda III.39.5 - un rishi aveva scritto: «Scoprì la verità, quella del sole che
dimora nell’oscurità»; ed oggi, in questa notte della Verità, che è apparentemente
sempre più fitta, da un non molto lontano, in tutta la sua disperata audacia e sete
d’Aurora, quel ragazzo così precocemente investito dalla profezia ci parla più
intensamente che mai. In queste inframettanze, nel baluginare del fuoco poetico,
riaffiorano in eco ed in rimando le illuminazioni di Giordano Bruno : “... vaga Fenice
/ Tu che sei fuste, io son quel che non fui. / Io per caldo d’amor muoio infelice, /
Ma te ravviva il sol coi raggi sui, / Tu bruggi in un, ed io in ogni loco; / Io da Cupido,
hai tu da Febo il foco.
E non è certo un caso ritrovare in Bruno quel Febo della consacrazione “Tu vates
eris”, della prima composizione poetica in latino del giovanissimo Arthur.
Un contemporaneo di Rimbaud, Villiers de l’Isle Adam, aveva scritto: «Popoli
dell’oggi, chi siamo noi? Uomini del crepuscolo. Qual è il nostro avvenire? Che
importa. Che forse sanno le foglie dell’inverno dove le porterà il vento? Laggiù si
leva un sole che non vedremo.»
E per spiegare l’intensità, l’isolamento, la grandezza della scelta della solitudine di
Rimbaud, non possiamo non ricorrere alle parole di Edgar Quinet, socialista
utopico, mazziniano, contemporaneo e molto amato dal poeta: «Un nuovo universo
non attende per formarsi che di trovare nel vuoto dei cieli deserti un atomo
morale.» Quell’atomo, per tutto il tempo della poesia, Arthur Rimbaud cercò
disperatamente d’esserlo.
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Carlo Carlucci
L’intensità, la poliedrica valenza delle immagini offerte dal Rimbaud paiono
magnetizzare tutte le altre esplorazioni dell’altrove. Così, questa Natura o Musa
Verde, sempre rifugio o ristoratrice, che ritorna ogni momento, che viene invocata
negli attimi di cedimento come scudo e baluardo, ci riporta al canto di Heinrich
Heine, morto pochi anni prima a Parigi:
«Oh Natura, vergine muta! Come capisco i tuoi lampi, il vano tentativo di parlare
che campeggia sul tuo bel volto. Una pietà profonda così m’assale che infine
piango. Ma allora tu che mi comprendi, ti rassereni e mi sorridi coi tuoi occhi d’oro,
bella vergine io capisco le tue stelle e tu con me le mie lacrime.»
Dai due versi finali disperati e conclusivi - ‘Dall’animo e dalle malate membra è il
suo invocare / O morte misteriosa, o sorella di carità’ - qualcuno, e pour cause, vi ha
visto prefigurata la sua atroce fine all’ospedale di Marsiglia, seguito ed
accompagnato da tutto l’amore e la dedizione della sorella Isabelle.
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Rimbaud
Il celeberrimo sonetto “Vocali” appare come un lieve, aereo tentativo di esplorare
le possibilità di quella futura, nuova lingua capace di riassumere tutto: «... profumi,
suoni, colori ...». È vero che la probabile origine dell’ispirazione del primo verso:
«A nero, E bianco, I rosso, U verde, O blù» deve stare in quegli abecedari colorati che
si usavano all’epoca per insegnare a leggere, ove le lettere delle singole vocali
avevano un determinato colore ed erano poi associate a quattro disegni - A (nero)
= ape, astro, arcobaleno etc. -. Conversando con l’amico poeta Delahaye a proposito
del sonetto, Rimbaud gli confessò in tutta semplicità: «Mi è sembrato di vedere, a
volte mi è parso di vederle così, le vocali e dunque lo dico, lo racconto, ...» In effetti,
si tratta di una calibrata, giocosa armonia di suoni, colori, immagini, ma del
retrostante più profondo, dell’indicibile: «Dirò un giorno delle vostre nascite
latenti.»
Lo slancio, il viaggio, l’attraversamento dello spazio altro da, sono racchiusi nella
terzina finale :
O, Tromba suprema di stridori fondi,
Silenzi attraversati dagli angoli e dai mondi,
O l’Omega, raggio violetto di quei Suoi Occhi!
Le scarne spiegazioni date dal poeta al Delahaye si possono completare con le
parole di Mallarmé: «Poesia è l’espressione attraverso il linguaggio umano,
ricondotto al suo ritmo essenziale, del senso misterioso degli aspetti dell’esistenza,
il quale dona così autenticità al nostro soggiorno terreno e ne costituisce il solo
compito spirituale.»
Il foglio manoscritto col sonetto “Vocali”, nella copia in possesso di Verlaine,
conteneva anche una quartina che in senso anche solo coloristico fa da pendant
finale. Suzanne Bernard osserva che si tratta di «... un ‘blasone’, del corpo
femminile, ove ogni verso, costruito sempre nello stesso modo, mette in rilievo alla
cesura un aggettivo di colore.»
Lo riportiamo qui in una traduzione che ha cercato di ritrovarne l’intensità
originaria.
La stella ha pianto rosa al cuore del tuo udito,
L’infinito dalla nuca alle tue reni rotolato bianco;
Il mare al tuo vermiglio petto di rosso s’è imperlato
E l’Uomo insanguinato nero al tuo sovrano fianco.
«L’uomo giusto» è titolo di una poesia considerata parte di un poema più vasto.
E vi è chi si è domandato se per caso questo frammento non facesse parte di
51
Carlo Carlucci
“Veilleurs”, il grande poema andato perduto il quale, secondo Verlaine, era l’opera
più bella di Rimbaud. «L’homme juste» è qui il maledetto che si oppone a Cristo
ed i versi rappresentano uno dei punti più alti e blasfemi della rivolta anticristiana
di Rimbaud.
In realtà, tutta la rivolta antireligiosa - qui ed altrove - era dettata da qualcosa di
più alto del maledettismo o del demonismo.
Rimbaud, che verso i dodici anni aveva avuto fortissimi slanci mistici, era giunto ad
odiare quella sorta di menzogna di Dio, di incomprensione di Dio quale era
consegnata dalla religione praticata e bigotta; soprattutto, odiava il falso pietismo,
la vocazione alla autoflagellazione, l’automartirio, la sottomissione,
l’annichilazione umiliata e umiliante del sé propria del cristianesimo cattolico di
quei tempi.
Ma in qualsiasi abbassamento dovuto all’invettiva, al sarcasmo, Rimbaud trova
sempre uno sguardo, uno spiraglio, per la sua proiezione dentro l’Assoluto :
Mentre che silenzioso sotto i pilastri
D’azzurro, nodi e comete allungando
D’universo, rimescolìo enorme senza disastri,
L’ordine che veglia eterno, nei cieli luminosi navigando,
Dalla sua draga in fiamme lascia filare gli astri.
Le dichiarazioni e la presa di coscienza presenti nella ‘Lettre du voyant’
consentono a Rimbaud di affrancarsi definitivamente da qualsiasi debito verso i
parnassiani e verso quel tale Théodore de Banville, di cui pure era stato un così
fervido ammiratore : «I secondi romantici sono assai ‘veggenti’ : Th. Gautier,
Leconte de Lisle, Th. de Banville.
Ma investigare l’invisibile ed ascoltare, l’inaudito è ben altro che riprendere lo
spirito delle cose morte. ... »
Dedicato a Monsieur Théodore de Banville il poemetto : «Ciò che si dice al poeta
a proposito dei fiori» contiene tutto un emporio ironico, sarcastico ed elegante
dei ‘topoi’ parnassiani, un caustico esercizio di stile condotto con irruente baldanza
giovanile.
Ma bene osserva la Bernard che «... sotto la forma ‘funambolesca’, si nasconde un
pensiero piuttosto serio: Rimbaud richiede a Banville, comme espresso nella sua
lettera a Demeny, l’espressione del Nuovo in idee e forme adeguate.»
Non si tratta più di cantare i gigli e le rose o di evocare un esotismo a comando in
versi regolari - di essere puramente «dei costruttori di esametri!» - il poeta deve
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Rimbaud
andare verso l’ignoto. Così nel poemetto arpeggiato dall’ironia, l’improvviso
squarcio :
Ecco! È il secolo d’inferno!
E i pali telegrafici
Lira dai ferrei canti, adorno
Dei tuoi omeri magnifici!
sono i toni di quel leopardiano : «... secol tetro e nell’aria irrespirabile.»
Nel successivo “Le Prime Comunioni”, poemetto inviato a Verlaine nel corso
dell’estate 1871, la vis polemica antireligiosa non è ancora spenta: non più la figura
di Cristo è oggetto dei suoi strali, ma la sua influenza, ‘parmi l’église’, sulle donne
cui lui ‘ruba’ le energie rendendole sofferenti e malate. In tutta l’artificiale
atmosfera del poemetto, vi è un unico stacco, al solito verso l’alto:
William Turner, Flint Castle
Viene la notte, nero pirata che sbarca nei cieli d’oro ...
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IV
tu vates eris
In due lettere scritte tra il 13 ed il 15 maggio 1871 - nel pieno infuriare della
battaglia di Parigi - indirizzate ai due amici che aveva a Douai, Georges Izambard, il
suo professore di francese, e Paul Demeny, Rimbaud sente che è giunto il momento
di spiegare le ragioni della sua poesia. Con Izambard è assai sintetico: oramai sa di
non essere capito più dal suo ex professore; e questo sarà l’ultimo scambio di
messaggi che i due avranno. Ne dovevano avere già discusso ampiamente; è
rifiutata la tesi dell’’alcunché di oggettivo’ che deve entrare nella poesia e alla fine
Rimbaud sarcasticamente obietta: «In fondo, lei nel suo principio non vede che
poesia soggettiva: la sua ostinazione nel ritrovare un posto alla greppia
dell’Università - mi scusi - sta a dimostrarlo.» Poi, per sommi capi, gli accenna alla
necessità di sregolare tutti i sensi per poter giungere all’ignoto, proclamando il
famoso ‘je est un autre’. Allega una poesia, “Il supplizio del cuore”, che prenderà
poi il titolo di “Cuore buffone” e questa volta, con più affettuosa e candida ironia,
prega il professore di non fare correzioni né a matita, né col pensiero.
La lettera a Demeny invece intende essere un vero e proprio manifesto del suo
agire in poesia, dopo che gli era stato proclamato quel ‘TU VATES ERIS’. Si tratta di
un documento straordinario, perché unico nel suo genere, nella poesia
dell’Occidente.
Le letture e gli attraversamenti sono al solito molteplici: vi è narrato dell’io, del
poeta, della lingua nuova, dell’ignoto, dell’avvenire e della Nuova Poesia.
È possibile che dopo aver intravisto in tutto il suo bagliore ‘quanto gli uomini
hanno creduto di vedere’ - è importante forse sottolineare quel verbo ‘hanno
creduto’, perché lui no, lui aveva ‘visto’ veramente - dopo aver intuito che ci
attendeva un nuovo corpo, una nuova éra, si era reso conto che era troppo presto e
che il darne forma, voce gli fosse precluso. La sua poesia era solo un riflesso di quel
Nuovo così Immanente e così irraggiungibile e lui era solo e il solo a presentirlo.
Mallarmé, che aveva intuito la strada di Rimbaud, nelle due prime quartine dei
sonetti I e II dai “Plusieurs sonnets”: «Quand l’ombre menaça de la fatale loi / Tel
vieux Rêve ... » e « L’oggi così bello, vivace ed inviolato / Potrà con un colpo d’ala
ebbra rompere / Il duro lago che sotto la brina sa nascondere / Il trasparente
ghiaccio del volo mai involato! », sembra voglia tracciare la parabola della visione,
ma forse ancora più, del disperato tendere di quelle braccia, ali ebbre e dal volo
imprigionato.
55
Carlo Carlucci
‘Genio’ è l’addio di Rimbaud, l’ultimo suo volo al termine delle “Illuminazioni”: la
terzina finale del primo sonetto di Mallarmé - dove appunto si allude con tanta
intensità al ‘genio’ - ci appare come l’istantanea imperitura di quel volo: « Lo spazio
uguale a sé che si neghi o si è aumentato / Rotola in questa noia di vili fuochi a
testimone / Che il genio d’un astro in festa s’era illuminato. »
Rimbaud ad Aden
Il deserto, l’esilio di Haarar, fu per Rimbaud l’esilio volontario dal deserto di questa
vita, dal ghiacciato lago dei voli che non si sono mai innalzati. Fra i suoi scritti
contabili, Rimbaud conservava la lettera del direttore della Rivista “La France
Moderne”, ricevuta un anno prima della sua morte: la Rivista era di Marsiglia e lo si
invitava a collaborare perché i suoi versi erano noti al punto da farlo considerare
‘chef de file de l’Ecole décadente et symboliste’. Rimbaud dunque era a conoscenza
che la sua poesia si stava affermando, ma aveva cercato dell’altro, ben altro, dalla
fama e gloria letterarie. E nei lunghi mesi trascorsi all’ospedale di Marsiglia, mai
chiese alla sorella di interessarsi di quella Rivista, a che punto fosse la sua
incipiente notorietà. ‘Quello spazio uguale a sé’ non s’è accresciuto, anzi, va
sensibilmente negandosi: questo nostro spazio, che in una noia di vili fuochi
ancora va rotolando, e che pure è stato testimone di quel ragazzo che ‘d’un astro in
festa s’era illuminato’.
‘Je est un autre’ : questo ‘je’, l’ottone che si sveglia tromba, legno che si trova
trasformato in violino, è sdoppiamento del Sé che assiste allo schiudersi del
pensiero; tale ‘je’ cui l’”intelligenza universale sparge le sue idee”, totale
56
Rimbaud
indifferenza avverso le piccole vicende quotidiane che investono l’io,
inequivocabile prova del superamento dell’ego.
La lingua di questa poesia del Nuovo dovrà essere ‘del pensiero che aggancia e del
pensiero che tira’, lingua dell’”anima per l’anima”, una lingua finalmente capace di
‘tutto riassumere, profumi, suoni, colori’.
E il Poeta sarà il Prometeo di Shelley, liberato finalmente e capace di riportare
finalmente il fuoco agli uomini (‘O Fuoco, tu sei il messaggero fra la terra ed il cielo’
- Rig Veda III.3.2). Il poeta sarà Colui che è destinato a definire la quantità di ignoto
che si risveglia nell’anima universale ed in lui si incarnerà l’enormità che diventa
norma. A suo carico sarà l’umanità intera: persino gli animali, con quel loro
inquisitivo, fiero o sottomesso sguardo di fronte all’uomo, che paiono attendersi
qualcosa da colui che più si è proiettato innanzi, nella scala evolutiva.
Ogni meccanismo, dallo stravolgimento fisico degli infiniti viaggi a piedi (la neve
sul passo del S.Gottardo, l’insolazione sulla strada tra Livorno e Siena che gli valse
il rimpatrio forzato) alle droghe infatti fu da lui tentato per pervenire a un’altra
conoscenza.
Il decalogo dei sostantivi di questa Via alla Veggenza - amore, sofferenza, follìa,
veleni, quintessenza, ineffabile tortura, fede, forza sovrumana, gran malato, gran
maledetto, Sommo Sapiente - mostrano le stimmate della Via mistica. Rimbaud
ebbe una percezione, un intuito, assai netti, e cioè che comunque, costi quel che
costi - ‘... anche se sbigottito finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni,
pure le avrebbe viste. E che crepi anche in quel balzo fra le cose inaudite ed ineffabili
...’ - era decisivo giungere a quell’ignoto decisivo non per il piccolo sé o ego, ma per
qualcosa di incommensu-rabilmente più vasto.
Mi chiedeva un amico, visti i legami che soggettivamente non stabilisco, ma
parrebbero oggettivamente essere stabiliti, fra il punto di arrivo di Leopardi ed il
punto di partenza di Rimbaud, se quest’ultimo fosse stato a conoscenza dell’opera
di Leopardi. No, certamente: lo “Zibaldone” non aveva nemmeno visto la luce
postuma all’epoca di Rimbaud; ma ciò che il poeta veramente tale sa è che deve
giungere a quella méta che si incarna in tali immagini e solo essa è premio del suo
sforzo e del suo tendere. La vera méta non è la parola nera sul bianco della pagina
e ancor meno lo sono il libro e il contratto con l’editore: la méta è dare forma
all’idea che viene dall’indicibile; tale forma si situa oltre la pagina, nei reami
dell’invisibile. Proprio per questo, Rimbaud ha potuto affermare che, seppur
avesse dovuto per la tensione e lo sforzo perdere l’intelligenza di queste visioni,
sarebbe riuscito seppure per un attimo a ‘inter ligare’, stabilirne i legami cosicché
‘... viendront d’autres horribles travailleurs; ils commenceront par les horizons ...’, sui
quali l’altro è crollato!
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Carlo Carlucci
Helga Wretman, "Spread Love," performance, 2009.
Rimbaud non ha scritto per farsi leggere, bensì per far sentire, palpitare, ascoltare,
le sue visioni, per far giungere quindi ad un coinvolgimento totale di tutti i sensi,
che non sono più quelli del comune lettore, ma del compartecipe, di colui che viene
coinvolto nel proprio viaggio interiore. Curiosamente, sottolineando l’avverbio,
Rimbaud colloca l’ignoto in un ‘là-bas’, una sorta di lontano in senso orizzontale,
piuttosto che in un ‘la-haut’, un lassù; sembra dunque il poeta voler escludere ogni
provenienza di tipo trascendente, ogni verticalità metafisica, andando a ricercare
l’ignoto verso e oltre l’orizzonte in una sorta di direzione orizzontale che non si
stacchi da dove ci troviamo, perché il segreto è qui:
«Ma investigare l’invisibile ed ascoltare l’inaudito è ben altro che riprendere lo spirito
delle cose morte: Baudelaire è il primo veggente, re dei poeti, un vero Dio. Tuttavia è
vissuto in un ambiente troppo ‘da artista’ e la forma così vantata in lui è meschina; le
invenzioni d’ignoto reclamano forme nuove.» E l’ego è ben travalicato laddove «... il
poeta dovrà definire la quantità di ignoto che si risveglia nell’anima universale del
suo tempo, dando quindi ben più che la formulazione del proprio pensiero o della sua
marcia verso il progresso!»
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Rimbaud
Nell’indagare sulla “Lettre du voyant”, la più autorevole biografa di Rimbaud, Enid
Starkie cita un brano tratto dai dialoghi di Platone, il quale in parte serve ad
illuminare la via rimbaldiana alla visione e in parte sembra confezionato su misura
per i cantautori pop visionari del calibro di Morrison, Marley e Hendrix: «Tutti i
bravi poeti epici, non per arte, ma perché ispirati ed invasati dalla divinità, cantano
... e come agitati da coribantico furore, perso ogni razionale, danzano ...»
‘Cet avenir sera matérialiste’: la profezia, a posteriori, è stata vista come un
preannuncio del materialismo dialettico marxista e di ciò che si tentò di realizzare
a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre. Perché no? Eppure, il senso e la dinamica
della frase sono da intendersi in una portata ben più vasta: più o meno negli stessi
anni e sotto altri cieli, il grande bardo del Nuovo Mondo, Walt Whitman, aveva
proclamato in “Leaves of Grass”: ‘La materia è conquistatrice. La materia sola,
trionfante, continua avanti.’ Perché, e qui siamo con Mère: «La materia, fin dal
primo fuoco dell’atomo, ricerca sé stessa.’ E ancora Satprem: ‘Allora uno inizia a
chiedersi se il corpo non sia il solo ad avere le chiavi del vero segreto, se non siano
quelle prime cellule, quel primo organismo unicellulare apparso miliardi di anni fa,
a possedere ciò che noi cerchiamo inutilmente attraverso i nostri artifici scientifici
o intellettuali. A ben guardare, tutto il processo evolutivo si è svolto per mutamenti
avvenuti a livello cellulare e nient’altro, pertanto nella materia. All’incirca duemila
anni di processi culturali, rigide religioni monoteiste, con tutte le loro storie di
trascendenza, ci hanno obbligato a dimenticare questo fatto fondamentale.’
‘Sta nello spazio’, cioè nella materia - aveva scritto Joyce - ‘quanto nel tempo deve
accadere.’
«‘Quest’avvenire - lo vede - sarà materialista. Sempre ricchi di ‘Numero’ e di
‘Armonia’, questi poemi saranno fatti per restare. In fondo, sarebbe di nuovo la Poesia
Greca.’»
È un annuncio questo di Rimbaud dalla portata difficile da sondare e una volta
ancora soccorre il Leopardi con un pensiero di cinquant’anni prima, in una lettera
del 9 settembre 1821: «Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà. L’intelletto
niente potrebbe senza la favella, perché è la parola è quasi il corpo dell’idea più
astratta. Ella è infatti cosa materiale e l’idea legata ed immedesimata nella parola è
quasi materializzata. La nostra memoria, tutte le nostre facoltà mentali, non
possono, non ritengono, non concepiscono esattamente alcunché, se non
riducendo ogni cosa a materia per quanto sia possibile; legando l’ideale al
sensibile, notandone i rapporti più o meno lontani e servendosi di questi alla
meglio.»
Il pensiero di Leopardi, nella sostanza, è laterale rispetto alla portata dell’annuncio
di Rimbaud, eppure pare darvi fondamento e spessore.
L’affermazione di Rimbaud : “... la poésie (verbum o poiéin) ne ritmera plus l’action;
elle sera en avant.”, rivendica il valore originario della parola poetica, quello di
creare, di erigere le basi del Nuovo, di entrare direttamente nel Futuro.
59
V
attraverso una mirabile falla
nel fasciame della nascita
Questo titolo, che introduce quanto diremo a proposito de “Le Bateau Ivre”, è
mutuato da una immagine di Sri Aurobindo. Quest’ultimo in realtà aveva parlato
‘di muraglie della nascita’, ma così modificato il titolo ben si adatta al grido
supremo del battello: ‘Oh che la mia chiglia scoppi! Oh che io vada al mare!’
Boni Menato, nell’introdurre un libro di Satprem - “La rivolta della Terra” - così
riferisce:
«.. mi imbattei ad un certo punto nella parola ‘quille’, chiglia. Nulla di strano,
intendiamoci: ma perché Satprem si chiedeva quale corrente ‘sospingeva la sua
chiglia’? ... la risonanza di questa quille mi veniva, non tardai a scoprirlo, da un
poco decifrabile - e sin qui indecifrato - poema di Rimbaud ... ‘O que ma quille
éclate! O que j’aille à la mer! ...’
Continuavano a risuonarmi dentro quelle incomprensibili parole. Non potendo
verosimilmente indicare una pulsione di morte - come spiegherebbero i proseliti
del dottor Freud - che altro dovevano certo voler dire?
Ritengo Rimbaud il Veggente una sorta di precursore - se è lecito tanto affermare di un Nuovo Mondo, che egli appunto aveva solamente veduto e in cui Sri
Aurobindo e Mère si sarebbero poi fisicamente avventurati. Un nuovo mondo - o
meglio, una nuova maniera d’essere del corpo - che Satprem non si dilunga a
spiegare, ma tenta di recarvisi ...
E del resto, a quella inspiegata meteora che aveva tracciato un solco luminoso nel
buio firmamento della nostra Europa, Satprem fa qui esplicito riferimento,
chiamandolo ‘il mio fratello Rimbaud’. Allora, qual è il senso nascosto di tale
fratellanza?
L’Illuminazione - se così posso chiamarla - mi venne improvvisa, proprio grazie a
quella ‘chiglia’: se qualcosa deve esplodere e andare in fondo al mare, potrà essere
solo ciò che ci imprigiona, il microscopico io riverito, la nostra ‘con-chiglia’,
insomma! »
60
Rimbaud
Odilon Redon, La coquille
«Fin da piccolo», è la sorella Isabelle che così lo ricorda in una lettera - «scriveva
per divertirsi. Aveva appena dieci anni e già ci teneva svegli per lunghe serate
leggendoci i suoi racconti di meravigliosi viaggi in paesi sconosciuti e strani, fra
oceani e deserti, per fiumi e montagne.»
“Le Bateau Ivre” è dunque il recupero ed il viaggio attraverso tutti quei sogni e
anche se qualcuno come Etiemble ha sostenuto che si tratta de «... il saggio di un
virtuoso del pastiche che voleva vedersi pubblicato sul ‘Parnasse Contemporain’ e
che aveva scritto intorno ad uno dei simboli favoriti dei parnassiani (il battello) »,
rimane una delle prove più alte, più suggestive della poesia rimbaldiana.
Nel viaggio verso l’impossibile, il poeta-battello si deve innanzitutto affrancare da
ogni controllo: i bardotti che lo trainavano lungo i fiumi impassibili vengono
catturati e seviziati dai pellirossa; insofferente di ogni equipaggio va verso il mare.
Una strana notazione temporale precisa che la corsa del battello era avvenuta
l’inverno precedente: vi dovrebbe essere qualche connotazione biografica, posto
che quella sorta di approdo definitivo che marca il viaggio del battello
s’accompagni al poeta nei confronti della sua poesia.
È assai possibile che quel ‘Moi, l’autre hiver, plus sourd que les cerveaux d’enfants /
Je courus! ...’ si riferisca alla prima grande fuga di Rimbaud nell’inverno 1870-71
verso Parigi - verso la poesia -. Con le lettere sulla veggenza, sul finire dell’estate, la
stesura del poema sul battello incantatato, qualcosa in lui si incrina
definitivamente. A Delahaye, come abbiamo ricordato nella prefazione, alla vigilia
di quello che doveva essere il grande viaggio della consacrazione, era apparso
oppresso, pensieroso e malinconico.
61
Carlo Carlucci
Rievoca dunque il ‘Bateau’ :
E nel poema del mare mi son bagnato
Da allora, infuso d’astri e lattescente
Divorando l’azzurro verde ove livido ha fluttuato,
Estatico, un annegato che talor pensoso vi discende;
Ove tingendo all’improvviso la bluità delira
Ed i lenti ritmi del giorno a rutilare,
Più forti dell’alcool, più vasti della nostra lira,
Fermentando i rossori amari dell’amare!
I cieli io so, che si spezzano nei lampi e le trombe
E le risacche e le correnti: io so le sere
E l’alba esaltata come un popolo di colombe
E ho visto qualche volta quanto l’uomo ha creduto di vedere!
Risuona una certezza, qui, nelle parole incantate: Quanto l’uomo ha creduto che
esista c’è, perché il poeta lo ha visto oltre tutti gli orizzonti del fantastico e senza
l’incertezza ed il dubbio di quanti hanno ‘creduto’ di vedere.
Isole ed arcipelaghi siderali io ho osservato
I cui deliranti cieli s’aprono al vogatore,
È forse in queste notti senza fondo che tu t’esilii, addormentato,
Milioni d’uccelli d’oro o futuro Vigore?
Ma è vero, io ho troppo pianto. Le Albe sono strazianti,
Ogni luna è atroce e le solarità amare,
L’amore acre m’ha gonfiato di torpori inebbrianti,
Che la mia chiglia scoppi! Ch’io vada al mare!
Se poi desidero l’acqua d’Europa, questa è la pozza
Nera, fredda, in cui nel crepuscolo incensato
Un bimbo accoccolato libera pien di tristezza
62
Rimbaud
Un battellino quale farfalla a maggio delicato.
Non posso più, o flutti, dai vostri languori farmi bagnare,
E seguire la scia delle navi portatrici di cotoni,
Né più l’orgoglio di gonfaloni e fiamme attraversare,
Né navigare sotto gli occhi orribili dei pontoni.
È nella grande notte, oltre ogni confine del cosiddetto noto, che si nasconde e va
cercata la Verità, proclamarono alcune migliaia di anni fa i Rishi dei Veda; così il
Battello-Poeta, dopo aver esplorato tutti i confini conosciuti, voltosi verso deliranti
cieli ed arcipelaghi siderali, dentro le notti senza fondo, finalmente scorge, sa,
percepisce, intuisce, prova a connotare l’esistenza di una Forza dal potere
straordinario e dalla solarità assoluta: ‘O millions d’oiseaux d’or ...’
E di quanto intravisto che ne rimaneva se non strazio, atrocità ed amaro? O se
almeno l’inebbriante amore avesse potuto rompere con pressione e forza il
fasciame della chiglia (le muraglie della nascita), così che l’immensità giungesse a
ristabilire dentro di noi il suo dominio.
Le due ultime strofe segnano però la fine di tutto, anche se non mancheranno
coraggio e forza al poeta per additare a chi dopo di lui verrà lo ‘stupore che vi
attende’ Il viaggio era ormai finito: ma intanto, col ‘Bateau’, la trama, il canto, la
lontanissima invocazione dei Rishi vedici, era stata ritrovata (Rig Veda, X, 53) : «
Tessete, o Veggenti, / L’opera inviolabile, / Diventate veramente l’essere umano, /
Create la razza divina, / Aguzzate le lance della luce / Per aprire il cammino /
Verso ciò che è immortale. »
63
Carlo Carlucci
VI
gli ultimi versi :
l’altra fame e l’altra sete
Rimbaud ripiega sui ritmi spezzati brevi delle canzonette - i ‘Derniers Vers’ - così
come ebbe a confessare agli inizi del 1873 a Delahaye: ‘Adesso scrivo delle
canzoni: è infantile, primitivo, naïf, gentile ...’
Una cesura, una frattura con il passato si è imposta. Il canto spiegato è lasciato per
sempre alle spalle.
Lo spirito è in ‘désordre’, sotto gli effetti dell’hashish, dell’assenzio, di un’altra fame
ed un’altra sete. Viene tentata l’’allucination simple’, quindi l’’allucination des
mots’: il Poeta vuol dire addio al mondo con delle ‘espèces de romances’; tralascia
il ricorso alla rima per il più segreto, interno gioco delle assonanze; il verso si
contrae.
«Dopo qualche soggiorno a Parigi e varie altre peregrinazioni», è Verlaine qui che
ricorda, «Rimbaud virò di bordo per lavorare (lui!) sul naïf, sull’assai o sul
volutamente semplice, utilizzando solo assonanze, parole vaghe, frasi infantili o
popolari. Riuscì così a compiere dei prodigi di tenuità, di vera lievità, di delizioso,
quasi inapprezzabile per fragilità e lievità.» E con la sensibilità del moderno gli fa
eco Claudel: «Il linguaggio assume un valore non tanto di espressione quanto di
segno; le parole fortuite che salgono in superficie, il ritornello, l’ossessione di una
frase che si ripete, formano una sorta di incantamento che finisce col far coagulare
la coscienza, mentre il nostro specchio intimo viene lasciato rispetto alle cose del
fuori in uno stato quasi di insensibilità materiale. La loro ombra si proietta
direttamente sulla nostra immaginazione, vira sulla sua iridescenza: siamo in
comunicazione.»
La sete inestinguibile; il fango di uno stagno in cui affondare; il fantastico che si
accampa sui dati del reale (il blu sahariano e l’atmosfera magrittiana di “Bruxelles
- Boulevard du Régent”) sono immagini e metafore che percorrono gli ultimi
momenti della poesia rimbaldiana. Le due brevi stagioni della prosa che seguono
segnano la fine definitiva di un qualcosa, ma non naturalmente dei soprassalti e dei
tentativi di visione di quanto è ‘autre’.
Il battello-io non ha potuto né aprirsi all’accoglimento della vastità del mare, né
oltrepassare le Colonne d’Ercole dei fantastici mari cui era giunto per dirigersi Odissea nello Spazio-Tempo - verso gli arcipelaghi siderali dentro le notti senza
64
Rimbaud
fondo dove si esilia lo stupore che ci attende. È stata una resa, ma non una
sconfitta.
L’esplorazione continuerà, forse ancora più tenace, usando uno strumento - la
prosa - meno capace di catturare l’aereo o l’imprendibile, ma più duttile per
segnare le tappe degli ultimi percorsi, le pause, i dubbi e le illuminazioni folgoranti.
“Larme”, il primo dei “Derniers vers”, un componimento di quattro quartine ove le
rime alternate sfumano verso le assonanze, ci mostra un giovane perduto nella
solitudine della natura il quale, accoccolato, beve in un ruscello: «Ma che potevo
bere in quella giovane Oise», si domanda, «perduto nella foschia d’un pomeriggio,
tepida e verde ...» e «... olmi senza voce, erba senza fiori, cielo coperto.» E poi, in una
sorta di vicino altrove, il viaggio :
Dopo, la tempesta mutò il cielo, fino a sera.
Furono paesi neri, laghi, pertiche,
Colonnati sotto la notte blù, stazioni.
Hugo Simberg, Ange blessé (1903)
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Carlo Carlucci
Nella prosa di “Alchimie du verbe”, “Larme” verrà inserita quasi come tratto
esemplificativo di quanto Rimbaud verrà narrando circa le sue prove, i suoi studi,
le sue ricerche sull’alchimia della parola appunto. La poesia sarà rimaneggiata, nel
tentativo di sveltirla in qualche modo - i versi, da sedici, diventeranno tredici - con
effetti forse meno felici, tranne nella chiusa :
Piangendo, vedevo l’oro - e non ho potuto bere.
Quest’oro, cui non si può attingere, è l’oro delle ricerche alchemiche perseguito con
gli alambicchi della poesia, ed è poi quell’oro continuamente intravisto ‘million
d’oiseaux d’or, ô future Vigueur! ...’, l’oro cercato con ‘la nera alchimia ed i santi
studi’, l’oro cui mirava la sua sete inestinguibile ... - ‘e non ho potuto bere’. E certe
parole di Mère dedicate alla memoria di Sri Aurobindo paiono illuminare anche la
vicenda di questo straordinario ragazzo: «Uno non deve lasciare la terra per
trovare la verità; uno non deve lasciare la vita per trovare la sua anima; uno non
deve abbandonare il mondo o avere pensieri limitati per entrare in rapporto col
Divino. Il Divino è ovunque, in ogni cosa, e se è nascosto è perché noi non ci
prendiamo la pena di seguirlo.»
Nella poesia successiva, «Il rivo di Cassis» :
Il Rivo di Cassis scorre ignorato
Per valli strane
E la voce di cento corvi l’ha accompagnato
Voci d’angeli, vere e buone:
Con grandi movimenti d’abetaie
Quando i venti vi si tuffano.
Tutto scorre con misteri rivoltanti ...
torna il Leopardi de «Le ricordanze» : « Ampie finestre sibilando il vento, /
Rimbombando i sollazzi e le festose / Mie voci al tempo che l’acerbo, indegno /
Mistero delle cose a noi si mostra ... »
‘Ma come è salubre il vento’, continua poi Rimbaud: questa forza naturale che tutto
spazza, che si muove ovunque e sempre verso l’altrove, senza sostegno sul passato.
E della locale e leopardiana ‘gente zotica e vil’ avrà a dire in una lettera a Delahaye:
«Che merdaio! E che mostri d’innocenza questi contadini», così che nella conclusione
della poesia :
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Rimbaud
Soldati delle foreste che il signore manda,
Cari corvi che deliziate!
Fate fuggir l’astuto contadin e la sua banda,
Col vecchio moncone e le trincate.
Alberto Burri, Cretto bianco (1974)
“Commedia della sete” è una recita a più voci sul tema della sete: vi è il’Moi’ del
poeta che interloquisce con gli avi materni che lo invitano a bere il vino ed i liquori
tratti dagli armadi del loro conformismo, al che quel ‘moi’ esclamerà :
Ah! Poter disseccare tutte le urne!
Quindi interviene l’’Esprit’, che invoca le pure acque della classicità, Venere che
sommuove le onde dalle quali sorge, le pure nevi della Norvegia ed il mare; a
questo ‘Spirito’ il moi risponde :
Non più bevande pure,
E fiori d’acqua per abbeverare;
Né leggende né figure
67
Carlo Carlucci
Più mi potranno dissetare.
La tua figlioccia o cantatore
È la mia sete cosi insensata
Intima Idra che senza mordere
Mi consuma desolata.
Il senso della perdita è estremo. Giunto alla fonte di quell’oro, non vi aveva potuto
bere e dunque, come un’Idra - dall’interno - quella sete della vera vita lo avrebbe
consumato in desolazione. E così avvenne.
Intervengono poi le voci degli amici poeti, quelli dell’Accademia dell’Assenzio a
Parigi, a riproporgli le sante sbornie di vino, liquori, assenzio, con i favolosi
paesaggi che a queste vi si accompagnavano; a queste voci degli amici, il ‘moi’
poeta obbietta che anche quel percorso è definitivamente finito :
Mai più questi paesaggi.
Che cos’è l’ebbrezza, amici?
Tanto vale, e forse è meglio,
Nello stagno putrefare,
Sotto l’orrido poltiglio
E, sopra, i legni a fluttuare.
Nella sua ricerca della totalità, Rimbaud non ammette vie di mezzo o
accomodamenti di sorta: la poesia era il mezzo per la ricerca della verità e per la
traduzione di questa verità nella realtà. Accortosi di questa impossibilità, meglio
era affondare nella palude e soffocare a poco a poco, piuttosto che continuare ad
illudersi e a gingillarsi con i piccoli o grandi, ma pur sempre fittizi paradisi ( o
palliativi) che i poeti sono soliti crearsi.
Ultima voce di questa piccola commedia della sete è quella del sogno che gli fa
intravedere forse qualche oasi di tranquillità in qualche ‘città antica’. Ma no :
Ah! Sognare è indegno
Poiché è pura perdita! ...
E quindi la conclusione :
68
Rimbaud
Colombi che tremano nella prateria,
La selvaggina che corre e vede la notte,
Animali delle acque, animali in prigionia,
Le ultime farfalle ... anche di loro è la sete.
Fondersi là dove senza guida si fondono le nuvole,
Oh! Col favore di ciò che è fresco!
Spirare fra quelle umide viole
Di cui le aurore empiono il bosco?
È vero quanto affermato poco sopra che : « anche ridiventando / il viaggiatore
antico / mai più la locanda verde (del sogno e del riposo) / potrà essermi aperta. »
Ma sopra il soffocante fango di questa vita, che è morte, perché almeno non tentare
di dissolversi come la nube in cielo in mezzo a queste viole? Quanto agli animali siano essi liberi o in stato di cattività - anch’essi sono animati dall’incessante sete
di una vera vita che è altrove. E come non ricordare ancora una volta quanto
riportato nella lettera sulla veggenza ovvero che il poeta si deve far carico anche
degli animali.
Il buon pensiero del mattino.
Alle quattro di mattina, nell’estate,
Il sonno d’amore dura ancora.
Nei boschetti l’alba svapora
L’odore delle sere festeggiate.
Ma laggiù nell’immenso dei cantieri,
Verso il sole delle Esperidi,
In maniche di camicia i carpentieri
Già si muovon rapidi.
Fra muschi deserti e in gran tranquillità,
Preparan pannelli preziosi
Per i quali l’opulenta città
Ruoterà sotto cieli altezzosi.
Ah! Per questi operai affascinanti
Sudditi d’un re di Babilonia,
69
Carlo Carlucci
Venere, deh, lascia gli amanti
La cui anima già sogna.
O Regina dei Pastori! ...
Abbiamo riportato quasi per esteso la canzonetta, cercando di evidenziarne la
tecnica compositiva, i rimandi, il naïf.
Si sono fatte molte congetture su questa ‘Regina dei Pastori’, sui pastori che
riappaiono in “Bandiere di Maggio” e sulla Notre Dame de “La canzone della più
alta torre”. Rimbaud, nel maggio del 1872 - il periodo di datazione di questi viveva nei pressi dei giardini del Luxembourg, a Parigi. Dopo un breve ritorno a
Charleville, aveva preso poi alloggio in Rue Monsieur le Prince; il domicilio
precedente era stato in Rue Campagne Première allo sbocco su Montparnasse.
All’amico Delahaye che era venuto a visitarlo alla sua precedente sistemazione
presso l’Hôtel des Etrangers - vicino a Montparnasse - aveva mostrato in cima alla
Montaigne St. Géneviève le tracce delle pallottole della Comune sulle colonne del
Panthéon. Poco discosto da qui, in una stanzetta di Rue Descastres, Verlaine
avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua vita.
Edvard Munch, Notte a Saint-Cloud (1890)
70
Rimbaud
Qualche decennio dopo, in quello stesso stabile di Rue Descastres, il giovane
Hemingway avrebbe affitato una stanza per scrivervi le storie di Nick Adams. Nei
suoi ricordi parigini - descritti in “Festa mobile” - Hemingway rammenta il pastore
che la mattina saliva con le sue capre sulla collina del Panthéon, la Montaigne St.
Géneviève, a vendervi il latte. E nella stanzetta forse già abitata da Verlaine, lo
scrittore americano vi veniva a scrivere perché nel suo appartamento in Rue Notre
Dame des Champs ne era impedito, dovendo la moglie accudire ad un figlio nato da
poco. La chiesa che dava nome alla via, Notre Dame des Champs, era poco discosta,
sul Boulevard Montparnasse.
Una digressione solo per stabilire che i riferimenti presenti nella poesia di
Rimbaud sono sempre legati a connotare il dato fisico (geografico) e poi,
eventualmente, assumera il traslato metaforico oppure vi è una proiezione diretta
nel simbolo. Dunque, Babilonia è Parigi; il Re di Babilonia è la trionfante borghesia
che con Haussmann aveva iniziato il grandioso piano di ristrutturazione della
Capitale; e la ‘Regina dei Pastori’, che altro potrebbe essere se non Notre Dame des
Champs, la Nostra Signora dei Campi, la ‘Speciosa in Campis’, la regina di quei
pastori che si spingevano dai campi di Montparnasse dentro Parigi coi piccoli
greggi e ‘i boschetti ove l’alba svapora’, che altro se non l’inebriante verde del
parco del Luxembourg.
Da “Bandiere di Maggio”, ovvero i rami degli alberi in fiore, il primo
componimento delle cosiddette “Feste della pazienza”, riportiamo le due strofe
finali (sulle tre totali) :
Che io pazienti o che m’annoi
È troppo semplice. Via le pene.
Ben venga drammatica l’estate
A legarmi al suo carro di fortuna.
Che assai per te, o Natura,
- ahi, men nullo e solo - io muoio.
Mentre i Pastori, com’è strano,
Muoiono così per via del mondo.
Voglio che le stagioni mi consumino.
A te Natura io m’arrendo;
Con la mia fame e tutta la mia sete.
E, te ne prego, nutri e disseta.
Nulla di nulla più m’illusiona;
Ridere al sole è ridere ai genitori,
Ma io non voglio ridere più a niente
E libera mi sia tale sfortuna.
71
Carlo Carlucci
La tonalità accesa ed i rapidissimi trapassi indurrebbero a tentare ancora una
mortificante parafrasi, qui necessaria soprattutto per contenere i rimandi e le
esplorazioni non sempre puntuali degli esegeti.
Si vuole che il richiamo ai pastori sia un riferimento alla coppia Rimbaud-Verlaine,
i quali muoiono per colpa del mondo, ma se poi il poeta viene fatto morire per via
della natura, sarebbe assurdamente costretto a morire due volte. I pastori che
stavano intorno a Montparnasse - o Monte Parnaso, come lo rievocava l’Alfieri che
vi soggiornò durante gli anni immediatamente a ridosso della Rivoluzione dell’89 potrebbero ben essere coloro che seguono le regole comuni del vivere sociale,
mentre il poeta, liberissimo e fuori da queste regole, aspira al ricongiungimento
con Lei, la Natura. Vasto e misterioso è questo suo assai morire per Lei:
l’inestinguibile della sua sete e tutta la sua fame s’offrono a Lei, l’Unica forse capace
alfine di placare. Niente illusioni, niente più gioco di sentimenti possono attrarlo e
quindi solitudine, senso di nullità e vuoto - temperati da Lei, la Natura -.
Una sfortuna? Certo, ma dispensatrice almeno della libertà.
François Boucher, Les présents du berger, 1740
72
Rimbaud
Canzone della torre più alta.
Oziosa giovinezza
Che a tutto sei asservita,
È per delicatezza
Che m’hai perduto vita.
Che i tempi sian arrivati
Dei cuori innamorati.
E mi son detto: passa,
Che nessun ti scorga:
E senza la promessa
Di quanta gioia insorga.
E che nulla si frapponga
Augusto romitaggio.
Tanta è stata la pazienza
Che ormai cose obliate:
Paura e sofferenza
Al ciel si son levate.
Ed una sete insana
Oscura le mie vene.
................
Il gioco tenue, naïf, continua consegnando intanto alla gloria del futuro piccole frasi
aeree, calibrate sentenze sul lieve, inutile gioco del nascere e morire. «In che
tempo vorresti vivere?», si era chiesto in una poesia Mandelstam, per rispondere:
«nel dovente essere». È in questo ‘dovente essere’ che paiono muoversi parole e
passi del poeta.
L’eternità.
Ecco, s’è ritrovata.
Che? L’eternità volata.
Del mar la distesa se n’è andata
Via con il sole.
73
Carlo Carlucci
Anima sentinella
Mormoriam la confessione
Della notte così nulla
E del giorno in accensione.
Dai suffragi umani
E dai comuni slanci
Tu ti allontani
Ed in volo poi ti lanci.
Solo da voi,
Braci di raso,
Il Dovere esala poi
Senza dir: arreso.
Alcuna speranza,
Alcun orietur.
Scienza con pazienza,
Il supplizio è sicur.
Ecco, s’è ritrovata.
Che? L’eternità volata.
Del mar la distesa se n’è andata
Via con il sole.
Non ci inganni il ritmo facile, orecchiabile, l’andamento semplice da ‘triolet’.
Parrebbe la canzoncina della “Vispa Teresa” e invece, ecco che scomparso il mare,
scomparso l’infinito terrestre, col decadere del giorno, esalandosi ogni dovere nel
fuoco del tramonto, di fronte alla nullità della notte - questo ‘secondo essere della
morte’, come la chiamava Shakespeare - libera infine da tutte le umane contese,
senza speranza, in quella distruttiva esperienza del tramonto, come narrata nel
sonetto shakespeariano LXXIII - ‘di un fuoco, che sulle ceneri di gioventù così giace
/ quale letto di morte su cui spirare, / da quanto lo nutriva oggi consunto ... l’’anima sentinella’ si alza e: «Mamma, è vero che non moriamo mai?», chiedono
quasi tutti i bambini, e la percezione improvvisa di questa immortalità non poteva
che essere ridotta se non con le infantili, intangibili sequenze di una filastrocca. Si
potrebbe andare più in là nell’interpretazione del senso di queste sonorità
74
Rimbaud
vocaliche e solari - ‘Elle est retrouvée. / Quoi? - L’Eternité’ -. L’eternità intravista,
ritrovata anzi nella visione del poeta è qui, in questo mondo, in questa vita che è
ancora morte, ma che cela l’immortalità.
In questo povero hic et nunc, Rimbaud aveva ritrovato quanto le religioni relegano
nei lontani cieli dell’aldilà e lo aveva cantato nel ritmo semplice di una filastrocca.
Nella successiva “Età dell’Oro”, la musica dei significati si sfuma ancora di più, la
ridda delle voci interne e dei sussurri comincia a spaventare il poeta, il quale sente
di non riuscire a reggere più, di non saper più portare i passi in quel territorio
sconosciuto.
Una qualche voce
Angelica e felice
- Che sempre a me conduce Nudamente dice :
Tante domande in tondo
Che a mille si compongono
Non par che ebbrezza in fondo
E follia t’impongono?
................
Gira questa meraviglia,
Così facile e sì gaia,
Non è che onda e flora
Ed è la tua famiglia.
................
Ancora una volta dunque, il rifugio sarà nelle braccia della Grande Madre, la
Natura.
Ma si deve in qualche modo reagire al mondo così com’è :
Il mondo è vizioso:
Se questo t’importuna!
Vivi, brucia a ritroso
Oscura la sfortuna.
Infine il commiato del poeta :
E poi anch’io canto :
Sorelle! Voci moltiplicate
Per nulla conosciute!
75
Carlo Carlucci
Voglio mi circondiate
Di pudica gloria intanto ...
Le sconosciute voci sorelle che comunicavano col poeta sono le voci della veggenza
e la gloria che elargirono a Rimbaud in vita fu più che pudica: si assentò
completamente e non interferì a mutarne il destino di folle ricerca prima di
abbandono, esilio, solitudine e silenzio poi.
Corsa di velocipedisti a Boulevard du Régent, Bruxelles
In “Bruxelles - Boulevard du Régent”, l’atmosfera superbamente astratta di cose
ed immagini, i colori isolati e a sé stanti - l’amaranto, il blù sahariano, il rosa, il
bianco della pelle di un’irlandese, il verde, l’ombra, il sole, una serie sfaccettata di
porzioni del reale - paiono quasi la realizzazione più perfetta di quei principi
dell’‘école du regard’ teorizzati da Robbe-Grillet nella metà del ventesimo secolo.
Per costui e per i seguaci delle teorie del ‘nouveau roman’, la lettura del testo non
doveva essere un atto passivo, una sorta di atto di consumo, ma doveva invece
significare l’innoltrarsi in un dedalo in cui l’immaginario del lettore fosse
continuamente stimolato e disposto a produrre senso. Il reale, secondo RobbeGrillet, nella sua riproduzione artistico-letteraria era stato fin troppo
antropomorfizzato e con esso tutto lo statuto degli oggetti, quindi l’oggetto doveva
76
Rimbaud
tornare a ‘essere lì’, nel suo puro ed indicibile rilievo ottico, senza profondità né
significati aggiunti.
Non è forse un caso che nell’”Album Rimbaud”, che contiene tutto il reperito
dell’iconografia rimbaldiana, la riproduzione del Boulevard du Régent di Bruxelles
- tratta da un’incisione d’epoca - sembra immersa nella geometrica astrattezza
scenografica del film “L’anno scorso a Marienbad”, appunto di Robbe-Grillet.
La prima e l’ultima strofa contengono due emblemi di visione che racchiudono
varie sequenze-immagini nel loro ‘puro ed indicibile rilievo ottico’. E dunque :
- Io so che sei tu che, in questo luogo,
méscoli il tuo Blù quasi di Sahara!
Si presenta qui la misteriosa ‘Elle’, che apparirà più volte nelle “Saisons” e nelle
“Illuminations”. La casualità degli accostamenti risponde alla dinamica a-logica ed
imprendibile della vita.
- Calme mansioni, antiche passioni!
Chiosco della folle per affezione.
Dietro l’intreccio di rose il balcone
Assai basso ed ombreggiato della Giulietta.
- La Giulietta ricorda Enrichetta,
Graziosa stazione dei treni,
Nel cuore del monte, come in fondo ad un frutteto
Dove mille diavoli blù van senza freni.
Verde panchina nel paradiso di bufere
Dove con la chitarra canta la bianca Irlandese,
E dalla sala da pranzo guianese
Dei bimbi e delle gabbie il parlottare.
Rimbaud con Verlaine passò da Bruxelles alla volta di Londra. Uno studioso ha
scoperto che nel Boulevard in questione al n° 21 vi era una pensione: l’atmosfera è
intensa, rarefatta, evanescente; le immagini sono quelle fisiche: l’incisione
dell’Album Rimbaud mostrava un equilibrato, geometrico, tranquillo paesaggio
urbano, e di qui le “calmes maisons, anciennes passions”; il balcone nell’ombra del
giardino ricorda il balcone della Giulietta scespiriana e Giulietta - per un’assonanza
fra i due nomi che ne aveva fatto il Banville - rimandava all’Enrichetta. (Il Banville
77
Carlo Carlucci
aveva accostato Shakespeare a Molière attraverso due loro caratteri femminili, la
Giulietta dell’uno e l’Enrichetta dell’altro.) Poi, in quel verde sul quale è affacciato il
poeta, appare una stazioncina montana nella cui aria i ‘blue devils’, gli spettri (le
apparizioni della poesia precedente, da noi non considerata, “Jeune ménage”)
danzano. E perché mai una sala da pranzo ‘guianese’?
La Guiana era il possedimento d’oltremare francese più noto per via della famosa
colonia penale de La Caienne; il Belgio possedeva un ben più vasto impero
coloniale: in questa pensione della capitale qualcosa - i pappagalli in gabbia,
l’arredamento - doveva ricordare i favolosi Tropici. Ed il piccolo padiglione del
giardino ove sostava Verlaine, ‘la vierge folle’, folle per amore, è: “Kiosque de la
Folle par affection”.
I versi finali così recitano :
E poi
Troppa bellezza! Troppa! Teniamoci in silenzio.
Boulevard senza movimento né negozio,
Muto, tutto dramma e tutto sceneggiate,
78
Rimbaud
Riunione di scene infinite,
Io ti conosco e t’ammiro in silenzio.
La chiusa è l’esatta visione di tutta quella vita, quel movimento, i vari drammi e le
umane commedie del grande Boulevard sono, visti nella proiezione, nella
geometricità di una stampa, nel labirinto atemporale di segni immersi nel silenzio,
nel puro, indelebile rilievo ottico. E così, come il poeta ha volutamente - ma non
per gusto di ermetismo - perduto i referenti ed i nessi delle immagini evocate
(ricostruibili peraltro nell’esegesi testuale), anche noi ancora una volta dobbiamo
dimenticare l’esegesi per lasciare percezione e sensi a vibrare nella tersa chiarità
dell’in-sé, con la Folle nel giardino, i rosai, il balcone di Giulietta, la stazioncina di
montagna con gli spettri danzanti sopra la verzura, la bufera paradisiaca, la
chitarra, l’irlandese bianca, i richiami tropicali, il parlottìo e su tutto, metafisico, i l
silenzio.
La breve poesia che segue, “Est-elle almée?”, ci racconta di un viaggio in mare,
forse verso Londra. L’inattesa bellezza dell’alba sul mare è quasi eccessiva, ma
pure necessaria per la canzone del pirata - il poeta - e per la Pescatrice. E quella
‘alimeh’, o danzatrice araba, che svanirà, chi è?
È lei almea?
È lei almea? ... al blù delle prim’ore
Si dissolverà come passato fiore ...
Di fronte alla splendida distesa ove si sente
Ansimare l’enorme città fiorente!
È troppa la bellezza! È troppa! Ma è necessitata
Per la Pescatrice e la canzone del Pirata,
Ed anche perché le ultime maschere han creduto
Ancora alle feste di notte sul mare d’assoluto.
Vi è stata per caso una festa in maschera a bordo? Almea, questa danzatrice araba,
era una di queste maschere? E Pescatrice e Pirata sono forse la coppia VerlaineRimbaud?
Oppure, almea e la Pécheuse sono la misteriosa ‘Elle’? Ovvero, sono le maschere la
lieve metafora di noi stessi, dei nostri corpi, incredibilmente immersi nella parte
da recitare nel teatro della vita?
79
Carlo Carlucci
La poesia è però datata luglio 1872, mentre il primo viaggio a Londra avvenne tra
il 7 e l’8 settembre dello stesso anno; tuttavia, le date apposte in calce non sono
sempre esatte.
A Londra, Rimbaud e Verlaine si recarono subito da un vecchio amico di
quest’ultimo, il pittore Félix Régamey, il quale ritrasse Rimbaud addormentato su
una sedia ... forse perché nella notte di festa sulla nave non avevano chiuso occhio
... Ancora una volta, esaurite tutte le spiegazioni, attraversato l’incomprensibile col
nostro bagaglio di razionali convenevoli e deducibili, sentiamo che questi versi
vivono nel loro puro sostare ed aleggiare.
80
Rimbaud
“Feste della fame” è una breve filastrocca che direttamente, scopertamente, si
rivolge alla intuizione infantile e non alla ragione: il senso oltre il senso - perché
appunto del metaforico non è il caso di parlare - sta in questa fame di altro-da,
insaziabile, terrestre, primordiale, che addirittura ricerca gli elementi
fondamentali : aria, terra, pietra, ferro.
Se qualche appetito mi fa guerra
Non è che per pietre e terra.
Dinn! Dinn! Dinn! Dinn! Mangiamo l’aria,
Roccia, carbone e ferro.
Mie fami, danzate. Pascolate, fami
Sul prato dei suoni!
Attirate il gaio veleno,
Delle campanule.
Mangiate
I sassi da un povero spezzati;
Le pietre dei campanili disertati,
Ciottoli dai diluvi derivati,
Sopra grigie vallate come pani gettati.
Mie fami come tozzi d’aria nera;
L’azzurro vastità;
È lo stomaco che tira.
È l’avversità.
“Che cos’è per noi mio cuore”, poesia non datata, per la versificazione
relativamente regolare che poco ha a che fare col ritmo della canzonetta, per
l’esaltazione rivoluzionaria che contiene non pare ascrivibile a quest’ultima fase
della sua poesia. La critica più avveduta vorrebbe - non a torto - collocarla nel
periodo della Comune.
...............
81
Carlo Carlucci
Perite! Potenza, giustizia, la storia: abbasso!
Ci è dovuto. Il sangue! Il sangue! La fiamma d’oro!
Tutto alla guerra, alla vendetta, ai terrori,
Mio spirito! Infieriamo nella piaga: Ah! Passate
Repubbliche del mondo! Imperatori,
Reggimenti, coloni, popoli, crepate!
...............
Europa, Asia, America, sparite.
Città e campagne sono occupate
Dalla vendetta in marcia! Saremo schiacciati!
I vulcani salteranno! Le acque colpite ...
Oh! Miei amici! - Mio cuore, siine certo, sono fratelli:
Sconosciuti neri, se andassimo! Andiamo! Andiamo!
O sventura! Su me già freme la vecchia terra,
Su me sempre più vostro! La terra fonde.
Ma non è niente! Io vi sono! Vi sono sempre.
La catarsi finale di tutta la terra appare ben più vasta che il frutto di una
rivoluzione degli uomini: coinvolge tutto, anche gli elementi naturali; vi è tutta la
vecchia terra che freme addosso al poeta. È la forma di essere della vecchia vita che
è morte, che si sta sgretolando. Finché, ‘tutto fonde’. Il verso finale, interpretato
dalla critica come il risveglio dall’incubo- l’uscita dal delirio, secondo noi - invece
che segnare un banale ritorno al reale, verso il quale il poeta non sentiva alcuna
attrazione, ci sposta ancora una volta sulla soglia del mistero. Nei tempi apocalittici
della grande catarsi, il poeta veggente - il profeta della Vita che non è ancora
apparsa - sarà presente all’alba del Nuovo. Non dunque uno sconsolato ritorno alla
‘rugosa realtà’, coi due esclamativi altrimenti ingiustificabili, ma una proiezione
verso l’ignoto, in tensione profetica.
Il breve, successivo componimento non datato, è nulla più e nulla meno che un
tentativo di annotare l’inesprimibile. Nessun altro senso v’è da ricercare oltre la
sequenza evocativa delle immagini-suono. V’è certamente la memoria del
paesaggio delle Ardenne in aprile, coi vapori sugli orti coltivati a piselli. La
riportiamo in una traduzione che si sforza di riprodurne musica e ritmi.
82
Rimbaud
Non senti bramire
Presso le acacie
Il ramo d’aprile
Del verde pisello!
In quel netto vapor,
Verso Febe! Si vede
La testa agitar
Dei santi di fede ...
Delle nitide moli lontano
Dei capi, dei tetti da amare
Gli Antichi impongono piano
Tal silenzioso filtrare ...
Né feriale
Né astrale! Non è
Che la bruma a esalare
L’effetto notturno.
Restan ancor
- Sicilia, Germania,
Nel giustamente intristire
Dell’illividito vapor.
“Michel et Christine” offre una serie di sequenze misteriose a partire dai due
nomi del titolo. Seguendo quanto narrato dal poeta in “Alchimia del Verbo” circa
le sue allucinazioni: «... un titolo d’operetta faceva sorgere lo spaventevole davanti a
me ...», un minuzioso esegeta rimbaldiano ha scoperto che effettivamente all’epoca
si rappresentò un’operetta dal titolo: “Michel et Christine”. È questo l’innocente
titolo che all’improvviso poteva scatenare le visioni del terrore? E la simbologia dei
tre ultimi colori finali, la Sposa dagli occhi blù, il rosso della fronte dell’uomo - con
il San Michele protettore dei Franchi - ed il bianco dell’Agnello pasquale, non sono
forse i colori della bandiera francese? E per Cristina e Michele dobbiamo sempre
ricorrere al parallelo della coppia Verlaine-Rimbaud, ovvero la proiezione
metaforica è altra? E quale, se quale? Se Michel è St. Michel, la sua sposa in Cristo
83
Carlo Carlucci
non potrebbe che essere la Francia. E perché l’apparizione di queste due figure
simbolo dopo le visioni delle orde che marceranno sull’Europa antica?
Curiosamente, in questi tempi di crisi dell’Europa - con negli occhi ancora le
atrocità delle guerre che la insanguinano o l’hanno insanguinata - verso la fine del
secondo millennio, nel minaccioso levarsi del fanatismo ed integralismo islamico
tutto attorno al mediterraneo, ancora una volta si è fatto ricorso alle terzine di
Nostradamus. Pessime previsioni : guerre civili, rivolte, ancora guerre, quindi forse, nei primi decenni del prossimo secolo - vi sarà un grande attacco arabo
all’Europa oramai in sfacelo e a questo punto il Re di Francia - dato che nel
frattempo sarebbe ritornata la monarchia - al comando di un esercito fermerà
l’invasione. Il San Michele franco in difesa della cristianità occidentale.
...............
Ecco mille lupi, mille semi a tempestare
Non senza amore ai convolvoli portati,
Dalla tempesta del religioso meriggiare
Sull’Europa antica ove mille invasori saran passati!
E dopo, il chiar di luna! Ovunque la landa,
Arrossata la fronte ai cieli neri, i guerrieri
Cavalcan lentamente i pallidi destrieri
E risuonan le pietre sotto questa fiera banda!
Ed io vedrò il bosco ingiallito e la chiara valle,
La Sposa dagli occhi blù, l’uomo dalla rossa fronte, o Gallia,
E il bianco Agnello Pasquale, ai loro cari piedi,
- Michele e Cristina, - e Cristo! - fin dell’Idillio.
La breve, macabra parodia di “Vergogna” non presenta appassionanti misteri, né
dubbi interpretativi. “L’angelo in esilio”, qui si autorappresenta come ‘enfant
gêneur’, ‘sotte bête’, ovvero ragazzino importuno, bestia idiota, come da molti era
definito.
Finché non avrà il coltello
Tagliato questo pacchetto di grasso
Verde e bianco, il cervello,
Dal vapor sempre lo stesso.
( Ah! Ma lui deve tagliare
84
Rimbaud
Le labbra, le orecchie ed il naso
Il suo ventre! Ed abbandonare
Le gambe! O che bel caso! )
Il sarcasmo feroce appare qui come nota di contralto di una solitudine feroce.
Luis Cernuda, poeta spagnolo esule in Inghilterra, Stati Uniti e Messico, dove morì,
così ha voluto ricordare, in una poesia dal titolo volutamente inglese, “Birds in the
night” (Uccelli nella notte) la coppia Verlaine-Rimbaud. Ne riportiamo, per
economia, la prima e la seconda strofa : « Il governo francese, o fu il governo
inglese, ha messo una lapide / In quella casa, n° 8 Great College, Camden Town,
Londra, / Dove in una stanza Rimbaud e Verlaine, una coppia strana, / Vissero,
bevvero, lavorarono e fornicarono, / Durante alcune brevi settimane tormentose. /
All’atto inaugurale assistettero senza alcun dubbio ambasciatore e sindaco, / Tutti
coloro che furono nemici di Rimbaud e Verlaine, / In vita. / . . . . . . . . . . . . . . . / Ma
odono i morti quello che poi i vivi dicon di loro? / Voglia il Signore che nulla
sentano: deve essere un sollievo l’interminabile silenzio / Per quelli che per la
parola vissero e che per essa morirono, / Come Rimbaud e Verlaine. Ma il silenzio
di lì non evita / Di quà la ripugnante farsa dell’elogio. Qualcuno desiderò una volta
/ Che l’umanità possedesse una sola testa, per così tagliarla. / Ma esagerava forse:
che fosse solo uno scarafaggio e poi schiacciarlo. »
85
Carlo Carlucci
Memoria
Le chiare acque; come sale di lacrime d’infanzia,
L’assalto al sole dei corpi femminili nel candore;
La sete, in folla e di giglio puro, dagli orifiammi
Sotto le mura che qualche pulzella difese con valore.
Librarsi d’angeli; - No ... la corrente d’oro è avanzata,
Muove le braccia nere, grevi, roride d’erba. Ella
Sprofonda, col cielo blù come cielo d’alcova, s’appella
Quale cortina all’ombra del colle e dell’arcata.
Questa poesia, di cui abbiamo presentato le due quartine dell’incipit, rappresenta
l’ultima ripresa del canto spiegato sulle ali della memoria e quella delle acque. Vi è
la memoria della madre e della infanzia; vi sono le notazioni pittoriche del futuro
impressionismo; vi è l’abbandono di un Lui dietro la montagna - il sole forse - e Lei
- la corrente - che dopo la scomparsa di lui scorre fredda e nera. Vi si può vedere
ombreggiato anche l’abbandono della moglie da parte del Capitano Rimbaud, il
padre del poeta.
Sulla prateria sta la Signora irrigidita
Là dove nevicano i fili del lavoro; l’ombrella
Fra le dita; calpestando l’umbella; troppo fiera per ella;
Dei bimbi che leggono nella verzura fiorita
Il libro di rosso marocchino! Ahimé potenza
Di mille angeli bianchi che la via separerà,
Lui s’allontana di là dal monte e Lei correrà
Tutta fredda e nera dopo la sua partenza!
Lo scorrere dell’acqua e le scene luminose poi s’arrestano. È la fine di tutto; è la
fine della illusione di poter tradurre la visione in canto, e questo in strumento di
trasformazione del reale.
...................
86
Rimbaud
Poi è la distesa, senza riflessi, senza fonte, grigia:
Un vecchio, renaiolo, nella sua barca immobile, pena.
Trastullo d’un’acqua morta non posso prendere,
Oh, canotto immobile! Oh! Braccia troppo corte! Ne l’uno
Né l’altro fiore: né il giallo così importuno,
là; né il blù amico dell’acque color di cenere.
Ah! L’ala che scuote la polvere che sui salici si impiglia!
Le rose dei rosai da tempo divorate!
Il mio canotto fermo sempre; le sue catene tirate
Al fondo di questo specchio d’acque senza sponde, - a quale fanghiglia?
È un gioco arioso irripetibile di colori, l’oro della trasformazione, l’azzurro
dell’infinito ove si frammette, in contrasto metaforico-pittorico, l’ombra, l’opaco, il
grigio. Scorrono le acque della vita dentro il sole e nell’ombra, fra salici che si
muovono come “le vesticciole verdi stinte delle bimbette”.
Ma l’ombra avanza, si impadronisce a poco a poco della solarità, finché tutto
s’arresta: il ‘bateau’ è ancorato al fango, immobile per sempre, il poeta v’è
prigioniero e le sue braccia ‘troppo corte’ non possono raggiungere né fiore della
Divina Trasformazione (il giallo), né il blu dell’infinito (amico delle acque che in
esse è riflesso).
È la resa, l’esilio, la definitiva prigione della vita morta (lettera da Harar, 1888: “...
mi annoio molto, sempre, anzi non ho mai conosciuto nessuno che si annoi quanto me
...”). È la ripresa della mortale noia leopardiana.
87
Carlo Carlucci
La lieve arietta “O stagioni o castelli” sembra nascondere e liberare la felicità
impossibile e la sventura pronta a ghermire. In “Alchimia del verbo” la canzoncina
viene ripresa con una lieve modifica ai versi finali e così presentata: ‘La Felicità! Il
suo dente, dolce da morire, m’avvertiva al canto del gallo - ad matutinum, al Christus
venit, - nelle città più oscure.’
Ecco, quel senso di straordinario e di unico nel vivere la vita, all’aprirsi di ogni alba
era da presso tallonato da un senso di sventura. Il dopo, il ‘dopo la poesia’ sarà per
Rimbaud una non-vita da concludere al più presto, col più ‘rapido trapasso’.
O stagioni, o castelli
Quale anima è senza orpelli?
O stagioni, o castelli,
Io ho studiato la magica legge
Della felicità cui nessuno sfugge.
E viva ogni volta quel suo incanto
Quando s’ode del gallo celtico il canto.
Ma! Alcun desiderio più mi prende,
Poiché la mia vita si contende.
L’incantesimo! Anima e corpo ha catturato,
Ed ogni sforzo se n’è andato.
Come capire la mia parola?
Essa oramai se ne fugge e vola.
O stagioni, o castelli!
E se la sventura mi trascina,
La sua disgrazia m’è vicina.
Bisogna che il suo disdegno, o lasso!
Mi consegni al più rapido trapasso!
O stagioni, o castelli!
L’ultima alchimia poetica è una canzoncina di tre strofe brevi a rima alternata. È
una appendice di “Feste della fame” e all’altra fame - quella d’assoluto - è appunto
dedicata.
Il rapporto col reale, ovvero con le piume dell’apparenza è ormai straziante. Che si
accontentino gli uomini dei prodotti da loro coltivati - frutta, ortaggi -, che si
accontentino di sopravvivere. La bellezza è selvaggia, è quella delle violette. Ma
88
Rimbaud
piccoli esseri ripugnanti sono pronti a ghermirla. E che tutto finisca fra sonno e
ruggine. E che il poeta, vittima sacrificale, sia bollito sugli altari di Salomone a
Gerusalemme. E che quel brodo scorra sulla ruggine e vada a mescolarssi con le
acque del piccolo fiume, il Cedron, che lambisce il Monte degli Ulivi e lo separa
dalla città degli uomini.
Il lupo fra le foglie ha ululato
Le belle piume fuori sputando
Del pollame appena divorato:
Io come lui mi vo consumando.
Frutta, insalata
Non attendono che la colletta;
Ma il ragno della siepe
Non mangia che la violetta.
Ah, dormire! È poi bollire
Sugli altar di Salomon.
Corre il brodo sull’arrugginire
E si mescola al Cédron.
89
VII
una stagione all’inferno
Vi è un Permanente, una Verità nascosta da
una Verità, dove il Sole stacca i suoi cavalli. I
dieci volte cento suoi raggi si riuniscono Quest’Uno.
Io ho visto la più gloriosa Forma di tutti gli dèi.
Shrutavit, figlio di Atri,
Rig Veda (V. 62,1)
Il volto della Verità è coperto da una maschera
dorata; toglila, o Sole che tutto sostieni, per la
Legge della Verità e la visione. O Sole, unico
Veggente, schiera i tuoi raggi, riuniscili,
lasciami vedere la tua forma più felice fra tutte
le forme: quest’Essere ovunque Cosciente,
questi sono io.
Isha Upanishad (15-16)
La scelta della prosa, ancorché unica nel suo farsi e nel suo genere, ancorché prosa
poetica, presuppone, in chi aveva incominciato con il canto, una testimonianza di
rinuncia che si manifesta esteriormente con la frequentazione dei tempi verbali al
passato.
La rinuncia alla possibilità di tradurre l’Inaudito nel ‘poiéin’, o fare poetico, è
un’implicita confessione di impotenza, un implicito riconoscimento di incapacità a
materializzare quell’avvenire splendido, di trovare quella “lingua dell’anima per
l’anima (pure balenerà qua e là luminosa nelle ‘Illuminazioni’), capace di tutto
riassumere: colori, profumi, suoni.” Le due stagioni in prosa che si susseguono - la
“Saison” e le “Illuminations” - portano progressivamente all’addio contenuto
nell’ultimo brano delle “Illuminazioni”: “Génie”, un addìo alla Poesia e
all’irripetibile avventura.
Tuttavia, la “Saison” e le “Illuminations” ci riserveranno non poche scoperte o
lampi di quello straordinario, quasi che il poeta abbia voluto lasciarci una mappa
dei suoi percorsi, con tracce del folgorante, dell’abbagliante da lui intravisto.
Nella paginetta che apre la “Saison”, fra passati e passati prossimi, Rimbaud inizia a
narrarsi. Lo stile è allusivo, fatto di continui trapassi. Nella prosa Rimbaud
91
Carlo Carlucci
testimonierà tutta la sua lacerazione di coscienza individuale separata da quella
cosmica e trascendente e tuttavia cosciente di esserne parte pura, intransigente,
intrinseca, inseparabile.
Il destinatario di questa stagione all’inferno non poteva appunto che essere Satana,
anche se in sovrapposizione, con la tecnica dell’allusivo e dell’elusivo vi si può
intravedere Verlaine, ‘le satanique docteur’ di “Vagabondi” - brano delle
Illuminazioni” -.
«Ma caro Satana, ve ne scongiuro, una pupilla meno irritata! E, attendendo qualche
piccola vigliaccheria in ritardo, a voi che amate nello scrittore l’assenza di facoltà
descrittive o istruttive, io stacco foglietti dal mio taccuino di dannato.»
Baudelaire già si era scagliato contro chi pretendeva dall’arte un intento
moraleggiante e Verlaine aveva fulminato tutta la copiosa descrittività del
romanzo ottocentesco. Quanto avevano ragione, ahimé, considerando che doppiata
la soglia del ventesimo secolo, nulla pare un granché mutato. Anche Leopardi sempre precorritore - aveva espresso idee analoghe a proposito di un romanzo
(presumibilmente autobiografico) che avrebbe voluto scrivere. L’accenno è una
lettera a Pietro Colletta del marzo 1829: «Storia di un’anima. Romanzo che
avrebbe poche avventure estrinseche, e queste sarebbero delle più ordinarie; ma
racconterebbe le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle
sue prime ricordanze fino alla morte.» E nel 1928, Mandelstam ancora avrebbe
scritto contro la prosa dell’epica borghese, con parole ineguagliabili: «Oggi che gli
europei sono stati buttati fuori dalle loro biografie come palle d’avorio dalle buche
dei biliardi, un unico principio governa le leggi della loro attività ... Inoltre,
l’interesse per la motivazione psicologica (nella quale cercava astutamente di
salvarsi il romanzo decadente, già presago della propria fine) è stato scalzato alla
radice e screditato dalla sopraggiunta insufficienza dei motivi psicologici rispetto
alle forze reali, che ne stanno facendo uno scempio sempre più crudele. Il romanzo
moderno ha perduto sia la ‘fabula’, ossia la personalità che agisce nel suo tempo,
sia la psicologia, che non motiva più alcun’azione».
1829, Leopardi; 1873, Rimbaud; 1928, Mandelstam: tre poeti, tre grandi voci
precorritrici del tormentato spirito occidentale.
Il brano contenente la dedica della “Saison” sembra scritto poco dopo la rottura
definitiva con Verlaine, culminata nel tiro di pistola che aveva ferito Rimbaud al
polso - ‘essendomi trovato sul punto di fare l’ultima stecca ...’ -. L’invocazione a
Satana, il rifiuto di ogni speranza umana, le ingiurie alla Bellezza, le armi contro la
giustizia, il solo confidare in miseria, streghe e odio, ci mostrano una fin troppo
adolescenziale vocazione al maledettismo, in sintonia del resto con quel grido
baudelairiano: «Gettarsi in fondo all’abisso, cielo o inferno, che importa? Nel fondo
dell’ignoto per ritrovare il nuovo.»
E contro ogni possibilità di riscatto, anche in extremis con il pentimento e la
92
Rimbaud
conseguente purificazione - leggi: Cattolicesimo - Satana lo esorta: «Conquistati la
morte con tutti i tuoi appetiti, il tuo egoismo e tutti i peccati capitali», secondo il
motto latino ‘Si vis peccare, pecca fortiter’.
Evariste V. Luminais, Les énervés de Jumièges
In “Mauvais sang”, Rimbaud va alla ricerca delle ragioni, delle radici della sua
estraneità, o meglio, del suo senso di estraneità al mondo, rintracciate
nell’ereditarietà del sangue e della razza, nel suo istintivo rifiuto della religione
cristiana, nella sua avversione al falso progresso, nella sua solitudine irrimediabile
ed avversione ad agire in un mondo ove - per dirla con Baudelaire - ‘l’azione non è
sorella del sogno’.
«Dai miei progenitori Galli ho l’occhio azzurro chiaro ...»: così l’attacco per
rivendicare quindi una sorta di paganesimo barbarico: «l’idolatria e l’amore del
sacrilegio; - Oh! Tutti i vizi, collera, lussuria - magnifica, la lussuria; - e soprattutto
menzogna e pigrizia.» E poi il disgusto di dover servire in un lavoro qualsiasi: «La
mano della penna vale la mano dell’aratro. - Che secolo di mani! - Io non avrò mai la
mia mano ... io, io sono intatto ...»
93
Carlo Carlucci
Nella sequenza successiva, il poeta si riproietta nel passato della Francia cristiana:
«Non finirò mai i rivedermi in questo passato. Ma sempre solo, senza famiglia; e poi,
che lingua parlavo? Non mi vedo mai nei consigli del Cristo» ... E i tempi poi si
raccorciano: «Chi ero nel secolo scorso: non mi ritrovo che oggi. Non più vagabondi,
non più guerre vaghe. La razza inferiore ha tutto coperto - il popolo, come si dice, la
ragione; la nazione e la scienza.
Oh! La scienza! Si sono ripresi tutto. Per il corpo e per l’anima, - il viatico, - abbiamo
la medicina e la filosofia - i rimedi delle vecchie e le canzoni popolari riadattate.
E i divertimenti dei principi ed i giochi ch’essi proibivano! Geografia, cosmografia,
meccanica, chimica! ...
La scienza, la nuova nobiltà! Il progresso. Il mondo cammina! Perché non dovrebbe
girare?»
È un quadro drammatico, sarcastico e senza speranza di quanto stava realizzando
la democrazia borghese e positivista. «Non mi entra nel cervello», scriveva
Leopardi in una lettera a Giordani, «che la sommità del sapere umano stia nel
saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente l’inutilità quasi
perfetta degli studi fatti da Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili
e la felicità dei popoli, mi viene in poco da ridere di questo furore di calcoli e di
arzigogoli politici e legislativi; e umilmente mi domando se la felicità dei popoli si
può dare senza la felicità individuale.» E sempre in quest’ottica, sopra un quadro
che non è mutato, Satprem osserva: «Scienza e religioni ci hanno resi invalidi, ci
hanno inebetito, togliendoci i mezzi di cui disponiamo ed il segreto evolutivo che ci
portiamo dentro: le religioni dirottandolo in cielo e la scienza in un tecnicismo
utilitario. Disponiamo perfino di una scienza medica che ci offre tutti i mezzi per
morire delle sue guarigioni. Ma la vita dov’è?»
Il discorso di Rimbaud, al solito, evade dai passaggi della razionalità, si lancia
improvvisamente in avanti, poi ritorna momentaneamente o apparentemente sui
propri passi. Sì, le idee di popolo, ragione, scienza, nazione, si sono diffuse e
radicate presso un’umanità che tuttavia - o proprio in virtù di questo livellamento pare di razza inferiore. E tuttavia, nella scienza vi è racchiusa una nuova nobiltà!
Quindi, oltre l’interpretazione negativa che ne aveva dato Leopardi, attraverso la
scienza si può realizzare anche una sorta di ‘progressio’. «È la visione dei numeri.
Noi andiamo allo ‘Spirito’. È certissimo, è oracolo quanto io dico. Lo capisco e non
sapendo spiegarmi se non con parole pagane, vorrei tacere.»
La lingua di cui disponiamo, rispetto alla portata delle visioni di Rimbaud, si rivela
come una lingua dell’infrarazionale, di un’éra primitiva e pagana. E dunque, questo
progredire della scienza che si esprime attraverso cifre e calcoli numerici appare pure in tutti i suoi limiti - come un innalzamento dell’umanità verso i processi
dell’astrazione, e dunque verso lo ‘Spirito’.
Fra i falsi entusiasmi della ‘Belle Epoque’, nel greve materialismo che
l’accompagnava Rimbaud, pur imprigionato da istinti ed impossibilitato a
94
Rimbaud
raggiungere quella libertà cui anela, avverte che «... lo Spirito è vicino, perché Cristo
non mi aiuta dando alla mia anima nobiltà e libertà. Ahimé, il Vangelo è passato! Il Vangelo!
Il Vangelo. Attendo avidamente Dio ...»
Ci sia permesso qui un piccolo inciso riguardo al particolare uso dell’interpunzione
usato da Rimbaud. Prendiamo quest’ultimo passaggio: il primo punto esclamativo
sancisce il pathos ed il dramma della constatazione che il Vangelo oramai ha fatto il
suo tempo. Il secondo esclamativo isola come un a-sé-stante il nominale: «Il
Vangelo!». Il definitivo tramonto è connotato dalla terza iterazione del termine,
seguita questa volta dal calmo, impassibile e definitivo punto fermo. Nel suo
dibattersi entro le strettoie della lingua, così impossibilitato a dar voce
all’inesprimibile, anche l’interpunzione viene forzata, usata come l’interpunzione
musicale, come l’ombra, i vuoti, gli stacchi di colore che si danno in pittura.
E Cristo era venuto per riscattare il mondo con il suo sacrificio, che doveva poi
permettere l’instaurarsi nel mondo della legge del puro amore; il che non era
95
Carlo Carlucci
avvenuto: ecco perché il Vangelo era cosa del passato. Eppure, la nostra
progressione verso lo Spirito è cosa certa. «... ici-bas, pourtant!» Proprio quaggiù,
sulla Terra, non nell’altrove delle religioni.
Come dirà più avanti a proposito delle sue «O mon abnégation, ô ma charité
merveilleuse!» È ancora la fuga, la premonizione del suo esilio di deserto e noia in
Africa, della morte prematura - «Ainsi point de veillesse ... la mia giornata è
compiuta, abbandono l’Europa ...»
«Ora sono maledetto, ho orrore della patria. La cosa migliore è un sonno ubriaco
sulla spiaggia ...»
«Andiamo! La marcia, il fardello, il deserto, la noia e la collera.
A chi consegnarmi? Quale bestia bisogna adorare? Quale santa immagine aggredire?
Quali cuori spezzare? Quale menzogna sostenere? - In quale sangue camminare?
Guardarsi, piuttosto, dalla giustizia. - La vita dura, il semplice abbrutimento, sollevare, col pugno disseccato, il coperchio della bara, sedersi, soffocarsi. Così, niente
vecchiaia, né pericoli ...»
«Le donne si prendono cura di questi feroci ammalati di ritorno dai paesi caldi ...»
Quest’ultima immagine in qualche modo prefigura la sorella Isabella mentre lo
assiste nell’ospedale di Marsiglia.
Del peso di quella solitudine assoluta nel suo vagabondare, della voce che lo
animava dentro, eccone una straordinaria e diretta confessione: «Sulle strade, in
certe notti d’inverno, senza protezione, senza vestito, senza pane, una voce stringeva
il mio cuore gelato: ‘Debolezza o forza: ecco, è la tua forza. Tu non sai né dove vai, né
perché vai; entra ovunque, rispondi a tutto. Non ti potranno uccidere più che tu fossi
cadavere.’
Al mattino avevo lo sguardo così perduto e l’aspetto così morto che quelli che ho
incontrato forse non mi hanno visto.»
«Oh! Io sarò colui che sarà Dio», avrebbe fatto pronunciare Verlaine a Rimbaud in
una poesia, e l’esclamazione corrisponde a quanto con tutta probabilità Rimbaud
doveva aver confessato all’amico. L’esilio di Rimbaud da questo mondo,
dall’infanzia alla morte, il suo ‘coté’ di disperato titanismo, si appuntano in queste
confessioni. Il doppio futuro contenuto nella confessione fatta a Verlaine, ‘sarò
colui che sarà’ - più che un titanismo di natura personalistica - è solo un grido e la
resa del poeta è la porta che improvvisamente si apre verso il futuro dell’uomo:
«Tu sarai Colui!”»
Lo sforzo di depersonalizzazione assoluto messo in atto dal poeta - «in quale
sangue marciare?», solo sulle strade d’inverno, privo di ogni protezione, senza
sapere il dove o il perché del suo andare, lo hanno condotto ad essere una sorta di
meno di nessuno, qualcuno da non vedere nemmeno o da dimenticare.
Nelle nostre città sempre più atroci, coi loro cieli di diossido di carbonio, la vita è
solo quella del popolo della notte: «Fame, sete, grida, danza, danza, danza, danza!»
Sue queste nuove Sodoma e Gomorra, tuttavia si apre uno squarcio e appare la
96
Rimbaud
visione: «Nelle città il fango improvvisamente mi appariva nero e rosso, come uno
specchio quando la lampada si muove nella stanza vicina, come un tesoro nella
foresta! Buona fortuna, gridavo, e vedevo un mare di fiamme e di fumo in cielo; e, a
sinistra, a destra, tutte le ricchezze fiammeggianti come un miliardo di folgori.»
La rivolta contro questa società di morti in vita è totale: preti, maestri, professori,
mercanti, magistrati, hanno «tutti bevuto un liquore di contrabbando della fabbrica
di Satana ...»
E chi non si adegua e non si sottomette, chi non accetta le regole del gioco, è
condannato alla follìa, il suo tentativo di libertà severamente punito. Non rimane
quindi che «abbandonare questo continente, ove si aggira la follìa che fornisce
ostaggi a questi miserabili ...» E poi l’invocazione, oggi così attuale: «Basta con le
parole.»
Da tutto l’ondeggiare fremente di sentimenti straordinari, Rimbaud era giunto ai
limiti dell’impossibile e doveva dire addio a quel cammino e volgersi altrove, ma
dove? Affiorano le premonizioni, i suoi ultimi istanti saranno di puro dolore, ma
poi sarà trasportato come fanciullo in un luogo finalmente privo di infelicità. Il suo
tentativo di giungere qui sulla Terra ad un tempo - futuro - che non segnasse più il
dolore era fallito: «Ma l’orologio non sarà arrivato che a segnare solo l’ora del puro
dolore! Sarò rapito come un bimbo, per giocare al paradiso nell’oblio di ogni
infelicità!»
La sua salvezza - ogni salvezza - non può consistere nell’abbracciare ciecamente un
credo, ma unicamente la libertà: «Voglio la libertà nella salvezza: come ottenerla?»
E dove ubicare questo suo essere una sorta di perfetto nessuno rispetto ai comuni
concetti di felicità e di tutte le nostre vite che si realizza nel lavoro: «... la mia vita
non è abbastanza pesante, s’invola, fluttua lontano sopra l’azione, questo prediletto
fulcro del mondo.» Perché la vita, questa vita, non è in realtà che una farsa, ‘la farsa
che tutti devono recitare’, la scespiriana “favola narrata da un idiota e che non
significa niente”.
97
Carlo Carlucci
“Notte d’inferno” è un viaggio - un ‘trip’, come si suol dire oggigiorno - sotto
l’effetto della droga. Ma pure l’esperienza straordinaria di un essere straordinario:
«Le allucinazioni sono innumerevoli. Ed è proprio quello che ho sempre avuto: più
nessuna fede nella storia, oblio dei principi. Ma non ne parlerò: poeti e visionari ne
sarebbero gelosi. Io sono mille volte il più ricco, e siamo dunque avari come il mare.»
La ricchezza visionaria che scaturisce nel rapporto mente-cuore del poeta è
sconfinata, l’essere quindi parsimonioso come il mare è solo sarcasmo, paradosso:
il poeta si sente diventare un tutto nel tutto, capace di «... svelare tutti i misteri:
misteri religiosi o naturali, morte, nascita, avvenire, passato, cosmogonia, nulla ...
Volete che sparisca, che mi tuffi alla ricerca dell’anello? Lo volete? Creerò l’oro, i
farmaci ...»
Il confronto tra il poeta e l’irreale trova un appassionato riscontro nella sequenza
dei titoli de “La Saison”: ‘Deliri’, ‘L’impossibile’, ‘Il lampo’, ‘Mattino’, ‘Addìo’.
“Deliri” racchiude due passaggi complessi: nel primo, “La vergine folle - Lo sposo
infernale”, vi è la rievocazione a due voci della vicenda Verlaine-Rimbaud, dove si
stagliano le frasi lanciate dentro il futuro: «Ma quale vita! La vera vita è assente. Noi
non siamo al mondo.» La vera vita dunque non è mai nata e nel mondo, in questo
leopardiano ‘nulla solido’, in questa leopardiana ‘piccola città della nostra morte’,
noi, nella realtà di un’altra, più alta realtà, non viviamo. Ma quale può essere l’altra
vita cui allude Rimbaud? In nome di quale visione ha potuto il poeta di Charleville
scandire questo inequivocabile ‘nous ne sommes pas au monde’? Su questo mistero,
Leopardi più volte si era affacciato con la sua “filosofia dolorosa - ma vera - la quale
se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere
strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano”.
Quindi, il poeta di Recanati poteva ben scrivere al Giordani: «Non vedo più divario
fra la morte e questa vita.», oppure, in un estremo, terribile paradosso: «Se non
voglio morire bisogna che io non viva.»
Come breve epigrafe alla sua ultima poesia, “La Ginestra”, Leopardi aveva messo
un pensiero dell’apostolo Giovanni (dal Vangelo 3,19): «E la causa della condanna
sta in questo: che la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini preferirono le tenebre
alla luce, perché le loro opere erano cattive.» L’apostolo Giovanni, in tarda età,
esiliato sull’isola di Patmos, ebbe le visioni e le rivelazioni che poi tradusse
nell’Apocalisse, scritta in greco e che, appunto in greco, sta per ‘rivelazione’ ‘messa a nudo’. In particolare quattro visioni di Giovanni sembrano illuminare il
cielo di Rimbaud : Apocalisse 20,11: «Poi vidi un gran trono bianco e colui che vi
era seduto, dal cui cospetto fuggirono la terra ed il cielo ed il loro luogo non fu più
ritrovato.» Apocalisse 20,14: «Poi la Morte e l’Ade furono gettati nello stagno del
fuoco. Questa è la morte seconda, lo stagno del fuoco.» Apocalisse 21,1: «Poi vidi
un cielo nuovo ed una terra nuova. Il primo cielo infatti e la prima terra sono
scomparsi.»
98
Rimbaud
Ed infine, la promessa di quell’altra, vera vita - Apocalisse 21,3.4: ‘Ecco la tenda
d’Iddio con gli uomini ed essi saranno suo popolo ed Egli sarà Iddio-con-loro ed
asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e la morte non ci sarà più, né lutto, né grido,
né pena esisterà più, perché le cose di prima sono scomparse.’
E quell’Iddio-con-gli-uomini, a compatirne la stessa vita, quando le cose di prima
saranno scomparse, è sempre la visione dei Rishi: «... che la Terra ed il Cielo siano
una sola ed unica cosa.»
Di fronte al trono bianco del Divino la dicotomia insanabile - Cielo-Terra scomparirà, perché trasformata; mentre per la Morte e l’Ade - leggi: il Demonio - vi
sarà la cancellazione col fuoco.
«... Apparve / Novo Ciel, nova terra, e quasi un raggio / Divino al pensier mio»,
scrisse il poeta di Recanati in ‘Aspasia’, inconsciamente riecheggiando Giovanni di
Patmos.
Continua poi Rimbaud: «Non amo le donne. L’amore deve essere reinventato... » Una
frase lanciata più di cento anni fa e che pare appena ora raggiungerci. Ed è il
povero, corrompibile amore umano che qui il poeta rifiuta: “Un amore che generi
senza piacere sensuale”, avrebbe scritto a Parigi Vellejo qualche decennio dopo
alludendo a questa distinta, non raggiunta, extraumana forma d’amore.
Nello sdoppiamento dell’altro parlante - Verlaine, alias la Vergine Folle - Rimbaud
così si descrive: «Quando mi sembrava che avesse lo spirito inerte, io lo seguivo in
azioni strane e complicate, lontano, buone o cattive: ero sicura di non entrare mai nel
suo mondo. Accanto al suo caro corpo addormentato quante ore di notte ho vegliato
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Carlo Carlucci
cercando di capire perché volesse tanto evadere dalla realtà. Mai alcun uomo ha
avuto una simile aspirazione ... Ha forse dei segreti per cambiare la vita? No, non fa
che cercarne, mi rispondevo.»
Leopardi, giunto a quell’estremo ‘acerbo, indegno mistero delle cose’, aveva
ipotizzato come unica risoluzione di salvezza una sorta di ‘ultrafilosofia che
penetrasse l’intero e intimo delle cose’, e questa ultrafilosofia - appunto in quanto
‘ultra’ - doveva portare né più né meno ad una ‘nostra rigenerazione’, una nostra
totale trasformazione. Rimbaud, la vita così trasformata, l’aveva intravista: era
dietro, di lato, dall’altra parte di questa realtà.
La “Stagione” e le “Illuminazioni” erano l’estrema testimonianza del cammino da
lui percorso fino alla resa finale. Niente letteratura, solo disciplina interiore ed
autotrasformazione; ma quali e come?
La strana coppia Rimbaud-Verlaine, eccola come ‘due bravi bambini, liberi di
passeggiare nel Paradiso di tristezza’. La lacerante contrazione dei due opposti è
ancora una rivelazione della soglia del segreto alla quale il poeta era giunto;
riuscendo a togliere il velo a questo mondo di tristezza troveremo il Paradiso.
E poi, di nuovo la valenza del sogno, dell’illusione lepardiana: «Pare un assurdo, e
pure, è esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v’è altra sostanza
al mondo che le illusioni.» (Zibaldone) Così la ‘Vierge folle’ potrà implorare: «Oh, la
vita d’avventure che esiste nei libri per bambini, per ricompensarmi, me la darai?»
La seconda parte dei “Deliri”, col titolo “Alchimia del verbo”, mentre riporta
alcune canzoncine dei ‘Dernier Vers’, vuole documentare lo sforzo compiuto dal
poeta per dare forma di parola a quell’Inaudito nella cui prossimità si era spinto a
prezzo dei suoi sovrumani sforzi: «... mi vantavo di possedere tutti gli incantesimi ...
scrivevo dei silenzi, delle notti, notavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini.»
La canzone “Elle est retrouvée / - Quoi? - L’Eternité”, che vuol segnare l’attimo della
scoperta, del ritrovamento in spoglie mortali dell’eternità, precede il breve e
densissimo passaggio in prosa col tema - tre volte ricorrente - della felicità così
come questo mondo di tristezza nasconde in realtà il Paradiso, così per ogni
destino umano vi è una sorta di fatalità alla felicità, un sorriso di ineffabile
beatitudine che si nasconde dietro ogni esperienza, anche la più tragica. «La felicità
era la mia fatalità, il mio rimorso, il mio tarlo ... La Felicità!
Il suo dente dolce da morire, mi avvertiva al canto del gallo, - ad matutinum, al
Christus venit, - nelle più tetre città.»
“L’impossibile”, il titolo del successivo brano è quanto perseguito dal poeta nella
sua disperante ricerca: «Quella vita della mia infanzia, la strada maestra col bello ed
il cattivo tempo, sovraumanamente sobrio, più disinteressato del migliore dei
mendicanti, fiero di non avere né patria, né amici ...» La descrizione del suo essere o
del suo stato spirituale non poteva essere più precisa, superbamente privo d’ogni
interesse, fiero d’essersi liberato da qualsiasi retaggio, ed infine la curiosa
100
Rimbaud
espressione di ‘sovrannaturale sobrietà’, la quale non può stare che per un animo
sgombro assolutamente da qualsiasi pregiudizio di religione,
di morale, di ideologia (comprese ‘le palme dei martiri, i raggi dell’arte, l’orgoglio
degli inventori, l’ardore dei saccheggiatori’).
Povero Occidente, dove «... noi coltiviamo le nebbie! Noi mangiamo la febbre con i
nostri legumi acquosi. E l’ubriachezza! E il tabacco! E l’ignoranza! E le sottomissioni
cui il poeta contrappone! Tutto questo quanto è lontano dall’Oriente, la patria
primitiva! Perché un mondo moderno, se si inventano simili veleni!?» L’Oriente
sognato, percepito, intuito, era ‘la saggezza primitiva ed eterna’. E poi, il grido che
con un fremito scuote ed illumina: «È vero; era l’Eden che io cercavo!».
Rimbaud sente che la strada percorsa era quella giusta, ma che aveva commesso
degli errori ed era ormai tardi potersene riprendere: ‘straziante avventura!’ sarà
infatti il grido conclusivo.
«Mio spirito, sta in guardia. Nessuna violenza nelle scelte di salvezza (- uno dei
cardini della educazione spirituale induista -). Esercitati! - Ah, la scienza non va
abbastanza veloce per noi!»
«Ma mi accordo che il mio spirito dorme.
Se fosse ben sveglio sempre a partire da questo momento, saremmo presto alla verità,
che forse ci circonda con i suoi angeli piangenti! ... Se fosse stato sempre ben sveglio,
io navigherei (- battello incantato -) in piena saggezza.»
La prosa, per Rimbaud, fu una scelta determinata per poter liberamente e
direttamente confessare quanto era avvenuto e stava avvenendo dentro di sé, ma
le immagini, i concetti, sono tumultuanti, le connessioni logiche saltano. Nelle
sequenze ora riportate si passa dalla autoesortazione allo stare in guardia, al
richiamo della norma yogica a non esercitare violenza sulla propria volontà nelle
101
Carlo Carlucci
scelte da fare («... altrimenti il serpente che tu comprimi con forza a che non
soffocherai e ti uscirà di sotto due volte più violento») alla constatazione che la
tanto acclamata scienza in realtà progrediva troppo lentamente. I trapassi
avvengono con rapidità di fulmine. Ha mancato, non è stato in grado di darsi una
disciplina (spirituale) capace di guidarlo nella sua rotta di scoperta. E nuovamente,
il sospetto, la percezione che la verità sia qui, attorno a noi, dietro il velo di questa
realtà, circondata - l’immagine può apparire lievemente barocca - d’’angeli
piangenti’ appunto per la nostra indifferenza o incapacità a percepire, a svelare il
segreto.
Nel breve brano, immediatamente a seguire, “Il lampo”, la massima biblica viene
così capovolta: «’Niente è vanità; viva la scienza e avanti!’, grida l’Ecclesiaste
moderno, ovvero Tutti.» E la brevissima rappresentazione è da trionfo della morte:
«E tuttavia i cadaveri dei cattivi e dei fannulloni ricadono sul cuore degli altri ...»;
l’esegesi rimbaldiana ha dato per scontato il significato letterale della frase. A noi si
pone il dubbio che si possa andare più in là, vista l’idea che il poeta aveva
dell’azione, questo fulcro del mondo, uno snervarsi, un modo di sciupare l’energia
che ci viene trasmessa. Le magnifiche sorti progressive del secol superbo e sciocco
le aveva chiamate Leopardi: infatti, aggiungerà più avanti Rimbaud: «Il lavoro
sembra troppo leggero al mio orgoglio ...» Le immagini, queste ultime immagini di
Rimbaud, ci riportano alla memoria i versi di una delle più grandi voci della poesia
latinoamericana, Carlos Martinez Rivas, con la sua poesia “Domanda di
Matrimonio”. In forma grottesca e straordinaria, il poeta supplica l’amata di tenersi
lontana dal mondo delle brave persone, laboriose, regolarmente sposate, perché:
«È contro di noi che si sono sposate. / È contro te e contro me, amor mio, / che
ritornano presto al loro lavoro ... Sono il Demonio. Il Demonio più attivo di Dio. /
Sono il Diavolo e la sua banda di morti laboriosi ... di una clandestina fabbrica
sepolcrale, / di dissimulata fabbrica di passato.» Quindi si esorta l’amata: «... e tu
ravviva il tuo ozio. / Opponigli il tuo presente di poderosa caducità. / Perché sono
loro amor mio, sempre gli stessi! / Morti che seppelliscono i loro morti! /
Disseppellendoli / e seppellendoli / e tornando / a disseppellirli!»
Continua poi Rimbaud: «Ah! Presto, un po' più presto; laggiù, oltre la notte, quelle
ricompense future, eterne ... ci sfuggiranno?» Ed anche in questo caso, solleviamo il
dubbio che queste ricompense future siano da intendersi come i vari paradisi
dell’aldilà conclamati dalle religioni. Al termine di questo ininterrotto voyage au
bout de la nuit, Rimbaud indica un laggiù, non un lassù: e laggiù significa un qui
lontano. E poi, la desolazione e lo sconforto: «... faranno a meno di me. ... La mia vita
è consumata.»
Infine, la premonizione della durata della propria vita: «Avere vent’anni, se me ne
restano ancora venti! ... No, ora mi ribello contro la morte! ... All’ultimo momento
102
Rimbaud
attaccherò a destra, a sinistra ... Allora - oh! - povera anima cara, l’eternità non sarà
perduta per noi!»
Il poeta dunque cercherà ancora di combattere la morte così che, riuscendo a
vincerla, quell’eternità di cui tanto aveva parlato con Verlaine - la ‘chère pauvre
âme’ - non andrà perduta. Ai nostri giorni, Satprem ha scritto altrettanto
inequivocabilmente e con precisione di dettagli: «... la nostra vita è la morte e
questa morte non si trova da un’altra parte; ci siamo dentor in pieno! O, per dirla in
modo diverso, stiamo dalla parte sbagliata e la vita (‘la vraie vie est absente’) non
esiste ancora ... fin dalle prime alghe azzurre della Groenlandia o dai primi anellidi,
fin dalla prima comparsa della vita sulla terra, è tutta la vita che si trova in stato di
morte. La vita non è mai nata! Non ancora. Fin dall’alba dell’esistenza sulla terra
siamo stati ghermiti dalla morte che, insaziabile, ci divora da una specie all’altra ed è la Morte quindi che vive.»
“Mattino” è un breve paesaggio in cui, dopo un’ennesima tornata di confessioni,
«non ho forse avuto una volta una giovinezza bella, eroica, favolosa, da scrivere su
fogli d’oro, - troppa fortuna! Per quale crimine, per quale errore, ho meritato la mia
debolezza attuale?», si annuncia il nuovo che dovrà nascere. La critica si è fermata
alla constatazione che il poeta ha adottato la simbologia del Natale cristiano per
salutare una futura nascita nuova. Ma in Rimbaud non vi può essere mai nulla di
103
Carlo Carlucci
così banalmente diretto o così direttamente esplicativo. È talmente complesso,
difficile, il suo rapporto con l’indicibile, che giunge a confessare: ‘Je ne sais plus
parler!’.
Cerchiamo allora di comprendere quanto lui sussurra ai limiti dell’afasia: «Dallo
stesso deserto, nella stessa notte, sempre i miei occhi stanchi si risvegliano alla stella
d’argento, sempre; senza che si commuovano i Re della vita, i tre magi, il cuore,
l’anima e lo spirito. Quando andremo oltre le spiagge ed i monti, a salutare la nascita
del lavoro nuovo, la nuova saggezza, la fuga dei tiranni e dei demoni, la fine della
superstizione, ad adorare - per primi! - il Natale sulla terra!» Il poeta vede, come i
pastori di Betlemme, la stella della nascita - quella della nuova vita attraverso
l’interiore ‘conosci te stesso’ di Socrate -.
I tre Magi sono appunto il cuore (psichico), l’anima (spirituale) e lo Spirito che
tutto anima, ma questi Magi non si sono mossi (commossi) all’annuncio dato dalla
stella. Il viaggio interiore, quello della trasformazione, si è quindi arrestato, ma la
certezza verso il futuro è tutt’altro che spenta: infatti, ci attende quel Natale sulla
Terra, dove finalmente Cielo e Terra si uniranno: «Il canto dei cieli, la marcia dei
popoli!»
“Addìo”, che è l’ultimo brano della “Saison”, è solo formalmente, come vuole la
critica, un addìo alla veggenza, alla magìa, ai tentativi falliti sia nel campo letterario
che in quello esistenziale, alle amicizie, agli amori passati, ai ricordi, ai rimpianti.
Nella sua sostanza più intima, più misteriosa, quella in realtà mai indagata, l’addìo
si rivela come uno straordinario inno alla speranza. Non è una grigia pietra
tombale che sigilla irrevocabilmente un sogno, ma un cancello d’oro dalle cui
scintillanti sbarre si intravede lo splendore: «Che cos’è il mio niente di fronte allo
splendore che vi attende?»
L’incipit lo conferma: «Noi siamo impegnati nella scoperta della luce divina, lontano
dalla gente che muore sulle stagioni ...»
È vero, innanzi a sé Rimbaud ha la vita, ovvero la morte, la nostra barca, alta nelle
nebbie immobili, vira - il Bateau non ha trovato la via verso gli arcipelaghi siderali e va verso il porto della miseria, la città enorme dal cielo chiazzato di fuoco e fango
... «Non finirà mai questa regina divoratrice di milioni d’anime e di corpi morti e che
saranno giudicati!» Satprem, interpretando l’illuminazione dell’apostolo Giovanni ‘Che la Terra ed il Cielo siano una sola cosa’ - ipotizza che la resurrezione dei morti
debba essere intesa come la resurrezione di uomini che si credono vivi, ma che in
realtà vivono nella morte: «Il brulicare di orrori che vediamo dappertutto sta a
significare che è arrivato il tempo in cui ogni cosa, appunto, viene messa a nudo.
Viviamo rinchiusi in una fortezza buia, universale, e non ce ne accorgiamo,
talmente siamo abituati a viverci dentro ... Ma i nostri muri crollano e sarà un’altra
Terra. Ed altri cieli, come aveva visto Giovanni di Patmos. Finché la Morte non
venga finalmente smascherata: quest’orrenda menzogna che ci nasconde un amore
splendido e pretende di farci credere che è lei la Vita. E tutte le nostre sensazioni
104
Rimbaud
sono invenzioni della morte. Ma la lenta invasione della nuova Vita sta demolendo
la fortezza-prigione. Il crepuscolo degli uomini è l’inizio dell’uomo libero. E di una
vita divina sulla Terra ...»
La visione rimbaldiana delle città chiazzate di fuoco e fango, dei porti della miseria,
dove la morte è la regina di anime e corpi che saranno giudcati, parrebbe assai
vicina alla interpretazione dell’Apocalisse fatta da Satprem.
Nella simbologia indù, il vascello è il simbolo del grande viaggio dello spirito, l’oro
è la luce divina ed il cielo la realizzazione del Supremo; e dunque Rimbaud: «Vedo
talvolta nel cielo spiagge senza fine coperte di bianche nazioni in gioia. Un grande
vascello d’oro, sopra di me, sventola i suoi stendardi multicolori alle brezze del
mattino ...». La Gerusalemme celeste di Giovanni.
E in contrasto sta la realtà-realtà, ovvero la ‘réalité rugueuse’: «Io! Io che mi sono
detto mago o angelo, dispensato da qualsiasi morale, vengo rigettato al suolo, con un
dovere di cercare e la realtà rugosa da afferrare! ...» E nessuno che lo abbia capito o
che lo possa aiutare: «Ma nemmeno una mano amica! E dove attingere il soccorso?»
Sì, «l’ora nuova è quantomeno molto severa.», dichiara Rimbaud. «Un enorme
qualcosa», e qui continuiamo con Satprem, «sta invadendo tutti gli uomini, sepolti
sotto dorate macerie. Un fuoco nuovo - o eterno - sta covando a loro insaputa, nelle
loro cellule, sta propagandosi attraverso i loro corpi porosi. E gli uomini si
spaventano, soffrono, si dibattono sui lidi di una terra che credevano di conoscere
tanto bene e che invece sfugge loro da ogni parte. Lo spacco evolutivo è avvenuto
...»
105
Carlo Carlucci
Il tempo della Trasformazione non è ancora finito ma siamo già entrati nel Nuovo:
«Sì, l’ora nuova è quantomeno molto severa.» Qualcosa che non ci rivela ha maturato
in lui la certezza: «Posso dire comunque che la vittoria è mia.» Rimane ancora
qualche rimpianto per il vecchio stato, per coloro che continuano a vivere nella
vecchia maniera, che credono nella morte e la accettano: «I miei ultimi rimpianti
fuggono via - qualche invidia per i mendicanti, i briganti, gli amici della morte, i
ritardati d’ogni specie.»
E quindi il grido: «Bisogna essere assolutamente moderni.», per essere pronti a
ricevere o a preparare il terreno al Nuovo che deve giungere. La drasticità di
quell’’assolutamente’ non ammette concessioni di sorta.
Mère, che assieme ad Sri Aurobindo ha dedicato la vita per l’avvento di questo
Nuovo, così ne ha parlato: “... la realtà vera è molto più stupenda di quanto
possiamo immaginare perché quanto noi immaginiamo è sempre un
miglioramento, una glorificazione di quanto vediamo ...” E così poi Satprem: “È
evidente che se anche solo alcune centinaia di migliaia o alcune migliaia di esseri
venissero ‘inglobati’ nella nuova visione, nel contagio del nuovo mondo, ciò
avrebbe ripercussioni incalcolabili sul resto dell’umanità, che non potrebbe non
venire ‘contagiata’ da quell’altra ‘specie’ umana le cui qualità superiori, le cui
superiori gioia ed armonia verrebbero a porre una sfida, un’invisibile costrizione
sugli uomini meno evoluti e sempre più doloranti nel loro soffocamento.”
E per moderni intende il poeta quanto affermato in varie riprese: essere svincolati
dalle radici, privi di superstizioni scientifiche e religiose, fuori da ogni credo, liberi
da quella contraffazione dell’Amore che è l’amore umano, possedendo la fatalità
della felicità, in cerca dei segreti per cambiare la vita, senza ‘nessuna fede nella
storia’, con l’’oblio dei principi’, senza sapere dove si va né perché si va, ‘impegnati
nella scoperta della luce divina, lontano dalla gente che muore sulle stagioni’, pronti
ad andare ‘oltre le spiagge ed i monti a salutare la nascita del lavoro nuovo, la nuova
saggezza ad adorare - per primi - il Natale sulla terra.’
Le Illuminazioni saranno la testimonianza più diretta e più profonda del suo grido:
‘il faut être absolument modernes.’
Nell’“Adieu” Rimbaud ci conforta, ci conferma, ci esorta: «Intanto è la vigilia.
Accogliamo tutti gli influssi di vigore e di tenerezza vera. E all’aurora, armati di
un’ardente pazienza entreremo nelle splendide città.» Siamo all’alba del Nuovo, e il
Fuoco, l’Agni dei Veda, nuovo ed eterno, sta propagandosi attraverso i nostri corpi
porosi con i suoi “influssi di vigore e tenerezza vera”. Ciò che si vede si consuma in
una forza rapida ed incontrollabile. L’ossimoro usato da Rimbaud, è troppo
preciso: dobbiamo essere armati di un’ardente pazienza, cioè dobbiamo perdurare
in uno stato di intensità vibrante per giungere alla “splendide città”, e così ci sarà
finalmente lecito “possedere la verità in un’anima e in un corpo.”
Allude qui Rimbaud al superamento del dualismo della nostra realtà fenomenica
per la quale da un lato v’è la verità effimera del corpo, che è quella della sua vita
corrompibile, del suo anelito al piacere, ad una vita che è preda della morte e
106
Rimbaud
all’opposto la verità dell’anima che è trascendente, immortale etc. E ancora una
volta, citiamo in causa Sri Aurobindo per dare la necessaria proiezione
all’immagine rimbaldiana della verità in un’anima e in un corpo:
«Uno non deve lasciare la Terra per trovare la verità; uno non deve abbandonare il
mondo per entrare in rapporto col Divino. Il Divino è ovunque, in ogni cosa e se è
nascosto è perché noi non ci prendiamo la pena di seguirlo.»
Il corpo cui allude Rimbaud sarà quel nuovo corpo da lui a più riprese vagheggiato,
il corpo di una nuova specie, di una nuova forma di vita sulla Terra. Ma nemmeno
Mère, che per tutta la sua vita inseguì questa trasformazione, riuscì a scoprire il
‘come’ della trasformazione, ovvero se il vecchio corpo sarebbe stato rimpiazzato
dall’altro o se si sarebbe trasformato nel nuovo. Nel maggio del 1970 però, ella
ebbe una visione che raccontò a Satprem: “Ho visto come sarà questo nuovo corpo.
L’ho visto proprio bene! Quanto a forma, sembra simile al nostro corpo, ma senza
sesso, cioè né uomo né donna.
Un corpo non molto diverso, ma talmente raffinato, qualcosa di così raffinato ... E
aveva un colore come arancione, ma vibrante, non luminoso, ma come se esso
stesso sprigionasse luminosità ...”
107
VIII
illuminazioni
È proibito all’uomo, pena la sconfitta e la morte
intellettuale, di disturbare le condizioni
primordiali della sua esistenza e di rompere
l’equilibrio fra le sue facoltà e i luoghi in cui
esse sono destinate a muoversi, di avversare il
proprio destino per sostituirvi una fatalità di
genere nuovo ...
C. Baudelaire
Il genio è sia il padrone del silenzio che il suo
schiavo. Il poeta non esiste solo nelle parole che
firma col suo nome, ma anche nei vuoti che
persistono sulla pagina. La sua onesta è di
preservarsi intatto, e Rimbaud visse
gloriosamente intatto.
W. Fowlie
Egli (Rimbaud) ha saputo trasformare quelli di
noi che sono ancora esseri senzienti, desti al
futuro, in strali di desiderio di un’altra riva.
A. Miller
In verità, la letteratura da Rimbaud in poi è
stata impegnata nel travaglio di aggirare
Rimbaud.
M. Josephson
Giungo a lui attraverso le nebbie di una lingua
che non sono mai riuscito a dominare.
A. Miller
La testimonianza delle ‘Illuminazioni’ è l’ultima e ai tanti enigmi rimbaldiani si
aggiunge anche quello della datazione dei testi. Alcuni probabilmente sono
ascrivibili al periodo della ‘Saison’ ma è impossibile ristabilire un qualsiasi ordine
Carlo Carlucci
cronologico e quindi connotare dimensione, atmosfere, stacco, slancio, caratura di
quest’ultima tappa verso l’impossibile.
Il brano che apre la raccolta porta il titolo, ‘Diluvio’, possibilmente aggiunto da
Fénélon, colui che ordinò i testi nella sequenza tuttora in vigore.
Il referente diretto è un forte acquazzone fissato nella memoria dell’infanzia e
certe note paesaggistiche sul villaggio subito dopo la pioggia paiono per un attimo
un’eco delle leopardiane immagini de ‘La quiete dopo la tempesta’. Ma la tensione
poetica di Rimbaud non è, al solito, verso il canto liberatore bensì verso la
testimonianza, la verifica in qualche modo dell’indicibile e dell’indicibilmente
complesso. Vi è stato un forte acquazzone che ha dato agli occhi infantili
l’impressione di un diluvio: «Non appena l’idea del diluvio si fu placata ...». La
velocità delle sequenze è quella che poi è stata innescata dalle moderne cineprese,
dalla lepre fra le campanule che occhieggia l’arcobaleno dietro la tela del ragno
(Walt Disney?), alle bancarelle che vengono montate sulla grande strada sporca, al
sangue che scorre nella casa di Barbablù, nei macelli, alle barche che vengono
riportate verso il mare che appare, visto dalla distanza, come ergersi verticalmente
... Due sono forse i riferimenti autobiografici: l’immagine dei bimbi in lutto che
guardano le figure meravigliose, e ‘sulla piazza del villaggio il fanciullo incrociò le
braccia immedesimato nelle banderuole e nei galli dei campanili di dovunque sotto lo
scintillante acquazzone.’ E a raggiera si dipartono le immagini, dall’Africa, ‘I
mazagran fumarono nei caffè, ai castori, alle carovane, ad un felliniano ‘SplendideHotel costruito nel caos di ghiacci e di notte del polo.’ Del ricordo ascrivibile
all’ospitalità ricevuta presso una vedova milanese, in Piazza del Duomo, 3 - II
piano, come recita il biglietto da visita che fa parte dell’iconografia rimbaldiana
riunita da Materasso, noi azzardiamo un’interpretazione, nell’assenza di ogni
plausibile altra deduzione della critica dell’immagine: «La Signora *** collocò un
pianoforte sulle Alpi. La messa e le prime comunioni furono celebrate sui centomila
altari della cattedrale.’» Si sa che verso la fine di maggio del 1875, Rimbaud fu
ospite della signora in questione dopo un viaggio a piedi da Stoccarda. Maggio era
il mese delle prime comunioni e lo stupefacente gotico interno del Duomo di
Milano suggerisce quella moltiplicazione dello spazio che viene resa con i
‘centomila altari della cattedrale’.
Per caso, una nota biobibliografica sul De Roberto riporta come questi nel 1890
alloggiasse in piazza Duomo al numero 5 al secondo piano, mentre al primo
alloggiava il Verga.
È possibile dunque a quei numeri civici vi fossero pensioni di tipo familiare,
frequentate da scrittori o artisti. Una stampa della piazza milanese in quegli anni ci
mostra case che non andavano oltre i due piani: è quindi possibile che dalla
finestra Rimbaud avesse la visione delle lontane Alpi come un immenso, lontano
pianoforte naturale. Oppure, la visione del panorama alpino gli era apparsa
durante la visita, d’obbligo per ogni turista, al tetto del Duomo irto di pinnacoli
110
Rimbaud
gotici. Azzardiamo questa interpretazione per confermare ancora una volta la
grande ed elusiva capacità d’accostamento di immagini di cui Rimbaud era dotato.
Placato dunque il timore del diluvio con lo scomparire del temporale, ecco che il
poeta sente il bisogno, il desiderio, l’effettiva necessità di una catarsi immane: ‘acque e tristezze salite e ridestate i Diluvi. Perché da quando sono svaniti ... che noia!’
Allude qui il poeta al ripetersi ciclico delle catastrofi planetarie che cancellano le
evoluzioni terrestri non più in grado di evolversi.
L’ultima scena è quella de ‘la Regina, la Maga che accende la sua brace nel vaso di
terra, non vorrà mai raccontarci quello che lei sa e che noi ignoriamo.’
Questa misteriosa ‘Elle’, qui può essere tutto, dalla strega medioevale la quale citiamo il Michelet - ‘ha già i tratti del Prometeo moderno’, ‘dall’incendio acceso
dalla Strega ne verrà la redenzione finale’, alla Natura-Gea che cova il magma
incandescente e che ci conduce verso uno sconosciuto futuro. È il preludio, questa
misteriosa ‘Elle’, di una apparizione che continuerà a balenare nelle
“Illuminazioni”.
111
Carlo Carlucci
‘Infanzia’ contiene la rievocazione dei primi rapimenti, la constatazione dei
fallimenti poi avvenuti.
‘Pare un assurdo, e pure, è esattamente vero, che tutto il reale essendo un nulla,
non v’è altra sostanza al mondo che le illusioni’, aveva scritto il Leopardi e della
forza di questo illusorio, vuoi come sopravvivente e trasfigurata eco del reale
trascorso, vuoi come trasfigurazione proveniente dal chissà-dove dei sogni ci narra
il Rimbaud.
Vi sono cinque sequenze marcate da numeri romani. Si aprono ciascuna su degli
spazi sincronici o diacronici e hanno un finale che non è cesura. La realtà poetica in
cui si muove Rimbaud non è quella duale e fenomenica nella quale ed alle cui
categorie noi sembriamo così strettamente legati. Il primo zoom è sui paesaggi,
visioni, percorsi con la sua fantasia di bambino; vi è l’’idolo dagli occhi neri e dal
crine giallo’ stagliato contro ‘l’azzurro e la verzura insolenti’, ‘le onde senza vascelli’,
la ‘fanciulla dalle labbra d’arancia, le ginocchia incrociate nel chiaro diluvio che
sgorga dai prati, nudità ombreggiata, attraversata e vestita dagli arcobaleni, dalla
flora, dal mare...’
‘Sul limitare della foresta - fiori di sogno tintinnano, scoppiano, lampeggiano.’
Qualcuno ha voluto ricordare qui Gauguin che di lì a poco avrebbe portato sulla
tela visioni analoghe. L’accostamento trova un curioso riscontro: alcuni anni dopo
la morte di Rimbaud uno dei primissimi articoli di commento fu dello stesso
Gauguin a Thaiti su una piccola rivista locale (‘Les Guêpes’ n° 12, 12 gennaio 1900).
Ne riportiamo l’incipit: ‘Nel 1898 ho ricevuto una triste notizia: la morte di Arthur
Rimbaud (un amico). Rimbaud era un poeta, considerato quindi da buona parte
della società un essere inutile su questa terra, come tutti gli artisti in genere ... era
un poeta diverso, un genio, ma fu tutto ...’
La seconda sequenza di ‘Infanzia’ è filmata con le tecniche dell’école du régard e
dei flash-back. Vi è ‘la piccola morta, dietro i rosai (immagine che allude forse alla
sorellina morta ancora lattante o all’altra, Vitalie, morta a 16 anni, poi ‘la giovane
mamma defunta scende la scalinata’, che si può spiegare senza troppe forzature, col
fatto che quella figura di gioventù e d’amore è trépassée, rispetto alla dura, legnosa
figura che era diventata M.me Rimbaud. E, abituati ai rapidi trapassi, possiamo
spiegarci ‘il fratellino (è nelle Indie!),
lì davanti al sole che tramonta, sul prato di garofani.’ Lo sdoppiamento (è lì sul
prato e contemporaneamente nelle Indie) non sorprenda: nel rosseggiare del
tramono, il piccolo poeta si sente lontanissimo nelle sue illusioni e nei suoi
fantastici viaggi. La macchina da presa poi si sposta sulla casa del generale (Noiset,
stando a quanto riferisce Delahaye), poi su una strada rossastra ed ancora su un
castello in vendita, su casolari in abbandono (la prefigurazione dei paesaggi agresti
così come ci appaiono oggi).
112
Rimbaud
Lo sbocco finale è su un infinito struggente ed estenuato: ‘Le nuvole s’addensavano
sopra l’alto mare fatto di un’eternità di calde lacrime.’ Rimbaud ha qui catturato nel
guizzo della poesia l’espressione consunta dall’uso ‘mare di lacrime’. Il gusto di
salato dell’acqua di mare è quello delle lacrime, l’immagine della poesia consegna il
senso dello struggente e dello sconfinato: l’eterno dolore dell’uomo che genera il
suo eterno pianto il quale a sua volta colma l’infinito mare. Il terzo tempo di
‘Infanzia’ è presentato in rapidi quadri di marca surrealistica (Dalì, Marx Ernst,
Man Ray) fino alla conclusiva immagine del poeta rifiutato dal mondo: ‘Vi è infine,
quando si ha fame e sete, qualcuno che vi caccia.’
Il quarto e quinto tempo sono scanditi ciascuno da cinque sentenze, in due diverse
ambientazioni. La prima vede quattro proiezioni dell’io del poeta: ‘io sono il santo,
in preghiera ... io sono il sapiente sulla poltrona ... io sono il viandante ...’, fino al
tempo verbale al condizionale, ‘Je serais bien, io sarei volentieri il bambino
abbandonato sul molo gettato in altomare, il piccolo valletto che cammina sul viale
la cui fronte tocca il cielo.’ Il poeta ritornerebbe ad accettare ancora quel concluso
tempo della sua vita,
la solitudine assoluta dell’infanzia di fronte all’infinito (mare, cielo). Dalla persona
l’inquadratura si sposta su un paesaggio aspro, che pare quello de ‘La ginestra o il
fiore del deserto’ del Leopardi: ‘I sentieri sono aspri, le elevazioni del terreno si
ricoprono di ginestre. L’aria è immobile. Come sono lontani gli uccelli e le fonti. Non
vi può essere che la fine del mondo, andando avanti.’ Uguale nei due poeti è il senso
di una desolata, arcana sospensione che emana dal paesaggio.
Il quarto ed ultimo atto ci mostra il poeta coi gomiti sul tavolo, ‘la lampada illumina
vivamente questi giornali che io sono così idiota da rileggere, questi libri senza
interesse.’ La stanza della lettura e dell’isolamento è nella realtà della irrealtà una
‘tomba, imbiancata a calce, con le linee di cemento in rilievo e lontanissima sotto
terra.’
Tuttavia, quanto in superficie abbandonato dal poeta per quell’eremo sotterraneo
e tombale si rivela come fango, bruma, mostruosità e oscurità infinita: ‘A una
distanza enorme, sopra al mio salotto sotterraneo, sorgono le case, si addensano le
brume. Il fango è rosso o nero. Città mostruose, notte senza fine!’
Questo viaggio, questo penetrare nel cuore della materia era stato già cantato nel
Rig Veda: V, 59, 9 ... ‘e qui fendono la montagna di materia’; III, 7, 5 ... ‘è penetrato
nel cielo e nella terra come fossero una cosa sola.’; V, 30, 4 ... ‘Con la forza della tua
folgore hai aperto persino la roccia alla luce e hai scoperto l’immensità. E quindi le
due ultime sequenze rimbaldiane si fanno illuminanti come gli inni vedici: ‘Meno in
alto ci sono le fogne. Ai lati, nient’altro che lo spessore del globo. Forse abissi
d’azzurro, pozzi di fuoco. È forse su questi piani che si incontrano lune e comete, mari
e favole ...’
‘Nelle ore d’amarezza m’immagino sfere di zaffiro, di metallo. Sono padrone del
silenzio. Perché una parvenza di spiraglio dovrebbe illividirsi sull’angolo della volta?’
113
Carlo Carlucci
Il ‘Racconto’ che segue ha i lievi toni dell’apologo, vi si narra la favola impossibile
vissuta dal poeta. La leggiamo decifrandola non in logica o piatta esegesi - cosa
impossibile - ma nella sua proiezione. Vi era un Rimbaud-Principe il quale, nel suo
desiderio d’assoluto (‘voleva vedere la verità, l’ora del desiderio e della soddisfazione
essenziali! ...’) disdegnava donne, amici, animali e cose, via via facendosi sempre più
crudele ...
‘ma nessuno offrì il soccorso delle proprie opinioni’.
Poi un giorno il Principe scopre o si scopre Genio di bellezza, di amore, di felicità
indicibili. Ma questa scoperta (vedi la lettera sulla veggenza: ‘Che crepi pure in quel
balzo tra le cose inaudite e ineffabili ...’) porta all’annientamento di entrambi, cioè
dell’unione. E il Principe resterà con la sua vita e morte ordinarie: ‘Il Principe era il
Genio. Il Genio era il Principe.’ Ma dalla geometrica sintassi e sintesi della favola
impossibile si stacca musicale, vibrante, improvvisa una fuga verso l’avvenire: ‘La
musica sapiente manca al nostro desiderio.’ Ecco la speranza, il messaggio, la
ragione delle ‘Illuminazioni’. ‘Altri verranno - aveva scritto nella lettera del
veggente - e incominceranno degli orizzonti sui quali egli è crollato!’ Quale sarà
quella musica sapiente che permetterà al nostro desiderio d’assoluto di realizzarsi
e ci permetterà di penetrare ‘l’intiero e intimo delle cose’ fino alla nostra
‘rigenerazione’, come aspirava il Leopardi?
Michael Parkes, Après-midi d’un faune
114
Rimbaud
‘Beauteous Being’, o Essere di bellezza, sarebbe con la precedenza della forma
aggettivale su quella nominale, la forma inglese corretta in luogo di “Being
Beauteous”. Si tratta di una piccola pièce fra quelle catalogate come enigmatiche e
di altissima tensione. Sullo sfondo della neve, alone di purezza, in un cantiere,
appare la Visione, Elle, un essere di bellezza di alta statura. E subito dei ‘sibili di
morte e dei cerchi di musica sorda fanno salire, allargarsi, tremare come uno spettro
questo corpo adorato!’ E ‘brividi s’innalzano e rumoreggiano’ e ‘fischi mortali’ e
‘musiche roche che il mondo, lontano dietro di noi lancia sulla nostra madre di
bellezza, ...’ Questa Elle, visione immateriale, dal corpo plastico e duttile, Essere di
bellezza, ‘nostra madre’ non può non rimandarci al Dio femminile, alla Pacha Mama
andina, alla Madre Divina dell’Induismo: ‘Possa Sri Mahalakshimi, Madre del
Mondo che siede sul rosso loto, Essa stessa dal color di fior di latte come il polline
del loto ... e ornata con i fascini dell’intero mondo, possa Ella benedirci con l’eterna
prosperità!’, recitano le Upanishad. Il mondo dunque attacca la Madre e il poeta
che con lei è isolato e allora: ‘lei indietreggia, si erge. Oh! le nostre ossa sono rivestite
di un nuovo corpo innamorato.’
In Rimbaud tutto è intatto, vi può essere enigma, ma mai gratuità. In questa
sequenza il mondo è la morte che vive e che cerca di soffocare, di aggredire questa
Elle assieme al poeta che è con lei, ma improvvisamente il corpo di Rimbaud è
trasformato in qualcosa di completamente diverso, pieno d’amore.
115
Carlo Carlucci
Questa Madre divina, che sovrintende all’evoluzione terrestre (evoluzione che
dobbiamo considerare come concentrazione del cammino evolutivo dell’universo),
ha diversi aspetti e personalità riconosciuti nella mitologia indù (vi è anche quello
di Kalì la terribile distruttrice). All’epoca di Rimbaud, l’ondata di trionfante
positivismo era controbilanciata dalle ricerce e dalle tensioni in senso opposto dei
Michelet, Quinet e tanti (Baudelaire innanzi a tutti) che indicarono la via al
dirompente viaggio interiore del poeta. La discesa del potere (anche in forma di
apparizione) di una delle personalità della Madre è in diretto rapporto col grado di
intensità dell’evoluzione dello spirito terrestre o anche di un singolo spirito
terrestre.
Sri Aurobindo ne ha parlato con estrema esemplarità: “Vi sono altre grandi
personalità della Madre Divina, ma esse sono più difficili a far discendere e non si
sono messe avanti in forma così pronunciata nell’evoluzione dello spirito terrestre
... la più indispensabile di tutte è la Personalità dell’estasi, della beatitudine
misteriosa e possente che direttamente discende dal supremo Amore divino ...”
E Mère, dal canto suo, ha ulteriormente precisato: “Lei (questa personalità
straordinaria della Madre divina) è venuta portando con sé uno splendore di
potenza e d’amore, una intensità di gioia divina sconosciute alla Terra fino a quel
momento ... Ma perché ella possa fissarsi ed agire quaggiù, bisogna che trovi un
minimo di ricettività, che trovi almeno un essere umano che abbia le qualità
richieste nel vitale e nel fisico, una sorta di super Parsifal dotato di una purezza
spontanea ed integrale, ma allo stesso tempo in possesso di un corpo abbastanza
solido ed equilibrato per poter sopportare senza piegarsi l’intensità dell’Ananda
(beatitudine e amore divini) da lei portato.”
Leonardo Arena, in un volume dei ‘Tascabili Economici Newton’ dedicato alla
filosofia indiana, così sintetizza l’opera ed il pensiero di Sri Aurobindo: “Sri
Aurobindo crede nell’ulteriore sviluppo delle facoltà umane e si richiama
direttamente a Nietzsche il quale avrebbe intuito, con la teoria del Superuomo,
l’esigenza di una metamorfosi (uno slancio è una mutazione evolutiva). In un
prossimo futuro si determinerà una nuova specie di esseri (con un corpo diverso)
ed una nuova forma di vita sulla Terra.” (‘Oh! le nostre ossa sono rivestite di un
nuovo corpo d’amore!’, è l’estatica improvvisa scoperta del Poeta).
Tre piccoli asterischi separano la conclusione di “Beauteous Being”: la sequenza
finale e per ora inevitabile sarà ancora la morte: ‘O il viso di cenere, lo scudo di crine,
le braccia di cristallo! Il cannone su cui mi devo abbattere attraverso l’intreccio degli
alberi e dell’aria leggera.’
In ‘Vite’, attraverso tre passaggi, Rimbaud ripercorre le varie esistenze del suo
passato.
I ricordi dell’India con cui si apre le récit, sono così precisi e marcati: ‘Che ne è stato
del Bramino che mi spiegò i Proverbi? (- leggi: i Veda e le Upanishad -) ... vedo
ancora perfino le vecchie! Mi ricordo delle ore d’argento e di sole verso i fiumi, ... che
116
Rimbaud
farebbero pensare più che ad un paese soltanto immaginato a qualcosa
dell’intravisto vissuto di un’altra incarnazione. Già nell’’Impossibile’ della ‘Saison’,
il poeta aveva accennato al suo ‘Oriente’: ‘mi accorgo che il mio malessere deriva dal
fatto di non essermi accorto in tempo che noi siamo in Occidente. Le paludi
occidentali! Ma non che io creda alterata la luce, estenuata la forma, smarrito il
movimento. Bene! Ecco che il mio spirito vuole assolutamente farsi carico di tutti gli
sviluppi crudeli che lo spirito ha subìto dopo la fine dell’Oriente ... Quanto pretende il
mio spirito!’ L’Oriente di questo suo ‘Impossibile’ è ancora quello della ‘saggezza
primigenia ed eterna’, oppure ‘la patria primigenia’, quindi la luce, la forma, il
movimento di quanto iniziato in Oriente con i Rishi vedici apparentemente non è
perduto; solo che il Veggente - e non altrimenti qui lo potremmo chiamare - sente
che lo Spirito vuole ‘che io sia in Occidente’, a farsi carico ‘di tutti quegli sviluppi
crudeli ...’ Il poeta può quindi affermare, per quanto riguarda la sua presente
incarnazione: ‘Esiliato qui, (nell’Occidente) ho avuto un palcoscenico su cui recitare i
capolavori drammatici di tutte le letterature.’, con evidente allusione alla sua poesia
che ha preteso, come del resto sancito dagli attraversamenti contenuti nella lettera
sulla veggenza (dai greci a Racine, dai romantici ai contemporanei) di andare oltre
tutte le letterature.
A questo punto ecco l’attimo straordinario - il poeta è nuovamente librato nella
visione: cinque brevi frasi con la cadenza dell’inesorabile sfociano nella promessa
ineffabile.
- Due parole, ‘niente’ e ‘stupore’, poste in antitesi, ci lanciano e ci sospendono
dentro l’avvenire: ‘Potrei indicarvi le ricchezze inaudite. Osservo la storia dei tesori
che avete trovato. Ne vedo il seguito. La mia saggezza è disprezzata quanto il caos.
Che cos’è il mio niente di fronte allo stupore che vi attende?’
Nulla di più conclusivo e di più infinitamente aperto avrebbe il poeta potuto dire di
sé e per noi. Di quelle ricchezze inaudite ancora ci lascerà segnali, ci farà
intravedere il cammino, per lampi, dentro la sua e la nostra notte, nelle pagine che
rimangono delle ‘Illuminazioni’. Proiettato nella leggenda, lui che non è più di
questa Terra e si rivolge a noi col ‘Voi’: egli vede i tesori che siamo riusciti a
scoprire e ne vede anche il seguito. E non basta: è assolutamente consapevole che
non sarà capito (forse solo vagamente intuito) e di questa consapevolezza ne sarà
‘pendant’ l’atroce solitudine che lo accompagnerà per il resto della vita; ‘la mia
saggezza è disprezzata quanto il caos’. Così, come in tutti coloro che sono
veramente grandi, non v’è orgoglio o senso di superiorità o disprezzo. Lui, che
tutto ha sacrificato nella ricerca non per sé, ma per tutti, dell’ineffabile,
dell’indicibile, della morte della Morte, lui, il Rimbaud delle ultime parole d’addìo
in ‘Génie’, colui che ci ha ‘tutti conosciuti e tutti amati’, che ‘dalla folla alla spiaggia,
di sguardo in sguardo, nella spossatezza delle forze e dei sentimenti ...’ ci esorta a
‘chiamarlo e vederlo e mandarlo via ...’ a ‘seguire i suoi sguardi, i suoi respiri, il suo
corpo, la sua luce’, ecco, questo poeta unico che in forma ancora intatta si affaccia
117
Carlo Carlucci
sul nostro avvenire, può così irrevocabilmente consegnarci il suo grido e la sua
speranza sconfinata: ‘Che cos’è il mio niente di fronte allo stupore che vi attende?’
Negli altri due passaggi di ‘Vite’ il tono bruscamente discende, il contenuto delle
confessioni è l’amarezza, si constata il fallimento umano di un progetto
straordinario.
Si rientra nella fortezza buia della vita, si notifica, si dichiara, sono assenti
immagini improvvise quali ‘un volo di colombe scarlatte esplode attorno al mio
pensiero.’ Dichiara il poeta d’essere stato ‘un inventore ben più meritevole di tutti
quelli che mi hanno preceduto; persino un musicista che ha trovato qualcosa come la
chiave dell’amore’. Ed ora che è tutto finito, eccolo confessarsi: ‘gentiluomo di una
campagna acre dal cielo sobrio, cerco di commuovermi al ricordo dell’infanzia
mendica, dell’apprendistato, dell’arrivo con gli zoccoli, delle polemiche ... delle
baldorie dove la mia testa forte mi ha impedito di arrivare al diapason dei compagni.
Non rimpiango la mia vecchia parte di gaiezza divina: l’aria sobria di questa acre
campagna alimenta assai attivamente il mio atroce scetticismo.’ Sono finite tutte le
storie coi letterati di Parigi.
Più intenso nei toni appare nella terza ed ultima sequenza, la storia del suo
apprendistato interiore: ‘In un granaio dove fui rinchiuso a dodici anni, ho
conosciuto il mondo ed illustrato la commedia umana. In una cantina ho appreso la
storia. In qualche festa notturna in una città del Nord ho incontrato tutte le donne
degli antichi pittori. In una vecchia galleria a Parigi mi hanno insegnato le scienze
classiche. In una magnifica dimora circondata dall’Oriente intero ho compiuto la mia
immensa opera e trascorso il mio illustre ritiro. Ho rimescolato il mio sangue.’ Il
granaio cui si riferisce il poeta è quello della fattoria di Roche, dove aveva scritto
anche la ‘Saison’. Ma anche nel ‘grenier’, ovvero nel sottotetto, erano molte delle
stanze da lui occupate a Parigi dove ha illustrato la commedia umana (con evidente
riferimento al Balzac della ‘Comédie Humaine’).
Chiuso nelle soffitte delle varie abitazioni, il poeta ha dunque conosciuto il mondo,
rivelando implicitamente come la conoscenza del mondo sia soltanto interiore, il
socratico gnosis autòn, conosci te stesso.
Per converso la Storia, ormai inutile, ormai non più referente, non più magistra
vitæ rispetto alla sua ricerca di quell’Altra Vita qui assente, va relegata in cantina,
fra la ruggine e le cose morte. La galleria, ovvero il ‘passage’, è uno dei luoghi
caratteristici di Parigi, e qui forse si allude al Passage Choiseul, dove i parnassiani
(infarciti appunto di classicità) si incontravano presso Lemerre, il loro editore. La
dimora circondata dall’Oriente intero, dove lui si era ritirato per compiere
l’immane ‘oeuvre’, altro non può essere che la metafora della sua interiorità.
‘Brasser’ in francese è l’atto di mescolare il malto con l’acqua per preparare la
birra, quindi in quel ‘J’ai brassé mon sang’ Rimbaud si riferisce al suo sforzo di
contenere in sé, amalgamandoli, una miscela di elementi diversi, sempre come
118
Rimbaud
supremo tentativo verso il Nuovo. E poi la conclusione: “Il mio dovere m’è rimesso.
Nemmeno da sognarselo più. Sono veramente d’oltretomba e niente commissioni.”
L’addìo, il senso di un distacco definitivo, sono confermati nella breve sequenza
immediatamente successiva, dal titolo emblematico di ‘Partenza’, scandita dai vari
‘Abbastanza visto ... Abbastanza avuto ... Abbastanza conosciuto ... Partenza ...’
Sottilmente decisiva è la constatazione che la visione di quello stupore che ci
attende si è ritrovata dovunque, cioè il ‘future vigueur’ è sottostante, è in azione
segreta ‘à tous les airs’.
‘Regalità’ è un breve apologo che Rimbaud nel testo autografo ci consegna come
inquadrato da due linee parallele (sopra e sotto) assieme a ‘Partenza’, con
intenzione di evidenziarne la contestualità. Ciò farebbe cadere l’ipotesi di un
riferimento ennesimo alla sua vicenda con Verlaine avvalorando invece la tesi
dell’amico Delahaye, che vi vede raffigurata l’avventura del poeta e della sua anima
o, meglio ancora, del veggente con la sua Visione.
Ecco l’apologo: “Un bel mattino presso un popolo dolcissimo, un uomo e una donna
stupendi gridavano sulla pubblica piazza: ‘Amici, io voglio che lei sia regina!’ ‘Io
voglio essere regina!’. Lei rideva e tremava. Lui parlava agli amici di rivelazione, di
prova superata. Si sentivano venir meno l’uno per l’altra.
In effetti furono re tutta una mattinata in cui le case furono ridipinte di carminio, in
cui avanzarono dalla parte del giardino delle palme.”
119
Carlo Carlucci
Dubbi interpretativi ve ne sono: ad esempio, quel ‘popolo dolcissimo’ non pare
possa trovarsi in Europa, parrebbe piuttosto un accenno all’India con le sue palme,
o al più generico e tante volte ricordato Oriente. Potremmo anche trovarvi un
riferimento, per traslato, alla grandiosa avventura spirituale dei Rishi vedici, con la
quale o con i quali l’avventura di Rimbaud presenta tante analogie.
In ‘A una Ragione’, che segue, riappare la misteriosa ‘Elle’, la leopardiana ‘ombra
diva’, ‘viatrice in quest’arido suolo’, Colei con la quale ‘la mortal vita saria / simile a
quella che nel cielo india’. Ma mentre in Leopardi questa proteica e misteriosa
figura femminile è solo invocata, presentita, intuita, per cui domina il condizionale
come tempo verbale, in Rimbaud sembra non sussistano incertezze, il tempo
verbale è al presente: ‘Un tocco del tuo dito sul tamburo dà avvìo a tutti i suoni ed
inizia la nuova armonia.
Un passo tuo è la leva degli uomini nuovi e il loro “in marcia”. Giri il tuo capo: il nuovo
amore! Ti volti: - il nuovo amore!
“Muta le nostre sorti, crivella i flagelli, a cominciare dal tempo”, ti cantano questi
fanciulli. “Innalza ovunque tu lo voglia la sostanza delle nostre fortune e dei nostri
voti”, ti pregano.
Arrivata da sempre tu che te ne andrai dovunque.’
Il titolo dato da Rimbaud a questa preghiera-invocazione può forse apparire
fuorviante,
ma uscito dall’esperienza dell’illuminazione, il poeta si era ritrovato le solite,
povere parole del linguaggio ordinario e in questo caso, per definire l’indefinibile,
non trovò di meglio che ‘Raison’. E di qui le ridde interpretative: per la Starkie
questa ‘Ragione’ sarebbe Dio; per il De Renéville un’idea platonica, per il Matucci la
‘vertu idéale’, la ‘charité idéale’ di Baudelaire o la ‘santé essentielle’ di ‘Conte’. Ma
questa figura indubbiamente femminile, indubbiamente di natura divina, invocata
per dare inizio alla nuova armonia, invocata a compiere quel primo passo che sarà
l’avvìo, la leva, il fulcro degli uomini nuovi (la nuova specie?), del nuovo amore che
si creerà solo col volgersi del suo sguardo, biblicamente chiamata a crivellare i
‘flagelli, a cominciare dal tempo’, presente qui dai primordi della creazione
(‘arrivata da sempre’) ancora una volta non può essere altri che la Madre Divina.
Sri Aurobindo ha scritto: “L’uomo, infinità che sembra finita, non può non giungere
alla ricerca dell’Infinito. È il primo figlio della Terra che prenda vaga coscienza di
Dio in lui, della sua immortalità, e questa conoscenza che lo spinge come uno
staffile ad avanzare è come una croce di crocefissione sino a che non divenga
capace di trasformarla in una sorgente di luce, di gioia e di potere infiniti.”
“Io sono colui che sarà Dio”, aveva esclamato Rimbaud, e sua fu la disperata ricerca
della gioia e del potere infiniti, dell’immortalità, della sorgente della luce. Migliaia
di anni fa, il rishi Sutambhara aveva cantato (Rig Veda - IV.12,2 e 4): “Verso la
verità del Signore luminoso non posso procedere né di forza né mediante i
120
Rimbaud
dualismi ... Chi sono coloro che proteggono le basi della falsità? Quali i guardiani
del mondo irreali?” E nel Rig Veda X.125, 4-5, così è descritta l’azione del veggente:
“I veggenti della Verità hanno scoperto l’edificazione dell’essere nel non-essere
con la volontà del cuore e del pensiero; i loro raggi si estendevano
orizzontalmente; ma che cosa c’era al di sotto, cosa al di sopra? Vi erano i
Seminatori, la Grandezza; vi era la legge del Sé al di sotto e la Volontà al di sopra.”
Nel primo inno vi è contemplata la resa del poeta veggente, l’infinità finita che ha
cercato di avanzare verso quella sorgente di luce, gioia e potere infiniti. Ma i
guardiani di questo mondo irreale, duale e fenomenico, avevano ben protetto il
segreto e mantenuto in vigore la falsità.
Nel secondo inno vedantico è contemplato il principio dell’azione con la quale si
muove il poeta-veggente: con la volontà del cuore e del pensiero si può edificare
l’essere (infinito, senza morte) sul non-essere (la realtà finita e corrompibile); al di
sopra della sua azione effusiva (orizzontale) vi è la Grandezza, la Volontà Divina;
sotto di lui, la legge del Sé.
In ‘Savitri’, il poema cui Sri Aurobindo attese quasi lungo tutto il corso della sua
vita, troviamo delineata la figura del ‘world-redeemer’ o ‘redentore del mondo’:
“Difficile è il greve compito di chi redime il mondo; / È il mondo che diventa il suo
avversario, / E nemici suoi son gli esseri che lui venne a salvare. / ... / La sua opera
121
Carlo Carlucci
è uno spruzzo di splendore nella lunga notte; / Lui vede la lunga marcia del Tempo,
il poco conquistato; / ... / Deve l’eternità della notte penetrare / E conoscere
l’oscurità di Dio come ne conosce il Sole. / Per questo deve scendere dentro il
pozzo, / Per questo invadere le dolorose Vastità.”
Non possiamo non intravedere in questi versi il viaggio interiore di Rimbaud,
trovandovi altresì la ragione del persistere così fresco ed imperituro di quanto il
poeta ci ha rivelato.
Paul Delvaux, Matinée d’ivresse
‘Mattinata d’ebbrezza’ rievoca un’esperienza con la droga, una mattinata di
paradiso artificiale, per mutuare un titolo baudeleriano. Vi sono registrate
sensazioni, percezioni e quanto il poeta con tutta la sua intensità intendeva
evocare: la Visione per la quale lui era il predestinato, il prescelto. Proviamo, non a
dare volto, perché cosa impossibile, ma a seguire la traccia di questo indefinibile
straordinario: ‘O mio Bene! O mio Bello! Urrah per l’opera inaudita e il corpo
meraviglioso per la prima volta’, ‘raccogliamo fervidamente questa promessa
sovrumana fatta al nostro corpo e alla nostra anima create’, ‘ci è stato promesso di
seppellire nell’ombra l’albero del bene e del male, di deportare le onesta tiranniche al
fine di condurvi il nostro puro amore’, ‘Noi ti proclamiamo metodo! Noi non
dimentichiamo che tu ieri hai glorificato ciascuno delle nostre età.’ Mio Bene e mio
122
Rimbaud
Bello sono l’entità a cui si rivolge, a cui tende il poeta e al quale poeta l’entità ha già
dato rivelazioni. La promessa sovrumana (il ‘future Vigueur’) vengono fatti al
corpo e all’anima. Il bene e male, le onesta tiranniche in quanto contrapposte,
divaricate rispetto ai loro negativi, tutti i dualismi, saranno seppelliti (‘Verso la
verità del Signore’ - aveva intonato Sutambara - ‘non posso procedere mediante i
dualismi.’) Tutti concetti che Mère ha espresso con molta chiarezza: ‘... le religioni
hanno fallito perché erano divise, volevano una religiosità che escludesse tutte le
altre religiosità; tutte le altre conoscenze hanno fallito perché erano esclusive; e
l’uomo ha fallito perché è stato esclusivo. Quello che vuole la nuova coscienza è la
fine delle divisioni. Riuscire a capire l’estremamente spirituale e l’estremamente
materiale e trovare il punto di giunzione ...’ E l’’urrah’ che il poeta innalza all’opera
‘inaudita e al corpo meraviglioso per la prima volta’? Sri Aurobindo e Mère hanno
eroicamente lottato perché la materia del corpo umano (l’espressione più
cosciente di sé stessa) trovi la propria eternità. Sri Aurobindo e Mère se ne sono
andati e aiutano di là dal velo; e Satprem: ‘... che cosa ci possono dire il Buddha ed
altri di fronte a questa infelicità degli animali, degli alberi e dei bambini affamati?
Che messaggio ci portano?
Non c’è altro messaggio se non quello di cambiar pelle e fisiologia e dar vita sulla
Terra ad un essere diverso (con un rimbaldiano ‘corpo meraviglioso per la prima
volta’) capace di ribaltare il senso dell’evoluzione.’ ‘Che me ne farò di tutto questo
123
Carlo Carlucci
se non mi porta il nettare di immortalità?’, sta scritto nelle Upanishad. ‘Se uno solo
degli elementi dell’Evoluzione nuova riesce per la prima volta ad infiltrarsi in un
animale in carne ed ossa, vuol dire che potrà infiltrarsi in tutti gli animali della
stessa sostanza ... vuol dire la fine di tutti i nostri artifici. Perché creerà tutti i mezzi
col solo potere della sua coscienza.’ E quel ‘Noi non dimentichiamo che tu ieri hai
glorificato ciascuna delle nostre età’, altro non può essere che la visione dell’azione
di questa Forza in tutte le grandi tappe del cammino evolutivo. Che non si tratti di
una forzatura interpretativa, che effettivamente Rimbaud aspirasse a questo e a
non altro, che lui avesse intuito che qui, in questa tragica immanenza, si cela la
vera trascendenza, traspare inequivocabilmente nel passaggio in cui descrive
l’azione della droga: ‘Tutto iniziò con delle nausee e finì - non potendo noi
impadronirci di quell’eternità - tutto finì in uno sbando di profumi.’ È stato un attimo
fatale, l’eternità che è qui celata non ha potuto che essere contemplata essendo
mancato il potere, i mezzi per stabilirla in questo mondo spento e triste. E allora
tutto quanto era stato partecipe fenomenico di quell’attimo che venisse come
consacrato da quella visione: ‘Risa di fanciulli, discrezione di schiavi, austerità di
vergini, orrore dei volti e degli oggetti qui presenti, siate consacrati dal ricordo di
questa veglia.’ Forse sarà questa eternità ‘lo stupore che ci attende’, e di questo
stupore ce ne ha parlato Mère:
‘Voi vedete come è la vita, vedete quello che è, siete abituati ad una esistenza così
spenta e triste (vi sono persone che la trovano divertente, ma solo perché si
divertono proprio con poco); ebbene, dietro questo grigiore vi è una fiaba
stupenda. Qualcosa che va preparandosi e che sarà così bello, così bello, bello oltre
ogni dire. E a cui noi partecipiamo. Voi non sapete, credete che quando morirete
dimenticherete tutto e lascerete tutto; ma non è vero! E tutti quelli che sono
attratti da una vita bella, luminosa, gioiosa, progressiva, ebbene, tutti costoro, in un
modo o nell’altro, vi parteciperanno. Adesso voi non sapete - ma tra qualche tempo
saprete. Ecco, sì, una storia veramente bella. E Sri Aurobindo cercava di tirarla
sulla Terra, questa storia, ed è certo che verrà ... Se volete, potete tirare anche voi,
perché questa fiaba venga sulla Terra ...’
In ‘Frasi’, anche seguendo i segni grafici di separazione fra le singole sequenze
adottati da Rimbaud nel testo autografo, si possono riconoscere due parti. I primi
tre passaggi, separati da un tratto lineare, racchiudono un messaggio; i restanti
invece trattano di atmosfere magicamente descrittive, legate forse ad un 14 luglio,
festa della Rivoluzione. Matucci, che è stato uno dei più sensibili interpreti di
Rimbaud, pur rilevando come ‘Raramente i critici hanno affrontato la spiegazione
delle due prime frasi, che tuttavia racchiudono ‘assolutamente un senso’, è tuttavia
incerto nel determinare chi siano i vari ‘je’, ‘nous’, ‘vous’, soggetti misteriosi delle
‘phrases’.
Nel ‘Je’ della prima sequenza potrebbe identificarsi la misteriosa ‘Elle’: “Quando il
mondo sarà ridotto ad un solo bosco nero per i nostri quattro occhi stupiti, - ad una
124
Rimbaud
spiaggia per due bambini fedeli, - ad una casa musicale per la nostra chiara simpatia,
- io vi troverò.’
Che non sia quaggiù che un vegliardo solo, calmo e bello, circondato di un ‘lusso
inaudito’, - ecco che sarò alle vostre ginocchia.
Che io abbia realizzato tutti i vostri ricordi, - che io sia quella che sa incatenarvi, - io
vi soffocherò.’
Quando questa Terra, la vita su questa Terra, sarà radicalmente mutata, ‘Elle’ allora
sarà accanto a noi. L’immagine del ‘vegliardo, solo, calmo e bello, circondato dal
metaforico ‘lusso inaudito”’, iconograficamente suggerirebbe l’asceta che con la sua
purificazione attira sulla Terra l’energia del Divino necessaria per la mutazione
dello stato terrestre.
Più ardua appare l’ultima interpretazione: la realizzazione di tutti i nostri ricordi
non può essere che la nostra vecchia storia umana che va superata, e per farlo
saremo incatenati da Lei, soffocati per poter giungere ad un’altra respirazione,
quella che Satprem ha definito ‘il respiro oltre le tombe’. Perché, secondo Sri
Aurobindo, la mutazione della morte avverrà attraverso uno squarcio evolutivo
che ci doterà di un altro corpo e di un’altra respirazione; così che ‘la vita che non
muore’ - sono parole di Satprem - ‘penetrerà goccia a goccia nei nostri polmoni per
rimodellarci secondo la sua enigmatica legge.’ In questa luce, la ‘phrase’ che segue
non presenta problemi interpretativi, trattandosi di pure constatazioni. Nella terza
‘phrase’ ‘Elle’ è invocata disperatamente dal poeta che si sta ormai allontanando
dalla Visione e dalla speranza del grande mutamento.
Nella seconda serie delle ‘phrases’, che si allontanano, si staccano dal piano
altissimo e dall’intensità del rapporto tra ‘Elle’ e il poeta, scorrono le immagini di
un Luglio strano, immagini sfumate, cupe, legate oramai a ‘ce vil désespoir’,
atmosfere da Max Ernst e Nolde. Perdute tutte le speranze oramai: è il momento in
cui si matura per il poeta la decisione della fuga definitiva dall’Europa.
125
Carlo Carlucci
La non databilità dei testi delle ‘Illuminations’ e l’impossibilità di seguire l’ordine
cronologico della loro stesura, impediscono di controllare l’aspetto decisivo di
questa tappa conclusiva della poesia di Rimbaud, così da poter segnare le fasi, le
sequenze, i soprassalti del suo addìo.
Descrittive sono ancora atmosfere e contenuti di ‘Operai’ e ‘I ponti’, con due
improvvisi squarci, nel primo: ‘Il sud mi ricordava i miserabili incidenti dell’infanzia,
le mie disperazioni d’estate, l’orribile quantità di forza e di scienza che la sorte ha
sempre allontanato da me.’ Vi è qui l’allusione ai grandi poteri di cui si è sentito
dotato e che poi gli sono stati come divelti assieme a quella conoscenza ‘autre’
verso la quale era spinto.
I ponti del brano omonimo paiono di ambiente londinese, l’insistenza descrittiva
potrebbe far pensare ad un valore metaforico, oltre ‘l’acqua grigia e blù, larga come
un braccio di mare’, vi potrebbe essere l’altra riva, quella sognata, e infine: ‘Un
raggio bianco, cadendo dall’alto del cielo, annienta questa commedia.’
In ‘Città’ vi è la rappresentazione della vita metropolitana, quella che è oggi
assunta ad archetipo e modello planetario: ‘Morale e lingua sono ridotte alla loro
più elementare espressione, finalmente! Questi milioni di persone che non hanno
bisogno di conoscersi gestiscono educazione, lavoro e vecchiaia in maniera così
parallela che il corso della loro vita deve essere parecchie volte più corto di quanto
una statistica folle non riconosca ...’ Ecco dunque i milioni di morti in vita di questa
nostra e leopardiana ‘stolta età superba’, meccaniche esistenze la cui media di
126
Rimbaud
sopravvivenza sarebbe in costante aumento stando alle statistiche ma la cui vita
invece, nella sua meccanicità rituale, è infinitamente breve. Dalla sua finestra il
poeta vede ‘nuovi spettri che vanno attraverso il denso ed eterno fumo di carbone’
(leggi oggi: biossido di carbonio, ozono ...) ... ‘delle nuove Erinni’ ... ed ecco lei, ‘... la
Morte senza lacrime, nostra attiva figlia e ancella, un Amore disperato e un grazioso
Delitto che piagnucola nel fango della strada.’
L’Amore, qui al maiuscolo perché è quello della vera Vita assente, è disperato
quanto lo fu il nostro fratello Rimbaud per tutta la sua vita, ed è proprio questo
senso di disperazione crescente, verso una vita infinitamente più vera cui aneliamo
e che non troviamo ad armare la mano dei più disperati (‘voici le temps des
Assassins’).
E questa nostra vita falsamente piena di promesse è ‘la Mort sans pleurs, notre
active fille et servante.’
Helmut Jahn, Suvarnabhumi International Airport, Thailandia
127
Carlo Carlucci
Noi i vivi, per ripeterci con il poeta nicaraguense Carlos Martinez Rivas, siamo il
‘Diavolo e la sua banda di morti laboriosi.’, la nostra vita è in realtà, di fronte allo
stupore che ci attende una ‘clandestina officina sepolcrale’, una ‘dissimulata
fabbrica di passato’, noi in realtà siamo ‘morti che seppelliscono i propri morti, /
Disseppellendoli / e seppellendoli / e tornando / disseppellirli!’
Il passaggio di un circo in una magica, sospesa alba d’estate, le tracce delle ruote
dei carri (‘Ornières’) sulla strada umida, ‘les hommes sur leurs bêtes les plus
étonnantes’, ci danno delle brevi, felici, felliniane sequenze di cinematografia
onirica.
In una lettera dell’ottobre 1896, qualche anno dopo la morte del fratello, Isabelle
Rimbaud, così ricordava gli ultimi istanti di vita del poeta: ‘A tratti, veggente e
profeta, il suo udito acquista una strana acutezza. Senza perdere conoscenza
nemmeno un istante (ne sono sicura) ha visioni meravigliose, vede colonne
d’ametista, angeli di marmo e di legno, paesaggi e vegetazioni di una bellezza
sconosciuta e per dipingere queste sensazioni usa espressioni del fascino strano e
penetrante. Poche settimane dopo la sua morte, leggendo le ‘Illuminazioni’ per la
prima volta, ho trasalito di sorpresa e di commozione. Avevo riconosciuto fra
quelle musiche di sogno e le sensazioni provate ed espresse da Arthur nei suoi
ultimi giorni di vita straordinarie analogie ...’
In ‘Città’ siamo al centro di una delle atmosfere descritte da Isabelle fra ‘monti
Allegani e Libani di sogno’ dove ‘chalets di cristallo e di legno si muovono su rotaie e
carrucole invisibili’, ove ‘su piattaforme sospese sugli abissi degli Orlandi suonano il
loro coraggio.’ Dalla mitologia alla geografia, alla filosofia, sembra che tutto venga
diacronicamente e sincronicamente attraversato: ‘... oltre il livello delle cime più alte
un mare turbato dalla eterna nascita di Venere ... gruppi di campanili cantano le idee
dei popoli ... un viale di Baghdad dove compagnie hanno cantato la gioia del lavoro
nuovo ...’. La chiusa del brano evoca inequivocabilmente la coscienza del poeta che
sa di essere in contatto con una realtà che è ‘autre’. ‘Quali buone braccia, quale ora
bella (- e le buone braccia saranno quelle di Isabelle e l’ora bella sarà quella della
morte -) mi restituiranno quella regione da cui vengono i miei sonni ed i miei minimi
movimenti?’
In ‘Vagabondi’ è rievocata la relazione con Verlaine, o meglio, quello che era il
progetto della relazione, la quale proprio in virtù dei fini trascendenti che i due
poeti si prefiggevano era stata portata avanti contro tutti e contro tutto: ‘Avevo
infatti, in tutta sincerità di spirito, preso l’impegno di restituirlo al suo stato primitivo
di figlio del Sole - e noi erravamo nutriti del vino delle caverne e di gallette, io,
incalzato dalla ricerca del luogo e della formula.’ I toni sono quelli di un tragico
duetto. Verlaine è il concusso, colui che si è affidato al sogno proposto dall’amico, e
poi dubita ad ogni momento e lancia accuse, terrorizzato dal ritorno ai lacci della
realtà: ‘Non affrontavo con sufficiente fervore quell’impresa. Mi ero preso gioco della
128
Rimbaud
sua infermità. Per colpa mia, noi saremmo ritornati in esilio, in schiavitù.’ Aveva
voluto, Verlaine, partecipare allo straordinario della ricerca, perché soffocato da
quanto lo circondava, i poveri lacci dei legami familiari, del mondo di cartapesta
dei poeti parnassiani, ma era lui solo un poeta, anche se grande poeta capace di
urlare solo ‘son songe de chagrin idiot.’ È certo che vi fu strazio in Rimbaud nella
separazione definitiva da Verlaine e di questo strazio la ‘Saison’ ne è il frutto, ma si
trattò di qualcosa molto di più che uno strazio di amanti che si lasciavano. “Non
sono nata per divenire scheletro”, fa dire il poeta alla “Vierge Folle”, nei “Delires”,
ovvero non siamo nati per inevitabilmente morire. E successivamente: ‘Ma quale
vita! La vera vita è assente. E noi non siamo al mondo.’ È difficile credere che
Verlaine abbia pronunciato con convinzione affermazioni di tale portata. Le avrà
ripetute forse da bravo discepolo: “C’est un Démon, vous savez, ce n’est pas un
homme”, afferma ancora la Vierge folle, alludendo a quel che di sovrumano che
esisteva nel poeta: “Quante ore ho vegliato accanto al suo caro corpo addormentato,
cercando di capire perché volesse tanto evadere dalla realtà. Mai nessun uomo ebbe
un desiderio simile.” Sono confessioni complesse: da una parte, Rimbaud
rappresenta Verlaine nell’atto d’interrogarsi su quale significato dare all’’altra
vita’, all’evasione da questa realtà, e dall’altra è Rimbaud che di sé, preda del
“daimon”, fa dire: “Mai nessun altro uomo ebbe un desiderio simile.” Il dramma di
quel “drôle de ménage”, della strana coppia è seguito nelle sue varie fasi verso
l’estraniamento. Verlaine intuisce qualcosa dello straordinario cui tende Rimbaud,
era rimasto affascinato dall’idea di Arthur, dalla sua promessa che gli avrebbe fatto
recuperare la sua condizione originaria di figlio del sole, ma avrebbe dovuto
morire a questa vita. “Ahimè! Quanto dipendevo da lui. Ma che cosa voleva fare della
mia grigia e vile esistenza? Non mi rendeva migliore, se non mi faceva morire.”
Ancora una volta torna il Leopardi: “Se non voglio morire bisogna che io non viva.”
Si è sempre narrata la relazione Verlaine-Rimbaud nell’ottica dell’omosessualità,
del sodalizio artistico, nella protesta contro la società borghese; ma il loro
rapporto, le ragioni profonde, vanno forse ricercate nelle frasi che abbiamo
riportato. Fu un rapporto tesissimo e intensissimo fra due spiriti, uniti durante un
breve e decisivo periodo, nella ricerca dell’impossibile. Con la separazione,
Verlaine avrebbe perso per sempre il sogno della solarità, la speranza di vedere un
giorno l’amico “remonter à un ciel”, sarebbe ritornato unicamente e solamente un
grande poeta. Rimbaud invece si sarebbe riconsegnato alla solitudine assoluta,
avendo perso l’unica persona che aveva saputo, cercato, voluto tutto rischiare
assieme a lui. Ma a Verlaine ritornato unicamente poeta sarebbe rimasto il legato
di salvare e consegnare al futuro il messaggio di Rimbaud.
‘Città’, ha come sfondo Londra, le cui periferie si perdono ‘bizzarramente nella
campagna, la ‘Contea’ che riempie l’eterno occidente della foresta e delle piantagioni
prodigiose in cui gentiluomini selvaggi vanno a caccia delle loro cronache sotto la
129
Carlo Carlucci
luce che è stata creata.’ ‘Veglie’ si muove volutamente su un fraseggiare addirittura
iconico quanto a semplicità e vuole rappresentare lo stare nella vita dell’altra Vita,
dove il sonno non è un annullarsi, ma è una sorgente di luce (‘È il riposo luminoso,
né febbre, né languore, sul letto o sul prato!) dove: ‘È l’amico né ardente né debole.
L’amico.’ ‘È l’amante né tormentante né tormentata. L’amata.’ ‘L’aria e il mondo non
cercati. La vita.’
E il sogno che non scompare poi, si rinnova: ‘- Era dunque questo? - E il sogno si
rinfresca.’ Nella seconda parte l’ambiente esterno, un salone di un edificio, si
incorpora allo psichico di chi osserva nella veglia allucinatoria.
Matucci ha opportunamente citato i ‘Paradis Artificiels’ e le ‘Voluptés de l’Opium’,
ove Baudelaire analizza sensazioni ed effetti della droga. Ma Rimbaud è ben altro:
viaggia coi lampi, la sua arditezza verbale è oltre il razionale: ‘Il muro di fronte a chi
veglia è una successione psicologica di scorci di fregi, di fasce atmosferiche e di
accidentalità geologiche. - Sogno intenso e rapido di gruppi sentimentali con esseri di
ogni carattere in mezzo a tutte le apparenze.’ Non solo quindi la fisicità delle forme
diventa una ‘successione psicologica’, ma lo stesso andare della nostra vita è colto e
riassunto in una istantanea ineguagliabile: ‘gruppi sentimentali con esseri d’ogni
carattere fra tutte le apparenze.’
La terza parte del brano presenta quattro serie descrittive, quattro piccoli tableaux
con l’impennata della fine: ‘La lastra del caminetto nero, veri soli sulle spiagge: ah!
pozzi di magie; sola vista d’aurora, questa volta.’
Plinio Lomellini
130
Rimbaud
Le scene meravigliose e terribili udite da Isabelle nei deliri dell’agonìa del fratello e
da lei ritrovate fra le pagine delle ‘Illuminazioni’, sono quelle ancora di ‘Mistico’,
dove i suoni si mutano in forme, e queste in profumi. Durante una delle sue tante
fughe dal mondo, dopo aver camminato fino allo stremo delle forze, il paesaggio si
trasfigura (vi è chi vi ha visto nuovamente il Gauguin de ‘Il combattimento di Jacob
con l’angelo’), angeli volteggiano con le loro vesti; i pascoli si fanno di acciaio e di
smeraldo, il terriccio del crinale è calpestato da tutti gli omicidi, da tutte le
battaglie, da tutti i disastrosi rumori, mentre dietro il crinale di destra sta la linea
del vero progresso che è spirituale, ovvero l’oriente, e infine vi è il riposo e
l’abbraccio dentro l’infinito: ‘La dolcezza fiorita delle stelle e del cielo e del resto
scende contro la scarpata, come un paniere, - contro il nostro volto, rendendo lassù
l’abisso profumato e azzurro.’
L’alba del brano omonimo, (“Aube”), è personificata, è una dea, l’omerica Aurora
dalle rosse dita, è la Natura (‘... nel sentiero già colmo di freschi e pallidi fulgori, un
fiore che mi disse il suo nome.’), ma è anche la personificazione di quanto cercato
dal poeta, l’inizio della nuova vita e lui Arthur è il bimbo di questa nuova vita:
‘l’aube et l’enfant’.
Altra visione ruotante intorno ai fiori è quella ancora omonima di ‘Fleurs’ con i
vari colori, argento, bronzo, nero, bianco, rubino, smeraldo, e sui quali campeggia
l’oro del divino.
‘Notturno volgare’ si apre e si dispiega come un quadro di Chagall: ‘Un soffio apre
brecce operistiche nelle pareti, scompiglia il telaio dei tetti corrosi, - disperde i limiti
dei focolari, - eclissa le vetrate ...’ La scena poi si sposta su una vigna dove vi è una
antica carrozza abbandonata (‘La cui epoca è data dai vetri convessi, dai pannelli
rigonfi e dei divani bordati ...’) Si tratta forse di un ricordo d’infanzia, il focolare è
forse quello di Roche.
Vi sono dei dettagli (‘in una imperfezione in alto del vetro volteggiano livide figure
lunari, foglie, seni’) che farebbero pensare in tal senso. Vuol raffigurare qui
Rimbaud il suo terribile viaggio nella vita: vi è un altro soffio che ‘disperde il limite
del focolare’, al singolare ora e quindi forse si riferisce al ‘suo’ focolare. La carrozza
improvvisamente diventa il carro funebre del suo ultimo ritorno a Charleville
dall’ospedale di Marsiglia.
(‘... l’imponente bara fu trasportata attraverso le strade di Charleville in un
sontuoso carro funebre, tirato da cavalli con le teste piumate ...’, così rievoca la
Starkie nel suo “Rimbaud”): ‘Carro funebre del mio sonno, isolato, dimora pastorale
della mia stupidità ...’ lo chiamerà il poeta. Ecco quanto gli resterà ancora
dell’oramai oscuro, notturno e quindi volgare viaggio dentro la vita: (‘Postiglioni e
bestie di sogno riprenderanno forse sotto i tronchi più soffocanti, per immergermi
fino agli occhi nella sorgente di seta)
131
Carlo Carlucci
- E per mandarci, frustati attraverso le acque sciabordanti e le bevande versate
rotolare sul latrato dei mastini ...’, della atroce morte.
‘Marina’ è un solo attimo, fulgente visione di un quadro ove tutto si fonde nei
‘tourbillons de lumière’, la terra, ‘la lande’, è vista coi nomi del mare e viceversa, e
mare e terra si muovono e si fondono, paiono estinguersi l’uno nell’altra, e poi
riprendere vita.
‘Angoscia’ è un altro dei passaggi enigmatici e quindi rivelatori, sui quali la critica
si è sbizzarrita in ogni tipo di interpretazione. I rimbaldiani, da Matucci alla
Bernard, sono concordi nell’identificare ‘Elle’, presente nel primo capoverso, con la
‘Vampire’ del quarto. Abbiamo già rilevato l’uso particolare che Rimbaud faceva
della grafìa e della punteggiatura. Nel testo autografo si può constatare come il
poeta abbia ritoccato in maiuscola le e iniziale di ‘Elle’, mentre nel capoverso della
‘Vampire’ il pronome personale della stessa è elle, con l’iniziale minuscola. Le due
personalità femminili qui richiamate potrebbero essere diverse. La prima ‘Elle’
sarebbe l’illuminante Divino Femminile che ha sempre cercato di sorreggere il
giovane veggente, Colei che intercede, che potrà far perdonare il suo insuccesso, la
sua ‘incapacità fatale’, che potrà forse concedergli una ‘fine agiata’: ‘È mai possibile
che Lei mi faccia perdonare le ambizioni continuamente calpestate, - che una fine
agiata compensi i periodi d’indigenza, - che un giorno di successo ci faccia
dimenticare la vergogna della nostra incapacità fatale.’
La profonda frustrazione dell’’incapacità fatale’ appare per un attimo superata e
scatta l’invocata esaltazione di un sé, dell’’io’, minuscolo, trasceso dai tre sostantivi
con l’iniziale maiuscola, Amore, Demone, Giovinezza: ‘(O palme! diamante! - Amore!
Forza! - più in alto di tutte le gioie e le glorie! - in tutti i modi, ovunque, - Demone, dio,
- Giovinezza di questo essere: io!).’
Quindi, anche il leopardiano ‘secol sciocco’ e la ‘stolta età superba’, con la sua
scienza, i suoi movimenti per i diritti sociali, potrebbero in realtà essere
considerati in una prospettiva positiva: ‘Che gli incidenti di fantasmagoria
scientifica e dei movimenti di fraternità sociale siano bene accetti come restituzione
progressiva della franchezza primigenia? ...’ Purtroppo, vi è ancora l’altra lei, la
Morte, la Vampira, ’la regina divoratrice di milioni d’anime di corpi morti’, che
avevamo trovato in ‘Adieu’, che ci addomestica, che ci impone quel poco di falsa
vita che ci lascia: ‘Ma la Vampira che ci rende gentili ci impone di divertirci con
quanto ella ci lascia, o altrimenti di essere più spiritosi.’ Di qui la spossata
accettazione della fine, di quanto lo attende in sofferenza in atroce solitudine:
‘Rotolare verso le ferite, attraverso l’aria spossante e il mare; verso i supplizi,
attraverso il silenzio delle acque e dell’aria mortali; alle torture che ridono, nel loro
silenzio atrocemente agitato.’
Pare questa la sintetica descrizione di quel calvario che fu il suo trasferimento in
barella da Harar verso Aden e poi sull’”Amazzone”, la nave che lo avrebbe
trasportato a Marsiglia.
132
Rimbaud
‘Metropolitana’ si compone di una serie di cinque quadri, racchiusi in cinque
capoversi, cui il poeta dà il titolo o il blasone nel sostantivo finale (La ville, La
bataille, la campagne, le ciel, ta force). Vi è una Londra che probabilmente fa da
sfondo a questi quadri liberissimi nel vagare delle immagini. La moderna
metropoli nel momento dell’andata o della uscita dal lavoro diventa un fosco
quadro: ‘... dal deserto di bitume fuggono in rotta coi banchi di nebbia scaglionati in
orribili strisce nel cielo che si incurva, arretra e digrada, formato del più sinistro
fumo nero che possa sprigionare l’oceano in lutto, i caschi, le ruote, le barche, le
groppe. - La battaglia!’ Nella misteriosa chiusa del brano riappare ‘Elle’: ‘Il mattino
in cui con Lei, vi dibatteste fra i fulgori della neve, quelle labbra verdi, i ghiacci, le
bandiere nere e i raggi blù e i profumi purpurei del sole dei poli, - la tua forza.’
L’unico referente sicuro qui è nuovamente la maiuscola di ‘Elle’, che quindi
parrebbe riallacciare il pronome al Divino Femminile da lui inseguito e che lui ha
accompagnato. L’ambiente con la neve e i ghiacci appare come un luogo di purezza,
malgrado la presenza degli stendardi neri, forse la porta sopra l’ignoto.
“Barbaro”, dal titolo del brano successivo, è colui il quale, liberatosi da tutte le
pastoie del reale riuscirà a giungere all’’Inconnu’: ‘Molto tempo dopo i giorni e le
stagioni, e gli esseri e i paesi ... guariti dalle vecchie fanfare d’eroismo - che ancora ci
assalgono il cuore e la testa - lontano dagli antichi assassini - ...’
Una non decifrata immagine ritorna ben due volte in quasi immediata successione,
nella seconda è solo preceduta dal rafforzativo iniziale ‘Oh!’: ‘La bandiera di carne
sanguinante sulla seta dei mari e dei fiori artici; (non esistono).’ Pare che Madame
Rimbaud, dopo aver scorso il testo de ‘Une saison en enfer” chiedesse poi al figlio
che cosa significasse, e la risposta di Arthur fu: “Significa esattamente quello che
c’è scritto in senso letterale e in tutti gli altri sensi.”
Il fatto che il poeta riproponga per due volte la stessa immagine, sta a significare
che egli esige da noi un doppio sforzo interpretativo. ‘Pavillon’, o ‘bandiera’, in
francese è maschile, mentre ‘mare’ e ‘fiori’ sono sostantivi femminili. In parentesi
Rimbaud specifica col pronome ‘elles’, che sono i mari di seta e i fiori artici
(l’immagine in sé poi potrebbe essere un ricordo di brandelli di carne appesi ad
essiccare, come costumano i popoli artici), che non esistono ma che lui, e il senso si
ricava per converso, come necessitato, vede.
Quanto deve purtroppo ancora esistere è la bandiera della povera e sanguinante
carne sopra l’indicibile de ‘la soie des mers et des fleurs artiques; (elles n’existent
pas).’ E l’Ineffabile improvvisamente così dolce - ‘Chi potrebbe vivere e respirare se
non esistesse questa felicità d’essere simile all’etere in cui viviamo?, dicono le
Upanishad e, quindi, continua Rimbaud:
133
Carlo Carlucci
‘Dolcezze!
I bracieri, piovono con raffiche di brina, - Dolcezze! - i fuochi alla pioggia del vento di
diamanti gettata dal cuore terrestre eternamente carbonizzato per noi. - Oh mondo!
(Lontano da vecchi rifugi e vecchie fiamme, che si percepiscono, si sentono)
I bracieri e le spume. La musica, virare di gorghi e cozzi di ghiacci agli astri.’
La straordinaria accensione delle immagini, la presenza di fuoco ed acqua, è
un’immagine ricorrente dei Veda (Rig. Veda, III.22,3): ‘O fiamma, tu vai verso
l’oceano dei Cieli, verso gli dei; per mezzo Tuo si riuniscono le divinità di tutti i
piani, le acque che stanno nel regno di luce al di sopra del sole e delle acque che
risiedono al di sotto.’ Siamo dunque oltre il vecchio mondo - che è ancora presente,
perché lo si sente e lo si percepisce e vi è il cuore terrestre che ‘è eternamente
carbonizzato per noi’ e cioè che da sempre brucia inutilmente, senza che noi
riusciamo a indurre qui la vera Vita.
Mary Garden nel ruolo di Mélisande
134
Rimbaud
Nell’ultimo capoverso, con ‘la voce femminile arrivata in fondo ai vulcani e alle
grotte artiche.’, l’Artico appare come il punto estremo o la soglia della nuova vita, il
mallarmeiano ‘transparent glacier des vols qui n’ont pas fui’ e i vulcani, il vecchio
cuore terrestre (‘eternamente carbonizzato per noi’) - è il cuore della materia, che
brucia e si carbonizza da sempre ‘per noi’ che siamo incapaci qui di riscattare
l’immortalità nostra e della materia. La voce femminile altro non è che la voce di
‘Elle’. La visione di Rimbaud ancora una volta è quella dei Veda (Rig Veda, I.71,
V.45): ‘Mandarono in frantumi con il loro grido la roccia della montagna, fecero a
pezzi i baluardi refrattari, aprirono un varco in noi, scoprirono la luce del giorno e
il mondo solare ...’
Il manifesto di quanto Rimbaud mette in liquidazione in ‘Saldo’ elenca con cadenza
e assolutezza frasi, molte delle quali paiono anticipi delle grida sessantottine. Il
sarcasmo del reiterato ‘A vendre’, in svendita, è solo apparente, perché nella chiusa
si sancisce che la svendita è ben lungi dall’essere conclusa e che i commessi
viaggiatori (del Nuovo) sono ben lontani del dover riconsegnare la provvigione.
L’oggetto della svendita è quanto perseguito dal poeta nella sua ricerca ed è
precisato innanzitutto in negativo, è quanto non può essere conosciuto, né dalla
scienza, né dalla Storia, ed è ignorato dal povero, meschino e maledetto amore
umano e dalle masse nella loro ‘infernale probità’ etc. Mentre nel suo aspetto
positivo e solare, il Nuovo è dato da ‘Le Voci ricostruite (la maiuscola dovrebbe
indicare le voci dei profeti, della Poesia); il risveglio fraterno di tutte le energie
corali ed orchestrali e le loro applicazioni istantanee; l’occasione unica di liberare i
nostri sensi!’.
Oggetto della svendita saranno anche i nuovi Corpi che non avranno prezzo, razza,
sesso, discendenza e ‘le ricchezze che scaturiscono ad ogni passo’. L’elenco degli
aspetti del Nuovo, pur contenuto in una ventina di righe, appare sconfinato, poiché
quello del poeta è stato uno ‘slancio insensato e infinito verso splendori invisibili,
verso delizie insensibili’ (non percepibili dei normali sensi), uno slancio verso
‘l’immensa, incontestabile opulenza’.
E quanto sia, per paradosso, concreta la riduzione in parole, ovvero quanto volontà
vi sia nel tentativo di tradurre in termini appena intellegibili, l’opulenza del nuovo
la scopriamo in un piccolo dettaglio: in svendita, Rimbaud mette anche ‘la morte
atroce per i fedeli e gli amanti’, assieme alle ‘abitazioni e le migrazioni, sport,
fantasmagorie e comodità perfette, e il rumore, il movimento e l’avvenire che esse
creano!’, nell’attimo in cui contempla i fermenti del Nuovo dentro la vecchia vita.
Per tutti i fedeli e gli amanti legati dal comune amore umano, non vi è che la feroce
irrevocabilità della morte, quindi la svendita della ‘mort atroce’, non è più gusto di
paradosso, ma la realtà del Nuovo, con la sua morte della Morte nella divina
immortalità, come profetizzato da Giovanni.
135
Carlo Carlucci
In ‘Fairy’ in un’atmosfera di ‘linfe ornamentali nelle ombre vergini e le chiarità
impassibili nel silenzio astrale’ si muove una misteriosa Hélène. L’ambiente è quello
dei quadri dei pittori metafisici da Piero a Dalì: ‘L’ardore dell’estate fu affidato ad
uccelli muti e l’indolenza richiesta ad una barca di lutti senza prezzo, in anse di
amori morti e di profumi estenuati.’ L’indolenza è qui la vecchia vita, quella che
ancora viviamo e che ci incatena al ciclo delle nascite e delle morti (‘lutti senza
prezzo’), ai normali sentimenti (‘anse di amori morti’).
‘Per l’infanzia di Hélène rabbrividirono le folte boscaglie e le ombre - e il seno dei
poveri e le leggende del cielo’, i poveri perché presentivano l’ora del riscatto e le
leggende del cielo perché avvertivano che con ‘Lei’ avrebbe avuto inizio la loro
realizzazione sulla Terra.
Nuovamente, con questa figura femminile, Rimbaud si richiama a quell’’ombra
diva’ di leopardiana memoria, e l’infanzia cui si allude può essere l’inizio della Sua
opera sulla Terra: ‘che cos’è il mio niente di fronte allo stupore che vi attende?’
Quanto aspirava e che non toccò al Leopardi, ‘Viva mirarti o mai / Nulla speme
m’avanza;’ lo ebbe in sorte invece Rimbaud: ‘E i suoi occhi e la sua danza superiori
ancora ai preziosi scintillii, alle fredde influenze, al piacere dello scenario e dell’ora
unici.’ Come sempre il poeta non costruisce su o attorno ad un’idea, è l’ideaimmagine che si muove, si organizza, si dipana, si libra attorno a sequenze che
appaiono di fisica visualità e mai simboliche. Ma che lo diventano o possono
diventarlo per l’ottica che le anima, bi- o tridimensionale.
La breve notazione paesaggistica ‘i sonagli del bestiame, il torrente sotto lo
scoscendere dei boschi, le ombre.’, autorizzano a pensare che la Visione gli fu data
durante un attraversamento alpino.
In ‘Guerra’, il titolo che segue, si ritmano tre momenti: il passato dell’infanzia, il
presente di incessante peregrinare, il futuro di una guerra ovvero di un
sommovimento totale: ‘di diritto o di forza, di logica del tutto imprevista.’
Nell’infanzia, fu la contemplazione dell’infinito a dargli la possibilità di travalicare
il semplice dato sensoriale della vista: ‘certi cieli hanno affinato la mia ottica’. La
sua capacità di assorbimento, di immedesimazione, vasta, totalizzante, ha fatto sì
che: ‘tutti i caratteri hanno sfumato la mia fisionomia.’
E quindi ecco che ‘tutti i fenomeni si misero in movimento’. Fenomeno dal greco sta
per cosa che si manifesta, la maiuscola apposta dal poeta indica che tale
manifestarsi è di natura particolarmente importante, il contesto suggerisce che si
tratterebbe delle Visioni e delle Illuminazioni. Nel secondo momento, quello del
presente: ‘l’inflessione eterna dei momenti e l’infinito della matematica m’incalzano
attraverso questo mondo ...’
I biografi e gli esegeti pensano che il brano sia attribuibile al periodo in cui il poeta
pensava di riprendere gli studi ed iscriversi ad una facoltà scientifica (che
pochezza questi dettagli biografici rispetto al respiro del testo) ed ecco la ragione
136
Rimbaud
dei due infiniti che lo incalzavano, quello matematico e l’eterno continuamente
coniugato negli attimi del contingente. Paradossale, categorica e lievissima la
conclusione: ‘È semplice come una frase musicale.’
Balla 1913
‘Giovinezza’ è articolata in quattro parti numerate a cifre romane. Non è certo che
tale numerazione sia autografa e quindi è opportuno occuparsi di ogni singola
parte come di un in-sé. ‘Dimanche’ è il primo dei quattro passaggi: ‘Messo da parte
ogni calcolo (leggi: ragionamento), l’inevitabile discesa del cielo, e la visita dei ricordi
e la sequenza dei ritmi occupano la dimora, la testa e il mondo dello spirito.’ È la
descrizione del momento delle visioni, la discesa del cielo è proclamata come
inevitabile, qualcosa di non comandato, cui non si può sfuggire. Seguono immagini
o scene dal mondo che vanno dal cavallo bruegheliano che galoppa ai margini della
città trafitto dalla peste carbonica, alla donnetta melodrammatica (leggi: forse la
moglie di Verlaine) che in qualche altrove ‘sospira per degli improbabili abbandoni’,
a dei desperados ubriachi a feriti che ‘languono dopo la tempesta’ etc.
La conclusione è avvolta da un ruotante dinamismo di erre: ‘Riprendiamo lo studio
al rumore dell’opera divorante che si raccoglie e rimonta nelle masse’. L’opera
137
Carlo Carlucci
divorante è quella della Trasformazione che ogni tanto ‘si raccoglie’ e ‘rimonta nelle
masse’.
La sollevazione di Parigi, cui aveva partecipato Rimbaud, è stato uno di questi
momenti, un altro a cui noi abbiamo assistito o partecipato fu il ‘68. E quando a
Mère, che si trovava a Pondicherry in India, riferirono che il 22 maggio ‘68 gli
studenti di Parigi si erano sollevati, così lei commentò: ‘... è sempre questa stessa
Forza che vuole affrettare l’arrivo dell’avvenire - sempre - ma che è obbligata ad
adattare i suoi mezzi d’azione a seconda dello stato in cui si trovano le masse.’
In ‘Sonetto’, che è la seconda sequenza, la contrazione del discorrere è altissima e
quindi totalmente allusiva. ‘Homme de constitution ordinaire’, mette in rilievo come
fisicamente il poeta non avesse nulla di diverso dagli altri uomini, attratto come gli
altri dalla gioia del dono del corpo, dall’amore, sensibile agli influssi del sangue e
della razza. Comunque terminata la sua fatica di ricerca non rimaneva che danza e
voce. Il mondo, ovvero la forza e il diritto, di quell’accadimento duplice
determinato dal fortunato ritrovamento (invention e succès sono usati dal Rimbaud
secondo il loro etimo latino) e da una ragione (leggi: superiore) ne riflette solo
danza e voce ‘nell’umanità fraterna e discreta attraverso l’universo senza immagini’
(se non vi è un poeta che le catturi).
Una piccola chiusa a margine: un critico, l’Underwood, ha scoperto l’analogia fra ‘la
chair n’était pas elle un fruit pendu dans le verger’ e un ‘sonnet’ di Verlaine, il cui
primo verso recita: ‘Chair! ô seul fruit mordu des jardins d’ici-bas.’ Per noi
giustificazione del titolo apposto da Rimbaud, ‘Sonnet’ appunto, si deve forse al
fatto che quattordici, come i versi di un sonetto, sono le sequenze lineari della
prosa nel testo autografo.
Nella terza parte, dal titolo ‘Vent’anni’, il poeta vede proiettata nella distanza, e
quindi conclusa, la meraviglia dell’esperienza, ‘le voci istruttive (- quelle che con lui
comunicavano -) esiliate’, ‘l’ingenuità psichica amaramente acquetata’ ... ‘Arie e
forme morenti’ ... e poi ‘un coro di vetri, di melodie notturne’ ... ‘per calmare
l’impotenza e l’assenza!’.
Il quarto passaggio, privo di epigrafe, pare risollevare di un colpo le sorti del poetaveggente: ‘Il gioco dello zelo troncato, le manìe dell’orgoglio puerile, la prostrazione,
il terrore ...’, vanno superate una volta per tutte, per non rimanere allo stadio delle
apparizioni tentatrici del Sant’Antonio di Flaubert (‘Les tentations de St. Antoine’
era stato da poco pubblicato). Il grande lavoro a lui demandato doveva essere
portato a termine e dubbio e chimere dovevano essere sostituite da alte
esperienze, da altre presenze (‘tutte le possibilità armoniche e architettoniche si
muoveranno attorno al tuo saggio. Esseri perfetti, imprevisti si offriranno alle tue
esperienze. Attorno a te affluirà sognante la curiosità di antiche folle e di lussi oziosi
...’). Memoria e sensi non repertorieranno più ombre e terrori, malinconie e
fantasmi, ma torneranno ad essere ‘l’alimento del tuo impulso creatore’.
E poi, al solito, drastica e sibillina la chiusa finale: ‘Quanto al mondo, quando tu
138
Rimbaud
uscirai, che sarà divenuto? In ogni caso nessuna delle apparenze attuali.’ Questa
uscita del mondo può significare la morte, mentre per quanto riguarda l’ultima
frase, priva di ogni referente, quale soggetto, verbo etc., dobbiamo attenerci alla
stretta interpretazione letterale e da questa al possibile traslato. In ogni caso,
ovvero nel caso peggiore, questo mondo avrà mutato le sue apparenze in altre
analoghe; nel caso migliore - e il senso si ricava per converso - forse la
Trasformazione sarà già impercettibilmente iniziata.
Ma vi è qualcosa ancora in più in questa prosa che travalica ogni senso e che si
immerge diritto nel mistero. Qui e come in vari altri momenti delle ‘Illuminazioni’,
Rimbaud pare giungere vicinissimo a quella lingua ‘dell’anima per l’anima’ cui
aspirava. La mano chiude il libro e la musica che vi è rappresentata inizia a
dispiegarsi.
Vi è un attimo in bilico nella vita di ciascuno, che è il trapasso fra l’adolescenza e la
maturità, quel momento in cui tutto ci appare possibile, tutto alla nostra portata, il
mondo ci sembra che possa essere reso dal tetro al scintillante, presenziamo
incontri meravigliosi: ecco, questo indicibile così Rimbaud ha saputo renderlo: ...
‘tutte le possibilità armoniche e architetturali si muoveranno intorno al tuo seggio.
Esseri perfetti, imprevisti si offriranno alle tue esperienze. Nei tuoi paraggi affluirà
sognante la curiosità di antiche folle e di lussi oziosi. La tua memoria e i tuoi sensi
non saranno che l’alimento del tuo impulso creatore.’
‘
Promontorio’ e ‘Scene’ sono due rappresentazioni due figurazioni, due attimi di
pausa: mimesi di forme che appaiono e scolorano nelle altre, effetti scenici che
anticipano giochi, illusionismo e linguaggio di cui un giorno si farà padrone il
cinema. La mano del giovane pittore-poeta oramai si muove sapiente come quella
di un maestro.
‘Sera storica’ giunge alle radici del ‘secolo d’inferno’ ed entra profetica nel
terribile del futuro. Vi è la giornata che sta per volgere alla notte, lo sfondo del
tramonto, ‘il viaggiatore naïf appartato dai nostri orrori economici’ vede animarsi,
come per la mano di un maestro, ‘il clavicembalo dei prati’, uno stagno può
diventare ‘specchio evocatore di regine e di favorite ...’ e poi ‘sante, veli, e fili
d’armonia e i cromatismi leggendari ...’.
Il poeta rivede e rievoca il passato: ‘... rabbrividisce al passaggio degli inseguimenti e
delle orde; la commedia (leggi: forse quella della Storia) sgocciola sul palcoscenico
dell’erba.’ Quanto al futuro, il poeta vede la Germania - di cui con tanto disprezzo e
crudo realismo aveva parlato a Delahaye (idioti ..., militarizzati dalla testa ai piedi
... vedo già l’amministrazione di ferro e di pazzìa che incasermerà la società tedesca
...) - ‘schiava delle sue visioni’, mentre ‘innalza impalcature verso le lune’ (dei mondi
morti).
In Cina invece si preparano ‘antiche rivolte’ (la rivoluzione di Mao?), mentre in
Africa e in Occidente, col consenso delle monarchie (ci pare plausibile
139
Carlo Carlucci
l’interpretazione di Hartmann che legge rois in luogo di rocs sul manoscritto
Berès) ‘un mondo (quello della borghesia trionfante nel suo utilitarismo, nel suo
stolto positivismo) piccolo, pallido e piatto sta per edificarsi.’ Questo sconsolato
condizionamento del noto è però attraversato dall’ignoto: ‘un balletto di mari
conosciuti, una chimica senza valore, e delle melodie impossibili’. ‘Prendiamo l’aereo
e ci ritroviamo dovunque’, ha scritto Satprem, e così Rimbaud: ‘La stessa magìa
borghese in tutti i punti dove la diligenza ci depositerà! Il fisico più elementare sente
che non è più possibile sottostare a questa atmosfera personale, bruma di rimorsi
fisici la cui constatazione è già un’afflizione’, la leopardiana ‘stolta età superba che
l’util cerca e inutil la vita sempre più divenir non vede.’
Già qualche contemporaneo di Rimbaud aveva adombrato un apocalittico
approssimarsi di fine millennio. Leconte de Lisle, ne ‘La legende de Nornes’ (sorta
di Parche scandinave), ne aveva dato un fosco quadro: “Piangete, lamentatevi,
Norne disperate! / Sono arrivati i giorni delle prove consacrate, / I supremi soli in
cui il cielo fiammeggerà, / Lo spaventoso secolo nel qual il giusto morirà.”
Vi è l’eco di Leconte in Rimbaud quando accenna alle Norne, ma vi è anche quella
di Giovanni con le sue visioni dell’Apocalisse. Due frasi, al solito sibilline, fanno da
chiusa.
La distruzione sarà comunque sorvegliata da ‘l’être sérieux’ e non sarà affatto ‘un
effet de légende’. Quest’essere serio, ovvero straordinario, cui è demandato il
compito di sorvegliare e quindi di controllare le conseguenze della distruzione,
potrebbe essere la figura adombrata in ‘Génie’. Quanto all’ultima affermazione del
poeta, ‘cependant ce ne sera point un effet de légende!’, pensiamo si possa
interpretare nel senso che non si tratta di mere parole, di reminiscenze di
leggende, ma di un dato di fatto che si verificherà.
‘Bottom’ è un altro intermezzo, un altro quadro di pausa. Narra dell’ospitalità e
della breve relazione (‘tutto si fece ombra e acquario ardente’) con la signora
milanese (o con una ragazza londinese, come alcuni sostengono). Ma al mattino,
‘battagliera alba di giugno’, lui era già fuggito, come un asino (‘Bottom’ di
Shakespeare) che si fosse sottratto, con addosso ancora le pastoie, al giogo: ‘corsi ai
campi, asino, strombettando e brandendo il mio lamento’ (o il mio dolore secondo
l’accezione del termine in inglese) ‘finché le Sabine della periferia vennero a gettarsi
sul mio pettorale.’ Il dolore o il lamento cui qui il poeta allude è quello per ‘la realtà
... troppo spinosa per il mio grande carattere ...’ dell’incipit. ‘Bottom’ ha un doppio
referente, quello scespiriano appunto, e quello semantico: l’allusione, al solito, è ad
entrambi, intendendo come l’aver ceduto al comune atto d’amore umano (‘Je
n’aime pas les femmes. L’amour est à réinventer.’) sia stato un toccare il fondo.
‘H’ è un sorta di criptogramma. L’unico dato certo è che ha come sfondo la
sessualità. Dietro la figura misteriosa di Hortense non sappiamo se si celi la
prostituta oppure l’onanismo. Il poeta sa di aver creato un rebus, concludendo con
140
Rimbaud
‘trouvez Hortense’, ovvero indovinate chi è lei. Vi è chi, fra gli innumerevoli esegeti,
ha scoperto che anagrammando ‘Hortense’ si ottiene ‘Eros then’, che in inglese sta
per ‘l’eros allora’. L’Adam segnala che ‘l’hydrogène clarteux’ non è un’invenzione di
Rimbaud, ma che si tratta di un dialettismo riscontrabile nel ‘Dictionnaire des
patois romans de la Moselle’, e che sta per luce a gas (idrogeno luminoso). Bravo
Rimbaud a saper cogliere anche nel patois il folgorante dell’immagine che si
sarebbe consegnata al futuro.
Il movimento descritto nel brano omonimo ‘Mouvement’ è quello di una nave con
dei viaggiatori. A tratti, il viaggio adombrato sembra quello di un treno (‘Il
movimento serpeggiante sulla riva delle cascate del fiume’ ... ‘viaggiatori circondati
dalle trombe della valle ...’) È difficile vedere in questo vascello l’arca dei Voyantes
come pretenderebbe il Matucci. Se è vero che il termine ‘arche’ è usato dal poeta,
questi viaggiatori ‘sono i conquistatori del mondo / alla ricerca di una fortuna
chimica personale; / lo sport e il comfort viaggiano con loro; / ... Mostruoso,
infinitamente rischiarantesi, / e l’eroismo della scoperta.’ Ci appare più plausibile
pensare che si tratti di uomini d’affari, ingegneri, professionisti che si muovono a
livello internazionale e che affascinano l’immaginazione del poeta. Ha ragione il
Bonnefois nel rilevare che: ‘Se è certo che Rimbaud ha trovato la scienza ‘trop
lente’, egli si è sempre sentito affascinare dalla sua illimitata capacità di
riorganizzare i dati naturali e sociali.’ E da questa umanità di Vip qualcuno tende
ad isolarsi: ‘Negli accidenti atmosferici più sorprendenti, una coppia di giovani si
isola sull’arca, - È forse un’antica selvatichezza che viene perdonata? - E canta e si
apposta.’ I due potrebbero essere Verlaine e Rimbaud in viaggio verso Londra,
verso il tentativo di redimersi come Figli del Sole per redimere il mondo.
‘Devozione’ si compone di varie dediche, nella forma di un salmo di preghiera
cristiano. Appaiono tre personaggi femminili indecifrati (‘A mia sorella Louise
Vaneen de Voringhem ... per i naufragi ... A mia sorella Léonie Aubois d’Ashby ... per la
febbre delle madri e dei bambini ... A Lulu ... per gli uomini’). Poi la “devozione” si
rivolge ‘All’adolescente che sono stato. A quel santo vegliardo ... Allo spirito dei
poveri. E a un altissimo clero.
Ed anche ad ogni culto ... fra avvenimenti tali che occorre arrendersi ...’ E qui si apre
un dubbio interpretativo: Rimbaud usa il verbo “se rendre”, che in francese ha la
valenza di arrendersi, recarsi, andare, rendersi. Matucci lo ha interpretato nel
senso di verbo di moto, ma la costruzione della frase “avvenimenti tali ... che ...” ci
pare suggerisca come unica ipotesi interpretativa valida quella dell’arrendersi.
Non è questione di poco conto in quanto, accettando quest’ultimo significato, ci
troveremmo di fronte ad una certificazione di resa del poeta. Ma tale resa non
significa abbandono o perdita definitiva. Dopo un’altra descrizione dell’ambiente
polare dei “dieci mesi di notte rossa” ... “per la mia sola preghiera muta come queste
141
Carlo Carlucci
regioni di notte e che precede prodezze più violente di questo caos polare” (allude
ancora il poeta a trasformazioni che avverranno di affetti più giganteschi degli
spostamenti dei ghiacci polari) lascia veleggiare il vessillo dell’ultima frase: “Ad
ogni costo e con ogni aria, e anche nei viaggi metafisici. Ma non più allora.”
Ed è più che un passaparola, un incitamento per chi verrà a continuare, costi quel
che costi, in ogni luogo della Terra, anche nei viaggi “metafisici”, ovvero
soprattutto nei viaggi oltre il mondo fisico, nel misterioso dove lui si era
avventurato da solo. Il che poi dà tonalità e peso all’ultima incitazione: ‘Mais plus
alors’, si può intendere come mai più si dovranno accettare le cose di prima.
‘Democrazia’ rappresenta una violenta quanto profetica invettiva contro la civiltà
borghese. Non sembrerebbe, per il tono, essere stata scritta immediatamente a
ridosso dell’ultimo e definitivo addìo di “Génie”. Vi è il quadro degli orrori della
modernità (‘democratica’) già fatto proprio dal Leopardi nella ‘Palinodia’ ed
ironizzata nella ‘Ginestra’ come “le magnifiche sorti e progressive”.
Intona l’attacco: “La bandiera’ (di questa ‘democrazia’) ‘va al paesaggio immondo e
il nostro gergo’ (e il nostro linguaggio democratico borghese con la sua simbologia)
‘soffoca il tamburo’.
“Nei centri alimenteremo la più cinica prostituzione. Massacreremo le rivolte
logiche.”
“Nei paesi pepati e inzuppati - al servizio dei più mostruosi sfruttamenti industriali o
militari.”
Ma mentre il Leopardi sembra errare di fronte al quadro tragico della sua visione,
pago di sferzare con l’ironia quanti ottusamente inneggiavano al progresso,
Rimbaud mostra di opporsi con forza e ferocia: “Arrivederci qui, dovunque. Coscritti
della buona volontà, avremo la filosofia feroce; ignoranti per la scienza, scaltri per le
comodità; crepi il mondo che va. È la vera marcia. Avanti marsch!”
142
Rimbaud
‘Genio’ (il termine era di moda allora, Michelet, Quinet col suo ‘Génie des
Religions’, Vermesch nel ‘Grand Testament’, avevano descritto i poeti come i genî
liberatori dell’umanità) è l’ultimo brano delle ‘Illuminazioni’, e fa da pendant
all’’Adieu’, ultimo della ‘Saison’. Il genio, per il dizionario, è un essere
soprannaturale dotato dei poteri di creare qualcosa di nuovo o di grande, il
generatore della vita, la divinità tutelare di un luogo, che in questo caso è il mondo.
Rimbaud naturalmente travalica definizioni, intenti, intenzionalità connessi al
termine. Come già narrato in “Conte”: ‘Il Principe (Rimbaud) era il Genio. Il Genio
era il Principe.’ Genio dunque è stato lui, il poeta, nel periodo in cui ha cercato
un’altra strada, un altro stato, un nuovo corpo, un altro amore per gli uomini, e
genio è ‘l’être sérieux’, la presenza che lo sovrasta. Tutto quest’ultimo e definitivo
addìo appare come un ininterrotto grido per scuoterci dal torpore ‘énervant’. Lui è
‘l’affetto e il presente ... fascino di luoghi fuggevoli e la delizia sovrumana delle soste.
È l’affetto e l’avvenire, la forza e l’amore che noi in piedi nella rabbia e nei fastidi
vediamo passare nel cielo in tempesta e bandiere d’estasi.’ Si muove per attimi
irrepetibili: il poeta ci immobilizza in questa nostra povera vita ‘di rabbie e di
fastidi’ e ci incita ad alzare gli occhi al cielo ove vedremo passare la sua forza e il
suo amore. Egli è l’Amore come ‘misura perfetta e reinventata, ragione meravigliosa
e imprevista’, amore come ‘eternità’, ‘dalle qualità fatali’ ... ‘lui che ci ama per la sua
vita infinita ...’ E ... ‘la sua promessa riecheggia: ‘Basta con queste superstizioni, questi
vecchi corpi, queste famiglie, queste età. È il nostro tempo che è andato a picco.’
Nulla si salva nella rivelazione e cioè nell’apocalisse del poeta, è tutta la storia, il
tempo dell’uomo che ha fatto definitivamente naufragio. E da quel lontano grido
noi continuiamo aggrappati alle nostre superstizioni scientifiche, alle nostre
superstizioni religiose (e guerre relative), con questi nostri poveri corpi che non
sanno essere altro che aggregati di cellule destinate a dissolversi, con i nostri
amori umani pronti a finire nell’indifferenza, nell’oblìo o dentro una fossa. ‘Il suo
corpo! La liberazione sognata...’: allude qui il poeta ancora una volta alla
liberazione, al corpo nuovo finalmente affrancato dalla morte. La sua vista ci
permetterà di affrancarci da quanto finora ci ha costretto ad inginocchiarci, a
piegarci alle pene che ci sono state inflitte, dalle quali pure verremo riscattati
grazie a lui. La sua luce abolirà le sofferenze ‘nella musica più intensa’. Il suo
incedere avrà effetti superiori alle più antiche e grandi migrazioni. E l’orgoglio che
trarremo dall’essere con lui verso un nuovo stato del nostro essere non sarà
l’orgoglio esclusivo che noi conosciamo, ma sarà ancora ‘più benevolo che le carità
perdute’. E poi, altro che glorificazione ed esaltazione della Belle Epoque, altro che
rosee speranze o “magnifiche sorti progressive”: ‘O mondo! e il canto chiaro delle
nuove sventure!’ E poi l’esortazione-congedo finale, ove anche se stanchi e
abbattuti: ‘Sappiamo, in questa notte d’inverno, di capo in capo, dal polo tumultuoso
al castello, dalla folla alla spiaggia, di sguardo in sguardo, forza e sentimenti stanchi,
143
Carlo Carlucci
chiamarlo e vederlo, e di nuovo allontanarlo e sotto le maree, nell’alto dei deserti di
neve, seguire il suo sguardo, i suoi respiri, il suo corpo, la sua luce.’
144
indice
Invio Negro, di marzio pieri ................................................................................................................... 3
Perché Rimbaud? ............................................................................................................................... 15
Il sole e il corpo ................................................................................................................................... 29
La guerra ................................................................................................................................................ 40
Verso il Battello ................................................................................................................................... 45
Tu Vates Eris ........................................................................................................................................ 55
Attraverso una mirabile falla nel fasciame
della nascita .......................................................................................................................................... 60
Gli ultimi versi : l’altra fame e l’altra sete ................................................................................ 64
Una stagione all’inferno .................................................................................................................. 91
Illuminazioni ...................................................................................................................................... 109
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