Tartufi e tartuficoltura
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Tartufi e tartuficoltura
Tartufi e tartuficoltura Arturo Ceruti, Anna Fontana, Francesco Meotto, Carolina Nosenzo Centro di Studi sulla micologia del Terreno del C.N.R. _________________ Generalità sulla biologia dei tartufi Il desiderio e l'intenzione di coltivare i tartufi e antichissima. Già il Ciccarello, medico di Bevagna, nel 1564 pubblicava a Padova un libro dai titolo "Opusculum de tuberibus", primo libro esclusivo sui funghi con ampie indicazioni bibliografiche, oggi non facilmente reperibili, nel quale illustra alcune opinioni sulla biologia dei tartufi, alcune ancora oggi valide, e propone un metodo di coltura. Egli era convinto che i tartufi potessero essere e coltivati, basandosi sulla norma di Pitagora: ogni cosa nata dalla terra e soggetta alla coltivazione. Il metodo indicato non era molto dissimile da quello della coltura odierna delle patate. Quindi gli esiti verosimilmente erano nulli. Dello stesso parere furono successivamente De Borch (1780) e De Bornholz (1827). Allora non si supponeva che i tartufi fossero simbionti con gli alberi e neanche si dava importanza che fossero sempre nelle loro vicinanze. I primi che presero in considerazione gli alberi e specificatamente le querce furono due contadini della Provenza, Jean e Joseph Talon, che all'inizio del 1800 intrapresero a coltivare piantine di querce ottenute da ghiande raccolte in zone tartufigene. Gli impianti venivano fatti pure in zone tartufigene. I risultati furono brillanti e permisero ai due cugini di arricchirsi. La tecnica dei Talon fu integralmente seguita fino verso al 1965 e qua e la proseguita ancora dopo. Per un secolo e mezzo la coltura si fece molto empiricamente, ma con buoni risultati specialmente in Francia. Con l'ampliarsi delle conoscenze sulla biologia dei funghi si copri, dalla fine del 1800, che molti di essi vivono in strette relazioni con alcune piante superiori (simbiosi micorriziche). Ora più nessuno dubita sulla simbiosi dei tartufi. Quindi per coltivare i tartufi bisogna coltivare gli alberi, per lo meno fino a quando non conosceremo tutte le sostanze che l'albero tornisce al fungo. Allora, forse potremo coltivare in vitro e in fabbriche i tartufi. Per ora sappiamo clic la pianta secerne attraverso le radici numerose sostanze. Tra queste zuccheri, acidi organici, aminoacidi, mucillagini probabi1mente alcune con la capacita di sollecitare la germinazione delle spore. Infatti abbastanza frequentemente si trovano spore in germinazione sulle radici. Probabilmente alcune sostanze della secrezione servono per l'attrazione delle ife sulle cellule radicali e nei territori intercellulari periferici. Queste formano la micoclena e il reticolo di Hartig. Le cellule della radice, completamente avvolte dal reticolo di Hartig, rimangono isolate fra loro e muoiono. Il fungo ne prende le funzioni di trasporto delle soluzioni assorbite dal terreno. La penetrazione del fungo tra le pareti cellulari delle radici avviene per la produzione di enzimi (pectinasi). Il fungo assorbe dal terreno, acqua, ioni, sali, tra cui nitrati, fosfati, potassio, magnesio, che cede alle correnti idriche della pianta (linfe vegetali). La pianta quindi viene facilitata nell'assorbimento delle sostanze minerali necessarie. Infatti il fungo con il suo micelio può esplorare superfici di terreno molto più estese di quelle esplorabili dalle radici. Il fungo poi solubilizza molti fosfati del terreno e stacca perfino i fosfati dagli acidi nucleici , dai ghcofosfati, dalle lecitine e da altri composti ancora. In tal modo la pianta può arricchirsi di ioni minerali indispensabili alla sua vita. E' stato accertato che con la micorrizazione l'assorbimento dei fosfati è di 10 volte superiore, e forse anche dei nitrati (N03). Questi per il 95% vengono ridotti ad azoto ammoniacale (NH3) nelle foglie dal processo fotosintetico, utilizzando energia solare. Parte di questo azoto ridotto viene probabilmente ceduto al fungo, che per ottenerlo dovrebbe consumare troppe sostanze organiche. Nel processo fotosintetico, oltre a zuccheri, aminoacidi si sintezzano notevoli quantità di sostanze ricche di energia, come ATP, NADPH, le quali migrano sicuramente fino alle radici e noi supponiamo anche alle micorrize. Quindi il fungo e la pianta vengono a costituire un organismo unico, e diventano interdipendenti, con strutture proprie (micorrize), metabolismi nuovi e sintesi anche di proteine nuove. Inoltre il fungo congiunge più alberi fra loro, tra i quali si possono instaurare scambi nutritizi. La coltura dell'albero è quindi essenziale. Bisogna coltivarlo nelle migliori condizioni fisiologiche, specialmente per quanto riguarda la fotosintesi, in modo che possieda una buona micorrizazione e sia capace di fornire il fungo di quelle sostanze che questo non più sintetizzare o che può sintetizzare con molto dispendio. Nella storia della coltivazione dei tartufi, si possono distinguere quattro epoche (Ceruti,1988). La prima va fino a Talon (circa 1800): si compiono tentativi di coltura diretta con risultati certamente nulli sebbene decantati dagli autori (Ciccarello. 1564; De Borch, 1780; De Bornholz, 1827). La seconda epoca (epoca di Talon) giunge fin verso il 1965 ed è tipicamente empirica, con buoni risultati specialmente in Francia. Si coltivano piante notoriamente tartufigene su terreni notoriamente tartufigeni (Rousseau,1866; Chatin, 1862; Mattirolo, 1908, 1928). La terza epoca parte dal 1965 e giunge fin verso il 1985: presso il Centro di Studio sulla Micologia del Terreno si susseguono indagini che via via chiariscono molti aspetti della biologia di questi funghi ed in seguito permettono l'applicazione di tecniche per la tartuficoltura non più empiriche, ma basate su conoscenze scientifiche. La quarta epoca è quella attuale. In questa l'obiettivo sarà di mantenere in campo la micorrizazione specifica delle piantine messe a dimora dopo gli accurati controlli sulla qualità e quantità delle loro micorrize, e di promuovere le condizioni per la formazione degli ascocarpi. Purtroppo fino ad ora si sa molto poco sul meccanismo di formazione dei corpi fruttiferi. Abbozzi tubercolari si formano in gran numero, come è stato dimostrato da Montani et al. (1983) già nel mese di maggio (per il tartufo nero, probabilmente anche per quello bianco), dapprima senza aschi. Molti di questi primordi rapidamente degenerano. 1 - Spore di tipo aculeate. Per la loro trasformazione in veri carpofori occorrono almeno 40-80 giorni e più. Quindi è verosimile che vi siano produzioni di primordi anche dopo il mese di maggio. Gli ascocarpi già alla grandezza di 1mm. presentano vene sterili e vene fertili e talora anche aschi. L'albero di scelta per il tartufo bianco (Tuber magnatum) dovrebbe essere uno dei seguenti: tiglio (Tilia europaea), querce nostrane (Quercus pubescens, Q. peduncolata, Q. sessiliflora, Q. cerris), pioppi nostrani (Populus tremula, P. alba, P. nigra, P. pyramidalis), salici (Salix alba, S. caprea, S. viminalis), carpino nero (Ostrya carpinifolia), nocciolo (Corylus avellana). Per il tartufo nero (T. melanosporum) gli alberi di scelta dovrebbero essere principalmente querce nostrane (Quercus pubescens, Q. ilex, Q. cerris), nocciolo (Corylus avellana), carpino nero (Ostrya carpimfolia). La coltivazione di piantine inoculate con la specie desiderata viene effettuata normalmente inserra, in contenitori singoli e multipli. Tra i molti problemi che via via si presentano, senza dubbio quello che più deve preoccupare è la comparsa di funghi dannosi. Anche se l'inoculo viene effettuato su piantine e terreno sterilizzati, l'ambiente, se non idoneo, consente l'instaurarsi di micorrize di specie inquinanti precedentemente o contemporaneamente a quelle del tartufo. Un esempio è la Sphaerosporella brunnea, un fungo segnalato micorrizico solo nel 1981, che in ambiente di serra provoca la scomparsa delle micorrize di T. magnatum (Mcotto e Carraturo, 1987-88). Come è possibile però rilevare in natura, molto spesso non c'è competitività tra le diverse specie fungine (abbiamo trovato 11 tipi di micorrize, di altrettante specie di funghi, su una sola quercia sotto la quale vengono raccolti magnifici esemplari di tartufo bianco pregiato), poiché in condizioni naturali, avviene una selezione spontanea. Comunque è indispensabile agire con grande cautela ed effettuare severi controlli prima di introdurre in ambienti naturali micorrize che potrebbero seriamente danneggiare le tartufaie naturali o non fornire raccolto in quelle di nuovo impianto. Un fatto certo è che, data la somiglianza tra le diverse micorrize, oggi si trovano sul mercato, spesso a prezzi esorbitanti, al posto di piantine idonee per la coltivazione di tartufi pregiati, piante con micorrize estranee o anche con quelle di tartufi di scarso valore commerciale. Va ancora rilevato che nella legge nazionale n. 752 del 1985 non esiste alcuna normativa m merito ad un serio controllo delle piantine tartufigene prima della loro diffusione nei territori vocati. Le specie di tartufi La raccolta ed il consumo dei tartufi, corpi fruttiferi di funghi che vivono per lo più sotto la superficie del terreno, risalgono a tempi antichi: sembra che alcuni di essi, le Terfezie, fossero già noti ai Babilonesi. I tartufi sono funghi senza alcun dubbio, appartenenti ali' ordine Tuberales, ma non in tutte le epoche essi furono riconosciuti come tali. E' vero che Teofrasto (372-287a.C.) già li considerava vegetali, ma Dioscoride sosteneva che fossero radici, Plutarco li considerava misteriosi prodotti della terra e Plinio miracoli della natura. Vi fu anche chi sostenne che i tartufi fossero organi di riproduzione degli insetti e chi li riportò perfino al regno minerale. Il primo autore che sicuramente 2 - Spore di tipo reticolate-alveolate con ampia reticolatura riportò i Tuber ai vegetali fu Geoffroy nel 1711, ma il primo forse a porre i tartufi fra i funghi fu Ciccarcllo nel suo Opuscupum de tuberibus del 1564. Il Micheli, in Nova plantarum genera (1729), per primo diede un' ottima descrizione del genere Tuber mettendo in evidenza le vene e perfino le spore, da lui chiamate semina. Egli distinse però solo due tartufi neri, dei quali uno è l'attuale T. melanosporum Vitt. e l'altro probabilmente T. aestivum Vitt. Risulta quindi che fino al 1700, nel mondo scientifico il tartufo bianco, uno dei tartufi più pregiati, non era ancora conosciuto. Il tartufo bianco degli antichi non era certo T. magnatum Fico. Per i Greci e i Romani erano le Terfezie delle regioni circummmediterranee, specialmente dell'Asia minore e dell'Africa settentrionale, e così pure per il Medioevo erano le Terfezie dell'Italia centrale ed insulare. Il tartufo bianco, nel senso di T. magnatum era certamente noto nel Regno Sardo, infatti alla corte piemontese era oggetto di dono a principi e rè, ma comparve per la prima volta in un documento solo nel 1780 (De Borch). Pochi anni dopo, il medico piemontese Vittorio Pico ( o più probabilmente Picco ) pubblicò la sua tesi di laurea (Melethemata inauguralia) m cui descrisse e, per la prima volta, impose un nome scientifico al tartufo bianco redigendone la diagnosi. Su questa diagnosi latina, anche se assai incompleta, si basa la denominazione di T. magnatum. La specie fu poi accuratamente studiata da Carlo Vittadini che è da considerarsi il fondatore dell'idnologia, cioè di quel ramo della micologia che si occupa dei funghi ipogei. La pubblicazione della meravigliosa Monografia 3 - Spore di tipo reticolate-alveolate con fitta reticolatura Tuberacearum del Vittadini risale al 1831: in essa sono descritte per la prima volta ben 67 funghi ipogei con diagnosi e figure superbe a colori, fra i quali 20 Tuberali. Successivamente, nel 1800, appaiono opere di notevole interesse per la conoscenza di questi funghi, quali i Fungi Hypogaei dei fratelli Tulasne del 1851 e la Truffe di Chatin del 1892. I tartufi sono funghi appartenenti alla classe degli Ascomiceti poiché le loro spore sono contenute in sacchi sferoidali, detti appunto aschi, i quali sono disposti all'interno del loro corpo fruttifero. Questo è in genere e forma sferica, globosa o tuberiforme e presenta all'esterne una corteccia, il pendio, molte sviluppato, di varia struttura e di vario colore, con una superficie che può variare da assolutamente liscia, a finemente papillosa e granulosa, o da finemente verrucosa a verruche molto vistose piramidali e anche fortcmenu sporgenti e larghe parecchi millimetri. L'aspetto della superficie del peridio si rivela molto importante per distinguere le specie. I 4 - Carpofori di Tuber magnatum. corpi fruttiferi dei tartufi hanno dimensione varia, seconda delle specie, dalla grandezza di una nocciola a quella d’una noce, ma parecchie specie tra le più interessanti come commestibili, possono raggiungere 15 cm di diametro. L'interno del pendio la polpa i gleba dei Tuber presenta nume rose vene chiare con ife sterili vene che seguono le linee di sviluppo delle spore che si colorano con la maturazione. In questi sistema di vene si trovano gli aschi che nei Tuber sono sempre globosi, in grandissimo numero,e disposti in modo disordinato. Le spore sono contenute in essi in numero variabile da 1 a più (fino a 8) per ciascun asco, e presentano eleganti ornamentazioni che possono essere di due tipi aculeate (fig. 1), ossia costituiti da spine lunghe, sottili o grossi acute od ottuse; oppure reticolate-alveolate (fig. 2 5 - Carpofori di Tuber melanosporum. e 3) costituti da alveoli adiacenti, poligonali tondeggianti, separati fra loro da setti. I caratteri degli aschi e delle spore sono molto importanti per la determinazione delle specie di tartufi e ovviamente si possono osservare solo con l'aiuto del microscopio. Colore ed odore del corpo fruttifero sono caratteri secondari dal punto di vista della determinazione sistematica, ma hanno pure essi una certa importanza. Quindi m base ai vari caratteri del corpo fruttifero di questi funghi, cioè al colore e all'aspetto, alla dimensione, all'odore di tutto il fungo, alla struttura del peridio, alla morfologia delle vene nella geba, alla forma, dimensioni, colore ed ornamentazioni delle spore, gli specialisti distinguono le varie specie. La specie, come abbiamo già visto è indicata con un binomio in latino (il primo nome corrisponde al genere, il secondo alla specie) seguito dal nome dell'autore che per primo l'ha descritta. Ad esempio: Tuber melanosporum Vittadini, Tuber magnatum Pico. Il numero delle specie di tartufi m senso stretto, cioè dei funghi ipogei riferiti al genere Tuber, è elevato e siamo ben lontani dal poterlo definire con certezza a causa, sia delle specie che sono descritte con nomi diversi, ma che in realtà appartengono ad una sola specie, sia della probabile presenza di nuove specie non ancora raccolte, e quindi ancora sconosciute, in continenti quali quello asiatico ed africano nei quali le indagini sugli ipogei non sono state molto approfondite, sia per il passaggio al genere Tuber di specie dapprima sistemate in altri generi come ad esempio, Delastrcopsis oligosperma Mattirolo che diverrebbe Tuber oligospermum (Tul. et Tul.) Trappe, cosa del resto ancora in discussione fra gli specialisti. Presso l'Erbario del Dipartimento di Biologia Vegetale dell'Università di Torino esiste l'Erbario Mattiroliano delle Tuberali, cioè la collezione di esemplari essiccati dei funghi ipogei appartenenti alle Tuberali raccolta da Oreste Mattirolo (direttore dell'Orto Botanico di Tonno dalla fine del secolo scorso fino al 1932), che fu il più famoso idnologo italiano dopo il Vittadini. Nella sua collezione sono presenti ben 64 specie di Tuber. Gli essicata di molte di queste specie sono esemplari degli autori che le 6 - Carpofori di Tuber brumale hanno descritte, detti autoptici. Fatto questo che rende peculiare ed importante la suddetta collezione accolta dal Mattirolo grazie alle sue conoscenze, a livello italiano ed internazionale, di esperti e raccoglitori di ipogei che gli inviavano i campioni. Molte specie di Tuber infatti hanno una distribuzione assai ampia in quasi tutta l'Europa ed in altri continenti, come ad esempio Tuber borchii Vitt., altre hanno distribuzione limitata in un solo continente come ad esempio Tuber melanosporum Vitt., in Europa, infine alcune che si ritrovano in zone assai ristrette di un continente e mai altrove. Per quest'ultimo caso, a tutti è noto il Tuber magnatum Pico, che si trova esclusivamente in Italia, in Istria e in Canton Ticino, oppure Tuber argentinum Spegazzini dell'America meridionale, Tuber gibbosum Harkness dell'America settentrionale, Tuber indicum Cooke et Massee per l'Asia (Cina e Himalaya). Ed ora passiamo ad esaminare alcune delle specie di tartufo a noi più note perché più comuni in Italia o perché elencate nelle leggi, nazionale e regionali, relative alla loro raccolta. Nella regione Liguria oltre al tartufo bianco 7 - Carpofori di Tuber aestivum. pregiato (T. magnatum) la cui presenza è imitata alla Val Bormida, le specie più abbondantemente raccolte sono: T. melanosporum, T. brumale e T. aestivum (fig. 4, 5, 6, 7). Tuber magnatum Pico, tartufo bianco pregiato (o tartufo bianco del Piemonte o di Alba o tartufo bianco di Acqualagna). Si raccoglie nel Centro-Nord d'Italia e nell'Istria con segnalazione in passato per il Canton Ticino. In Liguria è segnalato solo per la Val Bormida. Si trova nella tarda estate, in autunno e all'inizio dell'inverno sotto querce, tigli, salici e pioppi in terreni con umidità abbastanza elevata anche nel periodo estivo. Ha forma globosa, spesso anche molto appiattita ed irregolare con peridio giallo pallido od ocraceo con chiazze rossobrune, liscio. La gleba, percorsa da molte vene bianche molto ramificate, varia dal colore latte al roseo intenso con sfumature brune. Le spore sono di tipo reticolate-alveolate ad alveoli grandi. Raggiunge anche le dimensioni di una grossa mela e ogni anno vengono raccolti pochi esemplari che possono raggiungere e superare il chilogrammo. Il suo sapore e profumo particolare lo fanno considerare il più pregiato fra tutti i tartufi e apprezzare in tutto il mondo. Viene consumato crudo. Tuber melanosporum Vitt., tartufo nero pregiato (o tartufo nero di Norcia o di Spoleto o truffe noire du Perigord) (fig. 8). Molto diffuso in Francia nel Sud, Sud-Ovest ma anche ad Lst, si trova nel CentroNord dell'Italia, in Spagna e in qualche paese dell'Est. Viene raccolto in alcune località della Liguria durante tutto il periodo invernale ed in modo particolare nei primi mesi dell'anno sotto querce, noccioli e carpini neri. Ha forma globosa, alle volte lobato, con pendio bruno nero a verruche appressate incavate all'apice e canalicolate 8 - Piante di roverelle che producono Tuber longitudinalmente. La gleba è di colore melanosporum. Da notare la tipica area nerorossastro solcata da venature bianche sottili e bruciata prodotta dal tartufo. molto ramificate. Le spore sono di tipo aculeato con spinule corte. La sua dimensione raggiunge e può superare quella di una grossa mela. Il suo specifico sapore ed il suo aromatico profumo lo rendono molto apprezzato m cucina dove è considerato il migliore e quindi il più pregiato fra i tartufi neri. Viene consumato preferibilmente dopo breve cottura. Tuber brumale Vitt., tartufo nero d'inverno o trifola nera. Molto diffuso in Europa, e comune in molte località liguri. E' reperibile in autunno e all'inizio dell'inverno sotto querce, noccioli e pini. Ha forma solitamente globosa o poco lobata, con peridio nero o ferrugineo-scuro a verruche ben evidenti, incavate all'apice e solcate longitudinalmente. La gleba è di color bruno scuro o grigionerastro con ampie venature bianche. Le spore sono di color ocra-chiaro, ellittiche, spinulate, con spinule sottili e acute. La sua dimensione può raggiungere o superare quella di un uovo di gallina. Il profumo ed il sapore sono più o meno forti, ma gradevoli cosicché viene consumato pur essendo molto meno apprezzato del T. melanosporum con il quale viene spesso confuso. Tuber aestivum Vitt., tartufo d'estate o scorzone. Il più diffuso per la sua adattabilità a tipi diversi di terreni, in Liguria si può trovare tutto l'anno anche in discrete quantità, a parte un breve periodo primaverile. Si raccoglie sotto querce, noccioli, tigli, pioppi e pini. Ha forma solitamente globosa o poco lobata, con peridio nero a verruche piramidali striate trasversalmente, ben evidenti. La gleba sempre chiara, varia dal colore roseo al bruno chiaro ed è solcata da numerose vene bianche. Le spore sono di color chiaro reticolate-alveolate. Gli esemplari più grossi possono raggiungere la dimensione di una mela. Il profumo è leggero, aromatico e gradevole. Data la sua abbondanza non raggiunge mai i prezzi del nero più pregiato. Tuber borchii Vitt. (=Tuber albidum Pico), bianchetto. Scarsamente reperibile in Liguria. Si trova tutto l'anno, ma la maggiore frequenza di ritrovamenti avviene nei mesi di gennaio, febbraio e marzo, sotto pini, querce, noccioli e pioppi. Ha forma globosa, ma spesso anche appiattita e molto irregolare con peridio giallo pallido o grigio pallido o anche ocraceo con chiazze rosso-brune, liscio o con una finissima peluria negli esemplari più giovani. La gleba vana dal carnicino pallido al rosso-bruno ed è percorsa da numerose venature chiare, molto ramificate. Le spore sono reticolate-alveolate ad alveoli piccoli. Può raggiungere la dimensione di un grosso uovo di gallina, ma più facilmente ha dimensioni di una noce o di una nocciola. Il suo odore agliaceo e alle volte pesante a maturità, non lo inserisce fra le specie più pregiate, anche se viene commerciato e anche servito in tavola al posto del T. magnatum suo parente più rinomato. Può essere confuso con il T. maculatum Vitt. che ha un profumo peculiare e spore molto simili e con il T. foetidum Vitt. che emana un forte odore nauseante. Tuber macrosporum Vitt. tartufo nero liscio. In Liguria è presente solo in Val Bormida. Si trova nel periodo autunnale sotto querce, pioppi e salici. Ha forma globosa, gibbosa, spesso lobata, con peridio nero-ferrugineo che presenta piccole verruche difformi. La gleba bruno-rosata è percorsa da numerose vene di color grigio chiaro. Le spore sono di grandi dimensioni, bruno-scure, reticolate, ellissoidali. Raramente raggiunge le dimensioni di un uovo di gallina. Ha un profumo ed un sapore che molto volte ricorda quello di T. magnatum e, proprio per questo è apprezzato dai buongustai, anche se i raccoglitori non lo valutano adeguatamente. Tuber mesentericum Vitt., tartufo di Bagnoli. Talvolta si trova anche in Liguria, ma è un tartufo, compreso fra quelli elencati nella legge nazionale, che si raccoglie al Sud. E' una delle specie più comuni dell'Italia meridionale; frequente anche al Centro e, un po' meno anche al Nord. Matura da inizio autunno a inizio primavera e si trova sotto querce, faggi, betulle, noccioli, carpini e pino nero. Ha forma tendenzialmente globosa, ma con una base fortemente depressa, spesso con addirittura una evidente e profonda cavità. Peridio con verruche fitte, piuttosto piccole, acute o appianate, di colore nero, talora con sfumature azzurrastre. La gleba dapprima grigio-brunastra poi grigio-bruna scura a maturità, è percorsa da numerose vene bianche con andamento a circonvoluzioni (come l'intestino, il che ne ha ispirato il nome specifico). Le spore sono ovate, reticolate-alveolate con reticolo che nella spora matura è interrotto ed m seguito un po' aristato. E' grande come una noce o, al massimo, come un uovo di gallina (mediamente 5-6 cm). Il suo profumo è molto forte, variabile, ma il più delle volte sgradevole, che ricorda l'acido fenico. Il gusto è tenue e amarognolo, normalmente non molto gradevole. Nel territorio ligure si possono trovare anche T. rufum Pico (rossetto), T. nitidum Vitt., T. ferrugineum Vitt., T. maculatum Vitt. T. foetidum Vitt., T. exavatum Vitt. e T. puberulum Berkeley et Broome, tartufi di nessun valore culinario o commerciale. Alcuni vengono raccolti per l'addestramento dei cani. Molte specie hanno caratteri ben evidenti, fra quelli che abbiamo elencato come necessari alla loro identificazione; alcune invece presentano caratteri assai simili che possono far sorgere dubbi sulla loro identità. Il problema del riconoscimento di specie con caratteri morfologici simili, sono stati affrontati nel Centro di Studio sulla Micologia del Terreno-C.N.R. con metodologie basate sull'analisi del DNA. Con queste tecniche abbiamo oggi la possibilità di discriminare bene i corpi fruttiferi: nei gel ottenuti si vedono delle bande molto specifiche, ognuna della quali con una sua precisa posizione per ciascun tartufo,, quindi m casi dubbi a livello morfologico ora si può ricorrere a questo metodo. Le micorrize dei tartufi Tutti i funghi, in base al loro modo di assorbire le sostanze nutritizie, vengono suddivisi in tré grandi gruppi: saprofiti, parassiti e simbionti. I primi due comprendono funghi che, come il prataiolo (Agaricus sp.) o i geloni (Pleurotus ostreatus) si nutrono di sostanze organiche in decomposizione o che, come la famigliola (Armillariella mellea), traggono il loro nutrimento da piante vive. Il gruppo di funghi che ha maggiore interesse gastronomico è senza dubbio quello dei simbionti. A questo gruppo appartengono ad esempio, il fungo reale (Amanita caesarea), il porcino (Boletus edulis) e anche i tartufi pregiati (Tuber sp.). . 8 - Micorrize di Tuber melanosporum viste con il microscopio stereoscopico 9 - Micorriza di Tuber melanosporum vista, al microscopio ottico: superficie della micoclena. Questi funghi, per compiere il loro ciclo vitale e formare quindi i corpi fruttiferi, hanno la necessita di convivere e ricevere sostanze (per lo più idrati di carbonio) da una pianta quasi sempre arborea la quale ottiene in cambio principalmente acqua e sali minerali. Questa stretta relazione assunta da molti funghi con alcune piante superiori, fu dimostrata per la prima volta da Giuseppe Gibelli (1879, 1882, 1883) dell'Istituto Botanico dell'Università di Torino. Egli descrisse e figurò con numerosi dettagli il complesso strutturale formato da ite di funghi e gli apici radicali del castagno. Nel 1885 il tedesco Frank dimostrò che alcuni funghi sono strettamente legati alle radici degli alberi, mediante formazioni a cui diede il nome di micorrize (dal greco mukhx : fungo e riza : radice). Da allora, soprattutto presso l'Istituto Botanico di Torino e il Centro di Studio sulla Micologia del Terreno (C.S.M.T.) del C.N.R., sorto nel 1951, sono proseguiti gli studi sull'anatomia, morfologia, fisiologia, ecologia ed applicazione pratica delle micorrize. Dalla fine del 1800 e fino al 1932, Oreste Mattirolo, allievo del Gibelli, si occupò in modo particolare di funghi ipogei mettendo m evidenza le relazioni micorriziche in particolare tra Tuberaceae e piante superiori con interessanti osservazioni anatomiche e biologiche. Nel 1894 Dangeard, amico di Mattirolo, descrisse per la prima volta micorrize appartenenti al genere Tuber: in particolare micorrize di T. melanosporum con Quercus pubescens prelevate in natura. Però la descrizione di micorrize di Tuber ritrovate in natura non era sufficiente a dimostrare sperimentalmente la simbiosi micorrizica di questi funghi ipogei. Solo a partire dal 1967 le micorrize di numerose specie di tartufi sono state ottenute per mezzo di sintesi in condizioni controllate. La prima sintesi micorrizica con Tuber è stata realizzata presso il C.S.M.T. di Torino su Pinus strobus con T. maculatum (Fontana,1967) e produsse micorrize simili a quelle precedentemente osservate in natura; inoltre portò anche, per la prima volta, alla formazione di tartufi sviluppati direttamente da micorrize ottenute con inoculo di spore su semenzali sterili (Passi e Fontana, 1967,1969). In seguito si ottennero, sempre in ambiente controllato e con diverse specie arboree, le prime micorrize per molte specie di Tuber, tra le quali quelle più pregiate: T. aestivum, T. brumale, T. melanosporum, T. albidum, T. mesentericum, T. magnatum e T. macrosporum. Le micorrize sono formate da un manicotto di ife intrecciate (micoclena) che avvolgono ogni singola radichetta e penetrando tra le cellule del parenchima corticale, formano il reticolo di Hartig. Qui, attraverso le pareti cellulari, avviene lo scambio di sostanze nutritizie. Da questo punto di incontro tra la pianta e il fungo, cioè dalla micorriza, si diparte il micelio che assorbirà i sali minerali dal terreno e che formerà a tempo opportuno i corpi fruttiferi indispensabili per la formazione delle spore. Quest'ultime, germinando, danno origine ad un micelio che sarà in grado, unendosi con gli apici delle radici, di formare nuove micorrize. La forma, le dimensioni e le ramificazioni delle micorrize, sono in buona parte determinate dall'albero simbionte e meno dall'ambiente, mentre i caratteri microscopici sono dipendenti dalla specie fungina. Il reticolo di Hartig può penetrare più o meno profondamente tra le cellule del parenchima corticale, a seconda della pianta ospite e del fungo. 10 - Micornza di Tuber melanosporum vista al microscopio ottico: particolare dellespinule. L'identificazione della specie fungina attraverso l'esame dei caratteri anatomo-morfologici delle micorrize, pur presentando mille difficoltà, è possibile. Nell'ambito del genere Tuber, esistono dei caratteri macro e microscopici che permettono la determinazione della specie. Recentemente, sulla rivista "L'Informatore Agrario", è stato presentato un nostro lavoro sulle caratteristiche morfologiche differenziali delle principali specie del genere Tuber (Meotto et al, 1995). Le osservazioni sono state effettuate esclusivamente su materiale fresco prelevato sia in natura, sia da piantine inoculate e coltivate in serra in ambiente semi sterile. I campioni di radici sono stati esaminati dapprima al microscopio stereoscopico per l'osservazione dei caratteri macroscopici e successivamente al microscopio ottico. Per la descrizione delle micorrize sono stati presi in considerazione i seguenti caratteri: colore delle micorrize, forma e disposizione delle cellule della superficie della micoclena; colore, forma, lunghezza, diametro di base, tipo di ramificazione di strutture itali che dipartono dalla micoclena (spinule). Le micorrize delle specie di Tuber prelevate in natura non hanno presentato aspetti morfologici diversi da quelle ottenute per sintesi in ambiente controllato. Le micorrize di T. magnatum sono di color ambra più o meno intenso con minore pigmentazione nella parte distale, presentano le cellule della micoclena molto sinuose, ad incavi molto profondi almeno nella parte mediana della micorriza. Le spinule sono mediamente lunghe 80 mm, con apice per lo più appuntito e con diametro di base che vana da 2 a 3,5 mm, mai ramificate. Le micorrize di T. melanosporum sono di color ambra molto intenso con minore pigmentazione nella parte distale, presentano le cellule della micoclena sinuose, ad incavi profondi spesso disposte con il diametro maggiore secondo la lunghezza della micorriza. Le spinule sono di lunghezza mediamente superiore ai 200 mm, con diametro alla base che varia da 3 a 4 mm spesso hanno ramificazioni a angolo retto (Figg. 8-9-10). Le micorrize di T. brumale sono di colore simile a quelle di melanosporum, presentano I cellule della micoclena più meno sinuose e raramente a incavi profondi. Le spinule sono mediamente lunghe 90 mm, con diametro alla base che varia da a 5 mm e mai ramificate. Le micorrize di T.acstivum son di color ambra intenso più pali de all'apice, presentano le cellula della micoclena di aspetto poliedrico. Le spinule sono lunghe di lunghezza mediamente superiore ai 400 mm e con diametro al base che vana da 2,2 a 3,5 mm. molto ondulate, spesso circonvolute e mai ramificate. Le micorrize appartenenti a queste tre specie di Tuber risultano quindi facilmente distinguibili soprattutto per i caratteri del spinule; infatti le micorrize di ' brumale si presentano corte tozze, quelle di T. elanosporum lunghe e con ramificazioni ad angolo retto mentre quelle i T.aestivum molto ondulate. Occorre però sottolineare ci per effettuare l'esame al microscopio ottico delle micorrize rende necessario un idoneo prelievo in base al giusto grado sviluppo rilevabile solo con 1'esperienza e mediante l'uso d microscopio stereoscopico. Inoltre la determinazione del diverse specie di Tuber in base alla caratterizzazione delle micorrize può essere effettuata soltanto da chi ha una adeguata preparazione tecnica specifica. Le scarse o nulle produzioni delle tartufaie coltivate, registrate anche in impianti di oltre dieci anni, spesso sono da attribuire ad un errato esame delle piantine tartufigene utilizzate e messe a dimora, dovuto alla scarsa conoscenza dei caratteri che contraddistinguono le micorrize. Inoltre per il controllo di piantine tartufigene è indispensabile, prima della messa a dimora (Meotto,1989), prendere in considerazione tutto l'intero apparato radicale, in quanto potrebbero essere presenti micorrize di funghi indesiderati (Meotto e Carraturo, 1987-88) o di specie di Tubcr di scarso valore commerciale. Tuttavia, anche la descrizione morfologica più accurata non copre tutti i molteplici aspetti assunti dai Tuber quando entrano m simbiosi con le piante ospiti. L'identificazione su base morfologica può pertanto trarre vantaggio dall'integrazione di dati basati sull'uso di tecniche molecolari che si avvalgono soprattutto dell'uso della PCR (amplificazione del DNA). Nel laboratorio del C.S.M.T. il gruppo che lavora con queste tecniche e in grado di distinguere corpi fruttiferi e micorrize, anche appartenenti a specie molto vicine morfologicamente, sulla base dei loro "fingerprint" di DNA. In conclusione, anche tenendo conto delle metodologie più recenti, l'analisi morfologica continua ad essere l'indispensabile punto di partenza per l'identificazione delle micor La coltivazione dei tartufi Come è già stato pubblicato sulla rivista "Vita in campagna" (Meotto e Bassi, 1994) per la coltivazione dei tartufi e consigliabile e opportuno che la tartufaia venga impostata in una zona che, per la presenza di tartufi allo stato spontaneo, denoti la sua idoneità alla coltivazione del tartufo stesso e che il terreno sia tale da consentirne la produzione. L'esposizione della zona prescelta per l'impianto deve essere scelta in base alle esigenze della specie. Le specie di tartufo più pregiate, per le quali è raccomandabile la coltivazione in Liguria, sono Tuber melanosporum, T. aestivum, T. brumale e T. magnatum (quest'ultimo solo in Val Bormida). Considerate le particolari esigenze delle specie è sempre opportuno, prima di iniziare la preparazione del terreno, farlo analizzare. Se i risultati dell'analisi sono tali da soddisfare le esigenze della specie di tartufo prescelta, si procede alla preparazione del terreno tenendo presente i seguenti accorgimenti: • evitare di scegliere un terreno che sia stato oggetto di ripetuti diserbi e concimazioni chimiche, oppure concimato con le deiezioni provenienti da grossi allevamenti industriali; • qualora siano presenti delle piante, eseguire la pulizia completa del terreno eliminando manualmente o con mezzi meccanici i rovi, gli arbusti e gli alberi presenti; • ultimata la pulizia è necessario eseguire uno scasso totale con un mezzo meccanico ad una profondità variabile dai 30 cm (nei terreni sciolti e ghiaiosi) ai 60 cm (nei terreni compatti); lo scasso va effettuato verso la fine dell'estate (mese di settembre) con il terreno in tempera, cioè ne troppo secco ne troppo umido; • dopo lo scasso, se il terreno non è troppo secco, devono essere effettuati alcuni passaggi con l'estirpatore al fine di consentire la raccolta delle radici della piante legnose rimaste interrate; • nei terreni in assenza di piante arboree forestali è sufficiente sostituire lo scasso con una aratura profonda 25-35 cm; • il terreno va poi affinato con ripetuti passaggi con l'erpice a dischi e, così preparato, va lasciato riposare almeno fino alla primavera dell'anno sucessivo; • con il terreno pronto per l'impianto bisogna eseguire la picchettatura, operazione che consiste nel piantare dei paletti alle distanze prestabilite in corrispondenza dei punti in cui le piante andranno poste a dimora. Normalmente le piante micorrizate sono disponibili in vaso oppure in fitocella, provviste cioè di pane di terra. Pertanto l'impianto può essere effettuato in un lasso di tempo molto lungo (cosa che non è possibile invece con le piante a radice nuda). Nelle zone di coltivazione della Liguria è consigliabile effettuare l'impianto in autunno, dal mese di novembre fino alla metà di dicembre. Ciò consente al terreno, durante il periodo invernale, di assestarsi attorno alla zolla delle piante favorendo l'attecchimento che in molti casi sfiora il 100%. Nel trapianto si devono usare attrezzi sterili, nelle vicinanze (una cinquantina di metri) non si devono trovare alberi con micorrize, quindi possono trovarsi piante fruttifere (peschi, susini, ciliegi, albicocchi, peri, meli, non noccioli), ma non querce, castagni, tigli, conifere, pioppi, salici, ontani. Le distanze di impianto variano a seconda della specie arborea, della fertilità del terreno, dell'altitudine e anche della passibilità di irrigazione. L'impianto non comporta grosse difficoltà. Sul terreno reso fine da ripetute passate con l'erpice a dischi e successivamente picchettato, si mettono a dimora le piantine tenendo presenti alcuni accorgimenti: • al momento di sfilare il vaso o la fitocella, si deve mantenere integra la zolla attorno alla radice della pianta (la bagnatura della terra del contenitore prima del trapianto faciliterà il compito). La frantumazione della zolla può compromettere l'attecchimento se il trapianto viene eseguito con piante già in vegetazione; • per la messa a dimora è sufficiente scavare una piccola buca alla giusta profondità; la pianta va posta a dimora alla stessa profondità che aveva nel vaso o nella fitocella; • la zolla della piantina va rincalzata con terra fine cha va poi pressata leggermente con il piede; • ultimata la messa a dimora bisogna dotare ogni piantina di paletto tutore. A questo paletto si deve legare la pianta durante il periodo invernale per proteggerla da eventuali danni provocati dalla neve; • nel caso di impianto in zone che registrano la presenza di lepri e conigli selvatici e necessario proteggere le piante con appositi cilindri di cartone o, meglio ancora, di rete metallica a maglie fini. Le lepri ed altri roditori sono ghiotti della corteccia di pioppo e salice, ma non disdegnano anche le altre specie; • subito dopo la messa a dimora occorre annaffiare localmente e abbondantemente la conca fatta attorno ad ogni singola piantina. L'annaffiatura riesce sempre utile anche per far aderire il terreno alle radici; riesce indispensabile in caso di terreni asciutti e di piante in vegetazione. Nonostante la tendenza sia quella di eseguire degli impianti con una sola specie di pianta ospite, per accelerare l'inizio della raccolta possono essere eseguiti impianti misti con specie che entrano prima m produzione come, ad esempio, il nocciolo e altre a produzione più tardiva come, ad esempio, il leccio e la roverella. Detti impianti possono essere effettuati a file alterne, oppure alternando le specie sulla fila. Durante la preparazione del terreno e all'atto della messa a dimora non devono essere distribuiti, soprattutto a contatto con le radici della piantina, fertilizzanti di qualsiasi genere, sia chimici sia organici. Le pratiche colturali di provata validità che annualmente devono essere riservate alla tartufaia riguardano per ora solo il tartufo nero pregiato. Vediamo quali sono. Le lavorazioni del terreno, consistenti in periodici passaggi di erpice a dischi, hanno lo scopo di eliminare le erbe infestanti, di facilitare l'aerazione del terreno inducendone la compattezza. La profondità delle lavorazioni deve essere di pochi centimetn. Per quanto riguarda il tartufo bianco pregiato, si sta tuttora sperimentando la validità delle suddette lavorazioni del terreno e dell'inerbimento. Per ciò che concerne le cure alle piante ospiti, esse consistono nelle seguenti operazioni: • eliminazione annuale dei polloni, cioè di quei rami che possono svilupparsi a livello del ceppo delle piante ospiti; • eliminazione durante la fase vegetativa di eventuali succhioni, cioè di quei rami che possono svilupparsi sui tronchi delle piante ospiti; • taglio e raccolta dei rami secchi lesionati, rotti dalla neve, attaccati da cancri o da parassiti animali; • trattamenti con zolfo bagnabilc o in polvere sulle piante ospiti che manifestano una particolare sensibilità verso l'oidio come la roverella; • trattamenti per bloccare le infestazioni di insetti defogliatori sulle piante ospiti. Allo 14 scopo vanno impiegati degli insetticidi a bassa tossicità; • controllo ogni due anni di campioni di radice prelevati a caso sulle piante ospiti per verificare la presenza e la continuità della formazione delle micornze. Allo stato delle attuali conoscenze è opportuno infine ricordare che nelle tartufaie coltivate non va praticata alcuna concimazione ne all'impianto ne durante la coltivazione. L'irrigazione riveste un ruolo importante, specialmente nei primi 3-4 anni di vita della tartufaia, quando un arresto della vegetazione può compromettere la formazione delle micornze con un conscguente ritardo dell'entrata in produzione. Sulle tartufaie in produzione è stato inoltre più volte constatato che ad un'estate siccitosa segue una produzione scarsa. Fra le diverse forme di irrigazione è da preferire quella a pioggia eseguita con irrigatori dotati di ugelli che polverizzano abbastanza finemente il getto d'acqua. E' sconsigliata l'irrigazione a goccia perché provoca uno sviluppo dell'apparato radicale troppo in profondità. Bisogna tener presente che specialmente per troppa umidità, troppa sostanza organica (foglie, paglia, erbe secche, letame), abbassamenti del pH, la micornzia di tartufo può essere soppiantata da quella di altri funghi: Scleroderma spp., Pisolithus tinctorius, Cenococcum geophilum, Amanita solitària, A. ovoidea, Boletus satanas, B. luridus. Laccarla laccata, Lactarius piperatus, Russula delica, Cortinianus largus, Astrcus stellatus, Inocybe spp., e numerosi altri. In questi casi bisogna distruggere gli alberi vicini a tali funghi, disinfettare il terreno prima di collocare nuove piantine micorrizzate. Il terreno scelto per l'impianto della tartufaia è bene che prima della aratura presenti alcune di queste piante: pruni, ciliegi, pimpinella, rovi, aceri, viburni, cornioli, sorbi,olmi, sambuchi, biancospini, clematidi, brionia, lupinella, ladino, trifoglio, vulneraria, agrimonia. Però non deve presentare: felci, muschi, ginestre, calluna, erica. Sono da evitare alcune colture intercalari, perché possono produrre allclochemici, sostanze che inibiscono l'accrescimento di vegetali e quindi anche di tartufi. Essi sono rappresentati da aldeidi, chetoni, lattoni insaturi, polichetidi, antrachinoni, chinoni, cumarine, oli essenziali, acido benzoico, anatossine, tricotecem, patulma, griscofulvma, xantofille, ecc. Quindi bisogna evitare la coltura intercalare di: agli, cipolle, cavoli, avena, segale, patate, artemisia, mente, graminacee in genere. Anche la flora microscopica ha influenza (batteri, funghi), ma le nostre conoscenze al riguardo sono ancora preliminari e l'esame relativo è in mano di pochi specialisti. Oggi, dai risultati finora ottenuti, si può arguire che per la produzione tartufigena non è solamente necessaria la micorrizazione specifica, ma probabilmente incide anche il menoma della pianta simbionte, come già indicavano i fratelli Talon. Forse è conveniente micorrizzare piantine ottenute da semi di piante produttrici in natura o meglio la loro clonazione per via vegetativa (talee, micropropagazione) in modo da mantenere inalterati i loro genomi. Quando le conoscenze fisiologiche ed ecologiche della micorrizza dei tartufi saranno più progredite, potremo trarre maggiori ragguagli sulla loro coltivazione. Bibliografìa Ceruti, A. (1990). Evoluzione delle conoscenze biologiche sul genere Tuber. Atti del II Congresso Internazionale sul Tartufo, Spoleto 24-27 novem- bre, 1988:1-16. Chatin, A. (1892). La truffe. Paris. Ciccarello, A. (1564). Opusculum de tuberibus. Patavii Dangeard, P.A. (1894). La truffe: recerches sur son développement, sa structure, sa eproduction sexuelle. Botaniste, 4: 63-87. De Borch, (1780). Lettres sur les truffes du Piémont, Milan. De Bornholz. (1827). La coltivazione dei tartufi. Milano. Dominik, T. (1959). 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Micorriza è una particolare simbiosi che si instaura tra un fungo e le radici di un albero. Il fungo facilita l'assorbimento di elementi nutritivi dal terreno da parte della pianta che a sua volta fornisce al fungo sostanze organiche. Spore unità di propagazione dei funghi.