Tartufi e tartuficoltura

Transcript

Tartufi e tartuficoltura
Tartufi e tartuficoltura
Arturo Ceruti, Anna Fontana, Francesco Meotto, Carolina Nosenzo
Centro di Studi sulla micologia del Terreno del C.N.R.
_________________
Generalità sulla biologia dei tartufi
Il desiderio e l'intenzione di coltivare i tartufi e antichissima. Già il Ciccarello, medico di Bevagna,
nel 1564 pubblicava a Padova un libro dai titolo "Opusculum de tuberibus", primo libro esclusivo sui
funghi con ampie indicazioni bibliografiche, oggi non facilmente reperibili, nel quale illustra alcune
opinioni sulla biologia dei tartufi, alcune ancora oggi valide, e propone un metodo di coltura. Egli era
convinto che i tartufi potessero essere e coltivati, basandosi sulla norma di Pitagora: ogni cosa nata
dalla terra e soggetta alla coltivazione.
Il metodo indicato non era molto dissimile da quello della coltura odierna delle patate. Quindi gli esiti
verosimilmente erano nulli. Dello stesso parere furono successivamente De Borch (1780) e De
Bornholz (1827).
Allora non si supponeva che i tartufi fossero simbionti con gli alberi e neanche si dava importanza
che fossero sempre nelle loro vicinanze. I primi che presero in considerazione gli alberi e
specificatamente le querce furono due contadini della Provenza, Jean e Joseph Talon, che all'inizio del
1800 intrapresero a coltivare piantine di querce ottenute da ghiande raccolte in zone tartufigene. Gli
impianti venivano fatti pure in zone tartufigene. I risultati furono brillanti e permisero ai due cugini di
arricchirsi. La tecnica dei Talon fu integralmente seguita fino verso al 1965 e qua e la proseguita ancora
dopo. Per un secolo e mezzo la coltura si fece molto empiricamente, ma con buoni risultati
specialmente in Francia. Con l'ampliarsi delle conoscenze sulla biologia dei funghi si copri, dalla fine
del 1800, che molti di essi vivono in strette relazioni con alcune piante superiori (simbiosi
micorriziche).
Ora più nessuno dubita sulla simbiosi dei tartufi. Quindi per coltivare i tartufi bisogna coltivare gli
alberi, per lo meno fino a quando non conosceremo tutte le sostanze che l'albero tornisce al fungo.
Allora, forse potremo coltivare in vitro e in fabbriche i tartufi. Per ora sappiamo clic la pianta secerne
attraverso le radici numerose sostanze. Tra queste zuccheri, acidi organici, aminoacidi, mucillagini
probabi1mente alcune con la capacita di sollecitare la germinazione delle spore.
Infatti abbastanza frequentemente si trovano spore in germinazione sulle radici. Probabilmente alcune
sostanze della secrezione servono per l'attrazione delle ife sulle cellule radicali e nei territori
intercellulari periferici. Queste formano la micoclena e il reticolo di Hartig. Le cellule della radice,
completamente avvolte dal reticolo di Hartig, rimangono isolate fra loro e muoiono. Il fungo ne prende
le funzioni di trasporto delle soluzioni assorbite dal terreno. La penetrazione del fungo tra le pareti
cellulari delle radici avviene per la produzione di enzimi (pectinasi). Il fungo assorbe dal terreno,
acqua, ioni, sali, tra cui nitrati, fosfati, potassio, magnesio, che cede alle correnti idriche della pianta
(linfe vegetali). La pianta quindi viene facilitata nell'assorbimento delle sostanze minerali necessarie.
Infatti il fungo con il suo micelio può esplorare superfici di terreno molto più estese di quelle
esplorabili dalle radici. Il fungo poi solubilizza molti fosfati del terreno e stacca perfino i fosfati dagli
acidi nucleici , dai ghcofosfati, dalle lecitine e da altri composti ancora. In tal modo la pianta può
arricchirsi di ioni minerali indispensabili alla sua vita.
E' stato accertato che con la micorrizazione l'assorbimento dei fosfati è di 10 volte superiore, e forse
anche dei nitrati (N03). Questi per il 95% vengono ridotti ad azoto ammoniacale (NH3) nelle foglie dal
processo fotosintetico, utilizzando energia solare. Parte di questo azoto ridotto viene probabilmente
ceduto al fungo, che per ottenerlo dovrebbe consumare troppe sostanze organiche. Nel processo
fotosintetico, oltre a zuccheri, aminoacidi si sintezzano notevoli quantità di sostanze ricche di energia,
come ATP, NADPH, le quali migrano sicuramente fino alle radici e noi supponiamo anche alle
micorrize. Quindi il fungo e la pianta vengono a costituire un organismo unico, e diventano
interdipendenti, con strutture proprie (micorrize), metabolismi nuovi e sintesi anche di proteine nuove.
Inoltre il fungo congiunge più alberi fra loro, tra i quali si possono instaurare scambi nutritizi.
La coltura dell'albero è quindi essenziale. Bisogna coltivarlo nelle migliori condizioni fisiologiche,
specialmente per quanto riguarda la fotosintesi, in modo che possieda una buona micorrizazione e sia
capace di fornire il fungo di quelle sostanze che questo non più sintetizzare o che può sintetizzare con
molto dispendio. Nella storia della coltivazione dei tartufi, si possono distinguere quattro epoche
(Ceruti,1988).
La prima va fino a Talon (circa 1800): si compiono tentativi di coltura diretta con risultati certamente
nulli sebbene decantati dagli autori (Ciccarello. 1564; De Borch, 1780; De Bornholz, 1827).
La seconda epoca (epoca di Talon) giunge fin verso il 1965 ed è tipicamente empirica, con buoni
risultati specialmente in Francia. Si coltivano piante notoriamente tartufigene su terreni notoriamente
tartufigeni (Rousseau,1866; Chatin, 1862; Mattirolo, 1908, 1928).
La terza epoca parte dal 1965 e giunge fin verso il 1985: presso il Centro di Studio sulla Micologia
del Terreno si susseguono indagini che via via chiariscono molti aspetti della biologia di questi funghi
ed in seguito permettono l'applicazione di tecniche per la tartuficoltura non più empiriche, ma basate su
conoscenze scientifiche.
La quarta epoca è quella attuale. In questa l'obiettivo sarà di mantenere in campo la micorrizazione
specifica delle piantine messe a dimora dopo gli accurati controlli sulla qualità e quantità delle loro
micorrize, e di promuovere le condizioni per la formazione degli ascocarpi.
Purtroppo fino ad ora si sa molto poco sul meccanismo di formazione dei corpi fruttiferi. Abbozzi
tubercolari si formano in gran numero, come è stato dimostrato da Montani et al. (1983) già nel mese di
maggio (per il tartufo nero, probabilmente anche per quello bianco), dapprima senza aschi. Molti di
questi primordi rapidamente degenerano.
1 - Spore di tipo aculeate.
Per la loro trasformazione in veri
carpofori occorrono almeno 40-80 giorni
e più. Quindi è verosimile che vi siano
produzioni di primordi anche dopo il
mese di maggio. Gli ascocarpi già alla
grandezza di 1mm. presentano vene
sterili e vene fertili e talora anche aschi.
L'albero di scelta per il tartufo bianco
(Tuber magnatum) dovrebbe essere uno
dei seguenti: tiglio (Tilia europaea),
querce nostrane (Quercus pubescens, Q.
peduncolata, Q. sessiliflora, Q. cerris),
pioppi nostrani (Populus tremula, P.
alba, P. nigra, P. pyramidalis), salici
(Salix alba, S. caprea, S. viminalis),
carpino nero (Ostrya carpinifolia),
nocciolo (Corylus avellana). Per il tartufo nero (T. melanosporum) gli alberi di scelta dovrebbero essere
principalmente querce nostrane (Quercus pubescens, Q. ilex, Q. cerris), nocciolo (Corylus avellana),
carpino nero (Ostrya carpimfolia). La coltivazione di piantine inoculate con la specie desiderata viene
effettuata normalmente inserra, in contenitori singoli e multipli. Tra i molti problemi che via via si
presentano, senza dubbio quello che più deve preoccupare è la comparsa di funghi dannosi. Anche se
l'inoculo viene effettuato su piantine e terreno sterilizzati, l'ambiente, se non idoneo, consente
l'instaurarsi di micorrize di specie inquinanti precedentemente o contemporaneamente a quelle del
tartufo. Un esempio è la Sphaerosporella brunnea, un fungo segnalato micorrizico solo nel 1981, che in
ambiente di serra provoca la scomparsa delle micorrize di T. magnatum (Mcotto e Carraturo, 1987-88).
Come è possibile però rilevare in natura, molto spesso non c'è competitività tra le diverse specie
fungine (abbiamo trovato 11 tipi di micorrize, di altrettante specie di funghi, su una sola quercia sotto
la quale vengono raccolti magnifici esemplari di tartufo bianco pregiato), poiché in condizioni naturali,
avviene una selezione spontanea. Comunque è indispensabile agire con grande cautela ed effettuare
severi controlli prima di introdurre in ambienti naturali micorrize che potrebbero seriamente
danneggiare le tartufaie naturali o non fornire raccolto in quelle di nuovo impianto. Un fatto certo è
che, data la somiglianza tra le diverse micorrize, oggi si trovano sul mercato, spesso a prezzi
esorbitanti, al posto di piantine idonee per la coltivazione di tartufi pregiati, piante con micorrize
estranee o anche con quelle di tartufi di scarso valore commerciale. Va ancora rilevato che nella legge
nazionale n. 752 del 1985 non esiste alcuna normativa m merito ad un serio controllo delle piantine
tartufigene prima della loro diffusione nei territori vocati.
Le specie di tartufi
La raccolta ed il consumo dei tartufi, corpi fruttiferi di funghi che vivono per lo più sotto la superficie
del terreno, risalgono a tempi antichi: sembra che alcuni di essi, le Terfezie, fossero già noti ai
Babilonesi. I tartufi sono funghi senza alcun dubbio, appartenenti ali' ordine Tuberales, ma non in tutte
le epoche essi furono riconosciuti come tali.
E' vero che Teofrasto (372-287a.C.) già li considerava vegetali, ma Dioscoride sosteneva che fossero
radici, Plutarco li considerava misteriosi prodotti della terra e Plinio miracoli della natura. Vi fu anche
chi sostenne che i tartufi fossero organi di riproduzione degli insetti e chi li riportò perfino al regno
minerale.
Il primo autore che sicuramente 2 - Spore di tipo reticolate-alveolate con ampia reticolatura
riportò i Tuber ai vegetali fu
Geoffroy nel 1711, ma il primo
forse a porre i tartufi fra i funghi fu
Ciccarcllo nel suo Opuscupum de
tuberibus del 1564.
Il Micheli, in Nova plantarum
genera (1729), per primo diede un'
ottima descrizione del genere Tuber
mettendo in evidenza le vene e
perfino le spore, da lui chiamate
semina. Egli distinse però solo due
tartufi neri, dei quali uno è l'attuale
T. melanosporum Vitt. e l'altro
probabilmente T. aestivum Vitt.
Risulta quindi che fino al 1700, nel
mondo scientifico il tartufo bianco,
uno dei tartufi più pregiati, non era ancora conosciuto. Il tartufo bianco degli antichi non era certo T.
magnatum Fico. Per i Greci e i Romani erano le Terfezie delle regioni circummmediterranee,
specialmente dell'Asia minore e dell'Africa settentrionale, e così pure per il Medioevo erano le Terfezie
dell'Italia centrale ed insulare. Il tartufo bianco, nel senso di T. magnatum era certamente noto nel
Regno Sardo, infatti alla corte piemontese era oggetto di dono a principi e rè, ma comparve per la
prima volta in un documento solo nel 1780 (De Borch).
Pochi anni dopo, il medico
piemontese Vittorio Pico ( o più
probabilmente Picco ) pubblicò
la sua tesi di laurea (Melethemata
inauguralia) m cui descrisse e,
per la prima volta, impose un
nome scientifico al tartufo bianco
redigendone la diagnosi. Su
questa diagnosi latina, anche se
assai incompleta, si basa la
denominazione di T. magnatum.
La specie fu poi accuratamente
studiata da Carlo Vittadini che è
da considerarsi il fondatore
dell'idnologia, cioè di quel ramo
della micologia che si occupa dei
funghi ipogei. La pubblicazione
della meravigliosa Monografia 3 - Spore di tipo reticolate-alveolate con fitta reticolatura
Tuberacearum del Vittadini risale
al 1831: in essa sono descritte per la prima volta ben 67 funghi ipogei con diagnosi e figure superbe a
colori, fra i quali 20 Tuberali. Successivamente, nel 1800, appaiono opere di notevole interesse per la
conoscenza di questi funghi, quali i Fungi Hypogaei dei fratelli Tulasne del 1851 e la Truffe di Chatin
del 1892.
I tartufi sono funghi appartenenti alla classe degli Ascomiceti poiché le loro spore sono contenute in
sacchi sferoidali, detti appunto aschi, i
quali sono disposti all'interno del loro
corpo fruttifero.
Questo è in genere e forma sferica,
globosa o tuberiforme e presenta
all'esterne una corteccia, il pendio, molte
sviluppato, di varia struttura e di vario
colore, con una superficie che può variare
da assolutamente liscia, a finemente
papillosa e granulosa, o da finemente
verrucosa a verruche molto vistose
piramidali e anche fortcmenu sporgenti e
larghe parecchi millimetri. L'aspetto della
superficie del peridio si rivela molto
importante per distinguere le specie. I
4 - Carpofori di Tuber magnatum.
corpi fruttiferi dei tartufi hanno dimensione
varia, seconda delle specie, dalla grandezza
di una nocciola a quella d’una noce, ma parecchie specie tra le più interessanti come commestibili,
possono raggiungere 15 cm di diametro.
L'interno del pendio la polpa i gleba dei
Tuber presenta nume rose vene chiare
con ife sterili vene che seguono le linee
di sviluppo delle spore che si colorano
con la maturazione. In questi sistema di
vene si trovano gli aschi che nei Tuber
sono sempre globosi, in grandissimo
numero,e disposti in modo disordinato.
Le spore sono contenute in essi in
numero variabile da 1 a più (fino a 8) per
ciascun asco, e presentano eleganti
ornamentazioni che possono essere di
due tipi aculeate (fig. 1), ossia costituiti
da spine lunghe, sottili o grossi acute od
ottuse; oppure reticolate-alveolate (fig. 2
5 - Carpofori di Tuber melanosporum.
e 3) costituti da alveoli adiacenti,
poligonali tondeggianti, separati fra loro da setti.
I caratteri degli aschi e delle spore sono molto importanti per la determinazione delle specie di
tartufi e ovviamente si possono osservare solo con l'aiuto del microscopio. Colore ed odore del corpo
fruttifero sono caratteri secondari dal punto di vista della determinazione sistematica, ma hanno
pure essi una certa importanza. Quindi m base ai vari caratteri del corpo fruttifero di questi funghi, cioè
al colore e all'aspetto, alla dimensione, all'odore di tutto il fungo, alla struttura del peridio, alla
morfologia delle vene nella geba, alla forma, dimensioni, colore ed ornamentazioni delle spore, gli
specialisti distinguono le varie specie.
La specie, come abbiamo già visto è indicata con un binomio in latino (il primo nome corrisponde al
genere, il secondo alla specie) seguito dal nome dell'autore che per primo l'ha descritta. Ad esempio:
Tuber melanosporum Vittadini, Tuber magnatum Pico. Il numero delle specie di tartufi m senso stretto,
cioè dei funghi ipogei riferiti al genere Tuber, è elevato e siamo ben lontani dal poterlo definire con
certezza a causa, sia delle specie che sono descritte con nomi diversi, ma che in realtà appartengono
ad una sola specie, sia della probabile presenza di nuove specie non ancora raccolte, e quindi
ancora sconosciute, in continenti quali quello asiatico ed africano nei quali le indagini sugli ipogei non
sono state molto approfondite, sia per il passaggio al genere Tuber di specie dapprima sistemate in altri
generi come ad esempio, Delastrcopsis
oligosperma Mattirolo che diverrebbe Tuber
oligospermum (Tul. et Tul.) Trappe, cosa del
resto ancora in discussione fra gli specialisti.
Presso l'Erbario del Dipartimento di Biologia
Vegetale dell'Università di Torino esiste
l'Erbario Mattiroliano delle Tuberali, cioè la
collezione di esemplari essiccati dei funghi
ipogei appartenenti alle Tuberali raccolta da
Oreste Mattirolo (direttore dell'Orto Botanico di
Tonno dalla fine del secolo scorso fino al 1932),
che fu il più famoso idnologo italiano dopo il
Vittadini. Nella sua collezione sono presenti ben
64 specie di Tuber. Gli essicata di molte di
queste specie sono esemplari degli autori che le 6 - Carpofori di Tuber brumale
hanno descritte, detti autoptici. Fatto questo che
rende peculiare ed importante la suddetta collezione accolta dal Mattirolo grazie alle sue conoscenze, a
livello italiano ed internazionale, di esperti e raccoglitori di ipogei che gli inviavano i campioni.
Molte specie di Tuber infatti hanno una distribuzione assai ampia in quasi tutta l'Europa ed in altri
continenti, come ad esempio Tuber borchii Vitt., altre hanno distribuzione limitata in un solo
continente come ad esempio Tuber melanosporum Vitt., in Europa, infine alcune che si ritrovano in
zone assai ristrette di un continente e mai
altrove. Per quest'ultimo caso, a tutti è noto il
Tuber
magnatum Pico, che si trova
esclusivamente in Italia, in Istria e in Canton
Ticino, oppure Tuber argentinum Spegazzini
dell'America meridionale, Tuber gibbosum
Harkness dell'America settentrionale, Tuber
indicum Cooke et Massee per l'Asia (Cina e
Himalaya).
Ed ora passiamo ad esaminare alcune delle
specie di tartufo a noi più note perché più
comuni in Italia o perché elencate nelle leggi,
nazionale e regionali, relative alla loro raccolta.
Nella regione Liguria oltre al tartufo bianco
7 - Carpofori di Tuber aestivum.
pregiato (T. magnatum) la cui presenza è imitata
alla Val Bormida, le specie più abbondantemente raccolte sono: T. melanosporum, T. brumale e T.
aestivum (fig. 4, 5, 6, 7).
Tuber magnatum Pico, tartufo bianco pregiato (o tartufo bianco del Piemonte o di Alba o tartufo
bianco di Acqualagna). Si raccoglie nel Centro-Nord d'Italia e nell'Istria con segnalazione in passato
per il Canton Ticino. In Liguria è segnalato solo per la Val Bormida. Si trova nella tarda estate, in
autunno e all'inizio dell'inverno sotto querce, tigli, salici e pioppi in terreni con umidità abbastanza
elevata anche nel periodo estivo. Ha forma globosa, spesso anche molto appiattita ed irregolare con
peridio giallo pallido od ocraceo con chiazze rossobrune, liscio. La gleba, percorsa da molte vene
bianche molto ramificate, varia dal colore latte al roseo intenso con sfumature brune. Le spore sono di
tipo reticolate-alveolate ad alveoli grandi. Raggiunge anche le dimensioni di una grossa mela e ogni
anno vengono raccolti pochi esemplari che possono raggiungere e superare il chilogrammo. Il suo
sapore e profumo particolare lo fanno considerare
il più pregiato fra tutti i tartufi e apprezzare in
tutto il mondo. Viene consumato crudo.
Tuber melanosporum Vitt., tartufo nero pregiato
(o tartufo nero di Norcia o di Spoleto o truffe noire
du Perigord) (fig. 8). Molto diffuso in Francia nel
Sud, Sud-Ovest ma anche ad Lst, si trova nel
CentroNord dell'Italia, in Spagna e in qualche
paese dell'Est. Viene raccolto in alcune località
della Liguria durante tutto il periodo invernale ed
in modo particolare nei primi mesi dell'anno sotto
querce, noccioli e carpini neri. Ha forma globosa,
alle volte lobato, con pendio bruno nero a verruche
appressate incavate all'apice e canalicolate 8 - Piante di roverelle che producono Tuber
longitudinalmente. La gleba è di colore melanosporum. Da notare la tipica area
nerorossastro solcata da venature bianche sottili e bruciata prodotta dal tartufo.
molto ramificate. Le spore sono di tipo aculeato con
spinule corte. La sua dimensione raggiunge e può superare quella di una grossa mela. Il suo specifico
sapore ed il suo aromatico profumo lo rendono molto apprezzato m cucina dove
è considerato il migliore e quindi il più pregiato fra i tartufi neri. Viene consumato preferibilmente
dopo breve cottura.
Tuber brumale Vitt., tartufo nero d'inverno o trifola nera. Molto diffuso in Europa, e comune in molte
località liguri. E' reperibile in autunno e all'inizio dell'inverno sotto querce, noccioli e pini. Ha forma
solitamente globosa o poco lobata, con peridio nero o ferrugineo-scuro a verruche ben evidenti,
incavate all'apice e solcate longitudinalmente. La gleba è di color bruno scuro o grigionerastro con
ampie venature bianche. Le spore sono di color ocra-chiaro, ellittiche, spinulate, con spinule sottili e
acute. La sua dimensione può raggiungere o superare quella di un uovo di gallina. Il profumo ed il
sapore sono più o meno forti, ma gradevoli cosicché viene consumato pur essendo molto meno
apprezzato del T. melanosporum con il quale viene spesso confuso.
Tuber aestivum Vitt., tartufo d'estate o scorzone. Il più diffuso per la sua adattabilità a tipi diversi di
terreni, in Liguria si può trovare tutto l'anno anche in discrete quantità, a parte un breve periodo
primaverile. Si raccoglie sotto querce, noccioli, tigli, pioppi e pini. Ha forma solitamente globosa o
poco lobata, con peridio nero a verruche piramidali striate trasversalmente, ben evidenti. La gleba
sempre chiara, varia dal colore roseo al bruno chiaro ed è solcata da numerose vene bianche. Le spore
sono di color chiaro reticolate-alveolate. Gli esemplari più grossi possono raggiungere la dimensione di
una mela. Il profumo è leggero, aromatico e gradevole. Data la sua abbondanza non raggiunge mai i
prezzi del nero più pregiato.
Tuber borchii Vitt. (=Tuber albidum Pico), bianchetto. Scarsamente reperibile in Liguria. Si trova
tutto l'anno, ma la maggiore frequenza di ritrovamenti avviene nei mesi di gennaio, febbraio e marzo,
sotto pini, querce, noccioli e pioppi. Ha forma globosa, ma spesso anche appiattita e molto irregolare
con peridio giallo pallido o grigio pallido o anche ocraceo con chiazze rosso-brune, liscio o con una
finissima peluria negli esemplari più giovani. La gleba vana dal carnicino pallido al rosso-bruno ed è
percorsa da numerose venature chiare, molto ramificate. Le spore sono reticolate-alveolate ad alveoli
piccoli. Può raggiungere la dimensione di un grosso uovo di gallina, ma più facilmente ha dimensioni
di una noce o di una nocciola. Il suo odore agliaceo e alle volte pesante a maturità, non lo inserisce fra
le specie più pregiate, anche se viene commerciato e anche servito in tavola al posto del T. magnatum
suo parente più rinomato. Può essere confuso con il T. maculatum Vitt. che ha un profumo peculiare e
spore molto simili e con il T. foetidum Vitt. che emana un forte odore nauseante.
Tuber macrosporum Vitt. tartufo nero liscio. In Liguria è presente solo in Val Bormida. Si trova nel
periodo autunnale sotto querce, pioppi e salici. Ha forma globosa, gibbosa, spesso lobata, con peridio
nero-ferrugineo che presenta piccole verruche difformi. La gleba bruno-rosata è percorsa da numerose
vene di color grigio chiaro. Le spore sono di grandi dimensioni, bruno-scure, reticolate, ellissoidali.
Raramente raggiunge le dimensioni di un uovo di gallina. Ha un profumo ed un sapore che molto volte
ricorda quello di T. magnatum e, proprio per questo è apprezzato dai buongustai, anche se i raccoglitori
non lo valutano adeguatamente.
Tuber mesentericum Vitt., tartufo di Bagnoli. Talvolta si trova anche in Liguria, ma è un tartufo,
compreso fra quelli elencati nella legge nazionale, che si raccoglie al Sud. E' una delle specie più
comuni dell'Italia meridionale; frequente anche al Centro e, un po' meno anche al Nord. Matura da
inizio autunno a inizio primavera e si trova sotto querce, faggi, betulle, noccioli, carpini e pino nero. Ha
forma tendenzialmente globosa, ma con una base fortemente depressa, spesso con addirittura una
evidente e profonda cavità. Peridio con verruche fitte, piuttosto piccole, acute o appianate, di colore
nero, talora con sfumature azzurrastre. La gleba dapprima grigio-brunastra poi grigio-bruna scura a
maturità, è percorsa da numerose vene bianche con andamento a circonvoluzioni (come l'intestino, il
che ne ha ispirato il nome specifico). Le spore sono ovate, reticolate-alveolate con reticolo che nella
spora matura è interrotto ed m seguito un po' aristato. E' grande come una noce o, al massimo, come un
uovo di gallina (mediamente 5-6 cm). Il suo profumo è molto forte, variabile, ma il più delle volte
sgradevole, che ricorda l'acido fenico. Il gusto è tenue e amarognolo, normalmente non molto
gradevole. Nel territorio ligure si possono trovare anche T. rufum Pico (rossetto), T. nitidum Vitt., T.
ferrugineum Vitt., T. maculatum Vitt. T. foetidum Vitt., T. exavatum Vitt. e T. puberulum Berkeley
et Broome, tartufi di nessun valore culinario o commerciale. Alcuni vengono raccolti per
l'addestramento dei cani.
Molte specie hanno caratteri ben evidenti, fra quelli che abbiamo elencato come necessari alla loro
identificazione; alcune invece presentano caratteri assai simili che possono far sorgere dubbi sulla loro
identità. Il problema del riconoscimento di specie con caratteri morfologici simili, sono stati affrontati
nel Centro di Studio sulla Micologia del Terreno-C.N.R. con metodologie basate sull'analisi del DNA.
Con queste tecniche abbiamo oggi la possibilità di discriminare bene i corpi fruttiferi: nei gel ottenuti si
vedono delle bande molto specifiche, ognuna della quali con una sua precisa posizione per ciascun
tartufo,, quindi m casi dubbi a livello morfologico ora si può ricorrere a questo metodo.
Le micorrize dei tartufi Tutti i funghi, in base al loro modo di assorbire le sostanze nutritizie,
vengono suddivisi in tré grandi gruppi: saprofiti, parassiti e simbionti. I primi due comprendono funghi
che, come il prataiolo (Agaricus sp.) o i geloni (Pleurotus ostreatus) si nutrono di sostanze organiche in
decomposizione o che, come la famigliola (Armillariella mellea), traggono il loro nutrimento da piante
vive. Il gruppo di funghi che ha maggiore interesse gastronomico è senza dubbio quello dei simbionti.
A questo gruppo appartengono ad esempio, il fungo reale (Amanita caesarea), il porcino (Boletus
edulis) e anche i tartufi pregiati (Tuber sp.).
.
8 - Micorrize di Tuber melanosporum
viste con il microscopio stereoscopico
9 - Micorriza di Tuber melanosporum vista, al
microscopio ottico: superficie della micoclena.
Questi funghi, per compiere il loro ciclo vitale e formare quindi i corpi fruttiferi, hanno la necessita di
convivere e ricevere sostanze (per lo più idrati di carbonio) da una pianta quasi sempre arborea la quale
ottiene in cambio principalmente acqua e sali minerali. Questa stretta relazione assunta da molti funghi
con alcune piante superiori, fu dimostrata per la prima volta da Giuseppe Gibelli (1879, 1882, 1883)
dell'Istituto Botanico dell'Università di Torino. Egli descrisse e figurò con numerosi dettagli il
complesso strutturale formato da ite di funghi e gli apici radicali del castagno. Nel 1885 il tedesco
Frank dimostrò che alcuni funghi sono strettamente legati alle radici degli alberi, mediante formazioni
a cui diede il nome di micorrize (dal greco mukhx : fungo e riza : radice). Da allora, soprattutto presso
l'Istituto Botanico di Torino e il Centro di Studio sulla Micologia del Terreno (C.S.M.T.) del C.N.R.,
sorto nel 1951, sono proseguiti gli studi sull'anatomia, morfologia, fisiologia, ecologia ed applicazione
pratica delle micorrize.
Dalla fine del 1800 e fino al 1932, Oreste Mattirolo, allievo del Gibelli, si occupò in modo particolare
di funghi ipogei mettendo m evidenza le relazioni micorriziche in particolare tra Tuberaceae e
piante superiori con interessanti osservazioni anatomiche e biologiche. Nel 1894 Dangeard, amico di
Mattirolo, descrisse per la prima volta micorrize appartenenti al genere Tuber: in particolare micorrize
di T. melanosporum con Quercus pubescens prelevate in natura. Però la descrizione di micorrize di
Tuber ritrovate in natura non era sufficiente a dimostrare sperimentalmente la simbiosi micorrizica di
questi funghi ipogei. Solo a partire dal 1967 le micorrize di numerose specie di tartufi sono state
ottenute per mezzo di sintesi in condizioni controllate. La prima sintesi micorrizica con Tuber è stata
realizzata presso il C.S.M.T. di Torino su Pinus strobus con T. maculatum (Fontana,1967) e produsse
micorrize simili a quelle precedentemente osservate in natura; inoltre portò anche, per la prima
volta, alla formazione di tartufi sviluppati direttamente da micorrize ottenute con inoculo di spore su
semenzali sterili (Passi e Fontana, 1967,1969). In seguito si ottennero, sempre in ambiente controllato e
con diverse specie arboree, le prime micorrize per molte specie di Tuber, tra le quali quelle più
pregiate: T. aestivum, T. brumale, T. melanosporum, T. albidum, T. mesentericum, T. magnatum e T.
macrosporum. Le micorrize sono formate da un manicotto di ife intrecciate (micoclena) che avvolgono
ogni singola radichetta e penetrando tra le cellule del parenchima corticale, formano il reticolo di
Hartig. Qui, attraverso le pareti cellulari, avviene lo scambio di sostanze nutritizie. Da questo
punto di incontro tra la pianta e il fungo, cioè dalla micorriza, si diparte il micelio che assorbirà i
sali minerali dal terreno e che formerà a tempo opportuno i corpi fruttiferi indispensabili per
la formazione delle spore. Quest'ultime, germinando, danno origine ad un micelio che sarà in grado,
unendosi con gli apici delle radici, di formare nuove micorrize. La forma, le dimensioni e le
ramificazioni delle micorrize, sono in buona parte determinate dall'albero simbionte e meno
dall'ambiente, mentre i caratteri microscopici sono dipendenti dalla specie fungina. Il reticolo di Hartig
può penetrare più o meno profondamente tra le cellule del parenchima corticale, a seconda della pianta
ospite e del fungo.
10 - Micornza di Tuber
melanosporum
vista
al
microscopio ottico: particolare
dellespinule.
L'identificazione della specie
fungina attraverso l'esame dei
caratteri anatomo-morfologici
delle micorrize, pur presentando
mille difficoltà, è possibile.
Nell'ambito del genere Tuber,
esistono dei caratteri macro e
microscopici che permettono la
determinazione della specie.
Recentemente,
sulla rivista
"L'Informatore Agrario", è stato
presentato un nostro lavoro sulle caratteristiche morfologiche differenziali delle principali specie del
genere Tuber (Meotto et al, 1995).
Le osservazioni sono state effettuate esclusivamente su materiale fresco prelevato sia in natura, sia da
piantine inoculate e coltivate in serra in ambiente semi sterile. I campioni di radici sono stati esaminati
dapprima al microscopio stereoscopico per l'osservazione dei caratteri macroscopici e successivamente
al microscopio ottico.
Per la descrizione delle micorrize sono stati presi in considerazione i seguenti caratteri: colore delle
micorrize, forma e disposizione delle cellule della superficie della micoclena; colore, forma, lunghezza,
diametro di base, tipo di ramificazione di strutture itali che dipartono dalla micoclena (spinule).
Le micorrize delle specie di Tuber prelevate in natura non hanno presentato aspetti morfologici
diversi da quelle ottenute per sintesi in ambiente controllato. Le micorrize di T. magnatum sono di
color ambra più o meno intenso con minore pigmentazione nella parte distale, presentano le cellule
della micoclena molto sinuose, ad incavi molto profondi almeno nella parte mediana della micorriza.
Le spinule sono mediamente lunghe 80 mm, con apice per lo più appuntito e con diametro di base che
vana da 2 a 3,5 mm, mai ramificate. Le micorrize di T. melanosporum sono di color ambra molto
intenso con minore pigmentazione nella parte distale, presentano le cellule della micoclena sinuose, ad
incavi profondi spesso disposte con il diametro maggiore secondo la lunghezza della micorriza. Le
spinule sono di lunghezza mediamente superiore ai 200 mm, con diametro alla base che varia da 3 a 4
mm spesso hanno ramificazioni a angolo retto (Figg. 8-9-10). Le micorrize di T. brumale sono di
colore simile a quelle di melanosporum, presentano I cellule della micoclena più meno sinuose e
raramente a incavi profondi. Le spinule sono mediamente lunghe 90 mm, con diametro alla base che
varia da a 5 mm e mai ramificate. Le micorrize di T.acstivum son di color ambra intenso più pali de
all'apice, presentano le cellula della micoclena di aspetto poliedrico. Le spinule sono lunghe di
lunghezza mediamente superiore ai 400 mm e con diametro al base che vana da 2,2 a 3,5 mm. molto
ondulate, spesso circonvolute e mai ramificate.
Le micorrize appartenenti a queste tre specie di Tuber risultano quindi facilmente distinguibili
soprattutto per i caratteri del spinule; infatti le micorrize di ' brumale si presentano corte tozze, quelle di
T. elanosporum lunghe e con ramificazioni ad angolo retto mentre quelle i T.aestivum molto ondulate.
Occorre però sottolineare ci per effettuare l'esame al microscopio ottico delle micorrize rende
necessario un idoneo prelievo in base al giusto grado sviluppo rilevabile solo con 1'esperienza e
mediante l'uso d microscopio stereoscopico.
Inoltre la determinazione del diverse specie di Tuber in base alla caratterizzazione delle micorrize può
essere effettuata soltanto da chi ha una adeguata preparazione tecnica specifica. Le scarse o nulle
produzioni delle tartufaie coltivate, registrate anche in impianti di oltre dieci anni, spesso sono da
attribuire ad un errato esame delle piantine tartufigene utilizzate e messe a dimora, dovuto alla scarsa
conoscenza dei caratteri che contraddistinguono le micorrize. Inoltre per il controllo di piantine
tartufigene è indispensabile, prima della messa a dimora (Meotto,1989), prendere in considerazione
tutto l'intero apparato radicale, in quanto potrebbero essere presenti micorrize di funghi indesiderati
(Meotto e Carraturo, 1987-88) o di specie di Tubcr di scarso valore commerciale.
Tuttavia, anche la descrizione morfologica più accurata non copre tutti i molteplici aspetti assunti dai
Tuber quando entrano m simbiosi con le piante ospiti. L'identificazione su base morfologica può
pertanto trarre vantaggio dall'integrazione di dati basati sull'uso di tecniche molecolari che si avvalgono
soprattutto dell'uso della PCR (amplificazione del DNA). Nel laboratorio del C.S.M.T. il gruppo che
lavora con queste tecniche e in grado di distinguere corpi fruttiferi e micorrize, anche appartenenti a
specie molto vicine morfologicamente, sulla base dei loro "fingerprint" di DNA.
In conclusione, anche tenendo conto delle metodologie più recenti, l'analisi morfologica continua ad
essere l'indispensabile punto di partenza per l'identificazione delle micor
La coltivazione dei tartufi
Come è già stato pubblicato sulla rivista "Vita in campagna" (Meotto e Bassi, 1994) per la
coltivazione dei tartufi e consigliabile e opportuno che la tartufaia venga impostata in una zona che, per
la presenza di tartufi allo stato spontaneo, denoti la sua idoneità alla coltivazione del tartufo stesso e
che il terreno sia tale da consentirne la produzione. L'esposizione della zona prescelta per l'impianto
deve essere scelta in base alle esigenze della specie. Le specie di tartufo più pregiate, per le quali è
raccomandabile la coltivazione in Liguria, sono Tuber melanosporum, T. aestivum, T. brumale e T.
magnatum (quest'ultimo solo in Val Bormida). Considerate le particolari esigenze delle specie è sempre
opportuno, prima di iniziare la preparazione del terreno, farlo analizzare. Se i risultati dell'analisi sono
tali da soddisfare le esigenze della specie di tartufo prescelta, si procede alla preparazione del terreno
tenendo presente i seguenti accorgimenti:
• evitare di scegliere un terreno che sia stato oggetto di ripetuti diserbi e concimazioni chimiche,
oppure concimato con le deiezioni provenienti da grossi allevamenti industriali;
• qualora siano presenti delle piante, eseguire la pulizia completa del terreno eliminando
manualmente o con mezzi meccanici i rovi, gli arbusti e gli alberi presenti;
• ultimata la pulizia è necessario eseguire uno scasso totale con un mezzo meccanico ad una
profondità variabile dai 30 cm (nei terreni sciolti e ghiaiosi) ai 60 cm (nei terreni compatti); lo scasso
va effettuato verso la fine dell'estate (mese di settembre) con il terreno in tempera, cioè ne troppo secco
ne troppo umido;
• dopo lo scasso, se il terreno non è troppo secco, devono essere effettuati alcuni passaggi con
l'estirpatore al fine di consentire la raccolta delle radici della piante legnose rimaste interrate;
• nei terreni in assenza di piante arboree forestali è sufficiente sostituire lo scasso con una aratura
profonda 25-35 cm;
• il terreno va poi affinato con ripetuti passaggi con l'erpice a dischi e, così preparato, va lasciato
riposare almeno fino alla primavera dell'anno sucessivo;
• con il terreno pronto per l'impianto bisogna eseguire la picchettatura, operazione che consiste nel
piantare dei paletti alle distanze prestabilite in corrispondenza dei punti in cui le piante andranno poste
a dimora.
Normalmente le piante micorrizate sono disponibili in vaso oppure in fitocella, provviste cioè di pane
di terra. Pertanto l'impianto può essere effettuato in un lasso di tempo molto lungo (cosa che non è
possibile invece con le piante a radice nuda). Nelle zone di coltivazione della Liguria è consigliabile
effettuare l'impianto in autunno, dal mese di novembre fino alla metà di dicembre. Ciò consente al
terreno, durante il periodo invernale, di assestarsi attorno alla zolla delle piante favorendo
l'attecchimento che in molti casi sfiora il 100%. Nel trapianto si devono usare attrezzi sterili, nelle
vicinanze (una cinquantina di metri) non si devono trovare alberi con micorrize, quindi possono
trovarsi piante fruttifere (peschi, susini, ciliegi, albicocchi, peri, meli, non noccioli), ma non querce,
castagni, tigli, conifere, pioppi, salici, ontani. Le distanze di impianto variano a seconda della specie
arborea, della fertilità del terreno, dell'altitudine e anche della passibilità di irrigazione. L'impianto non
comporta grosse difficoltà.
Sul terreno reso fine da ripetute passate con l'erpice a dischi e successivamente picchettato, si mettono
a dimora le piantine tenendo presenti alcuni accorgimenti:
•
al momento di sfilare il vaso o la fitocella, si deve mantenere integra la zolla attorno alla radice
della pianta (la bagnatura della terra del contenitore prima del trapianto faciliterà il compito). La
frantumazione della zolla può compromettere l'attecchimento se il trapianto viene eseguito con piante
già in vegetazione;
•
per la messa a dimora è sufficiente scavare una piccola buca alla giusta profondità; la pianta va
posta a dimora alla stessa profondità che aveva nel vaso o nella fitocella;
• la zolla della piantina va rincalzata con terra fine cha va poi pressata leggermente con il piede;
•
ultimata la messa a dimora bisogna dotare ogni piantina di paletto tutore. A questo paletto si deve
legare la pianta durante il periodo invernale per proteggerla da eventuali danni provocati dalla neve;
•
nel caso di impianto in zone che registrano la presenza di lepri e conigli selvatici e necessario
proteggere le piante con appositi cilindri di cartone o, meglio ancora, di rete metallica a maglie fini. Le
lepri ed altri roditori sono ghiotti della corteccia di pioppo e salice, ma non disdegnano anche le altre
specie;
•
subito dopo la messa a dimora occorre annaffiare localmente e abbondantemente la conca fatta
attorno ad ogni singola piantina. L'annaffiatura riesce sempre utile anche per far aderire il terreno alle
radici; riesce indispensabile in caso di terreni asciutti e di piante in vegetazione. Nonostante la tendenza
sia quella di eseguire degli impianti con una sola specie di pianta ospite, per accelerare l'inizio della
raccolta possono essere eseguiti impianti misti con specie che entrano prima m produzione come, ad
esempio, il nocciolo e altre a produzione più tardiva come, ad esempio, il leccio e la roverella.
Detti impianti possono essere effettuati a file alterne, oppure alternando le specie sulla fila. Durante la
preparazione del terreno e all'atto della messa a dimora non devono essere distribuiti, soprattutto a
contatto con le radici della piantina, fertilizzanti di qualsiasi genere, sia chimici sia organici.
Le pratiche colturali di provata validità che annualmente devono essere riservate alla tartufaia
riguardano per ora solo il tartufo nero pregiato.
Vediamo quali sono. Le lavorazioni del terreno, consistenti in periodici passaggi di erpice a
dischi, hanno lo scopo di eliminare le erbe infestanti, di facilitare l'aerazione del terreno inducendone
la compattezza. La profondità delle lavorazioni deve essere di pochi centimetn. Per quanto riguarda il
tartufo bianco pregiato, si sta tuttora sperimentando la validità delle suddette lavorazioni del terreno
e dell'inerbimento. Per ciò che concerne le cure alle piante ospiti, esse consistono nelle seguenti
operazioni:
•
eliminazione annuale dei polloni, cioè di quei rami che possono svilupparsi a livello del ceppo
delle piante ospiti;
•
eliminazione durante la fase vegetativa di eventuali succhioni, cioè di quei rami che possono
svilupparsi sui tronchi delle piante ospiti;
•
taglio e raccolta dei rami secchi lesionati, rotti dalla neve, attaccati da cancri o da parassiti
animali;
•
trattamenti con zolfo bagnabilc o in polvere sulle piante ospiti che manifestano una particolare
sensibilità verso l'oidio come la roverella;
• trattamenti per bloccare le infestazioni di insetti defogliatori sulle piante ospiti. Allo 14
scopo vanno impiegati degli insetticidi a bassa tossicità;
•
controllo ogni due anni di campioni di radice prelevati a caso sulle piante ospiti per verificare la
presenza e la continuità della formazione delle micornze.
Allo stato delle attuali conoscenze è opportuno infine ricordare che nelle tartufaie coltivate non va
praticata alcuna concimazione ne all'impianto ne durante la coltivazione. L'irrigazione riveste un ruolo
importante, specialmente nei primi 3-4 anni di vita della tartufaia, quando un arresto della vegetazione
può compromettere la formazione delle micornze con un conscguente ritardo dell'entrata in produzione.
Sulle tartufaie in produzione è stato inoltre più volte constatato che ad un'estate siccitosa segue una
produzione scarsa. Fra le diverse forme di irrigazione è da preferire quella a pioggia eseguita con
irrigatori dotati di ugelli che polverizzano abbastanza finemente il getto d'acqua. E' sconsigliata
l'irrigazione a goccia perché provoca uno sviluppo dell'apparato radicale troppo in profondità.
Bisogna tener presente che specialmente per troppa umidità, troppa sostanza organica (foglie,
paglia, erbe secche, letame), abbassamenti del pH, la micornzia di tartufo può essere soppiantata da
quella di altri funghi: Scleroderma spp., Pisolithus tinctorius, Cenococcum geophilum, Amanita
solitària, A. ovoidea, Boletus satanas, B. luridus. Laccarla laccata, Lactarius piperatus, Russula delica,
Cortinianus largus, Astrcus stellatus, Inocybe spp., e numerosi altri. In questi casi bisogna distruggere
gli alberi vicini a tali funghi, disinfettare il terreno prima di collocare nuove piantine micorrizzate.
Il terreno scelto per l'impianto della tartufaia è bene che prima della aratura presenti alcune di
queste piante: pruni, ciliegi, pimpinella, rovi, aceri, viburni, cornioli, sorbi,olmi, sambuchi, biancospini,
clematidi, brionia, lupinella, ladino, trifoglio, vulneraria, agrimonia. Però non deve presentare: felci,
muschi, ginestre, calluna, erica. Sono da evitare alcune colture intercalari, perché possono produrre
allclochemici, sostanze che inibiscono l'accrescimento di vegetali e quindi anche di tartufi. Essi sono
rappresentati da aldeidi, chetoni, lattoni insaturi, polichetidi, antrachinoni, chinoni, cumarine, oli
essenziali, acido benzoico, anatossine, tricotecem, patulma, griscofulvma, xantofille, ecc. Quindi
bisogna evitare la coltura intercalare di: agli, cipolle, cavoli, avena, segale, patate, artemisia, mente,
graminacee in genere. Anche la flora microscopica ha influenza (batteri, funghi), ma le nostre
conoscenze al riguardo sono ancora preliminari e l'esame relativo è in mano di pochi specialisti. Oggi,
dai risultati finora ottenuti, si può arguire che per la produzione tartufigena non è solamente necessaria
la micorrizazione specifica, ma probabilmente incide anche il menoma della pianta simbionte, come già
indicavano i fratelli Talon. Forse è conveniente micorrizzare piantine ottenute da semi di piante
produttrici in natura o meglio la loro clonazione per via vegetativa (talee, micropropagazione) in modo
da mantenere inalterati i loro genomi. Quando le conoscenze fisiologiche ed ecologiche della
micorrizza dei tartufi saranno più progredite, potremo trarre maggiori ragguagli sulla loro coltivazione.
Bibliografìa
Ceruti, A. (1990). Evoluzione delle conoscenze biologiche sul genere Tuber. Atti del II Congresso
Internazionale sul Tartufo, Spoleto 24-27 novem- bre, 1988:1-16.
Chatin, A. (1892). La truffe. Paris.
Ciccarello, A. (1564). Opusculum de tuberibus.
Patavii Dangeard, P.A. (1894). La truffe: recerches sur son développement, sa structure, sa eproduction
sexuelle. Botaniste, 4: 63-87.
De Borch, (1780). Lettres sur les truffes du Piémont, Milan.
De Bornholz. (1827). La coltivazione dei tartufi. Milano.
Dominik, T. (1959). Synopsis of a new classification of thè ectotrophic mycorrizae established
on morphological and anatomical characteristics. Mycopath. Mycol.appL, 11:359-367.
Passi, B. e Fontana, A. (1967). Sintesi micorrizica tra Pinus strobus e Tuber maculatum. I. Micorrize
e sviluppo dei semenzali nel secondo anno. Allionia, 13:177-183.
Fassi, B. e Fontana, A. (1969). Sintesi micorrizica tra Pinus strobus e Tuber maculatum. II. Sviluppo
dei semenzali trapiantati e produzione di ascocarpi. Allionia, 15: 115-120.
Fontana, A. (1967). Sintesi micorrizica tra Pinus strobus e Tuber maculatum. G. bot. lial., 101:298299.
Frank, A. B. (1885). Ùber die auf Wurzelsymbiose berunhende Ernàhnung gewisser Bàume durch
unterirdische Filze. Ber. dt. bot. Ges., 3: 128-145.
Gibelli, G. (1879). La malattia del castagno, osservazioni ed esperienze (1875-1878). Bollettino
Comizio Agrario Modena.
Gibclli, G. (1882). La malattia del castagno detta dell'inchiostro, nuovi studii e ricerche (18791882). Annali Agric.,: 9-47.
Gibelli, G. (1883). Nuovi studi sulla malattia del castagno detta dell'inchiostro. Memorie R. Accad.
Sci. Ist. Bologna, serie IV. 4. fascicolo 2: 287-314.
Mattirolo, O. (1908). La coltivazione dei tartufi, Ann. Acad. Agric. Torino, 107,131.
Mattirolo, O. (1928). La tartufivoltura e il rimboschimento. Cecchini, Torino.
Meotto, F. (1989). Prima di impiantare una tartufaia fate esaminare l'apparato radicale delle piantine
micorrizate. Vita m Campagna , 10: 33-35.
Meotto, F. e Carraturo, P. (1987-88). Ectomicorrizia di Sphaerosporella brunnea (A. &S.) Svrcck &
Rubicka in piante tartufigene. Allionia, 28: 109-116.
Meotto, F. e Bassi, R. (1994). Guida illustrata coltivazione e cerca del tartufo. Vita in Campagna, 6
(suppl.): 1-28.
Meotto, F., Nosenzo, C. et Fontana, A. (1995). Le micorrize delle specie pregiate di Tuber.
l'Informatore Agrario, 31: 41-45.
Micheli, P.A. (1729). Nove plantarum genere, Firenze.
Montani, C., Kulifaj, N., Gleize, R. (1983). Notes sur la récolte de jeunes ascocarpes du Tuber
melanosporum Vitt. (Truffe noire du Périgord) et leur évolution. Compt. Rend. Hcrd. Séances Acad.
Sci., Ili, 296,463.
Rousseau, N. (1866). Rapport sur les Truffières artificielles. Tulasne, L. E. e Tulasne Ch. (1851).
Fungi Hypogaei. Paris.
Vittadini, C. (1831). Monographia Tuberaceum. Ex typographia Felicis Rusconi, Mediolani.
Glossario
Asco
fruttificazione caratteristica dei funghi ascomiceti contenente le spore cioè le unità di propagazione.
Ascocarpo
corpo fruttifero degli ascomiceti contenenti gli aschi.
Clonazione
riproduzione naturale o artificiale di individui o cellule tutti identici tra di loro cioè presentanti lo
stesso corredo genetico.
Genoma
corredo genetico contenuto nelle cellule.
Ife
Filamento costituente il corpo del fungo.
Micelio
è il "corpo" del fungo ed è costituito da filamenti detti ite.
Micoclena
è lo strato esterno di una micorriza ed è costituito da ife.
Micologia
scienza che studia i funghi.
Micorriza
è una particolare simbiosi che si instaura tra un fungo e le radici di un albero. Il fungo facilita
l'assorbimento di elementi nutritivi dal terreno da parte della pianta che a sua volta fornisce al
fungo sostanze organiche.
Spore
unità di propagazione dei funghi.