La rassegna stampa del centro di Doc. Rigoberta Menchù Agosto1

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La rassegna stampa del centro di Doc. Rigoberta Menchù Agosto1
La rassegna stampa del centro di Doc. Rigoberta Menchù
Agosto1- 2012
X Agosto (Giovanni Pascoli)
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo favilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
Palestina lontana e sola
“Non temo le urla dei violenti, ma temo il silenzio degli onesti“.
(Vittorio Arrigoni)
Ben Gurion Airport . “ Succede ogni giorno” www.momdoweis.net
Ti senti più araba o più americana?
"Sono una cittadina americana. Ho frequentato solo scuole americane, mi sono laureata in
un’università americana e lavoro come architetta a New York”. Così comincia un lungo e
inquietante pezzo in cui Najwa Doughman racconta la grottesca accoglienza ricevuta da
lei e l’amica Sasha, entrambe con passaporto americano, all’aeroporto Ben Gurion di Tel
Aviv, dove la prima domanda è stata quale fosse il nome di suo padre: "Bassam”. "Bene,
si accomodi un attimo in quella sala d’aspetto”. Mai Najwa si sarebbe aspettata che
quell’"attimo” sarebbe durato 14 ore. Il momento più irritante è stato senz’altro quando è
arrivata la domanda se si sentisse più americana o araba: "Non so, entrambe le cose”. Per
non parlare di quando le è stato chiesto di accedere al suo account su gmail.com. Non ci
poteva credere. A quel punto, la funzionaria della sicurezza, peraltro una sua coetanea, si
è messa a leggere le sue mail e a commentarle con una collega.
Dopo altre tre ore, è stato il turno di un’altra guardia, che le ha comunicato che le era stato
negato l’accesso. A quel punto ha chiesto un avvocato e di contattare l’ambasciata
americana, ma l’incubo è continuato con umiliazioni continue e alla fine Naiwa e Sasha
sono state portate in un edificio accanto all’aeroporto. Nella stanza-cella in cui hanno
dormito c’erano scritte che testimoniavano di altre detenzioni. La mattina dopo è arrivata la
telefonata dall’ambasciata allertata dai loro genitori, ma la funzionaria ha spiegato loro che
non poteva fare niente. La frustrazione a quel punto era alle stelle. Alle 7.30 un ufficiale le
ha accompagnate all’imbarco del primo volo per il ritorno a casa. Allo scalo francese, dove
ad aspettarle hanno trovato tre poliziotti, Sasha ha chiesto se tutto questo succedesse
spesso. "Tutti i giorni” le ha risposto il poliziotto francese. (http://mondoweiss.net)
Da Una Città n.195
Palestina - L'apartheid dell'acqua, Gideon Levy
Avi fa il coordinatore delle ispezioni per conto dell'amministrazione civile, cioè parlando senza eufemismi dell' organizzazione che gestisce l'occupazione israeliana
dei Territori palestinesi. Presumibilmente ama il suo lavoro. Forse ne va perfino fiero.
Non si disturba a precisare il suo cognome sul modulo che firma. E perché mai
dovrebbe? La sua firma - "Avi", con uno svolazzo - è sufficiente a rendere operativi i
suoi ordini. E quelli di Avi sono tra i più brutali e disumani mai imposti da
queste parti. Avi confiscai serbatoi d'acqua che servono a centinaia di
famiglie palestinesi e beduine che abitano nella valle del Giordano.
Per queste persone, i serbatoi sono l'unica fonte d'acqua. Nelle ultime settimane Avi
ne ha confiscati una quindicina, lasciando decine di famiglie con bambini soffrire la
sete nella calura spaventosa della valle del Giordano. I moduli che si preoccupa tanto
di compilare in stile fiorito dicono: "Vi è motivo di sospettare che costoro si siano
serviti degli articoli citati per commettere un reato". A quanto sostengono i capi di Avi,
il "reato" è il furto d'acqua da una conduttura. Ecco perché i serbatoi vengono
confiscati: senza indagini, senza processo. Benvenuti nel paese dell'illegalità
. e della malvagità. Benvenuti nel paese dell'apartheid. Israele non permette a
migliaia di sventurati di allacciarsi alle condutture idriche. Quest'acqua è solo per
gli ebrei. Neanche i più abili propagandisti israeliani potrebbero negare la
separazione nazionalista e diabolica che viene realizzata qui.
L'asse del male si trova a circa un'ora di auto dalla casa di molti israeliani, ma
essendo emotivamente distante e lontano dal cuore, non suscita nessuna "protesta
sociale". Ed è quanto di peggio vi sia sulla scala della malvagità israeliana. Puntellato
da formulari e burocrazia, applicato da ispettori apparentemente non violenti, non
comporta una goccia di sangue, ma non lascia neanche una goccia d'acqua.
L'amministrazione civile dovrebbe occuparsi delle esigenze della gente. Ma non si
ferma neanche di fronte al provvedimento più spregevole - privare dell'acqua persone
e bestiame nella calura torrida dell' estate -per raggiungere l'obiettivo strategico di
Israele: scacciare queste persone dalle loro terre in modo da ripulire la vallata
dagli abitanti non ebrei.
Naturalmente i furti d'acqua, che siano avvenuti o meno, sono solo un pretesto.
Anche fossero avvenuti davvero, queste persone che scelta hanno? Le autorità non gli
consentono di allacciarsi alle condutture idriche che corrono attraverso i loro campi e
dalle quali scorre l'acqua che va a irrigare abbondantemente le vigne e i campi
verdeggianti dei coloni ebrei negli insediamenti in territorio palestinese.
La settimana scorsa ho visto le persone a cui Avi aveva confiscato i serbatoi
lasciandole in balia della sete: bambini appena nati, una ragazzina disabile, un
maschietto che aveva subìto da poco un'operazione chirurgica, donne e anziani; e
naturalmente le pecore, che qui sono l'unica fonte di reddito. Abitanti senz'acqua: in
Israele, non in Africa. Acqua per una nazione sola: in Israele, non in Sudafrica. Ma
non è questo il solo spartiacque. Pochi giorni fa l'esercito israeliano ha deciso di tenere
delle esercitazioni in questa zona. E che ha fatto? Ha sfrattato gli abitanti dalle loro
case per ventiquattr'ore. Ma non tutti: solo i palestinesi e i beduini. Non è venuto in
mente a nessuno di sfrattare i coloni ebrei che abitano negli insediamenti di Maskiot,
Beka'ot oppure Ro'i, nella valle del Giordano. Le autorità non chiamano apartheid neanche questo. E una volta sfrattate, queste persone dove le trasferiscono? Dove le
porta il vento. E così, circa quattrocento persone sono state costrette a lasciare tende
e baracche e a trascorrere un giorno e una notte sul suolo arido lungo la strada,
esposte alle intemperie. Amjad Zahawa, un bimbo di due anni, ha trascorso la sua
terza giornata sotto il sole torrido, senza neanche una tettoia sopra la testa. Auguri
Amjad: benvenuto nella realtà della tua vita.
Come abbiamo già detto, Avi ama il suo lavoro e ne va fiero. Come lui, altre decine
di persone fanno questo lavoro spregevole. Ma non sono i soli colpevoli: dietro di
loro ci sono milioni di israeliani che a tutto questo rimangono completamente
indifferenti. Girano tranquillamente in auto per la valle del Giordano senza far caso
alla massicciata infinita che corre lungo il tracciato della strada imprigionando gli
abitanti e impedendogli di accedere alla strada. Ogni tanto c'è una cancellata di ferro.
I soldati, rappresentanti del misericordioso occupante, si fanno vivi ogni pochi giorni e
la aprono per un attimo. A volte se ne dimenticano, altre volte sono in ritardo. A volte
perdono la chiave, ma che importa?
Questa è un' occupazione illuminata, Israele ha ragione, l'esercito israeliano è "il più
morale" che c'è e l'apartheid è solo un'invenzione di quelli che odiano Israele. Andate
nella valle del Giordano a vedere con i vostri occhi. . ma
*GIDEON LEVY
è un giornalista israeliano. Scrive per il quotidiano Ha'aretz.
Da Ramallah Amira Hass
Le prove dell'occupazione
Di recente un giudice in pensione ha scritto in un rapporto che la Cisgiordania non può
essere definita un territorio occupato. Ecco una lista di argomenti che descrive bene
questa non occupazione.
1. Attacchi dei coloni: negli ultimi mesi c'è stata un'escalation costante. Pestaggi, colpi
di pistola, incendi di campi, alberi sradicati, sconfinamenti, graffiti offensivi.
2. Ad aprile cinque abitanti di un villaggio a est di Nablus sono stati attaccati dai
coloni. Quando hanno reagito sono stati arrestati dall'esercito israeliano.
3. A giugno tre israeliani armati sono stati fermati dalla polizia per aver sabotato la
conduttura che porta l'acqua ai beduini a nordest di Gerusalemme. Finora però non è
stato incriminato nessuno.
4. Gli ordini di demolizione con cui le autorità mantengono il 62 per cento della
Cisgiordania (area C) sgombra dai palestinesi.
5. Il governo ha ordinato di demolire otto villaggi per far posto a nuove zone di
addestramento militare.
6. Ogni estate le forniture d'acqua per centinaia di migliaia di palestinesi sono
insufficienti.
7. Alcuni diplomatici dell'Ue mi hanno detto: "Il nostro sostegno finanziario all'Autorità
Nazionale Palestinese dipende dalla soluzione dei due stati, che non può esistere
senza l'area Ci Israele punta all'annessione dell'area Ci ma allora perché continuiamo
a pagare?". Nonostante questo, l'Unione vuole rafforzare i suoi legami commerciali
con Israele.
Internazionale 959 I 27 luglio 2012 23
"È da tempo che dico che la migliore speranza per i palestinesi non sta a livello governativo o
attraverso le Nazioni Unite, ma piuttosto nella campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le
sanzioni contro Israele".
-- Richard Falk, Relatore speciale dell'ONU per i diritti umani nei territori Palestinesi
occupati
Roma, 30 luglio 2012, Nena News Soldati israeliani aprono il fuoco su dei lavoratori palestinesi in un checkpoint
verso Gerusalemme. Uno di loro muore, altri due sono gravemente feriti. di
Emma Mancini
L'ennesima "normale" giornata di lavoro si trasforma in tragedia, il diritto al lavoro
si macchia di sangue. A morire Hasan Badee Omar, 46 anni, colpito dalle pallottole
israeliane a petto e addome. È morto in ospedale. Feriti Ashraf Abdullah, colpito alla
spalla, e Khalid Imad Abdullah, centrato alla gamba destra.
Khalid ha raccontato all'agenzia stampa palestinese cosa è accaduto questa mattina,
alle prime luci dell'alba, il momento in cui i lavoratori palestinesi sono costretti a
mettersi in fila per passare i lunghi e umilianti controlli ai checkpoint israeliani. Ore
di attesa per percorrere duecento metri, controlli approfonditi di documenti
e vestiti. E ogni volta si rischia di far tardi al lavoro, e quindi di perderlo, il lavoro.
"Eravamo 13 lavoratori - racconta Khalid - in un Ford Transit. Eravamo in viaggio
verso Gerusalemme, verso il nostro posto di lavoro. Prima di arrivare al checkpoint di
Zayem, l'autista ha ricevuto un messaggio da un altro autista che era già arrivato al
checkpoint e lo avvertiva che le procedure di controllo questa mattina erano più
accurate. Meglio tornare indietro. Ma quando il nostro autista ha cominciato a
fare manovra, gli ufficiali della polizia di frontiera hanno aperto il fuoco
contro di noi senza prima intimare di fermarci".
Silenzio da parte israeliana, nessuno commenta l'accaduto. Diversa la versione
fornita dalla radio Kol Israel, secondo la quale i palestinesi colpiti stavano cercando di
raggiungere Gerusalemme illegalmente per pregare alla moschea di Al Aqsa. Il
portavoce della Polizia di frontiera, Shai Hakimi, avrebbe detto che l'auto in cui
viaggiavano i tre palestinesi si sarebbe diretta verso il checkpoint di Zayem ad alta
velocità e avrebbe tentato di oltrepassarlo senza fermarsi alla richiesta dei
soldati.
Ma che Hasan sia morto per lavoro o per religione, resta difficile credere ad una
simile ricostruzione dei fatti: Gerusalemme è off limits per i palestinesi della
Cisgiordania da dieci anni, da quando il Muro separa con violenza la stessa terra.
Entrare senza permesso - di lavoro, per ragioni mediche o religiose - è pressoché
impossibile. Non mancano i casi di ingressi illegali nella Città Santa, per lo più
compiuti da lavoratori senza permesso attraverso le colline e i boschi che circondano
Gerusalemme. Ma se anche uno di loro intendesse sfidare la sorte, difficile che lo
faccia passando per un checkpoint blindato, come quello di Zayem, tra
Gerusalemme e Ramallah, cercando di oltrepassarlo a tutta velocità in un van.
E in un simile contesto, è ancora più difficile ascoltare le parole del candidato
repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, Mitt Romney, secondo il quale
Gerusalemme è la capitale d'Israele e Washington dovrebbe spostare la sua
ambasciata da Tel Aviv alla Città Santa. E se per il futuro presidente a stelle e strisce
è fondamentale accaparrarsi il favore delle potenti e ricche lobby ebraiche negli USA,
calpestare così il diritto internazionale e le risoluzioni - per quanto inefficaci - delle
Nazioni Unite è inaccettabile.
Le autorità palestinesi sono rimaste in silenzio, non hanno commentato il viaggio di
Romney in Israele, il suo genuflettersi al governo di Tel Aviv e la sua decisione
di non incontrare il presidente dell'ANP, Mahmoud Abbas. Ma le sue parole su
Gerusalemme hanno vinto sulla diplomazia: Gerusalemme è e resta uno dei punti
cardine della resistenza del popolo palestinese.
Se si abbandona la speranza di tornare a Gerusalemme, si perde una delle sorgenti
della lotta palestinese. Per la Città Santa, per il diritto inalienabile di entrarvi, oggi è
morto Hasan. Nena News
Nabil Al-Raee è definitivamente libero. Il di Valeria Cagnazzo
Roma, 31 luglio 2012, Nena News - Nabil Al-Raee è definitivamente libero. Il 29
luglio si è tenuta l'ultima udienza per il Direttore del Freedom Theatre, che dal 6
giugno al 12 luglio scorso era stato tenuto in carcere nella prigione di Ashkelon. La
corte ha giudicato Nabil "colpevole" di aver fornito nel 2010 cibo, sigarette e passaggi
in auto a Zakaria Zubeidi (co-fondatore del Teatro), e di aver risposto a una sua
domanda riguardo alla presenza dell'esercito israeliano nel campo di Jenin.
Tale "collaborazione" costituirebbe un crimine per i giudici israeliani in quanto Zubeidi
è stato definito, nel processo, un "ricercato". Più volte, però, l'avvocato di al Raee ha
voluto sottolineare come nel 2010 Zakaria non fosse più un ricercato, essendogli
stata accordata l'amnistia già nel 2007.
La sentenza ha condannato al Raee al pagamento di una multa di 3.000 shekel (circa
600 euro), oltre al tempo di detenzione già trascorso in carcere. Su direttore del
Freedom Theatre pende, inoltre, una reclusione in sospeso di quattro mesi per un
periodo di un anno: qualora, cioè, nei prossimi dodici mesi, Al-Raee fosse arrestato
con la stessa accusa, dovrà scontare una pena di quattro mesi in prigione.
Si chiude così un lungo processo che ha visto la mobilitazione di migliaia di persone
di tutti il mondo: il Freedom Theatre in questi giorni non manca di ringraziare chi
attraverso e-mail, chiamate telefoniche e petizioni si è interessato al caso di Nabil e
ha in qualche modo contribuito alla sua scarcerazione.
Nonostante la soddisfazione per l'esito dell'udienza, il Managing Director del Teatro,
Jonatan Stanczak, non nasconde tuttavia le sue preoccupazioni: «Il nostro
pensiero va comunque alle migliaia di prigionieri politici palestinesi che
restano ancora nelle carceri israeliane lontani dai loro cari». L'apprensione
maggiore per i membri del Freedom Theatre riguarda sicuramente la sorte di
Zakaria Zubedii, dal 13 maggio detenuto nella prigione dell'Autorità
nazionale palestinese a Gerico e in sciopero della fame. Sarebbe anche
vittima di maltrattamenti stando a quanto riferito dall'Human Rights Watch.
"Ora sono davvero sollevato che sia tutto finito", ha dichiarato sorridendi Nabil al
Raee a udienza finita. La sua liberazione sembra essere, infatti, per il Freedom
Theatre un nuovo traguardo da cui ripartire. "Sono felice di poter finalmente tornare
alla mia vita normale con la mia famiglia e continuare il mio lavoro per il Freedom
Theatre", ha aggiunto. E sul sito ufficiale del Teatro appare già l'immagine della
locandina di quello che sarà forse il prossimo spettacolo, intitolato "La scimmia e la
tartaruga". Nena News
Tutto questo non deve più succedere, I Amnesty n. 3 luglio 2012
Giuseppe Uva, morto in ospedale a Varese nel 2008, dove era stato portato
durante un fermo di polizia, dopo tre ore in caserma. A dicembre è stato
riesumato il cadavere per ulteriori esami forensi. La sorella Lucia Uva da
allora ha intrapreso il lungo percorso per ottenere verità e giustizia.
«Quando sono arrivata quel pomeriggio e ho trovato il corpo senza vita di mio fratello
in quelle condizioni, non c'era nessun avvocato a dirmi di fare delle foto, ma le ho
fatte. Tornavo da Senigallia e avevo con me la macchina fotografica e ho pensato:
"Ma come ha fatto a ridursi in questo stato?". lo sto facendo questa battaglia da sola.
Effettivamente come dice il pm la mia famiglia è sfasciata perché i miei genitori non
volevano che portassi la storia di Giuseppe nei giornali, nelle televisioni, per la loro
mentalità. n pm che si è messo dalla parte della mia famiglia che non voleva questa
battaglia, fin dal primo momento ci ha venduto la teoria che era stata colpa dei
medici.
Ci sono voluti quattro anni per far assolvere un dottore che non c'entrava niente. In
quelle aule siamo state umiliate. Solo grazie a un giudice che ha disposto l'autopsia, si
è scoperto che Giuseppe non è morto per i farmaci. Quando abbiamo fatto un esposto
per verificare la presenza di sangue al cavallo dei suoi pantaloni è stato insinuato che
fosse omosessuale, hanno addirittura detto che poteva essere pomodoro.
Ci sono voluti quattro anni per tirare quei pantaloni fuori da un cassetto e per
l'autopsia che avrebbero dovuto fare subito. Sulla mia strada ho incontrato Patrizia,
Ilaria e ora anche Domenica ma siamo in contatto con tante altre famiglie e molte
hanno paura a denunciare. Tutto questo non deve più succedere!"
Michele Ferulli è morto a Milano a giugno 2011, durante un controllo
eseguito da una volante di polizia, secondo la famiglia a causa delle percosse
subite. Sua figlia Domenica Ferulli chiede verità e giustizia.
«Se non avessi conosciuto Patrizia, Ilaria, Lucia e l'avvocato Anselmo la storia di mio
padre non sarebbe mai uscita fuori perché all'inizio volevano farmi credere che fosse
morto per un malore ma c'è un video in cui si vede che lo stanno massacrando di
botte e lui che chiede aiuto. I processi vengono fatti alle vittime e ai loro familiari e
non chi ha ucciso, tanto è vero che quando ho ritirato il fascicolo ho scoperto che sono
state fatte intercettazioni a me in tutti questi mesi, non a chi ha ucciso mio padre. Per
me è stato atroce, non perché avessi qualcosa da nascondere ma perché non hanno
fatto lo stesso con i responsabili. Avrei voluto sapere che cosa si sono detti nei giorni
successivi, cosa hanno detto alle loro famiglie. Subito dopo una tragedia del genere,
un silenzio ti cala intorno. La sera in cui è morto mio padre, 50-60 persone che erano
lì e avevano visto ci hanno spinto ad andare avanti per trovare la verità. Poi per giorni
molte sono scomparse, alcune sono state minacciate e mi hanno chiesto di non fare i
loro nomi. Nella caserma, nonostante un video così esplicito, è stata subito fatta una
conferenza stampa per dire che mio padre non era stato toccato e che era stato
violento e aggressivo. Mi hanno convocato in questura per convincermi che era andata
così. Ho un figlio di cinque anni che si è trovato in mezzo a tutto questo e che quando
vede passare una pattuglia della polizia ha paura. Non è facile spiegargli che non sono
tutti uguali. Anche per questo sto facendo questo percorso perché non ce la farei a
guardarlo un giorno negli occhi e dirgli che chi ha ucciso suo nonno è libero e che non
ho fatto tutto quello che potevo.»
Stefano Cucchi è morto a 31 anni, nel 2009, nel reparto penitenziario
dell'ospedale Sandro Pertini di Roma sette giorni dopo l'arresto, riportando
ferite che secondo la famiglia dimostrano i maltrattamenti subiti. Sua sorella
Baria Cucchi si batte per avere verità e giustizia.
«Quando a famiglie come le nostre capita una tragedia del genere, all'inizio il pm
rappresenta colui che farà emergere la verità. Invece spesso accade l'esatto opposto,
con pm che sembrano difendere gli imputati piuttosto che noi, ovviamente senza
tenere minimamente in considerazione l'enorme dolore che comporta per i familiari
essere in quelle aule di tribunale. Sono 13 gli imputati nella morte di mio fratello ma
non sono i soli responsabili. Il vero responsabile è il meccanismo di protezione e di
copertura di chi commette questi reati. Sono state ascoltate 150 persone come
testimoni durante il processo, che videro Stefano in quelle condizioni e tutte si
voltarono dall'altra parte. lo oggi non posso non pensare che se una sola di quelle
persone avesse, non dico compiuto un gesto di umanità, ma fatto semplicemente il
proprio dovere, Stefano sarebbe vivo. Leggendo gli atti una cosa mi ha colpito
moltissimo: un agente afferma che mio fratello gli disse di essere stato picchiato dai
carabinieri ma, indipendentemente se fosse vero o falso, l'agente non fece quello che
avrebbe dovuto fare, denunciare. Ha dichiarato: "Da quel momento ho preso le
distanze pensando che ognuno dovesse stare al suo posto". Allora mi chiedo qual è il
posto di un pubblico ufficiale che ha ricevuto una denuncia. Uno dei motivi per cui
queste cose continuano a succedere è che si perdono nell'indifferenza, per questo è
importante parlarne. È necessario far capire alla gente che questi episodi sono diffusi
e che potenzialmente possono colpire chiunque. Parlarne può abbattere i muri intorno
alle nostre famiglie.»
Federico Aldrovandi è morto a Ferrara a 18 anni, nel 2005, durante un fermo
di polizia. Dopo la morte di suo figlio, Patrizia Moretti ha aperto un blog per
chiedere l'apertura delle indagini e assieme alla sua famiglia ha portato
avanti una battaglia per chiedere giustizia. 1121 giugno, la Cassazione ha
confermato la condanna per omicidio colposo per quattro agenti di polizia,
responsabili della morte di Federico.
«Le vittime della violenza della polizia sono spesso fatte passare per persone che
avevano già in precedenza dei problemi. Quando abbiamo visto Federico abbiamo
pensato che fosse stato investito da una macchina perché era distrutto. Sarebbe
bastato vedere la fotografia del suo volto per dire come era morto e invece no, abbiamo dovuto affrontare quasi 40 udienze e due anni di un processo che sembrava
fatto a Federico, non a chi era accusato per la sua morte. Sono perfino arrivati a
indagare sulla sua vita, su cosa faceva da ragazzino, su come andava a scuola, anche
se per fortuna il giudice ha fatto comunque il suo lavoro in modo corretto. Le famiglie
hanno bisogno di una forza enorme per affrontare tutto questo. E spesso questa forza
viene alle donne. Il problema di fondo è l'impunità che sanno di avere le forze di
polizia. Il modo di porsi delle persone con una divisa è spesso molto arrogante e
conoscendo il carattere di Federico avrà risposto, come avrebbe fatto forse qualsiasi
ragazzo di 18 anni. Per cambiare questo atteggiamento serve una corretta formazione
e un organismo che controlli le forze di polizia. Anche la magistratura deve rispondere
a qualcuno, ad altre istituzioni ma anche a organismi che rappresentino la coscienza
pubblica. È questo ciò che serve.
Dobbiamo combattere l'ignoranza con l'intelligenza, con la cultura. La vera dimensione
della dignità delle persone è proprio questa.»
www.amnesty.it
ILVA Taranto - salute e lavoro
di Lidia Menapace
Volevo quasi fare un racconto del 25 luglio 1943, visto che nessuno ne parla,. ma sono travolta
da quel che succede, che sembra avere insieme una logica perversa e una impressionante
illogicità, il massimo della contraddizione. E se voglio trovare il fatto, l'evento che simboleggia
tutto ciò, non posso che parlare dell'Ilva di Taranto.
Dunque. la magistratura emette una ordinanza che impone la chiusura delle acciaierie di Taranto,
a motivo delle responsabilità penali dei suoi padroni e dirigenti, otto dei quali vengono arrestati:
si potrebbe invocare come precedente la sentenza contro la Thyssen Krupp o quella sull'amianto
a Casale, anzi quest'ultima è ancora più simile: le condizioni nelle quali si lavora in certe
fabbriche e nelle città che le ospitano sono mortifere e uccidono. Quando la magistratura
interviene, certo blocca un processo che era già in corso da decenni, ma almelo blocca e lo
dichiara delittuoso, non casuale o incidentale, o inevitabile come una calamità detta appunto
naturale.
A Taranto viene bloccato un impianto che è la più grande acciaieria del mondo -dicono i
giornali- ed esiste da 50 anni, che fu di stato e poi è stata venduta e che adesso deve chiudere il
suo cammino di morte. Ma naturalmente non si può chiudere una fabbrica che ha 22.000
dipendenti tra diretto e indotto, una fabbrica che è la maledizione e il pane della città.
La rabbia è inevitabile, lo sconcerto pure, ma la risposta della popolazione sembra
straordinariamente matura e democratica: ho sentito con le mie orecchie al Tg3 notte
operai e cittadini, sindacalisti ed ambientalisti analizzare la situazione con grande passione
ed equilibrio, dicendo che la fabbrica non deve chiudere, ma deve cominciare subito e
continuare ad inquinare sempre meno.
Bisogna assolutamente appoggiare questa esigenza del tutto razionale e sostenere le forze che in
quella direzione si impegnano. E ogni volta, di fronte a bisogni o eventi del tipo citato, bisogna
sforzarsi di trovare soluzioni complesse, del tipo enunciato a Taranto, si tratti della docenza
universitaria, degli/lle insegnanti inidonei, delle donne precarie, dei comuni depredati.
La risposta di Taranto sembra la realizzazione del motto di Rosa : la strada della rivoluzione o
dell'alternativa é " lo sciopero generale a oltranza nel corso del quale i soggetti costruiscono la
nuova società". L'analisi deve essere spietata e l'azione coordinata, decisa, progettata ed eseguita
dagli e dalle interessate. Lo si vede anche dal fatto che quando ci sono enti locali sani o enti
autonomi dotati di poteri, è possibile rifiutare le ricette approssimative feroci e rozze del governo
"tecnico" e dare risposte articolate ed economicamente ragionevoli e persino meno dispendiose:
lo testimonia la resistenza delle province autonome di Bolzano e Trento, che difendono la loro
autonomia politica e normativa,difendendo anche il livello di vita e dei servizi costruiti.
Per costruire l'alternativa è decisivo mettere sempre insieme la protesta motivata e la lotta con l'
impegno costruttivo , l'attivazione di nuove relazioni sociali: la strada che serve anche a superare
il populismo semplificatorio alla Grillo e ad avviare l' alternativa in tutta la sua complessità.
Il Dialogo 28 luglio 2012
CAPPELLANI MILITARI:“JESUS” INDOSSA
TALARE ED ELMETTO
di Adista Notizie n. 29 del 28/07/2012
36802. ROMA-ADISTA. «Pastori itineranti che predicano la pace giusta», ovvero i cappellani
militari secondo il mensile dei paolini Jesus, che ai cappellani in generale – anche quelli
carcerari, ospedalieri, universitari, marittimi – dedica il dossier del numero di luglio titolato
«Preti senza frontiere».
Ai cappellani militari è dedicato lo spazio più ampio, con una lunga intervista a mons. Vincenzo
Pelvi, ordinario militare per l’Italia, nonché generale di corpo di armata, che guida una
«originale diocesi che non ha confini precisi e abbraccia caserme, fortini, avamposti», si legge
nell’articolo che ritrae Pelvi, con un registro “eroico”, come un vescovo «che macina chilometri
impolverati su blindati Lince, che solca il mare su fregate, che prende quota elmetto in testa,
zaino ai piedi (sic! ndr) e breviario in mano su traballanti Hercules C130. Guida una diocesi
fluida e itinerante che conta, oggi, 182 cappellani, 74 per l’Esercito, 23 per la Marina, 26
per l’Aeronautica, 29 per i Carabinieri, 30 per la Guardia di finanza. Il più giovane ha 30
anni, il più anziano 62; l’età media è di 48 anni». (costano 16 milioni di euro allo stato n.dr.)
«Essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti ma convergenti e coerenti, in
quanto la condizione militare in un’autentica visione cristiana della vita trova il suo fondamento
morale nella logica della carità», spiega Pelvi, che affronta poi il nodo della guerra, di fronte al
quale «la vocazione alla santità del militare rischia di non essere compresa, particolarmente da
coloro che esaltano la pace a oltranza». Ma, precisa, non ce l’ha con Pax Christi, che da anni
conduce una battaglia non solo per «il disimpegno dell’Italia dalle missioni militari sparse per il
pianeta» – come rileva l’autore del servizio –, quanto per la smilitarizzazione dei cappellani (non
l’abolizione), il vero nodo ecclesiale della questione (v. Adista Notizie nn. 81/95, 67/97, 81/00,
49/06 e 81/06).
I cappellani infatti, sebbene Jesus ometta completamente questa informazione (a differenza di un
analogo servizio del mensile dei paolini, datato 1998, assai più problematico, in cui venne data la
parola anche a mons. Luigi Bettazzi, già presidente di Pax Christi, che affrontò proprio il tema
della smilitarizzazione), sono inseriti a pieno titolo nelle Forze armate: l’ordinario militare,
che viene designato dal papa e nominato dal presidente della Repubblica su proposta del
presidente del Consiglio e dei ministri della Difesa e dell’Interno, ha le stellette di un generale di
corpo d’armata.
Tutti gli altri cappellani sono inquadrati con i diversi gradi della gerarchia militare: il
vicario generale è generale di brigata; l’ispettore, il vicario episcopale, il cancelliere e
l’economo sono tenenti colonnello; il primo cappellano capo è un maggiore; il cappellano
capo è capitano, il cappellano semplice ha il grado di tenente. E percepiscono ovviamente
anche lo stipendio e, una volta congedati, la pensione (quella dell’ordinario-generale di
corpo d’armata supera i 4mila euro netti al mese) dei rispettivi gradi: un generale di corpo
d’armata un salario lordo mensile di circa 9.500 euro, un generale di brigata circa 6mila,
un colonnello 5mila, un tenente intorno ai 4mila euro (v. Adista Notizie nn. 62 e 78/11).
«Siamo immersi in una realtà minata dal peccato», spiega mons. Pelvi, quindi la guerra è
inevitabile. «La Chiesa ha sempre tentato di prevenire, evitare e moralizzare la guerra, ma non si
è mai lasciata intimorire dinanzi all’esigenza di un confronto concreto, non retorico con essa»;
tuttavia «anche nelle guerre i credenti rispondono alla chiamata universale alla santità, facendo
prevalere le virtù sui vizi, gli ideali sulle ideologie, gli interessi comuni su quelli individuali»,
per cui la vita militare può essere «strumento ed epifania di santità per quei laici che, dediti al
servizio della Patria, espletano la loro professione militare come ministri della sicurezza e della
libertà dei popoli». Del resto, aggiunge il vescovo generale, «la guerra non c’è più», perlomeno
«come la si è sempre intesa»; l’Italia partecipa a «missioni decise da legittime autorità
sovranazionali» come l’Onu, «operazioni di polizia internazionale in cui l’aspetto militare è
affiancato in maniera significativa da attività di cooperazione»; la situazione può apparire «ibrida
se letta da fuori, con un pizzico di pregiudizio».
E in questo contesto, spiega mons. Pelvi, i cappellani militari «annunciano la salvezza, predicano
la Parola di Dio, si fanno prossimo dei soldati e delle loro famiglie, asciugano le lacrime»,
«contribuendo a costruire la comunità militare in modo che sia sempre più ricca della capacità di
servire per amore l’umanità». È una via per la santità, tanto per i militari quanto per i cappellani,
secondo mons Pelvi, che rilancia la figura di Giovanni XXIII come “santo cappellano militare”,
un esempio non nuovo dal momento che l’idea del vescovo sarebbe anzi quella di fare di
Roncalli il patrono dell’esercito (v. Adista n. 80/11).
Ma l’uso del papa della Pacem in Terris per legittimare la Chiesa con le stellette e le guerre
umanitarie sembra una forzatura: Roncalli, è vero, si trovò a prestare servizio militare fra il 1901
e il 1902, ma solo perché accettò di sostituire il fratello maggiore, la cui presenza era necessaria
in famiglia per il lavoro nei campi; e poi nel 1915-1918, durante la I guerra mondiale, fu
cappellano nell’ospedale di Bergamo, a parecchi chilometri dal fronte. E, nonostante il clima
nazionalista (a cui peraltro non sfuggì nemmeno il futuro papa Giovanni), non sembrò
conservarne un ricordo piacevole: «Tornato a casa – scrive nel suo diario – ho voluto staccare dai
miei abiti e da me stesso tutti i segni del servizio militare», che fu una «schiavitù». (luca kocci)
ASIA/SIRIA - L'opposizione siriana apre al dialogo: "No alla violenza e alla guerra civile"
Roma (Agenzia Fides) - "Non è troppo tardi per salvare il nostro paese. Pur riconoscendo il diritto
dei cittadini alla legittima difesa, ribadiamo che le armi non sono la soluzione. Occorre rifiutare la
violenza e lo scivolamento verso la guerra civile perché mettono a rischio lo stato, l'identità e la
sovranità nazionale": così recita il messaggio diffuso da un gruppo di esponenti dell'opposizione
siriana, riuniti a Roma in un incontro organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio. Il gruppo, guidato
da Abdulaziz Alkhayer del "National Coordination Body" e formato da sedici rappresentanti dei
partiti dell'opposizione siriana, ha diffuso un appello che invita tutte le parti coinvolte a trovare "una
soluzione pacifica al conflitto siriano" tramite un "patto nazionale comune".
"Sappiamo che la Siria, luogo di convivenza di religioni e di popoli diversi, corre oggi un rischio
mortale che incrina l'unità del popolo, i suoi diritti e la sovranità dello stato", recita il Documento
finale, inviato all'Agenzia Fides. Le potenze straniere, si afferma, non devono "incitare alla
militarizzazione" mentre si invita l'Esercito Siriano Libero a "partecipare a un processo politico per
giungere a una Siria pacifica, sicura e democratica".
La soluzione politica, che dovrebbe essere guidata dall'Onu, implica dei passi da parte del regime:
"Il cessate il fuoco, il ritiro degli apparati militari, la liberazione dei detenuti e dei rapiti, il ritorno
dei profughi, gli aiuti di emergenza alle vittime, un vero negoziato globale senza esclusioni che sarà
completato da una vera riconciliazione nazionale basata sulla giustizia". (PA) (Agenzia Fides
Siria L’opposizione a Roma da S. Egidio “Tacciano le armi, trattiamo
con Assad”
di Antonello Guerrera
in “la Repubblica” del 27 luglio 2012
No alla violenza del regime e dei ribelli, sì a una immediata soluzione politica che faccia uscire la
Siria dalla sua drammatica spirale di violenza. È l’appello di 17 importanti esponenti
dell’opposizione siriana scaturito ieri da un’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio a Roma.
L’appello è stato firmato da ben 11 sigle di opposizione e della società civile che operano in Siria
(tra cui il Consiglio di Coordinamento Nazionale, il Forum Democratico e la Coalizione Watan) e
che, raggruppando diversità religiose ed etniche, hanno un dogma in comune: «Le armi non sono la
soluzione». Sì, invece, a una transizione politica, concertata fra regime e opposizioni. Il messaggio
è chiaro: sia le truppe di Assad che l’Esercito Siriano Libero e le bande più estremiste devono
deporre immediatamente le armi per avviare un negoziato pacifico.
«Non è una terza via», precisa il presidente della comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo,
«bensì la volontà della “maggioranza senza voce” del popolo siriano». L’appello si basa sulla
salvaguardia «dell’equilibrio della convivenza» delle varie anime della Siria, oggi minacciato dalla
dilagante violenza nel Paese. Ma come arrivare a un accordo simile dopo il fallimento del piano
Annan?
Secondo Abdulaziz al Khayer, fondatore del Consiglio di Coordinamento Nazionale, le opposizioni
sono pronte a un dialogo con il regime, «ma senza coloro che si sono sporcati le mani di sangue».
«Fondamentale», secondo Al Khayer, «sarà il ruolo della Russia»: «se convincesse Assad a
lasciare», dice Michel Kilo, uno dei più famosi intellettuali e dissidenti cristiani in Siria, «sarebbe la
svolta». Tutti, da Kilo allo storico avversario del regime, Haytam Manna, fino a Samir Aita,
direttore di Le Monde Diplomatique in arabo, concordano su un altro punto: il Consiglio Nazionale
della Siria, l’organo delle opposizioni all’estero, «non rappresenta il popolo siriano e non ha il
diritto di chiedere interventi militari stranieri o permettere l’ingresso di armi nel Paese».
Un governo di transizione che «metta fine alla tragedia» è anche la soluzione indicata dal ministro
degli Esteri Giulio Terzi, a colloquio ieri al Cairo con il presidente egiziano Morsi
Giusta la pena, non la tortura È ora di cambiare le nostre carceri
di Dacia Maraini
in “Corriere della Sera” del 23 luglio 2012
Partendo dal presupposto che il carcere è un luogo di pena, e la pena è necessaria per fare giustizia,
ci si chiede se sia lecito che diventi anche un luogo di tortura legalizzato. Una tortura non esercitata
con coscienza, si potrebbe perfino dire «non voluta», e soprattutto non applicata per ottenere
qualcosa, ma fine a se stessa, il che diventa una testimonianza di pura inefficienza e arroganza del
potere.
«Nel carcere di Siano (Catanzaro) — racconta un detenuto di nome Antonino a Riccardo Arena che
cura la rubrica radio-Carcere su Radio radicale — siamo costretti a vivere in 4 dentro celle di
appena 6 mq. Per farci stare tutti, hanno messo il letto a castello a tre piani, e lo sfortunato che
dorme di sopra si trova con la testa incastrata tra il cuscino e il soffitto». Per capire il supplizio basta
un poco di immaginazione. Dormire ogni notte con la testa incuneata in uno spazio di una ventina di
centimetri, col soffitto in bocca, l'impossibilità di sollevare la testa, la mancanza d'aria, la paura di
voltarsi nel sonno, la spalla non entrerebbe in quello spazio angusto, col pericolo di cadere dal letto;
non è tortura questa? Soprattutto se prolungata. «Il reato di tortura nel nostro codice non c'è —
precisa Arena — ma ci sono quello di maltrattamenti, quello di abuso d'ufficio, quello di omicidio
colposo per i casi di detenuti che muoiono per mancanza di cure; però non vengono mai accertati e
puniti».
«Qui a Poggioreale — scrive Francesco — spesso manca l'acqua corrente nelle celle, e non
possiamo né bere né rinfrescarci. Tra queste mura la vita è diventata impossibile: ci fanno stare in 8
in una cella di appena 10 mq, come vivere per mesi o anni in un autobus pieno di gente. Di fatto
restiamo chiusi 24 ore su 24, con solo 100 minuti di aria, dopo di che ci richiudono e non possiamo
più fare niente se non resistere alla tortura. Ti confesso che ho pensato spesso di farla finita perché
dopo un po', essere trattati come animali, ti fa morire dentro. Finora mi ha salvato il pensiero di mia
moglie e dei mie due bambini, ma fino a quando riuscirò a resistere?». Non solo la strettezza dello
spazio, ma l'inazione, lo stare addosso l'uno all'altro per ore e ore, senza potere fare niente. Anche
questo è tortura. Si possono immaginare le intolleranze, le rabbie, l'aggressività che monta. Eppure
il lavoro è previsto per i carcerati. Ma indovino la risposta: non ci sono guardie a sufficienza per
tenerli d'occhio, non ci sono i mezzi per gli spostamenti, ecc. A volte la replica è molto semplice.
Guardate il caso dei pochi fortunati reclusi che hanno avuto modo di fare teatro o cinema. Sono
usciti, hanno lavorato, hanno goduto di libertà impreviste e non è mai scappato nessuno. Se si dà al
detenuto una motivazione, una occupazione che lo interessi, che magari gli faccia anche guadagnare
qualcosa, se capisce che è nel suo interesse non scappare, non creare problemi, starà alle regole
della fiducia. Ma è chiaro che un lavoro sulla fiducia e la voglia di cambiamento, è molto più
faticoso e difficile che lasciarli marcire in una cella. «Qui nel carcere di Belluno non abbiamo corsi
scolastici, né possibilità di lavoro, né tantomeno di fare un po' di sport. In pratica siamo lasciati ad
oziare 24 ore su 24. Le celle sono in condizioni disastrose e sono rimaste le stesse degli anni 40. I
materassi sono vecchi e puzzolenti e con il caldo non riusciamo a dormire. È vergognoso disporre di
un rotolo di carta igienica ogni 10 giorni, è vergognoso non riuscire a parlare col direttore, è
vergognoso non ricevere adeguate cure mediche. La nostra dignità è ridotta in polvere e tutto questo
è immorale e anticostituzionale».
Riccardo Arena mi ricorda che ci sono due carceri modello nel nostro Paese, quello di Bollate e
quello dell'isola della Gorgona, dove i detenuti lavorano tutto il giorno e rientrano in cella solo per
dormire. Nessuno è scappato e i reclusi sono contenti. «Qui nel carcere di Siracusa siamo stipati
come bestie. In celle di 15 mq siamo chiusi in 12, per 22 ore al giorno. Da quei 15 mq ci devi
togliere lo spazio occupato da 4 brande a castello alte 3 piani, 5 tavolini e 12 sgabelli. Come si può
chiamare questa, una pena o una tortura?». Perfino a Rebibbia, da sempre considerato un carcere
modello, le cose non vanno meglio: «Qui ci possono stare circa mille detenuti, siamo invece più di
1.700 — scrive Valerio —. Molti vengono ammassati nelle salette per il ping pong, senza neanche il
bagno. Gli agenti sono pochi e lavorano sempre sotto stress, il mangiare è scarso, cattivo e i prezzi
del sopravvitto sono un furto. Ti informo anche che non solo io ma tanti altri miei compagni sono
pronti ad aderire ai 4 giorni di sciopero della fame e del silenzio che ha proposto Pannella».
In effetti il solo fra i politici che si sia impegnato con passione è proprio Marco Pannella e i detenuti
lo sanno. Per questo hanno aderito a migliaia all'appello per i 4 giorni di digiuno e silenzio indetti
da Radio radicale. «Ho il tavolo coperto da una montagna di lettere — mi dice Arena — abbiamo
bisogno di riforme, ma subito. Ce ne sono già due, la Nordio e la Pisapia, già pronte sul tavolo del
ministro».
Gli chiedo qual è la base delle riforme proposte. E mi risponde che tutti partono dalla
razionalizzazione del processo, accorciandone i tempi e riformando il sistema delle impugnazioni.
Un processo che dura 4 o 6 anni, non fa mai giustizia. «Pensi che ci sono 14 mila persone in attesa
di giudizio nelle nostre prigioni». Fra l'altro più della metà dei carcerati oggi è dentro per traffico di
droga e sono spesso drogati essi stessi. «In questi casi ci vuole una comunità terapeutica, non la
galera. Ma la burocrazia rende difficilissimo questo passaggio».
Ho letto decine di lettere, una più angosciosa dell'altra. C'è chi parla di topi che corrono sui letti, chi
di scarafaggi nel piatto, chi non riesce ad avere le medicine per malattie gravi, chi ha vissuto il
terremoto chiuso in cella per un'ora prima di essere portato fuori.
«Il carcere di Ferrara ha subìto seri danni dal terremoto. Ci sono crepe dappertutto e la cucina è
inagibile, perfino gli agenti si rifiutano di entrarci. Sai qual è stato il rimedio? Trasferire centinaia di
detenuti in altre prigioni sovraffollate. Per noi che siamo rimasti qui, nulla è cambiato. Le scosse
continuano ogni giorno e, come prima, restiamo chiusi 22 ore al giorno in celle stipate».
Cosa aspettiamo a dare loro una mano?
E' un mordi e fuggi quello che attua il cosiddetto "Esercito libero siriano" (Els), la
milizia ribelle finanziata ed armata da vari attori regionali (e non solo), di cui fanno
parte anche migliaia di jihadisti provenienti da diversi paesi e che hanno formato
reparti di mujahedin sempre più consistenti ed armati (grazie a fondi che starebbe
mettendo a disposizione «privati» sauditi, iracheni e kuwaitiani). La stampa e le
agenzie internazionali riferiscono che altre migliaia di jihadisti stanno affluendo in
Siria, passando tra Turchia, Iraq e Giordania. Ieri è stata annunciata la nascita della
Brigata «al Tawhid», che è solo l'ultima delle decine di formazioni di orientamento
islamista che compongono l'Els.
La lotta contro Bashar Assad assume sempre di più le caratteristiche di una guerra
santa del sunnismo radicale contro il regime alawita (sciita) di Assad e, in senso di
largo, contro quella Mezzaluna sciita che si era levata negli anni scorsi con la crescita
dell'influenza iraniana in Medio Oriente, con grave sgomento delle petromonarchie del
Golfo. Oggi dovrebbe partire una raccolta di fondi straordinari in Arabia saudita a
favore dei «fratelli in Siria» (i ribelli) e Riyadh conta di organizzare ad agosto un
vertice di paesi islamici "contro la sedizione", al quale certo non verra' invitato lo sciita
Iran. Nenanews
Giordania, Il regno dove lo stupro è legale, di Eleonora Vio
Roma, 25 luglio 2012, Nena News - Se avete sempre associato la monarchia
hashemita a una versione arabeggiante della composta e liberale corona britannica,
rimarrete sconvolti dal sapere che dietro questa patina di perbenismo e modernità si
cela un'amara e oscura realtà.
Mai sentito parlare della "legge dello stupro"? Nel codice penale giordano appare
come Articolo 308 ma non c'è proprio nulla d'improprio nel chiamarla per ciò che è:
una legittimazione legale del barbaro e misogino atto di violenza carnale.
"Questa legge è una chiara violazione dei diritti di donne e bambini," dichiara
all'agenzia di stampa AP Hani Jahshan, patologo forense e medico presso il Ministero
della Salute e il Consiglio di Direzione per la Protezione della famiglia. "La violenza
sessuale ha un impatto profondo sulle vittime e può durare per lungo tempo. Se una
ragazza stuprata sposa il suo stupratore, la sua sofferenza sarà solo aggravata."
Nello stato arabo che, tra tutti in Medio Oriente, cresce con rapidità
eccezionale, a qualunque stupratore è concessa redenzione ed esenzione dai
procedimenti giudiziari qualora decida di sposare la vittima del suo stesso
stupro.
L'aberrante pratica è in uso da tempi immemori ma è tornata a far parlare di sé lo
scorso aprile, quando una ragazzina quattordicenne del villaggio di Zarqa è divenuta
vittima di stupro per ben tre lunghi giorni, al termine dei quali è stata data
'felicemente' in sposa al suo stesso carnefice.
"Non vedo nulla di male nell'Articolo 308," dice Israa Tawalbeh, la prima donna
medico legale in Giordania, a AP. "Accettare il matrimonio in base a tale articolo è
sempre meglio che lasciare che le giovani ragazze vengano ammazzate da genitori o
parenti."
Seppur questo parere abbia del discutibile, la signora Tawalbeh accenna a una
questione delicata ma, al contempo, fondamentale per comprendere alcuni altarini
dell'emancipata società giordana.
In ambienti tradizionali e religiosi, l'onore di giovani fanciulle prossime all'età da
marito viene prima di ogni altra cosa. Spesso, troppo spesso se i casi di 'omicidio
d'onore' in Giordania si annoverano tra i 15 e i 20 all'anno, ciò che conta è
mantenere senz'onta la reputazione della giovane e dell'intera famiglia e a tutto si è
disposti pur di mettere a tacere le malelingue.
Proprio a tutto. Anche macchiarsi le mani con il sangue delle proprie figlie, sorelle e
cugine o cancellare l'ignominia subita facendo uso del provvidenziale Articolo 308
sono pratiche lecite.
Come la direttrice dell'Unione delle Donne Giordane Nadia Shamrukh dice però ad AP,
"Applicando tale legge, si commette un ulteriore crimine. Come può una ragazzina
di 14 anni, cioè una minorenne, sposare il suo stupratore? Ve lo
immaginate?".
Se si considera che in Giordania lo stupro di un minore di 15 anni è punibile per legge
con la morte, la risposta è altresì negativa. Se prima di rispondere, ci si sofferma
però ad analizzare l'importanza che in una società musulmana è conferita all'onore
familiare, annuire debolmente e figurarsi l'impensabile diviene quasi comprensibile.
Eva Abu Halaweh, avvocato e attivista per i diritti umani in testa al gruppo legale
Mizan, racconta ad AP di come in passato abbia tentato di far sì che una vittima
violata non dovesse sposare il suo odiato stupratore. Piuttosto emblematico, in quel
caso, il fatto che fu il padre della giovane ad insistere per siglare un accordo di
matrimonio con il criminale - senza per di più battere ciglio di fronte al suo status di
squattrinato, alla sua prima moglie mendicante o ai sei figli a carico.
Fortunatamente, per dare all'Articolo 308 una parvenza di buonsenso, i legislatori
hanno pensato bene di includere al suo interno una vincolante postilla. Allo
stupratore non è dato divorziare la vittima prima dello scadere dei cinque anni di
matrimonio. Che succederebbe, infatti, se la devota mogliettina si scoprisse una
pessima cuoca?!
Inoltre, i cinque anni di forzata prigione coniugale possono essere ridotti a tre qualora
lo stupro sia ritenuto dalla corte 'infrazione minore'. Peccato che nessun articolo del
codice penale giordano si prenda la briga di spiegare in quali circostanze lo stupro
possa essere declassato a reato di quart'ordine. Nena News
COMPLICI CONSAPEVOLIdi Massimo Fini, Il Fatto quotidiano 28 luglio 2012
Quatto quatto, nelle more della calda estate, quando tutti sono un po' torpidi e non è
detto che capiscano appieno ciò che leggono, Monsignor Ernesto Galli della Loggia
ha pubblicato un editoriale intitolato «Una perfetta impudenza". Scrive Monsignore:
«Da un po' di tempo chi vive in questo Paese non può fare a meno di chiedersi dove
mai erano negli ultimi trent'anni gli attuali protagonisti della scena pubblica italiana,
che cosa allora essi dicevano e facevano,' addirittura se abbiano mai detto o fatto
qualcosa. O forse, invece, erano ancora in troppo tenera età? O magari tutti all'estero
e si occupavano d'altro? Oggi, infatti, nessuno sembra essere stato responsabile di
nulla". Monsignore si addentra poi in un 'cahier de doleance' contro i partiti, la casta,
le oligarchie, il lobbismo, le lottizzazioni sfacciate e tutte le altre nefandezze di cui si è
resa responsabile in questi trent'anni la classe dirigente italiana, politica, economica,
intellettuale.
Tutto ineccepibile. Ma qui sorge, spontanea, una domanda:Dov'era, in questi anni,
l'ultrasettantenne Ernesto Galli della Loggia? Pensava di portare ancora i calzoncini
corti o viveva all'estero, oppure si occupava d'altro?No, Ernesto Galli della Loggia è
da vent'anni, 'assieme al suo degno sodale Angelo Panebianco, il principale
editorialista del Corriere della Sera. Ha avuto vent'anni per denunciare, con la
forza che dà un giornale dell'importanza del Corriere 'le cose che denuncia
oggi: Invece è stato zitto. Peggio: complice: consapevole.
Perché il Corriere della Sera, con i suoi editorialisti (non con i suoi bravissimi cronisti),
a principiare proprio da Ernesto Galli della Loggia, si è appiattito come una sogliola
davanti al potere politico ed economico, ne ha coperto le responsabilità, non ci ha
nemmeno provato a frenare la prepotenza dei partiti e dei loro rappresentanti. " Della
Loggia, che accusa la Camusso (unico nome che fa, la prudenza non è mai troppa) di
essere retriva e conservatrice, è stato ostile a qualsiasi novità che potesse turbare
l'ordine costituito, dalla prima Lega di Umberto Bossi alle inchieste di Mani Pulite, per
finire poi ad avallare, lui sedicente liberale, assieme agli altri sedicenti liberali del
Corriere, Panebianco e Ostellino, tutte le illiberalità di Silvio 8erlusconi,
supportandolo in quella devastante campagna di delegittimazione'della
Magistratura italiana che ci ha impedito di fermare, quando forse si era ancoro in
tempo utile, la frana che ci sta crollando addosso.
Il Della Loggia, per intorbidare ulteriormente le acque, aggiunge che «ci siamo stati
tutti" nel gioco delle responsabilità. Eh no, egregio Monsignore, parli per sé e per i
suoi pari, perché c'è chi - e non sono pochi e nemmeno anonimi - a questo gioco non
c'è stato e ha pagato, e paga tuttora, prezzi assai salati mentre lei evoluisce ancora,
spudoratamente sulla prima pagina del Corriere che non è un luogo per derelitti, ma
per quei privilegiati che «c'è da giurarci", parole sue, «sono più o meno i medesimi
intenti a recitare oggi la parte dei superindignati". E qui Monsignore raggiunge una
vetta difficilmente superabile. Denuncia l'indignazione postuma nel momento in cui la
sta praticando. Una perfetta impudenza.
Rispunta l'ostilità verso le fedi «diverse»
di Ennio Caretto
in “La Lettura” del 29 luglio 2012
Martha Nussbaum, filosofa e docente all'Università di Chicago, denuncia in un libro uno dei
pericoli più gravi per l'Occidente, già deprecato da Giovanni Paolo II: quello di una guerra di
religione strisciante contro l'Islam. Il libro The New Religious Intolerance, edito da Belknap Press
of Harvard University Press (pp. 304, $ 26,95), è un invito pressante all'America, ma soprattutto
all'Europa, a non demonizzare le minoranze islamiche. L'intolleranza religiosa, ammonisce la
Nussbaum, sfigura «tutte le società occidentali», ma in particolare quelle europee, «che
concepiscono l'identità nazionale in termini etnico-religiosi e culturali-linguistici».
Causa dell'intolleranza, secondo l'autrice, è la paura, «la più primitiva e narcisistica delle
emozioni», per l'esattezza la paura che l'Islam minacci il cristianesimo e la democrazia. Ma mentre
in America, nazione che si identifica come la culla della libertà di religione, la paura è temperata
dalle leggi, in Europa è acuita da una storia di discriminazione nei riguardi dei «diversi». A tal
proposito la filosofa, che tuttavia non risparmia le critiche agli americani ostili all'Islam, cita il
divieto di portare il velo integrale in pubblico imposto da Francia e Belgio alle donne musulmane e
il no della Svizzera alla costruzione di minareti, oltre che la strage commessa in Norvegia da Anders
Behring Breivik.
Martha Nussbaum racconta di essere figlia di un protestante razzista del profondo Sud, e di avere
abbracciato la religione ebraica dopo le nozze, a cui il genitore rifiutò di assistere. Paragona
l'antiislamismo dell'Occidente all'antisemitismo, anch'esso figlio della paura. Ed esorta l'Europa, l'Italia
in testa, a farsi più inclusiva «in modo che l'etnia e la religione divengano meno importanti degli
ideali condivisi». «Siamo tutti portatori della dignità umana» sottolinea, e come tali abbiamo diritto
alla libertà di pensiero e di parola. Poche sono le forme di dissenso che lo Stato deve punire,
conclude, in primis quelle violente, così tragicamente manifestatesi nell'attentato alle Torri gemelle
del 2001.
In America il libro ha suscitato un acceso dibattito. La Nussbaum è una nota intellettuale liberal, e
alla destra cristiana non è parso vero vederle riconoscere, in fatto di religione almeno,
l'exceptionalism o superiorità americana sull'Europa. Ma i conservatori dimenticano che da
vent'anni, dalla pubblicazione del saggio Lo scontro delle civiltà di Samuel Huntington, l'ostilità
all'Islam è cresciuta anche in America. Come l'Europa, essa ha una frangia fanatica, impersonata da
Terry Jones, il pastore protestante che diede alle fiamme il Corano. Il monito del libro vale per tutto
l'Occidente e anche per il mondo musulmano. La Primavera araba deve essere religiosa oltre che
politica.
I vescovi cattolici contro la riforma sanitaria di Obama
Corriere della Sera 30 luglio 2012
Marco Ventura
È bastato un mese alla Chiesa cattolica americana per rispondere alla battaglia vinta
da Obama di fronte alla Corte Suprema a difesa della sua riforma sanitaria.
Il giudice distrettuale del Colorado John Kane ha accolto il ricorso della famiglia
Newland, industriali cattolici di Denver, contro l`obbligo di assicurare i propri
lavoratori per le spese necessarie a coprire eventuali interventi medici che il magistero
cattolico considera abortivi. Il giudice ha accolto l`argomento dei vescovi degli Stati
Uniti: imponendo ad un cattolico di pagare un aborto si attenta alla sua libertà
religiosa e dunque si viola il primo emendamento della Costituzione.
La decisione non è definitiva; ricorsi analoghi pendono in altri Stati. La stessa Corte
suprema ha per ora giudicato costituzionale la copertura medica obbligatoria
(l`individual mandate), ma non si è ancora espressa su quelle che il fronte
conservatore, cattolici in testa, denuncia come spese abortive (il contraception
mandate). La Hercules della famiglia Newland, produttrice di impianti di aerazione e
condizionamento con 300 lavoratori, ha vinto una battaglia importante. I vescovi
possono ora sperare divincere la guerra. In gioco, essi sostengono, non vi è soltanto il
diritto della Chiesa di Roma di essere se stessa, ma il diritto di ogni chiesa di
uniformarsi ai propri dettami senza ingerenze dello stato, secondo uno dei più sacri
principi della nazione.
Il primo emendamento alla Costituzione adottato nel 1791 vieta infatti al Congresso di
istituire una religione di stato e gli impone di rispettare il «libero esercizio» della
religione. Grande beneficio ne è venuto ai cattolici: essi hanno sofferto del pregiudizio
anti-papista della società americana, ma sono sfuggiti all`oppressione riservata alle
minoranze religiose negli stati cattolici europei, mentre il «libero esercizio» li metteva
al riparo dalla persecuzione comunista e dal pungolo della laicità francese, spagnola e
italiana.
Portano loro, oggi, la bandiera del primo emendamento: ispirano il conservatorismo
americano; intravedono il trionfo contro Obama.
L’honduras in fiamme, Dana Frank, The Nation, Stati Uniti.
A tre anni dal golpe contro Manuel Zelaya, sono aumentati gli omicidi, la povertà è in
crescita e le istituzioni sono sempre più corrotte. Anche per colpa degli Stati Uniti.
(…) In Honduras incontrare per strada cinque poliziotti è più pericoloso che incontrare
cinque banditi….Secondo i dati forniti da Reporters sans frontierès, dopo il colpo
distato sono stati uccisi almeno ventidue tra giornalisti e operatori dei mezzi di
informazione, quasi tutti critici nei confronti del goeverno…Dopo il colpe nella valle del
basso Aguàn sono stati uccisi quarantasei contadini che rivendicavano diritti sulle
terre…In Honduras viene ammazzato un uomo, una donna o un bambino ogni
settantaquattro minuti….Gli Stati Uniti considerano da tempo l’Honduras un alleato
strategico fondamentale…oggi è il fulcro delle operazioni militari statunitensi in
America centrale. (…)
L’articolo su Internazionale 20 luglio 2012, pag. 58
Opzione preferenziale per i golpisti.
La Chiesa paraguayana volta le spalle al popolo
DOC-2458. ASUNCION-ADISTA. E tre. Dopo il golpe in Venezuela (2002) e
quello in Honduras (2009), anche nel caso del Paraguay la Chiesa gerarchica è stata
motivo di scandalo (v. Adista Notizie n. 25/12). Non si era ancora svolto il giudizio
politico contro Femando Lugo e già la Conferenza episcopale premeva sul
presidente per indurlo alla rinuncia. Erano passate appena poche ore dall'impeachmen
t e il nunzio apostolico Eliseo Ariotti era già a colloquio con il presidente illegittimo
Federico Franco trasmettendogli la benedizione della Santa Seden. Lo stesso
nunzio che subito dopo, nella cattedrale di Asuncio, leggeva, alla presenza di Franco,
un messaggio in cui il papa invocava sul Paraguay la protezione della Vergine di
Caacupé, con l'auspicio che «tutti i figli della nazione paraguayana possano vivere in
pace». E, tanto per non farsi mancare nulla, l'arcivescovo coadiutore di Asuncion
Edrnundo Valenmela veniva immortalato nell' atto di somministrare la
comunione al presidente golpista. Ma all'interno della Chiesa paraguayana, e più
in generale di quella latinoamericana, esistono posizioni ben diverse. Alla denuncia
della Conferenza dei religiosi, che nella sua dichiarazione ha di fatto accusato il
Congresso di aver «compromesso gravemente il processo democratico», altre reazioni
sono seguite, a cominciare da quella delle "comunità cattoliche ignaziane e affini",
legate ai gesuiti, secondo cui «il giudizio contro Lugo può anche essere legale, ma non
è legittimo né giusto».
Sorprendentemente inadeguata è stata invece la reazione al golpe da parte dei
Paesi latinoamericani: il Mercosur si è limitato a sospendere il Paraguay fino alle
prossime elezioni (che si terranno, come era già previsto, nell'aprile del 2013, quando
si sarebbe concluso il mandato di Lugo), escludendo il ricorso a sanzioni economiche,
e lo stesso ha fatto l'Unasur. Decisione quanto meno miope, considerando che, come
pur hanno fatto notare altri due presidenti a rischio golpe, Evo Marales e Rafael
Correa, il mancato ricorso a misure drastiche contro tali rotture dell' ordine
democratico significa dare il via libera perché si ripetano. E in piena controffensiva
delle destre nel subcontinente latinoamericano non c'è affatto da dormire sonni
tranquilli. Uno schiaffo al governo golpista il Mercosur ha comunque voluto dado,
approfittando della sospensione del Paraguay per dare il via libera all'ammissione del
Venezuela come membro pieno dell' organismo, che era stata finora ostacolata proprio
dal voto contrario del Senato paraguayano (verrà ufficializzata il31luglio a Rio de
Janeiro).
Cresce intanto all'interno dei popoli latinoamericani il ripudio del colpo di Stato, a
cominciare dalla creazione in Paraguay di un Fronte Unico per la Difesa della
Democrazia, a cui hanno aderito 14 delle 15 organizzazioni contadine del
Paese (sul sito paraguayresiste.com è possibile seguire tutte le attività della
resistenza). Ma ovunque si moltiplicano le denunce contro il golpe, ricondotto ad un
disegno tracciato dal capitale transnazionale, con Monsanto, Cargill, Syngenta e
Rio Tinto in testa, per mettere le mani su un' area di grande importanza
strategica, destinata alla produzione di agrocombustibili, alla costruzione di
centrali idroelettriche e allo sfruttamento minerario. E in tanti puntano il dito
contro gli Stati Uniti, per i quali, come scrive Oaudia Komi (www.aporrea.org), «il
Paraguay è un elemento chiave nel riordinamento geopolitico diretto ad accerchiare il
Brasile», la principale minaccia geostrategica per gli Usa, a controllare l'Acuffero
Guaranf (la più grande riserva di acqua dolce del mondo), ad assicurare alle
transnazionali l'accesso alle «risorse strategiche del fururo» (acqua, biodiversità, fonti
energetiche) e a stabilire una base militare nel Cono Sur. Non a caso, la proposta
della creazione di una base militare Usa a Mariscal Estigarribia, che era stata
archiviata dal governo Lugo, torna oggi prepotentemente in gioco, come indica
l'annuncio del presidente della Commissione per la Difesa Nazionale, la Sicurezza e
l'Ordine Interno, José L6pez Chavez, sull' avvio di conversazioni con rappresentanti
del Pentagono proprio riguardo all'installazione di una base militare sul
territorio paraguayano.
Di certo, secondo i movimenti popolari, da quanto accaduto in Paraguay i governi
della regione dovrebbero trarre una lezione importante: come evidenzia il documento
"Paraguay: Ocupacion corporativa y Tejido de Resistencia de los Pueblos", promosso
da un gruppo di organizzazioni popolari e di personalità di spicco, «vincere con il
popolo e governare con la destra», che è quanto ha finito per fare Fernando Lugo,
indebolisce lo Stato e crea malcontento tra i cittadini. Cosicché la destra ha poi gioco
facile nello sfruttare la fragilità e il discredito di un governo «che non ha saputo o
potuto governare con e per il popolo» per sferrare il suo attacco decisivo. E limitarsi
poi ad aspettare che la reazione internazionale si spenga - o che, come avvenuto in
Honduras, per «convenienze pratiche» si cerchi infine un accordo, con conseguente
legittimazione del governo golpista - e che la resistenza interna si indebolisca sotto i
colpi concentrici della repressione, della stanchezza e, spesso e volentieri, della mancanza di una visione strategica. È quanto sottolinea anche Frei Betto: «La primavera
democratica vissuta dall'America Latina può trasformarsi in poco tempo in un lungo
inverno, nel caso in cui i governi progressisti e istituzioni come l'Unasur, il Mercosur e
l'Alba non si convincano che al di fuori del popolo mobilitato e organizzato non c'è
salvezza».(…)
(daudia fanti)
Argentina
La chiesa e la dittatura
Nell'edizione di luglio, la rivista El Sur pubblica un'intervista esclusiva a Jorge
Rafael Videla, in cui l'ex presidente argentino (in carica dal 1976 al 1981)
svela la complicità della chiesa cattolica con i crimini della dittatura militare.
Rispondendo a una domanda sui desaparecidos, Videla afferma: "È stato un fatto
deplorevole di quella guerra. Ne ho parlato con molte persone nel corso degli anni.
Con il cardinale Raul Primatesta. Non direttamente con la Conferenza episcopale
argentina, ma con alcuni vescovi. Con il nunzio apostolico Pio Laghi. Ci hanno dato
dei consigli su come gestire la situazione. In alcuni casi, la chiesa ha messo a
disposizione i suoi buoni uffici per informare le famiglie che i loro figli erano morti e
che era inutile continuare a cercarli, chiedendo di non rendere pubblica la notizia". Su
Pagina 12, Horacio Verbitsky scrive che le parole di Videla non solo confermano il
ruolo di primo piano della chiesa nei crimini della dittatura, ma mostrano anche un
coinvolgimento attivo dell'istituzione nell'occultamento di questi crimini..
Stati Uniti Armati, Amy Gardner, The Washington Post, Stati Uniti
Il 20 luglio il Violence policy center e altre associazioni per il controllo delle armi
hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui accusano l'industria delle armi di
essere responsabile della sparatoria di Denver, che ha provocato 12 vittime e 58 feriti.
Dopo le dichiarazioni di Obama, che a Fort Myers, in Florida,
ha interrotto la
campagna elettorale e si è detto "distrutto" dalla tragedia, la Brady campaign to
prevent gun violence, la più importante organizzazione statunitense contro il porto
d'armi, ha risposto con toni accesi: "Non vogliamo compassione. Vogliamo azione". È
molto difficile che siano accontentati. "È una pura questione di calcoli elettorali, e i
calcoli dicono che non vale la pena di affrontare l'argomento", spiega Dan Gross,
presidente della Brady campaign. Gross sottolinea l'enorme peso della National
rifle association (Nra, l'associazione che difende gli interessi della lobby delle
armi) e dei suoi 4 milioni di iscritti, molti dei quali vivono in stati che
potrebbero decidere il risultato delle presidenziali come la Virginia o l'Ohio.
Inoltre nessun provvedimento per limitare la diffusione delle armi supererebbe
l'esame del congresso, dove i repubblicani controllano la camera e dove il sostegno al
diritto di possedere armi da fuoco è molto forte anche al senato.
Uno studio della Gallup pubblicato nel 2010 mostra che negli ultimi vent'anni il
sostegno dell'opinione pubblica a misure più restrittive sul possesso di armi è sceso di
34 punti percentuali. Internazionale 27 luglio 2012
La nazione dei fucili che non cambia mai Gary Younge, The Guardian, Gran
Bretagna, Internazionale 27 luglio 2012
Il coro di voci commosse che si è alzato dopo la sparatoria del 20 luglio nel cinema di
Aurora, vicino a Denver, in Colorado, è l'ostinato ritornello di una perenne elegia
americana. Diversi i cantanti, diverse le voci, ma la canzone è sempre la stessa.
Insieme ai ritratti delle vittime emerge il profilo psicologico dell'autore della strage, e
la classe politica serra i ranghi per cercare di curare una ferita sempre aperta.
Bisogna rispettare lo spazio di chi soffre, ma questo non vuoi dire che in quello
spazio non ci sia posto per il pensiero razionale e l'analisi critica. Al contrario, in momenti come questo c'è un gran bisogno di entrambi, perché a forza di contare incidenti "isolati" alla fine si dovrà pur ammettere che esiste uno schema comune. È
impossibile capire quello che è successo in Colorado senza parlare dell'impatto
delle armi in un paese in cui ogni giorno più di 84 persone vengono uccise a
colpi di arma da fuoco, e quelle che rimangono ferite sono più del doppio.
Eppure sui mezzi d'informazione l'elefante nella stanza viene accarezzato, nutrito e
rispettato. Sostenere che "non è il momento giusto" significa ignorare che gli Stati
Uniti non hanno mai saputo trovare il momento giusto per affrontare il problema.
Nel suo discorso dopo la strage Obama ha fatto bene ad abbandonare i toni della
campagna elettorale e a usare quelli dell'uomo di stato. Maha sbagliato quando ha
dichiarato che "ci saranno altri giorni per la politica, questo è il giorno della preghiera
e della riflessione". Perché, se le nostre riflessioni hanno uno scopo, è quello di capire
l'origine di questa tragedia e di tutte le altre.
Chi ripete che non dovremmo "fare politica" sul dolore delle vittime ignora volutamente che è stata proprio la politica a causare quel dolore. Gli statunitensi non sono
più pazzi o violenti degli altri popoli del mondo. Hanno semplicemente più armi: in
media 90 ogni cento abitanti.
La litania secondo cui "non sono le pistole a uccidere, ma le persone" non fa altro
che girare intorno a una realtà indiscutibile: è molto più facile che una persona uccida
se ha un'arma da fuoco. Gli statunitensi lo sanno, e per questo molti vorrebbero
controlli più severi e una regolamentazione delle vendite più stretta. La lobby delle
armi da fuoco ha dimostrato di essere molto potente, ma esiste una volontà popolare
di cambiare le cose. Serve solo una coalizione politica pronta a lottare. . as
La “nuova” Libia
(…)Perché è proprio questo il punto: dalla fine del regime di Gheddafi, la situazione
dei diritti umani per i richiedenti asilo, i rifugiati e i migranti irregolari è peggiorata in
Libia. «Nella “nuova” Libia, i profughi sono costretti ai lavori forzati sotto la
minaccia delle armi, senza cibo né acqua, continuamente picchiati, in una
situazione di totale degrado per la dignità delle persone», scrive don Mussie Zerai,
presidente dell’Agenzia Habeshia per la Cooperazione allo sviluppo (Ahcs), sulle
condizioni dei profughi, soprattutto eritrei e somali, rinchiusi nei centri di
detenzione libici. (dall’editoriale di Nigrizia)
Emergency tra le tende
Poco più di un anno fa, proprio da questa pagina, annunciavamo la partenza di un
nuovo progetto. Due pullman, trasformati in ambulatori, avrebbero portato assistenza
sanitaria a chi non aveva altra possibilità di essere curato per scarsa conoscenza dei
propri diritti, impossibilità di accedere alle strutture sanitarie, difficoltà linguistiche e
culturali, paura.
La scorsa estate i nostri Polibus hanno percorso le strade di un'Italia
diversa da quella che pensavamo di conoscere. Negli aranceti di Rosarno, tra
i nomadi di Arpinova, nel campo profughi di Manduria abbiamo visto uomini e
donne vivere in condizioni vicinissime alla schiavitù ed emarginati senza
diritti.
Li abbiamo curati, ci siamo fatti carico di accompagnarli nelle strutture
pubbliche quando è stato necessario, li abbiamo ascoltati quando ce l'hanno
chiesto.
Il progetto dei Polibus dava seguito all'impegno che avevamo intrapreso nel 2006
con l'apertura del Poliambulatorio di Palermo e l'avvio del Programma Italia. Anche nel
nostro Paese iniziavamo a toccare con mano la mancanza di risposte ai bisogni delle
fasce più vulnerabili della popolazione. Dal 2006 a oggi quei bisogni sono cresciuti:
una cultura politica improntata all'esclusione e tagli sempre più consistenti alla spesa
pubblica hanno messo in discussione anche i diritti fondamentali.
Secondo il Censis, ad esempio, più di 9 milioni di italiani dichiarano di non aver
potuto ricevere le cure di cui avevano bisogno per ragioni economiche.
Mentre scriviamo, uno dei nostri ambulatori mobili è al lavoro in Emilia.
Cittadini, medici, nostri volontari ci hanno chiesto un aiuto per garantire assistenza
sanitaria nella Provincia di Modena, una delle wne più colpite dal terremoto.
Il Polibus di Emergency si trova in un campo abitato da circa 600 persone, in gran
parte stranieri, e lavora anche nei campi sorti spontaneamente negli spazi aperti delle
città per la paura di nuove scosse.
Non mancano i medici sul posto: mancano invece spazi equipaggiati e puliti, dove
possano fare il loro lavoro. A Rovereto, un paese di 4.500 abitanti poco lontano dal
capoluogo, abbiamo messo il nostro Polibus a disposizione del medico di base che era
costretto a ricevere i pazienti in una tenda da campeggio allestita sulla strada, dopo
che il suo ambulatorio era stato dichiarato inagibile.
La situazione, già critica per tutti, è ancora più pesante per gli stranieri: sul Polibus
trovano l'aiuto dei nostri mediatori culturali per superare le difficoltà linguistiche e
orientarsi tra i servizi di un sistema sanitario che conoscono poco.
Non sappiamo ancora, in questo momento, come evolverà il nostro intervento: lo
valuteremo in base alle richieste e alle necessità che incontreremo nelle prossime
settimane.
Per ora siamo in Emilia perché ce n'è bisogno, e perché vogliamo offiire un segno
concreto di solidarietà a chi, anche nel nostro Paese, si trova in difficoltà.
SIMONETTA GOLA, dal bollettino di Emergency, n.63