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«Con patatine o insalata?»
La poveretta al banco sta per avere una crisi di
nervi. Così, all’improvviso, ancor prima di aver
infilato l’hamburger nella vaschetta. Incerta tra la
ridarella che riesce a controllare a fatica e la disperazione alla vista della coda di persone che si allunga
dietro di me, inizia a tremare. Avrebbe preferito
mille volte rifilarmi le patatine senza chiedermelo,
così sarei sparito il più lontano possibile, magari
in Sudamerica. Ma il regolamento parla chiaro: lei
deve chiedermi se preferisco insalata o patatine.
Si ricomincia daccapo. Spiacente, signorina, ma è
stata lei a farmi la domanda.
«P…p…pata…ti…ti…»
«Patatine, benissimo. Otto e quaranta».
Sono felice che mi abbia interrotto. Spesso la
gente aspetta che arrivi a finire la frase da solo, come
se interrompendomi mi facesse capire che balbetto.
Sapete una cosa, ragazzi? Lo so già. Da trent’anni
cerco di parlare, e in trent’anni ho avuto modo di
accorgermi che le parole non mi escono di bocca
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normalmente. Quindi a chi mi interrompe, a chi
finisce la frase al posto mio, dico grazie. Fate guadagnare tempo, a voi e a me. Esco con il mio sacchetto
di carta pieno di calorie dal buon sapore di grasso e
raggiungo la sala mensa.
*
Seduto al tavolo di formica bianca – probabilmente
l’impiegato più anziano dell’azienda – mangio in
fretta e furia prima che arrivino i colleghi. Pranzo
sempre abbastanza presto, così io non li incrocio
e loro non incrociano me, e siamo tutti contenti.
Estraggo il lettore mp3 di tasca e mi infilo gli auricolari. Sono rari i momenti della giornata in cui
posso ascoltare la musica che mi piace, invece della
robaccia diffusa dalle casse del negozio. La musica
è la mia passione, ne so almeno quanto ne so di
elettronica, ma sono condannato a subire i gusti orrendi di Renaud, il mio capo.
In genere i colleghi mi danno sui nervi. Com’è
possibile fare il commesso in un negozio di high-tech
senza saperne assolutamente nulla? Tra il tipo che
consiglia un computer di ultimissima generazione
a una vecchietta che non riuscirà neanche a tirarlo
fuori dalla scatola, e quello che considera la fotografia solo una corsa sfrenata al maggior numero di
megapixel, francamente siamo messi malissimo. Se
a consigliare i clienti fossi io, però, non riuscirei a
terminare neanche una frase entro l’orario di chiusura del negozio.
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Accidenti, non mangio abbastanza in fretta. Mi
tocca di sorbirmi Christo. Christo appartiene alla
razza dei venditori ignoranti che, pur di conquistare
il premio (ridicolo) per l’impiegato più efficiente del
negozio, riescono a intortare i clienti già passati per
le mani degli altri colleghi.
E potrei ancora perdonarglielo, se non fosse che
si crede l’uomo più intelligente della terra. Appena
arrivato ha insistito perché lo chiamassimo Christo,
in omaggio al tizio che si diverte a impacchettare i
ponti con stoffa di un rosa schifoso. Porta spillette
dai messaggi originalissimi, tipo Save the trees oppure No alla guerra. Un vero ribelle! Così, quando entra in sala mensa metto il turbo per finire le patatine
e taglio la corda, prima che il rompipalle abbia il
tempo di rovesciarmi addosso le sue citazioni filosofiche spiluccate su Internet o certe battute pesanti
sulla nuova impiegata dell’amministrazione.
Giusto il tempo di lavarmi le mani e di indossare
di nuovo il gilé con i colori del negozio, e torno alla
cassa per riprendere servizio. Davanti a me hanno
messo un cartello che mi risparmia di rivolgere la
parola ai clienti: ‘Buongiorno, mi chiamo Germain
e sono muto. Grazie per la comprensione’.
*
Suscitare compassione piuttosto che collera: l’idea
è stata di Renaud. Una buona idea, senza dubbio.
La mia prima settimana in negozio era stata un vero
disastro.
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A essere sinceri, forse avrebbe fatto meglio a licenziarmi. Con o senza il dono della parola, sono tutto
tranne che un buon cassiere, e le lamentele su di me
arrivano con la regolarità di un metronomo. Eppure, non so perché, lui mi vuole bene. Col tempo siamo diventati amici e ci frequentiamo regolarmente.
Mi capita perfino di andare a cena da lui senza che
la sua compagna, Marion, ne approfitti per cercare
di appiopparmi a qualcuna delle sue amiche. Pur se
totalmente diversi, Renaud e io siamo entrambi dei
disadattati. A volte penso che se non ci fossimo mai
incontrati, né io né lui sapremmo cosa sia un vero
amico.
Grazie al colpo di genio di Renaud, il mio lavoro
consiste nel passare gli articoli sopra il lettore di codici a barre e, senza mai aprire bocca, nell’indicare
ai clienti il prezzo che compare sul piccolo schermo della cassa. Dando l’impressione che la ditta si
preoccupi di far lavorare gli handicappati: piccolo
bonus gratuito.
Mentre indico la tastiera del bancomat a una
vecchietta che, commossa dal mio caso, trattiene a
stento le lacrime, penso a cosa farò stasera: a quando
uscirò dal negozio, al tragitto fino al mio appartamento. Meglio smettere: se comincio adesso, il pomeriggio non finirà mai.
Riporto la concentrazione sul lavoro e, cliente
dopo cliente, pagamento dopo pagamento, arrivo
alle sei senza urlare in faccia a nessuno. Ho vinto la
mia sfida quotidiana: sono Medaglia d’Oro di Resistenza alla Noia.
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Prima di andarmene passo dallo spogliatoio, dove
Renaud mi aspetta al varco:
«Ciao, Germain, buona serata! Ah, sabato organizziamo una festa, ti va di venire?»
«P…p…perché n...n…no, s…s…sì, ch...ch…
chi c…c’è?»
«I soliti. Io e Marion, forse Alex e magari anche
Violaine…»
Gli lancio un’occhiata assassina e me ne vado
senza dire una parola. Dovrei prendermela, crede di
potermi fregare... ma sono troppo eccitato, ho troppa voglia di uscire. Domani avrò tutto il tempo di
arrabbiarmi per la desolante evidenza della trappola
di Marion.
Tremo, tanto è il bisogno di sfogarmi accumulato
nel corso della giornata. Corro verso la metropolitana e mi precipito giù. Ritrovo quell’odore unico,
di sudore misto a urina e detersivo. Quell’odore così
particolare, che un parigino riconoscerebbe tra mille. Non mi disturba, anzi: se un giorno sparisse ne
sentirei la mancanza. Supero i tornelli e finalmente
arrivo alla banchina. È strapiena di gente. Potrei
piangere dalla gioia.
*
Certe volte immagino cosa sarebbe la mia vita senza
la metropolitana: un inferno, in cui non mi rimarrebbe altro che guardare la vita della gente intorno
a me senza potervi partecipare. I viaggi in metropolitana sono forse l’unica cosa che mi trattiene dal
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buttarmi nella Senna quando le parole mi escono
così frantumate che nemmeno mia sorella riesce a
comprendermi.
Qui, e soltanto qui io sto al mio posto e gli intrusi siete voi. Vi vedo, vi guardo, so chi siete. Non
conosco il vostro nome, professione o età, ma so
subito chi detestare tra voi. Quella vecchia davanti a
me, che si tiene stretta stretta la sua borsetta Chanel
e scruta con aria prevenuta tutti i passeggeri un po’
troppo scuri di pelle per i suoi gusti. Quel cretino
con le cuffie grandi il doppio della testa, che costringe tutto il vagone ad ascoltare l’ultimo orrore dei
Tryo. Quel tipo sulla trentina, in giacca, cravatta e
ventiquattr’ore con il logo di una banca, di ritorno
a casa dopo aver venduto titoli tossici a una pensionata che perderà così i risparmi di una vita.
E vedo me stesso, solo, seduto su questo sedile
verde mela. Non valgo tanto più di voi, lo so, e neanche di meno; voi, però, per comprare il biglietto al
cinema non avete bisogno di scrivere su un pezzo
di carta il nome del film. Per quanto posso, allora,
cerco di ristabilire una parvenza di giustizia. Vi punisco: cammino sui piedi di una tizia, ne spintono
un’altra. Odio tutti i passeggeri ignari della loro fortuna, che rompono le scatole a chi vorrebbe soltanto
tornare a casa in santa pace. Se qualcuno si accorge
di me recito la parte dell’imbranato, di quello non
abituato a prendere la metro: una vera e propria arte,
affinata nel corso degli anni, la sola valvola di sfogo
che mi permette di cacciar fuori tutta la collera di
cui altrimenti non riuscirei a liberarmi.
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Arrivato a casa, accendo la tele sul canale delle
notizie e mi piazzo sul divano, svuotato e sereno.
Di solito non resisto più di dieci minuti prima di
addormentarmi. Ogni sera rimando all’indomani
l’aggiornamento sulle vicende del mondo.
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Quando suona la sveglia sono già sotto la doccia.
In genere sono mattiniero, ma il giovedì divento
patologico. Scelgo cosa indossare guardando la tele
con occhio distratto. La giornalista parla per almeno
un quarto d’ora dell’anniversario di non so cosa. Ne
deduco che stanotte, nel mondo, non deve essere
successo granché. Sembra provi imbarazzo a dilungarsi tanto sull’argomento, ma deve pur riempire
il tempo della sua trasmissione. La capisco: so cosa
significhi esercitare una professione inutile.
Prima di andare avanti, c’è qualcosa di me che dovete sapere: so vestirmi solo per andare ai concerti.
Per qualsiasi altra situazione sono davvero negato.
Se almeno fossi daltonico, avrei una scusa per i reati
contro il buon gusto che commetto ogni mattina.
Di solito me ne frego, ma il giovedì ho appuntamento con Clotilde e cerco di essere elegante; non
riuscendoci, sto ancora più male. Pazienza, è troppo
tardi, devo andare. In ogni caso Clotilde conosce il
mio stile, e se la cosa la turbasse l’avrei già capito da
un pezzo.
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Sono ormai due anni che vedo Clotilde ogni giovedì. Ovviamente all’inizio non la chiamavo Clotilde, ma ‘dottor Kermarrec’. Dopo un tot di sedute
è riuscita a ficcarmi nel cervello che i logopedisti
non sono medici, e che se lei mi chiamava per nome
era logico che facessi lo stesso con lei. Adesso siamo
Clotilde e Germain.
Mi sono informato e ho scoperto che non avrebbe il diritto di trattarmi con tanta confidenza, ma la
cosa mi piace. A pensarci bene, sono tante le cose di
Clotilde che mi piacciono.
*
Il tragitto verso l’ambulatorio di Clotilde ha questo
di particolare: non cerco mai passeggeri da punire.
Il giovedì mattina anche i più stronzi possono stare
tranquilli. Sono troppo occupato a borbottare gli
esercizi che ho ripetuto tutta la settimana. Per una
volta vorrei mostrare qualche progresso a Clotilde,
farle vedere che andare da lei serve a qualcosa. E invece
no, sempre la solita storia: le sillabe mi si rimescolano
insieme ed escono ancor più a singhiozzo del solito.
A volte arrivo in ambulatorio fradicio di sudore,
tanto sono teso, ma quando sono con lei cerco di
mostrarmi disinvolto e riesco persino a scherzare sul
mio handicap. Per niente al mondo vorrei che capisse quanto sono furioso con me stesso perché sono in
grado di utilizzare qualsiasi apparecchiatura elettronica, ma non il mezzo di comunicazione più universale:
quello no.
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Ogni volta arrivo in anticipo, e devo ingannare il
tempo. Com’è possibile che place de la Nation sia
così brutta? È un enorme svincolo, pensato solo per
le automobili e non per i pedoni, un vero insulto a
Parigi. Questo per dire che la mia seduta settimanale è davvero importante per me, visto che tutti i
giovedì sono qui. Come ogni settimana finisco per
sedermi da ‘Chez Mario’, un bar il cui proprietario
italiano imita malamente quello che crede sia l’accento parigino; forse ha visto troppe commedie francesi. Perlomeno non devo sopportare la musicaccia
lounge strombazzata dalle casse del bar per fighetti
qui a fianco. Altro grosso vantaggio, il proprietario
ormai mi conosce e mi serve il caffè senza che debba
ordinarlo ad alta voce. Tutto tempo guadagnato.
Guardo i passanti andare al lavoro, andare a far
compere, andare dove vanno i passanti, e mi sforzo
di calmarmi. Controllare il respiro. Espirare. Inspirare. Espirare. Inspirare. Niente da fare. Anche senza
pronunciarle, sento le parole imbrogliarsi nella testa,
mescolarsi le une con le altre. Le sento spintonarsi
cercando di uscire dalla bocca tutte insieme, come
i passeggeri della metro. Ma loro non hanno nessuno che le prenda a sberle, nessuno che gli insegni
a darsi una calmata e ad aspettare il proprio turno.
Hanno solo voglia di zampillare fuori, sfuggirmi di
gola, senza preoccuparsi di obbedire a qualcosa che
dia loro un ordine.
Basta lagne. Mi alzo e, con passo deciso, mi dirigo all’ambulatorio. Sono le nove.
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*
Mi sono appena seduto nella sala d’attesa quando
arriva Clotilde: una volta tanto è in orario. A essere
sinceri ha molte virtù, ma scarseggia in quanto a
puntualità. Mi capita regolarmente di aspettarla più
di un’ora, seduto su questa poltrona di pelle, mentre
gli altri pazienti entrano ed escono dagli ambulatori
e mi guardano imbarazzati. In compenso, quando
Clotilde arriva, chi è rimasto mi invidia. Oggi è
così: i pazienti del fisioterapista sono visibilmente
dispiaciuti di avere dei problemi al collo del femore
invece che alla laringe.
Alla prima seduta, dopo che per mesi Renaud mi
aveva esortato a farmi visitare, stavo per andarmene
via, furioso per essere restato mezz’ora ad aspettare
con le mani in mano. Poi si era aperta la porta ed era
entrata lei, rossa in viso e senza fiato per aver fatto le
scale di corsa. Di colpo la mia rabbia era scomparsa.
Informazione sui logopedisti: diversamente
da quelli di Medicina, i loro studi durano solo
cinque anni. Ecco perché puoi trovarti davanti,
senza preavviso, una venticinquenne che non
riesce a riprendere fiato. Se non sei tanto furbo
ti viene facile credere che sia una paziente come
te. Soprattutto quando la neoarrivata non riesce
a spiccicare una parola, tanto ha il fiato corto.
Mentre le offri un bicchiere d’acqua del boccione è assolutamente plausibile che, per renderti
interessante, le balbetti come puoi che non è il
caso di correre, tanto la dottoressa Kermarrec è
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in mega ritardo. E magari aggiungi, ridendo, che
sarà meglio se, quando arriva, trova una buona
scusa. Infine, quando per tutta risposta lei dice:
«Mi spiace di essere tanto in ritardo, ma non ho
nessuna scusa. E comunque non sono un medico, mi può chiamare Clotilde», l’unico desiderio
che ti resta è di buttarti dalla finestra più vicina.
Entrambi imbarazzati da quell’esordio, abbiamo
trascorso buona parte della prima visita profondendoci in scuse. A essere precisi, lei si profondeva in scuse mentre io balbettavo alla grande. Da
allora non abbiamo fatto molti progressi.
*
La seduta di oggi è perfettamente identica alle altre.
Come ogni settimana, lei mi rivolge qualche domanda generica: com’è andata la settimana? Cosa
ho fatto? Cosa ho visto? Ho capito subito che queste
domande sono un sistema per valutare i miei progressi senza dovermi chiedere direttamente come
sono andati i miei esercizi. E, come ogni settimana,
leggo la delusione nei suoi occhi.
Francamente, non credo sia una buona cosa che
un terapeuta se la prenda se non ottiene buoni risultati. Ne so abbastanza di ospedali per sapere che se il
malato non è un bambino i medici devono rimanere
quasi insensibili, distaccati. Clotilde non ci riesce.
E se da una parte trovo commovente che lei voglia
davvero aiutarmi, forse la pressione che questo suo
desiderio esercita sulle mie corde vocali risulta trop22
po pesante. Magari con un altro logopedista potrei
migliorare.
Ma io non ho nessuna voglia di cercarmi un altro
logopedista.
Superato il piccolo interrogatorio, ricominciamo
con gli esercizi di respirazione là dove li avevamo
lasciati la settimana scorsa, ma lei mi interrompe
subito.
«Che cosa le succede?» mi domanda. «Stamattina
ha la testa altrove».
«N…n…niente d… di… s…specia…ale» mento.
«Lei mente, Germain. Sta respirando male».
Ma certo, che mi succede qualcosa. Lei sa sempre
leggere dentro di me come in un libro aperto. O
forse sono trasparente, e lei è l’unica a prendersi la
briga di osservarmi con attenzione. Sta di fatto che
è inutile mentire.
«V…v…vado a p…p… prende…de…re mio p…
p… padre d…d…domani s…s…sera alla s…s…
sta…zione».
«Ah. E la cosa la preoccupa?»
«N…n…no, ce…e…rto che n…n…o. S…s…
ono solo un p…po’ s…s…stanco, ho do…vu…to
s…s…siste…ma…ma…re la ca…ca…casa».
Sì, certo che sono preoccupato. Lo sono da ieri
sera, quando mio padre mi ha telefonato chiedendo
se poteva venire a trovarmi questo fine settimana.
Avrei tanto voluto dirgli di no, ma è impossibile
dire di no a mio padre senza essere tormentati dal
rimorso e doverlo richiamare cinque minuti dopo. È
il suo piccolo potere speciale. Terribilmente efficace.
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Clotilde sa che non mi piace parlare di lui, non
insiste e ricominciamo con gli esercizi. Dopo un’ora
esco dallo studio totalmente prostrato.
Il lavoro che facciamo durante le sedute non è
complicato. Di fatto sono sempre gli stessi esercizi,
anche se mi piacerebbe che Clotilde ne trovasse di
nuovi, in uno dei suoi libri di logopedia. Ciò che
mi sfinisce è stare un’ora intera con lei, perché per
tutto quel tempo cerco di fare buona impressione
o mi chiedo se anche lei prova qualcosa per me. A
volte penso di cogliere nel suo sguardo qualcosa di
più del semplice interesse professionale. Ma forse
penso troppo.
E poi, se anche fosse, il nostro è un rapporto terapeuta-paziente, e immagino che lei abbia prestato
un giuramento o qualcosa del genere, che le impedisce di avere una storia con un suo paziente. La
versione logopedistica del Giuramento di Ippocrate.
Ecco qua. Sono condannato a stare con lei un’ora
alla settimana, il giovedì mattina, e a passare il resto
del tempo a ripetermi che magari la prossima volta
troverò il coraggio di confessarle cosa provo per lei.
O a fantasticare di aver fatto progressi tanto decisivi
da smettere di incontrarla nelle vesti di paziente.
Giuro: se un giorno accadrà, la invito a bere qualcosa. Conto su di voi per ricordarmelo, nel caso al
momento buono non trovassi il coraggio.
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