LEGGI L`ANTOLOGIA DEGLI ELABORATI DI - CIS-GIS

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LEGGI L`ANTOLOGIA DEGLI ELABORATI DI - CIS-GIS
ANTOLOGIA DEI MIGLIORI TANDEM
PARTECIPANTI AL CONCORSO
PAROLE E CHINA:
LA VALLESINA SI COLORA DI GIALLO
CIS srl
Moie di Maiolati Spontini
Settembre 2010
Hanno fatto parte della giuria:
Giancarlo Trapanese
(Giornalista e Scrittore)
Massimo Mongai
(Scrittore)
Marco Bianchini
(Scuola Internazionale di Comics di Firenze e fumettista)
Graziella Santinelli
(Scuola Internazionale di Comics di Jesi)
Giordano Pierlorenzi
(Centro Sperimentale di Design Poliarte di Ancona)
Giovanni Bonafoni
(Comune di Ancona - Dirigente Area Cultura e Politiche Giovanili e Scrittore)
Cristiana Simoncini
(Giornalista)
Sergio Cerioni
(Presidente CIS srl)
Antonella Banchetti
(CIS srl)
Luca Giulietti
(CIS srl, Ideatore CISinTANDEM)
Alessandro Morbidelli
(Scrittore, Ideatore CISinTANDEM)
LE TRACCE:
1) Una viene dal passato, mani rozze e sguardo sottile. Pelle scura, cotta dal
sole. Un fazzoletto in testa e sulle spalle il peso degli anni passati nei campi.
L'altra viene dalla città presente. Giovane e attraente, vestiti firmati e sguardo
rivolto al futuro. Nella mano, inseparabile, il cellulare. Per la prima è un'estate
come tante altre, a raccogliere le pesche, a passeggiare nel grano.
Per la seconda è una vacanza all'ombra delle mura antiche, persa nel silenzio di
un centro storico muto e cauto, a ritemprare lo spirito nella Vallesina. Per una
di loro, un ruolo scomodo: quello dell’assassino.
2) Di notte ci guardava le stelle. Perse tra nebulose lontane, brillanti come
fuochi sempre accesi nel buio, le raggiungeva grazie a lui. Di giorno, tuttavia,
raramente lo degnava della sua attenzione. E pensare che gli aveva anche dato
un nome, proprio come si fa con un animale domestico. Ma quel giovedì,
all’imbrunire, durante uno dei loro rari incontri diurni, era successo
l’imprevedibile: dalla finestra di casa, persa nel piccolo centro storico
circondato da ulivi, avevano spiato il comune vicino, placidamente adagiato sui
colli della Vallesina, scivolando tra le vie strette e ombrose, lungo i contorni
dell’alto campanile, fino a intrufolarsi nella finestra giusta. Nessuno avrebbe
mai pensato che a risolvere il “caso del fumettista” sarebbero stati un bambino
e il suo telescopio.
3) I dodici si ritrovarono seduti intorno a un tavolo. Il giornalista era in mezzo
a loro, spaesato e un po’ impaurito.
«Sarà lei a raccontare per filo e per segno quello che è successo!» disse uno.
«Lei è la nostra penna di punta!» aggiunse un altro.
Lui non rispose, fece solo un cenno affermativo con la testa, sentendosi onorato
e un po’ perduto.
«Sa, nel nostro territorio non capita tutti i giorni di assistere a un fatto di tale
importanza. La sua relazione su come si sia giunti a risolvere il caso sarà per
noi fondamentale, per trovarci pronti in futuro!» disse un terzo.
«E poi, questa va sicuramente ricordata!» disse un quarto.
Il giornalista sorrise e sorrise ancora, madido di sudore.
«Un caso che ha coinvolto tanto le nostre campagne, quanto i nostri centri
storici!»
«Un caso eclatante!»
E così, mentre i sindaci rievocavano di nuovo lo stupore di quei giorni, il
giornalista prese coraggio e pose la sua unica domanda, che fece tornare il
silenzio: «Scusate signori sindaci, ma potrei omettere almeno la vicenda
dell’istrice col cappello?»
LE COSE A METÀ
di Alberto Cola
Lei
Penso a me stessa ed è come se guardassi delle radiografie. Una Monica in
trasparenza. Niente di niente.
Mi sono fermata qua, per caso, perché un incrocio vale l’altro. Perché un
vuoto vale l’altro. Se non hai niente da dare, niente ti può fare male.
Eppure è strano, tutto mi piace in quest’estate di piombo; e immagino questo
posto d’inverno, in una terra piovosa, le frange di bruma sui fianchi delle
colline, i torrenti dalle acque malinconiche, votati a ninfe scomparse da tempo.
Non me la sento, mi ha detto. Così, come niente fosse. E se n’è andato.
In quel momento sono scomparsa. D’improvviso, tutto era inutile. La
Mercedes, le boutiques, le vacanze a Nassau e le chiacchiere da cuori ipocriti.
E alla fine è bastato poco, come fermarsi in questo paese perché ad andare
avanti neanche a parlarne. Fino al giorno dell’acquazzone che ha lavato via
tutto, anche i cattivi pensieri. Lì, col cielo rabbuiato e gonfio, ecco i rovesci
come salve d’applausi e il rifugio a due passi. Una come me poteva resistere a
un richiamo così? “La Madonna del Soccorso”, che ironia. E lui era lì,
immobile sulla porta, il volto opaco al riverbero delle candele, paterno, gli
occhi grigi velati dalla preoccupazione. Crollai davanti a uno sconosciuto, e
forse fu facile proprio perché era tale. La certezza che tutto sarebbe finito
davanti a quel sorriso che mi accarezzava dentro. Ho capito che possono esserci
giorni senza menzogne. Giusto il pensiero.
«Hai trovato la forza di dividerlo con me» disse don Vincenzo. «Cos’altro ti
serve?»
Niente, padre, ho pensato, solo una passeggiata per non lasciare le cose a
metà. Nella testa e nelle gambe.
Perché è tutto qui, no?
Lui
Certe cose capitano e basta.
Lei non sarebbe stata la prima e neanche l’ultima. Quelle così le riconosco
dallo sguardo, dagli occhi bassi, dall’aria colpevole, che quando raccontano si
sforzano di sorridere, come se la cosa non importasse. Era qui da due giorni ma
tutti non facevano che parlare di lei. E chi l’aveva mai vista una così? Che
bella, per carità, lo era, con quegli occhiali scuri troppo grandi, rotondi come
dice la moda. Magari su una spiaggia ci puoi passare anche inosservata, ma
qua, al Poggio, come fai? E l’ho vista spuntare nell’unico giorno d’agosto che
pioveva a secchiate, col prendisole arancio e il passo svelto sotto la porta delle
mura. Era quasi sera e il cielo una miseria di grigio; l’ho capito subito che
aveva un peso da togliersi, di quelli che non ti fanno vivere, che ti mangiano.
S’è bloccata davanti al portone aperto neanche avesse visto la porta del
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Paradiso, e io fermo lì, come una cornacchia vestita di nero a fare la guardia
all’acqua.
- È aperto? – ha chiesto, seria, l’acqua che colava sul trucco.
- Se Dio vuole, non abbiamo gli orari dei negozi.
Poi ho riso e lei s’è sciolta. Come una bambina. Era giovane e tornò per due
volte prima di andarsene via, verso qualche grande città. Le città di quelle come
lei.
Fece in tempo a confessarmi tutto però, della sua vita, del suo uomo
scomparso e soprattutto del bambino che portava dentro di sé. E che non
sapeva cosa fare.
Era ancora più bella alla luce delle candela, una madonna. Le dissi che da
giovani si è capaci di tutto, o almeno lo si crede. Poi arriva la vita.
Mi è dispiaciuto che non mi abbia detto che se ne andava, ma la cosa più
importante è che abbia capito.
Certe cose capitano e basta.
L’altra
Si vedeva subito che era una poco di buono. Sempre a spasso, la signora,
caduta dal pesco manco fosse un dono. E quei quattro ciambotti al bar, con gli
occhi di fuori ogni volta che passava. Tutti a rizzare il pelo a l’poggio quando
arrivano quelle di città. Capirai: sanno poco delle donne, figurati delle belle
donne.
A me non la contava giusta, la puttana. E s’era pure messa a fare la
smorfiosa con don Vincenzo. Passi la sfilata in piazza, le cosce e le tette che
faceva prima a fartele immaginare, ma il prete no, che lo conoscevo da quando
eravamo ragazzi e a quei tempi sì che ci si teneva a certe cose. Bello era don
Vincenzo, che un po’ tutte ne eravamo innamorate, anche se io di più. Ti faceva
venire le gambe d’acqua quando lo vedevi, e mica lo potevi raccontare. Tre
sere c’è andata la puttana, che l’ultima volta che l’ho vista uscire dalla chiesa
m’è venuta voglia di andarle dietro, tanto aveva l’aria soddisfatta. E quando ha
preso per il sentiero del Trabocco c’ho avuto il nervoso. Sta’ a vedere che
hanno un appuntamento, mi sono detta. Alla cascatella poi ho pensato che
doveva finire lì, che sennò quando se ne sarebbe andata?
Con un po’ di sassi addosso ahivoglia prima che tornasse a galla.
E adesso il tono stanco di don Vincenzo mi fa venire ancora più le madonne.
Che qua, inginocchiata al confessionale, avrò diritto anch’io di parlare, di dire
la mia, di sgravarmi dai peccati.
«Annina, sono tre giorni di fila che ti confessi… che c’è ora?» dice,
scocciato.
«Don Vince’, le cose non si può lasciarle a metà.»
«E allora parla… In nomine patris, et filii…»
Ma tu non lo sai che il vero amore non muore mai?
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di Flavio Naspetti
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VINO AL VINO
di Francesca Ballarini
La vecchia sapeva il fatto suo, ma non lo dava a vedere. La potevi pensare
un’innocua ignorante, la villana che ti porta per la vigna e capisce solo di terra
da seminare, di pioggia in arrivo e odora pure di stalla. La signorina Clara la
vedeva così, lei col suo foulard impregnato di profumo di gardenia, i mocassini
per passeggiar elegantemente in campagna e sentirsi una volta tanto - via dalla
folla della metropoli da bere - una “donna bucolica”, e potersi vantare, al
ritorno, di una nuova, affascinante sfaccettatura del suo essere.
Penosa, poveretta, pensava la vecchia Ada.
L’avrebbe fatta passeggiare sotto sua cortese richiesta lungo il filare del
vigneto, che per anni suo marito aveva amorevolmente curato, fino a farlo
diventare così rigoglioso che a tutti i proprietari terrieri faceva gola. Pian piano
ogni filare era passato nelle mani di altre ricche famiglie, ma nessuna di loro
era mai riuscita a strappargli l’ultima vigna, senza dubbio la più bella e florida.
Clara era lì per quello, carpire il segreto di quelle uve succose, dalle viti
potenti che nessuna grandine sconfiggeva. E magari portargliela pure via quella
vigna, ché non bastava mai un nuovo terreno di bifolchi ad arricchire la lunga
lista dei vigneti Giorgi. Suo padre, scomparso da qualche anno, sarebbe stato
orgoglioso di lei.
«Lei è la figlia di Giorgi…»
«Sì, la figlia del Dottor Giorgi.»
«Io e mio marito l’abbiamo conosciuto, un bel tipo suo padre, davvero un
bel tipo. Ne abbiamo visti tanti noi… tutti vogliono la nostra vigna, ma noi non
la cediamo a nessuno. Lo tenga a mente mentre ci passiamo dentro,
signorina…»
«Oh Signora Ada, ci mancherebbe altro! Abbiamo così tanto da fare con
tutte le centinaia di terreni! Son qui solo per ritemprarmi e godere della
compagnia di una vera contadina! C’è così tanto da imparare da voi, dalla
vostra semplicità e dal vostro attaccamento alla terra…»
«Sì, sì, molto attaccati alla terra. Abbia fede, anche lei lo sarà, dopotutto ci
finiamo tutti, sottoterra…»
«Speriamo il più tardi possibile, Signora Ada!» esclamò Clara, sfoggiando
il migliore dei suoi sorrisi. Non avrebbe mai dato soddisfazione a quella
vecchia strega. Era ovvio che stava cercando di intimorirla. Ma tanto presto la
vecchia sarebbe morta e la vigna meravigliosa se la sarebbe comprata lei.
Perché quella vigna era davvero meravigliosa. Le foglie smeraldo, lucide e
dalle punte perfette che come mani simulavano dolcemente il passare del vento
estivo tra i pampini, così arricciolati come capelli che ci avresti voluto passare
il dito dentro e divertirti ad avvinghiarti a lui. E quei grappoli voluttuosi,
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passata da poco l’invaiatura, ricolmi di acini di un sanguigno rosso rubino.
Pietre preziose da appuntarti come spille allo spolverino beige, ma pulsanti
come un cuore, vive, avrebbe detto.
«Signora Ada, sarà dura per lei seguire le sorti di questa vigna, bella ma un
po’ lasciata andare… Alla sua età non le piacerebbe starsene seduta in veranda
a godere del paesaggio di queste splendide colline?»
«Questa vigna è la mia vita, mia e di mio marito.»
«Lungi da me essere troppo dura, ma suo marito non c’è più e lei è avanti
con gli anni… Sa, son certa che con la nostra cura la sua vigna sarebbe ancora
più bella, e suo marito più felice ancora!»
«Lei dice?»
«Ma sì signora mia, si fidi di me! Diventerà ricca dalla vendita del suo
tesoro!»
La vecchia guardò Clara, sorrise e mise una mano sull’esile spalla della
ragazza.
«Un raffinato gioiello come lei non potrà che abbellire la mia vigna. Anche
mio marito apprezzerebbe, se non di più!»
Clara fintamente arrossì, rise trionfante e abbracciò la vecchia puzzolente.
Sapeva di morto, pensò.
«Se mi aspetta qui beviamo un bicchiere di vino per festeggiare.»
«Con piacere Ada! Bisogna brindare!»
La vecchia si allontanò fin a scomparire alla vista di Clara.
La ragazza soddisfatta rimirava i grappoli tra poco suoi e si godeva il
silenzio di quel corridoio di pietre preziose e capelli arricciolati. Capelli.
Avevano davvero sembianze così umane quelle viti...
Si avvicinò ad una di esse e infilò un dito nel boccolo del pampino. Quello
cominciò a stringere, all’inizio come la mano di un bambino, poi sempre più
forte in una morsa che ammutolì Clara.
Avvenne tutto in pochi minuti.
I pampini divennero sempre più grandi, piante che diventavano vive, rami
che diventavano braccia, grappoli che diventavano teste, centinaia di teste di
acini ululanti e dalle bocche voraci, stringhe di ramoscelli che le strizzavano la
vita, e lei si dimenava, lanciando i mocassini senza riuscire a emetter alcun
suono, mentre la vite più grande la teneva al collo e stringeva, stringeva senza
farla più respirare.
L’ultima cosa che riconobbe prima che la decapitasse in un sol boccone, fu
l’acino che le stava di fronte, così familiare, che strideva disperato, per sempre
condannato a carnefice, stavolta di sua figlia.
Nella veranda Ada aspettò che le sue viti si chetassero, poi si versò un
bicchiere di vino, e brindò.
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di Francesca Ballarini
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LA STATUA DI SAN LORENZO
di Alessandro Cartoni
La fissava, là, stesa nella rimessa degli attrezzi, con i capelli scarmigliati e
quelle gonne corte all’altezza delle mutande.
Svergognata, pensò ancora una volta Maria. Non sentiva il minimo
rimorso. Che cosa c’era da sentire? L’unica cosa che percepiva nettamente era
il manico ruvido della roncola con cui aveva mondato i rami dei peschi e non
solo quelli.
Guardò fuori nell’aria immota del primo pomeriggio, i contorni delle cose
tremolavano fin quasi a svanire. Dal campo sull’Esino nessun rumore se non lo
scrosciare della cascata di Mergo.
C’era solo lui, la bestiaccia, che continuava a guaire. Anche in quello era
diverso, urlava come una bestia di città, come la sua padrona, pensò la vecchia,
che aveva strillato fino alla fine. L’aveva finita con un colpo sul collo perché
non ne poteva più di sentirla mormorare. Una pozza di sangue adesso le
bagnava il tubino bianco sul davanti.
Maria espirò forte e uscì quasi correndo dalla rimessa. Raggiunse l’animale
e l’agguantò dietro al collo. Come una furia attraversò il campo, c’erano
papaveri cresciuti qua a e là e piccoli crochi selvatici, si fermò ansante sulla
riva.
Lanciò il barboncino di peso nel punto più fondo della cascata, seguì la
sagoma per un attimo prima che sparisse trascinata nel gorgo.
Era la fine che si meritavano, «Tutti e due», disse la vecchia tra i denti,
mentre si toglieva il fazzoletto e si asciugava il sudore.
Ricordava bene quando era arrivata la “svergognata”, quindici giorni prima
con quell’aria da monachella di città, gliela aveva presentata il prete al
Boccioletto proprio dietro la chiesa. «Questa è Sara…» le aveva detto Don Ugo
«… è una ragazza fidata che non ti darà problemi.» Aveva anche aggiunto,
alzando gli occhi al cielo.
«È di buona famiglia…»
C’era in effetti quell’animale strano che era parso a Maria “poco cane” e
troppo simile a un coniglio. Ma si sa la gente di città ama certe cose.
«Non si preoccupi per il cane, può stare fuori» aveva dichiarato la giovane.
«E dove dovrebbe stare sennò?» aveva pensato lei.
Eppure le cose erano andate subito male. Un po’ per quella mezza pecora
che continuava a stare in casa e a farci i porci comodi suoi e un po’ per la
monachella che tanto monachella non era.
Dov’è che se ne andava al tramonto, tutta scollacciata e profumata? E poi a
chi telefonava continuamente con quell’aggeggio attaccato all’orecchio?
Quando la vedeva camminare avanti e dietro sculettando sul terrazzo, le
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sembrava una matta. Ma ormai erano tutti matti anche a Mergo a parlare tutto il
giorno da soli. E’ per questo che lei non l’aveva mai voluto il cellulare, le
sembrava una cosa contro natura. Anche Don Ugo avrebbe dovuto stare attento
invece di fare tante prediche.
I dubbi per Maria erano cominciati presto.
Se Furio, il marito, non avesse tirato le cuoia all’improvviso, cinque anni
prima, stroncato da un infarto, magari lei avrebbe rinunciato ai villeggianti, chi
glielo faceva fare di mettersi in casa degli sconosciuti? Ma ormai con la
pensione minima e i soli prodotti dell’orto era stata costretta a contare sugli
affitti.
È così che era arrivata Sara, e Maria doveva solo ringraziare e starsene
zitta.
Una sera l’aveva seguita, per vedere dove sarebbe finita la svergognata e
l’aveva pescata davanti alla farmacia del dottor Carletti che trafficava al
distributore dei preservativi.
«Eccola là…» aveva esclamato la vecchia.
E tuttavia anche questo avrebbe potuto passare, Don Ugo durante le
prediche era stato comprensivo coi peccati della carne. L’età, gli ormoni e
questo tempo “senza religione” potevano spiegare tante cose. Tante cose sì, ma
non la cattiveria di quell’animale sacrilego. Era stato lui a toglierle il sonno,
non la padrona.
L’aveva beccato una mattina a urinare sui pomodori e sulle zucchine
dell’orto come se quello fosse un campo qualsiasi. Gli aveva detto «Sciò…
via… pezzo d’un demonio!» ma quello aveva proseguito con la faccia da ebete.
Un’altra volta aveva lasciato il suo bel ricordino proprio in mezzo al centrino
della tavola da pranzo. Come c’era salito lassù?
Ma il peggio era stato la domenica successiva, quando lei era in chiesa e la
casa era restata incustodita. Non sapeva che cosa dovesse aver pensato il
bastardo, ma al ritorno aveva trovato la statua di San Lorenzo, quella intagliata
a mano da Furio, scorticata alla base e con due moncherini al posto delle
braccia. S’era divertito il demonio a rosicchiargliele via e poi non contento ci
aveva anche pisciato sopra.
Lei era sbiancata, s’era dovuta appoggiare al muro della sala per non
cadere.
Adesso mentre se ne tornava alla rimessa, nell’aria torrida, colma del
ronzio delle cicale, Maria era stranamente calma, quasi felice. Ricordava
perfettamente l’espressione di Furio il giorno di San Lorenzo quando aveva
tirato fuori la statua in ciliegio, bellissima, e le aveva detto «È per te, Mariu’,
sono due anni che ci lavoro».
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di Carita Lupattelli
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LO SPINOSO CASO DEL CARNEFICE A FUMETTI
(Miglior racconto, esclusi i primi due classificati)
di Gabriele Falcioni
È una notte da lupi mannari ma Beatrice non li teme. Il pericolo ha due
gambe e porta un fazzoletto in testa. La signora Adelia l’accoglie con un
sorriso: «Entra, cara.»
La ragazza varca l’uscio dell’abitazione. Poca luce all’interno. Candele e
odore di fuliggine. Teme che l’umidità non farà bene al suo tailleur.
«Carino qui» dice Beatrice, guardandosi intorno. Il cellulare è nella borsetta
di Gucci, acceso. All’altro capo è in ascolto il maresciallo, pronto a intervenire.
Adelia le scivola alle spalle per chiudere la porta. Profumo di lavanda.
Mette il catenaccio.
«Dopo quello che è successo al povero giovine non mi sento più al sicuro.»
Il povero giovine è l’ultima vittima del carnefice di Castelbellino. Una
storia antica che è tornata di attualità quando il corpo del ragazzo è stato
ritrovato nella tana di un istrice. Qualcuno ha riconosciuto il cappello del
ragazzo (questi artisti, sempre originali) impigliato tra gli aculei e, seguendo
l’animale impaurito, lo hanno ritrovato.
La casa sembra un museo della civiltà contadina. Alle pareti ci sono utensili
irriconoscibili. Alla luce tremolante sembrano arnesi da tortura. Uno in
particolare.
«Gradisci una tisana, cara?»
«Grazie.» Beatrice esita, poi si siede. «A volte la realtà supera la fantasia,
vero?»
Adelia versa acqua nel bollitore. «In campagna non c’è tempo per le
fantasie, cara.»
«Mi riferivo al ragazzo morto, quello che ha narrato la storia del carnefice
di Castelbellino nella sua, ahimé, ultima graphic novel.»
«E cosa sarebbe, cara?»
«Un racconto a fumetti. Leggendolo, sembra quasi che abbia intervistato il
carnefice.»
«Forse non ha gradito l’intervista, cara.»
Neanche il ragazzo, almeno all’inizio. Beatrice aveva scoperto che il
famoso fumettista era lì in paese per presentare la sua opera, quindi gli aveva
estorto un’intervista. Era stato evasivo, si era contraddetto. Alla fine aveva
troncato la conversazione e se n’era andato, salvo richiamarla per prometterle
rivelazioni stupefacenti riguardo la sua prossima opera. Niente male per quella
che avrebbe dovuto essere una semplice vacanza nella quiete della Vallesina.
«In paese girano voci.»
Adelia versa l’acqua bollente in due tazze. “Non fare caso alle comari,
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cara.”
«Dicono che lei ha visto il ragazzo la sera che è sparito.»
Le tazze tintinnano tra loro. Un po’ d’acqua finisce in terra. Quando Adelia
si gira, ride come una chioccia.
«Bambina mia, pensi che abbia fatto del male al povero giovine?»
Beatrice ride a sua volta. «Speravo che lei potesse dirmi qualcosa di più su
di lui.»
«Benedetta figliola, tutto quello che so l’ho detto al maresciallo. Potrei
raccontarti del carnefice. Io c’ero. Ma il povero giovine lo ha fatto meglio di
me.»
L’occhio di Beatrice cade su una foto sbiadita, alla parete. Un viso giovane
ma con gli stessi tratti solidi della padrona di casa.
Adelia segue lo sguardo di Beatrice e sospira. «Era la mia povera sorella,
cara.»
Beatrice simula un po’ di sorpresa.
«Com’era bella. E come è morta?»
Adelia raggiunge la madia alle spalle di Beatrice e torna alle tazze con un
barattolo. Due cucchiaini di erbette finiscono nelle tazze. Lavanda e menta.
«È una storia dolorosa, cara.»
«Mi scusi, non volevo metterla a disagio. È che in paese dicono…»
Lo sguardo di Adelia s’indurisce. «Qualunque cosa dicono non è vera! Mia
sorella era buona e incapace di fare alcun male.»
«Ma l’incidente…»
«Storie! L’incidente non le ha cambiato il carattere. Era solo caduta da
cavallo. Una ferita al capo e una brutta cicatrice. Niente altro. Il resto è
invidia.»
Beatrice sente di non poter reggere oltre il gioco.
«Siete così simili… provi a sciogliere i capelli…»
Adelia si avvicina con le tazze. «I capelli, cara?»
«Secondo me i capelli lunghi le stanno bene. Come quelli di sua sorella…
perché non toglie il fazzoletto?»
Adelia posa le tazze. Si avvicina ancora. «Cos’hanno i miei capelli?»
«Che bel fazzoletto… posso vederlo?»
Adelia ha una mano dietro il grembiule. «Vuoi il mio fazzoletto?»
«Ha detto così anche al ragazzo?»
Adelia alza una roncola seghettata.
Beatrice alza il braccio.
La finestra va in frantumi.
Profumo d’inchiostro fresco. Il suo preferito. Beatrice sfoglia il giornale
che le ha portato Carlo, il figlio dell’affittacamere. Col suo telescopio, il
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bambino aveva notato per caso la cicatrice sulla testa di Adelia. La sparizione
del fumettista, di cui era un grande fan, e le voci di paese, lo avevano spinto a
parlare con Beatrice. L’analisi del fumetto e il ragionamento avevano
concentrato i sospetti su Adelia. Dopo l’arresto, aveva confessato.
Divenuta violenta dopo l’incidente, aveva ucciso la vera Adelia e preso il
suo posto. Il diario della vittima, col doloroso resoconto delle sue gesta (gli
omicidi del carnefice), era fortunosamente finito in mano al fumettista, che ne
aveva tratto il suo capolavoro. La sua morte era conseguita al fallito tentativo di
riavere il diario perso.
Il resto è cronaca. Inclusa la storia della nuova mascotte del Comune:
Sherlock, eroico segugio, anzi, istrice.
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di Tommaso Campanini
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L’ANGELO VENDICATORE
di Marco Astracedi
Assassina per procura. Investigatrice per procura. Giustiziere per un delitto
avvenuto 66 anni prima.
È una trentenne alta e bionda, al cellulare parla in tedesco: «L'ho trovata,
nonno. Credo che la responsabile sia lei. Ti farò sapere…»
La ragazza era arrivata da lontano, come turista. Ma non era casuale la
scelta della località: le Marche, quel paesino arrampicato sulle colline che
fiancheggiano il fiume Esino.
Qui sperava di poter scoprire una verità sepolta da decenni. Sperava di
poter ridare pace ad un uomo che aveva vissuto per oltre sessant'anni con il
rimorso per aver ucciso ingiustamente altri uomini. Voleva che suo nonno –
l'uomo che, dopo l'incidente che le aveva ucciso i genitori, l'aveva
amorevolmente cresciuta
– potesse morire quietamente, libero da
quell'angoscioso rimorso e da quel furente desiderio giustizia che aveva
inseguito fin da quel lontano 18 luglio 1944: lui non era il solo colpevole...
qualcun altro aveva dato inizio a tutto quel sangue!
Un senso di giustizia anomalo, che sconfinava in un ossessivo desiderio di
vendetta… L'amore che la ragazza provava verso quel vecchio triste, ma che
con lei era stato dolcissimo, stava per farla diventare una portatrice di morte, un
angelo vendicatore.
Il vecchio, nel 1944, combatteva in Italia come sottufficiale nella 71a
Divisione, al comando di un plotone del Sicherungs Bataillon, le truppe di
sicurezza che avevano il compito di sorvegliare le retrovie. La divisione,
decimata dopo i terribili combattimenti attorno a Cassino, era stata ritirata sul
fronte adriatico. Dal punto di vista del Battaglione di sicurezza era un settore
tranquillo: i pochi partigiani presenti erano ragazzi che sfuggivano alla leva
nelle file dei repubblichini, rifugiandosi tra i monti senza dar troppo fastidio ai
tedeschi.
Ma il 17 luglio accadde un fatto imprevisto. Il corpo crivellato di colpi di
un soldato tedesco era stato trovato nella stalla di una casa colonica disabitata.
Subito si pensò ad una imboscata dei partigiani. Eppure, pensò il sottufficiale,
che ci faceva quel soldato lì, da solo!? Sui muri esterni della casa non c'erano
fori di proiettile. Cercò e contò i bossoli nella stalla: 12. Dal caricatore dal
mitra mancavano 12 colpi. Sapeva che il soldato non era stato ucciso in
combattimento, ma non riusciva a vedere più nitidamente.
Gli ordini dell'Oberfeldkommandantur, al contrario, erano chiarissimi.
Nella notte i soldati furono sguinzagliati nel paese insieme ad alcuni uomini
della milizia fascista e radunarono dieci spaventatissimi uomini nella piazza.
All'alba vennero messo contro un muro. Lui guardò quei visi, alcuni rassegnati,
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altri supplichevoli, i più in preda ad un terrore paralizzante, e improvvisamente
dimenticò di essere un soldato che obbediva a degli ordini e sentì orrore per
quello che stava facendo. Eppure, come se fosse un altro a parlare, urlò:
«Feuer!».
Non appena i corpi stramazzarono al suolo sentì gli occhi riempirsi di
pianto, come tutti quelli della piccola folla che, a debita distanza, osservava
attonita la scena. Guardò quei volti sconvolti e straziati... Tutti meno uno. C'era
una ragazza che aveva uno sguardo straordinariamente freddo e distante. La
cosa lo colpì moltissimo, ma non ebbe tempo di far domande.
Improvvisamente si scatenò un infernale bombardamento di artiglieria: gli
alleati avevano cominciato una nuova offensiva.
Negli anni seguenti quell'episodio terribile gli occhi della fanciulla non
smisero un solo giorno di tormentare i suoi sogni. Quando la guerra finì si
trovava a Potsdam. Dalla Germania dell'Est era impossibile sapere qualcosa di
un Paese occidentale e dovette aspettare la caduta del Muro per cominciare ad
indagare. Pochi anni dopo, però, un ictus lo costrinse a letto paralizzato. Il
testimone passava ora alla nipote, che era una poliziotta e conosceva il suo
mestiere e parlava anche un buon italiano.
Con discrezione e decisione era riuscita a scoprire che una sola ragazza
abitava allora non distante da dove era morto il soldato. Un labile indizio… ma
poteva bastare.
Quella ragazza ha ora 84 anni. In un orto sotto una grande quercia, la
giovane fissa quella vecchia e le mostra la foto ingiallita di un giovane soldato.
«Una sola domanda» le chiede. «Perché?»
La vecchia rimane ammutolita per alcuni secondi, navigando in un labirinto
di ricordi dolorosi, poi sbianca e si affloscia a terra.
«Ci eravamo innamorati… all'improvviso… davvero tanto…» balbettò la
vecchia. «… ma lui era così triste… così stanco...»
«Stanco?»
«Figlia mia, che ne sai tu della guerra? C'è chi diventa duro come roccia…
chi non ce la fa e si scioglie in lacrime… Lui non poteva reggere un giorno di
più…»
«Perché l'hai ucciso?» insiste, «Non sapevi che altri rischiavano di morire
per questo?»
Gli occhi cisposi della vecchia sono un mare di lacrime: «Me l’ha chiesto
lui, implorando… Se ami veramente qualcuno, come puoi vederlo soffrire? E io
l'amavo tanto… tanto…»
Nella borsetta la mano della ragazza abbandona una pistola che non
avrebbe mai sparato.
19
di Marco Astracedi
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DOPPIA INTESA
di Roberta Morici
“Questa sarà una dura estate”, pensò Maria, mentre passeggiava tra il grano
che dolcemente le accarezzava le gambe stanche. Il sole le batteva forte in
faccia e la sua pelle era ormai talmente cotta da una vita di lavoro nei campi
che sembrava avesse vent’anni di più.
Era figlia di contadini e fin da piccola le fu ben chiaro che,
data la
mancanza di soldi, non avrebbe mai potuto studiare e migliorare la sua
condizione. Ma teneva duro… teneva duro per sua figlia, la sua unica ragione
di vita.
«Se fossi rimasto con me, brutto bastardo, almeno Gioia avrebbe una vita
diversa» si ripeteva quasi ogni giorno con le lacrime agli occhi, ricordando
quell’uomo che le aveva promesso di portarla in America tanto tempo prima,
ma dopo averla messa incinta a 16 anni era scappato per i suoi sporchi affari.
Ed era rimasta con un cuore vuoto e disilluso… e una pancia piena.
Forse ora qualcosa poteva cambiare, anche se ciò che avrebbe dovuto fare
le raggelava il sangue, facendole sembrare quella giornata di caldo torrido una
notte di freddo glaciale.
Non poteva tirarsi indietro. Doveva pensare al benessere di Gioia e basta.
Da domenica la vita sarebbe stata diversa.
Aveva ricevuto quella telefonata e non poteva credere alle sue orecchie: era
lui, dopo quindici anni di silenzio si era fatto vivo, ma lo stupore per lei non fu
tanto l’averlo risentito, ma la richiesta che ebbe il coraggio di farle. In cambio
di soldi, avrebbe dovuto uccidere un’infedele: sua moglie!
Certo, proprio lei doveva farlo, una povera disgraziata di Monte Roberto la
cui unica soddisfazione era andare a bagnarsi i piedi nell’Esino ogni tanto. Chi
avrebbe sospettato di una nullità così? Gli avrebbe sputato in faccia se avesse
potuto, ma quando le parlò di una lauta ricompensa che avrebbe sistemato per
sempre la vita di sua figlia, la rabbia a poco a poco sfumò. Le disse che la
domenica successiva sua moglie sarebbe venuta a Monte Roberto per ritirare un
pacco di droga appositamente sistemato nella chiesa adiacente al castello. Le
avrebbe mandato una foto per identificarla.
Arrivò quella domenica.
«È il tuo giorno».
Si vestì con i suoi modesti abiti. Andò nel fienile dov’erano i suoi
coltellacci da lavoro. «Sgozzare un coniglio o una persona sarà la stessa cosa
no? La pratica non mi manca!»
Le uscì una risatina isterica. Si recò in paese. Sapeva che a tale ora sarebbe
arrivata con il bus di linea, avrebbe attraversato le mura antiche e a tarda notte
si sarebbe recata alla chiesa. Come da accordi, al rintocco delle ventidue
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sarebbe comparso lui con la ricompensa per il servizio reso.
Come da copione la vide scendere dal bus. Non aveva mai osservato una
donna così bella e raffinata. Aveva un portamento da modella sui suoi tacchi a
spillo e non c’era uomo che al suo passare non si girasse a guardarla.
Girò per il paese tutta la mattina e il pomeriggio si fermò ai giardini a
godersi il fresco. Fece una telefonata con il suo cellulare griffato e conclusa
questa, alzò lo sguardo. Incontrò il suo: i suoi occhi azzurri e intensi, il suo
sorriso dolce al cenno di avvicinarsi per domandarle «Mi scusi, sa per caso
dove si trova la chiesa di San Carlo?» e tutti i suoi peggiori intenti si dissolsero
in un attimo.
«Certo signora» le disse balbettando nervosamente, come un bimbo preso
con le dita nella marmellata. «Deve continuare questa via fino in fondo e poi
gira a destra.»
Continuava a fissarla dritta negli occhi, così intensamente come nessuno
l’aveva mai guardata in vita sua. Si sentiva spogliata di ogni segreto, come se
in quel lungo sguardo l’altra riuscisse a leggervi l’anima, risucchiando il male
che aveva dentro.
Sta di fatto che quella splendida donna era riuscita a leggerle nel profondo e
le aveva dato la forza di svegliarsi da quella sete di riscatto che prima l’aveva
pervasa.
Mentre si stava allontanando, dopo essersi congedata con un dolce saluto,
Maria la prese per un braccio e le disse: «Ha un minuto signora? Devo
raccontarle una triste storia…»
Si sedettero su una panchina e, con gli occhi lucidi, Maria tornò l’umile e
docile donna che per una vita intera era stata.
Puntuale alle ventidue una Phantom del ‘31 imboccò il vialetto che
conduceva alla chiesa del castello. Si fermò con un leggero stridio di freni a
pochi metri dal portone. La portiera si aprì e scese un uomo distinto, sui
cinquanta; si tolse il cappello e con espressione interrogativa, iniziò a guardarsi
intorno.
Non ebbe il tempo di fare un passo che due colpi di pistola gli trafissero il
petto e cadde esanime. Dopo aver sparato, l’ex signora Masiero nascose l’arma
nell’impermeabile e lanciò uno sguardo di solidarietà a Maria che aveva
assistito alla scena nell’oscurità dell’arcata d’ingresso. Poi, sfoderando il dolce
sorriso con il quale l’aveva conosciuta, si allontanò.
Maria si avvicinò riluttante all’uomo che un tempo aveva amato.
«Non sei l’unico ad essere infame, saremmo stati una bella coppia.»
Prese la valigetta con i soldi e fu inghiottita dal buio.
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di Luca Morici
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GRAZIE DEI FIORI
di Antonio Lucarini
Una viene dal passato, mani rozze e sguardo sottile. Pelle scura, cotta dal
sole. Un fazzoletto in testa e sulle spalle il peso degli anni passati nei campi.
L’altra viene dalla città presente. Giovane attraente, vestiti firmati e sguardo
rivolto al futuro. Nella mano, inseparabile, il cellulare. Per la prima è un’estate
come tante altre, a raccogliere le pesche, a passeggiare nel grano. Per la
seconda e una vacanza all’ombra delle mura antiche, persa nel silenzio di un
centro storico muto e cauto, a ritemprare lo spirito nella Vallesina. Per una di
loro, un ruolo scomodo, quello dell’assassino.
Sì, perché lasciare l’uomo che si ama è come compiere un delitto è lei ha
deciso di compierlo a Montecarotto…
Sono passati dodici anni da quella sera d’estate e oggi a Montecarotto, nel
suo bellissimo Teatro Comunale, si apre la stagione di Prosa. Va in scena
Tradimenti di Pinter e prima attrice è Sara Flavis di Milano, nota per le fiction
in tv. L’intero paese si appresta a vivere l’evento. Ci sono il farmacista, il
macellaio e molti spettatori venuti da tutta la Vallesina. C’è molta attesa ed
ecco entrare lei, la diva…
Prima un breve dialogo col primo attore poi… Le luci scendono a definire
il suo profilo. La sala è ormai quasi al buio. Si vede solo il suo viso e,
all’improvviso, uno sparo, poi il sangue. Ci sono urla di terrore. Le luci si
riaccendono. Sara è stata colpita alla testa. È morta sul colpo. Arrivano i
soccorsi, le grida sono sempre più forti. Arrivano i carabinieri col maresciallo
Pinna. Qualcuno ha sparato da un palchetto, ma chi? La notte passa e rapida e i
giornali e le tv non parlano d’altro. Sara Flavis è stata uccisa in scena ma
perché proprio in un paese piccolo come Montecarotto? E da chi?
Pinna, da una veloce analisi balistica, sospetta subito il marito, Paolo
Crusca e l’impresario Marco Loris. Lei stava separandosi da entrambi. Il marito
nega: «Lei è pazzo maresciallo! Io l’amavo! Sì c’eravamo lasciati da sei mesi
ma da tre giorni eravamo di nuovo insieme…» grida l’uomo a Pinna in
caserma. Il maresciallo annega nei dubbi ma poi, per dare risposte all’opinione
pubblica, arresta Paolo Crusca…
Quella sera, però, nel piccolo teatro, in platea c’era pure Santo Loquace.
Avvocato fallito di mezza età, Santo ama molto il teatro e c’era. Alcolizzato,
depresso, Sante lavora pochissimo. Scarsa reputazione, dicono. È esperto in
investigazioni assicurative. Ascolta poco gli altri (con quel cognome…
Loquace…), perché secondo lui, la gente in provincia ha solo da dire male
degli altri. Però, lui ha intuizioni forti. Il suo segreto? Il panino alla porchetta
che mangia ogni giorno in macelleria. Gli fa tenerezza quell’uomo, il
macellaio, che tutti chiamano Mozzarella; grasso e flaccido. Con la porchetta
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gli fa sempre trovare un bicchiere di vino. È uno dei pochi a parlarci. Ha visto
morire Sara e qualcosa non gli torna. Perché il marito avrebbe dovuto uccidere
la donna a Montecarotto? Eccolo in macelleria che mangia un panino alla
porchetta. Il macellaio gli sorride. Da un mese vede strani foglietti infitti in una
spilla, sul bancone del macellaio. In ognuno c’è scritto “Grazie dei fiori”, che
strano! Gli dispiace che in paese, ignorino quell’uomo così placido e
intelligente. L’arresto di Pinna gli sembra stupido. Per lui non è stato il marito.
Lo sente. È sera e Sante è nel suo ufficio. Si è informato su Sara tramite
internet. Ora sa tutto. È ancora più convinto.
Non è stato il marito.
Alla base del delitto deve esserci un mistero, un segreto, forse un amore
profondo che è diventato odio. Poi, Sante si attacca alla bottiglia e in vino
veritas… Si addormenta e sogna il padre (che l’aveva abbandonato da
bambino), nel sogno, gli mostra due ragazze che parlavano, tanti anni prima a
Montecarotto. Una è Sara e sta per commettere un omicidio… cioè sta per
uccidere il suo amore per qualcuno di Montecarotto e lo dice alla madre di lui.
La donna è in vacanza a casa del ragazzo; ma lui chi è? Salirà sul treno, tornerà
a Milano e lascerà quell’uomo per qualcuno che le farà fare più strada nel
teatro. Sante si sveglia. È ancora ubriaco e urla: «Grazie papà!»
Sante ha un amico attore a Milano. Gli bastano due telefonate. Sante ha
capito tutto. Qualcuno in paese aveva tentato di fare l’attore da giovane. Era
andato a Milano, aveva messo su una sua compagnia e, indovinate chi era la
sua compagna d’arte ed amore? Sara Flavis! Certo lei poi si era sposata con un
ricco imprenditore. Sante, ora passa davanti all’edicola. Nei giornali campeggia
la notizia che il marito di Sara si è ucciso in carcere. Vendetta, da qualcuno, è
stata fatta e ora Sante sa pure da chi. Pinna, quell’imbecille, ha un colpevole
ormai confesso (con il suicidio). Sante è in macelleria. Sta mangiando il suo
panino e a Mozzarella racconta una triste storia. Qualcuno aveva portato dei
fiori a Sara, nelle due tappe di Jesi e Osimo, un mese prima, ma la donna non
aveva neanche fatto entrare il suo ammiratore. La sua segretaria aveva dato
all’uomo solo dei biglietti (“Grazie dei fiori”). Lei non aveva riconosciuto in
quell’uomo grasso e calvo il suo amore di allora. Quell’uomo era diventato così
grasso per il dispiacere. Quell’uomo era Mozzarella e quella sera era nel palco
accanto a quello del marito.
Mozzerella ammette il delitto. L’aveva molto amata. Sante non dirà niente
a nessuno e vedrà quel macellaio triste, uccidersi per rimorso giorno dopo
giorno, col cibo. Lo vedrà morire d’infarto e sulla sua tomba farà scrivere,
“Grazie dei fiori”, tanto nessuno in paese immaginerà mai niente.
Imbecilli! L’assassina è stata uccisa.
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di Michele Buscalferri
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FERMO IMMAGINE
di Chiara Bertazzoni
Claudia non credeva ai propri occhi, ma era sicura di quello che aveva
visto.
La vecchia la osservava con sguardo sottile. Immobile. Come a voler
cristallizzare per sempre quel momento. Quel gesto.
Aveva spinto il prete giù dalle mura. Non era stato un incidente. Claudia ne
era sicura.
Quella mattina aveva deciso di passeggiare sul belvedere di Maiolati. Era
arrivata un paio di giorni prima da Milano per trascorrere una settimana di
vacanza in Vallesina, nella casa che era stata di suo nonno. Aveva proprio
bisogno di staccare dai ritmi frenetici, dagli impegni, dal lavoro e quella terra,
tanto lontana dalle sue abitudini quotidiane, negli ultimi anni era diventata il
suo rifugio sicuro. Tranquillo. Fonte di serenità.
E ora si ritrovava catapultata in uno di quei racconti gialli che aveva appena
finito di editare per un nuovo progetto antologico.
Stava chiacchierando al cellulare con un’amica quando, da lontano, aveva
scorto le figure di un’anziana donna, incurvata dal peso degli anni, e di un
prete. Parlavano. I toni sembravano accesi, ma Claudia era presa dagli ultimi
pettegolezzi e non ci fece troppo caso. In effetti stavano proprio discutendo.
Litigavano.
«Noi ci fidavamo di te»
«Tu sei pazza, non sai quello che dici»
«Come hai potuto?»
«Pensi che qualcuno ti crederà?»
Fu un attimo. La sorpresa. Il gesto deciso.
La spinta della vecchia era arrivata improvvisa, carica di esasperazione. Di
disperazione.
L’uomo aveva perso l’equilibrio e, afferrando l’aria, era scomparso oltre le
mura.
Claudia aveva visto la scena al rallentatore. In un silenzio quasi irreale. E
ora aveva l’impressione di trovarsi in un fermo immagine.
«Perché? Perché?» continuava a ripetersi
La vecchia appariva scossa, forse incredula, ma non sembrava aver
intenzione di scappare. Per un attimo si era guardata le mani: l’arma del delitto.
Poi aveva alzato lo sguardo su Claudia. Come a chiederle aiuto.
«E io ora che faccio?»
Tante volte Claudia aveva letto di omicidi, vittime, armi del delitto,
indagini, ma lei non era arguta come Miss Marple, non aveva il dottor Watson
come assistente e non si sentiva pronta all’azione come James Bond.
27
«Ti richiamo io» disse all’amica.
E compose lentamente il 113.
Lo aveva fatto per davvero; le sue rozze mani, segnate da anni di lavoro, lo
avevano fatto. Non sapeva spiegarsi dove avesse trovato la forza. Avrebbe
dovuto essere un’estate come le altre: passeggiate nel grano, raccolta di pesche.
Invece era lì, su quelle mura. E Don Luigi aveva appena spiccato il volo. Era
stata lei.
E quella giovane la stava guardando. Aveva visto, Angela ne era sicura.
Non poteva sapere, non poteva capire. Glielo leggeva nello sguardo.
Quando Giulio era arrivato, come ogni estate, Angela era felice. Le
settimane trascorse con il nipote le davano la forza per affrontare l’inverno.
Giulio aveva 6 anni. Un sorriso birichino. E tanta voglia di vita. Una vita che la
vecchia sentiva fluire ogni giorno un poco fuori di sé. Lei e Giulio
trascorrevano le giornate tra lunghe passeggiate, corse nei campi, merende
genuine, risate contagiose e storie raccontate da Angela prima di dormire.
Doveva essere un’estate come le altre. Avrebbe dovuto.
Invece l’incantesimo si era rotto.
«Mi ha chiesto di fargli una carezza, nonna.»
Giulio e i suoi occhi scuri.
«Mi ha detto che doveva essere il nostro segreto.»
Giulio e la sua voce fresca.
«Mi ha detto che sono un bravo bambino e mi ha dato un bacio qui.»
Giulio e la sua mano a indicare in mezzo alle gambe.
Don Luigi passava a trovarli almeno una volta alla settimana, trascorrevano
insieme qualche ora, nel pomeriggio. Angela aveva piacere a chiacchierare con
lui, mentre Giulio giocava, attirando la loro attenzione. Erano stati compagni di
scuola. Il prete era uno degli ultimi amici che le erano rimasti.
«Mi ha detto che la prossima volta giochiamo ancora insieme.»
Giulio e un velo di tristezza nella sua voce.
Angela aveva capito. Il quadro si completava nella sua mente tassello dopo
tassello. Era successo il lunedì precedente, quando Giulio era andato a
raccogliere le pesche con Don Luigi, mentre lei preparava la merenda.
La consapevolezza la aveva dapprima annichilita. Poi una rabbia cieca
aveva preso il sopravvento.
Quella mattina era decisa ad affrontare il prete. Non sapeva cosa avrebbe
fatto. Il destino le aveva dato una mano.
Aveva visto Don Luigi sulle mura, proprio mentre lei si dirigeva verso la
chiesa. Lo aveva raggiunto.
«Noi ci fidavamo di te.»
«Tu sei pazza, non sai quello che dici.»
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«Come hai potuto?»
«Pensi che qualcuno ti crederà?»
Lo spintone le era venuto d’istinto. La forza della disperazione. E il prete in
un attimo era volato via.
La giovane donna la aveva vista. E ora la guardava. Era bella. Uno sguardo
pulito, rivolto al futuro. Il tempo si era cristallizzato in quel momento. Occhi.
Mani. Giustizia.
Chissà forse avrebbe capito. Forse se avesse spiegato…
«Non ho intenzione di scappare» disse Angela.
«Li aspetterò qui.»
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di Laura Giuliani
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FIORI DI PESCO
di Pomili Lucia
«Non c'è campo. Maledizione non c'è campo.»
Echeggiò la voce sottile tra i vicoli antichi. Preceduta e seguita dal
ticchettare scomodo di tacchi troppo alti.
Girando l'angolo si trovò quasi addosso a quella vecchia. Mani consumate
da anni di lavoro nei campi e occhi di liquida tristezza. Era seduta sull'uscio.
Aveva anche quel giorno fatto il suo lavoro, incurante dell'età avanzata.
«Dove vai?» chiese ruvida, come fanno a volte certi anziani o certi bambini,
impertinenti.
Presa alla sprovvista Alice rispose. «Cerco la casa dei Baioni.»
«La nuova o la vecchia?»
«Ce n'è soltanto una.» balbettò.
«Mica vero. La vecchia casa dei Baioni non era proprio loro. Ci vivevamo
insieme, era sopra una collina, circondata da vigneti e da campi di grano. Sento
ancora il sapore di quella polvere d'estate che si mieteva e l'odore acre del
mosto di settembre. Ma tu chi sei? Che ne sai dei Baioni?»
«Io sono la nipote di Maria.»
La vecchia repentina come aveva parlato si zittì.
«Allora, sa dove si trova la casa dei Baioni?» insistette.
Ada, l'anziana che aveva straparlato fino a quel momento, sembrava non
sentirla più, con gli occhi persi pareva fosse altrove.
Alice aveva quasi raggiunto l'angolo del vicolo quando udì di nuovo quella
voce.
«Perché la cerchi? Maria se ne è andata da molto tempo. Nessuno sa dove
sia.»
Alice aveva qualche dubbio sulla scomparsa di sua nonna. Dove mai poteva
essersene andata una donna di trent'anni, con una bimba di appena cinque ed un
altro in arrivo? Perché avrebbe dovuto lasciare la sua casa e la sua famiglia?
Il giorno dopo Alice andò a vedere la vecchia casa di cui le aveva parlato
Ada. «Prima si viveva tutti insieme, una grande casa e due o tre famiglie. Erano
altri tempi, c'era molto da lavorare e poco da guadagnare. E da queste parti si
continua così» le aveva raccontato guardandosi le mani odorose di pesche.
La casa come addormentata resisteva bene al passare del tempo. La quiete
era assordante per lei abituata a sentire sfrecciare macchine e al vociare
continuo della città. Si chiese: ma che ci sono venuta a fare qui? A chi interessa
la scomparsa di mia nonna? Guardò il pesco, carico di frutti succosi sentendo
l'acquolina salirle in bocca. Che vita sarebbe stata quella di restare lì, in quella
grande casa a veder fiorire quell'albero? Sorrise. Il cellulare neanche prendeva,
l'adsl non sarebbe arrivata neanche dopo mille anni. Sarebbe morta in quel
31
posto lì.
Scoprire dove fosse finita Maria non avrebbe riportato in vita sua madre. Se
n'era andata dopo una vita serena, lasciandola con un atroce dubbio: parlava
sempre di Maiolati verso la fine. Nel delirio della malattia piangeva come una
bimba a ricordare sua madre: non l'aveva abbandonata diceva. La fede di una
bimba che per tutti quegli anni, allontanatasi dalla terra natia e dalla campagna,
aveva vissuto sempre con questa convinzione: sua mamma non l'avrebbe mai
abbandonata. Le doveva essere capitato qualche cosa.
Forse voleva solo poterle dire: mamma avevi ragione tu.
Nessuno aveva indagato, al tempo sulla scomparsa di una giovane donna in
evidente stato di gravidanza. Avevano considerato solo il suo carattere un po'
ribelle. Sicuri tutti che se ne fosse andata in un posto migliore. Lontana da
quella casa, quella polvere e quella fatica.
“Tornerò da quella donna.” E non seppe neanche dirsi il perché. Erano
amiche? Lo erano state davvero?
Ritrovare quell'uscio non fu facile come aveva pensato. Troppi giri, troppi
vicoli, troppe case tutte dello stesso sapore. Alla fine, però chiedendo in giro ad
altri vecchi costretti alla cattività del paesello, ce l'aveva fatta.
«Che cosa sa lei di mia nonna?»
Ada, aveva fatto entrare quella straniera spigolosa, con una certa diffidenza.
Ora se ne stava davanti alla finestra. Sembrava più ingobbita dagli anni o forse
dal dover ricordare.
«Cosa è accaduto a mia nonna. Non merito di sapere? Quanti anni sono
passati? Lei sa di sicuro qualche cosa.»
Rispose solo: «Accompagnami alla vecchia casa.»
Davanti a quel rudere, erano entrambe ferme la vecchia e la giovane. I grilli
ed il cielo immobile dell'estate.
«Cosa è accaduto a nonna Maria?»
La carta vetrata della sua voce quasi le ferì le orecchie.
«Io avevo perduto il mio bambino. Un aborto spontaneo dissero, non era
vero niente. Tua nonna con la sua invidia me l'ha portato via. Tutta colpa sua,
mi ha fatto di sicuro il malocchio. Infatti dopo che quella strega è sparita ho
avuto finalmente mia figlia. Senza più quei suoi occhi maligni a guardarmi.»
Alice non riusciva a crederci. «Dove è andata mia nonna, dove sta?»
«Lei non si è mai mossa da qui» rise senza alcuna gioia.
«Sotto questo pesco che amava tanto, che diceva facesse frutti solo per lei.
Ah quante ne ho mangiati. Dopo.»
Alice era incredula. Stretta nel suo bel vestito firmato, scomoda nelle scarpe
impolverate. Rimase lì immobile a prendersi una bastonata in testa. A sentire i
suoi occhi che si appannavano come si erano appannati quelli di sua nonna.
Sì, ci sarebbe morta in un posto così.
32
di Marilena Imbrescia
33
COME DIO LA MANDAVA
di Silvia Gilardi
Giovedì – ore 19.15
Il corpo giaceva riverso sulla schiena, gli occhi fissi al cielo che gli
scaricava addosso tutta quella pioggia. A Mergo lo conoscevano tutti: Giorgio
Speranza, 35 anni, aspirante fumettista, fallito di professione.
Il commissario sorrise amaro all’ironia di quel nome.
Avrebbe voluto coprirlo con il suo impermeabile, perché non si bagnasse.
Che stupido.
Giovedì - ore 18.15
Veniva giù come Dio la mandava, ma non poteva essere Dio a mandarla,
pensava sconsolato Marco. Perché al catechismo gli avevano insegnato che Dio
è buono e invece tutta quella pioggia era uno schifo. Con il cielo così coperto
non si vedeva nemmeno una stella. Quella notte non avrebbe potuto giocare
con Galileo.
Giovedì – ore 19.40
Tutti erano sicuri che Speranza si fosse ammazzato, che avesse deciso di
mettere fine ad una vita di merda. Al commissario scocciava pensarla come
tutti, così, per principio. Si aggirava per quello stanzino zeppo di fogli e schizzi
che era stata la tana di Speranza, guardandosi intorno attento, alla ricerca di
qualcosa.
Giovedì – ore 18.25
Marco prese Galileo, il suo telescopio, e lo puntò in alto, inutilmente.
Abbassò l’angolo di inclinazione e scivolò lungo le vie deserte, ma niente
catturava la sua attenzione.
Il cielo era un posto molto più interessante. Assecondando un naturale
impulso a salire, arrampicò lo sguardo su per i contorni del campanile fino a
giungere poi ad una finestra illuminata.
Giovedì – ore 19.50
Il commissario guardò fuori la pioggia che cadeva in uno scroscio più forte.
Si voltò verso la porta e lo vide: un ombrello nero, elegante e probabilmente
costoso, poggiato contro la parete. Un particolare stonato nello studio di un
disegnatore spiantato. Si avvicinò: l’ombrello era ancora bagnato. Forse
qualcuno aveva fatto visita a Speranza quella sera. Qualcuno che era corso via,
incurante del diluvio, dimenticando lì il suo ombrello.
Si aprì così, a causa della pioggia in fondo, quello che sarebbe stato
ricordato come il “caso del fumettista”.
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Giovedì – ore 18.30
Marco vide un uomo andare ad aprire la porta, di spalle, ed un altro venire
avanti, con un ombrello nero. Marco mise meglio a fuoco il viso dell’uomo e
per la prima volta nella sua vita dubitò di ciò che Galileo gli mostrava. Quello
che vedeva era il volto di Guido Errore, una celebrità, il creatore de Il volo del
corvo, il suo fumetto preferito.
Marco osservò Errore andare verso l’altro e abbracciarlo. Poi li perse di
vista. Stava cercando di cambiare posizione per ritrovarli, quando
all’improvviso lo sconosciuto balenò nel suo campo visivo, retrocedendo di
spalle, troppo velocemente, come se fosse stato spinto, verso la finestra aperta.
Un tonfo sordo gelò Marco.
Errore si affacciò alla finestra, guardò giù e corse via, terrorizzato.
Venerdì – ore 9.00
La porta dell’ufficio si aprì. Una donna esile e nervosa si fece avanti,
tenendo per mano un bambino di nove, forse dieci anni, dall’aria sveglia.
«Racconta al commissario quello che hai visto ieri sera, Marco.»
7 anni prima
«Come hai potuto, Guido? Il volo del corvo è mio e tu lo sai!»
«Non puoi dimostrarlo.»
«Me l’hai rubato, ti sei preso tutto, tutto quello che spettava a me…»
«Giorgio, calmati…»
«Mi fidavo di te…»
«Ok, l’idea forse era tua, ma io l’ho migliorata, io…»
«La pagherai Guido, lo giuro. Dovrai restituire quello che mi hai preso.»
«Sei pazzo Giorgio.»
Guido Errore se ne andò, credendo di uscire per sempre dalla vita di
Giorgio Speranza.
Venerdì – ore 11.30
Guido Errore sentiva intorno ai polsi la morsa fredda delle manette. Sul
sedile posteriore della volante, nel posto che spetta ai criminali, pensò a tutte le
cose che era venuto il momento di restituire.
Giovedì – ore 18.30
Guido Errore poggiò l’ombrello fradicio accanto alla porta. La stanza gli
parve soffocante, il covo di un disperato. Giorgio Speranza se la passava
peggio di quanto immaginasse. Un sepolto senso di colpa gli contrasse lo
stomaco. Ma era lì per rimediare. Dopo tutti quegli anni, finalmente, Giorgio
gli offriva la possibilità di fare ammenda ad uno sbaglio di gioventù. L’aveva
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chiamato il giorno prima, chiedendogli aiuto per la pubblicazione di un nuovo
fumetto. E Guido aveva acconsentito. Stavolta avrebbe fatto ciò che era giusto,
aveva molte conoscenze, non sarebbe stato difficile. E poi Giorgio aveva
talento, l’aveva sempre avuto.
Si abbracciarono. Un contatto freddo e impacciato, ma pur sempre un
nuovo inizio.
«Farò il possibile per aiutarti.»
«Troppo tardi, Guido.»
Giorgio Speranza guardò Guido negli occhi, sorrise, retrocesse rapidamente
verso la finestra aperta e si lasciò cadere nel vuoto.
Oggi
Giorgio Speranza guadagnò da morto tutta la fama che non ebbe in vita. Le
sue opere vennero pubblicate postume, con successo.
Il “caso del fumettista” era chiuso, risolto grazie ad un bambino e al suo
telescopio. La testimonianza di Marco e l’ombrello lasciato dall’assassino
avevano incastrato Errore.
La pioggia, quella sera, gli fu fatale. Chissà se era stato davvero Dio a
mandarla.
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di Maddalena Farina
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IL FUOCO DELLA MIA ORDINARIA FOLLIA
di Federica Giulietti
Come ci si sente quando si è spiati? Lo chiedo a voi.
Un occhio veloce e indiscreto che segue ogni tuo movimento. Una persona
che sa di te senza che tu sappia di lui, o almeno così crede. È per questo che ho
dovuto porre fine alla sua esistenza.
Sono un operaio. La mia vita è monotona e alienante, non c’è nulla al di là
del solito itinerario che ogni giorno percorro per raggiungere la fabbrica; è
come se tutto quello che c’è intorno a me, al di fuori della mia vita quotidiana,
fosse impalpabile o inesistente.
Il buio. C’è buio intorno a me, un buio indefinito che potrebbe inghiottirmi
da un momento all’altro. Ho paura del buio.
Sono un operaio, e uccido per colpa del buio.
Quel ragazzino, quello stupido ragazzino, invece, non aveva paura del buio.
Lui viveva aspettando il calare della notte, e più la notte era buia, più se ne
giovava. Aveva un telescopio che aveva chiamato Magellano, in onore del suo
esploratore preferito, perché – proprio come Magellano – sperava di trovare
qualcosa di inesplorato nello spazio infinito.
È lui che ha trovato la soluzione: per lui il buio non era solo una soffocante
cappa di rarefatta costernazione, lui aveva scoperto che nel buio dello spazio ci
sono milioni di stelle, milioni di fuochi che - ignari di essere osservati turbinano nel loro perpetuo moto convettivo.
E dal fuoco è arrivata la risposta.
Il fuoco brucia, purifica e rischiara le tenebre.
Sputando il fuoco che avevo dentro, alimentato da quei potenti combustibili
quali sono l’insofferenza e la solitudine, ho bruciato le vite di coloro che
conducevano un’esistenza migliore della mia, di coloro che non erano
prigionieri di quella monotonia che logora il cervello fino a farti impazzire.
È grazie a quel ragazzino e al suo stupido telescopio se mi avete trovato.
Io spiavo la vita del ragazzino, ne conoscevo ogni singolo movimento e
tutto andava liscio, fino al giorno in cui lui ha cominciato a spiare me.
È successo una mattina, lui non sapeva nemmeno che esistessero la mattina
e il suo chiaro tepore. Si è svegliato all’improvviso, mentre io non lo
controllavo, vedendo entrare dalle persiane semichiuse della sua stanza dei
sottili raggi di luce.
Come tutti i mocciosi della sua età, un magnetico impulso di curiosità
aveva acceso la sua fantasia alla vista del telescopio che, come anello che
riflette all’occhio della gazza, lo attrasse mediante chiari bagliori riflessi.
Il moccioso era emozionato all’idea di vedere cosa potesse riservargli
l’esplorazione diurna del suo paese natio, Cupramontana e, senza porsi troppe
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domande sul perché non l’avesse fatto prima, cominciò a vagliare con occhio
attento il morbido profilo delle colline, divenute oramai un mosaico frastagliato
di campi lavorati e vigneti disposti simmetricamente da mani esperte di
tradizioni secolari.
Ben presto stufo del paesaggio - seppur ricco di spunti colorati, ma
decisamente inerte - il ragazzino spostò le sue mire sulla vita delle persone,
soggetto decisamente più interessante: io ne so qualcosa.
Mi colse proprio nel mentre del fatto, quando il fuoco della mia ordinaria
follia si stava spegnendo insieme alla vita della mia corrente vittima; vittima
che poi avrei preparato al consueto rogo in cui avrei arso i suoi miserabili resti.
La costernazione, fulminea, colse entrambi: sapevo che lui mi aveva visto,
sapevo che era sfuggito al mio controllo e che in quel mentre i nostri ruoli si
erano invertiti. La mia storia si era mischiata troppo alla mia vita reale
causandomi un insostenibile delirante conflitto.
Sì, la mia storia. Una storia che avevo creato come fuga dal mondo
alienante in cui vivevo. Una storia ben lontana da omicidi seriali, seppur essi
erano cominciati proprio dall’idea stessa del fuoco stellare che frantumava
l’inconsistente vuoto dell’universo; una storia in cui ero un ragazzino con una
vita meravigliosa e in cui non temevo che il buio mi inghiottisse.
Ciononostante, ad un certo punto, mi resi conto che anche la mia vita
parallela era diventata noiosa e ridondante: al di là dei fuochi che rischiaravano
il buio attraverso la lente di un telescopio, “l’io ragazzino” non aveva una vita
degna di nota; mai, addirittura, aveva visto la luce del giorno: ho dovuto quindi
inventare un risvolto interessante in cui il ragazzino decidesse di osservare il
mondo di giorno attraverso il suo telescopio… e nelle sue esplorazioni vide me,
nella mia realtà, un deplorevole assassino che uccideva e bruciava le sue
vittime solo per l’invidia di non possedere una vita interessante come la loro.
Sono un operaio, ma anche un fumettista, e sono colpevole di tutte le
vittime ritrovate carbonizzate negli ultimi tempi. Solo bruciando le mie tavole e
liberandomi del ragazzino che sapeva il mio segreto sono riuscito ad uscire dal
vortice delirante in cui ero caduto.
Ora sono cosciente e mi consegno a voi. Il caso è chiuso. Tutto merito di
quel ragazzino e del suo telescopio.
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di Stefano Ramadoro
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QUANDO MUOIONO I SOGNI
di Enrico Santori
Un corpo.
«Viveva da tanto a Serra San Quirico?»
Immobile.
«Da almeno dieci anni»
Senza vita.
«Quindi era conosciuto da tutti»
Scompostamente disteso sul selciato.
«Chi non conosceva Alberto Roccetti, in arte Rock, il grande fumettista?»
Un lago di sangue.
«Ultimamente le era sembrato strano?»
Fogli sparsi in terra: tavole di un fumetto.
«Strano? No! E poi gli volevamo tutti bene. Ci aveva fatto diventare
famosi. Venivano sempre le televisioni»
«Certo. Certo. E non c’era nessuno oltre a lei quando ha scoperto il
cadavere? Oltre ai due che ha visto correre lontano, intendo»
«No. Ero da solo. Ma quei due che c’entrano? È stato un incidente, no?»
«Certo. Certo. Un incidente. È facile cadere da un campanile»
«COMMISSARIO! ALLA RADIO! È URGENTE!»
«Mi scusi. Vada pure. Può passare domani in caserma?»
«A disposizione commissario. Arrivederci»
“Ma tu pensa” riflette il commissario Persico mentre si avvicina all’auto,
“Proprio a me doveva toccare questo caso. Io che sono cresciuto con le indagini
dell’Ispettore Brent!”.
Il duro, l’inesorabile, il maledetto Ispettore Brent. Il principale personaggio
di Rock, che si muove a suo agio nei bassifondi di New Orleans, tra splendido
jazz e pessimo gin, tra fumo di pub e puttane di strada. L’ispettore Brent,
l’idolo di tanti sognatori, che adesso è in terra e fuma la sua ultima, puzzolente
sigaretta.
Rock non è il solo a essere morto, cadendo dal campanile.
Il dossier impiega due giorni ad arrivare sul computer di Persico, che nel
frattempo ha esaminato le tavole sparse in terra, nelle quali l’ispettore Brent
indaga in una periferia di New Orleans incredibilmente uguale a Serra San
Quirico, scoprendo l’assassinio di un ricco proprietario terriero da parte dei
figli e l’occultamento del suo cadavere in un piccolo riparo in mattoni.
Ma manca l’ultima tavola. Cercata ovunque. Inutilmente.
Nei giorni successivi il caso “del fumettista” diventa nazionale, e la tavola
mancante una leggenda.
All’imbrunire del giovedì, mentre Persico è intento a esaminare per
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l’ennesima volta dossier e tavole, squilla il telefono.
«Commissario?»
«Sì»
«Sono il tenente Ruberti. C’è un bimbo che dice di avere una notizia
importante per lei»
«Me lo passi pure»
«Pronto? Sono Marco Beni. Di Mergo. So dov’è la tavola mancante.»
Il bambino passava le notti tra nebulose e costellazioni, ma a spingerlo a
usare Hubby (il suo telescopio) anche di giorno fu la passione per i fumetti di
Rock e il clamore suscitato dalla sua morte. E così, spiando tra le vie strette e
ombrose di Serra, lungo i contorni dell’alto campanile, sui vecchi tetti, si è
ritrovato a intrufolarsi in una finestra aperta e a scorgere su una mensola
proprio quel che cercava: l’ultima tavola.
Certo che era ben strana: l’ispettore Brent, in piedi su una collina, di fronte
a una vecchia chiesa, che indica un punto lontano, e in basso, a mo’ di firma,
Inferno XXXIV, 139.
Non serviva essere un esperto di Dante per ricordare l’ultimo verso
dell’Inferno: “… e quindi uscimmo a riveder le stelle”. Rock aveva voluto
fugare ogni dubbio: la chiesa riportata era quella di Santa Maria delle Stelle,
poco fuori l’abitato. Vi si diresse.
In piedi sul sagrato imitò il gesto dell’ispettore Brent e si trovò a indicare
una stradina di campagna. La percorse per meno di un chilometro e riconobbe
il piccolo riparo in mattoni, di quelli senza pavimento, che aveva visto nel
fumetto, dov’era il cadavere.
Da quel momento in poi fu un crescendo di rivelazioni. Tornato con una
squadra scoprì effettivamente uno scheletro sepolto. Dalle analisi emerse che si
trattava di Alvise Gerardi, scomparso nel 1971. Proprietario di un’enorme
azienda agricola. Donnaiolo impenitente. All’epoca si pensò alla fuga d'amore
con una giovane cubana, mentre risultò essere stato ucciso con due colpi di
pistola, dello stesso tipo di quella usata in quel periodo dal figlio Giovanni al
poligono. Rintracciata la cubana, questa confessò di essere stata pagata dai
fratelli Gerardi per abbordare il padre e simulare la fuga.
L’appartamento in cui fu trovata la tavola si scoprì essere intestato a una
delle società dei Gerardi, i quali, eliminato il padre che si opponeva a un
progetto edilizio criminale, avevano investito l’ingente eredità in operazioni
speculative al limite del legale (e oltre tale limite).
Ricostruire l’accaduto, a questo punto, fu immediato.
Rock, scoperta la vicenda, ne aveva tratto una storia a fumetti. Ma pensò
bene di sospenderne la pubblicazione per ricattare i Gerardi. I due fratelli, però,
al posto del denaro lo pagarono con un tuffo dal campanile, cercando di
simularne il suicidio. Ma nella fretta caddero anche le tavole che Rock aveva
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portato con sé, e l’arrivo di una persona, quella interrogata da Persico come
testimone, non diede agli assassini il tempo di recuperare tutto il materiale, se
non l’ultima tavola: la più preziosa.
Se è vero che la brillante conclusione dell’indagine portò all’ispettore
Persico la sua razione di celebrità, certo nessuno avrebbe mai pensato che a
risolvere il “caso del fumettista” sarebbero stati un bambino e il suo telescopio.
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di Mauro Raineri
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L’OCCHIO DI LORENZO
di Alessandra Buschi
Del temporale non c’era più traccia. Era bastata una giornata di sole e tutto
si era asciugato.
Da molto non gli capitava di percorrere quella strada, ma più cercava di
godersi il paesaggio, più il pensiero gli correva a quel fatto.
Strano modo davvero di trascorrere il suo primo giorno di ferie, ma quel
chiodo fisso continuava a tormentarlo e forse andare a Mergo era l’unico modo
per allentare la tensione. Cosa e dove avrebbe cercato, poi, non lo sapeva.
«Sai come l’ho chiamato? Lorenzo. Sì, proprio come il santo. E sai chi me
lo ha regalato? Papà. Costa tanto, sai? Ma lui dice che è inutile comprare cose
da quattro soldi. Te ce l’hai un amico come Lorenzo? A te guardare le stelle ti
piace?»
Ricevere quella segnalazione proprio il giorno prima delle ferie non gli era
affatto piaciuto. Aveva sbrigato le pratiche di routine, ma le voci che parlavano
di una traccia di sangue all’entrata del magazzino lo avevano lasciato inquieto.
Certo, era una pratica delicata quella di un incidente mortale, ma di sicuro
non la prima che capitava sulla sua scrivania, lì all’Ispettorato del Lavoro.
Stavolta era stato un incidente in una delle aziende vinicole della Vallesina: un
operaio di Mergo, orrendamente massacrato al cranio, era rimasto vittima di un
incidente alla pressa del confezionamento.
«Peccato non sia sempre notte... Allora io aspetto che arrivi il buio, lo
punto nel cielo e vedo un sacco di cose. Non ti puoi mica annoiare con le stelle!
Sì, di giorno mi annoio. I compiti per le vacanze, la play... No, la mamma non
c’è più. Qualche volta viene mio cugino, quando lo zio e il papà devono
discutere dell’azienda, ma a me non piace Tommaso: non sa nemmeno cos’è
una nebulosa!»
Aveva parcheggiato appena fuori le mura. Era entrato nel borgo da quella
che una volta era stata l’antica porta d’accesso. Per i vicoli, solo il rintocco
dell’orologio del campanile che segnava le undici.
Si era mosso in quel breve intrico di vie senza sapere cosa cercare e si era
ritrovato sul belvedere. Di lì con lo sguardo poteva scendere fino a piccoli
agglomerati di nuove abitazioni e case dall’aspetto padronale.
Assorto com’era, non si era accorto dell’uomo che gli si era avvicinato.
«Cerca qualcuno?» gli aveva chiesto tra il curioso e il diffidente.
Era bastato poco per innescare un fiume di parole e nel giro di qualche
minuto era venuto a sapere che Eros, l’operaio morto due giorni prima, era
sempre stato “un tipo strano”.
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«In che senso?», aveva chiesto.
«Mah, fin da piccolo aveva ‘sta passione per i fumetti. Se ne stava sempre
da solo a disegnare. Perché poi fosse al lavoro l’altra sera, proprio non si
capisce... Era San Lorenzo, sa, la festa del patrono.»
Era proprio lì sopra il belvedere che Eros abitava.
«E insomma a volte ci guardo anche di giorno, anche se non è bello come
guardare le stelle... Tipo se ci sono persone dentro le case, io le vedo: c’è chi fa
cena e chi guarda la tivu. E poi c’è uno che disegna ore e ore dentro casa sua. E
poi ti racconto una cosa, una cosa incredibile…»
«E in quella villa laggiù chi ci abita?»
L’uomo aveva guardato lontano: «Quella? È la villa dei Conti, i proprietari
dell’azienda dove lavorava Eros. Ci abita uno dei fratelli. È rimasto vedovo
presto, pare che ora si sia messo con una... Il figlio avrà sei, sette anni, non lo si
vede mai. Lo faranno crescere come un signorino...»
«L’altra sera aspettavo le stelle cadenti, era San Lorenzo. Invece sai che
temporale che c’è stato? E allora adesso ti dico una cosa, ma tu non la devi
raccontare a nessuno, eh? Era già buio e avevano iniziato a fare la processione
ma poi con la pioggia erano scappati tutti, sembravano formiche! Vedevo
anche quello che disegna dentro casa sua. Tutto a un tratto c’è un lampo
fortissimo insieme al tuono, sembrava una bomba! S’è illuminato tutto il paese!
Il fulmine entra proprio dentro la finestra di quello che disegna e vedo una
cosa: vedo delle mani sopra la testa di quello che disegna e tengono una cosa e
la alzano...»
«Non posso aprirti. Il papà non vuole che apro agli sconosciuti…»
Continuano a conversare così, lui al di là del cancello, il bimbo
sull’altalena.
«E poi sai cos’ è successo? Il fulmine ha spezzato lo specchio nella stanza
di quello che disegna. Ti giuro: in mille pezzi! Te l’ho detto: con Lorenzo vedo
tutto, mica è un giocattolo da quattro soldi! E allora sai che? Che prima che lo
specchio andasse in mille pezzi ho visto quelle mani alzare la cosa pesante,
scura, e sullo specchio c’era un riflesso come di due bottoni luccicanti. Poi non
so, non c’era più niente, forse il fulmine ha disintegrato anche quello che
disegna... E sai com’erano quei bottoni? Pensa: proprio come i gemelli che il
papà porta ai polsini delle camicie! D’oro, mica da quattro soldi! Guarda che
non sono un fifone: anche il papà ha avuto paura. Pensa che è tornato subito
subito a casa dopo il fulmine e dalla faccia l’ho capito che s’era spaventato più
di me...».
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di Massimo Volponi
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TANA D’ISTRICE
di Luca Vitali
Ricordo ancora il viso raggiante di Marco: «Ti porto in vacanza per
festeggiare la tua laurea!»
Già come no, una vacanza nel nulla.
«Vedrai come ti piacerà l’entroterra marchigiano!»
Dopo aver passato gli ultimi 5 anni in un laboratorio di chimica, fra beaker
e cuvette, il nulla assoluto non era proprio il mio ideale di spasso.
L’agriturismo alle porte di S.S.Quirico era un bel casolare: lunghe file di
vigne scendevano per il declivio collinare, alberi di pesco e ulivo tutto attorno.
Peccato per l’arredamento: troppo recente per essere classico, troppo vecchio
per essere moderno e ceramiche di pessimo gusto dappertutto.
«Le fa la padrona di casa, la signora Maria» mi spiegò Marco.
«Mi ha venduto questo splendido vaso. Ti piace amore?»
In quel momento sentii le metaforiche pareti della nostra relazione
inclinarsi e scricchiolare.
I giorni passavano lenti, fra passeggiate nei boschi e serate nelle quali ci
addormentavamo troppo presto, mentre le mie amiche mi mandavano foto di
feste in spiaggia e aperitivi al tramonto. Una nota positiva c’era: a volte mi
svegliavo la notte, e nella quiete era piacevole affacciarsi alla finestra e fumarsi
una sigaretta, senza fretta, senza traffico.
Fu una di quelle sere che vidi rientrare visibilmente ubriaco il figlio della
nostre ospite.
La lite che ne scaturì fu furibonda, in netto contrasto con la calma del
luogo.
Non afferrai tutto il discorso, detto in un dialetto troppo stretto, ma capì che
doveva aver perso dei soldi giocando a carte, di nuovo.
Ennesima passeggiata, ennesima lezione su piante e fauna. Ancora non
capisco come ho fatto a durare tanto in compagnia di un coglione del genere.
«Guarda! Una tana d’istrice! Avviciniamoci!»
Un piccolo Alberto Angela ebete.
Avvicinammo la testa al foro nel terreno, Marco emise uno strillo acuto,
seguii il suo sguardo: un piede ed una scarpa spuntavano dal fondo della tana.
I carabinieri arrivarono mezz’ora più tardi, insieme alla forestale che
estrasse il corpo: i vestiti laceri e sporchi di fango, il viso paonazzo, senza più i
bulbi oculari, a fissarci tutti.
Marco si vomitò sulle scarpe, e strappò un sorriso al carabiniere più
anziano.
La bocca del cadavere era macchiata di giallo, l’interno marcescente,
bianco da cui usciva una lingua gonfia e pallida misero in moto i miei pensieri:
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mi ricordava qualcosa di cui avevo letto, anche se non l’afferrai subito.
Uno dei presenti, forse la guardia forestale, lo riconobbe: si chiamava Luca
Mori, del luogo, un giocatore di quelli che punterebbe a carte anche la moglie.
Non ne parlavano molto cordialmente, doveva essere anche un bello stronzo.
Almeno da quello che origliai.
In un paesino del genere, le notizie corrono alla velocità del suono,
provocando un boom simile: dopo neanche 20 minuti, quasi tutto il paese era lì
a curiosare. Notai anche il figlio della signora Maria.
Dopo le domande di rito, venimmo congedati, con l’obbligo di restare a
disposizione. Tornammo all’agriturismo, Marco ancora sotto shock, io con uno
strano formicolio alla base del cranio: qualcosa nella mia testa chiedeva di
essere ascoltato, ma continuava a sfuggirmi. Nell’entrare, notai i due padroni di
casa discutere animosamente in fondo alla vigna.
Non fu una notte facile: Marco russò per tutto il tempo, mentre io
continuavo a svegliarmi, madida di sudore, con frammenti di incubi ancora in
fondo agli occhi.
Sognai il cadavere, seduto al tavolo da gioco, con un poker servito
indicarmi mentre io ero in fondo alla tana col mio camice da laboratorio
addosso.
Mi alzai per andare alla finestra a fumare, e inavvertitamente urtai il vaso
comprato da Marco, che grugnì quando andò in frantumi, senza però svegliarsi.
Cominciai a raccoglierne i pezzi, e fu come mettere insieme i frammenti dei
pensieri che affollavano la mia mente.
Ormai il nuovo giorno incombeva. Mi vestii velocemente, e feci una
telefonata, calcolai mezz’ora e scesi.
Trovai la signora Maria già sveglia in cucina: sul suo volto i segni di una
notte insonne, mentre dipingeva uno di quegli orrendi vasi.
Non alzò neanche la testa quando entrai.
«H3NO3…» dissi.
«Meglio conosciuto come acido nitrico.»
Un’ombra sul suo viso.
«Molto utile come solvente per pittura su porcellana. Inodore e incolore, se
ingerito causa macchie gialle sulla bocca e mucose orali ispessite e biancastre.»
Il suo sguardo incrociò il mio: odio misto a stupore.
«Mi lasci indovinare…» proseguii, «… suo figlio doveva dei soldi al
defunto, e invece di pagare, avete deciso per l’opzione B. Di chi è stata l’idea,
sua o di suo figlio?»
«Mio figlio non centra!» ringhiò.
«Non credo che lei sia riuscita a nascondere un uomo adulto in un posto del
genere da sola. Sbaglio?»
«Stupida troia!», ma stavolta la voce proveniva da dietro: l’altro omicida
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mi si lanciò contro con furia, bloccandomi un braccio. Afferrai un vaso poco
distante con la mano libera e lo calai violentemente sul suo volto.
Corsi alla porta, inseguito dalle imprecazioni della vecchia, e uscii in cortile
nell’istante stesso in cui arrivarono i carabinieri.
Su nella stanza, quell’idiota di Marco continuava a dormire.
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di Tommaso Marasà
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LO SPECCHIO
di Daniele Gagliardini
Strappati e scoloriti, quei jeans facevano girare lo sguardo a quasi tutti
quelli che incontrava, gli stessi che sarebbero impalliditi nel vedere il loro
costo. Per non parlare di quel piercing all’ombelico, scoperto da una maglietta
molto generosa che faceva risaltare quelle curve armoniose ottenute da tanti
sacrifici in palestra.
Valigia in mano e cellulare nell’altra, Silvia attraversava velocemente Parco
Colle Celeste, allietata dall’ombra degli alberi presenti su ambo i lati in quella
caldissima giornata di fine giugno. Il rumore della grande città ormai è solo un
ricordo, la pace e il tintinnio di un tiepido vento sulle gialle distese di grano
maturo la fanno da padrone, quel giallo intenso come i suoi lunghissimi capelli.
Non distante, in una piccola casa fuori paese, ignari di tutto, i suoi genitori
ben presto sarebbero venuti a conoscenza di quella insolita ma piacevole
sorpresa.
Come per la maggior parte della giornata, sua madre Maria se ne stava lì,
nel piccolo orticello di casa, ricurva sotto un sole ingrato di mezzogiorno ad
estrarre quelle infestanti erbe che sembrano non finire mai. Quel sole prezioso
per la vita dei campi ma come un ciclone lascia solo distruzione dopo il suo
passaggio così quel corpo protetto solo da vecchi vestiti e uno scolorito
fazzoletto riporta gli inevitabili segni di una vita fatta di sacrifici nei campi.
«Sono maturi i pomodori?»
La voce scherzosa di Silvia fece sobbalzare la donna in piedi, che in un
lampo si gettò al collo della figlia in un abbraccio infinito.
«Quando sei tornata? Perché non mi hai chiamato?» disse Maria.
«Sono appena arrivata, ero stanca degli studi, del rumore della città e ho
deciso di prendermi una pausa, per rigenerarmi con la vita rilassante di queste
parti. E con piacevole sorpresa ho notato che è rimasto tutto com’era.»
«Tutto uguale eccetto tuo padre che è sempre più intollerante e brontolone
con il passare degli anni!» rispose scherzosamente Maria.
«È in casa, vieni a salutarlo, dai!»
I giorni successivi sembravano interminabili, lontani da quella vita frenetica
della grande città. Silvia passava la maggior parte del tempo a riposare,
ascoltare musica dal suo inseparabile cellulare di ultima generazione e di tanto
in tanto a leggere qualche libro in prossimità delle mura castellane o all’ombra
dei grossi pini fuori dalla Chiesa di Sant’Anna. Un sabato sera decise di
affogare i pensieri nel verdicchio.
La domenica mattina successiva, Silvia era intenta a passeggiare per il
centro. Il mal di testa post sbronza della sera prima si faceva sentire come un
martello quando all’improvviso di sentì afferrare per un braccio.
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Era il Maresciallo del paese: «Mi segua in caserma. Mi spiace, ma suo
padre è stato trovato morto in cortile, e sua madre è scomparsa» disse il militare
senza giri di parole.
«Abbiamo il sospetto che sia stata Maria in un raptus di follia e che ora sia
fuggita in campagna. La stiamo già cercando.»
Il dolore pietrificò Silvia con un’intensità tale da impedirgli di parlare e di
piangere. Solo allora il militare si rese conto del pessimo modo con cui aveva
comunicato la notizia.
Nelle ore successive l’amore di Silvia verso la madre sembrava essere
scomparso come se non fosse mai esistita.
«Ha ucciso mio padre!» continuava a dire a se stessa.
«Con quel ferro da maglia che gli avevo regalato anni fa per il suo
compleanno!»
Ormai la rabbia aveva preso il sopravvento sulla ragione. Non riusciva a
darsi pace e come i migliori detective, indossata tuta e scarpe da ginnastica,
cominciò la ricerca nei campi limitrofi. Il silenzio era rotto solo dall’abbaiare
dei cani delle squadre di ricerca in lontananza.
Nei tre giorni successivi le indagini non portarono a un risultato concreto;
Maria sembrava esser svanita nel nulla. La stanchezza cominciò a farsi sentire
anche per Silvia, che in un atto di lucidità decise di prendersi una giornata di
riposo per ritrovare le forze.
La sera era prossima, ma Silvia non aveva nessuna intenzione di starsene a
casa. Rispolverò una vecchia bici in garage, una vecchia compagna di tante
avventure non troppo passate. Dopo non molto si ritrovò a percorrere il lungo
Esino, l’amato fiume di tante scorribande negli anni dell’infanzia. I ricordi gli
portarono in mente un vecchio molino, dilaniato dal tempo. “Quando mi
ricapiterà di passare da queste parti?”, pensò. Non curandosi del buio prossimo
si precipitò come un ciclista in fuga in quello che restava del vecchio stabile.
La vegetazione e il tempo lo facevano da padroni ma non fu quello che
colse l’attenzione di Silvia.
«No! Non può essere!»
Il viso dilaniato della madre Maria faceva capolino da sotto un cumolo di
rovi e erbacce.
Le forze svanirono in un momento, le gambe cedettero per il dolore. In
ginocchio, in un mare di lacrime e con la testa rivolta verso terra, lo sguardo si
incentrò in un pezzo di specchio rotto, tra l’erba.
Era forse il dolore? O la mente che vagava?
«Maledetto specchio, perché rifletti l’immagine di mia madre e non la
mia!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
Anni di sballi e di eccessi cittadini erano adesso per lei come il sole sulla
pelle dei due poveri genitori.
53
di Marco Ceccarelli
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NUVOLE DI SANGUE
di Luca Bargellini
Era una serata tranquilla al commissariato di Castelbellino, e il Tenente
Toni stava pregustando il suo rientro a casa. All’improvviso squillò il telefono:
c’era stato un suicidio in un appartamento del paese vecchio e volevano che
andasse a controllare.
Raggiunto l’appartamento, situato poco distante dalla chiesa, i poliziotti già
sul posto gli dissero che apparteneva alla vittima, Bruno Sclavi, di professione
autore di fumetti, e lo condussero dentro. Quello che vide lo riempiva
d’amarezza e tristezza: una stanza spoglia, con utensili da disegno, per la
maggior parte sparsi sul pavimento, e qualche foglio in giro. In mezzo alla
stanza, l’uomo impiccato con una corda ad una trave del soffitto, e ai suoi piedi
la sedia ribaltata. Il Tenente non si perse d’animo, e iniziò a cercare
minuziosamente nella stanza. Dopo due ore di ricerca notò che su un bordo di
uno dei fogli c’erano delle tracce di sangue: evidentemente qualcuno si era
tagliato. Decise di mandarle a far analizzare in laboratorio per accertarsi se
provenivano da Sclavi o da un eventuale sospettato. Un’altra cosa strana della
stanza, che faceva pensare ad un secondo individuo, erano le tracce di
colluttazione dovute agli arnesi rovesciati caoticamente per terra. Tornato a
casa il Tenente continuò a pensare a questi dubbi anche durante il suo breve
riposo.
Il giorno dopo in commissariato, sfogliando il giornale regionale, vide che
la notizia del suicidio di Sclavi era in prima pagina: pare che la popolazione
abbia accolto con malumore l’idea dell’implicazione di un assassino e per
questo vuole una risposta immediata contro di esso, soprattutto visto che siamo
nel periodo dei preparativi del Castelbellino Arte e il comune non può
permettersi figuracce pubbliche nei confronti dei turisti. Purtroppo però era in
un vicolo ceco, e dubitava che le analisi del sangue gli avrebbero dato una
mano. Verso tarda sera, il suo sottoposto gli disse che c’era un bambino, e che
era venuto appositamente dal vicino comune di Maiolati Spontini per fare una
deposizione a proposito del ‘caso del fumettista’. Senza pensarci troppo, lo fece
entrare. Il bambino era il tipico ragazzino di tredici anni, serio e disciplinato.
Appena entrato disse subito che era venuto a deporre perché aveva letto sul
giornale che il suo autore preferito era morto e molto probabilmente aveva
assistito alla scena del delitto: disse che aveva la passione di osservare le stelle
con il suo telescopio, ma che saltuariamente lo puntava anche nei comuni vicini
per ammirare le bellezze architettoniche. La sera precedente, verso le dieci,
mentre osservava la chiesa di Castelbellino gli era capitato di osservare un
appartamento lì vicino, e aveva notato Sclavi impiccato. In quel momento
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qualcun’ altro era presente all’interno dell’appartamento, e stava passando
davanti alla finestra: purtroppo per colpa delle tende non era riuscito a vederlo,
ma la sua mano sinistra era ben visibile e aveva notato l’indice monco. Il
Tenente prese nota di questa informazione e ringrazio il ragazzo per la
deposizione.
I giorni successivi si venne a conoscenza di nuovi elementi: si seppe che
Sclavi ormai famoso aveva deciso di chiudere la sua testata creando forti
scontenti negli affezzionati lettori. Arrivarono anche le analisi del sangue e
confermarono la presenza di una seconda persona nell’appartamento. Ormai
non c’era più alcun dubbio, si trattava di omicidio. Il Tenente a quel punto fece
un controllo negli ospedali, richiedendo delle persone che avevano subito
un’amputazione all’indice e il loro DNA. Non trovò nessuno che
corrispondesse, e il Castelbellino Arte era iniziato. Si offrì volontario per
dirigere la sicurezza dell’evento.
Un giorno il Tenente mentre pattugliava notò la bancarella di un fabbro e
rinomato artista, insieme al quale c’era anche suo figlio. Vide che quest’ultimo
aveva l’indice del dito amputato: chiese al padre il motivo ed egli gli spiegò
che l’incidente era avvenuto quando suo figlio era piccolo mentre imparava la
professione. Il Tenente notò che sulla mano del figlio c’era un taglio non
ancora rimarginato e insospettito lo portò in caserma.
Dopo diverse ore di interrogazione il figlio dell’artista confessò di essere
stato lui che, da appassionato della vecchia serie dell’autore, non voleva che
questi cessasse di scriverla. Era andato a casa dell’autore cercando di
dissuaderlo sulla chiusura della testata, ma la situazione degenerò, e accecato
dalla rabbia, aveva inscenato il finto suicidio proprio come in una storia del
fumetto. Il suo unico errore, disse poi, fu quello di non aver resistito alla
tentazione di trafugare le tavole di Sclavi, e nella fretta dell’emozione di
prenderle, si era tagliato, commettendo un errore fatale.
L’assassino fu quindi condotto in cella in attesa del processo e Castelbellino
finalmente poteva tornare a godersi il suo festival senza preoccupazioni.
Il Tenente finalmente poteva concedersi il suo meritato riposo.
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di Luca Giorgi
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UN DIA DE MAYO EN STAFFOLO
di Luca Rinarelli
Mi chiamo Luigi Santoni e sono giornalista. Sono un volontario di Amnesty
International, come i miei undici amici che mi hanno affidato il compito di
raccontare cosa successe l’anno scorso a Staffolo.
Gino, uno di loro, è troppo entusiasta. “La tua relazione su come siamo
giunti a risolvere il caso sarà fondamentale, per trovarci pronti in futuro!”, dice
lui.
Ma cosa abbiamo risolto, noi? Pronti per il futuro? In questa storia domina
il passato.
Il secondino mi apre il cancello d’accesso al braccio femminile del carcere
di Ancona. Pareti grigie, tristi, come la sua faccia.
Arrivo davanti alla cella. Il rumore delle chiavi che aprono la porta mi
causa una strana pressione alla bocca dello stomaco.
«Ciao, Consuelo.»
Lei mi sorride, con quelle rughe che sembrano segni scritti. Una storia che
le solca la faccia.
«Come stai?»
«Bene. Mi trattano bene, qui.»
«Allora, sei pronta? Raccontami ancora cosa successe l’anno scorso a
maggio. Vogliamo che la gente sappia perché l’hai fatto, per cercare di farti
ridurre la pena.»
«Io voglio solo che si sappia cosa è successo a mio figlio. Ho settantasei
anni, ormai.»
Mi fa un cenno dolce con gli occhi.
Io accendo il registratore.
Era il 22 maggio.
Arrivai a Staffolo alle 8.25, con l’autobus. Mai visto, questo paese. A dire il
vero non ero mai uscita dall’Argentina.
Piccolo, in cima a un colle. Le case ancora assonnate.
Ricordo il cielo azzurro scuro, con delle nuvole dai contorni netti, disegnati.
Sono andata all’unico albergo. Dopo essermi registrata alla reception,
riuscii a sbirciare sul registro il numero della stanza dove abitava lui. La chiave
con quel numero non era dietro le spalle dell’inserviente. Quindi lui era nella
sua camera.
Salii nella mia. Accogliente, comoda. Posai il borsone sul pavimento.
Mi feci una doccia bollente. Non riuscivo a togliere dalla testa quello che
stavo per fare, ma Juan, mio figlio, mi venne in aiuto. Me lo immaginai
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sorridente, mentre l’acqua calda mi rilassava.
Coraggio, mamma. Saremo tutti in pace, dopo.
Mi rivestii con calma. Indossai una camicetta rossa. Un regalo di Juan. Non
la indossavo da ventisei anni.
Scesi di sotto.
Al bar presi un cappuccino. Il barista mi consigliò di assaggiare un
cavalluccio, un dolce buonissimo che aveva uno strano sapore di vino bollito.
Ai tavolini del bar non c’era nessuno.
Ecco, in quel momento stavo bene. Mi sembrava di essere in vacanza.
Rilassamento dei muscoli e del cervello.
Mi sedetti ad un tavolo. Iniziai a canticchiare il tango che mi è rimasto
dentro. Che mi accompagna dal 1983.
El tango de las madres locas.
Verso le 11 salii di sopra. La moquette sotto i piedi era morbida. Arrivai
alla mia camera ed entrai.
Presi la borsetta che avevo lasciato sul letto. Un letto sul quale non avrei
mai dormito. Aprii la borsetta e presi in mano la piccola pistola a tamburo. Non
avevo mai toccato una pistola prima di quella. Presi anche il piccolo istrice
imbalsamato che avevo nel borsone.
Nel corridoio non c’era nessuno. Poca luce.
Bussai alla sua porta e lui aprì. Ricorderò sempre la sua faccia pallida di
stupore, quando vide la pistola che lo teneva sotto tiro. Indietreggiò fino alla
poltrona che stava davanti alla finestra e vi cadde dentro. Io chiusi la porta
dietro di me.
Il dialogo che seguì è stampato nella mia mente, come un film.
«Buongiorno, capitano Guillermo Ramón Cesaretti.»
«Chi sei?»
«Una madre a cui hai fatto sparire il figlio, ventisei anni fa. E sicuramente
l’hai ucciso dopo averlo torturato fino allo stremo. Volevate ripulire
l’Argentina dai sovversivi. Mio figlio non lo era. Era solo un ragazzo.»
«Come mi hai trovato, dopo tutto questo tempo?»
«Le Madres de plaza de Mayo. Non ci limitiamo a manifestare in piazza,
sai?»
«Siamo vecchi tutti e due, ormai. Non c’è notte che passi senza che io non
riveda le loro facce. Non pensavo di essere perseguitato dal rimorso. Sono
venuto in questo piccolo paese dai cu emigrarono i miei nonni, molto tempo fa.
Scappare, trovare la pace. Non so…»
La faccia di Juan mi apparve con un sorriso, dietro di lui.
Gli sparai a un ginocchio. Urlò di dolore.
Poi gli sparai in mezzo agli occhi. Rimase lì, fermo. Con la faccia
malinconica e la bocca aperta.
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Aveva il cappello dell’esercito appeso all’attaccapanni.
Glielo misi sui radi capelli bianchi, e gli posai sopra l’istrice.
Rimasi lì, vicino a lui, aspettando che mi venissero a prendere.
Cantando il mio tango.
«Consuelo, perché l’istrice?»
Mi sorrise dolcemente. Iniziò a cantare.
Todos los jueves del año,
A las 11 de la mañana,
junto a la Plaza de Mayo,
con lluvia, frio o calor.
Me dicen que no te fuistes,
mi bien, que te desaparecieron…
Que de pronto te esfumastes,
que te borraron del mapa…
que ni siquiera nacistes…
que medio loca, mama te inventò!
Con bandera o sin bandera
Grito tu nombre por las equina,
mientras que los generales
se dan al tango, por los portales.
Tango de las madres locas,
Coplas de amor y silencio,
donde está Pedro, donde está Lucia…
Cada vez que dicen “patria”,
pienso en el pueblo, y me pongo a temblar.
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di Lorenzo Scarpetti
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e per finire…
Miglior illustrazione, esclusi i primi due classificati
di Vanessa Cardinali
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INDICE
LE COSE A METÀ ................................................................................5
VINO AL VINO......................................................................................8
LA STATUA DI SAN LORENZO ......................................................11
LO SPINOSO CASO DEL CARNEFICE A FUMETTI ..................14
L’ANGELO VENDICATORE............................................................18
DOPPIA INTESA .................................................................................21
GRAZIE DEI FIORI............................................................................24
FERMO IMMAGINE ..........................................................................27
FIORI DI PESCO.................................................................................31
COME DIO LA MANDAVA...............................................................34
IL FUOCO DELLA MIA ORDINARIA FOLLIA............................38
QUANDO MUOIONO I SOGNI.........................................................41
TANA D’ISTRICE ...............................................................................48
LO SPECCHIO.....................................................................................52
NUVOLE DI SANGUE ........................................................................55
UN DIA DE MAYO EN STAFFOLO.................................................58
Miglior illustrazione ...........................................................................62
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