21-24 ottobre 2014

Transcript

21-24 ottobre 2014
Casa S. Marta, Venerdì, 24 ottobre 2014, La
pietra e i mattoni
In questo brano della Lettera agli Efesini 4, 1-6, proposto dalla liturgia, vi si legge: “Un solo
Signore; una sola fede; un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti”. Ecco, dunque, che ritorna
tante volte la parola solo. E proprio in questa prospettiva Paolo scrive espressamente: Io,
prigioniero, vi esorto a costruire l’unità nella Chiesa. L’esortazione di Paolo è mirata a costruire la
Chiesa unita, con un battesimo, una fede, un Signore, un Padre. E fare l’unità della Chiesa è il
lavoro della Chiesa e di ogni cristiano durante la storia.
In particolare, quando l’apostolo Pietro parla della Chiesa, parla di un tempio fatto di pietre vive
che siamo noi. In pratica propone il contrario di quell’altro tempio della superbia che era la torre di
Babele. Difatti questo tempio porta l’unità, mentre quello di Babele è il simbolo della disunione, del
non capirci, della diversità delle lingue.
Dunque, fare l’unità della Chiesa, costruire la Chiesa, questo tempio, questa unità della Chiesa, è il
compito di ogni cristiano, di ognuno di noi. E quando si deve costruire un tempio, un palazzo, si
cerca un’area edificabile preparata per questo. Ma la prima cosa che si fa è cercare la pietra di
base: la pietra angolare, dice la Bibbia. E la pietra angolare della Chiesa, è Gesù, mentre la pietra
angolare dell’unità della Chiesa è la preghiera di Gesù nell’ultima cena: Padre, che siano uno.
Proprio questa è la forza e la pietra sulla quale noi edifichiamo l’unità della Chiesa. Senza questa
pietra non si può. Non c’è unità senza Gesù Cristo alla base: è la nostra sicurezza.
Ma chi costruisce questa unità? Certo non noi perché questo è il lavoro dello Spirito Santo: l’unico
capace di fare l’unità della Chiesa. Gesù infatti lo ha inviato per fare crescere la Chiesa, per farla
forte, per farla una. È lo Spirito vivo che noi tutti abbiamo dentro: lui fa l’unità della Chiesa, nella
diversità dei popoli, delle culture, delle persone. Proprio in quella diversità lui sa come fare l’unità.
Ma soltanto lui può farla, nessuno di noi può farla.
Come si costruisce questo tempio?. In proposito l’apostolo Pietro diceva che noi eravamo pietre
vive in questa costruzione. Ma, qui l’apostolo Paolo ci consiglia di non essere tanto pietre, ma
piuttosto mattoni, deboli. Di conseguenza i consigli che dà Paolo per aiutare lo Spirito Santo a
costruire questa unità sono consigli di debolezza, secondo il pensiero umano. E infatti umiltà,
dolcezza, magnanimità sono cose deboli, perché l’umile sembra che non serva a niente; la
dolcezza, la mitezza sembrano non servire; la magnanimità, l’essere aperto a tutti, avere il cuore
grande...
Per di più Paolo aggiunge: sopportandovi a vicenda nell’amore, ma avendo a cuore di conservare
l’unità. Così noi diventiamo più pietre forti in questo tempio quanto più deboli ci facciamo con
queste virtù dell’umiltà, della magnanimità, della dolcezza, della mitezza.
Ed è esattamente lo stesso cammino compiuto da Gesù, il quale non ritiene di essere uguale a Dio:
si abbassò, si annientò; si è fatto debole, debole, debole fino alla croce, e divenne forte. E noi
siamo chiamati a fare lo stesso: quanto più noi siamo mattoni, così con queste virtù, più saremo
utili allo Spirito Santo per fare l’unità della Chiesa. Al contrario, l’orgoglio, la sufficienza non
servono.
Alla fine si può dire che è lo Spirito a fare questa costrizione, questo tempio che è la Chiesa
vivente, sulla pietra di base che è Gesù, che è una; sulla pietra di base che è la preghiera di Gesù
per l’unità.
Ma c’è un’altra cosa che Paolo aggiunge: Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la
speranza alla quale siete stati chiamati. Perché quando si fa una costruzione è necessario che
l’architetto faccia la piantina. E qual è la piantina dell’unità della Chiesa? La speranza alla quale noi
siamo stati chiamati: la speranza di andare verso il Signore, la speranza di vivere in una Chiesa
viva, fatta con pietre vive, con la forza dello Spirito Santo. Perciò soltanto sulla piantina della
speranza possiamo andare avanti nell’unità della Chiesa.
Casa S. Marta, Giovedì, 23 ottobre 2014, Orizzonte
infinito
Commento ad Efesini 3, 14-21 — abbiamo ascoltato quell’atto di adorazione che Paolo fa davanti
a Dio: “Fratelli, io piego le ginocchia davanti al Padre”. Ecco, dunque, il suo atto di adorazione al
Padre. Ma poi ci spiega perché lo fa.
Il brano proposto dalla liturgia di oggi è originale per il linguaggio che usa Paolo. Si tratta, infatti,
di un linguaggio senza limite, un linguaggio di grandiosità, di ampiezza: parla di ricchezza della sua
gloria; parla di comprendere l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza, la profondità; conoscere il Cristo
che supera, il Cristo che fa che noi siamo ricolmi di tutta pienezza. È, appunto, un linguaggio senza
limite, che non si può capire nel senso di prendere, perché è quasi senza orizzonte.
Paolo adora questo Dio che ha il potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o
pensare, secondo quella potenza che Lui ha anche nel tempo, per tutte le generazioni, nei secoli
dei secoli. È un vero e proprio atto di adorazione, un’esperienza davanti a questo Dio che è come
un mare senza spiagge, senza limiti, un mare immenso. E Paolo davanti a questo Dio piega le
ginocchia del suo cuore, della sua anima.
In questo atto di adorazione Paolo ci parla del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E cosa chiede
Paolo, per lui, per la Chiesa — la Chiesa di Efeso in questo caso — e per tutti noi?. Rivolgendosi al
Padre, da cui ha origine tutta la discendenza in cielo e sulla terra, Paolo chiede per prima cosa di
essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore, mediante il suo Spirito. Inoltre domanda al
Padre che lo Spirito venga e ci rafforzi, ci dia la forza. Sa benissimo che non si può andare avanti
senza la forza dello Spirito. Le nostre forze sono deboli. Non si può essere cristiani, senza la grazia
dello Spirito. Infatti è proprio lo Spirito che ci cambia il cuore, che ci fa andare avanti nella virtù
per compiere i comandamenti.
Poi, Paolo chiede un’altra grazia al Padre, ma per mezzo di Cristo: “Che il Cristo abiti, per mezzo
della fede, nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità”. In sostanza chiede la presenza di
Cristo perché ci faccia crescere nella carità, ma radicati nell’amore, fondati nell’amore. E, anche,
chiede al Padre di conoscere questo amore di Cristo che supera ogni conoscenza, che non si può
capire. Ma, allora, come posso conoscere quello che non si può capire? La risposta di Paolo è
chiara: Per mezzo di questo atto di adorazione di quell’immensità grande.
Nel passo della Lettera agli Efesini, Paolo prosegue parlando ai fedeli sul Padre: ha cominciato sul
Padre e finisce col Padre. Parla, dunque, direttamente ai fedeli di Colui che in tutto ha potere di
fare. L’apostolo afferma che il Padre può fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare.
Anche miracoli, certo. Ma noi non possiamo immaginare cosa può fare il Padre, secondo la potenza
che opera in noi. Quindi Paolo finisce questa sua adorazione con una lode: A Lui sia la Gloria, per i
secoli dei secoli.
Siamo davanti a un’esperienza mistica di Paolo, che ci insegna la preghiera di lode e la preghiera di
adorazione. Così davanti alle nostre piccolezze, ai nostri interessi egoistici — tanti! — Paolo scoppia
in questa lode, in questo atto di adorazione. E chiede al Padre che ci invii lo Spirito per darci forza
e poter andare avanti; che ci faccia capire l’amore di Cristo e che Cristo ci consolidi nell’amore. E
dice al Padre: Grazie, perché Tu sei capace di fare quello che anche noi non osiamo pensare.
Questa di Paolo è una bella preghiera. E con questa vita interiore si può capire che Paolo abbia
lasciato perdere tutto e consideri tutto spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in
Cristo. Le sue parole valgono anche per noi perché ci fa bene pensare così, ci fa bene adorare Dio
anche a noi.
Sì, ci fa bene lodare Dio, entrare in questo mondo di ampiezza, di grandiosità, di generosità e di
amore. E ci fa bene perché così possiamo andare avanti nel grande comandamento — l’unico
comandamento che è alla base di tutti gli altri — che è l’amore: amare Dio e amare il prossimo.
UDIENZA GENERALE, Piazza San Pietro, Mercoledì, 22 ottobre 2014
Chiesa, corpo di Cristo
Cari fratelli e sorelle, buongiorno.
Quando si vuole evidenziare come gli elementi che compongono una realtà siano strettamente
uniti l’uno all’altro e formino insieme una cosa sola, si usa spesso l’immagine del corpo. A partire
dall’apostolo Paolo, questa espressione è stata applicata alla Chiesa ed è stata riconosciuta come il
suo tratto distintivo più profondo e più bello. Oggi, allora, vogliamo chiederci: in che senso la
Chiesa forma un corpo? E perché viene definita corpo di Cristo?
Nel Libro di Ezechiele viene descritta una visione un po’ particolare, impressionante, ma capace di
infondere fiducia e speranza nei nostri cuori. Dio mostra al profeta una distesa di ossa, distaccate
l’una dall’altra e inaridite. Uno scenario desolante… Immaginatevi tutta una pianura piena di ossa.
Dio gli chiede, allora, di invocare su di loro lo Spirito. A quel punto, le ossa si muovono, cominciano
ad avvicinarsi e ad unirsi, su di loro crescono prima i nervi e poi la carne e si forma così un corpo,
completo e pieno di vita (cfr Ez 37,1-14). Ecco, questa è la Chiesa! Mi raccomando oggi a casa
prendete la Bibbia, al capitolo 37 del profeta Ezechiele, non dimenticate, e leggere questo, è
bellissimo. Questa è la Chiesa, è un capolavoro, il capolavoro dello Spirito, il quale infonde in
ciascuno la vita nuova del Risorto e ci pone l’uno accanto all’altro, l’uno a servizio e a sostegno
dell’altro, facendo così di tutti noi un corpo solo, edificato nella comunione e nell’amore.
La Chiesa, però, non è solamente un corpo edificato nello Spirito: la Chiesa è il corpo di Cristo! E
non si tratta semplicemente di un modo di dire: ma lo siamo davvero! È il grande dono che
riceviamo il giorno del nostro Battesimo! Nel sacramento del Battesimo, infatti, Cristo ci fa suoi,
accogliendoci nel cuore del mistero della croce, il mistero supremo del suo amore per noi, per farci
poi risorgere con lui, come nuove creature. Ecco: così nasce la Chiesa, e così la Chiesa si riconosce
corpo di Cristo! Il Battesimo costituisce una vera rinascita, che ci rigenera in Cristo, ci rende parte
di lui, e ci unisce intimamente tra di noi, come membra dello stesso corpo, di cui lui è il capo (cfr
Rm 12,5; 1 Cor 12,12-13).
Quella che ne scaturisce, allora, è una profonda comunione d’amore. In questo senso, è
illuminante come Paolo, esortando i mariti ad amare le mogli come il proprio corpo, affermi: Come
anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo (Ef 5,28-30). Che bello se ci
ricordassimo più spesso di quello che siamo, di che cosa ha fatto di noi il Signore Gesù: siamo il
suo corpo, quel corpo che niente e nessuno può più strappare da lui e che egli ricopre di tutta la
sua passione e di tutto il suo amore, proprio come uno sposo con la sua sposa. Questo pensiero,
però, deve fare sorgere in noi il desiderio di corrispondere al Signore Gesù e di condividere il suo
amore tra di noi, come membra vive del suo stesso corpo. Al tempo di Paolo, la comunità di
Corinto trovava molte difficoltà in tal senso, vivendo, come spesso anche noi, l’esperienza delle
divisioni, delle invidie, delle incomprensioni e dell’emarginazione. Tutte queste cose non vanno
bene, perché, invece che edificare e far crescere la Chiesa come corpo di Cristo, la frantumano in
tante parti, la smembrano. E questo succede anche ai nostri giorni. Pensiamo nelle comunità
cristiane, in alcune parrocchie, pensiamo nei nostri quartieri quante divisioni, quante invidie, come
si sparla, quanta incomprensione ed emarginazione.
E questo cosa comporta?
Ci smembra fra di noi. E’ l’inizio della guerra. La guerra non incomincia nel campo di battaglia: la
guerra, le guerre incominciano nel cuore, con incomprensioni, divisioni, invidie, con questa lotta
con gli altri. La comunità di Corinto era così, erano campioni in questo! L’Apostolo Paolo ha dato ai
Corinti alcuni consigli concreti che valgono anche per noi: non essere gelosi, ma apprezzare nelle
nostre comunità i doni e le qualità dei nostri fratelli. Le gelosie: “Quello ha comprato una
macchina”, e io sento qui una gelosia; “Questo ha vinto il lotto”, e un’altra gelosia; “E quest’altro
sta andando bene bene in questo”, e un’altra gelosia. Tutto ciò smembra, fa male, non si deve
fare! Perché così le gelosie crescono e riempiono il cuore. E un cuore geloso è un cuore acido, un
cuore che invece del sangue sembra avere l’aceto; è un cuore che non è mai felice, è un cuore che
smembra la comunità. Ma cosa devo fare allora? Apprezzare nelle nostre comunità i doni e le
qualità degli altri, dei nostri fratelli. E quando mi viene la gelosia - perché viene a tutti, tutti siamo
peccatori -, devo dire al Signore: “Grazie, Signore, perché hai dato questo a quella persona”.
Apprezzare le qualità, farsi vicini e partecipare alla sofferenza degli ultimi e dei più bisognosi;
esprimere la propria gratitudine a tutti. Il cuore che sa dire grazie è un cuore buono, è un cuore
nobile, è un cuore che è contento.
Vi domando: tutti noi sappiamo dire grazie, sempre? Non sempre perché l’invidia, la gelosia ci
frena un po’. E, in ultimo, il consiglio che l’apostolo Paolo dà ai Corinzi e anche noi dobbiamo darci
l’un l’altro: non reputare nessuno superiore agli altri. Quanta gente si sente superiore agli altri!
Anche noi, tante volte diciamo come quel fariseo della parabola: “Ti ringrazio Signore perché non
sono come quello, sono superiore”. Ma questo è brutto, non bisogna mai farlo! E quando stai per
farlo, ricordati dei tuoi peccati, di quelli che nessuno conosce, vergognati davanti a Dio e dì: “Ma tu
Signore, tu sai chi è superiore, io chiudo la bocca”. E questo fa bene. E sempre nella carità
considerarsi membra gli uni degli altri, che vivono e si donano a beneficio di tutti (cfr 1Cor 12–14).
Cari fratelli e sorelle, come il profeta Ezechiele e come l’apostolo Paolo, invochiamo anche noi lo
Spirito Santo, perché la sua grazia e l’abbondanza dei suoi doni ci aiutino a vivere davvero come
corpo di Cristo, uniti, come famiglia, ma una famiglia che è il corpo di Cristo, e come segno visibile
e bello dell’amore di Cristo.
Casa S. Marta, Martedì, 21 ottobre 2014, Attesa e speranza
Commento al Vangelo di Luca 12, 35-38. Gesù invita i suoi discepoli a essere come i servi che
attendono vigili il ritorno del padrone dalle nozze. Ma chi è questo signore, questo padrone, che
viene da quella festa di nozze, che viene a notte alta?. La risposta viene dallo stesso Gesù: Sono io
che sono venuto a servirti, a stringermi le vesti, a farvi mettere a tavola, a servirvi.
Gesù — lo ribadisce anche san Paolo nella Lettera agli Efesini (2, 12-22) — è colui che è venuto a
servire, non a essere servito. E il primo dono che abbiamo ricevuto da lui è quello di un’identità.
Gesù ci ha dato cittadinanza, appartenenza a un popolo, nome, cognome. Riprendendo le parole
dell’apostolo, il quale ricorda ai pagani che quando erano senza Cristo erano esclusi dalla
cittadinanza. Senza Cristo non abbiamo un’identità.
Grazie a lui, infatti, da divisi che eravamo siamo diventati un popolo. Eravamo nemici, senza pace,
isolati, ma Gesù col suo sangue ci ha accomunato. È ancora san Paolo lo spunto per approfondire
questo tema. Nella Lettera agli Efesini si legge: Egli, infatti, è la nostra pace, che di tutti ha fatto
una sola cosa e in pace, abbattendo il muro di separazione che divide. Tutti noi sappiamo che
quando non siamo in pace con le persone, c’è un muro che ci divide. Ma Gesù ci offre il suo
servizio di abbattere questo muro. Grazie a lui possiamo incontrarci.
Da popolo disgregato, composto da uomini isolati gli uni dagli altri, Gesù con il suo servizio ci ha
avvicinato tutti, ci ha fatto un solo corpo. E lo ha fatto riconciliandoci tutti in Dio. Così da nemici
siamo divenuti amici e da estranei ora possiamo sentirci figli.
Ma qual è la condizione per cui da stranieri, da gente di strada, siamo messi in grado di diventare
concittadini dei santi? Avere la fiducia del ritorno del padrone dalle nozze, di Gesù. Occorre
aspettarlo ed essere sempre pronti: Chi non aspetta Gesù, chiude la porta a Gesù, non lo lascia
fare quest’opera di pace, di comunità, di cittadinanza; di più: di nome. Quel nome che ci ricorda
chi realmente noi siamo: figli di Dio.
Perciò il cristiano è un uomo o una donna di speranza, perché sa che il Signore verrà. E quando
questo accadrà, anche se non sappiamo l’ora, non vorrà più trovarci isolati, nemici, bensì come lui
ci ha resi grazie al suo servizio: amici, vicini, in pace.
Per questo è importante chiedersi: Come aspetto Gesù? Ma soprattutto: Io aspetto o non aspetto
Gesù? Tante volte, infatti, anche noi cristiani ci comportiamo come i pagani e viviamo come se
niente dovesse accadere. Dobbiamo fare attenzione a non essere come l’egoista pagano, che
agisce come se egli stesso fosse un dio e pensa: Io mi arrangio da solo. Chi si regola in questa
maniera finisce male, finisce senza nome, senza vicinanza, senza cittadinanza. Ognuno di noi deve
invece domandarsi: Ci credo in questa speranza, che lui verrà? E ancora: Io ho il cuore aperto, per
sentire il rumore, quando bussa alla porta, quando apre la porta?