Non ti svegliare

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Non ti svegliare
COLLANA “BLACK & YELLOW”
Non ti svegliare
di Stefano Visonà
ISBN 978-88-97277-94-1
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STEFANO VISONA’
Non ti
svegliare
Legal Thriller
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Copyright © 2011 CIESSE Edizioni
Design di copertina © 2011 Stefano Visonà
Non ti svegliare
di Stefano Visonà
http://www.stefanovisona.it
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la
pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non
sia la sola lettura privata, devono essere inviate a:
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ISBN 978-88-97277-94-1
Collana BLACK & YELLOW
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NOTE DELL’EDITORE
Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi,
avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente
esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.
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A Laura,
“Sei tu, tutto quello che voglio.”
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BIOGRAFIA DELL’AUTORE
Stefano Visonà è nato e cresciuto in Veneto, dove vive con moglie e
tre figli. Ingegnere, con maturità Classica, si occupa di progettazione
di beni durevoli di consumo. Da sempre appassionato di arte e letteratura, negli ultimi anni ha consolidato l’amore per la scrittura pubblicando diversi racconti, alcuni dei quali premiati in concorsi letterari. Non ti svegliare è il suo primo legal thriller.
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1.
Il buio attorno a Christine sta lentamente coagulandosi, luci e
ombre iniziano a separarsi come siero dal sangue. Lei riaffiora dal
sonno in cui era scivolata. Quando? La sera prima, un giorno prima,
poco prima?
Inizia a percepire i confini di quello che la racchiude. Dov’è? In
una stanza? Ha freddo. Perché questo senso di movimento? Le viene
in mente un corpo che riemerge dall’acqua. Un lago, nero e gelido.
Da qualche parte filtra un debole chiarore. Ha freddo, come se
fosse appoggiata contro il terreno. Terreno umido. Arenata su una
riva melmosa. Avvolta nel nero del guano. Ha freddo.
Una debole luminosità inizia a delineare delle forme. Forse l’alba,
si dice, ma c’è qualcosa che non torna.
Non riesce a muoversi. Non ha ancora ripreso possesso del suo
corpo per potersi muovere. È su un letto. Il suo letto? A poco a poco intuisce la presenza delle cose attorno a sé. Un bicchiere vuoto,
un pacco di riviste, un sottilissimo lenzuolo di polvere.
Svegliati Christine. Svegliati.
Non riesce a muoversi.
È come l’incubo che aveva da bambina. L'incubo che l’ha perseguitata dopo l’operazione in anestesia totale, quando aveva appena
otto anni. Le succedeva sempre prima di svegliarsi, sognava di essere
bloccata in una sorta di dormiveglia. Sentiva le persone muoversi
attorno a lei, parlare, chiamarla. Ma lei nulla, non poteva rispondere.
Sentiva sua madre dalla cucina che le urlava di sbrigarsi. Sua sorella
che si vestiva di fretta sussurrando il suo nome. Suo padre che dal
piano di sotto la salutava a gran voce e usciva. E lei, lei nulla.
Non riusciva a svegliarsi. Sapeva di doversi svegliare, ma non ci
riusciva. Sapeva di potersi svegliare, ma non ci riusciva. Sapeva che
le sarebbe bastato aprire gli occhi, ma non ci riusciva. Voleva muoversi, rispondere a quelle voci, ma nulla.
E dentro la sua testa iniziava a chiedere aiuto. Aiuto, sono qui,
toccatemi, scuotetemi, svegliatemi.
Nessuno la sentiva.
Suo padre era ormai uscito, sua sorella era già scesa in cucina. Sua
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madre minacciava che, ancora un minuto, e sarebbero partite senza
di lei.
E lei, sempre dentro la sua testa, in quella sorta di incubo inceppato come un disco in vinile, lei iniziava a gridare. Gridare. Gridare.
Ma nulla.
Poi tutti uscivano e lei restava lì, immobile, sola.
Ecco, sta succedendo di nuovo.
Quanti anni erano che non ti capitava? Forse è lo stress. Sì è lo
stress. E sai anche perché, Christine. Anzi, sai anche per chi. Comunque la vuoi mettere è un momento da schifo.
Eccoti qua, come se avessi ancora otto anni, nella tua cameretta a
tinte pastello. A pensare a tua madre, a implorare che non parta e
non ti lasci sola. Chiamala. Chiamala. Grida.
No, fermati.
Sei adulta. Hai trentaquattro anni. Sai che cos’è, basta svegliarsi. È
solo un sogno. Svegliati Christine.
Perché non ti svegli? Forse hai veramente solo otto anni e tutto il
resto è stato un sogno. I tuoi trentaquattro anni, lui, questo è il vero
incubo, e ora sta per dissolversi. Hai otto anni, sei nella tua camera.
Hai otto anni e non ti svegli. Chiama tua madre. Chiamala. Chiamala
ora. Grida.
Un rumore.
Che cos’è. È lui?
Trattiene il respiro, cerca di acuire l’udito.
Ecco, un rumore nel bagno accanto. L’acqua che scorre, il cigolio
del portasciugamani. I pensieri le si ricompongono, le cose riacquistano il loro senso. Tende il corpo, che non risponde.
Svegliati Christine.
Apre gli occhi di scatto. Il display della radiosveglia è lì. Un faro,
un sicuro approdo nel delirio del dormiveglia. La certezza di un luogo conosciuto.
I pensieri le si frantumano come vetro temperato. È la loro stanza, ma perché questo chiarore? Fine ottobre, le sette e cinquantasei.
Lunedì?
Sì, lunedì. Le sette-cinque-sei.
Six six six is no longer alone,
He's getting out the marrow in your backbone
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Il ritornello le si insinua dentro. Stupidamente. Non è suo, non
appartiene a lei. Appartiene a lui. Lui lo canticchia di tanto in tanto.
Lui dov’è?
È in bagno.
Le sette e cinquantasei. Lunedì. Cosa fa ancora in bagno a
quest’ora?
Lui borbotta qualcosa, la tavoletta del WC si appoggia con un
tonfo smorzato sul muro.
Rabbrividisce, fa freddo. Forse è scoperta. Non riesce a muoversi.
Christine, sei ancora dentro il sogno. È come un gioco di scatole cinesi. Sogni di esserti svegliata, ma non è vero.
Il rumore forte e improvviso dello sciacquone. Un rumore che
l'ha sempre disgustata, fin dal primo giorno, anche se è lei che ha
voluto il bagno in camera. Lei che ha voluto la casa nuova. Lei che
ha voluto riprovarci. Ogni mattina di più detesta i suoi rumori, che
filtrano dalla porta scorrevole. Il mormorio dell’acqua, le abluzioni,
gli sbadigli sguaiati. La radio a basso volume, le notizie mormorate,
la sigla del meteo. Ogni mattina gli stessi rumori. Ogni giorno gli
stessi rancori.
Ma nell’incubo quei rumori ora sono lì, familiari e tranquillizzanti.
Un appiglio, un pezzo di legno a cui aggrapparsi per restare a galla.
Svegliati Christine.
Sette e cinquantasette. La radiosveglia è lì, il display è scattato.
Sei sveglia.
Perché non riesci a muoverti? Respira. Respira. Respira.
Sette e cinquantotto.
Sei sveglia.
Cosa succede, perché non riesci a muoverti?
Chiudi gli occhi. Buio.
Apri gli occhi. Luce? La vedi? Sì, i led rossi, le sette e cinquantanove. Un leggero chiarore. Una sottile linea, nitida, attorno alla porta
del bagno. C’è qualcosa vicino ai numeri rossi, un bicchiere. Dei
giornali.
Sei sveglia.
Ok, adesso ti alzi. Dai.
Nulla.
Alza la testa, girati. Dai.
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Nulla.
Un fremito sulle labbra. Di scatto, Christine, apre e chiude la
bocca, muove la lingua. Rotea gli occhi e chiude di scatto le mandibole. Sente il rumore secco dei denti che sbattono. Crack! Nel silenzio della stanza. Lo sente. È sveglia.
Ma il suo corpo, perché non lo sente?
Le torna in mente la fine del sogno, un corpo che riemerge
dall’acqua. E’ un corpo avvolto nel nylon.
L’aria le sfugge dai polmoni, Christine grida. Grida. Grida. Un
grido di panico. Panico puro.
Panico. Panico. Panico.
Calmati, calmati, calmati. Sei una stupida. Sei sveglia, sei viva.
Non hai gridato. Lui non è uscito dal bagno. Se tu avessi realmente
gridato lui avrebbe aperto la porta. Subito, di scatto, spaventato. Invece, guarda, è ancora chiusa; lo vedi quel sottile filo di luce ad angolo retto? È la porta del bagno. È chiusa. Tu non hai gridato. È
l’incubo. Quell’incubo.
Chiudi gli occhi e se non riesci a svegliarti, cerca di riaddormentarti. Ti ricordi come facevi? Respira. Concentrati sul respiro.
Non pensare a nulla.
Tabula rasa. Una superficie piatta, una lavagna vuota. Il cielo di
notte, vuoto e senza stelle. Il nulla. La tua testa vuota. Respira. Il nulla.
La tua testa vuota, che riemerge dall’acqua.
Apre di scatto gli occhi. Le otto zero zero. Quei maledetti numeri
rossi.
Cosa succede, perché non riesci a muoverti?
Pensa.
Qual’è l’ultima cosa che ricordi? Ieri sera. Lui si è addormentato,
tu sei rimasta lì, nel buio. A rigirarti, a pensare che magari lui credeva
di aver risolto tutto, vero? Dai amore mio, vieni qui. A pensare che
per gli uomini è così, si sa. Amore mio. Bacio. Bacio. Dai, ferma.
Bacio. Dai. Dai, su. Bacio. E poi, una volta ottenuto quello che vogliono si addormentano. Lo stereotipo gli calza perfettamente. Così
alla mattina si può svegliare presto. Riposato, tranquillo, coscienza e
testicoli svuotati. Pronto per un'altra giornata. Aggiungi anche quello
alla lista. Rancori.
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Sei rimasta lì, a pensare.
Che devi decidere.
Devi deciderti.
Devi affrontarlo.
Poi, lentamente, molto lentamente, sei scivolata nel sonno. Forse.
Ma l’ultima sensazione fisica? Chiudi gli occhi. Pensa.
I polsi che pulsavano piano, dove lui ti aveva stretta con troppa
forza. Sì, oggi avrai dei segni, forse. A volte capita, amore mio, ma è
solo un gioco, lo sai che ti amo. Non sono stato troppo irruente, no
vero? Bacio. Bacio.
Aggiungi anche questo alla lista.
E poi? Il senso di fastidio all’inguine. E col tuo corpo che pulsava, piano piano sei scivolata in questo incubo. Sprofondata in quel
lago nero e gelido.
No, c’era qualcos’altro. Cosa?
Lui.
Lui, perché è ancora qui, alle otto zero zero? Lunedì, fine ottobre.
Fine ottobre di un anno di m…
Ma non era già uscito?
No, ti sbagli. Era la settimana scorsa, o il mese scorso, o la vita
scorsa. La routine di tutte le mattine, monotona, uguale. È facile
confondere i giorni, le settimane, i mesi. Perdersi in questo vuoto
che si ripete sempre uguale.
Eppure…
Il ticchettio della centralina di allarme mentre la disinseriva. Era
ancora buio.
No, non era oggi. Otto zero uno. Lunedì, fine ottobre. Fine ottobre di un anno di merda. Ecco.
Il fruscio ovattato della porta scorrevole. Un fascio di luce le
sbatte sulle palpebre socchiuse. Lui esce dal bagno in silenzio. La sua
sagoma per un attimo è nel riquadro della porta. Nero su bianco, i
contorni offuscati. La luce sembra inghiottire la sua ombra.
Il buio ora è del tutto coagulato. Luci e ombre completamente
separate, siero e sangue perfettamente divisi.
Il primo impulso di Christine è di chiamarlo. Vuole gridargli che è
lì, immobile. Che non riesce a muoversi, ma qualcosa dentro di lei la
ferma. Non possono essere le otto del mattino. A quest’ora in Otto15
bre è ancora buio. Lui non può essere ancora a casa.
Trattiene il respiro, mentre lo sente passare accanto. Le viene da
ridere, dentro. Una risata isterica. Restare immobile oggi non è certo
un problema. Non come le altre mattine, quando chiudeva gli occhi
e simulava un respiro lento, come se stesse dormendo profondamente. Poi lo sentiva sedersi sul letto alle sue spalle. E rimaneva immobile, mentre dentro era scossa da un fremito di repulsione. No, no, ti
prego, non toccarmi. Non baciarmi!
E adesso, dov’è andato?
Il silenzio le ronza attorno.
Prova a irrigidire i muscoli, cercando di acuire i sensi. Solo la mascella si contrae.
Passa mentalmente in rassegna la camera da letto e lo spazio alle
sue spalle, l’angolo con le due poltrone in pelle rossa, la specchiera
sul treppiede, il porta abiti nell’angolo. No, non lo riesce a individuare. Estende la ricerca a volo cieco al corridoio, alle stanze vicine. Alle
due camerette che sono e forse rimarranno vuote, l’altro bagno, la
scala di marmo che porta al piano di sotto.
Niente. Dov’è?
Uno scricchiolio, il parquet.
Un fruscio dalla stanza guardaroba in fondo al corridoio. Eccolo,
è ancora là. Forse si sta vestendo.
Ma non si era già vestito? Ricordi che si accavallano, le mattine
che si confondono. I giorni, sempre uguali, sempre diversi, come cantava… chi? Ma non si era già vestito? Sì, era oggi. Ha disinserito
l’allarme, poi è andato nel guardaroba.
Questa mattina.
Era buio.
Svegliati Christine.
Apre gli occhi. Luce. La porta del bagno è aperta. Alla finestra,
dietro le tende di organza c’è un chiarore latteo, uniforme. Accecante. Ipnotico. Non si vede il profilo della casa vicina. Solo bianco.
Bianco. In lento movimento.
Sei sveglia.
Perché non riesci a muoverti. Stai male? Senti dolore? Ascolta il
tuo corpo. Freddo. No, non proprio. E’ come se. Non senti niente.
Muovi le mani. Si sono mosse? No.
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Muovi i piedi, cambia posizione. No.
Cosa senti?
Niente.
Perché? Perché?
Scricchiolii sul parquet di pero chiaro. Sta tornando.
Chiamalo, chiedigli aiuto! - Luciano!
È come uno sparo. L’eco rimbalza nella stanza più e più volte. Il
parquet scricchiola piano. Lui si avvicina lentamente, non risponde.
- Luciano! - Il tono diventa acuto.
Il letto si è mosso? Sì, si è abbassato un po’. Lui si è seduto sul
bordo, con leggerezza. Non risponde.
- Luciano!
Acuto. Acuto. Terrore, terrore puro nella sua voce. Lo sente.
Lui le appoggia una mano sui capelli. La accarezza, piano.
- Luciano!
La mano scende sulla nuca, fino alla base del collo.
Poi scompare, si smaterializza, non la sente più. Ode il fruscio del
tessuto, ma non sente nulla. - Luciano?
Le risponde un sussurro: - Shh… Non ti svegliare.
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2.
Si porta a cavallo della mezzeria, il V8 Biturbo sale di giri con
rabbia. Davanti a sé vede solo vortici bianchi e informi. Sgasa a vuoto, impreca, rilascia il piede e rientra in colonna.
Guarda dal finestrino, il mondo è un bagliore latteo e uniforme.
Non si vede nulla, né case, né campagna, né il profilo dei capannoni
in cemento della prima zona industriale.
Non ci voleva la nebbia.
Accelera di scatto e frena a un soffio dal paraurti che lo precede.
Si sposta a destra, verso il ciglio, i battistrada che spiaccicano il pantano della banchina. Sferra un pugno al volante e impreca di nuovo.
Non ci voleva questo casino.
Guarda l’orologio sulla plancia per l’ennesima volta. Si rimette a
cavallo della mezzeria e concentra lo sguardo nel nulla. Nel bianco di
fronte a lui non gli sembra di scorgere né sagome, né segni di fari.
Trattiene il respiro, osserva la linea di mezzeria che sbuca dal nulla
pochi metri più avanti. E’ intermittente, è di certo un rettilineo.
Accelera e si butta fuori.
Supera una, due, tre auto. La freccia che lampeggia. Un muro di
ovatta umida davanti, un muro di lamiere a destra, attaccate l’una
all’altra, come in un convoglio merci.
La linea di mezzeria diventa continua. Decelera e rientra, creandosi un varco tra i paraurti. Qualcuno suona. Dopo cento metri la
strada piega a destra, dalla nebbia in senso opposto sbucano dei fari,
seguiti da gusci di acciaio lerci, i vetri rigati orizzontalmente da scie
di condensa.
Guarda dal finestrino. Platani scuri ora sfrecciano ai lati della
strada. Alcuni mozzati, altri inclinati come denti guasti. Su alcuni,
mazzi di fiori avvizziti, abbracciati ai tronchi con nastri da imballaggio.
La linea di mezzeria è di nuovo intermittente. Davanti a lui solo
bianco. Trattiene il respiro ed esce in sorpasso. Altre due, tre, quattro auto. Linea continua, rientra e c’è un’altra curva. Fari e lamiere in
senso opposto, poi finisce. Ma nel bianco si intravedono altri due
fari. Lontani? Bianco brillante su bianco opaco. Trenta, quaranta me18
tri? Quello va piano, c’è spazio. Vai.
Esce. La spia dell’antislittamento si accende, le ruote sobbalzano
a scatti. L’acceleratore a tavoletta. I fari in senso opposto lampeggiano insistenti. Rientra. Altri clacson.
Stringe gli occhi. Nebbia. Nebbia. Ancora nebbia.
Davanti a lui, intorno a lui. Dentro di lui. Dentro i suoi pensieri.
Nella sua testa. E’ tardi.
Dai. Supera ancora.
Una lunga tirata senza mai prendere fiato. In apnea. Tre, quattrocento metri sulla corsia di sorpasso.
La mole bianca del suo BMW X6 come un Leviatano lanciato
verso il nulla.
Striscia continua, rientra in colonna dietro un lungo autoarticolato. Le ruote gemellate enormi che sollevano un aerosol di fango, catrame e nebbia. Una scia sudicia che imbratta immediatamente il parabrezza del SUV.
Non aziona il tergicristallo, osserva il vetro che diventa sempre
più opaco. Un disturbo di trasmissione.
Sta andando tutto storto.
E’ tardi, tardissimo. Guarda di lato, per cercare di capire dov’è.
Nella nebbia, la strada sembra abbassarsi.
Quanto manca?
Aziona il lavavetri. Una schiuma candida. Più bianca del chiarore
esterno. Lunghe scie che attraversano dal basso il suo campo visivo.
Potrebbe ormai essere alle porte della città.
La statale arriva da sud, dalla bassa. Attraversa chilometri di campagna su una sorta di argine pensile. Un cheloide ispessito e irregolare che sfregia una pianura di terreni bruni e vigneti a basso grado. Di
tanto in tanto, un paese dal nome risibile. Tutti uguali, tutti diversi.
Poche case affacciate sulla provinciale, un negozio di alimentari
con pane fresco, verdura, giornali e tabacchi. Un campanile, una parrucchiera, un camposanto e un bar con gli interni di perline di pino e
i ripiani di vetro per i liquori. Tra un paese e l’altro, attività artigianali
e piccole industrie che crescono come herpes ai lati della strada.
Centri di lavorazioni meccaniche, tornerie, stampaggio, fonderie di
leghe leggere, concerie, centri logistici.
Se non ci fosse la nebbia potrebbe vederli, lì, appena sotto il livel19
lo della strada. Capannoni tutti uguali, le linee squadrate senza grazia.
I tetti piatti rivestiti di catrame nero, le insegne in plastica con due o
tre lettere. SV, VLG, 2V, LS. Tutte uguali, tutte diverse.
Piccole utilitarie parcheggiate a pettine su slarghi improvvisati di
terra battuta ed erbacce. Accanto all’ingresso l’immancabile auto tedesca di grossa cilindrata o qualche fuoristrada nuovo fiammante,
sempre tedesco, sempre perfettamente pulito, il cui proprietario lavora come un emigrato in Germania per pagare il leasing di
quell’auto, per mantenere le sue iniziali su quelle pareti di cemento,
per finire magari picchiato selvaggiamente e derubato al rientro a
casa. Da qualche banda di slavi o rumeni o chissà chi venuti a far
festa nel ricco Nord-Est. A raccogliere a man bassa, nel Paese dei Balocchi. Nella sua villetta neanche tanto isolata, neanche tanto grande,
neanche tanto appetibile.
Anche tu hai una villetta. Un po’ isolata, ma non troppo. Hai un
SUV tedesco. BMW, si intende. Un fuoristrada che fuoristrada non
è. La villetta l’ha voluta lei. Pagata con i soldi di lei, anzi di suo padre.
Il SUV lo hai voluto tu. Sei riuscito a convincerla che un fuoristrada
era necessario, ora. La lunga discesa che porta alla casa, e in caso di
pioggia o neve? Meglio essere sicuri. Se poi arrivassero dei bimbi…
Dei bimbi? Cosa dici amore? Che sia il momento? Potrebbe essere la soluzione anche per noi. Con un bambino si sa, la vita cambia.
Basta, non è il momento. Torna a concentrare l’attenzione sulla
nebbia. L’autoarticolato è lì. Un rombo costante. Una mole invalicabile. Si avvicina alla mezzeria. Oltre alla nebbia, solo la scia sollevata
dalle dieci coppie di ruote. Un muro vorticoso e ipnotico di particelle in sospensione. Impossibile vedere oltre.
Impreca.
Una vibrazione dentro la giacca.
No, no, no.
La vibrazione diventa una melodia. Non doveva accenderlo, lo
sapeva. Immagina già chi è. Deve rispondere?
Cerca di aprire il cappotto, ma non riesce a prendere il cellulare.
Sgancia la cintura di sicurezza, apre il cappotto, apre la giacca. Tasca
interna. Vibra e suona. Guarda il display mentre la melodia idiota
cresce di tono. Deve rispondere?
Guarda avanti, come a cercare una risposta. L’autoarticolato è
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sempre lì. Non c’è spazio per superarlo. Con il pollice sfiora lo
schermo.
- Pronto!
Dall’altra parte una voce lo aggredisce.
- Sì, sì, lo so. Sto arrivando, sto arrivando.
Scosta il cellulare dall’orecchio. La voce continua a inveire.
- Ascoltami, sono imbottigliato nel traffico. Qui è tutto bloccato.
E’ a un metro dalle ruote gemellate.
- Senti, non lo so, porca puttana! C’è una nebbia che nemmeno
t'immagini. Ci sarà stato un incidente. E’ tutto bloccato, ti ho detto.
Sulla barra paraurti del camion c’è un adesivo. Cheyenne trucks tribe.
- No. No, non farmi questo. Sto arrivando ti ho detto.
La testa di un indiano, con una bandana e un coltello tra i denti.
In puro stile americano.
- Sto arrivando, cazzo! Dammi dieci minuti, un quarto d’ora al
massimo. Cosa ci vuole?
Cheyenne trucks tribe. Cosa ci fa un Cheyenne nel fottutissimo Veneto? Questo è un termine in puro stile Americano: Fottutissimo.
- Offrigli un caffè, non lo so. Fai qualcosa, ma aspettami! Ascoltami, non…
La voce dall’altra parte sale ancora di tono. Luciano guarda il cellulare. Lo riaccosta all’orecchio. - Sto arrivando ti dico. Ci sono ormai. Il tempo di trovare parcheggio.
Un fottutissimo Cheyenne. Alla guida di un fottutissimo camion? Che
procede a fottutissimi quaranta all’ora. Praticamente fermo. Praticamente bloccato.
- Giuro, dieci minuti. Ormai ci sono. Sì arrivo, ciao.
Butta il cellulare sul sedile, accanto al portafoglio e alle chiavi.
Dieci minuti.
A questa andatura ha almeno mezz’ora di strada davanti.
Si porta a ridosso dell’autoarticolato. La strada in quel punto è
stretta, costeggiata sulla sinistra da una fila di platani incancreniti. Si
vedono solo i tronchi, le chiome si perdono nel bianco. La linea di
mezzeria è continua, ma non doppia. Ricorda vagamente che dovrebbe esserci un rettilineo. Non vede nulla. La nebbia è ancora più
fitta, se possibile.
No, non è più fitta. Non vede niente perché non c’è nessuno in
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senso contrario. Vede due, tre, o forse quattro sagome di platani.
Trenta, quaranta metri? O forse sessanta, ottanta, se tra albero e albero ci sono venti metri. Sufficienti.
Adesso.
Preme con rabbia l’acceleratore. Il V8 Biturbo risponde con un
rombo atroce, da animale meccanico. L’antislittamento lampeggia, le
ruote motrici agguantano l’asfalto sotto la patina viscida di nebbia.
L’accelerazione lo schiaccia sul sedile. Si aggrappa al volante, le nocche sbiancano. Puntini neri che iniziano a diffondersi dal centro del
suo sguardo. Da quella nebbia bianca. Puntini neri, che lentamente si
espandono dal suo punto focale. Che ruotano lenti, in senso antiorario, sospinti lateralmente dall’accelerazione di Coriolis, come acqua
che scende nello scarico.
I platani più avanti sembrano spostarsi sulla destra.
La statale inizia a curvare, il contachilometri arriva sui 100. 110.
120.
Quando succede, il cofano bianco del BMW X6 è arrivato
all’altezza della motrice.
La prima cosa che avverte è l’urlo dei freni dell’autoarticolato.
Una tosse metallica alla sua destra. Una nuvola disperata di attrito,
nebbia e asfalto.
Poi, una mole enorme.
Compare dal nulla. Da oltre la curva, a fari spenti, di fronte a lui.
Ha solo il tempo di intuire cos’è: un trasporto di rottami metallici,
il cassone rialzato e immenso. Il baricentro troppo alto per essere
vero. Putrelle, nastri e carcasse arrugginite che strabordano da sopra.
Le sue mani danno un colpo secco allo sterzo. Il BMW X6 scarta
a sinistra e infila lo spazio vuoto tra due platani. Le ruote anteriori
colpiscono il cordolo rialzato della banchina, gli airbag scoppiano
assieme ai suoi polmoni.
Il SUV rimbalza, si impenna e vola fuori da quella sorta d’argine
su cui è la strada. Due tonnellate e mezzo di tecnologia tedesca in
volo libero. Gli airbag si afflosciano, giusto il tempo di lasciargli percepire un fotogramma della campagna sottostante. Poi il nulla.
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3.
Il Citroën medicalizzato, dono dell’Associazione Alpini di San Leo,
viaggia solo con i lampeggianti accesi, senza sirena. Alle dieci di martedì sera non c’è nessuno in giro.
Coni di luce fredda si susseguono, modulando una sorta di wop
wop nella testa di Amedeo. Lui strizza gli occhi ogni volta che si infilano sotto una delle lampade a vapori di mercurio. Wop. Guida il Citroën attraverso un gruppo di case che si affacciano direttamente sulla
strada, lontane solo un dito di polvere. Ora anche il riflesso dei lampi
blu sui doppi vetri gli dà fastidio. Wop wop. Le case hanno muri di
malta grezza, scrostati dall’umidità e coi licheni che crescono in ampie chiazze nere. Appena sopra i tetti incombe una coltre di nebbia,
come un enorme mal di testa.
Con pollice e indice Amedeo si comprime le palpebre. Wop wop.
Davanti a loro una macchia di luce rossa si ingrandisce; solo quando
gli è a ridosso realizza che ha davanti uno scooter. Inchioda di colpo,
il medico al suo fianco afferra la maniglia della porta e sbuffa.
Un uomo bardato di casco, guanti e giubbotto viaggia a cavallo
della mezzeria. Amedeo gli spara un colpo di clacson, scala la marcia
e supera. L’uomo sullo scooter ha un sacco di nylon nero sopra il
giubbotto. - Cazzo di Morocco… - L’infermiere con abilitazione di
conducente Amedeo Menin si lascia andare a una lunga sfilza di improperi ad alta voce.
E’ nervoso. Per la stanchezza. Per la discussione di poco prima.
Allunga una mano verso i comandi del navigatore satellitare. Un rettilineo, una curva, un incrocio e poi la traccia si conclude. La loro
destinazione, Contrà Bocchese, è una zona nuova, non ancora inserita sulle mappe. - Speriamo di arrivarci prima che venga giù la nebbia
- Amedeo batte i palmi sul volante per sottolineare la sua irritazione.
La chiamata è arrivata a cinque minuti dalla fine turno. Del suo secondo turno.
A cinque minuti. Cinque maledetti minuti.
In questo caso si esce comunque. E’ la regola.
Ma quando uno è in servizio da ventiquattro ore filate, delle regole non gliene frega più niente, è stanco e basta. Ha i muscoli intorpi23
diti, la testa pesante e i pensieri che si annodano. Che male c’era a
tirare i preparativi cinque minuti? Cinque minuti o meno. E’ facile,
Amedeo lo ha già fatto. Non trovi il borsone, mancano i kit di infusione, la barella non è stata rimessa a posto correttamente, il portellone non si chiude, non si trovano le chiavi. Due, tre minuti di confusione, arriva l’equipaggio del turno dopo e partono loro. E tutti
sono più felici, incluso il paziente, che ha così uomini freschi e motivati. Non due zombi sfatti. Ma il dottore no, lui arriva dritto dal Policlinico Universitario, dalla laurea o da quello che fanno adesso prima
di finire lì a comandare. Il dottore è al suo primo mese fuori dall’aula.
Il suo primo mese nella vita reale.
Il dottore è ligio: conosce le procedure, conosce il regolamento e
applica le regole alla lettera.
Anche se le regole sono idiote, contrarie al buon senso. Uno dovrebbe arrivarci da solo. E che, doveva essere proprio Amedeo a
spiegarglielo? Sembra impossibile che in un mese di gettoni non gli
fosse mai capitato un fine turno, al dottore. Forse Amedeo è stato un
po’ brusco. Ma il dottore doveva capirla.
Come fai a uscire a cinque minuti dalla fine di un doppio turno?
Dodici più dodici ore di fila?
E invece no, non l’ha capita. Come fai a fare due turni di seguito,
ha risposto. Nessuno ti obbliga. Già, nessuno. Come no.
Ed ecco lì: le nove cinquantanove, sul display rosso del Citroën.
Fine del secondo turno fra un minuto. Sessanta secondi. Cinquantanove, cinquantotto, cinquantasette.
Ventiquattro ore ininterrotte e un’uscita dietro l’altra. Un problema dietro l’altro. Un corpo dietro l’altro. Corpi pallidi, malati,
sfatti, feriti, offesi, inerti, contorti. Imploranti.
Amedeo ha voglia di gridare. Stringe forte il volante con le mani e
le braccia che gli tremano. Ha solo voglia di andare a casa. Una doccia, stendersi sul letto e chiudere gli occhi. Dormire fino alla fine del
tempo. E poi via di nuovo.
Cinquantatre anni. Il doppio turno comincia a essere troppo.
Troppo. Ma Amedeo ha ancora bisogno di gettoni. Troppo bisogno.
Troppo.
Le dieci zero zero. Ecco.
E il dottore? Probabilmente lui ha un motivo migliore, lui così si
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paga la specializzazione. Cosa fanno adesso? Tre, quattro anni? E si
mantengono così, con i turni di pronto soccorso, le guardie mediche,
le sostituzioni. Gettoni. Dodici ore, un gettone.
E tu Amedeo, a cinquantatre anni vuoi continuare con questo
ritmo? Gettonista per tutta la vita? Eppure, ti basterebbe solo un po’
di volontà. Solo un po’.
Guardati, le mani che tremano come quelle di un vecchio. Ubriaco di stanchezza. Ne vale la pena?
Un’ultima volta. Poi basta. L’ultima.
Magari è la volta buona. Una serata fortunata, quello basterebbe.
Basterebbe recuperare quello che hai perso negli ultimi due mesi,
tanto per ripagare un po’ di debiti, quelli più rognosi. Poi basta. Sì,
può essere la volta buona, lo senti. L’ultima. Questa volta hai deciso.
Basta.
Concentrati sulla strada. E’ l’ultimo sforzo. Dai.
Il Citroën esce dal piccolo centro abitato, la strada ora è costeggiata da un basso muro di pietre a secco. Sopra, le sagome irreali dei
vigneti di Garganega. Nel buio sembra un susseguirsi di corpi crocifissi. I rami spogli e tesi sopra i fili di ferro: corpi neri, contorti. Imploranti.
La nebbia è sempre più bassa. Incombe, muta e feroce, appena
sopra il balenio blu dei lampeggianti. Wop wop.
Una serie di curve appena abbozzate. Le buche sulla strada. Rattoppi di asfalto su asfalto, poi un rettilineo che diventa una lunga e
sconsolata salita e li porta dritti dentro la nebbia. Amedeo ne percepisce il rumore quando ci entrano dentro. Lo sente come una fitta al
petto.
La visibilità scende all'improvviso a meno di dieci metri, Amedeo
frena, imprecando di nuovo. Ricorda vagamente l’incrocio e non
vuole finire fuori strada. Certo che no.
Sono sulla comunale interna: la strada che corre alla base delle
colline tra San Leo e Borgo San Lorenzo. Conosce di fama la ristrutturazione Bocchese, dove sono diretti. La conoscono tutti, è un posto chic, da gente coi soldi. E’ costruita su una sorta di promontorio
proteso sulla pianura. Con le colline alle spalle, da lì si domina tutta
la bassa. Nelle giornate più limpide dicono si possa arrivare a scorgere perfino il profilo degli Appennini. Lontanissimo a sud. Mezza Ita25
lia più a sud.
Ma ora non c'è un granché da vedere: ora si vede solo il muro di
nebbia. Opaco, elastico. Si muovono nella massa nera della notte,
solida come gelatina.
Amedeo accende e spegne gli abbaglianti più volte. Aziona i tergicristalli che spazzano solo una patina di condensa dal vetro, ma
non cambia nulla. Spegne i lampeggianti blu, il riflesso intermittente
lo disorienta. La linea di mezzeria è completamente sbiadita e per un
attimo rimane senza riferimenti. Sente le ruote sobbalzare sul cordolo di erba della banchina e ferma completamente il Citroën.
Rimangono entrambi in silenzio, con lo sguardo fisso sul parabrezza a cercare di decifrare le volute di nebbia in lento movimento.
Amedeo abbassa il finestrino laterale, sporge la testa. Odore di cordame bagnato penetra nell’abitacolo, l’umidità gli si conficca nelle
guance come punte di spillo. Rimette lentamente in movimento il
mezzo, tenendo il finestrino aperto. Avanza, sporgendo di tanto in
tanto la testa.
Imboccano contromano una stretta curva a destra e una voce dal
navigatore informa: - Destinazione raggiunta.
Amedeo risponde con un’imprecazione secca e prosegue lentamente. Niente, non vede niente.
Frena di colpo. Dalla nebbia è sbucato un cartello stradale. Riluce
sotto i fari a pochi metri. Leggermente storto, con quattro frecce a
indicare direzioni contrapposte. Verona, Vicenza, Autostrada A4 e San
Leo. La linea di mezzeria scorre orizzontale proprio sotto di loro:
sono in mezzo all’incrocio.
- Se non sbaglio dobbiamo girare a sinistra e trovare una strada
privata - dice il dottore.
Altri metri nel nulla nero e indefinito.
- Che sia questa?
- A sinistra c’è un cartello. Cosa c’è scritto?
Su un paletto zincato con una specie di banderuola in plastica, in
eleganti lettere bianche c'è scritto Contrà Bocchese e sotto Strada Privata.
- Ok, ci siamo.
Il Citroën svolta su una carrareccia in cemento, leggermente in discesa. Il fondo corrugato a spina di pesce e senza segnaletica oriz26
zontale.
Amedeo impreca ancora una volta. Tre o quattrocento metri a
passo d’uomo nel nulla. Si vede qualcosa. Sagome. Sagome in una
sorta di controluce gelatinoso. Edifici. Gli edifici della vecchia Ferriera Bocchese, da cui prende il nome il complesso. Edifici industriali
inizio ‘900, abbandonati dopo la guerra.
Muti spettri di una rivoluzione industriale incompiuta. Gusci vuoti, venduti e rivenduti per mezzo secolo sempre più al ribasso, lasciati a disgregarsi nella polvere, sotto il vincolo implacabile delle Belle
Arti di Venezia. Senza mai più trovare una destinazione produttiva: il
luogo è splendido, ma inadatto. Inadatto alla frenesia manifatturiera
odierna.
Questo grappolo di edifici si trova giusto a cavallo del confine
provinciale. A metà tra San Leo e Borgo San Lorenzo. A metà tra le
due province, Verona e Vicenza. Né carne né pesce. E’ fuori dalle
aree industriali, servito solo dalla vecchia strada interna tra i due paesi. Lontano dal nodo ferroviario. Lontano dal casello autostradale.
Lontano dal business. Lontano dal cuore pulsante del denaro.
Eppure, tre o quattro anni prima una società immobiliare ha avuto il coraggio di attuare una vecchia idea. Recupero e trasformazione
d’uso: brutale, decisa, costosa. Rispetto degli stretti vincoli architettonici delle Belle Arti e restauro delle originali costruzioni in mattoni
rossi. Il corpo centrale della ferriera e la fornace sono divenuti così
un complesso suggestivo di appartamenti e loft.
Gli edifici di servizio e i magazzini esterni sono stati convertiti in
ville monofamiliari. In colori accesi, con parti bene in evidenza degli
originali mattoni rossi e con le finestre bordate da candida pietra di
Vicenza.
La ciminiera della fornace è stata restaurata e ora svetta sul lato
ovest del complesso coi suoi trenta e passa metri di altezza. Senza
una precisa funzione, se non quella di attirare l’attenzione. Il complesso è diventato una sorta di borgo esclusivo. Una ventina di unità
abitative in una posizione incantevole e fuori mano, conosciuto come ristrutturazione Bocchese. Ben visibile anche dall’autostrada. Una
ciminiera attorniata da case colorate, poco lontano dal castello di San
Lorenzo.
Un posto da gente coi soldi.
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La carrareccia arriva dritta alla ciminiera. Riflettori ad arco cercano di illuminarla dal basso. La luce rosata si infrange su un mare di
vapore acqueo. Si intravede la base a tronco di cono, con un diametro di almeno sei metri. Amedeo guarda istintivamente verso l’alto,
ma la cima si perde nel nero informe.
Passano accanto al corpo centrale, austero e affascinante come un
edificio londinese. Alcune finestre illuminate, con gli infissi a riquadri, lanciano parallelepipedi di luce che tranciano di netto le volute di
nebbia trasversalmente al loro percorso.
Il dottore guarda ammaliato - Ah, ora ho capito che cos’era: una
fornace, uno zuccherificio?
- Che numero era? - Chiede Amedeo.
- Ventitre, riesce a vedere dove siamo ora?
C’è un’inferriata in ferro battuto che delimita i sette metri canonici di giardinetto. I cancelli degli ingressi indipendenti si susseguono a
intervalli regolari. Precisi.
- Boh… sei, otto, mi sembra. Dieci, ecco.
- Sarà una delle case singole. Andiamo fino in fondo, di là.
Al termine del corpo centrale la strada si divide in due per compiere un anello tra gli edifici periferici. Imboccano a destra e la via
scende dolcemente costeggiando le inferriate. Ora ci sono dei lampioncini bassi, discreti. Distanziati tra loro. Globi di luce compressi
dalla nebbia. Le case si intravedono appena, quel poco per capire che
sono tutte disegnate dalla stessa mano. Tutte curate, a due piani, i
balconi alla vicentina, i portoncini blindati, i basculanti in legno. Porzioni di mattoni a vista e intonaci dai colori vivaci.
Il dottore dà voce al pensiero di entrambi: - Bel posto, quanto costerà una casa così? Ottocento? Un milione?
Amedeo alza le spalle.
La strada sta risalendo verso la ciminiera, quando all’improvviso i
fari illuminano una figura infagottata in un piumino bianco che
muove le mani.
Accostano, il dottore abbassa il finestrino, di nuovo l’odore pungente di nebbia: - Ha fatto lei una chiamata al 118?
Amedeo non sente la risposta, ma ha già capito. Spegne il Citroën, apre la portiera e scende. La stanchezza e il nervosismo sono ancora lì, ma soverchiati da un senso di urgenza. Amedeo è basso e
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tarchiato, con spalle larghe; nonostante l’età dà un’idea di energia
compressa in uno spazio angusto. La tuta rosso fosforescente sembra diffondere luce attorno a sé. Apre il portellone, prende il borsone con la croce bianca. I suoni nella nebbia sembrano stranamente
nitidi. Sente la voce di donna crescere rapidamente: - Non ce l’ho
fatta, oh Dio, non ce l’ho fatta a restare dentro. Oh Dio, Dio, non ce
l’ho fatta.
Il dottore le risponde in tono pacato, cercando di essere rassicurante. Wop wop. La testa di Amedeo sta esplodendo. Si guarda attorno. Non c’è nessuno, a parte loro tre e il Citroën. Nessuna finestra
illuminata. Nessun’altra voce e nessun rumore di passi. Sembra tutto
finto: una scenografia, un paese fantasma. Una bolla di terra e nebbia
fuori dal tempo e dallo spazio.
Amedeo ha una strana sensazione mentre segue il dottore e la figura in piumino bianco attraverso il vialetto.
Sotto gli anfibi ciottoli regolari e variopinti, lucidi di umidità. La
chiave gira nella serratura, tre scatti secchi. L’interno è buio, immobile. Tiepido.
Entrano nel buio. C’è un odore strano, rancido. Il dottore dice
qualcosa, poi la luce si accende. WOP! Una fitta risale dalla retina
dentro il cervello di Amedeo. Restano immobili, il salone è ampio,
vasto gli viene da pensare. Quell’armonia di classico e moderno che
vedi su riviste come A o Vogue Casa: parquet chiaro e pezzi di antiquariato, una vetrina piena di argento, gli oggetti illuminati da luci
alogene. Due piccoli divani in pelle chiara, un camino di marmo
bianco. Quadri moderni e litografie vivaci.
Alla donna in piumino bianco scappa un singhiozzo, un verso
gutturale che riporta Amedeo al suo dovere.
La scala è in marmo lucido, con un parapetto in acciaio satinato e
domina il lato sinistro del salone. Il corpo è riverso alla base, supino:
la testa in basso, i capelli sul volto, le braccia piegate in modo strano.
Le gambe nude, una ciabatta al piede destro. La camicia da notte di
seta bianca corta e malmessa. Un vassoio a terra, in fondo alla scala e
cocci di bicchieri lungo gli scalini.
Amedeo si muove per primo.
Si infila i guanti in lattice, rapido. Si accuccia, tende una mano,
certo di quello che sentirà. La ritrae.
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La donna in piumino chiede qualcosa, implorante. Amedeo non
sa cosa dire. Non tocca a lui.
Il dottore si inginocchia a sua volta e fissa il corpo. Con la mano
guantata scosta i capelli: occhi aperti, offuscati da una patina biancastra, pupille dilatate, sclere arrossate. Le labbra disseccate. Appoggia
due dita sul collo. Guarda Amedeo negli occhi. Questi prende il fonendo dalla borsa e glielo passa, perché così vuole la procedura, ma sa
che è inutile. Il dottore ascolta con attenzione. Poi ripone il fonendo.
Esamina il corpo con tutta la meticolosità di cui è capace, senza
muoverlo. Allarga la camicia da notte. La pelle è fredda e ci sono
alcuni lividi, forse macchie ipostatiche. Infila le mani sotto il collo.
Le fa scorrere lungo la spina dorsale. Trova la frattura alla base del
collo. E’ evidente sotto le dita. Guarda la scala. Il marmo lucido.
Una bambola spezzata.
- Proviamo a girarla? - Dice.
Amedeo scuote la testa, poi indica con il mento la donna in piumino. Li sta fissando.
Il corpo è rigido. Anche il dottore capisce che non possono voltarlo davanti a lei. C'è qualcosa di atroce, di insopportabile nel vedere una persona cara resa rigida dalla morte. Un manichino grottesco.
Si alza, le si avvicina. Il dottore è alto e magro, quando cammina è
disarmonico. Ha i capelli cortissimi, gli occhialini tondi e spessi, il
volto da bambino spaesato. Lascia cadere le braccia lungo i fianchi,
imbarazzato: - Signora, lei è una parente?
- Sono la sorella. E’ morta, vero? E’ morta?
- Eh…io…, purtroppo…
- Oddio. - Si copre il volto - Dio, no. Lo sapevo, lo sapevo. Me lo
sentivo.
Scoppia a piangere. Amedeo si siede sul primo scalino. I singhiozzi gli martellano la testa. Wop wop. Appoggia i gomiti sulle ginocchia. Ecco: fine di un turno di merda. Ventiquattro ore di guerra
e poi questo.
Guarda il corpo supino. E’ giovane, doveva essere carina, anche
se ora il volto è spento e livido. Livor mortis: dopo che il cuore si ferma, il sangue si accumula nel punto più basso. Gravità.
Il dottore tocca un braccio alla donna. Un gesto lieve: - Anche se
ci avesse chiamato prima, non cambiava nulla, signora. Deve essere
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successo da diverse ore.
- Ma perché? Perché? - Altri singulti che si infilano direttamente
nel cranio di Amedeo - Cosa … cosa è successo?
- Sembrerebbe una caduta, dobbiamo svolgere un esame un po’
più accurato. Forse è meglio che lei si sieda. Magari di là, c’è la cucina?
Annuisce.
- Se vuole avvisare qualcuno. Poi avrò bisogno di lei, per le formalità.
Amedeo fissa quegli occhi aperti, vitrei. Quello che è successo è
evidente: le ciabatte di stoffa, il marmo liscio, i cocci sulla scala. Una
banale, stupidissima caduta.
Quanti banali, stupidissimi incidenti ha visto Amedeo in quasi
venticinque anni? Incidenti domestici, cadute, folgorazioni, ustioni.
Spesso la morte arriva così: banale e stupida. Fissa ancora quel volto.
Quanti occhi ha visto, sbarrati così? Si alza, guarda meglio, da vicino.
Il bianco degli occhi è iniettato di sangue. Piccole venuzze esplose?
Quando ha visto degli occhi così? Wop wop. Quando? La testa non
riesce ad afferrare nessun pensiero.
Il dottore ritorna. Riprende a esaminare in silenzio, con tocchi
precisi e minuziosi. Girano il corpo. E’ nel pieno del rigor mortis. Il
corpo ha smesso di produrre ATP e i muscoli si irrigidiscono come
legno. Un livido leggero, dai contorni netti, alla base del collo. La
pelle già increspata dalla disidratazione post mortem. Appena sopra
il livido, la spina dorsale sembra scattare in fuori.
- Ecco, è questo - il dottore sfiora con il dito rivestito di lattice il
brusco disassamento del collo - deve essere scivolata all’indietro, aveva le mani impegnate e non è riuscita ad attutire la caduta. Ha
sbattuto sul bordo del gradino. Il colpo le ha fratturato una o più
vertebre danneggiando il midollo spinale. La frattura è molto alta, e
coinvolge le vertebre cervicali. Un danno del genere di solito compromette la capacità di respiro autonomo.
Amedeo si alza, la testa gli scoppia e non ha nessuna voglia di ascoltare una lezione dal dottore. Sale le scale, sotto gli anfibi scricchiolano frammenti di vetro. Trova a tentoni la luce. Guarda i gradini in controluce. Il marmo è liscio e probabilmente trattato a cera; al
piano superiore un corridoio, niente di strano. Una camera, il letto
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matrimoniale sfatto. Qualche vestito su una delle poltrone rosse, il
resto sembra a posto. Torna giù, lo sguardo ricade su quegli occhi
vitrei e iniettati di sangue. Wop wop. Non riesce a ricordare, ma…
Chiede: - Quando sarà successo?
- Da almeno dodici ore, forse di più. Stamattina, direi.
- Cosa facciamo?
- Stendo il certificato di morte e portiamo il corpo in ospedale, alle celle.
- Non toccherebbe a noi.
- No, ma ha visto la sorella. Non possiamo lasciarla con un cadavere in casa.
- Sarebbe la procedura. Non mi dica che facciamo uno strappo alla regola.
- Facciamo come al solito, eventualmente facciamo finta di aver
tentato di rianimarla. Decesso durante il trasporto.
- Non avvisiamo il magistrato?
- Non serve. Sono in pubblico servizio, sono io il medico refertante. E poi, lei non aveva fretta di tornarsene a casa?
Amedeo mette più disprezzo che può nel suo sguardo: - Non ha
capito niente, dottore. - Lo dice scandendo le sillabe, come se fosse un
insulto.
Il dottore si toglie i guanti in lattice. Gli volta le spalle e si dirige
verso la porta della cucina. Cerca una penna tra le tasche della tuta
rossa fosforescente. Amedeo si china di nuovo sul corpo. Osserva
quegli occhi. Wop wop. Il suo cervello finalmente aggancia il ricordo
che stava cercando. Wop! Si alza di scatto, esclama: - Dottore!
Quello si ferma, lo guarda. Attraverso la porta si sente una voce
flebile. La sorella che al telefono avvisa il resto della famiglia.
- Le ha visto gli occhi?
- E allora?
- Cacchio, lei forse è giovane, dottore, ma io ho già visto degli occhi così! E…
- Che cosa vuole dirmi Menin?
- Avvisiamo il magistrato!
Il dottore allunga la mano verso la porta.
- Si rimetta i guanti dottore. Non tocchi nulla a mani nude.
Il dottore ha un sussulto e si ferma.
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- Mi ascolti per favore. Dia un’occhiata- insiste Amedeo.
Ritorna, si accovaccia vicino al corpo. Estrae una pila a stilo dal
taschino interno. La punta sul volto. Le cornee vitree iniettate di
sangue.
- Perché sono così? - Chiede Amedeo.
- Potrebbe esser stato un aumento eccessivo della pressione oculare direi.
- Come può succedere?
- Il sangue non riesce a defluire dal cranio, una forte compressione a livello qui…
- Delle giugulari!
- Potrebbe essere.
- Avvisiamo il magistrato, dottore, mi dia retta.
- Spero si renda conto di cosa significa, vero?
Amedeo annuisce, dice: - Ne sono certo, ricordo di aver visto degli occhi così un’altra volta.
- E quando?
- Una donna, era stata strangolata.
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