Global e No-Global e Bloody Sunday

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Global e No-Global e Bloody Sunday
16
luglioagosto2002
CULTURE
FUMETTI
Global e No-Global
e Bloody Sunday
Ultimate
Spider-Man Special
Piuttosto interessante l’ultimo libro di Alessandro Baricco, intitolato Next
n Paolo Boschi
Negli ultimi tempi si è fatto un
gran parlare della convention
dei “no-global” prevista a Firenze nel mese di novembre: paura
da parte dei moderati, timore
diffuso per le forze dell’ordine
c h e d ovr anno f ar f r onte
all’evento e, comprensibilmente, attesa per tutti coloro che
della globalizzazione non sono
mai stati amanti, se non apertamente contrari. Ora, almeno in
teoria, è da ritenersi un punto
condiviso dai più che tragedie
estreme come quella dell’anno
scorso a Genova non debbano
ripetersi mai più: spesso un
evento luttuoso non ben chiarito, se da una parte ha l’effetto
negativo di non punire i reali responsabili, dall’altro finisce comunque per proiettare una luce
diffusa su situazioni simili, col
beneficio indiscusso che coloro
che saranno chiamati ad usare
la forza per controllarle si ritroveranno sotto i riflettori, dunque limitati nell’esercizio delle
loro funzioni, diciamo pure responsabilizzati – il che in ogni
paese dovrebbe essere la norma ed in Italia è, da sempre,
un’esigenza –.
Da qualche settimana è un programmazione Bloody Sunday
di Paul Greengrass, un film che
ricostruisce con rigore documentaristico la domenica del 30
g e n n a io 1 9 7 2 : a De r r y ,
nell’Irlanda del Nord, una divisione di paracadutisti inglesi affogò nel sangue la pacifica protesta dei dimostranti di una
marcia per i diritti civili. Tredici
cittadini indifesi persero la vita
senza ragione apparente, tralasciando l’ottusità e la violenta
prevenzione dei militari, colpevoli di omicidio ingiustificato,
impuniti dopo l’episodio, anzi
decorati per l’impegno profuso
nella strage. Da qui molti nordirlandesi lasciarono la strada
della non violenza e si arruolarono nelle file dell’Ira, inne-
scando una guerra civile destinata a durare per interminabili
anni, perché spesso la forza si
rivela un rimedio che non risolve niente ma produce altra violenza. Fronteggiare un happening di persone aggregate da
un comune denominatore di
protesta può non essere il massimo della vita in ambito professionale: d’altra parte poliziotti e
carabinieri sono pagati (non
molto per la verità) proprio per
consentire lo svolgimento in sicurezza di simili eventi, per individuare eventuali infiltrati violenti, possibilmente senza ricorrere ad estreme misure. Ma
torniamo alla tragica domenica
del 1972 per osservare che
l’evento assunse valenza mitica
nell’immaginario collettivo giovanile in quanto nel 1983 ispirò
una canzone epocale ad un giovane gruppo di Dublino, gli U2,
che nel ventennio successivo
sarebbero divenuti la rock band
più nota a livello planetario. La
canzone s’intitolava Sunday
Bloody Sunday, ed è il monito
di chiusura del film di cui sopra,
ideale monumento musicale
(l’unico della pellicola) a chiusa
di una tragedia topica nella sua
brutalità. La generazione che
negli anni Ottanta amava questa canzone (poi divenuta il manifesto per eccellenza del gruppo dublinese) forse conosceva
pure lo spunto di cronaca del
brano: nel 2002 i ragazzi di allora (ora verso i quarant’anni) curiosamente sono accomunati
dalla globalizzazione musicale
ai teenagers di oggi, che quasi
sicuramente ignorano del tutto
da dove sorgesse la rabbia e
l’energia di quella canzone. Miracoli di Mtv, forse, ma cos’è
successo dal 1983 ad oggi?
Gli U2 si sono confermati alfieri
di un rock impegnato e foriero
di messaggi, ma nel frattempo è
nato il fenomeno Internet, che
ha già bruciato se stesso e forse
sta persino ricominciando a
sorgere dalle sue ceneri. Mar-
chi, griffe e multinazionali hanno uniformato il mondo, ed è
spuntata nei dizionari di recente edizione una nuova minacciosa parola: globalizzazione, la
parola (e il fenomeno) che i
no-global avversano. Un buon
vocabolario vi dirà che “globalizzazione” è un termine economico che indica la tendenza di
mercati o imprese ad assumere
una dimensione mondiale, superando i confini nazionali o regionali. Magari dismettendo
impianti di manifattura che in
un paese evoluto hanno costi di
mantenimento valutati eccessivi, ma che in nazioni più povere
(e con costi salariali ridicoli)
consentono ad un’impresa di
continuare ad essere competitiva nel mercato globale, una forma di neocolonialismo economico, insomma, ed eticamente
discutibile. Un esempio così banale (potremmo citarne molti
altri) è già indice che protestare
contro qualcosa del genere non
è necessariamente sintomo di
una personalità ribelle ed anarchica, semmai dotata di remore
etiche dalle quali le multinazionali sono immunizzate in nome
del dio denaro. Quindi, in teoria, per certi versi il problema
della sicurezza in manifestazioni no-global dovrebbe essere
del tutto accessorio. Semmai è
da chiedersi: quanti sanno davvero cos’è la globalizzazione?
Già, perché ormai se ne parla
così spesso da dare per scontato che tutti sappiano cosa sia veramente, mentre in merito regna sovrana la confusione, la
pedissequa certezza derivata
dal considerare veritiere notizie propagate (chissà, forse ad
hoc) ai quattro venti. Potrebbe
essere una soluzione leggersi
l’ultimo libro di Alessandro Baricco, intitolato Next (Feltrinell i , 2 0 0 2 ) e n ato p r o p r i o
all’indomani del G8 di Genova
del 2001. In questo volumetto lo
scrittore torinese affronta il fenomeno partendo dagli pseu-
do-dogmi circolanti in materia
di globalizzazione – gli isolatissimi monaci tibetani che navigano nella Rete, la Coca Cola o
le Nike che si trovano ovunque,
la possibilità di comprare azioni
on line o qualunque altra cosa –
per smontarli uno ad uno e
chiedersi: se in fondo pochissimi acquistavano libri o titoli in
rete, se i monaci tibetani non
erano affatto netsurfers, se in
India la Coca Cola si trova, ma
solo a beneficio dei turisti o dei
ricchi locali, allora perché c’era
bisogno di veicolare simili informazioni? Perché dare l’idea
che la globalizzazione fosse
l’ultima frontiera, il futuro che è
già qui, ciò da cui non si può più
prescindere? Forse perché la
proiezione fantastica di nuove
sterminate frontiere economiche, se considerata reale, finirà
per divenire reale ed indispensabile. Il progresso è stato finanziato dai detentori dei grossi capitali, desiderosi di creare
una nuova frontiera, gli artefici
del treno diretto verso l’ultimo
West possibile, il West virtuale,
appunto. I costi umani fanno
parte del gioco ed il progresso
implica vittime sacrificabili.
I “no-global” sono quei pionieri
del nuovo millennio che sono
saltati giù dal treno perché la
meta non gli piaceva più.
Perché averne paura?
ALINARI
Agricoltura e foreste nelle fotografie
dei Fratelli Alinari
Nell’ambito del secondo ciclo
di mostre curate dall’Università
degli Studi di Firenze e dal Museo di Storia della Fotografia
F.lli Alinari rientra, quest’anno,
la mostra “Agricoltura e foreste
nelle fotografie degli Archivi
Alinari e delle Collezioni fiorentine” focalizzata sul ruolo della
fotografia come strumento per
la didattica e la divulgazione
delle conoscenze scientifiche,
tecniche agricole e forestali.
Sede e cornice ideale della manifestazione è la Villa Demidoff
nel parco di Pratolino riaperta
dopo la recente ristrutturazione.
L’impostazione della mostra è
delineata dalla necessità culturale di riconsiderare il grande
patrimonio fotografico costituito soprattutto da materiale prodotto e raccolto da docenti, ricercatori ed operatori tecnici
con il preciso scopo di docu-
mentare le singole fasi colturali
dei vari sistemi agricoli e forestali, dal dettaglio più preciso
alla veduta più generale. Attraverso la realizzazione della mostra è stato reso possibile il recupero di collezioni emblematiche di tre momenti forti della
formazione e dello sviluppo tecnico agrario e forestale fiorentino. La mostra presenta 150 immagini in un percorso espositivo sintetizzato in un itinerario
che privilegia l’analisi fotografica tecnica e divulgativa, prodotta da un “occhio didattico”
ma non necessariamente di fotografo professionista a confronto con la fotografia più estetizzante, documento del bello o
del meraviglioso, dell’inusuale,
rintracciabile sulle stesse tematiche, negli Archivi Alinari.
Inoltre la scoperta di una fotografia “grigia” come importante
documento dei metodi “reali”
di coltivazione ed utilizzazione
della risorsa terra rispetto ai
metodi “raccontati” dai trattati
di agronomia e selvicoltura. La
mostra è suddivisa in 4 sezioni:
Paesaggi “costruiti”; Le produzioni: le lavorazioni, le coltivazioni, il prodotto e la raccolta; I
protagonisti; Le foreste.
Il pubblico che fruisce del parco di Pratolino nel periodo estivo può essere condotto lungo
gli itinerari proposti per la mostra a riconsiderare i valori culturali insiti nella quotidiana costruzione dei saperi, fatta di
conservazione, analisi e confronto come la fotografia consente e a riscoprire l’intenso
rapporto della società fiorentina con le sue risorse territoriali,
come traspare oggi nel paesaggio toscano.
Orario: giovedì, venerdì, sabato
e tutti i festivi dalle 10 alle 20.
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La Marvel Italia ha pubblicato i primi episodi della collana “Ultimate
Team Up” in due volumi titolati “Ultimate Spider-Man Special”. La
formula è un’intelligente rivisitazione, per gentile concessione dello
sceneggiatore Brian M. Bendis - il geniale creatore dell’universo
Ultimate - della premiata formula della storica serie “Marvel Team
Up”: si tratta di avventure che vedono sempre come protagonista
l’Uomo Ragno (in versione Ultimate, chiaramente) con partner
supereroici a rotazione. A differenza del passato (ed in perfetto
accordo col proprio stile) Bendis ha però rinverdito lo stereotipato
schema di incontro/scontro tra supereroi che poi si uniscono per
combattere un nemico comune: le avventure della nuova serie
spesso mostrano nuove sfumature dei supereroi interessati e c’è
una grossa attenzione per le tematiche in sottofondo. Esemplare in
tal senso la prima storia in assoluto, dove Spidey incrocia le
ragnatele con gli artigli del mutante Wolverine: i due si conoscono
ed imparano a cooperare, mentre sullo sfondo Bendis esplora una
tematica scottante come il razzismo, ovviamente dalla prospettiva
degli umani timorosi del potenziale pericolo rivestito dai mutanti.
Nel primo volume l’Uomo Ragno si trova anche ad affrontare la
minaccia di Hulk in versione Ultimate, ispirata alla fase violenta e
microcefala del golia verde. Ma Bendis comincia a fare davvero sul
serio nel secondo “Ultimate Spider-Man Special”, che presenta
invece ben cinque storie complessive. Le prime due introducono
l’Iron Man dell’Ultimate Universe, che ha sempre il volto del playboy
miliardario Tony Stark, stavolta privo di identità segreta e
fermamente contrario a vendere a qualsivoglia offerente la
rivoluzionaria tecnologia della sua armatura. Stark, essendo un
geniale inventore, è per l’appunto un mito di riferimento per il
giovane Peter Parker, che come Uomo Ragno gli darà una mano a
neutralizzare la minaccia di un manipolo di ladri tecnologici: Bendis
coglie l’occasione per ripresentarci le origini del supereroe
corazzato, leggermente diverse da quelle ‘ufficiali’. Il volume
presenta anche un’altra miniserie, addirittura un trittico di
avventure interpretate, oltre che da Spidey, anche da Devil e dal
letale Punitore, con i primi due impegnati nel tentativo di
riassicurare il pericoloso giustiziere alle patrie galere. Il personaggio
di Devil/Matt Murdock non presenta sostanziali novità rispetto alla
serie regolare, come pure nemmeno il Punitore/Frank Castle, che
pure ha vissuto sulla sua pelle un’indelebile tragedia familiare che lo
ha indotto ad abbandonare la sua professione di poliziotto per
votarsi allo sterminio dei criminali a tempo pieno. Il livello
qualitativo dei due minicicli è interessante a livello narrativo,
dunque la differenza finiscono per farla i disegnatori: il team up tra
Spidey e Testa di Ferro è affidato al tratto da cartoonist puro di
Mike Allred (che in genere i fumettari odiano o amano senza vie di
mezzo), mentre l’ombroso trittico Spidey/Devil/Punitore è
orchestrato graficamente dal maestro Bill Sienkiewicz, uno dei
pochi disegnatori situato sulla sottile linea rossa che divide i comics
dall’arte grafica tout court.
P.B.
DISCO
Marvel Crossover n. 33-34, Ultimate Spider-Man Special 1-2,
bimestrale, pp. 96 e 112 [Marvel Italia]
Norah Jones,
Come away with me
Si resta sempre un po’ dubbiosi dopo aver ascoltato per la prima
volta un album d’esordio dotato del livello qualitativo di Come
away with me. A garanzia dell’operazione ci sono i nomi
dell’etichetta discografica “responsabile” (la prestigiosa Blue Note),
del produttore (Arif Mardin) e dei guests di supporto ma, alla fine,
quello che resta impresso è l’indiscutibile talento, vocale e
pianistico, dimostrato dalla debuttante in questione. Nata a New
York, classe 1979, Norah Jones si è presto trasferita a Dallas, dove
ha frequentato la Booker T. Washington High School for the
Performing and Visual Arts: ha cominciato a suonare il piano
intorno ai dieci anni e, prima di firmare per l’etichetta jazz Blue
Note nel 2001, ha vinto per due anni il premio come miglior jazz
vocalist e suonato in un paio di gruppi. Prima di Come away with
me Norah Jones ha realizzato l’EP First sessions, la gran parte
della cui scaletta è poi confluita nell’album di debutto, composto di
quattordici brani complessivi: in tutto il disco presenta tre covers e
ben undici brani originali, di cui due sono opera della stessa Jones,
mentre gli altri sono stati scritti a quattro mani dal bassista Lee
Alexander e dal chitarrista Jesse Harris, entrambi appartenenti alla
band che accompagna la giovane cantante. Come away with me è
un disco che attinge a piene mani dalla tradizione della musica
popolare americana: non solo jazz, ma anche country, folk,
rhythm’n’blues e blues. Il tutto mostrando un notevole senso della
misura: a differenza dei lavori della collega più attiva sul fronte delle
reinterpretazioni jazz, ovvero Diana Krall, Norah Jones ha saputo
limitarsi in tal senso ad un solo standard in senso stretto, la
conclusiva The nearness of you (di Carmichael/Washington)
rivista per voce e solo piano (davvero molto suggestiva), mentre le
altre due covers sono la rivisitazione jazzata (delicata e notturna,
davvero deliziosa) di Cold cold heart, firmata da un mito del
country come Hank Williams, e la rilettura di Turn me on di J.D.
Loudermilk, R&B di grande atmosfera, un vero tuffo nel passato.
D’altra parte tutto il disco è impressionante per la patina d’epoca
che ne traspare: a partire dall’apripista, l’indiscussa gemma
dell’album, ovvero la splendida Don’t know why, una canzone
calda, avvolgente e sorprendentemente contagiosa fin dal primo
ascolto, seguita a ruota dalla ballata Seven years, teneramente
malinconica e dal retrogusto diaristico. Tutta la tracklist è un
succedersi di liete sorprese e citazioni piazzate con gusto, inanellate
una dopo l’altra come perle in una collana: il sapore folk della
ballata Feelin’ the same way, la notturna titletrack, l’intensa
semplicità di Shoot the moon, il country da spazi aperti di
Lonestar, il violino ed il basso che colorano l’atmosfera retrò di I’ve
got to see you again, la soffusa Painter song (all’aroma di
Bacharach), l’irresistibile R&B di One flight down, l’essenzialità
acustica di Nightingale ed infine la malinconia The long day is
over (con la chitarra di Bill Frisell). Un album fuori dal tempo per
un’esordiente che ci auguriamo di risentire sempre a questi livelli e
per la quale l’accostamento a Billie Holiday non sembra profano.
P.B.
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