“Inside out”. La Pixar ei (suoi) sentimenti

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“Inside out”. La Pixar ei (suoi) sentimenti
“Inside out”. La Pixar e i (suoi) sentimenti
di DOMENICO SARACINO
Riley nasce felice. La prima ad accendere le luci nel ponte di comando che muove la
cerebro-navicella del suo viaggio esistenziale è Gioia,
una dolce bambolina dagli occhi blu che splende di luce propria. Poi, quasi inspiegabilmente,
inizia a piangere. Basta qualche secondo per rendersi conto che non ci sarà un noioso, quanto
improbabile monopolio emozionale della tanto cara letizia. Tristezza, una goffa creatura
occhialuta color Puffo, rischia sin da subito di tingere di blu i ricordi della protagonista e la pars
destruens (ma sono davvero impulsi esclusivamente distruttivi?) della ciurma si completa ben
presto con altre tre emozioni basilari: Rabbia, Disgusto e Paura. Con il suo nuovo film
d’animazione, Inside Out, uscito il 16 settembre nelle sale italiane, la Pixar ci permette di dare
uno sguardo al management del reparto “Emozioni” mentre allestiscono in fieri il cantiere
esistenziale di una bimba che cresce.
Riley è abbastanza fortunata da poter collezionare una montagna di frammenti di innocente,
inconfessabile felicità. Niente guerre, migrazioni sui barconi della morte, povertà, malattia,
sofferenza. Le fondamenta della sua personalità infantile possono erigersi solidamente sulla
base dei pilastri dell’amore famigliare, dell’amicizia, dell’onestà, del gioco e del divertimento (la
stupidera). Finchè, ovviamente, anche lei dovrà fare un passo al di fuori del paradiso per
entrare nel mondo reale. Quello in cui il papà deve trasferirsi dall’idillico Minnesota alla ben più
prosaica San Francisco per lavorare, in cui la pizza è condita con gli odiosi broccoli e gli amici
te li devi guadagnare.
Come tutto il resto. La vita vera, con quel suo sapore agrodolce che tutti conosciamo, inizia per
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lei a 11 anni. Riley si rende lentamente conto che non è soltanto il demiurgo Gioia a plasmare il
suo mondo, ma che anche gli altri esserini che abitano nella sua psiche sono pronti a
dimostrare la necessità della propria esistenza. Che lo stare al mondo impone l’abbandono
della monocromia di un’infanzia che assomiglia ad una continua festa di compleanno per
approdare alla consapevolezza che le emozioni – e i sentimenti che sono le dimore in cui
vivono in continua dialettica- sono sfere policromatiche, particelle volubili e cangianti e non
cristalli immodificabili, né monadi insensibili al mondo esterno: sono buffe creature colorate che
si adattano all’habitat in cui sono chiamate a coesistere e risentono irrimediabilmente degli
scossoni, delle scelte. Che, oltre al dono della vita e al diritto alla felicità, abbiamo un libero
arbitrio e un carattere da tirar fuori per farci strada. Soprattutto in alcuni momenti.
Inside Out sceglie proprio uno di questi snodi fondamentali, quello che si interpone tra la fine
dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza e propone, più in generale, una riflessione sofferta sulle
difficoltà che emergono nelle fasi di cambiamento, di trasformazione.
L’idea parte da lontano. Alla fine del 2009 il regista, Pete Docter, cominciò a notare delle
alterazioni nei comportamenti della figlia preadolescente. La bambina si stava trasformando
gradualmente in una ragazza più silenziosa e riservata. Docter, che da bambino si era trasferito
con la famiglia dal Minnesota in Danimarca e aveva vissuto una fase di assestamento non
proprio indolore, rivide in lei le proprie insicurezze e paure e prese ad immaginare cosa
passasse nella mente di sua figlia. L’idea di illustrare, di animare un processo così oscuro,
complesso eppure cruciale per il funzionamento di ogni individuo lo eccitò a tal punto che si
interessò profondamente ai meccanismi della mente, arrivando a consultare grandi psicologi;
Paul Ekman, punto di riferimento mondiale per gli studi sulle emozioni e ispiratore della
fortunata serie Lie to me, ad esempio, o Dacher Keltner, un suo allievo e collega focalizzatosi
sulla centralità della tristezza nei processi cognitivi e relazionali. Un punto di vista originale che
tende a rivalutare uno stato d’animo troppo spesso bandito dalle storie raccontate ai piccoli
come ai grandi, perché figlio delle paure, del fallimento, dell’incapacità di adattamento. Perché
emblema di tutto ciò che rifiutiamo in un mondo che ci impone il successo e l’allegra
superficialità. Perdendone il valore gnoseologico, il potenziale disvelativo.
Non solo: il film è un tentativo magistrale di disegnare le emozioni, di immaginarle all’opera in
quell’insondabile cabina di regia che è la mente umana. Senza rinunciare agli input e ai dettami
della letteratura scientifica o all’entertainment più puro: ci sono guardie a difesa del subconscio,
ricordi che vengono fissati grazie al sonno, esperienze che passano attraverso processi di
astrazione. E poi tutta la maestria (piro)tecnica dei ragazzi della Pixar, di un’azienda che non si
è mai accontentata di riscaldare le minestre sulle braci di vecchi, gloriosi fuochi, ma che ha
sempre avuto il coraggio di osare, di raccontare nuove storie come un Prometeo che continua a
sfidare imperterrito gli dei più conservatori dell’olimpo dello show business.
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La società del mantra “Story is king” e della tecnologia, avanzatissima, a servizio della
narrazione. Di John Lasseter e del suo
Toy Story, primo,
indimenticabile film in computer grafica. Di Steve Jobs e delle sue geniali intuizioni, di Andrew
Stanton e dei suoi
Alla ricerca di Nemo
e Wall-E. Lo stesso Stanton che invitava la gente a “cercare di sbagliare il prima possibile” (i
suoi primi schizzi di Woody, il cowboy protagonista di
Toy Story
, furono rifiutati dalla Disney) per imparare dagli errori. La società presieduta da Ed Catmull che
nel suo libro “
Creativity Inc: overcoming the unseen forces that stand in the way of true inspiration
” ragiona sull’utilità del fallimento nel processo di creazione di un’opera d’arte e sulla necessità
di accettarlo e di superarne il timore per trovare infine la strada giusta, quella che porta al
capolavoro.
Nella loro indissolubile unità, la storia del film e quella della Pixar stessa sembrano dirci la
stessa, identica cosa: che la sfida più grande nella vita, sia quella del personaggio al di qua, sia
quella dello spettatore al di là dello schermo non è altro che una matura accettazione delle
sconfitte, dei cambiamenti apparentemente sconvenienti, della perdita di ciò che smarriamo
lungo il cammino. Soltanto imparando a relazionarsi con Tristezza, soltanto sacrificando i nostri
amici immaginari, gli idoli, i feticci che diventano fardelli potremo finalmente schizzare verso
“l’infinito e oltre”. Come voleva Buzz Lightyear.
3/3