Storia in terra di

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Storia in terra di
UN RACCONTO*
Storia in terra di ‘ndrangheta
Itistal breve
racconto offre lo spunto per la riflessione su come cambi il profilo ‘ndranghedel futuro e di come rilevi il legame tra spinte moderniste verso interessi economico-finanziari e necessità di conservare la violenta legittimazione nel territorio di origine. Nel confronto generazionale, si immagina un incontro tra coetanei sui diversi
fronti, due focus sul fenomeno che dipendono dai rispettivi retaggi familiari.
Nico era andato via dalla Calabria che non aveva ancora compiuto quattro
anni.
I ricordi di quel tempo, nella memoria, son passati vani, leggeri e vaghi,
come nuvole inutili, macchie di brume nell’orizzonte breve di un bambino.
Per lui la Calabria era diventata, chissà come, chissà quando, il ritorno magico, il disvelamento della religiosità familiare, il perpetuare l’essenziale battesimo identitario e la continua conferma della propria appartenenza a quelle
rocce stanche e umide che, dall’Aspromonte, decantano come planando sulle
coste aspre del Mediterraneo.
Silvana ha voluto diventar sbirra, indossando la divisa dei suoi parenti,
con la rabbia e la leale fedeltà ad un sogno… . Aveva segnato sulla lama della
sua sciabola il nome del nonno e lì aveva lasciato la storia di una famiglia da
D’Annunzio a ormai stanchi e imbiancati ufficiali dell’Arma, cugini ritrovati
nella stessa culla dei suoi alamari.
Era bella, di quella bellezza allegra e sorridente che sfida con innocenza il
pudore e con innocenza schiera le falangi di impietosi pensieri e di azioni decise come di samurai.
Nico e Silvana sono coetanei. Giovani. Belli.
I giovani studiano il futuro, oggi, lo preparano, come in un lineare gioco
dell’oca.
* È un prodotto di narrazione di fantasia per cui ogni riferimento a fatti, luoghi e/o persone è da intendersi
assolutamente casuale.
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Non più, come nel passato, si improvvisa il destino, guidando con istintiva perizia felina le onde della realtà, spesso troppo parche per dissetarsene, altre volte impreviste e catastrofiche, tanto da annegare o naufragare.
“Nico, la situazione non va bene. Qualcosa ti sfugge, figlio mio. C’è sciauro di veleno, c’è vento a poppa che non mi piace, spinge dove non deve spingere!”.
Il boss parla poco con suo figlio. Ha sempre parlato poco.
Il figlio, d’altra parte, ha sempre cercato di evitare un confronto diretto.
Non ne ha mai avuto voglia, forse nemmeno il coraggio o la forza….
“Nico, una sola volta ti ho parlato. E ho deciso per te”.
Il padre continua a discorrere con gli occhi persi nel vuoto, nel flebile battito di ciglia che sfida la gravità e il tempo… .
“Una volta ti dissi cosa tu dovessi fare. Pensavi di esser un pupo nel tuo
teatro. Pupo pensavi. Allora ti ho fatto sentire il grido del sangue. Quel sangue
che morde la vita e che ti porta la Madonna di Polsi nel cuore. Tu non sapevi o
non volevi sapere chi fossi…”.
“Non torniamo sull’argomento. Non puoi. Cosa fatta punto a capo. Dimmi
che c’è, ora…”.
Cosa sente dentro di sé?
Un mondo di emozioni. Le può sentire tutte sulla pelle.
Ha studiato, frequentato le migliori scuole. Ha colto la differenza di stile
con quelle famiglie milanesi con cui intratteneva rapporti.
Le ha invidiate, per la naturalezza del loro vivere e della loro ricchezza, come fossero sempre esistite, come se non dovessero dimostrare alcunché, in
una superiorità talvolta affilata e saccente.
Lui, no. Ha dovuto lottare per affermarsi. Non è naturale. Anzi. Da quel
padre un po’ zotico e troppo approssimativo cosa poteva avere? Solo il benessere di poter studiare… . Di vivere à la page.
Certo. Ha capito bene il senso di quell’aurea di infallibilità e di rispetto che
accompagnava il padre, soprattutto quando aveva a che fare con la comunità
di paesani o quando tornavano tutti nella casa dei nonni, nella Calabria del
suo passato genetico.
Non ne vuole sapere, Nico, di quel passato.
Se ne è sempre dispiaciuto, anzi. Soprattutto quando giocava con i cugini,
accento aspro come il monte, spocchioso e ardito, sempre, come se dovessero
dimostrare il valore di guerrieri nelle piccole cose.
Pensava fossero prepotenti, invece si preparavano ad essere capi, ad essere quell’élite da macello che le faide falciano periodicamente.
Se lo ricorda il discorso del padre.
“Nico, tu Ferlisi sei. Hai capito? Ferlisi! Sono venuti gli sbirri a casa, hanno
rivoltato i panni, hanno fatto cadere, ti ricordi, quel pezzo di stella di Swarov148
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ski o come minchia si chiama…, hai pianto di rabbia, te lo ricordi? Noi quella
rabbia ce l’abbiamo dentro. È una vita che gli sbirri ci spezzano le stelle. Noi
siamo il loro incubo ma anche loro per noi sono il malanno… . Quello grave…
Quello vigliacco che ti fa morire a poco a poco…
Si, gli sbirri… . Loro s’avventano come belve al tuo collo e ti dissanguano… arrestano a tia, a mia, ai camorristi e ai picciotti…, sfoltiscono tanto la tua
schiera che rimangono due picciottelli pronti ad essere messi all’ingrasso e a
essere cucinati al fuoco di settembre a Polsi…
Così è stato per tuo nonno, per tuo zio, per i tuoi cugini…”.
Nico abbassava il volto, come a voler spezzare lo sguardo del padre e farlo frantumare e precipitare come la sua stella di cristallo… .
“Tu hai studiato, ti sei fatto crescere la barba, di quelle fini ed eleganti che
tanto vanno di moda e che a me schifìa. Sei stato bravo. Minchia, tanto bravo.
Ti ho regalato l’impresa. Quella storica. Quella che il nonno aveva nascosto, aveva messo nelle mani di due brave persone. Come piangevano. Sembravano convinti che fosse ormai la loro, l’azienda. Con quali soldi? La gente ha la
memoria corta, ma noi l’abbiamo allungata… . Nota, figlio mio, il noi… . Noi
siamo io e te e anche quando siamo soli dobbiamo sapere che siamo noi, io e
te, ma anche tutti quelli che ti stanno dietro e avanti, vivi e morti… . La società!”.
Quel noi non piaceva a Nico.
Lo rattristava. La famiglia, noi, i Ferlisi e i Tarlazzi, certo, aveva capito che
erano la sua vita. Ma quel nome articolato, la società, lo soffocava… Lo tratteneva, lo legava, imponeva un mondo, il suo, che non era quello desiderato,
quello maturato nello studio, nelle ville delle ragazze amate o dei compagni…
Faciva u sceccu ‘nto linzolu, faceva finta di non capire.
“Nico chi pensi che possa considerarti un bravo ragazzo? La gente? Quella
gente che ha paura e ti rispetta perché di paura ne ha tanta!? Gli sbirri? Tu sei
un nome, per gli sbirri, ed è un nome che scotta…. Non fuggi, non puoi fuggirne… Vuoi fare l’onesto? Vuoi fare la tua strada da solo? E tu pensi che aprendo
un commercio non ti sminchino gli sbirri, per il tuo nome, solo per quello? E
anche se lo cambiassi, il nome, ti rimane la polvere della ragnatela che t’incolla
a mia, a tua madre, ai tuoi cugini…, nelle carte degli sbirri tu rimarrai sempre
Ferlisi! E, d’altra parte, quando ti ho fatto inginocchiare davanti alla Madonna
dei Polsi e ti ho fatto giurare l’odio contro i Condini, ti ricordi? Tu hai giurato. E
quel giuramento ti sei ricordato, ai funerali di tuo cugino… e quando sarà il caso, tu la prenderai quella pistola che hai ammucciato… la prenderai, se non per
me, almeno per i tuoi figli… la nostra storia è la teoria di figli uccisi, di padri
spariti, di vendette e tradimenti…. Quello noi siamo! Da questo non scappi. Ma
non ti farebbero scappare nemmeno gli sbirri o i tribunali!”.
L’aveva capito, Nico, alla prima perquisizione nei suoi uffici di via Monteleone. Nel cantiere in cui avrebbe voluto dimostrare a tutti il suo valore… Lui
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economista puro, master a gogo’, ovunque gli piacesse, in America, a Londra,
in Australia… E sempre, alla fine, c’era un calabrese gentile ad accompagnarlo
all’aeroporto e a riverire il padre lontano. Lui che, incredibile a dirsi, sembrava un principe… .
Lui ce l’avrebbe fatta, se non avesse avuto quel nome. Ma senza quel nome, forse, non avrebbe avuto di che vivere…
“Nico, le cose vanno bene. Sei stato bravo. La famiglia, oggi, ha una cassaforte… . Tu come lo chiami, che mi fa ridere tanto, il portafogli… si la cosca ha
un portafogli immenso, che non potresti nemmeno piegarlo e metterlo darretru… . Sei bravo, figlio mio… tanto… . E hai capito… lo sento, da come pronunci il tuo nome… Da come non t’inchini più ai battesimi, ai matrimoni o ai
funerali e attendi invece che gli altri s’inchinino. Sei cresciuto capo e sai cosa ti
spetta… ma ancora la Calabria è lontana… troppo lontana dal tuo cuore…”.
A Roma, dove il ponentino ormai è sparito e Rugantino è solo macchia di
teatro, a Roma, Silvana va a trovare suo zio generale…
Robusto, barba coltivata, aria di comando, di quella che assomiglia tanto ai
disegni dei condottieri russi vittoriosi dopo la campagna napoleonica… Satolli di potere e di storia. Imprevedibili e imprevisti. Sempre.
Suo zio ha fatto diverse campagne di guerra di mafia. Ne ha vinte, alcune,
perse altre. In fondo, poiché la mafia esiste ancora, si sente addosso l’ambiguo
ossimoro di un vittorioso perdente. Vittorioso, a voler contare le medaglie sul
petto. Perdente, perché sua nipote s’appresta ad andare in Calabria come lui
aveva fatto trent’anni prima. Con la stessa curiosa preoccupazione e con l’ansia
di voler cambiare il mondo… . Ma sempre con quella ‘ndrangheta, la stessa
‘ndrangheta, colpita, ferita eppure sempre lì, viva, indomita, feroce e subdola.
Minchia, da tenente lo voleva cambiare il mondo! Poi, il mondo cambia, gira tanto per poi tornare allo stesso punto, ma l’uomo è sballottato chissà dove.
È la legge del caos che domina la vita umana… . Ripete il generale…
“Vado proprio in Calabria, proprio dove sei stato tu. Ti rendi conto? È una
fortuna, un segno del destino… Chissà, ripercorrere le tue strade, non è una
fortuna? Per me sì, e sono qui per un consiglio…”.
Atto dovuto, pensa il generale, ricordando come i giovani, tutti i giovani,
nella loro voglia di vivere, travolgono l’ansia dei vecchi e la loro abitudine ad
essere prudenti… . Si chiama responsabilità, quella prudenza, perché da vecchio si ritiene di essere l’Istituzione e si pensa e si agisce a tutelarla, sempre.
I giovani, invece, pensano alla realtà, alle irrazionali spinte della verità, alla fattibilità dei sogni, perché per loro esistono ancora… . Per questo i giovani
sono sempre migliori.
Gli piace quella bella nipote. Bella nella sua uniforme, anche se ancora stona la femminilità in quell’abito monacale che è stato, per lui, il segno proprio
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di un maschile sacerdozio. Bello il suo coraggio, la sua forza di carattere che
tracima da un sorriso permanente. È disabituato a vedere ed apprezzare la forza in un sorriso. Non ce la fa, lui, a sorridere, i vecchi non lo sanno fare, per
questo il mondo dovrebbe appartenere ai giovani… .
“Bada a te… bada a te. Sono zone tristi. Rapprese. Intrise di contraddizioni e di mafia. La mafia. Puoi pensare che sia l’organizzazione, il pericolo. Invece è l’humus, si, l’humus che fa vivere l’organizzazione che ti deve preoccupare, perché quell’humus è lo stesso di cui tu vivrai. Penseresti, come pensavano
forse i miei vecchi capi, perché anch’io sono stato giovane ed ho avuto capi,
anche se me ne dimentico spesso, penseresti di trovarti in frontiera, nelle linee
e nelle trincee di una guerra netta e chiara… Non è così. L’antimafia non è così. È indistinta, umbratile, nebbiosa… Perché fa riferimento all’uomo, che è lupo, hobbesiano lupo, e alla società, che delle discrasie si nutre e nelle terre di
mafia le discrasie sono volute, sfruttate, sviluppate e condivise”.
Silvana sorride. Gli vuole bene. Talvolta lo chiama vecchio trombone e la
madre la sgrida. Si vogliono bene la madre e il generale.
Lei ha studiato tutta la storia dell’illustre parente e se ne è nutrita, soprattutto quando il nonno Enzo l’accompagnava a scuola e le raccontava i risultati
brillanti e le esperienze maturate da quel suo nipote.
Ha però capito che il mondo corre come un treno veloce, veloce molto di
più di quanto lo siano i treni a vapore. Lo zio aveva viaggiato, per tappe dolorose, per terre meravigliose e pericolose… . Insomma, lo zio aveva fatto il suo
dovere e lo aveva fatto bene. Ma era un treno a vapore. Ora toccava a lei. In un
contesto e in un tempo diverso, più difficile, più competitivo, più manageriale.
Ha studiato, ha fatto esperienza in alcuni comandi del tipo di quelli del Deserto dei tartari, novella Giovanni Drogo, ha capito che le sfide sono economiche, finanziarie, così studiando gli antichi segreti dei mercati e della finanza.
È stata brava. Ci crede nel suo lavoro. Che lavoro non è… una sorta di missione e non comprende come quella missione, per lo zio, sia ancora appannaggio della sua generazione, maschile ed elitaria.
Le vuole bene, lo sente, e ricambia… ma il tempo è mutato… È il suo tempo, ora, tocca a lei…
“Stai attenta ma osa. Cerca di scoprire qualcosa di originale. Nella lotta alla mafia l’originalità salva dallo stantio dominio dell’hic et nunc. Capire di andare oltre evita i capisaldi e le rendite di posizioni. Spinge il contrasto ad anticipare l’avversario. Perché la mafia, per essere battuta, va conosciuta. Va saputa. Va sondata. Non misurare il tuo successo attraverso la statistica degli arrestati o dei latitanti catturati. No. Non è cosa solo di manette e fulgide conferenze stampa. È cosa di testa. Di conoscenza utile a formare e indirizzare l’intelligenza politica. La mafia sopravvive perché si adatta al cambiamento. Per incontrarla debole, la devi trovare nei momenti delicati del trapasso. Devi
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conoscerla, quindi, devi conoscere la rete che l’alimenta e prima di tutto devi
spezzare proprio quella. Per isolarla, la mafia, prima che isoli te”.
Smette. Capisce che sta tromboneggiando e che non è il caso.
L’abbraccia. E in quell’abbraccio ricorda l’amore paterno e un dolce frullare nel cuore tra ansia, soddisfazione e paura. Le farebbe da autista. Avrebbe
voluto regalarle collaboratori come Amato o Guccione, veri sbirri, di cappa e
spada. Non è il tempo. La lascia andare per la sua strada, trattenendo solo il
profumo di giovinezza.
La libertà! Pensa il generale. La libertà nei nostri figli salverà questa società e la renderà più libera. Bella generazione, questa. Più libera di noi. Meno engagée ma anche più pragmatica, utile all’azione.
Il rispetto! Pensa il boss. Rispetto e regola salveranno la ‘ndrangheta e la
porteranno oltre il tempo. Il rispetto è l’identità e la conservazione della specie
mafiosa. Nell’ibrido dell’opportunismo che permea la società, tutti hanno bisogno di certezze e solo un Molock come la ‘ndrangheta può servire a dare sicurezza. La gente, il popolo, hanno bisogno di regole e di rispetto perché vogliono essere sicure. Mezza libertà ma almeno certa. I giovani guardano avanti, più avanti di noi. Ma non devono perdere la strada, la loro strada, che non è
orizzonte ma è passato, non è solo mercati finanziari ma capacità di imporre il
monopolio sulla vita e la morte dei cristiani.
Nico ha preso il treno. La sua famiglia è potente. Ha le mani in tutti i mercati e nelle piazze finanziarie. Mani lunghe. Mani curate. Non più quelle rozze
del padre e del nonno ma quelle intarsiate dalle onorevoli estetiste di Nico.
Lui ha perso un po’ di capelli e anche la velleità di una vita diversa.
Non è stato più lui a parlare milanese ma molti milanesi a parlare calabrese.
Così succede, talvolta.
Ha di quei mezzi edili e di quelle maestranze affidabili da sbaragliare ogni
altro imprenditore concorrente. Ha abilità e relazioni tali da investire in modo
rapido e sicuro per sé e per le cosche alleate. In breve, da broker è diventato un
big. Un vip del crimine, come ama chiamarsi al posto del vetusto boss.
Ne incomincia a godere. Gli piace quel misto di successo personale e rispetto per la sua identità mafiosa. Ha arte e pazienza. È bello e simpatico. Ha
il savoir fair delle migliori università. Ha imparato a gestire gli affari come un
londinese ma solo dopo aver fatto bonificare le piazze e i mercati con la forza
cieca e bruta dei suoi cugini e dei suoi pari.
Sul treno accende l’ipad e contra la posta. Risponde a committenti in inglese, francese, tedesco. Studierà anche il cinese e certamente l’arabo. Guarda al
Mediterraneo come ad una risorsa inesausta. Il Mediterraneo, ripete spesso, è
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un racconto
il nostro passato e il nostro futuro… un po’ come la Calabria per la sua esperienza di vita… .
Si alza per prendere un aperitivo. Prima che anche il treno veloce smetta
sul serio di correre. Dopo Roma rallenta, infatti, come se nel Sud occorra essere lenti, pazienti, bovinamente altro rispetto all’ipercinesi vincente del new
men lombardo.
In fondo riconosce un viso, a tratti folgora nella memoria, è un profilo bello…
Il sorriso… . Si, una sua compagna di università o di master, si, master in
economia, si, bella e brava, se la ricorda… . Fabbricatore, Silvana Fabbricatore
ma la chiamavano… Sissi, proprio Sissi, perché tanto simile alla principessa,
tanto simile all’icona sorridente e un po’ guascona…
Forse ne era innamorato, forse, come non amare quel fiore tanto colorato e
profumato?
“Sissi…”.
Silvana si ferma. Lo riconosce a stento, ma nella memoria subito trova motivo per trasalire. Compagno di master. Si, fine intelligenza. Bel corso, quello.
Lo aveva meritato ed i suoi superiori avevano acconsentito che lo frequentasse solo perché ne aveva fatto una ragione di sentimento e di principio. Lui era
un bel tipo. Veramente un bel tipo.
“Domenico… Domenico sei tu?”.
S’abbracciano simpatici, giovani, colti.
Che fai, come stai, sei sposato, dove vai?
Mille domande e tanti troppi sguardi… .
Domenico, detto Nico. Non Mico, come tradizione vorrebbe. Ma Nico,
perché i suoi compagni da piccolo non riuscivano a capire il significato diminutivo di Mico e lo storpiavano nel più noto Nico, da Nicola.
Lui se ne era appropriato di quel nomignolo e aveva preteso che tutti lo
chiamassero così. Anche in Calabria. Vezzo di milanese, avrebbero detto.
Tanto, Nico o Mico, sempre tu sei… . Pensavano il padre e i parenti che lo
lasciavano fare. In fondo, era bravo, la migliore testa… .
Nico racconta i suoi successi, le sue esperienze internazionali, i suoi viaggi. La soddisfazione di aver creato un impero.
Tu, Sissi che fai?
Sai, mi hanno trasferito, sono ora Capitano dei Carabinieri, e prendo il comando di quell’area che dal porto sale all’Aspromonte. Dicono che si stanno
ammazzando e allora hanno mandato rinforzi e nuova linfa… .
“Tu sbirra?”
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La sorpresa è tale da scomporre il viso in mille frammenti, come la stella di
Swarovski custodita gelosamente da bambino e distrutta da un carabiniere
improvvido… . Sorpresa che sbalordisce Sissi. L’inquieta. È vero, non l’aveva
detto, forse al master. Come si usava. Si taceva l’esser sbirri nei salotti universitari. Ma la reazione è eccessiva.
“Biglietti prego…” Interrompe il bigliettaio con la sua linda uniforme
rossa.
Nico allunga il suo biglietto elettronico e ripete la sua identità: Domenico
Ferlisi.
Silvana con fiuto sbirro collega subito l’identità del compagno di università: Ferlisi, viene da Milano, non è forse il sospettato di essere la mano lunga finanziaria del potentato mafioso che fa capo ai Tarlazzi? Proprio quei Tarlazzi
che è venuta a combattere?
Nico si perde. Per un attimo fugge nello sgabuzzino della sua villa paterna, dove da piccolo si rifugiava per raccogliere le idee nei momenti di grande
dispetto, di ansia o di paura.
L’aveva detto a suo padre. Pessima scelta quella di mandarlo in Calabria, a
casa sua.
Certo, la situazione era non piana. Anzi, abbastanza intricata.
Ma lui avrebbe dovuto occuparsi di altro!
Questo è il limite della ‘ndrangheta, proprio questo che suo padre indica
come elemento portante: il territorio. Si, puoi essere il console in Gallia ma è a
Roma che diventi potente e lo rimani. Da quando erano stati arrestati i cugini,
alcuni banditelli, che aveva conosciuto da bambino e che erano all’epoca già
servili alla famiglia, ebbene, avevano alzato la testa e pretendevano un proprio spazio. Sino a qui, il padre aveva tollerato. Ma quando hanno fatto qualche sgarbo agli amici, hanno ucciso affiliati, magari stupidi, ma sempre affiliati (non si rispetta il cane per il padrone?), allora la puzza di bruciato era diventata un incendio, una vampa da stutare.
Se vuoi diventare un capo, non basta avere le chiavi delle banche. Quelle
possono averle tutti. No, serve avere il controllo del territorio, serve avere il
potere assoluto di vita e di morte.
Se manca quello, prima o poi le chiavi delle banche le dovrai dare a qualcun altro e se ti va bene sopravvivi in qualche pertugio… . Così dice suo padre. Così capisce Nico e parte.
Silvana capisce lo zio. Nico non è solo un bravo broker, un imprenditore
d’assalto, un uomo intelligente e ricercato. No. Nico è il prototipo della nuova
mafia, opaco, invisibile, con amicizie altolocate, con contatti elevati… d’altra
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un racconto
parte, quanti del master avevano familiarizzato con lui e con lei, dividendo
amicizia e sperando di essere un domani reciprocamente utili?
Silvana guarda le mani di Nico… affusolate, da pianista. Direbbe belle mani, se non le immaginasse incollate ad un grilletto lucido di revolver.
Nico si sente Prometeo, incollato alla roccia con il fegato divorato in eterno, vittima del destino di essere nato Ferlisi e di dover dare la luce e le fiamme
al suo popolo, anche a rischio della sua esistenza di finanziere e imprenditore
affermato.
Le mani s’incrociarono lente come in un Venerdì Santo, tristi e oscure.
Nico e Sissi si concedono un “ciao” veloce, di cui già si pentono mentre si
allontanano, come se quella confidenza sia già inopportuna.
L’amaro in fondo al loro incontro pretende già una vendetta in entrambi i
cuori.
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