Untitled - CLEAN edizioni

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E vietata ogni riproduzione
ISBN 978-88-8497-109-8
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
Grafica
Costanzo Marciano
L’autore desidera ringraziare quanti hanno
incoraggiato e seguito lo sviluppo del lavoro in
ogni sua fase.
Un ringraziamento particolare va a Maria Luisa
Scalvini per le rigorose e severe osservazioni e
per le puntuali indicazioni metodologiche
fornite.
Notizie, materiali e documenti sono stati reperiti
anche grazie alla squisita cortesia di
Massimiliano Savorra e Andrea Maglio.
Per gli aiuti offerti in forma diversa un sentito
grazie va a Pasquale Orlando, presidente delle
ACLI Provinciali di Napoli,
Aldo Miglietta, Ferdinando Tricarico,
Annalisa Limatola, Rosaria Perillo,
Mario Ghiringhelli, Luigi Tricarico, Dora
Benusiglio e Mauro Paolo Wolfler Calvo.
Alla mia Olga rivolgo infine il ringraziamento più
affettuoso.
Questo volume si avvale di un contributo della
Regione Campania (2006)
Sommario
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8
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Presentazione Fabio Mangone
Premessa
Un “esplosivo” quarto di secolo (1946-1971)
I pionieri dell’utopia architettonica del XX secolo: da Sant’Elia a Fuller / L’attività dell’Institute of Contemporary Arts (ICA)
e dell’Independent Group (IG) e le coeve sperimentazioni utopiche sul finire degli anni Cinquanta /
Dal Giappone: l’attività di Kenzo Tange e del gruppo Metabolism / Tra ironia e gusto Pop: la vicenda Archigram / La
poesia utopica italiana: Archizoom e Superstudio / Acme e declino dell’utopia megastrutturale tra Montreal 1967 e
Osaka 1970: l’eredità delle utopie architettoniche
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L’ipotesi megastrutturale di Tange e i progetti utopici di Metabolism e di Archigram
come nuove immagini urbane
La tesi rivoluzionaria di Tange all’interno della querelle architettura-città: il Piano per la baia di Tokyo / Il contesto come
elemento discriminante nelle soluzioni utopiche: pretesto o motivo fondato? / Il disegno come strumento sostitutivo
della costruzione: quando il progetto è più evocativo che realizzabile / Intercambiabilità delle parti e flessibilità spaziale
all’interno del progetto architettonico: limiti e potenzialità del dato tecnologico
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Alcuni capisaldi della “stagione utopica” del secondo Novecento
Plug-in City di Peter Cook: l’utopia urbana megastrutturale (Londra 1964) / Walking City di Ron Herron: il manifesto
dell’utopia architettonica come “Mobile Project” (Londra 1964) / Il Living-pod di David Greene: l’architettura come
capsula mobile (Londra 1966) / Instant City di Peter Cook, Dennis Crompton e Ron Herron: l’architettura come
“attrezzatura mobile” (Londra 1968-69) / Lo Yamanashi Press and Radio Center di Kenzo Tange: un caso di utopia
realizzata (Kofu 1961-66) / La torre Nakagin di Kisho Noriaki Kurokawa: un altro caso di utopia realizzata (Tokyo 197172) / Il Monumento Continuo di Superstudio (Firenze 1969) e la No-stop city di Archizoom (Firenze 1970-72): due
commenti critici sul tramonto dell’utopia megastrutturale
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Dagli scritti di Archigram e di Metabolism
Apparati
Cronologia dei progetti e delle opere
Bibliografia ragionata
Indice dei nomi
Presentazione
Fabio Mangone
Il libro di Marco Wolfler Calvo ha un taglio eminentemente storiografico. Il suo lavoro trae origine da
una tesi di dottorato che, contro la tendenza a studi micro-monografici sempre più svincolati da
implicazioni critiche di ampio respiro, è stata programmaticamente indirizzata a ricostruire nella sua
globalità un fenomeno sostanzialmente misconosciuto (come dimostra persino la manualistica più
recente), qual è quello delle utopie architettoniche (e talora fanta-architettoniche) degli anni Sessanta.
Riscontrandone gli elementi di continuità con le linee visionarie che pervadono tutto il Novecento, e
indagandone i determinanti rapporti con la coeva cultura della Pop Art, lo studio delinea un ambito
cronologico e tematico relativamente omogeneo e tuttavia assai ricco di componenti. Tra di esse
l’autore non rinuncia a soffermarsi su quelle più rilevanti e influenti. Il ruolo primario giustamente
accordato nell’indagine al gruppo inglese Archigram e a quello giapponese Metabolism consente sì
di rilevare più approfonditamente gli innegabili nessi tematici e linguistici, ma anche di indagare le
profonde diversità tra certi metaprogetti inglesi, più fondati nel gusto per il fumetto fantascientifico
che nella tecnica, e certi lavori rigorosamente analitici di un Kenzo Tange. Né d’altra parte sfugge
all’analisi la natura ambigua e contraddittoria di una stagione in cui si mescolano aspetti disciplinari
ed extra-disciplinari, dove la più alta tensione utopica convive con una spudorata passione
fumettistica, l’ironica provocazione pop si sovrappone alla concreta ricerca di innovazione tipologica
e tecnologica, la fascinosa sensualità di uno stile futuribile e fantascientifico si associa a seri
interrogativi sul futuro dell’habitat umano.
Ancora più delle tante e rilevanti costruzioni che segnano la pur sperimentale pratica di quegli anni,
proprio le generose visioni, i progetti utopici e i metaprogetti propongono il ritratto più fedele della
ricchezza di una stagione irripetibile, durata poco più di un decennio, e al contempo danno la misura
della grande distanza che la separa dalla cultura architettonica odierna.
nella pagina accanto
Archigram (R. Herron),
Walking City. Aggancio tra
Walking Cities, 1964.
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presentato all’Esposizione di Bruxelles del 1958. Tale edificio, definito da Banham «tematico», in quanto ripropone la struttura
dell’atomo in forme giganti, presenta delle aste diagonali all’interno delle quali è possibile camminare per raggiungere una serie di
ambienti sferici atti ad ospitare ristoranti e piattaforme panoramiche, in P.R. Banham, Megastructure..., cit., pp.39-40.
84. La celebre prosa “poetica” di Greene, pubblicata sul primo numero di Archigram nel 1961, esortava a fare tabula rasa di tutta
l’architettura del passato nei cui confronti ogni passione era ormai spenta (perciò «the love is gone»).
85. M. Porta, op.cit., p.72.
86. D. Greene, Living-pod, in “Architectural Design”, novembre 1966, p.570.
87. La stessa World Design Conference del 1960 rientra all’interno di un’operazione economica promossa dalla Camera di
Commercio giapponese che vuole dimostrare che l’industria nipponica è in grado di competere alla pari - se non di più - con quella
occidentale. Al riguardo cfr. V. Manocchio, L.M. Papa, op.cit., p.11.
88. Per ulteriori approfondimenti sulla filosofia della simbiosi si veda il testo K. Kurokawa, Kisho Kurokawa: from metabolism to
symbiosis, Londra 1992, pp.22-25.
89. A tal riguardo si pensi al collage di Richard Hamilton Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing? (1956),
manifesto dell’Esposizione This is Tomorrow nonché icona della cultura Pop inglese, che mette in mostra un vero e proprio inventario
della cultura popolare trasposto all’interno di una stanza nonché alle produzioni di artisti della Pop Art americana, quali Andy Warhol,
Claes Oldenburg e Roy Lichtenstein (solo per citare i più noti). È quanto mai eloquente una dichiarazione sull’arte Pop rilasciata da
Lichtenstein nel 1965: «L’arte Pop guarda fuori, al mondo; mostra di accettare il suo ambiente, il che non è bene né male, ma
soltanto segno di un atteggiamento diverso», in L. Vinca-Masini, op.cit., vol. V, p.835.
90. Si pensi alla mostre organizzate dall’ICA e dall’IG alla fine degli anni Cinquanta e alla mostra Living City, allestita da Archigram
all’ICA nel 1963.
Alcuni capisaldi della “stagione utopica” del secondo Novecento
Plug-in City di Peter Cook: lʼutopia urbana megastrutturale (Londra 1964)
Uno degli studi più noti di Archigram, Plug-in City, e sicuramente quello che meglio diffonde il nome di
Peter Cook1 nello star system dell’architettura del XX secolo, fa ricorso al vocabolo inglese plug,
impiegato sino ad allora in architettura soltanto da un punto di vista impiantistico. Infatti sfogliando, tra i
vari, un buon dizionario tecnico di Architettura e Costruzione, quale ad esempio quello curato dal
Professore di Architettura e Ingegneria Elettrica Cyril M. Harris, alla voce attachment plug, si legge: «a
device which is inserted into a receptable to establish the electric connection between the conductors
which are wired to the receptable and the conductors of the flexible cord attached to the plug»2; da ciò
si deduce che si fa riferimento ad un “attacco elettrico”. L’intuizione di Cook sta dunque proprio nel
tentativo di ampliare il concetto di “innesto” che il termine plug presuppone, ipotizzando degli elementi
urbani inseriti all’interno di una rete strutturale ed elettrica adeguatamente predisposta nel progetto
Plug-in City. Occorre però dire che l’immagine definitiva di questa città composta da parti inserite in un
network, raffigurante uno scenario urbano munito sì di tutte le tradizionali funzioni principali ma nelle
forme di enormi stantuffi e pulegge, su cui si ergono in modo permanente una serie di gru deputate alla
sostituzione delle capsule abitative, non nasce all’improvviso ma è preceduta da alcuni studi preliminari,
prodotti tra il 1962 e il 1964, che costituiscono dei riferimenti progettuali da cui non si può prescindere
per comprenderne il risultato finale.
Innanzitutto il sistema abitativo a cabina metallica - si veda lo studio Metal Cabin Housing (1961)
apparso nel numero uno della rivista “Archigram” - può essere considerato a tutti gli effetti il suo più
diretto antenato progettuale, visto che già in esso si era avanzato il proposito di allocare degli elementi
abitativi sostituibili all’interno di una megastruttura tutta in cemento; tuttavia la conformazione
planimetrica e gli alzati appaiono ancora troppo legati a quell’architettura del bowellism (così definita da
Nikolaus Pevsner poiché ricorda gli organi dell’apparato intestinale) di cui il progetto per i Furniture
Manufacturers Association Headquarters di Mike Webb del 1958 pone le basi. Al primo tassello
ideativo suggerito dalla Metal Cabin Housing, fanno poi seguito due studi del 1963: City Interchange,
elaborato da Chalk ed Herron e Montreal Tower cui lavorano Chalk, Cook, Crompton ed Herron. E se in
City Interchange sono contenuti in nuce alcuni aspetti formali presenti in Plug-in City, nel progetto per la
Torre di Montreal3, accanto alle cupolette geodetiche di ispirazione fulleriana, compaiono per la prima
volta delle tubazioni diagonali contenenti gli ascensori di collegamento. Infine le gru permanenti, che
caratterizzeranno la sintesi raggiunta nella soluzione del 1964, sono già presenti nello studio
denominato Nottingham Shopping Viaduct elaborato da Cook e Greene nel 1962, nel quale si cerca di
approntare una soluzione che garantisca un «servizio frequente»4 per il funzionamento di un grande
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Archigram (P. Cook),
Progetto di Torre per
l’Esposizione mondiale di
Montreal del 1967, 1963,
prospetto.
centro commerciale mediante la realizzazione di una struttura in forma di viadotto. In tal modo come
afferma lo stesso Cook, «con la gru che scorre lungo il viadotto e un sistema di distribuzione a forma di
tunnel [si compie] un primo passo verso l’incorporazione degli elementi abitativi»5. Le tracce dei
percorsi ideativi fin qui delineate che preludono alla gestazione dell’immagine finale di Plug-in City, le
ritroviamo dunque metabolizzate nei due celebri e coloratissimi elaborati grafici del 1964: una megasezione operata nell’area di massima concentrazione della città (la cosiddetta Max Pressure Area) e
l’«eroica»6 assonometria così definita dallo stesso autore per la carica eversiva da cui è pervasa.
Osservando il disegno tridimensionale suddetto non è difficile comprendere le ragioni di questo
aggettivo: gli enormi aggregati edilizi a forma di imbuto, la complessa articolazione dei percorsi di
collegamento secondo direzioni diagonali, le “instancabili” gru sempre pronte a sostituire le parti di città
obsolete e gli hovercrafts che corrono su di un’adiacente autostrada dalle notevoli proporzioni, non
sono forse una prova del coraggio, ai limiti dell’iconoclastia, del gruppo inglese di mettere in
discussione le tradizionali configurazioni urbane? Da tali disegni emerge dunque un nuovo modello di
città che se in termini formali anticipa - con una consapevole volontà provocatoria - troppo i tempi, per
quel che riguarda i suoi contenuti di “obsolescenza temporale”7 e quindi di un’architettura “ad
orologeria”, è perfettamente in linea con l’idea di expendability imposta dalla società dei consumi.
Quest’idea della deperibilità delle parti di Plug-in City ha fatto spesso pensare ad un’influenza della
poetica futurista su quella archigrammatica e, in effetti, il medesimo afflato nutrito nei confronti
dell’estetica della macchina, nel ricorso alle diagonali capaci di comunicare quel senso di dinamismo
proprio del mondo meccanico e, non ultima, quell’idea di transitorietà che porterà Antonio Sant’Elia a
dichiarare che «le case dureranno meno di noi [e che] ogni generazione dovrà fabbricarsi la propria
città»8, hanno contribuito a legittimare tale posizione critica; tuttavia le motivazioni socio-politiche che
hanno ispirato i disegni delle tavole della Città Nuova di Sant’Elia nel secondo decennio del XX secolo
sono molto diverse da quelle che negli anni Sessanta condizionano l’attività del gruppo inglese: lo
stesso Cook, pur riconoscendo all’architetto comasco il merito di aver profetizzato un panorama
urbano fortemente innovativo da un punto di vista formale in cui la struttura degli edifici immaginati,
intrecciandosi con «l’hardware della vita metropolitana [quali] autostrade, ferrovie e ascensori»9 instaura
un inaspettato equilibrio dinamico, ne prende in parte le distanze quando afferma che «nell’attuazione
di molte delle sue idee rileviamo un tale scostamento dalle intenzioni originarie che arriviamo a dubitare
circa la possibilità di usare il suo lavoro come ispirazione diretta per risolvere i problemi attuali»10.
Dunque il postulato archigrammatico relativo al ricambio delle componenti all’interno del complesso
urbano, similmente a ciò che si fa per la propria automobile allorquando uno dei tanti pezzi si è usurato,
è senza dubbio l’aspetto centrale. L’intera città è quindi considerata come una gigantesca macchina le
cui parti sono soggette ad una precisa durata nel tempo che diventa sempre più rapida nel passaggio
dalla macroscala alla microscala, laddove per microscala si intendono le abitazioni unifamiliari! A tal
riguardo il progettista elabora una rigorosa tabella di invecchiamento degli elementi di Plug-in City
secondo cui è possibile stabilire quando bisogna intervenire per apportare le necessarie sostituzioni: si
va dai sei mesi di vita per lo spazio commerciale fino ad un massimo di quaranta anni oltre i quali
occorre cambiare la megastruttura di base su cui sono innestati i vari “pezzi” urbani. Ad un orizzonte
temporale di venti anni si collocano invece i contenitori delle macchine e il rifacimento delle strade,
mentre l’intera unità abitativa deve essere sostituita dopo quindici anni. La soglia temporale cala
ulteriormente per gli ambienti domestici: se per i salotti e le stanze da letto la vita media varia tra i
cinque e gli otto anni, le zone di servizio, vale a dire il bagno e la cucina, devono essere cambiate ogni
tre anni. Infine per i negozi e gli uffici il progettista prevede un periodo di obsolescenza piuttosto simile,
tant’è che per i primi stima un arco temporale variabile tra i tre e i sei anni, mentre per i secondi fissa un
orizzonte di quattro anni. Ora sebbene questa visuale dall’alto possa dare la sensazione di trovarsi di
fronte ad uno studio di massima, è sorprendente notare come l’architetto inglese riesca a controllare la
complessa megastruttura grazie a delle sezioni di dettaglio che ben illustrano l’articolazione delle
diverse parti e la loro ubicazione in base alle differenti velocità di funzionamento. E precisamente se da
un lato colloca alla base della sezione gli elementi più durevoli nel tempo come la ferrovia pesante,
dall’altro pone in sommità le componenti che devono essere sostituite più rapidamente, quali gli
aerostati con dispositivo di tenuta ambientale. Seguendo il medesimo principio, le strade più veloci e le
monorotaie sono ubicate in cima, mentre alla base vi sono le strade per parcheggiare. Inoltre, nella
parte centrale in basso sono collocate le aree pedonali che, insieme agli ascensori principali, sfociano
in una grande piazza11. Una tale chiarezza distributiva e le sezioni particolareggiate, che si sforzano di
dimostrare l’effettiva “cantierabilità” del disegno, porteranno Peter Reyner Banham a dichiarare che «dal
1964 in poi, qualsiasi progetto che sperasse di venir preso sul serio doveva essere dettagliato fino agli
angoli delle finestre ed alle guarnizioni dei giunti»12.
E per render ancora più credibile la sua proposta, Archigram decide di misurarsi anche con un contesto
reale e lo fa sovrapponendo l’enorme network “ad innesti” sulla capitale londinese. Quest’inserimento
virtuale nel cuore della Gran Bretagna non resterà un tentativo episodico ma sarà solo il primo di una
serie di successivi affinamenti che porterà il gruppo ad elaborare un modello esportabile di Plug-in City
per qualsivoglia area geografica del pianeta.
Come valutare, dunque, questi propositi di rendere credibile una visione così distante dalle attuali
configurazioni urbane? Senza dubbio se dovessimo semplicemente tener conto che Archigram non ha
avuto timore di redigere un preciso formato architettonico, tecnologicamente realizzabile, e per di più
calato in realtà urbanistiche esistenti, la sua utopia apparirebbe immediatamente concretizzabile.
Oltretutto lo stesso Cook, con questo studio, non nasconde il desiderio di raggiungere una felice
fusione tra storia e utopia13.
Archigram (P. Cook),
Plug-in City, 1964,
sezione e assonometria.
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Di contro, al di là del fatto che una città sottoposta ad un continuo ricambio potrebbe comportare il
rischio di un serio squilibrio ambientale in termini di smaltimento dei rifiuti (soprattutto se si pensa
all’uso dei prodotti plastici14 per i quali gli stessi componenti nutrono grandi speranze), è singolare che
proprio gli autori di Living City - la mostra del 1963 che poneva l’uomo quale punto di riferimento per la
fondazione di un nuovo concetto di architettura che ruotasse intorno ai suoi bisogni - nell’elaborazione
della meccanicistica e tecnocratica Plug-in City, danno l’impressione di non porsi il problema di come
quegli stessi uomini potessero vivere a proprio agio all’interno di capsule effimere e transitorie sebbene
tecnologicamente ben congegnate15. E che questo insoddisfacente approccio antropologico sia
probabilmente uno dei punti più vulnerabili per cui tale studio resta sostanzialmente un’utopia, sebbene
le dichiarazioni programmatiche del gruppo inglese proclamino un notevole interesse nei riguardi
dell’uomo, sembra essere avallato dalle preoccupazioni espresse da Chalk nello scritto dal titolo
Architecture as consumer product pubblicato nella rivista “Arena” del 1966: «Uno dei maggiori
fraintendimenti che ci siamo portati dietro è che non siamo interessati alle persone. Ciò probabilmente
è dovuto al tipo di immagini che usiamo, nel senso che a prima vista una sezione del progetto City
Interchange sembra predire una terra desolata, automatizzata e abitata solo da computers e robots
[mentre invece] il nostro principale interesse è rivolto alle persone, ai fruitori dei nostri edifici; l’edificio è
un problema serio; stiamo creando un ambiente [nuovo] per le persone, sempre attuale, in cui vivere,
dormire, lavorare, giocare, e muoversi al suo interno, e il nostro interesse è reale»16. Ciononostante, a
dispetto della sua irrealizzabilità, è possibile ritrovare frammenti di Plug-in City in molte delle architetture
prodotte negli anni successivi: il Beaubourg (1971-77) di Piano e Rogers costituisce il suo primogenito
e, forse, anche l’esempio più significativo. E ciò perché in fin dei conti, stando ad una famosa
dichiarazione del gruppo «Archigram non può affermare con certezza se Plug-in City può essere
tradotta in realtà per funzionare, ma può dire quali sembianze dovrebbe avere»17: per i suoi autori,
dunque, tale progetto sarebbe anche potuto restare su carta ma il tentativo “eroico” di introdurre una
rinnovata visuale dell’architettura urbana, basata sulla nozione di network e quindi sul linguaggio della
comunicazione di massa, è stato quanto meno apprezzabile per lo sforzo considerevole di voler
rintracciare una nuova koinè architettonica.
Walking City di Ron Herron:
il manifesto dellʼutopia architettonica come “Mobile Project” (Londra 1964)
Walking City è a buon diritto il progetto che meglio evidenzia il legame intessuto da Archigram con i
programmi di sperimentazione portati avanti in America e nell’ex Unione Sovietica dagli ingegneri
aerospaziali negli anni Sessanta. Se la provocazione architettonica di Ron Herron (che nella prima
stesura di Walking City del 1964 si avvale della collaborazione di Brian Harvey) guarda senza dubbio
agli studi intrapresi nelle basi missilistiche statunitensi di Cape Kennedy18, va anche detto che questi
ultimi non costituiscono gli unici punti di riferimento; come ha notato Banham, un’altra musa ispiratrice
di questa smisurata “città mobile”, le cui sembianze ricordano quelle di un inquietante “coleottero
tecnologico”, è rappresentata dall’enorme piattaforma militare di Shivering Sands Fort realizzata nel
1943 al largo di Whitstable nel Kent e, non per caso, presente all’interno del numero sei della rivista
“Archigram” in occasione della rassegna celebrativa che il gruppo inglese dedica ai fantastici Forties. La
conturbante immagine meccanicistica di Walking City non è però solo figlia delle sperimentazioni
compiute in campo tecnologico nei due decenni che la precedono: occorre infatti ricordare l’esistenza
di un filone originario esaltante l’estetica della macchina che assume come termine a quo le tavole della
Città Nuova di Sant’Elia del 1914, si alimenta con le fantasie costruttiviste post-rivoluzionarie del russo
Cernikhov, per poi raggiungere la sua compiuta esplicitazione negli anni Venti, grazie al principio della
machine à habiter, coniato da Le Corbusier nel 1921 per la Maison Citrohan, e, in seguito, nel 1923
con la pubblicazione del suo pamphlet Vers une Architecture. In esso l’architetto originario di La Chauxde-Fonds preconizza per l’umanità un futuro sempre più meccanizzato nel quale le automobili, le navi e
i velivoli avrebbero rivestito un ruolo sempre più centrale, tenuto conto degli incessanti progressi
compiuti in campo tecnologico. E le intuizioni contenute in tale testo avrebbero trovato nel giro di pochi
anni un immediato riscontro: si pensi alla Dymaxion House di Fuller del 1927 quale limpido paradigma
di casa dominata dalla tecnologia. Eppure, nonostante la già pur considerevole carica rivoluzionaria di
tali studi, nel progetto di Herron si ravvisa una novità sostanziale: l’architettura non si accontenta più
soltanto di assomigliare ad una macchina ma ambisce ad avere la sua stessa capacità di movimento. A
tal proposito il progettista di Walking City afferma: «L’idea era quella di una capitale mondiale in grado di
essere in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi momento»19. Ed è forse per rendere maggiormente
realizzabile questa “visione” che diventa necessario il connubio tra l’estetica della macchina e quella del
fumetto fantascientifico; laddove non ci sono le condizioni tecnico-costruttive adeguate, ecco che
interviene la science-fiction: come potrebbe altrimenti funzionare l’illusoria geometria delle otto “gambe”
telescopiche20 di Walking City senza una buone dose di immaginazione fumettistica? Una delle
peculiarità dell’attività progettuale di Archigram, risiede proprio nella volontà di sbalordire coloro che si
“affacciano” ai suoi studi, “esibendo” delle tavole minuziosamente dettagliate21. Basta prendere in
considerazione la sezione di Walking City per rendersi conto del grado di approfondimento raggiunto
dal progettista che, non solo, fornisce precise indicazioni sulle dimensioni della città zoomorfa - per la
quale prevede una larghezza di 180, una lunghezza di 400 ed un’altezza di 220 metri - quanto arriva
anche a definire i collegamenti interni e le ubicazioni delle diverse funzioni urbane: dalle scuole alle aree
commerciali, dagli uffici alle zone residenziali di cui disegna perfino ogni singola finestra. Alla luce di ciò
si spiegano ancor di più le reazioni sgomente ed entusiaste seguite all’epifania del “mega-insetto” di
Herron: da una parte, le critiche pungenti dell’urbanista greco Constantinos Doxiadis e di Sigfried
Giedion relative alla “disumanità” che una tale architettura comporterebbe, dall’altra la soddisfazione
incondizionata di Peter Blake che dalla poltrona dirigenziale di “Architectural Forum” non lesina
complimenti ai sei architetti britannici, arrivando addirittura ad affermare che da quando «[…] Archigram
“esplose”, il […] [suo] mondo […] non è stato più lo stesso»22.
È opportuno tuttavia rilevare che nonostante il direttore della prestigiosa rivista americana sia un
accanito sostenitore del gruppo inglese, anch’egli dimostra un certo imbarazzo quando gli viene
chiesto un parere riguardo la compatibilità dell’uomo rispetto alle megastrutture archigrammatiche. La
risposta di Blake trova riparo dietro il nome di Le Corbusier: egli infatti sostiene che così come «[…] [le
machines à habiter propagandate dall’architetto svizzero] erano poetiche, analogamente lo sono quelle
ideate da Archigram»23. E conclude, con un abile quanto facile sillogismo dichiarando che se la poesia
rappresenta il massimo linguaggio esprimibile dall’essere umano, le fantasie progettuali del gruppo
inglese non possono essere tacciate di disumanità. Diversamente l’interrogativo posto da Giedion - «chi
realizzerebbe un disegno così elaborato se non volesse che fosse preso sul serio?»24 - è ancor oggi
quello che fotografa meglio l’irrisolta antinomia della “città mobile” ideata da Herron. L’ambiguità
dunque resta e ci si chiede quale sia la dimensione giusta da assegnare alla “creatura” di Herron: è una
minaccia per l’umanità (si pensi all’interpretazione forzata datane dall’“International Times”, quando, a
cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, raffigurerà le Walking cities nell’atto di scagliarsi contro le
abitazioni e quant’altro facesse parte di una città) oppure, come dichiara il suo artefice, è «una
macchina dall’aspetto amichevole»25? Probabilmente nessuna delle due affermazioni prevale sull’altra
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Archigram (R. Herron),
Walking City, 1964,
prospetto.
ma un aspetto è inconfutabile, ovvero la straordinaria forza evocativa e comunicativa trasmessa dalla
sua immagine che si pone come rimedio, seppur utopico, alle «vuote affermazioni del Funzionalismo
[…] all’indolenza paralizzante […] degli accademici e delle figure istituzionali» allo scopo di risvegliare «il
vecchio lascivo kraken26 meccanico del Modernismo dalle imperturbabili acque del mar morto
dell’architettura corrente»27.
Per questo motivo nel corso della sua vita Herron ritornerà ripetutamente sul suo progetto più caro,
elaborandone svariate versioni di cui sostanzialmente muterà due punti: l’interazione tra le varie Walking
cities e il luogo dove farle atterrare. Se riguardo al primo punto, il componente di Archigram stabilisce
per le sue “città mobili” una serie di disposizioni fisse quali la presenza di braccia estendibili per
«consentire il trasferimento di merci e materiali» e la dislocazione in esse di tutti gli «elementi che si
sarebbero potuti trovare in una città funzionante»28 nell’intento di realizzare una sorta di Città delle
Nazioni Unite, per la definizione del luogo più idoneo ad ospitarle permane un’idea di estrema
indeterminatezza, tanto è vero che le scorgiamo “passeggiare” indifferentemente a New York, ad Algeri
a contatto con il Plan Obus di Le Corbusier29, nel deserto o addirittura su un territorio dalle sembianze
lunari; e forse proprio in quest’ultima prefigurazione è nascosto un ulteriore messaggio, tanto inconscio
quanto profetico, che Herron vuole lanciare all’umanità (quasi come se fosse un monito per il futuro),
Archigram (R. Herron),
Walking City in Algeri a
contatto con il Plan Obus
di Le Corbusier, 1964, schizzo.
Archigram (R. Herron),
Walking City, 1964, schizzo.
invitando gli uomini ad ideare delle “città mobili” - e non importa quale sia il loro aspetto esteriore - per
potersi assicurare la vita anche su di una superficie diversa dalla Terra. E chissà se il tempo gli darà
ragione.
Il Living-pod di David Greene: lʼarchitettura come capsula mobile (Londra 1966)
Al filone dei mobile projects, inaugurato dalla Walking City di Ron Herron nel 1964, ovvero nel «megaanno» come lo definisce Banham30, si può sicuramente ascrivere il Living-pod concepito da David
Greene nel 1966; con la differenza che mentre la zoomorfa città mobile di Herron trasporta sul suo
dorso un numero elevato di capsule residenziali, il piccolo e morbido guscio ideato da Greene è come
se fosse una singola unità abitativa staccatasi dalla Walking City31 a seguito di una raggiunta autonomia
motoria. Anche per il Living-pod, il processo creativo che conduce al risultato finale del 1966 è il frutto
di una serie di evoluzioni progettuali sperimentate dal suo autore a partire dagli inizi degli anni Sessanta.
Per questo, al fine di comprendere al meglio il “baccello vivente” di Greene, è opportuno analizzarlo
separatamente da un punto di vista formale e funzionale. Lo spiccato organicismo che dà forma alla
flessuosa abitazione del Living-pod affonda le sue radici nella “molle” moschea32 pensata nel 1961
dallo stesso componente di Archigram (sulla cui ideazione pesa non poco l’influenza della Endless
House di Friedrich Kiesler)33 e soprattutto in un altro suo progetto, sempre del 1961, dal titolo Spray
Plastic House34. Quest’ultimo studio, presentato da Greene con uno slogan degno del migliore Le
Corbusier - «perché i conigli non scavano tane rettangolari? Perché gli uomini primitivi non realizzavano
caverne rettangolari? Supposizione: l’architetto…l’utente [abiterebbero] volentieri in una casa ad un
piano in mezzo alla natura» - oltre a sperimentare in maniera estremamente audace le possibilità
costruttive offerte dalle materie plastiche (materie che in questo caso sono pensate per essere
spruzzate con un macchinario spray), finisce col generare un’abitazione che assomiglia più a una tana
che ad un ambiente domestico, tant’è che tale architettura viene appellata con il termine burrowism,
cioè “tanismo”. Ma ciò che più colpisce della Spray Plastic House, al di là del procedimento costruttivo
che prevede la sequenza di tre fasi distinte (quella iniziale dello scavo, l’intermedia relativa al distacco e
infine l’ancoraggio della casa al suolo), è la rappresentazione in sezione di questa moderna grotta di
plastica che anticipa la sinuosa articolazione volumetrica del Living-pod. Da un punto di vista funzionale
invece il “baccello mobile” di Greene, per via dei numerosi dispositivi high-tech presenti in ogni
ambiente della casa, richiama alla mente i congegni automatici sperimentati da Richard Buckminster
Fuller nella Dymaxion House nel 1927, quasi quarant’anni prima. In merito a questa analogia Pier
Angelo Cetica, in un suo studio sulla figura di Fuller pubblicato nel 1979, si era pronunciato in questi
termini: «[…] la forma della
Living-pod con la sua imitazione dei supporti del modulo lunare LEM (allora tanto di moda) e con la sua
eccessiva organicità, è certamente meno “originale” della Dymaxion, che non imita modelli esistenti,
architettonici ed extrarchitettonici, e che si propone come unità iniziale di un processo di ricerca. Il
“cosmico” del Fuller 1927 si banalizza nello “spaziale” del Green 1962 [sic]. E di fatto niente altro che
un tradimento consumistico della poetica universale di Fuller»35. Ed ancora: «questo paragonare Fuller
a Green [sic] è particolarmente utile per assegnare una dimensione corretta a Fuller […] mentre gli
Archigram sono bruciati in un attimo ed ormai sono di fatto scomparsi»36. Ora tralasciando gli evidenti
errori riguardo la datazione del Living-pod (1966 e non 1962) e il nome del progettista (Greene e non
Green) e senza nulla togliere alla straordinaria capacità premonitrice dimostrata nel corso dell’intera
attività professionale da Fuller, il giudizio formulato da Cetica è sicuramente ingeneroso e affrettato,
dato che, contrariamente a ciò che sostiene, le provocazioni architettoniche di marca utopica innescate
da Archigram, sono ancora oggi più che mai vive e oggetto di importanti retrospettive nelle sedi più
prestigiose del mondo37. Inoltre quel che nella Dymaxion House è rigorosamente coerente ad una
logica scientifica che porta il suo artefice ad affrontare qualsiasi ordine di problema, sia a piccola che a
grande scala, seguendo un approccio sistematico e dando alla sua ricerca un valore “cosmico”, nel
lavoro di Greene va invece letto non dimenticando la vena pop di cui Archigram è imbevuto, che lo
spinge a trarre ispirazione dai campi più vari - dalla science-fiction ai prodotti di largo consumo - fino a
sintetizzare le conquiste tecnologiche raggiunte alla sua epoca in una combinazione di architettura e
gadget, espressa tout court con il termine gadgetry. Basta dare un’occhiata all’interno del pod per
rendersi immediatamente conto dell’ampio repertorio di macchine sofisticate ivi presenti pronte a
soddisfare i bisogni dell’abitante; il robot ripetutamente “invocato” da Archigram come elettrodomestico
indispensabile per la vita futura dell’uomo, nel Living-pod è ovunque: sottoforma di «apparecchi mobili
per lavorare e studiare », di «contenitori ruotanti per il cambio dei vestiti», di «capsule bagno […]
totalmente automatiche per la pulizia individuale» e addirittura attraverso dei «distributori dinamici di
cibo aventi la possibilità di cucinare autonomamente»38. I materiali impiegati appartengono tutti
rigorosamente al mondo della plastica ed inoltre viene fatto un largo uso di elementi pneumatici
sperimentati con successo nelle operazioni di aviazione militare dell’epoca39. Tuttavia per quanto in tale
progetto sia preponderante la nozione di mobilità, lo stesso Greene arriva a proporne parallelamente
una versione più stabile. Infatti se per un verso il
Living-pod spinge nella direzione di un’architettura nomadica che affranchi l’uomo dai concetti di
immanenza e stabilità, dall’altro non esclude la possibilità di un insediamento urbano immaginando
svariati pods impilati in una struttura verticale, soluzione questa che ricorda molto da vicino le curiose e
policrome Seaside Bubbles “partorite” dalla felice mano di Ron Herron sempre nel 1966. D’altronde a
dispetto di un’apparente mutevolezza ravvisabile nell’attività di Archigram, è possibile rintracciare una
sotterranea linea conduttrice tra la visione megastrutturale di Plug-in City (1964) e l’allestimento
nomadico di natura ludica di Instant City (1968-69), che ci consente di leggere il Living-pod come
ideale anello di congiunzione tra i due progetti suddetti.
A tal proposito è significativa una dichiarazione di Greene che pare implicitamente confermare questo
legame: «la casa è un dispositivo da portare con sé, e la città è una macchina in cui innestarla»40. Se la
prima di queste due affermazioni delinea il percorso che condurrà ad Instant City, passando attraverso
le invenzioni progettuali di Mike Webb - rispettivamente il Cushicle
(1966-67), una sorta di leggera “armatura” in grado di trasformarsi in un micro-ambiente supportato
tecnologicamente, e il Suitaloon (1967), un “abito” polivalente per qualsiasi situazione climatica - la
seconda prevede per l’organico guscio una sistemazione urbana, simile alla distribuzione delle capsule
di Plug-in City, anche se riguardo all’aggregazione dei pods operata da Greene si ravvisa un limite
considerevole, poiché come è stato giustamente notato, il passaggio dalla microscala alla macroscala
«non comporta nessuna modificazione dell’alloggio stesso»41.
Instant City di Peter Cook, Dennis Crompton e Ron Herron:
lʼarchitettura come “attrezzatura mobile” (Londra 1968-69)
All’indomani del convegno di Folkestone42, organizzato nella primavera del 1966 con l’intento di
riconoscere solennità alla stagione megastrutturale alimentata dalle sperimentazioni metaboliste e
archigrammatiche, si scorgono dei latenti segnali di crisi a causa soprattutto dell’imprevisto
atteggiamento di Archigram che, invece di confermare la propria adesione al filone della grande
dimensione (come aveva dimostrato con i progetti Plug-in City, Walking City e Computor City, tutti
nella pagina accanto
Archigram (D. Greene),
Spray Plastic House, 1961,
piante e sezioni.
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82
Archigram (D. Greene),
Living-pod, 1966, plastico.
Archigram (R. Herron),
Instant City, 1970,
apertura dello sky-hook con
relativo sganciamento delle
attrezzature urbane ivi
contenute.
in basso a sinistra
Archigram (P. Cook),
Instant City, 1969,
attrezzature trasportate da
mongolfiere.
Archigram (P. Cook),
del 1964 ed ampiamente trattati insieme ad altri mega-studi nel numero cinque della sua rivista), ne
prende le distanze, per orientare i propri interessi verso un tipo di architettura incentrata sull’uso
esclusivo di strumentazioni tecnologiche avanguardistiche. Infatti nella bucolica cornice del paesino
inglese di Folkestone, il gruppo inglese scandalizza il pubblico presente in platea illustrando le
anteprime del Living-pod di Greene e del Cushicle di Webb quali inconfutabili segnali del processo di
rinnovamento che andava perseguendo.
Da questo momento l’atavica nozione di immanenza propria dell’architettura si sgrana
progressivamente riducendosi a semplice accessorio applicabile a contesti urbani già esistenti. La
sintesi di un postulato così forte, cui si giungerà tra il 1968 e il 1969, prende il nome di Instant City e
- come per il complesso studio di Plug-in City del 1964 - è il risultato di svariate sperimentazioni
precedenti. È del 1968, infatti, lo studio elaborato da Peter Cook, noto con il titolo di Ideas Circus43:
il processo ideativo è il frutto della diretta esperienza che Archigram ha modo di sperimentare in giro
per il mondo organizzando “eventi” per mettere in atto i quali ha bisogno di portarsi dietro
un’apparecchiatura tecnologicamente avanguardistica.
Da qui l’allestimento di una serie di camion che, anziché trasportare gli amplificatori e gli strumenti
musicali delle rockstars, contengono una sofisticata attrezzatura urbana per mettere in scena lo
83
84
“spettacolo architettonico”44. Tuttavia tale studio, pur configurando in linea di massima l’ossatura
portante di Instant City, viene presto accantonato poiché per la sua attuazione fu ritenuto «troppo
ingombrante, lento e [comportante] l’uso di troppi veicoli»45. Pertanto se l’articolazione delle varie
fasi che precedono la trasformazione di una tranquilla e assonnata cittadina di provincia in
un’elettrizzante metropoli è già tracciata in Ideas Circus (che da un punto vista concettuale richiama
alla mente le architetture spiraliformi ideate dall’architetto futurista Virgilio Marchi nella sua Città
Fantastica del 1919-20)46, è al volgere del 1968 che per il gruppo inglese si presentano due
importanti opportunità per affinare i prototipi tecnologici su cui sta lavorando: il Milanogram e
l’Oslogram. Per un verso, dunque, la proposta preparata per la XIV Triennale del capoluogo
lombardo nel novembre del 1968 nelle forme di un gigantesco cilindro - il Big Bag - «trasparente e
sospeso, lungo diciotto metri di lunghezza [contenente] […] la profezia sulla robotizzata e mobile
città del futuro»47, per l’altro il lavoro denominato
Oslo-Gram esibito nella capitale norvegese nel dicembre del 1968, attraverso il quale il gruppo
inglese ha modo di presentare il Soft-Scene Monitor48, un sofisticato dispositivo elettronico in grado
di produrre qualsiasi tipo di architettura o ambiente virtuale selezionabile da chi lo utilizza; e
quest’ultimo è considerato dagli stessi membri di Archigram «il padre del più elaborato disegno della
macchina-tenda»49 protagonista del progetto Instant City in the field50. A tal proposito è opportuno
specificare che non esiste un’unica versione di Instant City,
bensì ve ne sono due: una prima del 1969 in cui una serie di mongolfiere, trasportate sul luogo da
velivoli, reggono delle tende dotate di tutti i mezzi necessari alla configurazione della temporanea
metropoli (e questo è il caso di ciò che si prevede per le cittadine inglesi di Bournemouth e St.
Helens ed americane di San Diego e Santa Monica), e una seconda del 1970 nella quale si fa largo
l’idea dello skyhook, ovvero di un mega-dirigibile (al quale d’altronde aveva già pensato, seppur in
termini diversi, Fuller nel 1927 nello studio
Multiple-Deck 4D)51 pronto a calare dall’alto nell’ora del crepuscolo, in un’unica soluzione, le
raffinate attrezzature urbane per poi riprendersele e svanire con esse allo spuntar dell’alba.
Un significativo punto di contatto tra le due interpretazioni della “Città Istantanea” è rappresentato
proprio dalle facilities, ossia dalle infrastrutture da loro congegnate: displays audio-visivi, antenne,
amplificatori, pylon-trucks (cioè tralicci innestati su camion), strutture pneumatiche leggere,
macchine elettroniche, piattaforme per improvvisare rappresentazioni, torri di servizio e luci elettriche
sono gli elementi indispensabili per “iniettare” all’interno delle piccole e provinciali cittadine angloamericane il brioso dinamismo delle metropoli.
Come gli autori stessi dichiarano in modo inequivocabile, il loro obiettivo è quello di «coinvolgere il
pubblico, eccitandone la fantasia, chiamandolo a collaborare come autore, promotore e attore di
eventi imprevisti»52, anche se per un periodo di tempo limitato, variabile da una notte fino ad un
massimo di una settimana. L’invasione improvvisa di tutti questi dispositivi non deve però lasciar
pensare che tali città, una volta “assediate”, siano messe in secondo piano; al contrario in Instant
City si dà largo spazio allo sviluppo delle strutture e delle attività locali (dalle scuole ai negozi ed in
generale a tutti i servizi utili per l’inserimento delle attrezzature “metropolitane”), in modo da
salvaguardare le specifiche caratteristiche di ogni cittadina e, non ultimo, per garantire un “evento”
sempre diverso. Inoltre in questo progetto il gruppo inglese sembra per alcuni tratti quasi
abbandonare la vena ironica che lo contraddistingue introducendo, accanto alla nozione di
divertimento, una componente didattica e moralistica53 nel coinvolgere alcune scuole del luogo per
l’attuazione di tali “eventi”. E dunque chiaro che se nella prima versione del progetto - vale a dire
quella del 1969 - già sono espresse le linee sostanziali, l’esigenza di riformularne una seconda
edizione si manifesta, come candidamente ammettono i componenti del gruppo anglosassone,
perché «[…] non riuscimmo a sfuggire all’incanto dell’idea dell’Instant City che appare da non si sa
quale luogo, e una volta esaurito “l’evento”, tira su i suoi lembi e svanisce»54. Ecco allora spiegato
da dove viene fuori il gigantesco dirigibile (il giant sky-hook come gli stessi autori amano chiamarlo)
simbolo della seconda versione di Instant. Il passaggio dai «camion che corrono come formiche»55
del progetto del 1968, alla soluzione aerea rappresentata da questo enorme dirigibile pronto a
sorvolare e a rallegrare, nelle vesti di un moderno e ludico deus ex machina, le “sconsolate” province
inglesi, segna la sostanziale novità di Instant City 2. Ma non è l’unica perché sia Cook che Herron
elaborano da un punto di vista operativo due soluzioni differenti. Infatti se il dirigibile pensato dal
primo si limita a trasportare l’attrezzatura nel suo ventre al fine di srotolarla sulla cittadina prescelta
posizionandosi comodamente sopra di essa - procedimento che Cook illustra attraverso sei nitide
sequenze temporali56 - quello immaginato da Herron è addirittura in grado di aprirsi nel cielo in tre
parti, lasciando cadere il suo contenuto tecnologico sul centro sottostante, anche se resta più di un
ombra su come i vari dispositivi high-tech riescano a trovare le collocazioni giuste “piovendo”
tutt’insieme all’improvviso dal cielo.
In ultima analisi alla luce della complessa elaborazione che informa l’intero iter progettuale di Instant
City è inevitabile non leggerlo in parallelo con l’altro complesso sforzo creativo compiuto dal gruppo
nel 1964, ovvero Plug-in City, anche al fine di evidenziare il sostanziale cambio di rotta intrapreso.
Ebbene, al di là del concetto di architettura a tempo che, come una sorta di
fil rouge, lega i due progetti, in quanto i dispositivi tecnologici di Instant City durano al massimo una
settimana per ogni luogo così come le diverse parti che costituiscono Plug-in City sono sottoposte
ad un’inderogabile tabella di obsolescenza, per il resto la contrapposizione tra essi è netta, come è
netta la distanza che separa una megastruttura da un’architettura costituita da una attrezzatura
mobile. Da una parte, dunque, la componente hardware di Plug-in City, animata da una “bulimia
costruttiva” che si concreta sottoforma di “alveari di capsule”, dall’altra quella software di Instant City
che riduce il proprio intervento architettonico ad una serie di sofisticati accessori il cui obiettivo finale
è quello di dar luogo ad un evento che dia vita all’ambiente in cui si manifesta (ed in tal senso il
celeberrimo concerto di Woodstock appare quasi come una epifania del progetto archigrammatico).
E poi come ultimo, ma nient’affatto trascurabile, elemento discriminante c’è l’uomo; proprio quello
stesso uomo, che nel 1964 era stato dimenticato e quasi abbandonato tra le gru e gli hovercrafts
dell’imponente megastruttura dando per scontato il suo adeguamento ad uno stile di vita così
diverso, ridiventa protagonista nella “Città Istantanea” (come d’altronde lo era stato nella mostra
Living City tenuta all’ICA nel 1963) scegliendo, seppur virtualmente ma in assoluta autonomia
decisionale, il tipo di ambiente urbano che più gli è congeniale. Dunque un Archigram tutto teso alle
problematiche sociali o piuttosto si tratta di una intelligente manovra pubblicitaria per richiamare
l’attenzione delle istituzioni? Con ogni probabilità la lettura più corretta sta nel mezzo: se il risvolto
sociale (ai limiti del buonismo) di “rivitalizzare” le emarginate e spente province anglo-americane con
una scarica adrenalinica importata dalla metropoli, così come l’intento didattico da approntare nelle
scuole locali, è in una certa misura “caricato” allo scopo di conferire massima forza e diffusione al
progetto in questione, del tutto sincera appare invece la volontà di “svegliare” l’intera nazione inglese
da quel torpore da cui è attanagliata, frutto di una mentalità storicamente conservatrice. E a ben
guardare, uno dei motivi che spinge Archigram ad architettare Instant City lo si evince dalla
dichiarazione che i suoi componenti rilasciano affermando che «l’Inghilterra nel prossimo mezzo
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secolo dovrà vivere del proprio brio oppure perire»57.
Lo Yamanashi Press and Radio Center di Kenzo Tange: un caso di utopia realizzata
(Kofu 1961-66)
Uno dei principali architetti e trattatisti del Rinascimento, Leon Battista Alberti, stabilisce nella sua
celebre opera in dieci libri sull’architettura - il De re aedificatoria - un insieme di “regole”
cui il progettista deve attenersi per poter realizzare una architettura degna di tal nome.
Queste regole prevedono l’osservazione di una serie di canoni proporzionali finalizzati all’elaborazione
felice e sicura di un’opera, a tal punto che nessuna parte di essa può essere rimossa o aggiunta,
senza turbare l’equilibrio raggiunto. Questa condizione di ideale armonia, perseguibile solo seguendo
scrupolosamente questo corpus di norme progettuali stabilite a priori (una sorta di regolamento
costruttivo ante litteram), viene designata dall’Alberti col termine di concinnitas. Lo Yamanashi Press
and Radio Center, concepito da Kenzo Tange a più di mezzo millennio di distanza, incarna la perfetta
antitesi dell’edificio ideato secondo il principio della concinnitas: lo sgretolamento di una forma
prefissata ed immutabile nel tempo e la costante possibilità di ampliarne - così come di ridurne - le
parti che lo compongono, ne rappresentano una indiscutibile dimostrazione. Il luogo in cui si tenta
l’ambiziosa operazione di dare forma concreta ad un progetto che condivide molti principi dell’utopia
metabolista è Kofu, una piccola città giapponese di circa 100.000 abitanti sovrastata dall’imponente
catena del Fujiyama, la cui economia in crescita, legata essenzialmente all’ingente produzione di vino,
legittima le aspirazioni di espansione che essa nutre. L’edificio di Tange si connota, inoltre, di
un’ulteriore responsabilità in quanto un eventuale fallimento dell’intervento ipotizzato frenerebbe il salto
di qualità auspicato dall’intera cittadinanza. Trattandosi, quindi, di un’architettura costruita è
fondamentale valutare come il progettista disloca le diverse funzioni. Il primo problema che l’architetto
giapponese si trova a dover affrontare riguarda la difficoltà oggettiva di far coesistere all’interno dello
stesso edificio i layout di tre società - la testata di un giornale, una stazione radio e uno studio
televisivo - che se da una parte sono accomunate dal fatto di essere tutte e tre attive nel campo delle
comunicazioni, dall’altra ognuna di esse necessita di propri spazi diversificati.
Per tale motivo Tange raggruppa le attività comuni degli uffici, delle aree di produzione e degli studi
nella parte alta del complesso, relazionandoli attraverso una fitta combinazione di sistemi di
trasporto verticale quali ascensori, scale e montacarichi, non trascurando al contempo le specificità
delle singole compagnie: infatti il progettista così come posiziona al pianterreno alcuni ambienti atti
ad ospitare i macchinari tipografici, in modo da agevolare al massimo le operazioni di consegna e
spedizione tramite delle apposite rampe, nello stesso tempo sta attento a collocare gli studi televisivi
- per i quali l’isolamento dall’esterno è fondamentale - in piani senza finestre. Inoltre il mastodontico
complesso, dovendo sorgere nei pressi della stazione locale con il chiaro intento di favorirne lo
sviluppo, presenta una serie di spazi commerciali sul lato antistante il nodo ferroviario58. Pertanto se
la soluzione planimetrica dello Yamanashi Building, totalmente libera di articolarsi attorno alle sedici
“torri-servizio” (del diametro di cinque metri) ospitanti tutti i sistemi di collegamento verticale nonché
gli impianti necessari al suo funzionamento, non lascia dubbi circa la sua adesione ai concetti di
flessibilità spaziale59, lo studio in alzato, pur proseguendo la ricerca di una spazialità in continuo
mutamento iniziata in pianta attraverso le suddette torri dalle altezze sempre diverse proprio perché
suscettibili di accrescimento nel tempo, risente dell’impiego del calcestruzzo armato a facciavista
che non evidenzia un “linguaggio” innovativo, richiamando alla mente piuttosto un’immagine di
marca brutalista. Ma vi è di più: da un punto di vista formale e tettonico, l’operazione di Kofu appare
K. Tange,
Yamanashi Press and Radio
Center, Kofu, 1961-66, foto.
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per certi versi ancora impreparata a compiere quel passo che le consentirebbe di tagliare i ponti col
passato. Le visioni spregiudicate dei suoi colleghi metabolisti che, parallelamente, arrivano a
proporre sistemi costruttivi ben più audaci, sebbene spesso non adeguatamente sostenuti da studi
di dettaglio, subiscono una brusca frenata nel Centro di Comunicazioni di Tange, il quale, con ogni
probabilità, temendo un impatto troppo duro nei confronti del tessuto urbano esistente, rinuncia
all’adozione di un linguaggio “rivoluzionario” (che pure aveva usato nel 1960 per il Piano per la baia
di Tokyo)60 riproponendo, sotto mentite spoglie, un funzionamento strutturale di tipo trilitico. Eppure
il tradizionale sistema costruttivo, cui l’architetto giapponese fa ricorso al fine di mediare l’impatto
della sua megastruttura con il contesto circostante, non serve a evitare la stroncatura di un storico
del calibro di Manfredo Tafuri. Il giudizio di quest’ultimo sull’intervento di Tange è senza mezzi
termini: «Architetture come lo Yamanashi Building a Tokyo […] non possono in alcun modo entrare a
far parte di un’osservazione distratta della città. Il loro violentare, con la pregnanza e la allusività delle
immagini e delle strutture, i ritmi comuni dell’esistenza quotidiana, il loro enfatizzato alludere ad uno
spazio diverso se non opposto a quello della vita comune, il loro chiudersi nell’ambito delle loro
forme, esprimono la volontà di proteggersi da ogni azione del mondo esterno avvolgendosi
nell’hortus conclusus di una meccanica autosufficiente di forme.
È inutile nascondere la verità: si potranno salutare queste, e molte altre opere simili, come autentici
capolavori, ma è indubbio che ciò che è alla loro base è la paura di partecipare ad un processo tutto
risolto nella fruizione e nel consumo»61. Di tono decisamente diverso è, invece, la disamina di un
altro insigne storico dell’architettura, William J.R. Curtis, per il quale la megastruttura di Tange «[…]
flirtava con l’idea di cambiamento totale, mentre conservava ancora la dignità elementare di una
composizione finita: suggeriva il carattere di un moderno meccanismo tecnologico, pur continuando
a richiamare la tradizionale costruzione in trave e pilastro. Teneva le forze del tradizionalismo e del
futurismo, così fondamentali per il Giappone del Dopoguerra, in un equilibrio ansioso»62. Verrebbe
allora da chiedersi: lo Yamanashi è “un’utopia” felicemente compiuta o è piuttosto un intervento
progettuale smisuratamente autoreferenziale? Le due critiche, poste volutamente a confronto e
sostanzialmente antitetiche, sembrerebbero neutralizzarsi a vicenda, il che ci fa sorgere il dubbio che
entrambe colgano un frammento di verità: se è vero infatti che l’intervento di Tange tradisce alcune
aspettative di fondo e probabilmente è un edificio che, nonostante si affanni a mostrare i suoi legami
con l’architettura tradizionale (il sistema trilitico di cui si diceva), dialoga essenzialmente con se
stesso, in un atteggiamento solipsistico, è parimenti evidente il tentativo, ammirevole, dell’autore di
applicare ad una realtà concreta i principi rivoluzionari di marca metabolista che informano il suo
progetto: si può forse negare che l’accrescibilità in altezza delle sedici torri e degli spazi,
volutamente lasciati vuoti tra di esse, non traducano in termini concreti proprio quell’idea di
infinitezza dell’architettura e della flessibilità spaziale sperimentata fino ad allora solo sulla carta? E
infine, stando ai fatti, lo Yamanashi Building non ha poi generato quella “crisi di rigetto” che i suoi
detrattori temevano, visto che ancora oggi, nonostante siano stati apportati degli ampliamenti già
dal 1974, contraddistingue con la sua mole, lo skyline della città di Kofu.
La torre Nakagin di Kisho Noriaki Kurokawa: un altro caso di utopia realizzata (Tokyo 1971-72)
Gli innumerevoli interessi fioriti durante gli anni Sessanta riguardanti l’affascinante tema della capsula
trovano, nella torre realizzata da Kurokawa nell’affollato snodo commerciale di Nakagin63, una
testimonianza tanto significativa quanto tangibile. Forte dei principi che hanno ispirato la stragrande
maggioranza delle “visioni” vagheggiate da Metabolism, secondo cui l’architettura è il risultato di un
processo biologico caratterizzato da una ciclica trasformazione delle sue parti nel tempo, Kurokawa,
pur ridimensionando gli aspetti più radicali di tale poetica, prova agli inizi degli anni Settanta a
tradurre in termini concreti64 più di un decennio di sperimentazioni progettuali avvenute su un piano
sostanzialmente teorico, diffuse in tutto il mondo attraverso il pamphlet dal titolo Metabolism 1960 Proposals for a New Urbanism.
E sebbene l’architetto giapponese avesse già condotto delle ricerche sul tema
dell’Existenz-minimum, poiché nel 1962 aveva elaborato alcuni sistemi di assemblaggio di cellule
abitative per l’Hotel di Osaka, la torre Nakagin si differenzia notevolmente da questa precedente
esperienza alla luce delle ricerche incentrate sull’elemento capsulare effettuate da Archigram (la
Capsule Unit Tower del 1964) e da Moshe Safdie (l’Habitat presentato all’Esposizione Mondiale di
Montreal del 1967).
L’impianto planimetrico dell’edificio concepito da Kurokawa si presta complessivamente ad una
lettura abbastanza agevole: attorno alle due torri di altezza diversa in cemento armato si snodano
per dodici piani circa centoquaranta parallelepipedi - le cui dimensioni basate sul tatami sono di
2,5x4 per un’altezza di 2,5 metri - realizzati in acciaio leggero e coperti con pannelli di acciaio
zincato. Trattandosi di uno spazio così ristretto (anche se è prevista la possibilità di ampliare la
singola capsula connettendola con una adiacente mediante la semplice rimozione di un pannello), il
progettista giapponese destina le varie cellule ad un uso residenziale ma non nel senso tradizionale
di casa unifamiliare; come egli stesso dichiara,
i mini-alloggi della Nakagin sono pensati per uomini di affari che, non vivendo a Tokyo, non hanno il
tempo di ritornare a tarda notte nelle loro abitazioni, tant’è che al primo piano della costruzione è
presente un ristorante che può fungere da luogo ideale per le cene di lavoro.
Lo spazio interno del piccolo parallelepipedo, che dall’esterno dà l’idea di una “lavatrice” ipertrofica,
è studiato con la massima attenzione allo scopo di “capitalizzarne” ogni centimetro quadrato: per
questo motivo gli arredi sono concepiti come elementi componibili realizzati seguendo un rigoroso
processo di prefabbricazione. La cellula è costituita, dunque, da un unico ambiente in cui rispetto
alla porta d’accesso, da un lato vi è una moderna e iperautomatizzata stanza da bagno65, mentre
dall’altro campeggia per tutta la lunghezza della parete una console pluriaccessoriata dotata di un
tavolo da lavoro, di piccoli vani per riporre oggetti e di una vasta gamma di dispositivi audio-visivi. In
asse all’ingresso viene inoltre posizionato il letto, sormontato dall’unica apertura della capsula che,
come nelle cabine delle navi, ha la forma di un oblò. Manca l’angolo cottura anche se c’è la
possibilità, su richiesta, di aggiungere un frigorifero e un lavello. Non facoltativo è invece l’impianto di
aria condizionata che, in considerazione dell’unica apertura, si configura come un elemento
indispensabile per la vivibilità dell’alloggio. L’aspetto esteriore della Nakagin è contraddistinto dalla
distribuzione dinamica delle singole cellule attorno ai due corpi turriti contenenti i sistemi di
collegamento verticale e gli impianti tecnologici; per di più, grazie alla disposizione sfalsata e
pluridirezionale dei centoquaranta alloggi ai diversi livelli dell’edificio, l’architetto giapponese riesce
ad ottenere in prospetto un’articolazione dei volumi animata ancora una volta da un movimento che
ricorda la spirale66. Ma, come precedentemente accennato, l’immagine esteriore della Nakagin
richiama alla mente sia l’Habitat di Safdie che le Capsule Homes di Archigram. Ed in effetti, se la
composizione dinamica delle capsule abitative di Kurokawa ricorda la stereometria, apparentemente
disordinata e giocosa, del complesso architettonico elaborato per l’Expo di Montreal del 1967 dal
progettista israeliano, decisamente diversa è l’articolazione degli spazi interni delle abitazioni, in
quanto dovendo accogliere interi nuclei familiari, Safdie non ricerca il minimum vivendi, optando per
89
nelle pagine successive
K.N. Kurokawa,
Nakagin Tower,
Tokyo, 1971-72, foto.
M. Safdie,
Habitat (per l’Esposizione di
Montreal del 1967),
Montreal, 1967, foto.
Archigram (W. Chalk),
Capsule Homes, 1964, pianta.
Archigram (W. Chalk),
Capsule Homes, 1964,
prospettiva dall’alto di una
capsula abitativa.
Archigram (W. Chalk),
Capsule Unit Tower, 1964,
prospetto.
una distribuzione spaziale più ampia e tradizionale.
Per quanto riguarda, invece, il confronto con le Capsule Homes ideate da Archigram ed, in
particolare, da Chalk nella Capsule Unit Tower del 1964, i termini del discorso sono ribaltati: se per
un verso è vero che la disposizione radiale delle capsule intorno ad una struttura centrale in
cemento armato ci restituisce un disegno decisamente più ordinato e statico rispetto alla torre di
Kurokawa, per l’altro si riscontra una certa analogia riguardo la singola cellula che, per quanto
dissimile per geometria e per altezza - essendo cuneiforme e duplex - presenta una equivalente
ideazione nell’uso degli elementi di arredo caratterizzati da un alto grado di automatizzazione
(si pensi alla soluzione del bagno) e nell’adozione di un linguaggio che occhieggia alla
conformazione delle navicelle spaziali. Inoltre anche nella Nakagin, come d’altronde già nella
Capsule Tower di Chalk, riveste una notevole importanza l’idea della rapida sostituibilità dell’intera
capsula dopo un determinato periodo di tempo, dal momento che quest’ultima può essere
agevolmente assemblata in cantiere (si noti ancora una volta l’analogia con il container in acciaio
Archigram (W. Chalk),
Capsule Homes, 1964,
esploso assonometrico di una
capsula abitativa.
delle navi da commercio)67 per poi essere trasportata in situ e posizionata mediante una gru nel
luogo prestabilito68. In una tale logica costruttiva, l’operazione più delicata diventa il posizionamento
dei fori sui due corpi turriti in cemento armato grazie ai quali è possibile stabilire l’aggancio di
ciascuna cellula. Queste considerazioni sembrerebbero, quindi, comprovare il ruolo primario che la
prefabbricazione viene ad assumere nel progetto di Kurokawa; e invece, sebbene la lavorazione
industriale ricopra un compito significativo all’interno del processo costruttivo, come dichiara egli
stesso, essa non rappresenta l’aspetto principale del progetto. Difatti Kurokawa tenta la non facile
impresa di coniugare la tradizione architettonica giapponese con le nuove possibilità costruttive
offerte dal progresso scientifico69.
In tal senso la tecnologia diventa mezzo e non fine: egli non giudica il procedimento industriale il
migliore in valore assoluto, ma lo utilizza in quanto è l’unico che gli consente di perseguire quella
condizione di costante cambiamento, di metamorfosi, cui è soggetta la vita umana, compresa
l’architettura. Non a caso il gruppo cui l’autore della Nakagin appartiene - Metabolism ossia
trasformazione70 - sostiene appunto un tipo di architettura aperta e mutevole, in linea con la visione
scintoista dell’eterno cambiamento che non ammette edifici “immortali” come avviene in Occidente;
d’altra parte questa interpretazione del mondo porta a concepire la città intera come un grande
organismo biologico sottoposto alle leggi universali di vita e di morte.
È lo stesso Kurokawa a chiarire questo concetto: «[…] l’universo è una moltitudine di “io” chiamati
jiga, i quali sono collegati tramite degli incontri casuali chiamati en. Tradotto in […] [lingua
occidentale], jiga significa volontà, ego, cellula, elemento vivente.
En sta per media [nel senso di massa], dove hanno luogo incontri e scambi. Il mondo è dunque una
giustapposizione di libere volontà, che talvolta convivono in armonia e talvolta in conflitto all’interno
dell’en»71. Tale affermazione diviene ancor più esplicita alla luce della definizione che il progettista dà
della capsula: «[…] la capsula è un elemento autosufficiente come una cellula vivente, un’entità
funzionante, un’unità spaziale densa di significato con un proprio ciclo di vita.
Essa vive e muore, mentre l’en è sempre lì a servirsi di nuove cellule.
In modo analogo, le capsule possono essere sostituite o distrutte per far posto a nuove capsule»72.
In fin dei conti l’estroso architetto giapponese non nasconde il vero obiettivo della sua ricerca
filosofica-architettonica: proporre gradualmente un nuovo modello di abitazione - la capsula - che,
andando a sostituire il tradizionale e obsoleto concetto di casa “stabile”, produca un rinnovato
modello di vita per l’uomo del domani, un uomo da lui ribattezzato Homo Movens73.
Il Monumento Continuo di Superstudio (Firenze 1969) e la No-stop city di Archizoom
(Firenze 1970-72): due commenti critici sul tramonto dellʼutopia megastrutturale
A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, se per un verso si assiste in tutto il mondo alla
elaborazione di un vasto corpus di progetti megastrutturali (i cui avamposti più significativi, come si è
detto, possono essere considerati il Giappone e l’Inghilterra)74, per l’altro si segnala la posizione
accorta, ai limiti della “diffidenza”, assunta dall’Italia che non solo produce molto di meno in tal
senso, quanto sottopone ad una rigorosa revisione critica tutto quello che le riviste dell’epoca
propongono sovente con smisurato entusiasmo. Pertanto la risposta italiana si orienta in una
direzione più cauta rispetto alle coeve sperimentazioni tecnico-formali internazionali, trincerandosi
dietro una “roccaforte critica” che le consente di affrontare il tema della grande dimensione ponendo
maggiore attenzione al rapporto città-territorio75. In questo clima culturale solcato da venti di
rinnovamento, il concorso per il quartiere Cep alle Barene di San Giuliano a Mestre (1959)
rappresenta un’occasione irrinunciabile per testare in concreto le premesse teoriche appoggiate
dall’intellighentsia nostrana e che vede nella soluzione formulata dal gruppo di architetti capeggiato
da Ludovico Quaroni la proposta più brillante, sia dal punto di vista formale - si pensi allo
straordinario schizzo delle residenze che riflettono la propria immagine nelle acque della laguna
veneziana - che per la sua aderenza al territorio. E che questa linea metodologica prestasse
attenzione al contesto trova conferma in una dichiarazione di Gianluigi Piccinato, Vieri Quilici e
Manfredo Tafuri pubblicata su “Casabella-Continuità” nel 1962: «la città-territorio, proprio per essere
un metodo di sviluppo dinamico; proprio per la sua nuova forma, che si concretizza addirittura in
una variabilità dei suoi stessi limiti; nella sua aderenza totale ai processi continui e variabili della
realtà, è la negazione di ogni astrazione utopistica e idealizzante. È, se si vuole, il superamento di un
atteggiamento razionalistico che pretende di calare soluzioni aprioristiche su strutture che non
vengono analizzate caso per caso nella loro complessità»76. Dopo l’exploit di San Giuliano, e fatta
eccezione per un altro progetto quaroniano per il Centro Direzionale di Torino (1963) che, come
afferma Banham, rappresenta «il culmine e la pietra tombale della fase pionieristica della
megastruttura in Italia»77, il Belpaese ripiomba in una situazione di attesa, di semiquiescenza, dando
l’impressione di limitarsi ad osservare da una finestra cosa accade al di là dei suoi confini geografici,
tant’è che bisogna aspettare la fine del 1966 per scorgere dei tangibili segnali di risveglio nei
confronti dell’utopia megastrutturale. A tal proposito occorre dire che lo scenario che si configura in
tale arco temporale è estremamente complesso ed eterogeneo: se da un lato l’utopia diventa realtà,
attraverso la realizzazione di alcuni frammenti urbani, quali le Vele di Secondigliano e la discussa
Città Nolana progettati dall’architetto Francesco di Salvo - rispettivamente nel 1968 e nel 1970 - e il
più tardo Corviale (1973), moderno “acquedotto romano” nelle forme di un
mega-edificio, concepito dal gruppo cui fa capo Mario Fiorentino78 al fine di ricucire brani di periferia
disastrata, dall’altro emerge con forza un tipo di utopia concettuale, frutto dell’attività critica dei
gruppi radicali fiorentini79 di Superstudio (Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Gian Piero
Frassinelli, Alessandro e Roberto Magris) e di Archizoom (Andrea Branzi, Paolo Deganello, Massimo
Morozzi, Gilberto Corretti, Dario e Lucia Bartolini), il cui debutto avviene attraverso la celebre mostra
dal titolo Superarchitettura80, organizzata dal 4 al 17 dicembre del 1966 nella galleria Jolly 2 di
Pistoia. E però in queste ultime - ovvero nelle architetture non realizzate o, se si vuole, in quelle
provocatoriamente non realizzabili - che il contributo italiano assume un peso davvero rilevante,
favorendo il tramonto dell’utopia megastrutturale. Infatti uno degli aspetti più interessanti degli
assunti dei due gruppi radicali consiste proprio nell’opporre, al caleidoscopico mondo dei tanti
progetti di sapore utopistico diffusi in quegli anni, un’idea di architettura come momento di
riflessione, una “pausa costruttiva” cui però fa da contrappunto una «fisicità critica»81 con la quale
s’intende risemantizzare la nozione di architettura dalle sue fondamenta portandola ad un grado
zero.
Da qui la difficoltà di denominare l’area culturale in cui agiscono i suddetti gruppi, etichettata nel
corso della loro attività in molteplici modi: da contro-design ad architettura concettuale, da utopia a
neo-monumentalismo, da tecnologia povera a nomadismo. Ed è in una tale incertezza attributiva
che risulta chiarificatrice la definizione di architettura radicale data da Andrea Branzi: «la radical
architecture si colloca all’interno del più generale movimento di liberazione dell’uomo dalla cultura,
intendendo per liberazione individuale dalla cultura la rimozione di tutti i parametri formali e morali
che, agendo come strutture inibitorie (inibitorie in quanto non autoprogettate), impediscono
all’individuo di realizzarsi compiutamente. La radical architecture si colloca all’interno di questo
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Archigram (W. Chalk),
Capsule Homes, 1964,
assonometria dell’impilaggio di
capsule abitative.
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Superstudio,
Monumento Continuo,
New New York - Rockefeller
Center, 1969, fotomontaggio.
Superstudio,
Monumento Continuo,
New New York, 1969,
fotomontaggio.
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pensiero e tende a ridurre a zero tutti i processi di progettazione, rifiutando il ruolo di settore
disciplinare impegnato a prefigurare, attraverso le strutture ambientali, un futuro già codificato»82.
L’obiettivo principale della ricerca condotta dagli architetti radicali sta dunque proprio nel recupero di
«quell’architettura misteriosamente scomparsa»83, per riconquistare la quale è necessario fare tabula
rasa di tutto ciò che ha “corrotto” le città attuali. Gli studi che meglio esemplificano la loro “crociata”
etico-architettonica sono il Monumento Continuo e la No-stop City, concepiti rispettivamente da
Superstudio nel 1969 e da Archizoom nei primi anni Settanta (1970-72). L’operazione critica di
Superstudio non è altro che una gigantesca struttura di vetro trasparente in grado di sovrapporsi,
per una lunghezza smisurata, a territori sia naturali che costruiti «attraversando deserti […] canyons,
laghi alpini», così come città quali Coketown, Graz, Firenze e New York con il fine di «dar forma alla
Terra misurandola come i paralleli e i meridiani»84; tale superstruttura, inoltre, è talvolta caratterizzata
da grandi “asole” dalle quali, come nel caso di New New York (sicuramente l’immagine più nota del
loro studio) spuntano fuori lembi di città esistente. È fuor di dubbio che per comprendere la portata
del Monumento Continuo è necessario, innanzitutto, cercare di decifrare i simboli che vi si celano: se
la superstruttura che scavalca la baia di Hudson, congiungendo Brooklyn e New Jersey, si connota
non solo come un imperioso segno progettuale ma anche come un “mezzo” indispensabile per
ridare un ordine cosmico al territorio urbano, il frammento di grattacieli circondato da queste enormi
pareti di vetro, testimone del «tempo in cui le città si costruivano senza un unico disegno»85,
simboleggia il caos. Di pari importanza è, inoltre, il rapporto che Superstudio instaura con la storia:
difatti nelle ottanta sequenze che corredano “un film per il Monumento Continuo”, il gruppo italiano
elabora un lungo e affascinante racconto dimostrativo con il quale, ripercorrendo la storia dell’uomo
attraverso la realizzazione di opere architettoniche che hanno contraddistinto il suo cammino fino ai
tempi odierni, desidera porre idealmente in relazione i dolmen, i menhir e le piramidi con la
superstruttura ideata, in quanto «tutte architetture originate da un singolo atto e da un unico
progetto»86. C’è, infine, un’ulteriore considerazione che vale la pena di rimarcare: anche se
Superstudio vuole dichiaratamente evitare di proporre un progetto architettonico che possa
realizzarsi in concreto, il suo studio si diffonde rapidamente in tutto il mondo, alimentando la fantasia
di altri progettisti: è singolare, infatti, la coincidenza che vede, sempre nel 1969, gli architetti
britannici, Mike Mitchell e Dave Boutwell, elaborare la proposta di un’enorme megastruttura
denominata Comprehensive City87 che, tenuto conto delle sue sconfinate dimensioni - talmente
grandi da ricoprire la distanza tra New York e San Francisco - sembra essere la versione costruita
della superstruttura ideata dal gruppo radicale italiano.
La critica contenuta nella No-stop City di Archizoom rinuncia invece alle visioni surreali vagheggiate
da Superstudio, per puntare molto sull’idea di una città controllata dai sistemi elettronici, operazione
in un certo senso già formulata da Crompton nello studio Computor City del 1964, in cui i sensori
costituivano i cardini attorno ai quali ruotavano tutte le funzioni urbane. No-stop City è immaginata
come uno spazio dilatato e indifferenziato, completamente cablato e climatizzato in cui, data
l’estrema mobilità che la caratterizza, risulta problematico - benché possibile - trovare dei punti di
riferimento; il modello cui si guarda, con un sentimento più di critica che di approvazione (tant’è che
si è parlato di utopia negativa) è il supermarket, per via della sua spazialità anonima nella quale le
persone e gli oggetti “fluttuano” liberi da vincoli. Anche per lo studio di Archizoom abbondano le
metafore: come ha notato François Burkhardt,
il lavoro del gruppo radicale fiorentino, conferendo massimo rilievo ai flussi e alle relazioni della
società moderna, elimina le differenze tra architettura e urbanistica presentandoci un unico e
indistinto spazio da progettare88; secondariamente No-stop City promuove uno spazio nomadico
per gli uomini e gli oggetti, rinnegando la «logica dell’Existenz-minimum, fatta di muri e barriere» ed,
in ultima istanza, proclama la morte «dell’architettura tradizionale intesa come composizione di
oggetti, di forme e stili» a vantaggio di tutto ciò che è «immateriale, effimero [e] mutevole»89. Da tali
osservazioni si scorgono ancora una volta alcuni punti di tangenza con gli “imperativi nomadici”
sostenuti da Archigram: urbanizzare il territorio il meno possibile in senso fisico (il che vuol dire
accantonare l’aspetto hardware dell’architettura) favorendo di contro l’uso di elementi puntuali e
mobili, in grado di garantire la massima flessibilità urbana e privilegiando in questo modo la
componente software. E non c’è da meravigliarsi se, alla resa dei conti, il campo nel quale i gruppi
radicali italiani proseguiranno le loro rivoluzionarie ricerche, ottenendo straordinari risultati anche da
un punto di vista “pratico”, sarà quello del design. Ma questa è un’altra storia.
1. L’alterna attribuzione del progetto Plug-in City a Cook e al gruppo nella sua totalità è dovuta al fatto che, come per altri studi
di Archigram, esso è il risultato della collaborazione di tutti i suoi componenti allo sviluppo di un’idea individuale che, in questo
caso, è da ascrivere a Cook.
2. «Un dispositivo che è inserito in un recettore per stabilire una connessione elettrica tra i conduttori che sono collegati al
recettore e i conduttori del filo adattabile attaccato al plug», in C.M. Harris, Dictionary of Architecture and Construction, New
York 1975, p.31.
3. Si ricorda che il progetto per l’Exhibition Tower di Peter Cook fu commissionato dalla Taylor Woodrow Construction
Company per l’Esposizione Mondiale di Montreal del 1967.
4. P. Cook, Archigram, cit., p.38.
5. Ibidem.
6. Ivi, p.37.
7. Il concetto di obsolescenza connesso all’architettura non è nuovo: il Fun Palace di Cedric Price del 1962 definisce l’intera
architettura deperibile in dieci anni. Tuttavia Price sembra più interessato alla elaborazione di un oggetto ludico e
manifestamente provocatorio che a rinnovare il linguaggio architettonico come prova a fare Archigram.
8. Cfr. A. Sant’Elia, Manifesto dell’architettura futurista, Milano 11 luglio 1914, in E. Godoli, Il Futurismo, cit., p.185.
9. P. Cook, Experimental Architecture, cit., p.16.
10. Ibidem.
11. Id., Archigram, cit., p.41.
12. P.R. Banham, Megastructure..., cit., p.106.
13. A proposito della possibilità di far convivere il nuovo con la tradizione, Cook dichiarò: «Una casa di plastica rimane una
casa, la Plug-in City rimane una città, la strada in un tubo rimane una strada. Ma accanto a questa via di sviluppo verso
qualcosa di più casuale e indeterminato, riemerge il tipico atteggiamento inglese di assorbire il nuovo nel tradizionale.
Possiamo vedere nel nostro stesso lavoro la tendenza a porre in relazione il progetto con la realtà di ciò che già conosciamo. È
interessante vedere Plug-in City applicata ad una preesistente parte di Londra e un intero plug-in concept sviluppato in un
dialogo tra conservazione e creazione di zone che possono continuare ad essere conservate mentre appaiono
drammaticamente nuove […]. Questo senso di compatibilità del nuovo (persino dello sperimentalmente “nuovo”) con l’antico è
un carattere essenzialmente inglese. Comunque esso non sembra impedire il radicalismo della ricerca», in P. Cook,
Experimental Architecture, cit., pp.90-91.
14. Con ogni probabilità il premio Nobel conferito a Giulio Natta nel 1963 per la scoperta del polipropilene deve aver
“rallegrato” i membri di Archigram speranzosi di sfruttare i vantaggi che l’uso delle materie plastiche avrebbe procurato, una
volta immesse nel circuito della prefabbricazione edilizia.
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