Untitled - CLEAN edizioni
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Copyright © 2007 CLEAN via Diodato Lioy 19, 80134 Napoli telefax 0815524419-5514309 www.cleanedizioni.it [email protected] Tutti i diritti riservati E vietata ogni riproduzione ISBN 978-88-8497-109-8 Editing Anna Maria Cafiero Cosenza Grafica Costanzo Marciano L’autore desidera ringraziare quanti hanno incoraggiato e seguito lo sviluppo del lavoro in ogni sua fase. Un ringraziamento particolare va a Maria Luisa Scalvini per le rigorose e severe osservazioni e per le puntuali indicazioni metodologiche fornite. Notizie, materiali e documenti sono stati reperiti anche grazie alla squisita cortesia di Massimiliano Savorra e Andrea Maglio. Per gli aiuti offerti in forma diversa un sentito grazie va a Pasquale Orlando, presidente delle ACLI Provinciali di Napoli, Aldo Miglietta, Ferdinando Tricarico, Annalisa Limatola, Rosaria Perillo, Mario Ghiringhelli, Luigi Tricarico, Dora Benusiglio e Mauro Paolo Wolfler Calvo. Alla mia Olga rivolgo infine il ringraziamento più affettuoso. Questo volume si avvale di un contributo della Regione Campania (2006) Sommario 7 8 11 Presentazione Fabio Mangone Premessa Un “esplosivo” quarto di secolo (1946-1971) I pionieri dell’utopia architettonica del XX secolo: da Sant’Elia a Fuller / L’attività dell’Institute of Contemporary Arts (ICA) e dell’Independent Group (IG) e le coeve sperimentazioni utopiche sul finire degli anni Cinquanta / Dal Giappone: l’attività di Kenzo Tange e del gruppo Metabolism / Tra ironia e gusto Pop: la vicenda Archigram / La poesia utopica italiana: Archizoom e Superstudio / Acme e declino dell’utopia megastrutturale tra Montreal 1967 e Osaka 1970: l’eredità delle utopie architettoniche 43 L’ipotesi megastrutturale di Tange e i progetti utopici di Metabolism e di Archigram come nuove immagini urbane La tesi rivoluzionaria di Tange all’interno della querelle architettura-città: il Piano per la baia di Tokyo / Il contesto come elemento discriminante nelle soluzioni utopiche: pretesto o motivo fondato? / Il disegno come strumento sostitutivo della costruzione: quando il progetto è più evocativo che realizzabile / Intercambiabilità delle parti e flessibilità spaziale all’interno del progetto architettonico: limiti e potenzialità del dato tecnologico 73 Alcuni capisaldi della “stagione utopica” del secondo Novecento Plug-in City di Peter Cook: l’utopia urbana megastrutturale (Londra 1964) / Walking City di Ron Herron: il manifesto dell’utopia architettonica come “Mobile Project” (Londra 1964) / Il Living-pod di David Greene: l’architettura come capsula mobile (Londra 1966) / Instant City di Peter Cook, Dennis Crompton e Ron Herron: l’architettura come “attrezzatura mobile” (Londra 1968-69) / Lo Yamanashi Press and Radio Center di Kenzo Tange: un caso di utopia realizzata (Kofu 1961-66) / La torre Nakagin di Kisho Noriaki Kurokawa: un altro caso di utopia realizzata (Tokyo 197172) / Il Monumento Continuo di Superstudio (Firenze 1969) e la No-stop city di Archizoom (Firenze 1970-72): due commenti critici sul tramonto dell’utopia megastrutturale 103 121 Dagli scritti di Archigram e di Metabolism Apparati Cronologia dei progetti e delle opere Bibliografia ragionata Indice dei nomi Presentazione Fabio Mangone Il libro di Marco Wolfler Calvo ha un taglio eminentemente storiografico. Il suo lavoro trae origine da una tesi di dottorato che, contro la tendenza a studi micro-monografici sempre più svincolati da implicazioni critiche di ampio respiro, è stata programmaticamente indirizzata a ricostruire nella sua globalità un fenomeno sostanzialmente misconosciuto (come dimostra persino la manualistica più recente), qual è quello delle utopie architettoniche (e talora fanta-architettoniche) degli anni Sessanta. Riscontrandone gli elementi di continuità con le linee visionarie che pervadono tutto il Novecento, e indagandone i determinanti rapporti con la coeva cultura della Pop Art, lo studio delinea un ambito cronologico e tematico relativamente omogeneo e tuttavia assai ricco di componenti. Tra di esse l’autore non rinuncia a soffermarsi su quelle più rilevanti e influenti. Il ruolo primario giustamente accordato nell’indagine al gruppo inglese Archigram e a quello giapponese Metabolism consente sì di rilevare più approfonditamente gli innegabili nessi tematici e linguistici, ma anche di indagare le profonde diversità tra certi metaprogetti inglesi, più fondati nel gusto per il fumetto fantascientifico che nella tecnica, e certi lavori rigorosamente analitici di un Kenzo Tange. Né d’altra parte sfugge all’analisi la natura ambigua e contraddittoria di una stagione in cui si mescolano aspetti disciplinari ed extra-disciplinari, dove la più alta tensione utopica convive con una spudorata passione fumettistica, l’ironica provocazione pop si sovrappone alla concreta ricerca di innovazione tipologica e tecnologica, la fascinosa sensualità di uno stile futuribile e fantascientifico si associa a seri interrogativi sul futuro dell’habitat umano. Ancora più delle tante e rilevanti costruzioni che segnano la pur sperimentale pratica di quegli anni, proprio le generose visioni, i progetti utopici e i metaprogetti propongono il ritratto più fedele della ricchezza di una stagione irripetibile, durata poco più di un decennio, e al contempo danno la misura della grande distanza che la separa dalla cultura architettonica odierna. nella pagina accanto Archigram (R. Herron), Walking City. Aggancio tra Walking Cities, 1964. 7 72 presentato all’Esposizione di Bruxelles del 1958. Tale edificio, definito da Banham «tematico», in quanto ripropone la struttura dell’atomo in forme giganti, presenta delle aste diagonali all’interno delle quali è possibile camminare per raggiungere una serie di ambienti sferici atti ad ospitare ristoranti e piattaforme panoramiche, in P.R. Banham, Megastructure..., cit., pp.39-40. 84. La celebre prosa “poetica” di Greene, pubblicata sul primo numero di Archigram nel 1961, esortava a fare tabula rasa di tutta l’architettura del passato nei cui confronti ogni passione era ormai spenta (perciò «the love is gone»). 85. M. Porta, op.cit., p.72. 86. D. Greene, Living-pod, in “Architectural Design”, novembre 1966, p.570. 87. La stessa World Design Conference del 1960 rientra all’interno di un’operazione economica promossa dalla Camera di Commercio giapponese che vuole dimostrare che l’industria nipponica è in grado di competere alla pari - se non di più - con quella occidentale. Al riguardo cfr. V. Manocchio, L.M. Papa, op.cit., p.11. 88. Per ulteriori approfondimenti sulla filosofia della simbiosi si veda il testo K. Kurokawa, Kisho Kurokawa: from metabolism to symbiosis, Londra 1992, pp.22-25. 89. A tal riguardo si pensi al collage di Richard Hamilton Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing? (1956), manifesto dell’Esposizione This is Tomorrow nonché icona della cultura Pop inglese, che mette in mostra un vero e proprio inventario della cultura popolare trasposto all’interno di una stanza nonché alle produzioni di artisti della Pop Art americana, quali Andy Warhol, Claes Oldenburg e Roy Lichtenstein (solo per citare i più noti). È quanto mai eloquente una dichiarazione sull’arte Pop rilasciata da Lichtenstein nel 1965: «L’arte Pop guarda fuori, al mondo; mostra di accettare il suo ambiente, il che non è bene né male, ma soltanto segno di un atteggiamento diverso», in L. Vinca-Masini, op.cit., vol. V, p.835. 90. Si pensi alla mostre organizzate dall’ICA e dall’IG alla fine degli anni Cinquanta e alla mostra Living City, allestita da Archigram all’ICA nel 1963. Alcuni capisaldi della “stagione utopica” del secondo Novecento Plug-in City di Peter Cook: lʼutopia urbana megastrutturale (Londra 1964) Uno degli studi più noti di Archigram, Plug-in City, e sicuramente quello che meglio diffonde il nome di Peter Cook1 nello star system dell’architettura del XX secolo, fa ricorso al vocabolo inglese plug, impiegato sino ad allora in architettura soltanto da un punto di vista impiantistico. Infatti sfogliando, tra i vari, un buon dizionario tecnico di Architettura e Costruzione, quale ad esempio quello curato dal Professore di Architettura e Ingegneria Elettrica Cyril M. Harris, alla voce attachment plug, si legge: «a device which is inserted into a receptable to establish the electric connection between the conductors which are wired to the receptable and the conductors of the flexible cord attached to the plug»2; da ciò si deduce che si fa riferimento ad un “attacco elettrico”. L’intuizione di Cook sta dunque proprio nel tentativo di ampliare il concetto di “innesto” che il termine plug presuppone, ipotizzando degli elementi urbani inseriti all’interno di una rete strutturale ed elettrica adeguatamente predisposta nel progetto Plug-in City. Occorre però dire che l’immagine definitiva di questa città composta da parti inserite in un network, raffigurante uno scenario urbano munito sì di tutte le tradizionali funzioni principali ma nelle forme di enormi stantuffi e pulegge, su cui si ergono in modo permanente una serie di gru deputate alla sostituzione delle capsule abitative, non nasce all’improvviso ma è preceduta da alcuni studi preliminari, prodotti tra il 1962 e il 1964, che costituiscono dei riferimenti progettuali da cui non si può prescindere per comprenderne il risultato finale. Innanzitutto il sistema abitativo a cabina metallica - si veda lo studio Metal Cabin Housing (1961) apparso nel numero uno della rivista “Archigram” - può essere considerato a tutti gli effetti il suo più diretto antenato progettuale, visto che già in esso si era avanzato il proposito di allocare degli elementi abitativi sostituibili all’interno di una megastruttura tutta in cemento; tuttavia la conformazione planimetrica e gli alzati appaiono ancora troppo legati a quell’architettura del bowellism (così definita da Nikolaus Pevsner poiché ricorda gli organi dell’apparato intestinale) di cui il progetto per i Furniture Manufacturers Association Headquarters di Mike Webb del 1958 pone le basi. Al primo tassello ideativo suggerito dalla Metal Cabin Housing, fanno poi seguito due studi del 1963: City Interchange, elaborato da Chalk ed Herron e Montreal Tower cui lavorano Chalk, Cook, Crompton ed Herron. E se in City Interchange sono contenuti in nuce alcuni aspetti formali presenti in Plug-in City, nel progetto per la Torre di Montreal3, accanto alle cupolette geodetiche di ispirazione fulleriana, compaiono per la prima volta delle tubazioni diagonali contenenti gli ascensori di collegamento. Infine le gru permanenti, che caratterizzeranno la sintesi raggiunta nella soluzione del 1964, sono già presenti nello studio denominato Nottingham Shopping Viaduct elaborato da Cook e Greene nel 1962, nel quale si cerca di approntare una soluzione che garantisca un «servizio frequente»4 per il funzionamento di un grande 73 Archigram (P. Cook), Progetto di Torre per l’Esposizione mondiale di Montreal del 1967, 1963, prospetto. centro commerciale mediante la realizzazione di una struttura in forma di viadotto. In tal modo come afferma lo stesso Cook, «con la gru che scorre lungo il viadotto e un sistema di distribuzione a forma di tunnel [si compie] un primo passo verso l’incorporazione degli elementi abitativi»5. Le tracce dei percorsi ideativi fin qui delineate che preludono alla gestazione dell’immagine finale di Plug-in City, le ritroviamo dunque metabolizzate nei due celebri e coloratissimi elaborati grafici del 1964: una megasezione operata nell’area di massima concentrazione della città (la cosiddetta Max Pressure Area) e l’«eroica»6 assonometria così definita dallo stesso autore per la carica eversiva da cui è pervasa. Osservando il disegno tridimensionale suddetto non è difficile comprendere le ragioni di questo aggettivo: gli enormi aggregati edilizi a forma di imbuto, la complessa articolazione dei percorsi di collegamento secondo direzioni diagonali, le “instancabili” gru sempre pronte a sostituire le parti di città obsolete e gli hovercrafts che corrono su di un’adiacente autostrada dalle notevoli proporzioni, non sono forse una prova del coraggio, ai limiti dell’iconoclastia, del gruppo inglese di mettere in discussione le tradizionali configurazioni urbane? Da tali disegni emerge dunque un nuovo modello di città che se in termini formali anticipa - con una consapevole volontà provocatoria - troppo i tempi, per quel che riguarda i suoi contenuti di “obsolescenza temporale”7 e quindi di un’architettura “ad orologeria”, è perfettamente in linea con l’idea di expendability imposta dalla società dei consumi. Quest’idea della deperibilità delle parti di Plug-in City ha fatto spesso pensare ad un’influenza della poetica futurista su quella archigrammatica e, in effetti, il medesimo afflato nutrito nei confronti dell’estetica della macchina, nel ricorso alle diagonali capaci di comunicare quel senso di dinamismo proprio del mondo meccanico e, non ultima, quell’idea di transitorietà che porterà Antonio Sant’Elia a dichiarare che «le case dureranno meno di noi [e che] ogni generazione dovrà fabbricarsi la propria città»8, hanno contribuito a legittimare tale posizione critica; tuttavia le motivazioni socio-politiche che hanno ispirato i disegni delle tavole della Città Nuova di Sant’Elia nel secondo decennio del XX secolo sono molto diverse da quelle che negli anni Sessanta condizionano l’attività del gruppo inglese: lo stesso Cook, pur riconoscendo all’architetto comasco il merito di aver profetizzato un panorama urbano fortemente innovativo da un punto di vista formale in cui la struttura degli edifici immaginati, intrecciandosi con «l’hardware della vita metropolitana [quali] autostrade, ferrovie e ascensori»9 instaura un inaspettato equilibrio dinamico, ne prende in parte le distanze quando afferma che «nell’attuazione di molte delle sue idee rileviamo un tale scostamento dalle intenzioni originarie che arriviamo a dubitare circa la possibilità di usare il suo lavoro come ispirazione diretta per risolvere i problemi attuali»10. Dunque il postulato archigrammatico relativo al ricambio delle componenti all’interno del complesso urbano, similmente a ciò che si fa per la propria automobile allorquando uno dei tanti pezzi si è usurato, è senza dubbio l’aspetto centrale. L’intera città è quindi considerata come una gigantesca macchina le cui parti sono soggette ad una precisa durata nel tempo che diventa sempre più rapida nel passaggio dalla macroscala alla microscala, laddove per microscala si intendono le abitazioni unifamiliari! A tal riguardo il progettista elabora una rigorosa tabella di invecchiamento degli elementi di Plug-in City secondo cui è possibile stabilire quando bisogna intervenire per apportare le necessarie sostituzioni: si va dai sei mesi di vita per lo spazio commerciale fino ad un massimo di quaranta anni oltre i quali occorre cambiare la megastruttura di base su cui sono innestati i vari “pezzi” urbani. Ad un orizzonte temporale di venti anni si collocano invece i contenitori delle macchine e il rifacimento delle strade, mentre l’intera unità abitativa deve essere sostituita dopo quindici anni. La soglia temporale cala ulteriormente per gli ambienti domestici: se per i salotti e le stanze da letto la vita media varia tra i cinque e gli otto anni, le zone di servizio, vale a dire il bagno e la cucina, devono essere cambiate ogni tre anni. Infine per i negozi e gli uffici il progettista prevede un periodo di obsolescenza piuttosto simile, tant’è che per i primi stima un arco temporale variabile tra i tre e i sei anni, mentre per i secondi fissa un orizzonte di quattro anni. Ora sebbene questa visuale dall’alto possa dare la sensazione di trovarsi di fronte ad uno studio di massima, è sorprendente notare come l’architetto inglese riesca a controllare la complessa megastruttura grazie a delle sezioni di dettaglio che ben illustrano l’articolazione delle diverse parti e la loro ubicazione in base alle differenti velocità di funzionamento. E precisamente se da un lato colloca alla base della sezione gli elementi più durevoli nel tempo come la ferrovia pesante, dall’altro pone in sommità le componenti che devono essere sostituite più rapidamente, quali gli aerostati con dispositivo di tenuta ambientale. Seguendo il medesimo principio, le strade più veloci e le monorotaie sono ubicate in cima, mentre alla base vi sono le strade per parcheggiare. Inoltre, nella parte centrale in basso sono collocate le aree pedonali che, insieme agli ascensori principali, sfociano in una grande piazza11. Una tale chiarezza distributiva e le sezioni particolareggiate, che si sforzano di dimostrare l’effettiva “cantierabilità” del disegno, porteranno Peter Reyner Banham a dichiarare che «dal 1964 in poi, qualsiasi progetto che sperasse di venir preso sul serio doveva essere dettagliato fino agli angoli delle finestre ed alle guarnizioni dei giunti»12. E per render ancora più credibile la sua proposta, Archigram decide di misurarsi anche con un contesto reale e lo fa sovrapponendo l’enorme network “ad innesti” sulla capitale londinese. Quest’inserimento virtuale nel cuore della Gran Bretagna non resterà un tentativo episodico ma sarà solo il primo di una serie di successivi affinamenti che porterà il gruppo ad elaborare un modello esportabile di Plug-in City per qualsivoglia area geografica del pianeta. Come valutare, dunque, questi propositi di rendere credibile una visione così distante dalle attuali configurazioni urbane? Senza dubbio se dovessimo semplicemente tener conto che Archigram non ha avuto timore di redigere un preciso formato architettonico, tecnologicamente realizzabile, e per di più calato in realtà urbanistiche esistenti, la sua utopia apparirebbe immediatamente concretizzabile. Oltretutto lo stesso Cook, con questo studio, non nasconde il desiderio di raggiungere una felice fusione tra storia e utopia13. Archigram (P. Cook), Plug-in City, 1964, sezione e assonometria. 76 Di contro, al di là del fatto che una città sottoposta ad un continuo ricambio potrebbe comportare il rischio di un serio squilibrio ambientale in termini di smaltimento dei rifiuti (soprattutto se si pensa all’uso dei prodotti plastici14 per i quali gli stessi componenti nutrono grandi speranze), è singolare che proprio gli autori di Living City - la mostra del 1963 che poneva l’uomo quale punto di riferimento per la fondazione di un nuovo concetto di architettura che ruotasse intorno ai suoi bisogni - nell’elaborazione della meccanicistica e tecnocratica Plug-in City, danno l’impressione di non porsi il problema di come quegli stessi uomini potessero vivere a proprio agio all’interno di capsule effimere e transitorie sebbene tecnologicamente ben congegnate15. E che questo insoddisfacente approccio antropologico sia probabilmente uno dei punti più vulnerabili per cui tale studio resta sostanzialmente un’utopia, sebbene le dichiarazioni programmatiche del gruppo inglese proclamino un notevole interesse nei riguardi dell’uomo, sembra essere avallato dalle preoccupazioni espresse da Chalk nello scritto dal titolo Architecture as consumer product pubblicato nella rivista “Arena” del 1966: «Uno dei maggiori fraintendimenti che ci siamo portati dietro è che non siamo interessati alle persone. Ciò probabilmente è dovuto al tipo di immagini che usiamo, nel senso che a prima vista una sezione del progetto City Interchange sembra predire una terra desolata, automatizzata e abitata solo da computers e robots [mentre invece] il nostro principale interesse è rivolto alle persone, ai fruitori dei nostri edifici; l’edificio è un problema serio; stiamo creando un ambiente [nuovo] per le persone, sempre attuale, in cui vivere, dormire, lavorare, giocare, e muoversi al suo interno, e il nostro interesse è reale»16. Ciononostante, a dispetto della sua irrealizzabilità, è possibile ritrovare frammenti di Plug-in City in molte delle architetture prodotte negli anni successivi: il Beaubourg (1971-77) di Piano e Rogers costituisce il suo primogenito e, forse, anche l’esempio più significativo. E ciò perché in fin dei conti, stando ad una famosa dichiarazione del gruppo «Archigram non può affermare con certezza se Plug-in City può essere tradotta in realtà per funzionare, ma può dire quali sembianze dovrebbe avere»17: per i suoi autori, dunque, tale progetto sarebbe anche potuto restare su carta ma il tentativo “eroico” di introdurre una rinnovata visuale dell’architettura urbana, basata sulla nozione di network e quindi sul linguaggio della comunicazione di massa, è stato quanto meno apprezzabile per lo sforzo considerevole di voler rintracciare una nuova koinè architettonica. Walking City di Ron Herron: il manifesto dellʼutopia architettonica come “Mobile Project” (Londra 1964) Walking City è a buon diritto il progetto che meglio evidenzia il legame intessuto da Archigram con i programmi di sperimentazione portati avanti in America e nell’ex Unione Sovietica dagli ingegneri aerospaziali negli anni Sessanta. Se la provocazione architettonica di Ron Herron (che nella prima stesura di Walking City del 1964 si avvale della collaborazione di Brian Harvey) guarda senza dubbio agli studi intrapresi nelle basi missilistiche statunitensi di Cape Kennedy18, va anche detto che questi ultimi non costituiscono gli unici punti di riferimento; come ha notato Banham, un’altra musa ispiratrice di questa smisurata “città mobile”, le cui sembianze ricordano quelle di un inquietante “coleottero tecnologico”, è rappresentata dall’enorme piattaforma militare di Shivering Sands Fort realizzata nel 1943 al largo di Whitstable nel Kent e, non per caso, presente all’interno del numero sei della rivista “Archigram” in occasione della rassegna celebrativa che il gruppo inglese dedica ai fantastici Forties. La conturbante immagine meccanicistica di Walking City non è però solo figlia delle sperimentazioni compiute in campo tecnologico nei due decenni che la precedono: occorre infatti ricordare l’esistenza di un filone originario esaltante l’estetica della macchina che assume come termine a quo le tavole della Città Nuova di Sant’Elia del 1914, si alimenta con le fantasie costruttiviste post-rivoluzionarie del russo Cernikhov, per poi raggiungere la sua compiuta esplicitazione negli anni Venti, grazie al principio della machine à habiter, coniato da Le Corbusier nel 1921 per la Maison Citrohan, e, in seguito, nel 1923 con la pubblicazione del suo pamphlet Vers une Architecture. In esso l’architetto originario di La Chauxde-Fonds preconizza per l’umanità un futuro sempre più meccanizzato nel quale le automobili, le navi e i velivoli avrebbero rivestito un ruolo sempre più centrale, tenuto conto degli incessanti progressi compiuti in campo tecnologico. E le intuizioni contenute in tale testo avrebbero trovato nel giro di pochi anni un immediato riscontro: si pensi alla Dymaxion House di Fuller del 1927 quale limpido paradigma di casa dominata dalla tecnologia. Eppure, nonostante la già pur considerevole carica rivoluzionaria di tali studi, nel progetto di Herron si ravvisa una novità sostanziale: l’architettura non si accontenta più soltanto di assomigliare ad una macchina ma ambisce ad avere la sua stessa capacità di movimento. A tal proposito il progettista di Walking City afferma: «L’idea era quella di una capitale mondiale in grado di essere in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi momento»19. Ed è forse per rendere maggiormente realizzabile questa “visione” che diventa necessario il connubio tra l’estetica della macchina e quella del fumetto fantascientifico; laddove non ci sono le condizioni tecnico-costruttive adeguate, ecco che interviene la science-fiction: come potrebbe altrimenti funzionare l’illusoria geometria delle otto “gambe” telescopiche20 di Walking City senza una buone dose di immaginazione fumettistica? Una delle peculiarità dell’attività progettuale di Archigram, risiede proprio nella volontà di sbalordire coloro che si “affacciano” ai suoi studi, “esibendo” delle tavole minuziosamente dettagliate21. Basta prendere in considerazione la sezione di Walking City per rendersi conto del grado di approfondimento raggiunto dal progettista che, non solo, fornisce precise indicazioni sulle dimensioni della città zoomorfa - per la quale prevede una larghezza di 180, una lunghezza di 400 ed un’altezza di 220 metri - quanto arriva anche a definire i collegamenti interni e le ubicazioni delle diverse funzioni urbane: dalle scuole alle aree commerciali, dagli uffici alle zone residenziali di cui disegna perfino ogni singola finestra. Alla luce di ciò si spiegano ancor di più le reazioni sgomente ed entusiaste seguite all’epifania del “mega-insetto” di Herron: da una parte, le critiche pungenti dell’urbanista greco Constantinos Doxiadis e di Sigfried Giedion relative alla “disumanità” che una tale architettura comporterebbe, dall’altra la soddisfazione incondizionata di Peter Blake che dalla poltrona dirigenziale di “Architectural Forum” non lesina complimenti ai sei architetti britannici, arrivando addirittura ad affermare che da quando «[…] Archigram “esplose”, il […] [suo] mondo […] non è stato più lo stesso»22. È opportuno tuttavia rilevare che nonostante il direttore della prestigiosa rivista americana sia un accanito sostenitore del gruppo inglese, anch’egli dimostra un certo imbarazzo quando gli viene chiesto un parere riguardo la compatibilità dell’uomo rispetto alle megastrutture archigrammatiche. La risposta di Blake trova riparo dietro il nome di Le Corbusier: egli infatti sostiene che così come «[…] [le machines à habiter propagandate dall’architetto svizzero] erano poetiche, analogamente lo sono quelle ideate da Archigram»23. E conclude, con un abile quanto facile sillogismo dichiarando che se la poesia rappresenta il massimo linguaggio esprimibile dall’essere umano, le fantasie progettuali del gruppo inglese non possono essere tacciate di disumanità. Diversamente l’interrogativo posto da Giedion - «chi realizzerebbe un disegno così elaborato se non volesse che fosse preso sul serio?»24 - è ancor oggi quello che fotografa meglio l’irrisolta antinomia della “città mobile” ideata da Herron. L’ambiguità dunque resta e ci si chiede quale sia la dimensione giusta da assegnare alla “creatura” di Herron: è una minaccia per l’umanità (si pensi all’interpretazione forzata datane dall’“International Times”, quando, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, raffigurerà le Walking cities nell’atto di scagliarsi contro le abitazioni e quant’altro facesse parte di una città) oppure, come dichiara il suo artefice, è «una macchina dall’aspetto amichevole»25? Probabilmente nessuna delle due affermazioni prevale sull’altra 77 78 79 Archigram (R. Herron), Walking City, 1964, prospetto. ma un aspetto è inconfutabile, ovvero la straordinaria forza evocativa e comunicativa trasmessa dalla sua immagine che si pone come rimedio, seppur utopico, alle «vuote affermazioni del Funzionalismo […] all’indolenza paralizzante […] degli accademici e delle figure istituzionali» allo scopo di risvegliare «il vecchio lascivo kraken26 meccanico del Modernismo dalle imperturbabili acque del mar morto dell’architettura corrente»27. Per questo motivo nel corso della sua vita Herron ritornerà ripetutamente sul suo progetto più caro, elaborandone svariate versioni di cui sostanzialmente muterà due punti: l’interazione tra le varie Walking cities e il luogo dove farle atterrare. Se riguardo al primo punto, il componente di Archigram stabilisce per le sue “città mobili” una serie di disposizioni fisse quali la presenza di braccia estendibili per «consentire il trasferimento di merci e materiali» e la dislocazione in esse di tutti gli «elementi che si sarebbero potuti trovare in una città funzionante»28 nell’intento di realizzare una sorta di Città delle Nazioni Unite, per la definizione del luogo più idoneo ad ospitarle permane un’idea di estrema indeterminatezza, tanto è vero che le scorgiamo “passeggiare” indifferentemente a New York, ad Algeri a contatto con il Plan Obus di Le Corbusier29, nel deserto o addirittura su un territorio dalle sembianze lunari; e forse proprio in quest’ultima prefigurazione è nascosto un ulteriore messaggio, tanto inconscio quanto profetico, che Herron vuole lanciare all’umanità (quasi come se fosse un monito per il futuro), Archigram (R. Herron), Walking City in Algeri a contatto con il Plan Obus di Le Corbusier, 1964, schizzo. Archigram (R. Herron), Walking City, 1964, schizzo. invitando gli uomini ad ideare delle “città mobili” - e non importa quale sia il loro aspetto esteriore - per potersi assicurare la vita anche su di una superficie diversa dalla Terra. E chissà se il tempo gli darà ragione. Il Living-pod di David Greene: lʼarchitettura come capsula mobile (Londra 1966) Al filone dei mobile projects, inaugurato dalla Walking City di Ron Herron nel 1964, ovvero nel «megaanno» come lo definisce Banham30, si può sicuramente ascrivere il Living-pod concepito da David Greene nel 1966; con la differenza che mentre la zoomorfa città mobile di Herron trasporta sul suo dorso un numero elevato di capsule residenziali, il piccolo e morbido guscio ideato da Greene è come se fosse una singola unità abitativa staccatasi dalla Walking City31 a seguito di una raggiunta autonomia motoria. Anche per il Living-pod, il processo creativo che conduce al risultato finale del 1966 è il frutto di una serie di evoluzioni progettuali sperimentate dal suo autore a partire dagli inizi degli anni Sessanta. Per questo, al fine di comprendere al meglio il “baccello vivente” di Greene, è opportuno analizzarlo separatamente da un punto di vista formale e funzionale. Lo spiccato organicismo che dà forma alla flessuosa abitazione del Living-pod affonda le sue radici nella “molle” moschea32 pensata nel 1961 dallo stesso componente di Archigram (sulla cui ideazione pesa non poco l’influenza della Endless House di Friedrich Kiesler)33 e soprattutto in un altro suo progetto, sempre del 1961, dal titolo Spray Plastic House34. Quest’ultimo studio, presentato da Greene con uno slogan degno del migliore Le Corbusier - «perché i conigli non scavano tane rettangolari? Perché gli uomini primitivi non realizzavano caverne rettangolari? Supposizione: l’architetto…l’utente [abiterebbero] volentieri in una casa ad un piano in mezzo alla natura» - oltre a sperimentare in maniera estremamente audace le possibilità costruttive offerte dalle materie plastiche (materie che in questo caso sono pensate per essere spruzzate con un macchinario spray), finisce col generare un’abitazione che assomiglia più a una tana che ad un ambiente domestico, tant’è che tale architettura viene appellata con il termine burrowism, cioè “tanismo”. Ma ciò che più colpisce della Spray Plastic House, al di là del procedimento costruttivo che prevede la sequenza di tre fasi distinte (quella iniziale dello scavo, l’intermedia relativa al distacco e infine l’ancoraggio della casa al suolo), è la rappresentazione in sezione di questa moderna grotta di plastica che anticipa la sinuosa articolazione volumetrica del Living-pod. Da un punto di vista funzionale invece il “baccello mobile” di Greene, per via dei numerosi dispositivi high-tech presenti in ogni ambiente della casa, richiama alla mente i congegni automatici sperimentati da Richard Buckminster Fuller nella Dymaxion House nel 1927, quasi quarant’anni prima. In merito a questa analogia Pier Angelo Cetica, in un suo studio sulla figura di Fuller pubblicato nel 1979, si era pronunciato in questi termini: «[…] la forma della Living-pod con la sua imitazione dei supporti del modulo lunare LEM (allora tanto di moda) e con la sua eccessiva organicità, è certamente meno “originale” della Dymaxion, che non imita modelli esistenti, architettonici ed extrarchitettonici, e che si propone come unità iniziale di un processo di ricerca. Il “cosmico” del Fuller 1927 si banalizza nello “spaziale” del Green 1962 [sic]. E di fatto niente altro che un tradimento consumistico della poetica universale di Fuller»35. Ed ancora: «questo paragonare Fuller a Green [sic] è particolarmente utile per assegnare una dimensione corretta a Fuller […] mentre gli Archigram sono bruciati in un attimo ed ormai sono di fatto scomparsi»36. Ora tralasciando gli evidenti errori riguardo la datazione del Living-pod (1966 e non 1962) e il nome del progettista (Greene e non Green) e senza nulla togliere alla straordinaria capacità premonitrice dimostrata nel corso dell’intera attività professionale da Fuller, il giudizio formulato da Cetica è sicuramente ingeneroso e affrettato, dato che, contrariamente a ciò che sostiene, le provocazioni architettoniche di marca utopica innescate da Archigram, sono ancora oggi più che mai vive e oggetto di importanti retrospettive nelle sedi più prestigiose del mondo37. Inoltre quel che nella Dymaxion House è rigorosamente coerente ad una logica scientifica che porta il suo artefice ad affrontare qualsiasi ordine di problema, sia a piccola che a grande scala, seguendo un approccio sistematico e dando alla sua ricerca un valore “cosmico”, nel lavoro di Greene va invece letto non dimenticando la vena pop di cui Archigram è imbevuto, che lo spinge a trarre ispirazione dai campi più vari - dalla science-fiction ai prodotti di largo consumo - fino a sintetizzare le conquiste tecnologiche raggiunte alla sua epoca in una combinazione di architettura e gadget, espressa tout court con il termine gadgetry. Basta dare un’occhiata all’interno del pod per rendersi immediatamente conto dell’ampio repertorio di macchine sofisticate ivi presenti pronte a soddisfare i bisogni dell’abitante; il robot ripetutamente “invocato” da Archigram come elettrodomestico indispensabile per la vita futura dell’uomo, nel Living-pod è ovunque: sottoforma di «apparecchi mobili per lavorare e studiare », di «contenitori ruotanti per il cambio dei vestiti», di «capsule bagno […] totalmente automatiche per la pulizia individuale» e addirittura attraverso dei «distributori dinamici di cibo aventi la possibilità di cucinare autonomamente»38. I materiali impiegati appartengono tutti rigorosamente al mondo della plastica ed inoltre viene fatto un largo uso di elementi pneumatici sperimentati con successo nelle operazioni di aviazione militare dell’epoca39. Tuttavia per quanto in tale progetto sia preponderante la nozione di mobilità, lo stesso Greene arriva a proporne parallelamente una versione più stabile. Infatti se per un verso il Living-pod spinge nella direzione di un’architettura nomadica che affranchi l’uomo dai concetti di immanenza e stabilità, dall’altro non esclude la possibilità di un insediamento urbano immaginando svariati pods impilati in una struttura verticale, soluzione questa che ricorda molto da vicino le curiose e policrome Seaside Bubbles “partorite” dalla felice mano di Ron Herron sempre nel 1966. D’altronde a dispetto di un’apparente mutevolezza ravvisabile nell’attività di Archigram, è possibile rintracciare una sotterranea linea conduttrice tra la visione megastrutturale di Plug-in City (1964) e l’allestimento nomadico di natura ludica di Instant City (1968-69), che ci consente di leggere il Living-pod come ideale anello di congiunzione tra i due progetti suddetti. A tal proposito è significativa una dichiarazione di Greene che pare implicitamente confermare questo legame: «la casa è un dispositivo da portare con sé, e la città è una macchina in cui innestarla»40. Se la prima di queste due affermazioni delinea il percorso che condurrà ad Instant City, passando attraverso le invenzioni progettuali di Mike Webb - rispettivamente il Cushicle (1966-67), una sorta di leggera “armatura” in grado di trasformarsi in un micro-ambiente supportato tecnologicamente, e il Suitaloon (1967), un “abito” polivalente per qualsiasi situazione climatica - la seconda prevede per l’organico guscio una sistemazione urbana, simile alla distribuzione delle capsule di Plug-in City, anche se riguardo all’aggregazione dei pods operata da Greene si ravvisa un limite considerevole, poiché come è stato giustamente notato, il passaggio dalla microscala alla macroscala «non comporta nessuna modificazione dell’alloggio stesso»41. Instant City di Peter Cook, Dennis Crompton e Ron Herron: lʼarchitettura come “attrezzatura mobile” (Londra 1968-69) All’indomani del convegno di Folkestone42, organizzato nella primavera del 1966 con l’intento di riconoscere solennità alla stagione megastrutturale alimentata dalle sperimentazioni metaboliste e archigrammatiche, si scorgono dei latenti segnali di crisi a causa soprattutto dell’imprevisto atteggiamento di Archigram che, invece di confermare la propria adesione al filone della grande dimensione (come aveva dimostrato con i progetti Plug-in City, Walking City e Computor City, tutti nella pagina accanto Archigram (D. Greene), Spray Plastic House, 1961, piante e sezioni. 81 82 Archigram (D. Greene), Living-pod, 1966, plastico. Archigram (R. Herron), Instant City, 1970, apertura dello sky-hook con relativo sganciamento delle attrezzature urbane ivi contenute. in basso a sinistra Archigram (P. Cook), Instant City, 1969, attrezzature trasportate da mongolfiere. Archigram (P. Cook), del 1964 ed ampiamente trattati insieme ad altri mega-studi nel numero cinque della sua rivista), ne prende le distanze, per orientare i propri interessi verso un tipo di architettura incentrata sull’uso esclusivo di strumentazioni tecnologiche avanguardistiche. Infatti nella bucolica cornice del paesino inglese di Folkestone, il gruppo inglese scandalizza il pubblico presente in platea illustrando le anteprime del Living-pod di Greene e del Cushicle di Webb quali inconfutabili segnali del processo di rinnovamento che andava perseguendo. Da questo momento l’atavica nozione di immanenza propria dell’architettura si sgrana progressivamente riducendosi a semplice accessorio applicabile a contesti urbani già esistenti. La sintesi di un postulato così forte, cui si giungerà tra il 1968 e il 1969, prende il nome di Instant City e - come per il complesso studio di Plug-in City del 1964 - è il risultato di svariate sperimentazioni precedenti. È del 1968, infatti, lo studio elaborato da Peter Cook, noto con il titolo di Ideas Circus43: il processo ideativo è il frutto della diretta esperienza che Archigram ha modo di sperimentare in giro per il mondo organizzando “eventi” per mettere in atto i quali ha bisogno di portarsi dietro un’apparecchiatura tecnologicamente avanguardistica. Da qui l’allestimento di una serie di camion che, anziché trasportare gli amplificatori e gli strumenti musicali delle rockstars, contengono una sofisticata attrezzatura urbana per mettere in scena lo 83 84 “spettacolo architettonico”44. Tuttavia tale studio, pur configurando in linea di massima l’ossatura portante di Instant City, viene presto accantonato poiché per la sua attuazione fu ritenuto «troppo ingombrante, lento e [comportante] l’uso di troppi veicoli»45. Pertanto se l’articolazione delle varie fasi che precedono la trasformazione di una tranquilla e assonnata cittadina di provincia in un’elettrizzante metropoli è già tracciata in Ideas Circus (che da un punto vista concettuale richiama alla mente le architetture spiraliformi ideate dall’architetto futurista Virgilio Marchi nella sua Città Fantastica del 1919-20)46, è al volgere del 1968 che per il gruppo inglese si presentano due importanti opportunità per affinare i prototipi tecnologici su cui sta lavorando: il Milanogram e l’Oslogram. Per un verso, dunque, la proposta preparata per la XIV Triennale del capoluogo lombardo nel novembre del 1968 nelle forme di un gigantesco cilindro - il Big Bag - «trasparente e sospeso, lungo diciotto metri di lunghezza [contenente] […] la profezia sulla robotizzata e mobile città del futuro»47, per l’altro il lavoro denominato Oslo-Gram esibito nella capitale norvegese nel dicembre del 1968, attraverso il quale il gruppo inglese ha modo di presentare il Soft-Scene Monitor48, un sofisticato dispositivo elettronico in grado di produrre qualsiasi tipo di architettura o ambiente virtuale selezionabile da chi lo utilizza; e quest’ultimo è considerato dagli stessi membri di Archigram «il padre del più elaborato disegno della macchina-tenda»49 protagonista del progetto Instant City in the field50. A tal proposito è opportuno specificare che non esiste un’unica versione di Instant City, bensì ve ne sono due: una prima del 1969 in cui una serie di mongolfiere, trasportate sul luogo da velivoli, reggono delle tende dotate di tutti i mezzi necessari alla configurazione della temporanea metropoli (e questo è il caso di ciò che si prevede per le cittadine inglesi di Bournemouth e St. Helens ed americane di San Diego e Santa Monica), e una seconda del 1970 nella quale si fa largo l’idea dello skyhook, ovvero di un mega-dirigibile (al quale d’altronde aveva già pensato, seppur in termini diversi, Fuller nel 1927 nello studio Multiple-Deck 4D)51 pronto a calare dall’alto nell’ora del crepuscolo, in un’unica soluzione, le raffinate attrezzature urbane per poi riprendersele e svanire con esse allo spuntar dell’alba. Un significativo punto di contatto tra le due interpretazioni della “Città Istantanea” è rappresentato proprio dalle facilities, ossia dalle infrastrutture da loro congegnate: displays audio-visivi, antenne, amplificatori, pylon-trucks (cioè tralicci innestati su camion), strutture pneumatiche leggere, macchine elettroniche, piattaforme per improvvisare rappresentazioni, torri di servizio e luci elettriche sono gli elementi indispensabili per “iniettare” all’interno delle piccole e provinciali cittadine angloamericane il brioso dinamismo delle metropoli. Come gli autori stessi dichiarano in modo inequivocabile, il loro obiettivo è quello di «coinvolgere il pubblico, eccitandone la fantasia, chiamandolo a collaborare come autore, promotore e attore di eventi imprevisti»52, anche se per un periodo di tempo limitato, variabile da una notte fino ad un massimo di una settimana. L’invasione improvvisa di tutti questi dispositivi non deve però lasciar pensare che tali città, una volta “assediate”, siano messe in secondo piano; al contrario in Instant City si dà largo spazio allo sviluppo delle strutture e delle attività locali (dalle scuole ai negozi ed in generale a tutti i servizi utili per l’inserimento delle attrezzature “metropolitane”), in modo da salvaguardare le specifiche caratteristiche di ogni cittadina e, non ultimo, per garantire un “evento” sempre diverso. Inoltre in questo progetto il gruppo inglese sembra per alcuni tratti quasi abbandonare la vena ironica che lo contraddistingue introducendo, accanto alla nozione di divertimento, una componente didattica e moralistica53 nel coinvolgere alcune scuole del luogo per l’attuazione di tali “eventi”. E dunque chiaro che se nella prima versione del progetto - vale a dire quella del 1969 - già sono espresse le linee sostanziali, l’esigenza di riformularne una seconda edizione si manifesta, come candidamente ammettono i componenti del gruppo anglosassone, perché «[…] non riuscimmo a sfuggire all’incanto dell’idea dell’Instant City che appare da non si sa quale luogo, e una volta esaurito “l’evento”, tira su i suoi lembi e svanisce»54. Ecco allora spiegato da dove viene fuori il gigantesco dirigibile (il giant sky-hook come gli stessi autori amano chiamarlo) simbolo della seconda versione di Instant. Il passaggio dai «camion che corrono come formiche»55 del progetto del 1968, alla soluzione aerea rappresentata da questo enorme dirigibile pronto a sorvolare e a rallegrare, nelle vesti di un moderno e ludico deus ex machina, le “sconsolate” province inglesi, segna la sostanziale novità di Instant City 2. Ma non è l’unica perché sia Cook che Herron elaborano da un punto di vista operativo due soluzioni differenti. Infatti se il dirigibile pensato dal primo si limita a trasportare l’attrezzatura nel suo ventre al fine di srotolarla sulla cittadina prescelta posizionandosi comodamente sopra di essa - procedimento che Cook illustra attraverso sei nitide sequenze temporali56 - quello immaginato da Herron è addirittura in grado di aprirsi nel cielo in tre parti, lasciando cadere il suo contenuto tecnologico sul centro sottostante, anche se resta più di un ombra su come i vari dispositivi high-tech riescano a trovare le collocazioni giuste “piovendo” tutt’insieme all’improvviso dal cielo. In ultima analisi alla luce della complessa elaborazione che informa l’intero iter progettuale di Instant City è inevitabile non leggerlo in parallelo con l’altro complesso sforzo creativo compiuto dal gruppo nel 1964, ovvero Plug-in City, anche al fine di evidenziare il sostanziale cambio di rotta intrapreso. Ebbene, al di là del concetto di architettura a tempo che, come una sorta di fil rouge, lega i due progetti, in quanto i dispositivi tecnologici di Instant City durano al massimo una settimana per ogni luogo così come le diverse parti che costituiscono Plug-in City sono sottoposte ad un’inderogabile tabella di obsolescenza, per il resto la contrapposizione tra essi è netta, come è netta la distanza che separa una megastruttura da un’architettura costituita da una attrezzatura mobile. Da una parte, dunque, la componente hardware di Plug-in City, animata da una “bulimia costruttiva” che si concreta sottoforma di “alveari di capsule”, dall’altra quella software di Instant City che riduce il proprio intervento architettonico ad una serie di sofisticati accessori il cui obiettivo finale è quello di dar luogo ad un evento che dia vita all’ambiente in cui si manifesta (ed in tal senso il celeberrimo concerto di Woodstock appare quasi come una epifania del progetto archigrammatico). E poi come ultimo, ma nient’affatto trascurabile, elemento discriminante c’è l’uomo; proprio quello stesso uomo, che nel 1964 era stato dimenticato e quasi abbandonato tra le gru e gli hovercrafts dell’imponente megastruttura dando per scontato il suo adeguamento ad uno stile di vita così diverso, ridiventa protagonista nella “Città Istantanea” (come d’altronde lo era stato nella mostra Living City tenuta all’ICA nel 1963) scegliendo, seppur virtualmente ma in assoluta autonomia decisionale, il tipo di ambiente urbano che più gli è congeniale. Dunque un Archigram tutto teso alle problematiche sociali o piuttosto si tratta di una intelligente manovra pubblicitaria per richiamare l’attenzione delle istituzioni? Con ogni probabilità la lettura più corretta sta nel mezzo: se il risvolto sociale (ai limiti del buonismo) di “rivitalizzare” le emarginate e spente province anglo-americane con una scarica adrenalinica importata dalla metropoli, così come l’intento didattico da approntare nelle scuole locali, è in una certa misura “caricato” allo scopo di conferire massima forza e diffusione al progetto in questione, del tutto sincera appare invece la volontà di “svegliare” l’intera nazione inglese da quel torpore da cui è attanagliata, frutto di una mentalità storicamente conservatrice. E a ben guardare, uno dei motivi che spinge Archigram ad architettare Instant City lo si evince dalla dichiarazione che i suoi componenti rilasciano affermando che «l’Inghilterra nel prossimo mezzo 85 86 secolo dovrà vivere del proprio brio oppure perire»57. Lo Yamanashi Press and Radio Center di Kenzo Tange: un caso di utopia realizzata (Kofu 1961-66) Uno dei principali architetti e trattatisti del Rinascimento, Leon Battista Alberti, stabilisce nella sua celebre opera in dieci libri sull’architettura - il De re aedificatoria - un insieme di “regole” cui il progettista deve attenersi per poter realizzare una architettura degna di tal nome. Queste regole prevedono l’osservazione di una serie di canoni proporzionali finalizzati all’elaborazione felice e sicura di un’opera, a tal punto che nessuna parte di essa può essere rimossa o aggiunta, senza turbare l’equilibrio raggiunto. Questa condizione di ideale armonia, perseguibile solo seguendo scrupolosamente questo corpus di norme progettuali stabilite a priori (una sorta di regolamento costruttivo ante litteram), viene designata dall’Alberti col termine di concinnitas. Lo Yamanashi Press and Radio Center, concepito da Kenzo Tange a più di mezzo millennio di distanza, incarna la perfetta antitesi dell’edificio ideato secondo il principio della concinnitas: lo sgretolamento di una forma prefissata ed immutabile nel tempo e la costante possibilità di ampliarne - così come di ridurne - le parti che lo compongono, ne rappresentano una indiscutibile dimostrazione. Il luogo in cui si tenta l’ambiziosa operazione di dare forma concreta ad un progetto che condivide molti principi dell’utopia metabolista è Kofu, una piccola città giapponese di circa 100.000 abitanti sovrastata dall’imponente catena del Fujiyama, la cui economia in crescita, legata essenzialmente all’ingente produzione di vino, legittima le aspirazioni di espansione che essa nutre. L’edificio di Tange si connota, inoltre, di un’ulteriore responsabilità in quanto un eventuale fallimento dell’intervento ipotizzato frenerebbe il salto di qualità auspicato dall’intera cittadinanza. Trattandosi, quindi, di un’architettura costruita è fondamentale valutare come il progettista disloca le diverse funzioni. Il primo problema che l’architetto giapponese si trova a dover affrontare riguarda la difficoltà oggettiva di far coesistere all’interno dello stesso edificio i layout di tre società - la testata di un giornale, una stazione radio e uno studio televisivo - che se da una parte sono accomunate dal fatto di essere tutte e tre attive nel campo delle comunicazioni, dall’altra ognuna di esse necessita di propri spazi diversificati. Per tale motivo Tange raggruppa le attività comuni degli uffici, delle aree di produzione e degli studi nella parte alta del complesso, relazionandoli attraverso una fitta combinazione di sistemi di trasporto verticale quali ascensori, scale e montacarichi, non trascurando al contempo le specificità delle singole compagnie: infatti il progettista così come posiziona al pianterreno alcuni ambienti atti ad ospitare i macchinari tipografici, in modo da agevolare al massimo le operazioni di consegna e spedizione tramite delle apposite rampe, nello stesso tempo sta attento a collocare gli studi televisivi - per i quali l’isolamento dall’esterno è fondamentale - in piani senza finestre. Inoltre il mastodontico complesso, dovendo sorgere nei pressi della stazione locale con il chiaro intento di favorirne lo sviluppo, presenta una serie di spazi commerciali sul lato antistante il nodo ferroviario58. Pertanto se la soluzione planimetrica dello Yamanashi Building, totalmente libera di articolarsi attorno alle sedici “torri-servizio” (del diametro di cinque metri) ospitanti tutti i sistemi di collegamento verticale nonché gli impianti necessari al suo funzionamento, non lascia dubbi circa la sua adesione ai concetti di flessibilità spaziale59, lo studio in alzato, pur proseguendo la ricerca di una spazialità in continuo mutamento iniziata in pianta attraverso le suddette torri dalle altezze sempre diverse proprio perché suscettibili di accrescimento nel tempo, risente dell’impiego del calcestruzzo armato a facciavista che non evidenzia un “linguaggio” innovativo, richiamando alla mente piuttosto un’immagine di marca brutalista. Ma vi è di più: da un punto di vista formale e tettonico, l’operazione di Kofu appare K. Tange, Yamanashi Press and Radio Center, Kofu, 1961-66, foto. 87 88 per certi versi ancora impreparata a compiere quel passo che le consentirebbe di tagliare i ponti col passato. Le visioni spregiudicate dei suoi colleghi metabolisti che, parallelamente, arrivano a proporre sistemi costruttivi ben più audaci, sebbene spesso non adeguatamente sostenuti da studi di dettaglio, subiscono una brusca frenata nel Centro di Comunicazioni di Tange, il quale, con ogni probabilità, temendo un impatto troppo duro nei confronti del tessuto urbano esistente, rinuncia all’adozione di un linguaggio “rivoluzionario” (che pure aveva usato nel 1960 per il Piano per la baia di Tokyo)60 riproponendo, sotto mentite spoglie, un funzionamento strutturale di tipo trilitico. Eppure il tradizionale sistema costruttivo, cui l’architetto giapponese fa ricorso al fine di mediare l’impatto della sua megastruttura con il contesto circostante, non serve a evitare la stroncatura di un storico del calibro di Manfredo Tafuri. Il giudizio di quest’ultimo sull’intervento di Tange è senza mezzi termini: «Architetture come lo Yamanashi Building a Tokyo […] non possono in alcun modo entrare a far parte di un’osservazione distratta della città. Il loro violentare, con la pregnanza e la allusività delle immagini e delle strutture, i ritmi comuni dell’esistenza quotidiana, il loro enfatizzato alludere ad uno spazio diverso se non opposto a quello della vita comune, il loro chiudersi nell’ambito delle loro forme, esprimono la volontà di proteggersi da ogni azione del mondo esterno avvolgendosi nell’hortus conclusus di una meccanica autosufficiente di forme. È inutile nascondere la verità: si potranno salutare queste, e molte altre opere simili, come autentici capolavori, ma è indubbio che ciò che è alla loro base è la paura di partecipare ad un processo tutto risolto nella fruizione e nel consumo»61. Di tono decisamente diverso è, invece, la disamina di un altro insigne storico dell’architettura, William J.R. Curtis, per il quale la megastruttura di Tange «[…] flirtava con l’idea di cambiamento totale, mentre conservava ancora la dignità elementare di una composizione finita: suggeriva il carattere di un moderno meccanismo tecnologico, pur continuando a richiamare la tradizionale costruzione in trave e pilastro. Teneva le forze del tradizionalismo e del futurismo, così fondamentali per il Giappone del Dopoguerra, in un equilibrio ansioso»62. Verrebbe allora da chiedersi: lo Yamanashi è “un’utopia” felicemente compiuta o è piuttosto un intervento progettuale smisuratamente autoreferenziale? Le due critiche, poste volutamente a confronto e sostanzialmente antitetiche, sembrerebbero neutralizzarsi a vicenda, il che ci fa sorgere il dubbio che entrambe colgano un frammento di verità: se è vero infatti che l’intervento di Tange tradisce alcune aspettative di fondo e probabilmente è un edificio che, nonostante si affanni a mostrare i suoi legami con l’architettura tradizionale (il sistema trilitico di cui si diceva), dialoga essenzialmente con se stesso, in un atteggiamento solipsistico, è parimenti evidente il tentativo, ammirevole, dell’autore di applicare ad una realtà concreta i principi rivoluzionari di marca metabolista che informano il suo progetto: si può forse negare che l’accrescibilità in altezza delle sedici torri e degli spazi, volutamente lasciati vuoti tra di esse, non traducano in termini concreti proprio quell’idea di infinitezza dell’architettura e della flessibilità spaziale sperimentata fino ad allora solo sulla carta? E infine, stando ai fatti, lo Yamanashi Building non ha poi generato quella “crisi di rigetto” che i suoi detrattori temevano, visto che ancora oggi, nonostante siano stati apportati degli ampliamenti già dal 1974, contraddistingue con la sua mole, lo skyline della città di Kofu. La torre Nakagin di Kisho Noriaki Kurokawa: un altro caso di utopia realizzata (Tokyo 1971-72) Gli innumerevoli interessi fioriti durante gli anni Sessanta riguardanti l’affascinante tema della capsula trovano, nella torre realizzata da Kurokawa nell’affollato snodo commerciale di Nakagin63, una testimonianza tanto significativa quanto tangibile. Forte dei principi che hanno ispirato la stragrande maggioranza delle “visioni” vagheggiate da Metabolism, secondo cui l’architettura è il risultato di un processo biologico caratterizzato da una ciclica trasformazione delle sue parti nel tempo, Kurokawa, pur ridimensionando gli aspetti più radicali di tale poetica, prova agli inizi degli anni Settanta a tradurre in termini concreti64 più di un decennio di sperimentazioni progettuali avvenute su un piano sostanzialmente teorico, diffuse in tutto il mondo attraverso il pamphlet dal titolo Metabolism 1960 Proposals for a New Urbanism. E sebbene l’architetto giapponese avesse già condotto delle ricerche sul tema dell’Existenz-minimum, poiché nel 1962 aveva elaborato alcuni sistemi di assemblaggio di cellule abitative per l’Hotel di Osaka, la torre Nakagin si differenzia notevolmente da questa precedente esperienza alla luce delle ricerche incentrate sull’elemento capsulare effettuate da Archigram (la Capsule Unit Tower del 1964) e da Moshe Safdie (l’Habitat presentato all’Esposizione Mondiale di Montreal del 1967). L’impianto planimetrico dell’edificio concepito da Kurokawa si presta complessivamente ad una lettura abbastanza agevole: attorno alle due torri di altezza diversa in cemento armato si snodano per dodici piani circa centoquaranta parallelepipedi - le cui dimensioni basate sul tatami sono di 2,5x4 per un’altezza di 2,5 metri - realizzati in acciaio leggero e coperti con pannelli di acciaio zincato. Trattandosi di uno spazio così ristretto (anche se è prevista la possibilità di ampliare la singola capsula connettendola con una adiacente mediante la semplice rimozione di un pannello), il progettista giapponese destina le varie cellule ad un uso residenziale ma non nel senso tradizionale di casa unifamiliare; come egli stesso dichiara, i mini-alloggi della Nakagin sono pensati per uomini di affari che, non vivendo a Tokyo, non hanno il tempo di ritornare a tarda notte nelle loro abitazioni, tant’è che al primo piano della costruzione è presente un ristorante che può fungere da luogo ideale per le cene di lavoro. Lo spazio interno del piccolo parallelepipedo, che dall’esterno dà l’idea di una “lavatrice” ipertrofica, è studiato con la massima attenzione allo scopo di “capitalizzarne” ogni centimetro quadrato: per questo motivo gli arredi sono concepiti come elementi componibili realizzati seguendo un rigoroso processo di prefabbricazione. La cellula è costituita, dunque, da un unico ambiente in cui rispetto alla porta d’accesso, da un lato vi è una moderna e iperautomatizzata stanza da bagno65, mentre dall’altro campeggia per tutta la lunghezza della parete una console pluriaccessoriata dotata di un tavolo da lavoro, di piccoli vani per riporre oggetti e di una vasta gamma di dispositivi audio-visivi. In asse all’ingresso viene inoltre posizionato il letto, sormontato dall’unica apertura della capsula che, come nelle cabine delle navi, ha la forma di un oblò. Manca l’angolo cottura anche se c’è la possibilità, su richiesta, di aggiungere un frigorifero e un lavello. Non facoltativo è invece l’impianto di aria condizionata che, in considerazione dell’unica apertura, si configura come un elemento indispensabile per la vivibilità dell’alloggio. L’aspetto esteriore della Nakagin è contraddistinto dalla distribuzione dinamica delle singole cellule attorno ai due corpi turriti contenenti i sistemi di collegamento verticale e gli impianti tecnologici; per di più, grazie alla disposizione sfalsata e pluridirezionale dei centoquaranta alloggi ai diversi livelli dell’edificio, l’architetto giapponese riesce ad ottenere in prospetto un’articolazione dei volumi animata ancora una volta da un movimento che ricorda la spirale66. Ma, come precedentemente accennato, l’immagine esteriore della Nakagin richiama alla mente sia l’Habitat di Safdie che le Capsule Homes di Archigram. Ed in effetti, se la composizione dinamica delle capsule abitative di Kurokawa ricorda la stereometria, apparentemente disordinata e giocosa, del complesso architettonico elaborato per l’Expo di Montreal del 1967 dal progettista israeliano, decisamente diversa è l’articolazione degli spazi interni delle abitazioni, in quanto dovendo accogliere interi nuclei familiari, Safdie non ricerca il minimum vivendi, optando per 89 nelle pagine successive K.N. Kurokawa, Nakagin Tower, Tokyo, 1971-72, foto. M. Safdie, Habitat (per l’Esposizione di Montreal del 1967), Montreal, 1967, foto. Archigram (W. Chalk), Capsule Homes, 1964, pianta. Archigram (W. Chalk), Capsule Homes, 1964, prospettiva dall’alto di una capsula abitativa. Archigram (W. Chalk), Capsule Unit Tower, 1964, prospetto. una distribuzione spaziale più ampia e tradizionale. Per quanto riguarda, invece, il confronto con le Capsule Homes ideate da Archigram ed, in particolare, da Chalk nella Capsule Unit Tower del 1964, i termini del discorso sono ribaltati: se per un verso è vero che la disposizione radiale delle capsule intorno ad una struttura centrale in cemento armato ci restituisce un disegno decisamente più ordinato e statico rispetto alla torre di Kurokawa, per l’altro si riscontra una certa analogia riguardo la singola cellula che, per quanto dissimile per geometria e per altezza - essendo cuneiforme e duplex - presenta una equivalente ideazione nell’uso degli elementi di arredo caratterizzati da un alto grado di automatizzazione (si pensi alla soluzione del bagno) e nell’adozione di un linguaggio che occhieggia alla conformazione delle navicelle spaziali. Inoltre anche nella Nakagin, come d’altronde già nella Capsule Tower di Chalk, riveste una notevole importanza l’idea della rapida sostituibilità dell’intera capsula dopo un determinato periodo di tempo, dal momento che quest’ultima può essere agevolmente assemblata in cantiere (si noti ancora una volta l’analogia con il container in acciaio Archigram (W. Chalk), Capsule Homes, 1964, esploso assonometrico di una capsula abitativa. delle navi da commercio)67 per poi essere trasportata in situ e posizionata mediante una gru nel luogo prestabilito68. In una tale logica costruttiva, l’operazione più delicata diventa il posizionamento dei fori sui due corpi turriti in cemento armato grazie ai quali è possibile stabilire l’aggancio di ciascuna cellula. Queste considerazioni sembrerebbero, quindi, comprovare il ruolo primario che la prefabbricazione viene ad assumere nel progetto di Kurokawa; e invece, sebbene la lavorazione industriale ricopra un compito significativo all’interno del processo costruttivo, come dichiara egli stesso, essa non rappresenta l’aspetto principale del progetto. Difatti Kurokawa tenta la non facile impresa di coniugare la tradizione architettonica giapponese con le nuove possibilità costruttive offerte dal progresso scientifico69. In tal senso la tecnologia diventa mezzo e non fine: egli non giudica il procedimento industriale il migliore in valore assoluto, ma lo utilizza in quanto è l’unico che gli consente di perseguire quella condizione di costante cambiamento, di metamorfosi, cui è soggetta la vita umana, compresa l’architettura. Non a caso il gruppo cui l’autore della Nakagin appartiene - Metabolism ossia trasformazione70 - sostiene appunto un tipo di architettura aperta e mutevole, in linea con la visione scintoista dell’eterno cambiamento che non ammette edifici “immortali” come avviene in Occidente; d’altra parte questa interpretazione del mondo porta a concepire la città intera come un grande organismo biologico sottoposto alle leggi universali di vita e di morte. È lo stesso Kurokawa a chiarire questo concetto: «[…] l’universo è una moltitudine di “io” chiamati jiga, i quali sono collegati tramite degli incontri casuali chiamati en. Tradotto in […] [lingua occidentale], jiga significa volontà, ego, cellula, elemento vivente. En sta per media [nel senso di massa], dove hanno luogo incontri e scambi. Il mondo è dunque una giustapposizione di libere volontà, che talvolta convivono in armonia e talvolta in conflitto all’interno dell’en»71. Tale affermazione diviene ancor più esplicita alla luce della definizione che il progettista dà della capsula: «[…] la capsula è un elemento autosufficiente come una cellula vivente, un’entità funzionante, un’unità spaziale densa di significato con un proprio ciclo di vita. Essa vive e muore, mentre l’en è sempre lì a servirsi di nuove cellule. In modo analogo, le capsule possono essere sostituite o distrutte per far posto a nuove capsule»72. In fin dei conti l’estroso architetto giapponese non nasconde il vero obiettivo della sua ricerca filosofica-architettonica: proporre gradualmente un nuovo modello di abitazione - la capsula - che, andando a sostituire il tradizionale e obsoleto concetto di casa “stabile”, produca un rinnovato modello di vita per l’uomo del domani, un uomo da lui ribattezzato Homo Movens73. Il Monumento Continuo di Superstudio (Firenze 1969) e la No-stop city di Archizoom (Firenze 1970-72): due commenti critici sul tramonto dellʼutopia megastrutturale A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, se per un verso si assiste in tutto il mondo alla elaborazione di un vasto corpus di progetti megastrutturali (i cui avamposti più significativi, come si è detto, possono essere considerati il Giappone e l’Inghilterra)74, per l’altro si segnala la posizione accorta, ai limiti della “diffidenza”, assunta dall’Italia che non solo produce molto di meno in tal senso, quanto sottopone ad una rigorosa revisione critica tutto quello che le riviste dell’epoca propongono sovente con smisurato entusiasmo. Pertanto la risposta italiana si orienta in una direzione più cauta rispetto alle coeve sperimentazioni tecnico-formali internazionali, trincerandosi dietro una “roccaforte critica” che le consente di affrontare il tema della grande dimensione ponendo maggiore attenzione al rapporto città-territorio75. In questo clima culturale solcato da venti di rinnovamento, il concorso per il quartiere Cep alle Barene di San Giuliano a Mestre (1959) rappresenta un’occasione irrinunciabile per testare in concreto le premesse teoriche appoggiate dall’intellighentsia nostrana e che vede nella soluzione formulata dal gruppo di architetti capeggiato da Ludovico Quaroni la proposta più brillante, sia dal punto di vista formale - si pensi allo straordinario schizzo delle residenze che riflettono la propria immagine nelle acque della laguna veneziana - che per la sua aderenza al territorio. E che questa linea metodologica prestasse attenzione al contesto trova conferma in una dichiarazione di Gianluigi Piccinato, Vieri Quilici e Manfredo Tafuri pubblicata su “Casabella-Continuità” nel 1962: «la città-territorio, proprio per essere un metodo di sviluppo dinamico; proprio per la sua nuova forma, che si concretizza addirittura in una variabilità dei suoi stessi limiti; nella sua aderenza totale ai processi continui e variabili della realtà, è la negazione di ogni astrazione utopistica e idealizzante. È, se si vuole, il superamento di un atteggiamento razionalistico che pretende di calare soluzioni aprioristiche su strutture che non vengono analizzate caso per caso nella loro complessità»76. Dopo l’exploit di San Giuliano, e fatta eccezione per un altro progetto quaroniano per il Centro Direzionale di Torino (1963) che, come afferma Banham, rappresenta «il culmine e la pietra tombale della fase pionieristica della megastruttura in Italia»77, il Belpaese ripiomba in una situazione di attesa, di semiquiescenza, dando l’impressione di limitarsi ad osservare da una finestra cosa accade al di là dei suoi confini geografici, tant’è che bisogna aspettare la fine del 1966 per scorgere dei tangibili segnali di risveglio nei confronti dell’utopia megastrutturale. A tal proposito occorre dire che lo scenario che si configura in tale arco temporale è estremamente complesso ed eterogeneo: se da un lato l’utopia diventa realtà, attraverso la realizzazione di alcuni frammenti urbani, quali le Vele di Secondigliano e la discussa Città Nolana progettati dall’architetto Francesco di Salvo - rispettivamente nel 1968 e nel 1970 - e il più tardo Corviale (1973), moderno “acquedotto romano” nelle forme di un mega-edificio, concepito dal gruppo cui fa capo Mario Fiorentino78 al fine di ricucire brani di periferia disastrata, dall’altro emerge con forza un tipo di utopia concettuale, frutto dell’attività critica dei gruppi radicali fiorentini79 di Superstudio (Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Gian Piero Frassinelli, Alessandro e Roberto Magris) e di Archizoom (Andrea Branzi, Paolo Deganello, Massimo Morozzi, Gilberto Corretti, Dario e Lucia Bartolini), il cui debutto avviene attraverso la celebre mostra dal titolo Superarchitettura80, organizzata dal 4 al 17 dicembre del 1966 nella galleria Jolly 2 di Pistoia. E però in queste ultime - ovvero nelle architetture non realizzate o, se si vuole, in quelle provocatoriamente non realizzabili - che il contributo italiano assume un peso davvero rilevante, favorendo il tramonto dell’utopia megastrutturale. Infatti uno degli aspetti più interessanti degli assunti dei due gruppi radicali consiste proprio nell’opporre, al caleidoscopico mondo dei tanti progetti di sapore utopistico diffusi in quegli anni, un’idea di architettura come momento di riflessione, una “pausa costruttiva” cui però fa da contrappunto una «fisicità critica»81 con la quale s’intende risemantizzare la nozione di architettura dalle sue fondamenta portandola ad un grado zero. Da qui la difficoltà di denominare l’area culturale in cui agiscono i suddetti gruppi, etichettata nel corso della loro attività in molteplici modi: da contro-design ad architettura concettuale, da utopia a neo-monumentalismo, da tecnologia povera a nomadismo. Ed è in una tale incertezza attributiva che risulta chiarificatrice la definizione di architettura radicale data da Andrea Branzi: «la radical architecture si colloca all’interno del più generale movimento di liberazione dell’uomo dalla cultura, intendendo per liberazione individuale dalla cultura la rimozione di tutti i parametri formali e morali che, agendo come strutture inibitorie (inibitorie in quanto non autoprogettate), impediscono all’individuo di realizzarsi compiutamente. La radical architecture si colloca all’interno di questo 93 Archigram (W. Chalk), Capsule Homes, 1964, assonometria dell’impilaggio di capsule abitative. 94 Superstudio, Monumento Continuo, New New York - Rockefeller Center, 1969, fotomontaggio. Superstudio, Monumento Continuo, New New York, 1969, fotomontaggio. 95 96 pensiero e tende a ridurre a zero tutti i processi di progettazione, rifiutando il ruolo di settore disciplinare impegnato a prefigurare, attraverso le strutture ambientali, un futuro già codificato»82. L’obiettivo principale della ricerca condotta dagli architetti radicali sta dunque proprio nel recupero di «quell’architettura misteriosamente scomparsa»83, per riconquistare la quale è necessario fare tabula rasa di tutto ciò che ha “corrotto” le città attuali. Gli studi che meglio esemplificano la loro “crociata” etico-architettonica sono il Monumento Continuo e la No-stop City, concepiti rispettivamente da Superstudio nel 1969 e da Archizoom nei primi anni Settanta (1970-72). L’operazione critica di Superstudio non è altro che una gigantesca struttura di vetro trasparente in grado di sovrapporsi, per una lunghezza smisurata, a territori sia naturali che costruiti «attraversando deserti […] canyons, laghi alpini», così come città quali Coketown, Graz, Firenze e New York con il fine di «dar forma alla Terra misurandola come i paralleli e i meridiani»84; tale superstruttura, inoltre, è talvolta caratterizzata da grandi “asole” dalle quali, come nel caso di New New York (sicuramente l’immagine più nota del loro studio) spuntano fuori lembi di città esistente. È fuor di dubbio che per comprendere la portata del Monumento Continuo è necessario, innanzitutto, cercare di decifrare i simboli che vi si celano: se la superstruttura che scavalca la baia di Hudson, congiungendo Brooklyn e New Jersey, si connota non solo come un imperioso segno progettuale ma anche come un “mezzo” indispensabile per ridare un ordine cosmico al territorio urbano, il frammento di grattacieli circondato da queste enormi pareti di vetro, testimone del «tempo in cui le città si costruivano senza un unico disegno»85, simboleggia il caos. Di pari importanza è, inoltre, il rapporto che Superstudio instaura con la storia: difatti nelle ottanta sequenze che corredano “un film per il Monumento Continuo”, il gruppo italiano elabora un lungo e affascinante racconto dimostrativo con il quale, ripercorrendo la storia dell’uomo attraverso la realizzazione di opere architettoniche che hanno contraddistinto il suo cammino fino ai tempi odierni, desidera porre idealmente in relazione i dolmen, i menhir e le piramidi con la superstruttura ideata, in quanto «tutte architetture originate da un singolo atto e da un unico progetto»86. C’è, infine, un’ulteriore considerazione che vale la pena di rimarcare: anche se Superstudio vuole dichiaratamente evitare di proporre un progetto architettonico che possa realizzarsi in concreto, il suo studio si diffonde rapidamente in tutto il mondo, alimentando la fantasia di altri progettisti: è singolare, infatti, la coincidenza che vede, sempre nel 1969, gli architetti britannici, Mike Mitchell e Dave Boutwell, elaborare la proposta di un’enorme megastruttura denominata Comprehensive City87 che, tenuto conto delle sue sconfinate dimensioni - talmente grandi da ricoprire la distanza tra New York e San Francisco - sembra essere la versione costruita della superstruttura ideata dal gruppo radicale italiano. La critica contenuta nella No-stop City di Archizoom rinuncia invece alle visioni surreali vagheggiate da Superstudio, per puntare molto sull’idea di una città controllata dai sistemi elettronici, operazione in un certo senso già formulata da Crompton nello studio Computor City del 1964, in cui i sensori costituivano i cardini attorno ai quali ruotavano tutte le funzioni urbane. No-stop City è immaginata come uno spazio dilatato e indifferenziato, completamente cablato e climatizzato in cui, data l’estrema mobilità che la caratterizza, risulta problematico - benché possibile - trovare dei punti di riferimento; il modello cui si guarda, con un sentimento più di critica che di approvazione (tant’è che si è parlato di utopia negativa) è il supermarket, per via della sua spazialità anonima nella quale le persone e gli oggetti “fluttuano” liberi da vincoli. Anche per lo studio di Archizoom abbondano le metafore: come ha notato François Burkhardt, il lavoro del gruppo radicale fiorentino, conferendo massimo rilievo ai flussi e alle relazioni della società moderna, elimina le differenze tra architettura e urbanistica presentandoci un unico e indistinto spazio da progettare88; secondariamente No-stop City promuove uno spazio nomadico per gli uomini e gli oggetti, rinnegando la «logica dell’Existenz-minimum, fatta di muri e barriere» ed, in ultima istanza, proclama la morte «dell’architettura tradizionale intesa come composizione di oggetti, di forme e stili» a vantaggio di tutto ciò che è «immateriale, effimero [e] mutevole»89. Da tali osservazioni si scorgono ancora una volta alcuni punti di tangenza con gli “imperativi nomadici” sostenuti da Archigram: urbanizzare il territorio il meno possibile in senso fisico (il che vuol dire accantonare l’aspetto hardware dell’architettura) favorendo di contro l’uso di elementi puntuali e mobili, in grado di garantire la massima flessibilità urbana e privilegiando in questo modo la componente software. E non c’è da meravigliarsi se, alla resa dei conti, il campo nel quale i gruppi radicali italiani proseguiranno le loro rivoluzionarie ricerche, ottenendo straordinari risultati anche da un punto di vista “pratico”, sarà quello del design. Ma questa è un’altra storia. 1. L’alterna attribuzione del progetto Plug-in City a Cook e al gruppo nella sua totalità è dovuta al fatto che, come per altri studi di Archigram, esso è il risultato della collaborazione di tutti i suoi componenti allo sviluppo di un’idea individuale che, in questo caso, è da ascrivere a Cook. 2. «Un dispositivo che è inserito in un recettore per stabilire una connessione elettrica tra i conduttori che sono collegati al recettore e i conduttori del filo adattabile attaccato al plug», in C.M. Harris, Dictionary of Architecture and Construction, New York 1975, p.31. 3. Si ricorda che il progetto per l’Exhibition Tower di Peter Cook fu commissionato dalla Taylor Woodrow Construction Company per l’Esposizione Mondiale di Montreal del 1967. 4. P. Cook, Archigram, cit., p.38. 5. Ibidem. 6. Ivi, p.37. 7. Il concetto di obsolescenza connesso all’architettura non è nuovo: il Fun Palace di Cedric Price del 1962 definisce l’intera architettura deperibile in dieci anni. Tuttavia Price sembra più interessato alla elaborazione di un oggetto ludico e manifestamente provocatorio che a rinnovare il linguaggio architettonico come prova a fare Archigram. 8. Cfr. A. Sant’Elia, Manifesto dell’architettura futurista, Milano 11 luglio 1914, in E. Godoli, Il Futurismo, cit., p.185. 9. P. Cook, Experimental Architecture, cit., p.16. 10. Ibidem. 11. Id., Archigram, cit., p.41. 12. P.R. Banham, Megastructure..., cit., p.106. 13. A proposito della possibilità di far convivere il nuovo con la tradizione, Cook dichiarò: «Una casa di plastica rimane una casa, la Plug-in City rimane una città, la strada in un tubo rimane una strada. Ma accanto a questa via di sviluppo verso qualcosa di più casuale e indeterminato, riemerge il tipico atteggiamento inglese di assorbire il nuovo nel tradizionale. Possiamo vedere nel nostro stesso lavoro la tendenza a porre in relazione il progetto con la realtà di ciò che già conosciamo. È interessante vedere Plug-in City applicata ad una preesistente parte di Londra e un intero plug-in concept sviluppato in un dialogo tra conservazione e creazione di zone che possono continuare ad essere conservate mentre appaiono drammaticamente nuove […]. Questo senso di compatibilità del nuovo (persino dello sperimentalmente “nuovo”) con l’antico è un carattere essenzialmente inglese. Comunque esso non sembra impedire il radicalismo della ricerca», in P. Cook, Experimental Architecture, cit., pp.90-91. 14. Con ogni probabilità il premio Nobel conferito a Giulio Natta nel 1963 per la scoperta del polipropilene deve aver “rallegrato” i membri di Archigram speranzosi di sfruttare i vantaggi che l’uso delle materie plastiche avrebbe procurato, una volta immesse nel circuito della prefabbricazione edilizia. 97