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LE METAMORFOSI DI BONIFACIO:
OMBRE E FURORI NEL CANDELAIO DI GIORDANO BRUNO
By
ALESSIO LERRO
A thesis submitted to the
Graduate School-New Brunswick
Rutgers, The State University of New Jersey
in partial fulfillment of the requirements
for the degree of Master of Arts
Graduate Program in Italian
written under the direction of
Professor LAURA SANGUINETI WHITE
and approved by
________________________
________________________
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New Brunswick, New Jersey
MAY, 2011
ABSTRACT OF THE THESIS
LE METEMORFOSI DI BONIFACIO:
OMBRE E FURORI NEL CANDELAIO DI GIORDANO BRUNO
By ALESSIO LERRO
Thesis Director:
Laura Sanguineti White
My thesis is a comparative reading of two major works by the Italian philosopher
Giordano Bruno: Il Candelaio (The Candle Bearer) and De Umbris Idearum (The
Shadows of Ideas). The two texts were published in the lapse of three years and
scholarship has for the major part interpreted the Candle Bearer, which is a comedy, in
light of the philosophy of images exposed by Bruno in The Shadows of Ideas. IN this
view, the literary work was an expansion of the philosophical discourse. In my thesis I
counter this reading reverting the approach: I thus read the philosophical work in light of
the images built by Bruno in his literary text.
ii
The goal of my analysis is to show how Bruno introduced into the philosophical
discourse strategies belonging to the dynamics of literature and how these strategies
modify the epistemological foundations of the philosophical discourse itself. My analysis
is based on the comparison of those images in the two texts which reciprocally complete
each other and at the same time undermine their epistemological validity. I explore how
The Shadows of Ideas is constructed according to a model of which The Candle Bearer is
the original mold and thus how Bruno turns the philosophical discourse into a process of
interpretation of figures of speeches, images, and rhetorical devices.
This reading of these two early Bruno’s works proposes to illustrate how, on the level of
the production of speech and writing, at the end of the 16th century the philosophical
speculation becomes progressively a matter of self-reflection on the epistemological
foundation trough which philosophy strives to represent its object. In conclusion of my
thesis, I argue how literature represents for philosophy the gateway to a new nuanced and
mystifying language which blurs the borders between words and images, speech and
writing. In the last instance, Bruno’s works are an ideal bridge that joins the pinnacle of
the Renaissance to the upcoming age of Baroque.
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Indice
1. Una Nuova Epistemologia
2. Dall’Ozio alla Pazzia
3. Dove finisce l’Ombra, dove inizia il Furore
4. Il Candelaio e le Ombre
5. I Masterplots del Candelaio
6. Le Tappe di un Percorso
1
Le Metamorfosi di Bonifacio: Ombre e Furori ne Il Candelaio
1. Introduzione: Una Nuova Epistemologia
Nel presente lavoro prenderò in considerazione alcuni aspetti tematici e strutturali del
Candelaio di Giordano Bruno, nel tentativo di illustrare, e possibilmente spiegare, i
motivi di una certa idiosincrasia critica circa la posizione ed il significato del testo
nell’ambito della nuova filosofia nolana in generale, e nel cosiddetto ciclo delle opere
italiane in particolare. Il Candelaio apre tale ciclo nel 1582, ed assume pertanto una
posizione rilevante in quanto inizio. Tale ciclo si concluderà nel 1585 con la
pubblicazione degli Eroici Furori. L’unicità della commedia nell’intera opera bruniana
spesso suscita interpretazioni o a posteriori, o anteriori che ne diminuiscono il valore
incoativo. L’opera, in altre parole, si presta ad essere letta ora alla luce dei testi che la
precedono, ora a quella dei testi che la seguono in ordine cronologico. Il Candelaio è, infatti,
sia la prima opera di un ciclo, ma anche la prima ed ultima opera spiccatamente letteraria
di Bruno. Il testo possiede una particolare temporalità (di inizio e di fine) che produce
un moto sia centrifugo che centripeto. L’appartenenza ad un “ciclo” apre il testo
all’associazione e contestualizzazione all’interno di una famiglia di testi. Allo stesso
tempo peró, l’eccezionalità del genere, unita alla sofisticata orchestrazione dei piani
narrativi, rende il testo un unicum nel sistema bruniano. In senso centrifugo il testo
spinge verso una lettura intratestuale e, contemporaneamente, in senso centripeto, ad
un ripiegamento su se stesso.
Il Candelaio non può essere letto esclusivamente in nessuno dei due sensi, ma
piuttosto in quella che bruno definirebbe una zona d’ombra, ovvero di soglia tra le due
Lerro 2
controtendenze: una verso la iper-clarificazione del testo, una verso la sua enigmaticità.
L’operazione preliminare che pertanto bisogna eseguire è trovare il punto di contatto
tra il microcosmo del testo ed il macrocosmo della nova filosofia nolana. Il punto di
partenza della presente ricerca è l’individuazione di Bonifacio come figura di
intersezione di due estremi. La mia tesi è che il “candelaio” viene rappresentato come il
protagonista di una metamorfosi tra due poli epistemologici l’ombra e l’ (eroico) furore.
Una tale lettura è in parte in controtendenza con una consolidata tradizione
critica che legge nel personaggio di Bonifacio esclusivamente l’oggetto di una satira
sulla falsa conoscenza, l’ignoranza, e le infruttuose passioni amorose. A questa lettura,
vorrei accostare un’altra possibile interpretazione: ovvero che il Candelaio proponga,
attraverso la letteratura, un modello di epistemologia poetica autoriflessiva. In altre parole,
mi interessa analizzare come attraverso la costruzione di un reticolato di metafore,
simboli e figure, Bruno renda instabili i confini del filosofico e del letterario da un lato, e
e come Bruno ricerchi una forma di scrittura che non sia descrittiva di un’idea, ma
piuttosto una costante meta-critica sul prodursi del discorso stesso dall’altro.
Il
presente lavoro nasce da un interesse per le opere italiane di Bruno e per il Candelaio in
particolare. Alcuni degli spunti critici sono frutto della lettura di due fondamentali
lavori di Nuccio Ordine su Bruno: La Cabala dell’Asino e La Soglia dell’Ombra1. Questi due
testi hanno il merito di avere disegnato in maniera organica una mappa di due
Nuccio Ordine, La Soglia Dell'ombra : Letteratura, Filosofia E Pittura in Giordano
Bruno, Biblioteca (Venezia: Marsilio, 2003). e Nuccio Ordine, La Cabala Dell'asino :
Asinità E Conoscenza in Giordano Bruno, Teorie & Oggetti Della Letteratura 12, 2. ed.
(Napoli: Liguori, 1996).
1
3
questioni fondamentali dell’opera Bruniana: l'animalità (con particolare riferimento
all’asino) e il rapporto tra il Candelaio e gli Eroici Furori.
Nelle pagine che seguono intendo porre alcune domande ai testi di Bruno che
parzialmente problematizzano le tesi sviluppate da Ordine. In primo luogo, sono
convinto che la rete di figure costruita da Bruno non permetta una chiara distinzione tra
cattiva e buona asininitá, ed il Candelaio è in questo senso il testo emblematico. In
secondo luogo, pur sposando la tesi di una stretta parentela tra il Candelaio e gli Eroici
Furori, vorrei fornire una lettura diversa del personaggio di Bonifacio e del suo
“antagonista” Gian Bernardo.2
Non occorrono complesse elaborazioni critico filosofiche per dimostrare come il
Candelaio sia consapevolmente un’opera che disattende le aspettative del lettore attraverso
una vertiginosa moltiplicazione dei piani narrativi e linguistici. È d’altronde lo stesso
Bruno (o meglio la voce sconosciuta che prende la parola) in conclusione del Proprologo
a far notare come “in conclusione, vedrete in tutto non esser cosa di sicuro: ma assai di
negocio, difetto a bastanza, poco di bello, e nulla di buono.”3 Sono molti i punti in cui il
testo si mostra auto-consapevole. Il Candelaio iscrive il lettore dentro un sistema figurale
che richiede una propria epistemologia. Osserviamo il seguente brano:
Dove è ito quel farfante, schena da bastonate, che dovea far il prologo? Signori, la
comedia sará senza prologo; e non importa, perché non é necessario che vi sii: la
materia, il suggetto, il modo ed ordine e circonstanze di quella, vi dico che vi si
farran presenti per ordine, e vi sarran poste avanti a gli occhi per ordine; il che é
La tesi fondamentale sviluppata da Ordine è che Gian Bernardo sia l’alter ego di
Brunno nella commedia e che sia una sorta di pittore-filosofo che prefigura il
rovesciamento che avverrá nei furori con la figura del filosofo-pittore.
3Giordano Bruno and Giovanni Aquilecchia, Opere Italiane, Classici Italiani, 2 vols.
(Torino: UTET libreria, 2007). Vol I, p. 281
2
Lerro 4
molto meglio che si per ordine vi fussero narrati. Questa è una specie di tela,
ch’ha l’ordimento e tessitura insieme: chi la puó capir, la capisca; chi la vuol
intendere, l’intenda. (Candelaio, 276)
Questo è l’inizio del Proprologo, situato tra l’Antiprologo ed il breve monologo del
“bidello”. La voce parlante non è identificabile ed esordisce chiamando in causa una
terza voce (se contiamo anche quella dell’antiprologo) che dovrebbe invece parlare e
non lo fa. La confusione delle voci riflette la confusione della natura stessa del brano: se
da un lato la posizione che occupa è quella che spetterebbe al prologo, dall’altra il
branod dichiara apertamente la sua assenza. In qualche misura, la misteriosa voce
parlante si afferma per poi negarsi, ponendo il problema di dove e come iniziare la
commedia, il cui incipit vero e proprio (il primo atto) sembra essere continuamente
dilazionato.
La ragione di questo dilazionamento non può essere solo un rovesciamento
parodino di una tradizione di genere. Nel brano compaiono alcune parole chiave su cui
è bene soffermarsi. Innanzitutto la commedia viene assimilata ad “una specie di tela”. Si
è molto insistito su una possibile analogia tra questa tela e quella tessuta all’interno del
testo dal pittore Gian Bernardo, autorizzando così un’assimilazione della voce autoriale
alla figura del pittore. Benché tela, per sé, si presti ad una duplice interpretazione e
Bruno stesso, come è noto, nel De Imaginorum Composizione sostenga apertamente
l’eguaglianza di poesia, pittura e filosofia, nel brano in questione, tela sembra avere
unicamente una pura connotazione verbale. Innanzitutto la tela è definita come avente
“ordinamento e tessitura”, due predicati che non hanno alcuna connotazione di
carattere visivo. Quando leggiamo che “la materia, il suggetto, il modo ed ordine e
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circonstanze di quella, vi dico che vi si farran presenti per ordine, e vi sarran poste
avanti a gli occhi per ordine”, Bruno non fa qui riferimento alla commedia, ma al
proprologo stesso. In altre parole, Bruno non sta chiamando in causa la visualità del testo
nel suo insieme ma la funzione di indice4 assolta dall’elemento paratestuale. Il
proprologo ha la funzione di mostrare in ordine ció che la trama di per se, pur
nell’ordinamento e tessitura, puó lasciare incomprensibile. In questo senso, il
proprologo assolve una funzione complementare ed insieme antitetica rispetto alla
lunga esposizione dell’argumento et ordine della commedia (Candelaio, 265-273). In
quest’ultima infatti, più che un “ordine” della materia, si ha una narrazione per temi
della trama della commedia. La funzione di mostrare l’ordine è riservata al proprologo
in cui per ben undici volte, la voce parlante si rivolge al lettore con “Vedrete…”.
C’è però un’apparente contraddizione. Da dove scaturisce la necessità di
raddoppiare l;esposizione preliminare della materia della commedia? Che significato
puó avere lo sdoppiamento dell’esposizione dell’argomento in una trama ed in un
ordine visivo degli argomenti? A riguardo della tessitura, nel proprologo leggiamo: “chi
la può capir, la capisca; chi la vuol intendere, l’intenda” (Candelaio, 276). Intendere e
capire sembrano solo apparentemente sinonimi. Mentre il primo è accompagnato da un
verbo modale, il secondo lo è da un volitivo. Se capire è una possibilità, intendere è una
questione di volontà. Implicitamente, nel testo vengono evidenziate due diversi livelli
di lettura, dove la comprensione non necessariamente coincide con l’intendimento.
Vorrei suggerire che il doppio resoconto della trama (uno secondo gli avvenimenti, ed
4
Cfr. La definizione di indice in De Imaginorum Compositione
Lerro 6
uno secondo ció che si vedrá) fa riferimento a due diverse modalità di ricezione del
testo. Il proprologo, avendo la funzione di esemplificare visivamente ció che è narrato,
offre per così dire la possibilità di comprendere in anticipo la sequenza degli
avvenimenti. Questa stessa trama, resa comprensibile dalla deissi del proprologo,
richiede però una volontà per essere intesa. Il fatto di iniziare, per così dire, due volte,
rimandando però il vero inizio della storia, solleva una perplessitá circa quale
prospettiva il lettore debba adottare: se vedere, o leggere dentro la trama. La tela della
scrittura non coincide quindi in tutto e per tutto con quello che si vedrá,: capire,
contenere con lo sguardo, non significa intendere. Tela della scrittura e tela della pittura
sono poste su due piani diversi.
Una traccia stilistica di questa differenza, nel proprologo, è nell’uso dei tempi
verbali. Nella successione dei deittici at tempo futuro, incontriamo nel testo un periodo
tutto al presente:
Eccovi avanti gli occhii: ociosi principii, debili orditure, vani pensieri, frivole
speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi presupposti,
alienazion di mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion di fantasia,
smarrito peregrinaggio dí intelletto, fede sfrenate, cure insensate, studi incerti,
somenze intempestive e gloriosi frutti di pazzia.(Candelaio, 277)
All’interno del raddiopamento dell’ argomento, troviamo un terzo breve resoconto degli
eventi che sembra tracciare un percorso ideale dell’azione: da ociosi principi a gloriosi
frutti di pazzia. Ho evidenziato in corsivo i termini chiave che mi sembrano descrivere
un certo processo evolutivo interno alla commedia. L’uso del tempo presente, in
contrasto con i multipli “vedrete” mi sembra abbia la funzione di isolare il cuore della
trama da ciò che, attraverso un uso quasi ridondante di ipotiposi, si vuole porre sotto
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gli occhi. Vorrei prendere i due estremi del periodo (l’ozio e la pazzia) come polarità
semantiche del percorso che il personaggio Bonifacio compie nell’arco dei cinque atti e
che determinano una sua metamorfosi come figura e come soggetto conoscitivo.
La complessa architettura paratestuale del Candelaio sembra volere richiamare
l’attenzione su un peregrinaggio che avviene dietro o fuori dalle quinte, che non
appartiene alla comprensione dello spazio scenico (della tela della azioni dipinte), ma
appartiene all’ordine della tela scritta. La particolare epistemologia che il Candelaio
formula è di carattere poetico perché tira in causa il farsi della scrittura stessa come
azione e trama che realizza un peregrinaggio da’ozio alla pazzia passando attraverso
poetici furori. Il tipo di epistemologia della commedia non è pertanto solo quella dei
Sileni5, o del gioco dei rovesciamenti su cui si basa l’azione della commedia6, non ´euna
epistemologia di un contenuto filosofico, ma di una orchestrazione delle immagini
secondo una trama nascosta che non coincide con quello che si vede: non si tratta
dunque di leggere filosoficamente la struttura del testo ma di capire piuttosto che tipo
di operazione filosofica originale il testo compia.
Per dare una possibile risposta a questi quesiti, nelle pagine che seguono intendo
focalizzarmi sul personaggio di Bonifacio mostrando come egli non sia solo l’ “oggetto”
di una trama di inganni e sotterfugi che espongono le sue negativitá, ma sia, proprio in
quanto anti-eroe, il punto di partenza di una nuova semantica filosofica e di una trama
invisibile. Non intendo quindi leggere il Candelaio alla luce di un “contenuto” filosofico
MI riferisco qui alla famosa immagine del Sileno, come simbolo del conflitto realtá
apparenza, menzionata da Bruno all’inizion della “Cena delle Ceneri” in
6 Cfr. Nuccio Ordine
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Lerro 8
(rintracciabile nelle opere di Bruno) ma piuttosto alla luce di una pratica di scrittura in
cui la filosofia stessa, come “oggetto” del discorso, viene sospesa e ridiscussa all’interno
di un circuito metaforico destabilizzante ed epistemologicamente indefinibile. Se, per
assurdo, si volesse leggere non il Candelaio alla luce delle altre opere, ma il le altre opere
alla luce del Candelaio, la possibilitá stessa di definire con certezza che cosa sia la filosofia
nolana, verrebbe messa in discussione. Credo che l’osservazione della particolare
evoluzione del personaggio di Bonifacio permetta di illustrare questa oscillazione
costante tra l’ombra ed il furore, tra un principio chiarificatore ed uno oscurante. La
pratica della scrittura letteraria permette a Bruno di elaborare in forme nuove ed
originali il materiale figurativocce caratterizza la sua filosofia delle immagini. Propongo
quindi una lettura meta-letteraria del testo di Bruno nella convinzione che il Candelaio,
osservato nella finezza dei suoi rimandi interni (ed esterni) non illustri o spieghi una
certa teoria, ma costituisca un teoria nel senso di visione di un processo poetico in cui i
rimandi intratestuali e filosofici servono a gettare un’ombra (nel senso Bruniano, come
spiegheró) sul circuito metaforico e figurale che lo stesso Bruno costruisce nelle sue
opere. L’esperienza letteraria diventa la rappresentazione negativa di un’impossibile
formulazione filosofica o, in altri termini, il principio di una filosofia poetica.
2: Dall’Ozio Alla Pazzia
Il breve sommario che troviamo nel proprologo é quindi incastrato tra una
autoriflessione del testo sulla proprio intellegibilitá ed una visualizzazione, tutta
verbale, di ció che ancora non é ma che sará sul palcoscenico. L’azione, che deve essere
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mostrata e non narrata, come la vocazione teatrale prescriverebbe, è invece irretita nelle
narrazioni anticipatorie tanto dell’argomento quanto del proprologo. L’insistenza sul
vedere ha la funzione di sciogliere e rendere se possibile comprensibile la trama. Una
volta data la possibilità di comprendere, nel senso di raccogliere e contenere, bisogna
che una volontà di intendere si metta a lavoro. Si tratta di seguire il filo che conduce
dagli ociosi principi alla pazzia, che è ció che si trova ora, subito, dinnanzi agli occhi e che,
nel suo essere “presente”, precede tutto quello che si vedrá poi. Lo sguardo del lettore
non deve pertanto essere rivolto alla azione che verrà ma a ciò che è e sottende lo
sviluppo dell’azione in palcoscenico. L’azione di indicare i luoghi del testo assolve la
funzione di isolare la trama in un nucleo avente un tempo proprio (grammaticalmente il
presente opposto al futuro).
Ma che cosa ci sarebbe veramente da intendere? Prima di passare all’analisi della
trama e della storia di Bonifacio bisogna definire l’identitá di questa questione. Per fare
ció, dobbiamo ricorrere al famoso brano della lettera dedicatoria in cui si legge:
eccovi la candela che vi vien porgiuta per questo Candelaio che da me si parte, la
qual in questo paese, ove mi trovo, potrá chiarir alquanto certe Ombre dell’idee, le
quali in vero spaventano le bestie e, come fussero diavoli danteschi, fan rimaner
gli asini lungi a dietro; ed in cotesta patria, ove voi siete, potrá far contemplar
l’animo mio a molti, e fargli vedere che non é al tutto smesso. (Candelaio, 262263)
Non intendo qui proporre un parallelo tra l’idea dell’ombra ed il Candelaio, ma
analizzare il significato del verbo chiarir per mostrare come più che un’idea il Candelaio
offra un modello per la comprensione della composizione testuale dell’ombra. Bruno
afferma di porgere al lettore la candela del Candelaio che da lui si diparte nella speranza che
possa chiarire un’ombra. La frase è retoricamente sofisticata e semanticamente molto
Lerro 10
densa. Bruno gioca sul sottile confine tra senso letterale e senso figurato, dove però il
senso figurato non rimanda, a mio avviso, esclusivamente ad un significato
extratestuale, ma anche ad una dinamica meta-testuale and intra-testuale. Vorrei
suggerire che Bruno rivolgendosi alla comunità dei lettori che “non comprendono” stia
fornendo una chiave di lettura per chiarire non tanto una idea quanto un certo modo di
scrivere e di fare letteratura. La citazione potrebbe essere considerata non solo ad un
livello meta-testuale (Bonifacio come il portatore di luce) ma soprattutto come citazione
dell’inizio stesso del testo del De Umbris:
ERMETE: Avanza pure libro. Non ignori infatti che medesimo è il sole,
medesima l’arte. Uno stesso sole illustra ed onora le gesta dell’uno, espone al
biasimo le azioni dell’altro. In sua presenza si rattristano i rapaci notturni, il
gufo, il basilico, il rospo, gli esseri solitari, notturni e sacri a Plutone. Esultano
invece il gallo, la fenice, il cigno e il cigno reale, l’aquila, la lince, l’ariete e il
leone. Al suo sorgere corrono a rintanarsi quanti agiscono nelle tenebre, ma
l’uomo e gli animali della luce escono alle loro opere. Invita questi al lavoro,
getta gli altri nell’ozio.7
I due brani hanno molto in comune e sono reciprocamente illustrativi. Innanzitutto,
attraverso una prosopopea, il libro viene personificato e rappresentato in movimento.
Come nel Candelaio il testo viene detto allontanarsi dall’autore, nel De Umbris, il testo
viene invitato ad avanzare. Vengono cioè descritti due movimenti opposti che,
nonostante tutto, hanno la stessa funzione di portare una “luce” su qualcosa. Intesti
HERMES: Perge liber. Neque. n. ignoras eundem solem; eamdemque artem. Idem sol
huius gesta propalat in honorem, illius in contumeliam facta producit. Tristantur illo
presente nocturnae striges, bufo, basiliscus, bubo: solitaria, nocturna, et Plutoni Sacra.
“Gestiunt autem Gallus, Phoenix, Cignus, Olor, Aquila, Linx, Aries atque Leo.” “Ipso
oriente operatores tenebrarum congregantur in cubilia, homo vero et animalia lucis
exeunt ad opus suum.” Haec invitat ad laborem; trudit illa in ocium. “Giordano Bruno,
Michele Ciliberto, Marco Matteoli, Maria Rita Pagnoni-Sturlese and Nicoletta
Tirinnanzi, Opere Mnemotecniche, Classici 71 (Milano: Adelphi, 2004). Vol I, p. 16-17
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sono quindi entrambi atti a chiarir. Il De Umbris e il Candelaio costruisconouna isotopia
della luce. Mentre però il De Umbris è assimilato ad un sole, il Candelaio è portatore di
una candela, ovvero di una fonte luminosa non totale e naturale, ma parziale e artefatta.
La differenza però è solo apparente. L’arte che il testo porta innanzi come un sole
(nel De Umbris) è l’arte della memoria che Bruno descriverà nel seguito del libro, e che
viene espressamente definita come un costrutto, un artefatto anch’essa. A tale arte viene
attribuita una doppia funzione: ricacciare nelle tenebre gli oziosi e spingere all’attivitá
quanti al sole si vogliono esporre. Non credo sia casuale l’utilizzo di ocium tanto nel De
Umbris quanto nel Candelaio (gli ociosi principi). Come la candela muove dall’ozio alla
pazzia, l’arte della memoria muove dall’inerzia all’attivazione di un meccanismo.Ció
che la commedia chiarisce del De Umbris è pertanto la funzione incoativa e conativa che il
testo assolve e, parallelamente, assume si de se queste stesse qualità. La figura del libro
che si diparte è vicina alla immagine del personaggio Bonifacio che compie un
peregrinaggio da ociosi principi a gloriosi frutti di pazzia. Se una tale intra-testualitá non è
occasionale, il Candelaio usa il rimando alla ombre delle idee per chiarire una stessa
dinamica testuale che caratterizza tanto il De Umbris quanto la commedia. Vorrei inoltre
suggerire che il rimando effettuato da Bruno assume un significato meta-testuale in
quanto la candela del candelaio chiarisce ombre delle idee contenute nel Candelaio stesso ed
in particolare sul peregrinaggio della candela (sineddoche qui per Bonifacio).
In altre parole, il Candelaio vuole appunto chiarire ombre di idee e non idee di
ombre: la filosofia, come teoria, e discorso apodittico, viene testualizzata e letterariezzata:
diventa parte di un processo di significazione non ascrivibile ad una teoria riposta, ma
Lerro 12
ad una teoria che si manifesta in “scena” e che si basa sull’intreccio problematico del
detto e del visto, del dire e del vedere. Per rimanere all’interno dell’isotopia della luce
costruita da Bruno, è la filosofia a dovere essere letta alla luce della letteratura e non il
contrario. Il sole, che tutto illumina ed irradia, che circoscrive le tenebre ed esalta la luce,
può essere, paradossalmente chiarito solo dalla luce fioca di una candela, da uno scorcio
chiaroscurale. Il paradosso è di carattere epistemologico: il piccolo illustra il grande, il
chiaroscuro illustra la luce. Il testo della commedia bruniana, prima e ultima, diventa la
chiave di accesso al farsi della filosofia come testo e letteratura. Non si tratta quindi di
leggere il significato del Candelaio alla luce delle ombre delle idee, ma di leggere come le
ombre delle idee possono produrre significato. In quest’ottica possiamo allora riprendere in
considerazione quanto detto a proposito del capire e dell’intendere: il detto ed il visto
sono il principio ozioso che può essere raccolto e contenuto. La produzione di senso
inizia l’intendere, ovvero, letteralmente, mediante un volgersi verso una certa direzione.
Anche qui, il Candelaio chiarisce perché Bruno nel De Umbris apra la sua discussione
delle ombre analizzando le trenta intentiones, ovvero tensioni delle ombre stesse.
Letta in questi termini, l’intratestualitá che Bruno costruisce tra i due testi sembra
puntare ad una pratica di lettura fondata sulla costruzione di un indice, ovvero di una
ricerca di una direzione, di un percorso, di un peregrinaggio. Il senso non sta quindi
dentro un discorso (non è compreso) ma è nella sua tensione, nell’esplicarsi come testo,
tessitura, trama, tela.
In questa chiave possono essere letti i componimenti proemiali sia del Candelaio,
che del De Umbris. Anche in questo caso, sono convinto che il primo fornisca una lettura
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del secondo e soprattutto che i due testi servano a definire lo spazio di azione ed il
valore semantico di Bonifacio personaggio-candelaio. I sonetti premiali del Candelaio e
del De Umbris pongono il problema poetico degli inizi.
3: Dove Comincia l’Ombra, Dove Inizia il Furore.
Come abbiamo visto accadere nel proprologo, anche la poesia proemiale del
Candelaio è meta-discorsiva e circolare. Questo è il testo completo:
Il Libro a gli abbeverati nel Fonte Caballino.
Voi che tettate di muse da mamma,
E che natate su lor grassa broda
Col musso, l’eccellenza vostra m’oda
Si fed’e caritad’ il cuor v’infiamma.
Piango, chiedo, mendico un epigramma,
Un sonetto, un encomio, un inno, un’oda
Che mi sii posta in poppa over in proda,
Per farmene gir lieto a tata e mamma
Ehimé ch’in van d’andar vestito bramo
oimé chíií men vo nudo com’un Bia;
e peggio: converrá forse a me gramo
monstrar scuoperto alla Signora mia
Il zero e menchia, com’il padre Adamo,
Quand’era buono dentro sua badia.
Una pezzenteria
in braghe mentre chiedo, da le valli
veggio montar gran furia di cavalli. (Candelaio, 259)
Metricamente, il componimento segue lo schema ABBA – ABBA – CDC – DCD – CEE.
Se escludiamo l’ultima terzina, il componimento sarebbe un sonetto di stampo
petrarchesco in perfetti endecasillabi. Anche a livello figurativo, la coda del testo spezza
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il circolo immaginativo. Osserviamo la trama compositiva. Innanzitutto, il titolo si
riferisce al mito della fonte Ippocrene sul monte Parnaso che, come raccontato da
Esiodo nella Teogonia, fu generata da un calcio del cavallo Petaso. Bruno fa quindi
riferimento ai poeti o, più precisamente, a quanti cercano ispirazione bevendo dalla
fonte delle Muse e quindi dell’arte. Non solo poeti quindi, ma gli artisti in genere. L’atto
di abbeverarsi alla fonte è assimilato, nel primo verso al nutrirsi al seno materno. La
poesia si apre quindi con il rapido susseguirsi di tre immagini: una mitologica (Pegaso),
una umana (la madre), ed una meta-letteraria (poeti/artisti). A parlare non è Bruno in
quanto tale, ma per personificazione, il libro stesso. Come nella lettera dedicatoria, a
farsi avanti è qui il Candelaio stesso. Il testo invoca un certo pubblico, si rivolge ad un
uditorio di dotti che hanno familiarità con le convenzioni del genere e con il fare
dell’arte. Il testo nell’apostrofe ai lettori chiama in causa tanto l’arte quanto l’elemento
fantastico e quello femminile: tre componenti che come vedremo disegnano una trama
importante nel corso della commedia. Nelle tre figure che aprono il discorso del libro
sono iscritte tre storie che aiutano a comporre la trama nascosta da intendere.
Il linguaggio della poesia è petroso ed ironico (musso, grassa broda) e dipinge un
libro che piange, chiede e mendica un componimento proemiale. Come nel proprologo, il
testo gira intorno a se stesso: deve iniziare ma non saprebbe come fare, l’espressione
dell’incertezza e del dubbio mette in moto la scrittura. La voce autoriale si nasconde
dietro la candela del libro che si diparte ed avanza verso il lettore al quale si presenta
come organismo vivente in cerca di ascolto ed in un abito.
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Nella seconda strofa l’epigramma, il sonetto, l’encomio, l’inno e l’ode sono tutti
sinonimo di un vestito di cui il testo vorrebbe coprirsi. La citazione ridondante dei
genere classici della poesia serve a delucidare un certo codice rispetto a cui il testo vuole
prendere posizione. Avere un vestito significherebbe rientrare all’interno di un circolo
familiare, di trovare l’abbraccio di quella madre (il primo e l’ottavo verso non a cas
rimano) dell’ispirazione che renda possibile la comunicazione. La candela della
letteratura dichiara la propria instabilitá: la scrittura cerca dimora nell’antro della
madre e sotto l’ombra del padre (tata) senza però riuscirvi. La poppa e la proda
rappresentano il dritto ed il rovescio, il recto ed il verso, la circolarità e totalità
dell’organismo.
Il testo, come Adamo, è però nudo e gli estremi rimangono scoperti e liberi da
ogni allaccio familiare. Le due successive terzine sono caratterizzate da una particolare
corrispondenza lessicale. Lo schema metrico fa si che si abbiano due gruppi di rime:
bramo/gramo/Adamo e Bia/mia/badia. Nella prima serie il desiderio (di un abito) si
tramuta nella disperazione di una nudità adamitica. Nella seconda invece, la nudità
viene associata al vagabondare (men vo nudo come un Bia) ed alla vergogna di fronte ad
una donna (signora mia). La rievocazione fantastica del passato biblico si mischia alla
invocazione di una femminilità questa volta non più materna. La madre si è sdoppiata
in un’altra donna. Le due trame di versi raggruppate come ho fatto qui in gruppi di tre
si intrecciano non solo metricamente ma anche semanticamente costruendo in chiusura
un’antitesi. Da un lato la nudità di Adamo è vista come segno di un’assenza e di una
privazione, dall’altro però l’ultimo verso (buono dentro sua badia) restituisce una
Lerro 16
immagine di Adamo nudo nella serenità del giardino edenico. Il libro se ne va quindi
gramo ma allo stesso tempo buono. La duplicità (come della poppa e della prua) contiene
un principio ermeneutico. La nuditá si presenta come una coincidentia oppositorum che
ancora una volta sembra chiare l’ombra di un’idea. L’intenzione numero 23 del De
Umbris recita:
L’ombra non è soggetta al tempo, ma al tempo di questa; non è soggetta al luogo,
ma al luogo di questa; non è soggetta la moto, ma al moto di questa. Lo stesso si
deve intendere per quanto riguarda gli opposti. È dunque astratta da ogni verità,
ma non è senza verità. Né rende incapaci di raggiungerla, purché sia ombra delle
idee: pur essendo uno, permette infatti di concepire realtà contrarie e diverse.
Niente infatti è contrario all’ombra, e precisamente né la tenebra, né la luce.
All’ombra dell’albero della scienza si rifugiò dunque l’uomo per aver cognizione della
tenebra della luce, del vero e del falso, del bene e del mae, mentre Dio gli chiedeva:
“Adamo dove sei?” (De Umbris, 73. Enfasi mia)8
L’immagine di Adamo che nudo si rifugia sotto l’ombra dell’albero della conoscenza è
speculare a quella del libro che come un Adamo cerca un impossibile vestito. Il testo, in
questa luce, sembra allora essere assimilato alle “realtá contrarie e diverse”, non è un
mascheramento, non un travestimento quindi, ma una esposizione imbarazzante. Il
testo si diparte come Adamo dall’ombra dell’albero alla vita del mondo. Allo stesso
tempo però è l’ombra delle idee ad essere assimilata alla poesia. Se la coincidentia
Umbra non subest tempori, sed istius tempori, non loco sed istius loco, non motui sed
istius motui. Similiter de oppositis est intelligendum. Abstrahitur ergo ab omni veritate,
sed non est sine illa. Et non reddit ineptos ad illam (si idealis sit umbra) concipere enim
facit contraria et diversa, cum sit unum. Umbrae enim nihil est contrarium, preciséque
nec tenebra, nec lux. Ad umbram ergo arboris scientiae confugit homo pro cognitione
tenebrae, et lucis; veri, et falsi, boni, et mali, cum quaereret ab illo Deus “ADAM UBI
ES?” (De Umbris, 72). Nota di traduzione: Ho modificato la traduzione di Nicoletta
Tirinnanzi che a mio giudizio erra nel tradurre “istius” con il maschile questo, laddove
il pronome dimostrativo si riferisce chiaramente ad “umbra e pertanto deve essere
tradotta con “questa”. Dove nel brano citato si legge “questa” nella edizione Adelphi si
trova pertanto “questo.”
8
17
oppositurum si realizza nello spazio dell’ombra, l’ombra appunto, per essere
rappresentata, necessita di essere svestita ed esposta nuda. L’immagine adamitica dá
sostanza discorsiva alla filosofia (nel De Umbris) e conferisce valore epistemologico al
Candelaio: è all’ombra delle nuditá scoperte e sconce che il testo si rivela.
A livello metatestuale, la poesia sembra quindi offrire anche un diverso
approccio epistemologico al gioco di intrighi che caratterizzano la trama della
commedia. I travestimenti e i rovesciamenti sono i tentativi continui di coprire una prua
ed una poppa che vogliono però essere nudi o che, a livello ermeneutico, chiedono di
essere denudati. Il lettore abbeverato al fonte caballino è quindi un lettore impreparato in
quanto cerca di cogliere i mutamenti di abiti e non raccoglie la grama, quanto buona,
nuditá. Per poter fare ció bisognerebbe poter attingere ad una nuova fonte caballina.
Credo che a questo punto si possa spiegare il senso dell’ultima terzina del
componimento proemiale che è in distonia con le strofe precedenti tanto metricamente
(un settenario ed un distico di endecassilabi finale a rima baciata) quanto
figurativamente. Come si spiega infatti l’immagine di una gran furia di cavalli? Una
possibile chiave di lettura è che il testo personificato apra uno squarcio verso l’avvento
di un nuovo cavallo pegaseo che possa, con un calcio, far nascere una nuova sorgente di
ispirazione poetica. La circolaritá è data non solo dalla coppia cavalli-caballino, ma
anche da dal movimento complessivo della poesia che descrive un ercorso da uno stato
di quiete (il “tettate di muse da mamma”) ad una di frenesia (la furia di cavalli). Come
nel proprologo, osserviamo un movimento dall’ozio alla pazzia; dalla stasi alla corsa
Lerro 18
irrequieta. Gli ociosi principi sono qui il musso che nuota nella grassa broda dove la
pazzia è invece la visione nello spazio aperto di una valle del sopraggiungere di cavalli.
Nel gioco di ripetizioni ed anticipazioni, il quasi sonetto che apre il Candelaio
descrive una trama, una tela, una orditura in cui la presenza femminile, la nuditá e
l’ombra che riconcilia gli opposti offrono una mappatura di un percorso semantico. Il
personaggio di Bonifacio è a mio avviso il vettore di forza attraverco cui il Candelaio,
come testo, porta a compimento la costruzione di una epistemologia poetica. Il
Candelaio, in altre parole, presenta la storia della costruzione di una nuova arte, di una
nuova techné conoscitiva. Per
chiarir ulteriolmente questo punto prendiamo in
considerazione il primo paragrafo della lettera dedicatoria Alla Signora Morgana B. Sua
Signora Sempre Onoranda. Leggiamo: “Et io a chi dedicarró il mio Candelaio? A chi, o gran
destino, ti piace ch’io intitoli il mio bel paranimfo? Il mio bel corifeo?” (Candelaio, 261).
Come abbiamo visto finora, Bruno nomina la propria commedia in diversi modi.
Qui il Candelaio è la testa di un coro di multiple voci (corifeo), ma soprattutto un
paranimfo che vorrei qui intendere nella sua dizione etimologica di colui che
accompagna la sposa, ovvero lo sposo. Ninfa, a sua volta, come il latino nupta, indica la
sposa attraverso un’antonomasia, ovvero donna velata. Immediatamente a ridosso della
poesia proemiale in cui abbiamo visto fondersi nudità maschile e femminilità (materna
e non materna) il Candelaio, come paraninfo, rappresenta un corpo maschile affiancato ad
una donna velata. Più avanti vorrei suggerire come Bonifacio stesso sia un paranimfo
che si accosta ad una sposa velata (Lucia vestita da Vittoria) imitando in questo modo il
comportamento stesso del testo. Per ora è però sufficiente notare come le due immagini
19
maschili del testo, come un Adamo ed un paraninfo, puntino entrambe verso la
definizione di un testo maschile in cerca di una presenza femminile. Il paratesto
anticipa la storia che la commedia racconterà. Evidentemente, il Candelaio testo ed il
Candelaio-personaggio sono assimilati all’interno di un unico orizzonte figurale ed
epistemologico. Il comportamento dell’uno riflette quello dell’altro.
4: Il Candelaio e le Ombre
Fino a questo punto ho cercato di illustrare il funzionamento all’interno del Candelaio di
alcune costellazioni figurative, e come queste chiariscano e problematizzino allo stesso
tempo l’orizzonte epistemologico della filosofia di Bruno. Prima di proseguire
ulteriormente mi sembra importante riassumere alcuni punti fondamentali. Il Candelaio
viene personificato e gli viene conferita una voce. Il testo si apre con una metariflessione sulla fonte dell’ispirazione e, soprattutto, associa il testo a tre immagini
fondamentali: il cavallo, la donna, e Adamo nudo. Attraverso la comparazione con
alcuni passi del De Umbris, mi sembra si possa plausibilmente argomentare che le tre
figure rappresentino tre dimensioni diversi del testo. Il cavallo Petaso è insieme
immagine dell’arte tradizionale e dell’avvento di una nuova poesia. La donna
rappresenta l’oggetto di un desiderio: di un abbraccio familiare (la madre) e una sposa
velata (il testo come paraninfo). La nudità di Adamo rappresenta la coincidentia
oppositurum. Quest’ultimo punto è particolarmente importante. Se infatti da un lato il
Candelaio cerca di chiarir alcune ombre delle idee, allo stesso tempo il testo si presenta esso
stesso come un’ombra. Epistemologicamente si ha quindi un paradosso: l’ombra si
Lerro 20
chiarisce attraverso un’ombra. La luce fioca della candela della letteratura è quindi essa
stessa uno spazio ibrido che non è ne tenebre né luce. Il continuo ritornare del testo su
se stesso, il porre costantemente il lettore davanti al problema dell’inizio, dilatando i
tempi di attesa e dilazionando la commedia stessa, non sono strategia o tecniche, ma
piuttosto modalità di rappresentazione del come scrivere, del come fare letteratura.
Il testo non si propone nessun effetto mimetico né in termini “realistici”, cioè
referenziali, né filosofici, ovvero ideologici. Il Candelaio inscena una scrittura che
rappresenta se stessa. Agli abbeverati al fonte cavallino offre uno specchio in cui riflettere
le poesie proemiali del De Umbris, in cui femminilità, animalità e nudità ritornano come
motivi cruciali. Alla luce dell’interpretazione sin qui data delle pagine iniziali del
Candelaio, le prime pagine del De Umbris appaiono come una anticipazione della
epistemologia poetica che Bruno inaugura con il Candelaio. Il desiderio della donna non
è solo motore dell’azione ma anche figura di un’iniziazione alla conoscenza. Il De
Umbris, in altre parole, come il Candelaio, si propone come spazio intermedio tra due
opposte percezioni, quella della figura e quella –non del significato- ma piuttosto del
disfiguramento. Il famoso motto contenuto nel frontespizio del Candelaio, “in tristitia
hilaris, in hilaritate tristis”, non a caso viene nel 1908 definito come “motto dello stesso
umorismo.”9 Pirandello legge nel motto bruniano non solo la compresenza degli
opposti e la frizione tra apparenza e realtà, ma soprattutto il gioco delle maschere e
l'ambiguità della forma. Il rovesciamento di ciò che è sotto gli occhi produce la scoperta di
una trama, di una storia, che nega ciò che apparentemente viene affermato. Come
9
Luigi Pirandello, L'umorismo (Milano: Mondadori, 1992). p.108
21
abbiamo visto nel proprologo
la dialettica vedere-raccontare è uno degli assi
teoreticamente fondamentali per leggere il Candelaio. Il disfiguramento assomiglia
pertanto ad una sorta di sospensione della credulità (non incredulità) in quanto chiede di
non prestare fiducia per intero a ciò che si vedrà. L’idea del testo letterario come una
ombra nuda che non trova alcun abito è presente ne L’Umorismo e la formulazione che
ne dà Pirandello sembra adattarsi bene come glossa al sonetto proemiale del Candelaio:
Per la Retorica prima nasceva il pensiero, poi la forma. Il pensiero cioè non
nasceva come Minerva armata dal cervello di Giove: nudo nasceva, poveretto; ed
essa lo vestiva. Il vestito era la forma. La Retorica, in somma, era come un
guardaroba: il guardaroba dell’eloquenza dove i pensieri nudi andavano a
vestirsi. E gli abiti, in quel guardaroba, eran già belli e pronti, tagliati tutti su i
modelli antichi , o meno adorni, di stoffa umile o mezzana o magnifica, divisi in
tante scansie, appesi alle grucce e custoditi dalla guardarobiera che si chiamava
Convenienza. Questa assegnava gli abiti acconci ai pensieri che si presentavano
ignudi. (38)
È importante l’associazione della convenienza retorica al coprirsi della nuditá. Il decorum
latino è anche sinonimo di decentia. Il pensiero nudo, senza una forma che copra, è
inaccettabile, sconveniente. Pirandello sembra descrivere perfettamente il movimento
del testo-Adamo di Bruno che vaga gramo e buono senza un abito: il zero e il menchia
sono la in-decentia di un testo che non solo rifiuta l’abito della forma, ma denuda la
forma stessa dichiarando la sua natura umbratile ed incerta. Il decorum diventa non una
questione di come coprire la nudità, ma piuttosto di come rappresentarla . Il pensiero
nudo, però, è irraggiungibile come lo è il giardino dell’Eden dove Adamo si è nascosto
all’ombra dell’albero della conoscenza: questa stessa immagine è un ombra: un
compromesso tra l’idea (come eidos, oggetto di visione o teorematha) e la materia dei
sostrati, dei subiecta. Adamo, la donna, il cavallo alato, sono immagini che descrivono
Lerro 22
l’ombra come coincidenza di figurazione e disfigurazione. Il percorso della filosofia è una
trama letteraria, è la raffigurazione plastica di ció che si desidera ma che non si puó
avere: mentre infatti la divinità “non ammette idee al di fuori di sé, noi invece
dobbiamo cercarle fuori e sopra di noi, poiché dentro abbiamo solo le ombre” (De
Umbris, 111).
L’ombra è quindi tanto l’extra del soggetto, come testo, prodotto, tela, creazione,
quanto l’intra come dimensione spirituale. In questo senso si può affermare che se
l’ombra è sia testo che spirito, Bruno tra il De Umbris ed il Candelaio, sta proponendo una
visione del soggetto come testo o, più precisamente, propone una testualizzazione della
soggettività. Il sentiero della conoscenza riflette il sentiero di un personaggio sul
palcoscenico. La trama della conoscenza è la trama di una narrazione. Per corroborare
questa ipotesi, vorrei ora leggere i componimenti che aprono il De Umbris sempre
tenendo il Candelaio come faro e punto d’irradiazione semantico. Il testo si apre con il
seguente componimento:
Filoteo Giordano Bruno Nolano all’amico e attento lettore
Nel luogo più alto é posto
Il volto di Diana a Chio:
Triste appare a chi entra nel tempio,
Lieto a chi esce.
E la lettera di Pitagora
Distinta dal segno bicorne
Dona ottimo fine
A quanti mostrò il torvo aspetto del destro sentiero
Della ombre, da profonda
Tenebre emerse,
Adesso più duri, infine graditi
23
Ti saranno volto e lettera. (De Umbris, 6)10
Il componimento si apre con l’immagine del volto di Diana11. La figura della dea è
centrale nell’immaginario bruniano e su questa riposano diverse trame semantiche.
Innanzitutto, Bruno apre il testo delimitando uno spazio architettonico: l’ingresso nel
libro è assimilato al passaggio di una soglia. A sigillo di tale soglia risiede il volto di una
dea femminile. Nella immagine della donna si sintetizzano le due fasi della figurazione
e disfigurazione: il volto è un doppio che mostra un certo lato a seconda che si esca o che
si entri. L’immagine del cammino, di un peregrinaggio iniziatico, trova seguito nella
strofa successiva dedicata alla lettera pitagorica Y. Il segno indica la biforcazione del
sentiero della vita verso la virtù (destra) o la rovina (sinistra). La lettera ed il volto sono
complementari ed hanno inscritto in loro un circuito narrativo, come mostra la strofa
conclusiva che svela l’esito del viaggio.
Se l’ingresso nel libro è quindi paragonabile all’ingresso in un tempio, ed il
percorso di lettura ad una strada con un bivio, possiamo osservare come il discorso
filosofico venga testualizzato e narativizzato. Il De Umbris inizia con uno stesso sistema di
dilazioni e differimenti simili a quelli del Candelaio, che ancora una volta sembra
appunto chiarir alcune ombre. Diana sembra essere la controparte femminile di Adamo,
e la lettera pitagorica il dritto ed il rovescio del testo che non trova il suo abito. La nudità,
la ricerca della femminilità sono figure di una nuova poetica. A proposito del Candelaio
Est in sublimi posita/Dianae in Chio facie,/Quae tristis templum videtur
intrantibus,/Hilaris exeuntibus.”/Et littera Pythagorae,/Bicorni acta discrimine,/
Quaeis trucem ostendit/vultum dextri tramitis:/Finem largitur optimum/ Umbrarum,
quae profundis / Emersere de tenebris,/In fine grata fiet, nunc asperior/Et facies, et
littera. (De Umbris, 5)
11 CFR. E. Furori p. 694-695
10
Lerro 24
ho ipotizzato che la immagine conclusiva della furia dei cavalli fosse la prefigurazione
di un nuovo Pegaso e di una nuova poetica, il presagio di un nuovo inizio, di un ritorno
del principio. Vorrei ora cercare i tratti di tale prefigurazione anche dentro i poemi
proemiali del De Umbris. Il secondo poema recita così:
Merlino all’Artista
Un tale si mise a dipingere polli:
Non essendo del tutto sconsiderato,
Per salvare dal troppo biasimo le figure incerte,
Che, da artista inetto, aveva tracciato:
Istruì servitorelli e buon amici
Perché cacciassero via i galli naturali
Sapendo questo, tu vero gallo,
Stai attento ad accostarti ai galli dipinti,
Che lasciano a bocca aperta gli animali dalle lunghe orecchie:
Forse ti dovrai affliggere, cacciato via da un servo importuno. (De Umbris, 10)12
Un mago si rivolge agli artisti. Ancora una volta compaiono gli abbeverati al fonte
caballino. Non mi interessa qui tanto insistere sui possibili motivi della scelta di Merlino
come interlocutore, certo è che, nell’immaginario cavalleresco, probabilmente noto a
Bruno, Merlino rappresenta la figura di quello che si potrebbe definire un trickster.
Merlino è una figura che svolge una funzione di tramite: è consigliere, maestro, custode
di segreti. In certa misura l’immagine di Merlino è vicina a quella di Hermes a cui verrá
affidata la narrazione del De Umbris. Entrambi sono figure intermedie che vivono sulla
soglia del reale e del fantastico, della vita e della morte, dell’umano e del divino.
Est qui depinxit gallos gallinaceos/Qui quoniam non est omnino imprudens:/Quo
non sic gravius deprehendi possint/Tractus inepti, de inepto artista:/Servulos
ordinavit, et amiculos;/Per quos vult naturales procul abigi./Hoc cum non ignoraveris,
timeto/Dum verus gallus in pictos appropias,/Qui faciunt mirari auriculatos:/Ne
importuno ministro abactus, doleas. (De Umbris, 9)
12
25
L’immagine dell’ombra è quindi iscritta nelle figure dei due intermediari. Come
il Candelaio si propone di essere una fiaccola per illuminare alcune ombre, così il mago
Merlino chiarisce a sua volta cosa accade quando un’immagine si frappone tra realtà e
fantasia. La poesia ha per oggetto la finzione in quanto tale e si pone nel solco della
tradizione delle leggende sulla competizione arte/natura. Bisogna innanzitutto capire la
natura dell’apostrofe di Merlino. Il mago si rivolge ad un artifex, artista come artefice,
costruttore di manufatti ed anche, in certa misura, di inganni. La poesia sembra una
breve parabola con un monito finale. Un artista dipinge galli, per non rischiare che i
galli sembrino imperfetti, se comparati a quelli reali, fa allontanare tutti galli veri. Il
gallo vero viene pertanto avvisato che se si avvicinerà ai galli finiti verrà allontanato da
qualcuno. All’inizio del testo Merlino si rivolge all’artefice, mentre in conclusione al
gallo. A chi dunque è indirizzato il componimento? Il ”pittore” di galli viene viene
nominato vagamente (Est qui depinxit…) e l’attributo di artista gli viene conferito sono
indirettamente (Quo non sic gravius deprehendi possint / Tractus inepti, de inepto artista).
L’artefice a cui Merlino si rivolge sembra pertanto essere il “verus gallus” e l’intero
componimento quindi, in questa luce, assume una forte connotazione meta-letteraria. Se
il gallo è il vero pittore, le false rappresentazioni non sono di immagini mimetichw, ma
immagini di artisti. Bruno introduce quindi “l’amico e attento” lettore in uno spazio
ibrido in cui ad essere riflessi nella pittura non sono immagini della realtá ma immagini
di artefici. Il vero gallo è pertanto il costruttore di vere immagini. Il De Umbris quindi,
come il Candelaio, si apre con una riflessione sul prodursi del testo stesso.
Lerro 26
Abbiamo quindi tre immagini chiave: il volto di Diana, la lettera pitagorica, ed il
gallo-artefice. Se la prima poesia serve ad introdurre il lettore nel testo come soglia, la
seconda serve ad identificare il lettore stesso con la figura di un artefice. Questa
identificazione è però minacciata da quanti temono lo svelamento dei falsi galli: il vero
artefice dovrà accettare il rischio di essere cacciato via. Bruno descrive un’antitesi simile
a quella che si trova nel Candelaio tra gli abbeverati al fronte caballino e il testo nudo. Ad
essere rappresentati sono due modi di produrre arte, discorsi e “tele.” Questa lettura
trova ulteriore conferma nel poema che immediatamente segue:
Merlino al Giudice Sobrio
In Frigia c’é un fiume chiamato Gallo:
Se ne berrai con sobrietà,
La sua acqua sanerà i mali del corpo.
Ma se senza sobrietà ne sorbirai, esso ti assorbirà,
Finché caccerai l’anima
Senza poterne bere ancora.
Così le lettere della sapienza, appena appena assaporate,
Giovano alla vita civile
E procurano un grandissimo diletto.
Se ne ingurgiti troppe, esse ti turberanno,
Fino a condurti alla pazzia,
Ovvero ad una gioia rovinosa.
Poiché fino ad oggi sei stato reso prudente,
Per non incorrere in un così grave danno,
Grazie all’aiuto dei maestri,
Hai voluto assaggiare la sapienza per poi sputarla via,
Hai voluto soltanto toccarla con le labbra,
E annusarla con le narici.
Per questa ragione io dichiaro che non agisci bene,
Ed ecco che tu, giudice, ti affretti
27
A scuotere le orecchie di Mida. (De Umbris, 11-13)13
La voce del trickster continua a parlare. L’omofonia del “gallo” introduce un nuovo
anello della catena di immagini. La figura del “vero artista”, secondo la mia lettura,
viene qui assimilata all’immagine di un fiume magico capace di donare benessere e
rovina allo stesso tempo. Il fiume è ancora una volta immagine di una soglia, di
un’ombra che racchiude due polarità. Il verus gallus come artefice e il gallus fiume degli
estremi si riflettono l’uno nell’altro. Come nel proemio del Candelaio, l’attenzione si
concentra sull’atto di abbeverarsi. In entrambi i casi si tratta per il soggetto di affrontare
un rinnovamento. Il Candelaio, profilando il giungere di una nuova fonte ispiratrice,
permette di leggere questa parte del De Umbris come una meta-riflessione
sull’acquisizione della scrittura interiore teorizzata nel seguito del testo.
Tale scrittura richiede un atto poetico fuori dal comune, al di là degli usi e
costumi del “giudice sobrio”, immagine qui molto simile a quella degli abbeverati al fonte
caballino. Bisogna leggere tra la trama di contraddizioni ed ossimori che Bruno tesse per
rinvenire le fila di questo processo poetico che insieme presuppone e produce una
metamorfosi del soggetto. Il fiume del gallo, ovvero il fiume dell’artificio e della
creazione, ha il doppio potere di sanare “i mali del corpo” ma anche di assorbire fino ad
uccidere. Il limite tra i due estremi è la sobrietà con cui il soggetto decide di abbeverarsi
Est fluvius in Phrygia dictus Gallus/De quo si bibas modicum,/Medetur malis
corporis./Si absorpseris insobriè, t'absorbebit /Adusque ut agas animum,/Non
bibiturus iterum.”/Sic etiam literae sophiae parum tactae:/Civilem ad vitam
conferunt,/Et condelectant plurimum./“Si nimium t'ingurgitas, te turbabunt,/Inqu'
insaniam t'adigent,/Precipitemve gloriam.”/Cum fu/antum labris attingere, /Et
naribus olfacere. /Propterea non bene facere te declaro,/Huc dum iudex acceleras,
/Quò quasses “Midae auriculas.”(De Umbris, 10-12)
13
Lerro 28
nelle sue acque. Sembrerebbe, nelle prime terzine del componimento, che il “giudice
sobrio” sia quello capace di abbeverarsi con moderazione salvando il proprio corpo e
riparandosi dalla morte. La fisicitá, come vita organica, viene preservata dalla
moderazione, come la convenienza (decorum) dall’uso degli abiti della retorica. C’é un
evidente parallelismo tra la sicurezza del discorso e quella della vita. Per opposizione
quindi, uscire fuori dalle norme del decorum a favore della indecentia di un testo nudo,
significa quindi anche accettare il rischio di essere assorbiti ed annichilati. Il discorso
nuovo, della scrittura interiore e della ricerca di una nuova epistemologia, coincide con
un discorso di morte: morte del soggetto e morte del discorso. La scrittura stessa
diventa una soglia.
Nelle terzine seguenti le literae sophiae sono associate al fiume gallo. Come il verus
gallus è il vero artefice ed il fiume Gallo il fiume di una coincidentia oppositorum, le lettere
della sapienza sono i segni di una conoscenza che può portare tanto all’equilibrio
quanto alla destabilizzazione ed alla pazzia. Il giudice sobrio è pertanto colui che si
avvicina alla fonte della vita e della morte, come a quella della poesia, con animo
morigerato solo per assaggiarne le acque con la punta delle labbra e poi risputarle
(pitissare). Il giudice è sobrio nel doppio senso di prudente e non inebriato; è simile
all’artista che trova conforto negli abiti già pronti nel guardaroba della retorica. Il sobrio
è colui che rifiuta di trasgredire gli insegnamenti dei maestri e trova sollievo nello
scuotere “le orecchie di Mida”, ovvero nel prendersi gioco di quanti credono di poter
trasformare tutto quello che toccano in oro, in altre parole gli artisti che eccedono la
convenienza e sobrietà.
29
Alla figura di Mida è collegata non solo l’immagine dell’oro ma, secondo il mito,
anche quella delle orecchie asinine. L’asino e l’oro, come vedremo tra breve, sono due
immagini chiave che Bruno introduce in due luoghi strategici del Candelaio e
contribuiscono a definire la particolare epistemologia che Bruno suggerisce nella sua
scrittura letteraria e filosofica. Prima di ritornare al Candelaio voglio però concludere
l’analisi dei componimenti proemiali del De Umbris. L’ultimo testo è una continuazione
ideale del precedente. Leggiamo:
Merlino al Giudice Capace
Guarda un po’: il cane ha messo mano all’aratro
Il cammello pretende di scalare le stelle,
Trascinato dalla rana il sorcio passa a nuoto il fiume,
I lenti asini corrono a caccia,
Il cuculo tenta di prendere al laccio i lupi,
I porci desiderano volare:
È qualcosa di non adatto alla natura.
Ma questo, o uomo dotato di strumenti, non è un difetto dell’arte,
Né di chi invita a scavare,
oppure a pescare,
Oppure a solcare l’aria con ali adeguate,
Ovvero insegna a cacciare e a tender lacci.
Se vi sentite capaci di scavare,
E tutt’altro che inadatti a volare,
Pescare, cacciare e a tendere lacci
E dunque su questo non vi saranno lamenti
Ve lo concederò, se anche voi concederete
Di essere entrati nel labirinto senza filo. (De Umbris, 15)14
Est quod canis accessit ad arandum;/Quod scandere astra vult Camelus, est
quod/“Tractante rana sorex tranat fluvium”/Quod lenti properant ad venandum
asini,/Quod tentat cuculus lupos aucupari,/Est quod concupiunt volare porci,/Est
aliquid natura malè appositum./Non autem est Organete hoc artis vicium,/Vel
invitantis ad effodiendum,/Seu faciendas expiscationes,/Sive tranandum pennis aptis
aerem,Vel docentis venari, et aucupari. /Si vos sentitis aptos effosores,/Et minimè non
aptos ad volandum,/Expiscandum, venandum, et aucupandum,/Atque idcirco non
Intrastis labyrinthum sine filo.(De Umbris, 14).
14
Lerro 30
Il Mago si rivolge ora al giudice capace, ovvero a colui capace di guardare dentro
la trama di contraddizioni ed opposti del fiume gallo, il fiume dei veri artefici. Il testo si
apre infatti con una lunga serie di paradossi costruiti attorno ad immagini zoomorfe.
Bruno immagina una rivoluzione fisica in cui gli animali oltrepassano i loro limiti
naturali e diventano capaci di azioni non apposite. Questo quadro serve a Bruno per
introdurre la questione del limite dell’artificio all’interno dell’orizzonte naturale.
L’organete, “l’uomo dotato di strumenti”, è colui che è capace di scorgere in questi
paradossi una certa licenza, una convenienza e un decoro che non dipende dallo stato di
cose ma dalla tensione, dal desiderio al superamento. In altre parole, la credibilità di un
comportamento contro natura significa bere dalla sorgente in cui gli opposti coincidono
ed accettare il rischio tanto della distruzione quanto pazzia.
Il giudice capace è un uomo dotato di strumenti. Il sostantivo che Bruno utilizza,
oraganete, ha una chiara referenza aristotelica. Gli strumenti di cui parla Bruno sono
quelli della logica e del discorso e, di riflesso, quelli della retorica. Il testo si rivolge
quindi nuovamente agli artisti. Il lettore ideale che Bruno iscrive nel testo è quindi un
soggetto capace di essere artefice e di utilizzare gli strumenti della retorica oltre la loro
convenienza e funzione mimetica. Nel desiderio, per esempio, dei porci di voler volare
non c’é nessun tipo di difetto, non c’é errore, ma solo un tipo di valutazione diversa su
quello che il discorso puó affermare della realtà e soprattutto di come il discorso possa
produrre questa realtà. Il desiderio di rompere le barriere della convenzionalità di
“volare con ali inadeguati” è legittimo fintanto che si accetti di essere entrati nel
31
labirinto sine filo. Ma di quale labirinto parla Bruno? L’ultimo verso della poesia ha una
valenza sia meta-letteraria che intra-testuale. Le due sono speculari ed inscindibili.
Bruno fa riferimento al labirinto del testo da un lato ma iscrive anche un particolare
rimando alla concezione del rapporto tra arte e natura sviluppata nel De Umbris.
Ricapitoliamo però per chiarezza quanto detto finora.
Ho cercato di leggere i componimenti proemiali del De Umbris alla luce della
trama figurale che Bruno disegna all’inizio del Candelaio cercando di mostrare come
quest’ultimo illustri il primo. Le immagini chiave da cui sono partito sono state quelle
della femminilità e del corpo nudo che rappresentano la doppia tendenza del testo alla
trasgressione del decorum ed insieme il desiderio di una convenienza che renda il testo
spesso piacevole e desiderabile.15 Nel De Umbris, l’immagine della donna è personificata
dalla dea Diana che simboleggia il passaggio di una soglia la quale, emblematicamente,
coincide con la soglia testuale, con l’ingresso nello spazio del libro. La femminilità viene
inoltre associata alla lettera, alla scrittura sapienziale che emerge da “ombre e tenebre
profonde. ” L’immagine degli artisti abbeverati al fonte caballino è tradotta in una doppia
rappresentazione: il verus gallus come artefix e il fiume Gallus come sorgente della vita e
Come rimando per lo sviluppo della mia ricerca su Bruno, vorrei qui menzionare che
tale problema di carattere retorico coinvolge l’intera estetica rinascimentale la quale, a
partire dall’esperienza manierista e di autori quali Bruno, tende progressivamente a
sciogliere le sue categorie a favore di una nuova ridefinizione del sublime, il quale sarà,
a partire dal ‘600, uno dei problemi estetici più rilevanti nel dibattito critico filosofico. Il
sublime infatti, da categoria retorica atta la movere, si trasforma in una teoria della
rappresentazione ineffabile. Sul tema dello sviluppo della retorica umanistica in questa
direzione mi limito a citare due testi: Bornscheuer Lothar, Retorica E Paradigmi
Antropologici, trans. Simonato C. (Mucchi, 1991). e Ernesto Grassi, Rhetoric as
Philosophy : The Humanist Tradition (University Park: Pennsylvania State University
Press, 1980).
15
Lerro 32
della morte. In entrambi i casi, l’inizio del testo viene fatto coincidere con la
raffigurazione di una sorgente, di una donna, e di un artista. Sia il Candelaio che il De
Umbris si aprono attraverso una riflessione meta-letteraria. in questo senso, si chiarisce
come il Candelaio chiarisca il processo della letteraturizzazione della filosofia che Bruno
porta avanti nel De Umbris. Rimane però in sospeso la figura caballina. Abbiamo visto
come nel Candelaio, questa figura abbia una funzione di riconciliare gli estremi del testo
e prefigurare l’avvento di un nuovo cavallo pegaseo e pertanto, di una nuova fonte di
isirazione poetica. Il cavallo diventa il simbolo di un’iniziazione ad un nuovo discorso
poetico. Attraverso le figure, Bruno inizia il lettore ai segreti di una nuova
epistemologia fondata sulla scrittura e sulla costruzione di un nuovo organum, di una
nuova intelaiatura discorsiva. Il cavallo Dedalo traduce questa nuovo discorso,
incarnando, fantasticamente, il corpo che supera i propri limiti, il porco che desidera
volare, il cammello che pretende di scalare le stelle ed il sorcio che passa a nuoto il fiume.
Questo ibrido fantastico è una figura però inscritta nel confine sottile che separa mondo
fisico ed artificio, natura ed arte, verità e finzione. Questo è il labirinto nel quale bisogna
perdersi senza filo: il labirinto della coincidentia oppositorum, dell’annullamento delle
differenze e del rovesciamento delle forme, in cui la nudità diventa decente e la saggia
sobrietà una folle ebbrezza. Come infatti il Candelaio pone il proprio inizio in una
disputa sulla natura dell’inizio e dell’origine della scrittura, allo stesso modo il De Umbris
illustra la propria arte attraverso l’esplicitazione della sua artificialitá, del suo essere a
metà tra natura e ciò di cui la natura è priva. La scrittura interiore delle ombre, come la
commedia e le disavventure di Bonifacio, nasce nell’interstizio tra ciò che è e ciò che
33
deve essere, tra ciò che è sotto gli occhi e ciò che deve ancora accadere, tra la potenza e
l’atto. Si ripropone la stessa dialettica che Bruno descrive nel proprologo tra gli eventi
che verranno messi in scena e la trama nascosta, tra gli accidenti delle figure, e la visione
interiore. Nel concetto 26 e 27 del De Umbris, Bruno scrive:
[XXVI] Due caratteri sono necessari all’immagine che è tramite del conoscere: la
rappresentazione della realtà conosciuta, che secondo un rapporto analogico
concorda con l’oggetto suscettibile di conoscenza; l’essere spirituale e
immateriale secondo cui ha l’essere nel soggetto conoscente. [XXVII] Le idee
sono le forme principali delle cose, secondo le quali viene formato tutto quanto
nasce e perisce; non riguardano soltanto ciò che si genera e perisce, ma anche ciò
che può generarsi e perire: allo stesso modo possiamo veramente dire di aver
formato in noi le ombre delle idee solo quando esse presentano una natura così
duttile e malleabile da potersi adeguare a tutte le possibili conformazioni.
Secondo una certa somiglianza con queste noi abbiamo plasmato le ombre che
consistono nel movimento di ruote concentriche. Ma puoi anche tentare un’altra
via, se ne sei capace. (De Umbris, 111)16
Le ruote concentriche progettate da Bruno vengono introdotte come la soluzione ad un
problema di raffigurazione. Le lettere sono lo spazio intermedio tra l’oggetto e l’anima
conoscitiva.La possibilità di costruire una relazione tra soggetto ed oggetto dipende da
un’adeguata rappresentazione dei due. La rappresentazione dell’oggetto “convenit
secundum propinquitatem ad congnoscibile”, ovvero deve essere conveniente,
rispettare un decorum, in virtù di una vicinanza e prossimità all’oggetto. Bruno non
parla specificatamente di analogia o somiglianza. Propinquitas indica l’appartenenza del
Duo requiruntur ad speciem quae est medium cognoscendi: representatio rei
cognitae, quae convenit secundum propinquitatem ad cognoscibile, et esse spirituale, et
in materiale secundum quod habet esse in cognoscente”. [XXVII] Sicut ideae sunt
formae rerum principales, secundum quas formatur omne quod oritur et interit: et non
solum habent respectum ad id quod generatur et corrumpitur; sed etiam ad id quod
generari et interire”potest”. Ita tunc verum est nos in nobis idearum umbras efformasse,
quando talem admittunt facultatem et contrectabilitatem: ut sint ad omnes formationes
possibiles, adaptabiles. Nos similitudine quadam formavimus eas, quae consistunt in
revolutione rotarum. Tu si aliam potes tentare viam tenta. (De Umbris, 110)
16
Lerro 34
segno ad uno spazio attorno all’oggetto, indica più un rapporto di contiguità
(metonimico) che simbolico (metaforico). La scelta di una ruota formata da trenta lettere
non ha pertanto una diretta referenza all’oggetto conoscitivo, quanto al modo di
pensare l’oggetto, di avvicinarsi ed approssimarsi ad esso secondo un “esse spirituale et
immateriale.” La rappresentazione è quindi intrappolata tra i due estremi
dell’immateriale, e quindi del nessun luogo, e la necessità di una figura vicina all’oggetto, e
quindi spazialmente determinata. La scrittura interiore non è pertatno un atto
immateriale, ma la materializzazione di una certa ombra delle idee. Bruno nota infatti che
solo una volta che tali ombre si sono pienamente formate diventa allora possibile creare
e dare forma ad uno strumento (omnes formationes possibiles adaptabiles).
L’ombra e la lettera sono pertanto la stessa cosa. Entrambe sono la soglia tra due
estremi che possono essere congiunti e rappresentati solo attraverso un artificio,
mediante una creazione poetica. Solo il verus gallus puó essere artefix di una nuova
tecnica di rappresentazione. Pertanto, il labirinto di cui Bruno parla i conclusione del
componimento sopra analizzato, è quello della rappresentazione, della raffigurazione di
come il linguaggio e la conoscenza si costruiscono. L’ombra è quindi in se stesso un
artificio in quanto si basa sul riconoscimento, come Bruno scrive, che le idee stesse, non
riguardano solo ció che è e che non è. ma anche quello che potrebbe essere. Bruno associa
quindi la costruzione di un alfabeto conoscitivo, e quindi di un’epistemologia, alle
modalitá dell’essere. Una tale epistemologia si fonda pertanto su un principio poetico:
sul fare come momento di unione tra ciò che non è ancora e ciò che potrebbe essere. La
35
costruzione delle ruote mnemoniche é la creazione poetica con cui Bruno risponde a tale
problema rappresentativo.
Richiamiamo ora però alla mente quanto discusso a proposito del Candelaio sulla
possibilità della comprensione e al volontà di intendere. La definizione dell’ombra come
spazio della possibilità, dove le modalità delle essere non sono ancora formate, implica
da parte del soggetto una continua produzione di forme per poter raffigurare se stesso e
la sua conoscenza. Al soggetto, quindi, è data possibilità di comprendere, ovvero
contenere tutte le forme possibili, ma allo stesso tempo, tali forme sono propriamente
intese solo se il soggetto decide per una forma o per un’altra. È l’atto creativo
individuale che definisce la conoscenza. La volontà come movimento creativo supplisce
alla mera possibilità. Ancora una volta, la letteratura sembra chiarire la filosofia: leggere
il Candelaio significa adottare una modalità di lettura artistica che, secondo Bruno,
sembra doversi applicare anche all’opera filosofica.
Il labirinto è un labirinto di forme. La natura stessa è una potenza infinita di
forme che il soggetto, come artefice, modella secondo la propria volontà. La natura è
l’insieme di forma e assenza di forma, oggetto e desiderio, soddisfazione e mancanza.
Bruno scrive:
Non è tuttavia ben chiaro quale sia -e quali caratteri abbia- il principio generale
che consente all’anima di procedere a tutte e a ciascuna singola operazione.
Domandiamoci allora quale sia il principio per cui l’anima assume la
disposizione all’arte. Quale arte consente all’anima di acquisire l’arte? Non è
forse corretto chiamare arte ciò di cui l’artefice natura, tornando sempre a
ripetere i medesimi atti, si sforza di mostrare priva? Dal momento che moltissimi
artisti si servono di un particolare organo, sebbene la loro arte non coincide con
esso, ma venga praticata, non sarà forse lecito affermare che prima di moltissime
arti sta un arte che definirei ‘connessa ad un organo’? Non è forse lecito chiamare
Lerro 36
arte quella che fabbrica lo strumento delle arti? Se infatti questa non è arte, che
altro sarà? (De Umbris, 125)17
La prima arte è per Bruno la costruzione di un organon, di uno strumento. L’arte nasce
come creazione di una tecnica. Questa prima arte è il frutto del continuo movimento
della natura come mostrarsi priva di qualcosa. la costruzione di un organon è pertanto il
modo di supplire a questa apparente mancanza di natura. Questa stessa mancanza è
però parte della natura stessa. L’artificio quindi non è al di fuori della natura, ma dento
la natura stessa. La rappresentazione artistica non imita la natura ma è il supplemento
di questa, il suo complemento nella esecuzione di forme. L’arte del modellare strumetni
è un ciclo che si ripete. La natura costantemente mostra privazioni, ed il soggetto colma
il vuoto tra la natura visibile, che è, e quella invisibile che non è ancora, attraverso la
tecnica. In questo spazio vuoto domina un desiderio tanto della natura, quanto
dell’artista, di produrre forma. Soggetto e
natura coincidono nella ricerca
dell’appagamento di tale desiderio. L’Io e il mondo sono il prodotto di uno stesso
discorso poetico (come poiesis, fare), anzi sono il discorso stesso, coincidono nell’atto di
prendere forma. Questo percorso artistico, di metamorfosi di forme, è iscritto nella
poesia proemiale del Candelaio. La ricerca di una nuova fonte caballina coincide con
At vero hoc quo, generaliter ad omnes atque singulas functiones anima fertur, quale
sit, et quomodo: non satis est apertum, quaeritur. n. quid est quo artem induit anima?
qua arte anima artem induit? nunquid non artem convenit appellare quo technica mater
natura ex frequentatis actibus, expertem se reddere nititur? Nónne licebit dicere anté
plurimas artes extare artem quam organicam dixerim: cum plurimi artificum utantur
organo; quorum tamen ars non est organum; sed per organum prosequuta? Nonne
artem dicere licet quae artium fabricat instrumentum? quid enim erit si non est ars?
Adhaec si organum non precessit quo oportuit aliud fabrefieri: expone mihi artis
rationem, quae artem debuit precessisse? In quo nam ut in subiecto agentis ars organica
praextitit?
17
37
l’aspirazione del corpo nudo a trovare una nuova origine, un nuovo giardino in cui
riposare all’ombra dell’albero della conoscenza. La scrittura poetica illustra la riflessione
del soggetto, come gallus e artefix, nel processo creativo stesso. Nell’inseguimento del
desiderio del volo, del mutamento della natura delle cose, il soggetto realizza la propria
forma: una forma non chiusa, ma aperta in quanto soglia tra un principio di intellezione
interno e l’influsso dell’oggetto esterno. Questa epistemologia poetica è illustrata da
Bruno nel seguente brano:
Se le cose stanno così appare a quanti filosofano in modo migliore, ciò che
propriamente è arte non può essere definito se non come una facoltà della natura
connaturata alla ragione insieme ai semi dei primi principi, per cui è radicata una
potenza per cui possono farsi sedurre dagli oggetti all’esterno come da diversi
incantesimi, essere illuminati dall’intelletto agente come dai raggi del sole,
ricevere influsso dalle eterne idee quasi mediante il concorso degli astri, mentre
tutte le cose sono ordinate in atto dell’ottimo massimo fecondatore per
conseguire, secondo le capacità, il fine proprio. Da queste considerazioni è
manifesto che non a caso abbiamo voluto chiamare la natura artefice fonte e
sostanza di tutte le arti. (De Umbris, 127)18
In questo paragrafo Bruno discute su cosa si fondi l’unione di intelletto agente e natura.
L’oggetto opera sul soggetto una fascinazione quasi magica che incontra la “naturae
facultas connata rationi, cum seminibus primorum principiorum.” La natura è fonte di
ogni arte in quanto in essa contiene la doppia dimensione della assenza-desiderio della
forma e della costruzione delle forme stesse. Questo brano ci aiuta però a chiarire
Quod si ita est ut melius philosophantibus apparet: “naturae facultas connata
rationi”, cum seminibus primorum principiorum, quibus inest potentia, qua ab
extrinsecus obiectis tamquam diversis illectentur illecebris; et ab agente intellectu
tanquam irradiante sole illustrentur: et ab aeternis Ideis quasi siderum mediante
concursu influxum recipiant: dum ab optimo maximo foecundante cuncta in actum,
atque finem proprium pro viribus consequendum ordinentur. Ex quibus manifestatur
non temeré nos “dedalam naturam” artium omnium fontem, atque substantiam velle
nuncupari.
18
Lerro 38
ulteriormente l’immagine del labirinto e a chiudere il cerchio figurale con il Candelaio.
Bruno chiama la natura “dedala.” Questo aggettivo, alla luce di quanto detto finora,
assume una rilevanza particolare ed irradia un’aura semantica sulla trama di figure
attraverso cui Bruno definisce la sua epistemologia poetica.La natura dedala è
un’immagine lucreziana. Nel quinto libro del De Rerum Natura, Lucrezio, criticando il
finalismo antropocentrico, scrive:
Ma vari crescono gli animali, gli armenti, le fiere,
né servono a loro sonagli da bimbi, né alcuno ha bisogno
del dolce e infantile parlare di buona nutrice
né ricercano vestiti mutevoli secondo stagione del cielo:
e infine non d’armi abbisognano, non di alte mura,
con cui difendere le proprie cose, poiché per ognuno ogni cosa
largamente produce la terra stessa, e Natura, artefice delle cose.19
La natura dedala di Lucrezio è ben diversa da quella di Bruno ed il confronto ci permette
di definire con più precisione che valenza abbia l’immagine del labirinto e che valenza
assuma nel contesto del Candelaio e del De Umbris. La natura dedala, nel testo di Lucrezio
è il principio assoluto di ogni vita. Il suo essere artefice è definito in termini naturali: la
natura provvede agli essere viventi in modo neutro a seconda delle necessità di ogni
creatura. Vi è una neta contrapposizione tra l’artificio umano e quello naturale.
Diversamente in Bruno, la natura è dedala in quanto fonte di ogni arte. La natura è
artefice attraverso se stessa ed attraverso l’organon costruito dall’uomo. Il labirinto della
natura consiste in un inganno: la natura finge di mancare (experta)di una forma perché
at variae crescunt pecudes armenta feraeque/nec crepitacillis opus est nec cuiquam
adhibendast/almae nutricis blanda atque infracta loquella/nec varias quaerunt vestes
pro tempore caeli,denique non armis opus est, non moenibus altis,qui sua tutentur,
quando omnibus omnia large/tellus ipsa parit naturaque daedala rerum. Lucrezio, De
Rerum Natura (Milano: Mondadori, 1992). p. 342-343
19
39
l’uomo si adoperi a completarla e a portare a termine il suo processo di formazione.
L’orizzonte creativo della natura e dell’uomo coincidono. La natura è artefice in quanto
umana e l’uomo è parte della natura in quanto artefice. Vedremo come sulla scia di
questa considerazione si possano distinguere all’interno del Candelaio due visioni
separate e distinte dell’arte, incarnate una da Bonifacio ed una da Gian Bernardo. Il
desiderio della natura di raggiungere una forma si mostra come privazione. Questa
apparente mancanza è l’inganno, o arte prima, che fa nascere tutte le altre arti.
Il labirinto della natura è quindi il labirinto della costruzione delle forme. In
questa
indefinita architettura il soggetto deve entrare senza filo. Questo filo e
l’aggettivo dedalo suscitano molteplici storie e rimandi mitologici. Sicuramente non é
azzardato a questo punto sostenere che Bruno stia iscrivendo nel De Umbris e nel
Candelaio, una catena metonimica di figure che rimandano al problema della creazione,
dell’artista e della morte: Dedalo (il mitico costruttore del labirinto), la creazione delle
ali artificiali (segno dell’ingegno), la cera che si scioglie (segno dell’artificio che conduce
alla morte.
Nei componimenti proemiali del Candelaio e del De Umbris vediamo pertanto la
presenza, sotterranea, di due immagini “alate”: il cavallo Pegaso e Dedalo. Le due
figure sono speculari ed insieme opposte in quanto la prima è un animale alato, la
seconda un uomo con finte ali. Nel primo caso, Pegaso rappresenta la ricerca di una
nuova sorgente d’ispirazione, nel secondo caso Dedalo incarna l’aspirazione della
natura alla ricerca di una forma apparentemente non apposita. Il desiderio di volare
non è un difetto dell’arte, come Bruno suggerisce, ma una tensione della natura alla
Lerro 40
forma artificiosa. Come però un Teseo nel labirinto senza filo rischia di perdersi e non
uscirne mai più se non morto, Dedalo è il simbolo dell’artificio che trova la sua alta
espressione nell’autodistruzione. È significativo notare come il mito di Dedalo iscriva in
sé la presenza dell’elemento della cera, materia del candelaio. In seguito sarà chiaro il
motivo di questo riferimento. Il Candelaio illustra qui un’altra ombra delle idee. Mostra
attraverso la costruzione poetica, come la scrittura filosofica proceda attraverso
un’autoriflessione sul proprio formarsi attraverso figure meta-critiche. Il Candelaio
mostra come il testo filosofico scriva la propria epistemologia poetica attraverso un
procedimento letterario, fatto di ripetizioni e richiami meta-testuali. Dedalo e Pegaso,
nella loro specularitá, incarnano l’uomo e l’animale, l'artificiale ed il naturale che si
confondono. Entrambe sono figure della ricerca di una definizione poetica attraverso la
metamorfosi (Dedalo) e l’ibrido (Pegaso).
In conclusione di questa lunga analisi di come il Candelaio chiarisca alcune ombre
delle idee, sono giunto ad introdurre due termini chiave per le pagine che seguiranno:
metamorfosi ed ibridismo. Uomo e animale sono infatti associati, metaforicamente, a
questi due processi anamorfici. La tesi che voglio proporre è di leggere nel Candelaio la
trama di una metamorfosi e della formazione di un ibrido. Voglio suggerire in altre
parole che il personaggio di Bonifacio sia un animale-uomo che compie un percorso di
metamorfosi conoscitiva.
4: Chi è Bonifacio?
41
La lettura che intendo fornire del personaggio di Bonifacio si discosta parzialmente
dalla consolidata tradizione critica che legge in Bonifacio un personaggio comico
bersaglio, insieme a Bartolomeo e Manfurio, della satira di Bruno. La mia tesi è che
Bonifacio rappresenti in realtà la maschera di un viaggio di iniziazione ai segreti del
linguaggio poetico e che il suo percorso rappresenti un’evoluzione da ociosi principi a
pazzia. Di conseguenza, rileggerò parallelamente anche la figura di Gian Bernardo,
considerata la “voce” e “l’alter-ego” di Bruno nell’opera. A mio avviso, il pittore Gian
Bernardo incarna una figura autoriflessiva su ciò che l’artista ed il poeta non dovrebbero
fare. In altre parole, sostengo che il pittore e Bonifacio siano in una relazione dialettica
in cui il primo rappresenta i limiti della rappresentazione ed il secondo un oggetto di
rappresentazione che naturalmente trasgredisce ogni limite di rappresentazione. Ho
cercato fin qui di illustrare alcuni nodi semantici del complesso intreccio figurale che
unisce il Candelaio al De umbris. Credo che la rete semantica disegnata da tali figure offra
una prospettiva diversa sul personaggio-candelaio e possa, in parte, chiarire alcuni
particolari per così dire “bizzarri” ed apparentemente incomprensibili dell’opera. Il
primo di questi particolari su cui voglio soffermarmi è il breve monologo del Bidello
che precede l’inizio del primo atto. Riporto di seguito il testo integrale:
Prima ch’i’ parle, bisogna ch’i’ m’iscuse. Io credo che, si non tutti, la maggior parte
al meno mi dirranno: — Cancaro vi mangie il naso! dove mai vedeste comedia
uscir col bidello? — Ed io vi rispondo: — Il mal’an che Dio vi dia! prima che
fussero comedie, dove mai furono viste comedie? e dove mai fuste visti, prima che
voi fuste? E pare a voi ch’un suggetto, come questo che vi si fa presente questa
sera, non deve venir fuori e comparire con qualche privileggiata particularità? Un
eteroclito babbuino, un natural coglione, un moral menchione, una bestia
tropologica, un asino anagogico come questo, vel farrò degno d’un connestable, si
non mel fate degno d’un bidello. Volete ch’io vi dica chi è lui? voletelo sapere?
desiderate ch’io vel faccia intendere? Costui è — vel dirrò piano: — il Candelaio.
Lerro 42
Volete ch’io vel dimostri? desiderate vederlo? Eccolo: fate piazza; date luoco;
retiratevi dalle bande, si non volete che quelle corna vi faccian male, che fan fuggir
le genti oltre gli monti. (Candelaio, 282)
Questo monologo segue l’esposizione dell’argomento, l’antiprologo ed il proprologo. La
figura del Bidello è alquanto inconsueta come lo stesso Bruno fa notare attraverso
l’ammiccamento del personaggio agli spettatori. La sua inusuale presenza sul
palcoscenico, viene detto, non è tanto diversa dall’apparire di ogni figura per la prima
volta sul palcoscenico della vita. L’affermazione di originalità del bidello assolve una
funzione di straniamento, in quanto tende a confondere il confine tra la realtà e finzione.
La provocazione del bidello consiste nel togliere valore ad ogni affermazione su ció che
non si è mai visto prima, proprio per il fatto che lo si vede nel momento stesso in cui se
ne parla. L’inizio del monologo contiene un accento meta-critico in quanto fa coincidere
l’inizio della realtà con l’inizio del discorso: la commedia inizia con l’affermazione del
valore discorsivo della parola (“a maggior parte al meno mi dirranno: — Cancaro vi
mangie il naso! dove mai vedeste comedia uscir col bidello? — Ed io vi rispondo: — Il
mal’an che Dio vi dia!”). Bruno sembra consapevolmente inscenare il problema della
risposta critica del lettore-spettatore immaginando un dialogo con il pubblico stesso. La
domanda “ipotetica” è di carattere investigativo (dove?). Da dove il bidello ricava tanto
acume immaginativo? Credo che qui Bruno giochi ancora una volta con il doppio
significato delle parole partendo dalle loro etimologie.
Bidello denota tanto un servo o attendente, quanto un messo che presenta
davanti ad un tribunale. Il monologo, in quest’ottica, assume una doppia valenza. Da
un lato è un sofisticato gioco indirizzato al lettore spettatore sul rapporto finzione
43
realtà.
Dall’altro, sembra porre il protagonista della commedia (che viene
immediatamente introdotto) di fronte ad un tribunale di lettori-giudici. Questa
duplicità di significato mi sembra legittimata se pensiamo all’appello al “giudice sobrio
e capace” fatto nel De Umbris, un appello, come abbiamo visto, che a sua volta assume
una rilevanza particolare proprio se messa di fianco al Candelaio. Il bidello si rivolge a
quei lettori giudici che da un lato non devono avere troppa fretta nello “scuotere le
orecchie di Mida”, e dall’altro devono accettare di entrare “nel labirinto senza filo.”
Il lettore “ideale” che Bruno sembra iscrivere nel testo deve essere capace di
andare oltre la prudenza e nello stesso tempo di non giudicare frettolosamente ciò che
sembra essere un “difetto dell’arte.” Ma quale imprudenza e quale apparente difetto
d’arte vengono poste di fronte al lettore? Ricordiamo per un attimo quanto analizzato
all’inizio della presenta ricerca. Nel proprologo Bruno distingue il qui ed ora sotto gli
occhi e il vedrete sulla scena. Sotto gli occhi vi è la trama che va dagli ociosi principi alla
pazzia. Nel monologo del Bidello il “suggetto come questo che vi si fa presente questa
sera” è a sua volta introdotto attraverso una serie metonimica di epiteti sulla quale
bisogna soffermarsi con attenzione. In entrambi i casi viene posto l’accento sul hic et
nunc, come a voler concentrare l’attenzione su qualcosa di puntuale. Bonifacio è: un
eteroclito babbuino; un natural coglione; un moral menchione; una bestia tropologica; un asino
anagogico. La sequenza, che sicuramente colpisce per il linguaggio vivace e
provocatorio, nasconde a mio giudizio una sapiente organizzazione lessicale. Gli epiteti
di Bonifacio possono infatti essere divisi in due gruppi: aggettivi e sostantivi. Questo è
uno schema approssimativo:
Lerro 44
Aggettivi
Sostantivi
Eteroclito
Natural
Moral
Tropologica
Anagogico
Babbuino
Coglione
Menchione
Bestia
Asino
A colpire è innanzitutto l’opposta natura di aggettivi e sostantivi. Mentre i sostantivi
sono denigratori ed offensivi, gli aggettivi che gli accompagnano hanno ben altra
natura. L’aggettivo sembra da un lato mitigare il significato del sostantivo, dall’altro
arricchirlo di una diversa e contraria connotazione. I cinque sostantivi appartengono ad
uno stesso orizzonte semantico, quello dell'animalità e della nudità. Come abbiamo
visto, il Candelaio si apre attraverso una autodefinizione del testo come corpo nudo e si
inscrive all’interno di un percorso di trasformazione animalesca (l’avvento di un nuovo
Pegaso). La mia tesi è che i due gruppi (sostantivi e aggettivi) descrivano un percorso di
sviluppo che fornisce una chiave di lettura per comprendere quella progressione, già
descritta da Bruno nel proprologo, dagli ociosi principi alla pazzia.
La sequenza dei sostantivi ha agli estremi il babbuino e l’asino. Nell’ambito della
cultura tardo rinascimentale, e alla luce della ormai ampiamente documentata
conoscenza di Bruno della tradizione ermetico-magico e della cultura Egizia,20 i due
animali non sono affatto indifferenti o casuali. Entrambi infatti hanno un forte valore
simbolico. Il babbuino, come documentato negli Hierogliphyca di Horapollo21 era
considerato un animale sacro ad Hermes (Theut) e simboleggiava in particolar modo tre
Frances Amelia Yates, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition (London,:
Routledge & K. Paul, 1964).
21 Horapollo and George Boas, The Hieroglyphics of Horapollo, Bollingen Series, 23
([New York]: Pantheon Books, 1950). p. 52-55
20
45
eventi: l’eclissi solare, l’apparire della luna all’orizzonte, e i due equinozi. Il fatto che
fosse consacrato ad Hermes-Theut, associava il babbuino all’invenzione della scrittura.
Nell’immagine del babbuino si condensano motivi che abbiamo ritrovato sia nel De
Umbris che nelle prime pagine del candelaio. L’animale è figura della luna crescente, e
quindi dell’oscuritá, dell’eclissi di sole, e quindi dell’adombrarsi della luce, e degli
equinozi, ovvero dell’inizio delle stagioni di metamorfosi, primavera e autunno. Il
babbuino, nella ricostruzione del suo valore simbolico, rappresenta anch’esso
un’ombra, una figura intermedia, una soglia tra le stagioni, la luce e l'oscurità.
L’animale è caratterizzato da una natura transitoria. L’aggettivo che lo accompagna è
infatti eteroclito, che vuol sí dire eccentrico, stravagante, ma anche etimologicamente un
verbo o sostantivo che, a seconda delle declinazioni e dei modi, assume diverse radici.
L’eteroclito è ciò che è instabile e sempre soggetto alla metamorfosi. L’eteroclito
babbuino descrive quindi Bonifacio come un soggetto transitorio, metamorfico, dalle
multiple radici.
Il natural coglione ed il moral menchione descrivono la nudità del babbuino.
Abbiamo giá visto come nel De Umbris e nella poesia proemiale del Candelaio,
l’immagine della nudità assolva una funzione meta-critica e definisca il testo
negativamente, ovvero come una rappresentazione del farsi stesso di un nuovo testo. La
nudità è infatti contrapposta da Bruno all’abito della retorica ed è assimilata all’avvento
di un nuovo cavallo Pegaso e quindi alla nascita di una nuova sorgente d’ispirazione
poetica. Allo stesso modo, nel monologo del bidello, Bonifacio è rappresentato come un
animale nudo avente molteplici radici e pertanto soggetto ad imprevisti sviluppi. La
Lerro 46
coglioneria e menchioneria mi sembrano quindi qui assumere il valore di un travestito
rimando alla non-definitezza della natura e della morale del personaggio. Tale nondefinitezza va però collegata alla possibilità dello sviluppo ed alla idea della
transitorietà. A corroborare tale ricostruzione semantica intervengono a mio giudizio i
due successivi epiteti che sono decisamente i più sorprendenti e ricchi di rimandi nel
contesto del pensiero e dell’immaginario di Bruno.
Bonifacio è una bestia tropologica ed un asino anagogico. I due appellativi vanno
presi in considerazione contemporaneamente in quanto si chiariscono e si illuminano a
vicenda. Il bidello, come la voce nel proprologo, attraverso una successione paratattica
di epiteti costruisce una successione logica i cui connettori sono nei rimandi tra le
figure. Dall’eteroclito si arriva infatti all’anagogico: l’instabile confluisce dentro un
movimento di ascensione. Il percorso dall’uno all’altro è contraddistinto da una serie di
ossimori che sembrano rappresentare in senso poetico una coincidentia oppositorum. La
serie dei sostantivi appartiene alla sfera del mondo animale mentre gli aggettivi per così
dire a quella umana. In particolar modo, l’aggettivazione contiene un forte rimando alla
dimensione del discorso. La dizione “bestia tropologica” non è di facile interpretazione,
ma può essere contestualizzata all’interno dello spettro di figure meta-critiche e
anamorfiche che ho fin qui cercato di descrivere. Bonifacio è assimilato ad un tropos, ma
credo che l’immagine sia intenzionalmente fuorviante.
Il candelaio non è una figura della retorica; non è il travestimento verbale di una
certa allegoria o significato nascosto. Piuttosto, in quanto bestia nuda dalla non definita
morale e natura, Bonifacio è una figura di rivoluzione, nel doppio senso di cambiamento
47
e di rotazione. Tropos, nel suo senso etimologico, contribuisce a connotare il personaggio
come zona limite, terreno di confine, spazio ibrido in cerca di una forma. Come le ruote
mnemotecniche del De Umbris sono un meccanismo sinottico basato sullo spostamento
contemporaneo di diversi elemento i quali tutti, in ordine diverso, rimangono visibili, il
personaggio della commedia viene associato ad un movimento rotatorio, ciclico, come
lo sono gli equinozi di cui il babbuino è simbolo. Che tropologico si riferisca ad una
tensione più che ad un mascheramento retorico è suggerito anche dal successivo
anagogico. A Bonifacio non viene infatti attribuita nessuna delle caratteristiche
tipicamente associate all’asino. Al contrario, l’animale viene descritto come ascendente,
soggetto di una sublimazione. L’immagine del
volo richiama da vicino quella di
Dedalo e del labirinto che, come abbiamo visto, occupa una posizione importante nella
economia della definizione del rapporto arte natura secondo Bruno.
Il babbuino eteroclito si trasforma in un asino che ascende. La confusione di
diverse radici converge in un atto anamorfico. Il monologo del bidello assolve quindi
una duplice funzione: porre il lettore nella posizione di giudice sobrio e onesto, e di
raccontare una storia di metamorfosi prima che l’azione visiva inizi sulla scena. Come
nel proprologo, il lettore spettatore viene messo in guardia dal non confondere la trama,
la storia, con ciò che si vedrà: le due cose non sono in rapporto transitivo. Il bidello fa
compiere al personaggio Bonifacio una sorta di anabasi. Da babbuino, egli dice, “vel
farrò degno d’un connestable, si non mel fate degno d’un bidello.” Il rimando alla
figura di un constable, ufficiale del re con diritto di giurisdizione in materia cavalleresca,
suggerisce che a Bonifacio debba essere iscritto un certo ruolo, una certa posizione
Lerro 48
all’interno di una costellazione di figure più ampia. L’asininitá è sicuramente una di
queste dimensioni figurali in cui Bonifacio va iscritto. Ma non l’unica. Nell’ultima frase
del suo monologo, il bidello fa riferimento alle corna di Bonifacio: “fate piazza; date
luoco; retiratevi dalle bande, si non volete che quelle corna vi faccian male, che fan
fuggir le genti oltre gli monti.”
Il candelaio è un animale cornuto, più specificamente un asino con le corna. Le
corna fanno fuggire le genti come, nella lettera dedicatoria, le ombre delle idee
“spaventano le bestie e, come fussero diavoli danteschi, fan rimaner gli asini lungi a
dietro.” Le corna di Bonifacio sembrano nascondere un certo potere. A livello metatestuale, queste corna assumono una forte valenza autoriflessiva. Bruno, infatti, nella
lunga descrizione dell’argomento della commedia associa il diventar cornuto di
Bonifacio alla trasformazione di Atteone in cervo:
Considerate, dunque, come il suo inamorarsi della s[ignora] Vittoria l’inclinó a
posser esser cornuto, e, quando si pensó di fruirsi di quella, dovenne a fatto
cornuto: figurato veramente per Atteone, il quale, andando a caccia, cercava le
sue corne, e, allor che pensó gioir de sua Diana, dovenne cervo. Peró, non é
maraviglia si é sbranato e stracciato costui da questi cani marioli. (Candelaio,
270).
Il rimando intra-testuale è esplicito. Sembra che Bruno costruisca una rete di rimandi i
quali, da lettori sobri e giusti, non bisogna però considerare come un filo di Arianna
(Bruno avverte nel De Umbris come si debba entrare nel labirinto del testo avendo perso
ogni filo), ma piuttosto come segni di una costante oscillazione tra polarità non ben
definite che descrivono una zona espressiva ibrida.
L’asino e le corna sono, per così dire, le incisioni meta-testuali di due storie che
Bruno racconterà pienamente solo successivamente, negli Eroici Furori e nella Cabala del
49
Cavallo Pegaseo: nel primo, il cornuto sarà immagine stessa del filosofo, nel secondo un
asino si trasformerà nel cavallo alato. Bonifacio sembra quindi diventare uno specchio
in cui si rifrangono molteplici indirizzi narrativi; sembra essere il fulcro di un
movimento anagogico che solleva l’azione sulla scena verso altri orizzonti semantici. La
domanda pertanto su chi sia davvero il candelaio, come testo e come personaggio,
rimane sospesa in uno spazio intermedio che prefigura quanto scritto nei due
componimenti proemiali del Candelaio e del De Umbris. A mio avviso l’asino Bonifacio
raffigura la forma potenziale del cavallo pegaseo, come le sue corna ricalcano la forma
della lettera pitagorica Y, i cui estremi puntano verso gli opposti del bene e del male.
Nell’ignoranza e oscurità dell’amore, alchimia e pedanteria di Bonifacio è da cercarsi il
principio della metamorfosi del soggetto nell’animale fantastico della poesia, e nel
mitico cacciatore che riesce a guardare le fattezze della bellezza divina.
5: I Masterplots del Candelaio
Il mito di Atteone e quello di Pegaso raccontano due storie di metamorfosi. Entrambi
possono essere considerati due masterplots per illustrare la vicenda di Bonifacio. Le due
figure vengono sviluppate da Bruno nel 1585. All’altezza del 1582, anno di
pubblicazione del Candelaio, le immagini di Atteone e Pegaso sono disseminate in vari
luoghi delle sue opere secondo un ordine non facilmente ricostruibile. La Cabala e gli
Eroici Furori sono pertanto la fioritura di semi che Bruno aveva già piantato nel
Candelaio e nel De Umbris. Intendo qui prendere in considerazione come le due storie
Lerro 50
vengono costruite,raccontate e riformulate da Bruno con particolare attenzione al
motivo della metamorfosi. Prendiamo innanzitutto in considerazione la storia di Atteone.
Nella formulazione che Bruno dà del mito, ritroviamo tutti gli elementi figurativi fin qui
descritti. La figura di Atteone è introdotta all’inizio del quarto dialogo dei Furori
attraverso un sonetto22 recitato da Tansilo. Qui di seguito è riportato il commento di
Tansilo stesso al sonetto:
Atteone significa l'intelletto “intento alla caccia della divina sapienza,
all'apprension della beltà divina”. Costui slaccia i mastini ed i veltri. De quai
questi son piú veloci, quelli piú forti. Perché “l'operazion de l'intelletto precede
l'operazion della voluntade”; “ma questa è piú vigorosa ed efficace che quella;
atteso che a l'intelletto umano è piú amabile che comprensibile la bontade e
bellezza divina”, “oltre che l'amore è quello che muove e spinge l'intelletto acciò
che lo preceda, come lanterna”. Alle selve, “luoghi inculti e solitarii, visitati e
perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l'orme de molti uomini”.
Il giovane poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve ed instabile
il furore, “nel dubio camino de l'incerta ed ancipite raggione ed affetto designato
nel carattere di Pitagora”, dove si vede piú spinoso, inculto e deserto il destro ed
arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la traccia di
boscareccie fiere, che sono le specie intelligibili de' concetti ideali; che sono
occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s'offreno a tutti
quelli che le cercano. Ecco tra l'acqui, cioè nel specchio de le similitudini,
nell'opre dove riluce l'efficacia della bontade e splendor divino: “le quali opre
vegnon significate per il suggetto de l'acqui superiori ed inferiori, che son sotto e
sopra il firmamento”; “vede il piú bel busto e faccia, cioè potenza ed operazion
esterna che vedersi possa per abito ed atto di contemplazione ed applicazion di
mente mortal o divina, d'uomo o dio alcuno.” (Eroici Furori, 576-577)
L’insistente movimento autoriflessivo della scrittura di Bruno, che abbiamo evidenziato
sia nel Candelaio che nel De Umbris, si ripropone qui nella forma di un autocommento. Il
Alle selve i mastini e i veltri slaccia/Il giovan Atteon, quand'il destino/Gli drizz'il
dubio ed incauto camino,/Di boscareccie fiere appo la traccia./Ecco tra l'acqui il piú bel
busto e faccia,/Che veder poss'il mortal e divino,/In ostro ed alabastro ed oro
fino/Vedde; e'l gran cacciator dovenne caccia/Il cervio ch'a' piú folti/Luoghi drizzav'i
passi piú leggieri,/Ratto vorâro i suoi gran cani e molti./I' allargo i miei pensieri/Ad
alta preda, ed essi a me rivolti/Morte mi dàn con morsi crudi e fieri. “Deglil Eroici
Furori” in Bruno and Aquilecchia, Opere Italiane. Cit. Vol II p. 575-576.
22
51
sonetto offre la visione di una storia che il commento, piuttosto che spiegare, dilata
attraverso l'estensione della sua trama. Non mi interessa in questa sede discutere la
valenza del mito di Atteone nel discorso Bruniano, quanto soffermarmi su alcuni
significativi parallelismi strutturali e figurativi. Per questo motivo ho evidenziato nel
testo alcune parole chiave. A colpire l’attenzione è il complesso uso di pronomi
dimostrativi che caratterizza soprattutto la prima parte del periodo. Tali pronomi
(questo e quello) servono a costruire una rete di rimandi a struttura chiastica, e a
connetter le varie parti del discorso secondo una non ben definita catena di associazioni
semantiche. Queste sono le coppie: mastini/veltri; veloci/forti; intelletto/voluntade;
piú robusta/(meno robusta). Le quattro coppie costruiscono due chiari chiasmi:
mastini
veloci
intelletto
veltri
forti
voluntade
più robusta
Strutturalmente Bruno iscrive
(meno robusta)
due incroci che sono allo stesso
tempo due contrapposizioni. Attraverso i chiasmi, il testo procede retrocedendo. Il gioco
dei deittici fa sí che l’occhio leggendo debba andare indietro per poter capire il senso
delle parole. I due incroci di intelletto è volontá rappresentano a livello retorico e
figurale l’incontro-scontro di Atteone con il corpo nudo della divinitá. Di seguito infatti,
Bruno fa riferimento esplicito a due elementi fondamentali: l’amore come motore e come
Lerro 52
lanterna che precede l’intelletto da un lato, e la lettera pitagorica come immagine
stigmatizzata della condizione di Atteone. Quest’ultima rappresenta non solo
simbolicamente, ma anche graficamente l’incrocio-scontro di due vettori. L’immagine
dell’amore come lanterna richiama senza dubbio alla mente la figura del candelaio
innamorato. Vorrei pertanto sottolineare due aspetti che mi sembrano cruciali.
In primis, quando nel 1585 Bruno si trova a raccontare il mito di Atteone, egli,
proponendo l’opposizione intelletto/volontà, sembra ricalcare quella tra poter capire e
voler intendere nel Candelaio. L’intelletto, senza la robustezza della volontà, insegue solo
ciò che è più amabile, non necessariamente ciò che è comprensibile. Il principio volitivo
è lo scarto tra la potenza e l’atto, tra il poter comprendere e l’effettivo intendimento.
Inoltre, che bruno stia riproponendo la stessa problematica mi sembra in particolar
modo suggerito dall'architettura testuale che incornicia il discorso. In entrambi i casi si
ha un movimento autoriflessivo: nel Candelaio è il proprologo e nei Furori
l’autocommento al sonetto. Questa contiguità formale assume rilevanza se è vero, come
ho cercato di dimostrare, che il costante ritorno sul meccanismo della scrittura e sul farsi
del testo stesso che Bruno compie, è finalizzato ad una destabilizzazione epistemologica
ed alla iscrizione, nel circuito letterario, di un nuovo soggetto poetico, capace di
intendere il filosofico attraverso il poetico. In altre parole, Atteone svolge una funzione
meta-critica: non è solo uno dei “sileni” di Bruno, o una allegoria della conoscenza, ma
la formulazione di una nuova modalità poetica, fondata sulla metamorfosi, l’incrocio, la
transizione e la non transitivitá di volontà e conoscenza. Ciò che si vede, non è sempre
quello che si vuole vedere. Il percorso della conoscenza può quindi essere accidentale,
53
non necessario. Per rimanere nella cornice del Candelaio, si può affermare che la tela
tessuta non necessariamente conduce a ció che si desidera. Bonifacio e Gian Bernardo,
in qualche modo gli “avversari” della commedia, sono entrambi tessitori e pertanto
entrambi chiamano in causa il rapporto tra trama e conclusione, progettualità ed effetto.
L’analogia Bonifacio Atteone non è pertanto né solamente ironica né una pura
identità, ma un gioco di rimandi, un tropos, un rivolgimento non chiaramente definibile.
La figura del cacciatore rimanda ad una modalità di visione ed invita il lettore a
scendere sullo stesso terreno di incroci e metamorfosi. Il motivo delle corna è
assimilabile al mito del cacciatore (e quindi alla metamorfosi), alla lettera pitagorica, ma
anche, e in modo più rilevante alla stessa filosofia. In un brano dello Spaccio della Bestia
Trionfante, dopo aver discusso le corna come simbolo eroico e divino, Bruno passa a
discutere il senso spregiativo del termine cornuto:
Saulino. Onde aviene che è messo in consuetudine di
chiamar cornuto uno, per dirlo uomo senza riputazione,
o che abbia perso qualche riputata specie di onore?
Sofia. Onde aviene che alcuni ignoranti porcini alle
volte ti chiamano filosofo (quale, se è vero, è piú onorato
titolo che possa aver un uomo), e te lo dicono come per
dirti ingiuria o per vituperarti?
Saulino. Da certa invidia.
Sofia. Onde aviene che alcun pazzo e stolto tal volta
da te vien chiamato filosofo?
Saulino. Da certa ironia.
Sofia. Cossí poi intendere che, o per certa invidia o
per certa ironia, aviene che quei che sono, o che non sono
onorati e magnifici, vegnono nomati cornuti.23
“Spaccio della Bestia trionfante” in Bruno and Aquilecchia, Opere Italiane. cit. Vol II
p. 370-371
23
Lerro 54
La tesi principale che Bruno qui sembra sviluppare è che, in entrambi i casi, cornuto e
filosofo vengon spesso utilizzati in modo inappropriato per cui, chi meriterebbe
l’appellativo di “cornuto” in quanto divino ed eroico, si trova ad essere chiamato così i
senso spregiativo. Similmente, chi è filosofo e meriterebbe di essere giustamente
chiamato con questo nome, si ritrova, alla pari del cornuto, ad essere filosofo, per così
dire, suo malgrado per maldicenza.
Questo breve scambio di battute passa quasi inavvertito nella complessa diatriba
sulla riforma celeste ed etica raccontata nello spaccio. Eppure, a ben vedere, se letta alla
luce della transitorietà figurale del Candelaio, l’argomento di Bruno diventa di
particolare importanza. Il cornuto ed il filosofo non sono semplicemente oggetto di
scherno (argomento questo sicuramente caro a Bruno) ma sono categorie che sembrano
confondersi l’una con l’altra. Il filosofo e il cornuto sono fluttuanti ed instabili, soggetti
entrambi alla suscettibilità del discorso. L’invidia e l’ironia, motori agenti di questa
instabilità, sono entrambe figure di un rovesciamento: la prima rappresenta un
rovesciamento della volontà, voler essere ciò che no si può essere, la seconda è
l’affermazione di una verità attraverso il suo contrario.
L’immagine del cornuto, quindi, partecipa a quell’instabilità epistemologica che
ho fin qui descritto e che è giustificata dal complesso intreccio figurale tessuto da Bruno
nel Candelaio. Bonifacio quindi viene introdotto sulla scena attraverso una catena di
associazioni simboliche che in certa misura mettono in discussione l’apparente
chiarezza dell’argomento della commedia così come esposto da Bruno stesso. La scrittura
mette cioè in discussione se stessa e destabilizza la propria ermeneutica. Se Bonifacio è
55
da in lato l’innamorato cieco e credulone, dall’altro il suo carattere è assorbito in una
cornice immaginifica che conduce verso una connotazione diametralmente opposta.
La caratterizzazione di bestia tropologica e asino anagogico, come ho giá detto,
sembra essere la formulazione in nuce della storia del cavallo Pegaso nella Cabala.
Tropologica ed anagogico rimandano, come Atteone, ad un processo anamorfico. Nel
caso della Cabala, si ha proprio il doppio movimento ti trasformazione, rivolgimento
(tropos) e ascensione (anagogia). La storia che Bruno racconta è quella di Onorio, asino
che compie il doppio percorso di una catabasi agli inferi ed una anabasi in cielo dove
prima si tramuta in Pegaso e da qui di volta in volta, assume varie forme umane
vivendo vite terrene per poi ritornare sempre Pegaso. Il cavallo alato è figura pertanto
di una metamorfosi continua e, come abbiamo visto, è l’immagine che apre il Candelaio.
La storia di Onorio contiene aspetti interessanti per capire come la commedia di Bruno
sia l’origine di un processo di letteraturizzazione del discorso filosofico. Leggiamo:
Fui prima in serviggio d'un ortolano, aggiutandolo a portar lettame dalla cittade
di Tebe a l'orto vicino le mura, ed a riportar poi cauli, lattuche, cipolle, cocumeri,
pastinache, ravanelli ed altre cose simili dall'orto alla cittade. Appresso ad un
carbonaio, che mi comprò da quello, ed il qual pochissimi giorni mi ritenne
vivo.Pascendo io sopra certa precipitosa e sassosa ripa, tratto dall'avidità
d'addentar un cardo ch'era cresciuto alquanto piú giú verso il precipizio, che io
senza periglio potesse stendere il collo, volsi al dispetto d'ogni rimorso di
conscienza ed instinto di raggion naturale piú del dovero rampegarvi; e caddi da
l'alta rupe; onde il mio signore s'accorse d'avermi comprato per gli corvi. Io privo
de l'ergastulo corporeo dovenni vagante spirto senza membra; e venni a
considerare come io, secondo la spiritual sustanza, non ero differente in geno,
né in specie da tutti gli altri spiriti che dalla dissoluzione de altri animali e
composti corpi transmigravano; e viddi come la Parca non solamente nel geno
della materia corporale fa indifferente il corpo dell'uomo da quel de l'asino ed il
corpo de gli animali dal corpo di cose stimate senz'anima; ma ancora nel geno
della materia spirituale fa rimaner indifferente l'anima asinina da l'umana, […]
scampando io da' fortunati campi, senza sorbir de l'onde del rapido Lete, tra
quella moltitudine di cui era principal guida Mercurio, io feci finta de bevere di
Lerro 56
quell'umore in compagnia de gli altri: ma non feci altro ch'accostarvi e toccarvi
con le labbra, a fin che venessero ingannati gli soprastanti a' quali poté bastare di
vedermi la bocca e 'l mento bagnato. Presi il camino verso l'aria piú puro per la
porta Cornea, e lasciandomi a le spalli e sotto gli piedi il profondo, venni a
ritrovarmi nel Parnasio monte, il qual non è favola che per il suo fonte Caballino
sia cosa dal padre Apolline consecrata alle Muse sue figlie. Ivi per forza ed
ordine del fato tornai ad essere asino, ma senza perdere le specie intelligibili,
delle quali non rimase vedovo e casso il spirito animale, per forza della cui
virtude m'uscirno da l'uno e l'altro lato la forma e sustanza de due ali
sufficientissime ad inalzar in sino a gli astri il mio corporeo pondo. Apparvi e fui
nomato non asino già semplicemente, ma o asino volante, o ver cavallo Pegaseo.
Indi fui fatto exequitor de molti ordini del provido Giove, servii a Bellerofonte,
passai molte celebri ed onoratissime fortune, ed alla fine fui assumpto in cielo
circa gli confini d'Andromeda ed il Cigno d'un canto, e gli Pesci ed Aquario da
l'altro. Or essendo io, come ho già detto, nella region celeste in titolo di cavallo
Pegaseo, mi è avvenuto per ordine del fato, che per la conversione alle cose
inferiori […] come inebriato di nettare, venea bandito ad esser or un filosofo,
or un poeta, or un pedante, lasciando la mia imagine in cielo; alla cui sedia a
tempi a tempi delle trasmigrazioni ritornavo, riportandovi la memoria delle
specie le quali nell'abitazion corporale avevo acquistate; e quelle medesime,
come in una biblioteca, lasciavo là quando accadeva ch'io dovesse ritornar a
qualch'altra terrestre abitazione. 24
Il brano non è tra i più citati e pertanto l’ho riportato quasi integralmente. La storia di
Onorio è interessante sia perché ripropone motivi qui già trattati, sia per il movimento
complessivo della narrazione. Innanzitutto bisogna stigmatizzare le fasi complessive
della metamorfosi: asino-anima-asino-Pegaso-varie ‘abitazioni corporali.” Benché non
esplicitamente menzionata, la vera ed ultima metamorfosi è quella in Onorio che
racconta la storia. Il processo di metamorfosi non si conclude quindi né con Pegaso ne
con una serie di nuove metamorfosi ma, nel circuito del testo, con un racconto. A ben
vedere, Onorio inizia la sua storia raccontando del suo passato di asino fino al giorno
della sua morte. Tutto il percorso che segue si conclude nella riproposizione di questa
“Cabala del Cavallo Pegaseo” in Bruno and Aquilecchia, Opere Italiane. cit. Vol II p.
458-459
24
57
storia. In altre parole, vorrei affermare come la metamorfosi del cavallo Pegaso non sia
definitiva (e questo è Onorio stesso che lo fa capire) ma come questa metamorfosi
includa l’incarnazione stessa del personaggio narrante all’interno della Cabala.
Ancora una volta, come Atteone, Pegaso riflette meta-criticamente il farsi del
testo. Sembra che il Candelaio, con la sua architettura autoriflessiva, costruisca un
modella di scrittura in cui il “contenuto” filosofico coincide con il prodursi del discorso.
L’enunciazione, l’atto della produzione, la poiesis, sono i principi epistemologici che
Bruno delinea. Il modello del Candelaio sembra essere stato da Bruno trasmigrato nelle
altre opere, almeno in quelle del ciclo in volgare tra il 1582 ed il 1585.
Onorio è quindi il prodotto di se stesso, del proprio discorso, della propria storia.
Allo stesso modo, il Candelaio, per esempio nel monologo del bidello, pone al lettorespettatore il problema dell’inizio. In entrambi i casi è il prodursi del discorso che
stabilisce l’incipit. In questo senso, nessun genere piú di quello teatrale e dei dialoghi
poteva servire a Bruno come miglio “abito” per inscenare questa nuova epistemologia
poetica.
Quella di Pegaso, come quella di Atteone, è dunque un storia di metamorfosi. Il
personaggio Bonifacio viene perciò inscritto all’interno di una cornice figurativa basata
su immagini transitorie, anamorfiche, incomplete ed in via di completamento. C’é però
una particolarità che colpisce e che suscita lacune domande. Onorio non è lo stesso
cavallo Pegaso che ha dato origine sul monte Parnaso alla fonte delle Muse, alla fonte
caballina della poesia che apre il Candelaio. Osserviamo nuovamente un estratto del
brano sopra citato:
Lerro 58
venni a ritrovarmi nel Parnasio monte, il qual non è favola che per il suo fonte
Caballino sia cosa dal padre Apolline consecrata alle Muse sue figlie. Ivi per
forza ed ordine del fato tornai ad essere asino, ma senza perdere le specie
intelligibili, delle quali non rimase vedovo e casso il spirito animale, per forza
della cui virtude m'uscirno da l'uno e l'altro lato la forma e sustanza de due ali
sufficientissime ad inalzar in sino a gli astri il mio corporeo pondo.
L’asino riacquista la propria corporeità proprio sul monte Parnaso per poi però
subitamente trasformarsi in Pegaso, o meglio, un nuovo Pegaso. Onorio acquista le ali
perché, pur sul monte Parnaso e in sembianza asinina, non ha perso le “specie
intellegibili.” Il sostantivo specie, in questo contesto di anamorfosi, sembra conservare la
sua valenza etimologica di superficie visiva. Onorio, in altre parole, riesce a vedere
qualcosa al di sopra del monte Parnaso e pertanto ad elevarsi sopra di questo. Questa
anagogia corrisponde con la conquista di uno spazio nel cielo, nella mitologia e nella vita
terrena attraverso un costante mutarsi di forme. Il nuovo Pegaso si trasforma in “poeta ,
filosofo, e pedante”, figure che a loro volta rimandano all’intrecci di trame della
commedia in cui abbiamo Bonifacio che scrive stucchevoli poesie d’amore, Bartolomeo
e Gian Bernardo che hanno una loro speciale filosofia della vita, e Manfurio con la
pedanteria del suo linguaggio incomprensibile. Il rimando non sembra affatto casuale.
Onorio incarna dunque quel cavallo evocato all’inizio del Candelaio che, stando alla mia
interpretazione, prefigura l’avvento di una nuova forma poetica.
Questa nuova forma poetica ha i caratteri del fantastico, dell’ibrido, e soprattutto
nasce attraverso un movimento meta-critico del testo. Il cavallo Pegaseo della Cabala
porta a compimento l’aspirazione del Candelaio come testo, come il mito di Atteone, a
sua volta, porta a compimento il movimento di metamorfosi del Candelaio-personaggio. Il
testo e le sue figure partecipano di uno stesso movimento autoriflessivo e si
59
rispecchiano l’uno nell’altro. Questo conferisce alla commedia di Bruno un valore
episteomologico importante in quanto ridiscute il “pensiero” alla luce delle
metamorfosi figurali. La stessa formulazione di una filosofia nolana diventa pertanto
paradossale in quanto la filosofia si definisce proprio attraverso un atto di produzione
discorsivo sempre meta-critico e meta-riflessivo. La trama delle figure non è quindi
un’allegoria da decifrare, ma un percorso metamorfico da intraprendere.
Bonifacio, tra Pegaso e Atteone, è l’asino cornuto che vive una serie di
capovolgimenti e disavventure che rappresentano i vari stadi del percorso del furioso
verso la conoscenza. Il fatto che Bonifacio sia protangonista di una commedia e che
rimanga incompiuto come personaggio, mostra come Bruno intendesse rappresentare
attraverso il discorso letterario una forma della conoscenza negativamente. Quest’ultima
affermazione sarà resa chiara alla fine del successivo capitolo.
6: Le Tappe Di Un Percorso:
Prendiamo quindi in considerazione le tappe che segnano il percorso di Bonifacio, dalla
ricerca del suo amore alla metamorfosi in cornuto. Mi soffermerò su alcuni momenti
salienti della commedia inevitabilmente trascurando alcuni aspetti e personaggi. Alla
fine di questa analisi vorrei poi proporre un parallelo tra la struttura del Candelaio e
quella dell’Asino d’Oro di Apuleio ai fini di illustrare come l’immaginario che avvolge la
commedia di Bruno si definisca nei termini di una storia di iniziazione.
Nell’atto primo, dopo una brevissima scena basata su uno scambio di battute,
Bonifacio si presenta al pubblico con il seguente monologo:
Lerro 60
L’arte supplisce al difetto della natura, Bonifacio. Or, poi ch’a la mal’ora non
posso far che questa traditora m’ame, o che al meno mi remiri con un simulato
amorevole sguardo d’occhio, chi sa, forse quella che non han mossa le paroli di
Bonifacio, l’amor di Bonifacio, il veder spasmate Bonifacio, potrà esser forzata
con questa occolta filosofia. Si dice che l’arte magica è di tanta importanza che
contra natura fa ritornar gli fiumi a dietro, fissar il mare, muggire i monti,
intonar l’abisso, proibir il sole, despiccar la luna, sveller le stelle, toglier il giorno
e far fermar la notte: però l’Academico di nulla academia, in quell’odioso titolo e
poema smarrito, disse:
Don’a’ rapidi fiumi in su ritorno,
Smuove de l’alto ciel l’aurate stelle
Fa sii giorno la notte, e nott’il giorno.
E la luna da l’orbe proprio svelle
E gli cangia in sinistro il destro corno,
E del mar l’onde ingonfia e fissa quelle.
Terra, acqua, fuoco ed aria despiuma,
Ed al voler uman fa cangiar piuma. (Candelaio, 283)
Il monologo si apre con una affermazione sul valore dell’arte che ricalca quanto Bruno
sostiene nel De Umbris. Il difetto è l’apparente mancanza di qualcosa da parte dela
natura. In questo caso, Bonifacio consciamente rimodella nel suo discorso alcuni motivi
tipici della poesia d’amore sia stilnovistica che petrarchesca: ovvero il motivo dello
sguardo d’amore e quello della sofferenza. L’arte magica è vista da Bonifacio come uno
strumento per riequilibrare la mancanza della natura. Bonifacio non può accettare che i
sospiri d’amore non vengano corrisposti se è vero, come si potrebbe ricordare, che amore
al cor gentil ratto s’apprende. Il completamento della natura attraverso la magia, non è
però descritto come l’aggiunta di un surplus, di un pezzo mancante, ma piuttosto
attraverso un nuovo e diverso arrangiamento di ciò che la natura offre.25 Bonifacio
descrive infatti una serie di capovolgimenti, simili a quelli che Bruno descrive nella
Sulla questione del “creazionismo” in Bruno si rimanda a Michele Ciliberto,
Introduzione a Bruno, I Filosofi, 1. ed. (Roma: Laterza, 1996). p. 71-75
25
61
poesia Al Giudice Capace. Questi stravolgimenti del corso naturale, per l’uomo dotato di
organon, non sono un difetto dell’arte. L’arte completa attraverso le proprie metamorfosi
il potenziale infinito della natura sempre alla ricerca di nuove forme.
Che il monologo serva ad ascrivere al personaggio di Bonifacio una certa
concezione dell’arte trova conferma a mio giudizio nella costruzione sintattica del
periodo e nella poesia. La seconda parte del brano infatti si apre con “Si dice che l’arte
magica…”, un’espressione impersonale che introduce la breve descrizione delle
meraviglie possibili per via magica, e si conclude con un “però” che, anche se
consecutivo, sembra avere un sottile valore avversativo. “Però “ introduce l’odioso titolo
e poema smarrito dell’Academico di Nulla Academia e serve come transizione tra due
momenti diversi del monologo. Da un lato infatti, il “si dice” sembra introdurre una
opinione impersonale e, per così dire, popolare. Il “però” invece sembra tendere ad una
rettifica della precedente impersonalità con la funzione di sottolineare l’importanza del
movimento anamorfico dell’arte. Credo che il breve poema recitato da Bonifacio sia una
continuazione del discorso iniziato con la poesia proemiale che, lo ripeto, è a sua volta
fortemente illustrative delle poesie proemiali del De Umbris.
Barbero Squarotti nel suo commento al Candelaio, sottolinea in nota che
l’academico di nulla academia sarebbe Bruno stesso. Se è vero che Bruno gioca con la sua
maschera autoriale, è anche però possibile che Bruno stia compiendo una metariflessione più generale sul rapporto tra arte e natura. Il non appartenere a nessuna
accademia è un altro modo per affermare l’appartenenza della nuova arte proposta da
Bruno a nessuna “poetica” o assetto retorico prestabilito. In certa misura la nulla
Lerro 62
academia è simile alla nudità del testo nella poesia del fonte caballino. La poesia
appartiene ad un soggetto al di fuori delle convenzioni e quindi, in certa misura, oltre al
valore epistemologico di un comune “si dice che…”
L’assenza di un abito retorico rende il poema odioso, in quanto afferma la
verosimiglianza di una natura contro-natura. La poesia non nega nulla di ciò che era
stato precedentemente detto, semplicemente viene incorniciata dentro un discorso che
vuole restituire all’impersonale “si dice che…” un’identità precisa. La poesia viene detta
smarrita, credo, per lo stesso motivo per cui nel De Umbris, Bruno invita il lettore capace
ad entrare nel labirinto senza filo. L’arte che cerca nuove possibili ed impossibili forme
deve perdersi nella natura senza cercare di dominarla. L’arte, viene detto, “la luna da
l’orbe proprie svelle e gli cangia in sinistro il destro corno.” Se da un lato il verso
sembra riferirsi al cambio di movimento della luna, il riferimento alla destra ed alla
sinistra di un corno rimanda all’immagine della lettera pitagorica e delle sue due corna.
Secondo la tradizione è il lato destro a mostrare il lato impervio della verità. Ribaltare il
destro nel sinistro significa quindi facilitare il percorso vero il raggiungimento della
verità. Non credo che questa sia una forzatura in quanto lo stesso riferimento alla luna
ha una particolare rilevanza. La luna, considerato da Bruno un pianeta, era infatti
ritenuto influente sulle maree e sugli umori dell’uomo. A questo proposito, è
interessante uno scambio di battute tra Lucia e Vittoria:
VITTORIA:La gran pecoragine che io scorgo in lui mi fa inamorar di quest’uomo;
la bestialità sua mi fa argumentare che non perderemo per averlo per amante; e,
per essere un Bonifacio, come vedete, non ne potrà far altro che bene.
LUCIA:Costui non è di que’ matti ch’han troppo secco il cervello, ma di quei che
l’han tropp’umido: però è necessario che dii di botto al troppo grosso e dolce
umore più che al troppo suttile, fastidioso, colerico e bizzarro. (Candelaio, 314)
63
L’opposizione secco/umido definisce Bonifacio come un carattere umbratile soggetto a
metamorfosi e cambiamenti. L’umore umido, secondo Lucia, necessutá di una
espletazione urgente, attraverso una esplosione di affetti. In questo senso, si giustifica
una certa lunaticitá di Bonifacio il quale, ancora una volta, questa volta per bocca di
Vittoria, viene accostato a figure animalesche. L’umore, l’umiditá, l’asplosione
irrazionale e l’animalitá sono i termini che incorniciano il carattere di Bonifacio. Tutti
hanno un forte valore anamorfico e descrivono un carattere non definito, in transizione,
e sfuggente ad ogni definizione.
Questo processo connotativo continua nella scena seconda del primo atto nel
dialogo tra Bonifacio e Bartolomeo. I due discutono di pene d’amore e si scambiano
storie di innamoramenti. Il dialogo ha un forte accento comico e si basa su una serie di
ribaltamenti semantici tutti concentrati nello scambio di poche battute:
BONIFACIO: Per le paroli che adesso voi avete detto, credo che sappiate quanto
sii imbrogliato e spropositato il regno d’amore. Si volete saper l’ordine, o
disordine, di miei amori, ascoltatemi, vi priego.
BARTOLOMEO: Dite, m[esser] Bonifa[cio], che non siamo come le bestie
ch’hanno il coito servile solamente per l’atto della generazione, — però hanno
determinata legge del tempo e loco, come gli asini a i quali il sole, particulare o
principalemente il maggio, scalda la schena, ed in climi caldi e temperati
generano, e non in freddi, come nel settimo clima ed altre parti più vicine al polo;
— noi altri in ogni tempo e loco.
BONIFACIO: Io ho vissuto da quarantadue anni al mondo talmente, che con
mulieribus non sum coinquinato; gionto che fui a questa etade nella quale
cominciavo ad aver qualche pelo bianco in testa, e nella quale per l’ordinario suol
infreddarsi l’amore e cominciar a venir meno… […] Or, essendo nel mio cor
cessata quella fiamma che l’ha temprato in esca, facilmente fui questo aprile da
un’altra fiamma acceso.
Lerro 64
BARTOLOMEO: In questo tempo s’inamorò il Petrarca26, e gli asini, anch’essi,
cominciano a rizzar la coda.
BONIFACIO: Come avete detto?
BARTOLOMEO: Ho detto che in questo tempo s’inamorò il Petrarca, e gli animi,
anch’essi, si drizzano alla contemplazione: perché i spirti ne l’inverno son
contratti per il freddo, ne l’estade per il caldo son dispersi, la primavera sono in
una mediocre e quieta tempratura, onde l’animo è più atto, per la tranquillità
della disposizion del corpo, che lo lascia libero alle sue proprie operazioni.
(Candelaio, 285-286).
Nel dialogo convergono temi e motivi già ritrovati nelle pagine precedenti. Bartolomeo
espone una teoria d’amore che sembra da un lato ricalcare e dall’altro rovesciare
parodicamente i temi della poesia petrarchesca. L’immagine dell’asino è nuovamente
chiamata in causa. La differenza tra l’uomo e la bestia, in termini d’amore, è che la
seconda è motivata unicamente da desideri stagionali legati all’aumentare della
temperatura e della cicilicitá dell’accoppiamento. Rispetto all’asino quindi, l’uomo,
secondo Bartolomeo, non ha solo “un coito servile.”
Bonifacio ascolta attonito queste considerazioni. Sembra non seguire Bartolomeo e
non capire il suo discorso. Il candelaio, in questa scena ed in altre, viene esposto a
racconti, analogie, detti e proverbi dei quali ignora la sostanza. Allo stesso tempo, i vari
caratteri che di volta in volta parlano a Bonifacio, usano parole di cui essi stessi
sembrano ignorare la profondità semantica. In altre parole, Bruno sembra costruire
alcuni dialoghi chiave della commedia sul confronto tra due non-coscienze o coscienze
non pienamente definite. Nel caso che stiamo prendendo in considerazione, questa non
piena coscienza dei personaggi si rivela nella seconda parte del dialogo.
Il rimando è al terzo sonetto del Canzoniere: “Era il giorno che al sol si scoloraro/per
la pietá del suo factore i rai,/quando io fui preso e non me ne guardai,/ché i be’
vostr’occhi, donna, mi legaro.Francesco Petrarca, Canzoniere, Einaudi Tascabili. Classici
104 (Torino: G. Einaudi, 1992). p. 5
26
65
Bonifacio racconta di essersi innamorato in Aprile il mese in cui, ricorda subito
Bernardo, Petrarca si innamorò ed il mese in cui gli asini “cominciano e rizzar la coda.”
Petrarca racconta infatti nel terzo sonetto del canzoniere di essersi innamorato a Pasqua,
precisamente 6 Aprile 1327. Come nel Canzoniere, anche qui il riferimento implicito alla
Pasqua ed all’innamoramento per una donna serve ad accentuare la contrapposizione
tra un amor sacro ed un amor profano. L’immagine infatti degli asini che si “rizzano”
sembra avere una chiara connotazione oscena. Eppure, nella battuta successiva,
Bartolomeo sembra riformulare quanto appena detto. Gli asini diventano “gli animi”
che “anch’essi si drizzano alla contemplazione.” Questo improvviso capovolgimento
semantico comporta un’associazione nuova dell’asininitá all’idea di innamoramento da
un alto ed alla simbologia pasquale dall’altro.
Alla Pasqua simbolicamente associati molti significati che travalicano i semplici
confini del religioso. Innanzitutto l’idea della rigenerazione, dell’elevazione (come
anagogia, anabasi, sublimazione) ma soprattuto l’idea dell’orbita terrestre e degli
equinozi. L’innamoramento asinino viene quindi associato ad un atto intellettuale ed ad
un atto di rivoluzione (un tropos) nel senso di transizione da una stagione ad un’altra e
quindi, come simbolo di una metamorfosi. Tale immagine, abbiamo visto, è inscritta
anche nell’eteroclito babbuino.
Proprio quest’ultima figura sembra avere una eco nel proseguimento del dialogo:
BONIFACIO: Or voi fatemi intendere il versaglio dell’amor vostro, poi che
m’avete donata occasion di discuoprirvi il mio. Penso che voi ancora doviate
prendere non poco refrigerio, confabulando con quelli che patiscono del
medesmo male, si pur male si può dir l’amare.
BARTOLOMEO: Nominativo: la signora Argenteria m’affligge, la s[ignora]
Orelia m’accora. BONIFACIO: Il mal’anche Dio dia a te,e alei ed a lei.
Lerro 66
BARTOLOMEO: Genitivo: della s[ignora] Argenteria ho cura, della signora
Orelia tengo pensiero.
BONIFACIO: Del cancaro che mange Bartolomeo, Aurelia ed Argentina.
BARTOLOMEO: Dativo: alla s[ignora] Argenteria porto amore, alla s[ignora]
Orelia suspiro; alla signora Argenteria ed Orelia comunmente mi raccomando.
BONIFACIO: Vorrei saper che diavol ha preso costui.
BARTOLOMEO: Vocativo: o signora Argenteria, perché mi lasci? o signora
Orelia, perché mi fuggi?
BONIFACIO: Fuggir ti possano tanto, che non possi aver mai bene! va’ col
diavolo, tu sei venuto per burlarti di me!
BARTOLOMEO: E tu resta con quel dio che t’ha tolto il cervello, se pur è vero
che n’avesti giamai. Io vo a negociar per le mie padrone.
BONIFACIO: Guarda, guarda con qual tiro, e con quanta facilità, questo
scelerato me si ha fatto dir quello che meglio sarrebbe stato dirlo a cinquant’altri.
Io dubito con questo amore di aver sin ora raccolte le primizie della pazzia.
(Candelaio, 287)
Bartolomeo si fa beffe di Bonifacio attraverso un abile stratagemma retorico,
trasformando la grammatica in oggetto del discorso. Sorprendentemente, nell’elenco
dei casi del discorso mancano i due più ricchi e vari in termini morfologici e semantici:
l’accusativo e l’ablativo. A mancare sono l’oggetto diretto ed il caso per eccellenza piú
indiretto. L’omissione sembra avere un forte valore autoriflessivo in quanto rimanda alla
non-coscienza del dialogo. Bonifacio l‘eteroclito, l’asino dalle molteplici radici, e
Bartolomeo l’alchimista, mancano dei due estremi della sintassi e della morfologia.
L’ironia del discorso rivela come l’oggetto del discorso, l’amore, manca di una totale
esemplificazione tanto in senso diretto, quanto indiretto.
Il discorso di Bernardo lascia Bonifacio indispettito, attonito e triste per la mancata
raccolta delle primizie della pazzia.
27
Il candelaio è quindi cosciente della follia amorosa
ma non scorge la valenza metamorfica del suo innamoramento. Il personaggio
partecipa a dialoghi e situazioni che sembrano riflettere le sfaccettature della sua
27
Nel proprologo era stato detto “i gloriosi frutti della pazzia.”
67
eteroclita identità, senza però coglierne l'unita. Bruno rappresenta Bonifacio alla stregua
di un ignorante, o cieco28, che vive possibili situazioni rivelatrici senza però possedere il
giusto sguardo. Nel dialogo con Bernardo, “l’asino anagogico” viene posto di fronte ad
uno specchio dell’asininitá (l’amore come contemplazione) che rimane però a lui
incomprensibile. A questa rappresentazione non-cosciente sembrano obbedire diverse
altre scene del Candelaio.
La scena sesta e ottava dell’Atto I rappresentano altri due luoghi enigmatici del
testo che mettono alla prova tanto l’asininitá di Bonifacio, quanto quella del lettore che
segue la sua storia. Nella prima, legge la poesia d’amore che Bonifacio ha fatto
recapitare alla sua padrona Vittoria. Il testo è un pasticcio di motivi petrarcheschi che
suscita la seguente reazione:
O bella conclusione, belli propositi, a punto suttili come lui. Io, per me, di rima
non m’intendo; pure, s’io posso farne giudicio, dico due cose: l’una, ch’i versi son
più grandi che gli ordinarii; l’altra, che son fatti a suon di campana e canto
asinino, li quali, sempre toccano alla medesima consonanza. Ma voglio partirmi
di qua, per trovar più comodo luoco, dove io possa prender la decima di questo
presente: ché, in fine, bisogna ch’ancor io sia partecipe de’ frutti della pazzia di
costui. (Candelaio, 293)
Il lessico usato da Lucia è ormai familiare al lettore. Innanzitutto i versi “grandi” sono
da intendersi sia in senso iperbolico (come le esagerazioni di un innamorato) ma anche
forse, dal fatto che il numero di sillabe dei versi è irregolare ed eccede il metro
dell’endecasillabo (fin qui utilizzato da Bruno nelle poesia). La monotonia delle rime
(tutte in -ore) suggerisce a Lucia il suono ripetitivo di una campana e del raglio di un
asino che viene però qui sublimato nell’immagine di un “canto asinino”. Seguendo la
Utilizzo qui il termine cieco come anticipazione del paragone che pkú avanti faró trail
destino di Bonifacio e quello dei “ciechi” nel dialogo conclusivo delgi Eroici Furori
28
Lerro 68
catena di immagini del precedente dialogo, qui sembra trovare conferma l’associazione
asino-innamorato. Il fatto che il raglio venga chiamato “canto” può si essere ironico da
un lato, ma dall’altro sembra seguire quel sentiero anagogico che fin qui abbiamo
descritto. L’asino trasforma, o tenta di trasformare, il suo raglio in musica. Anche Lucia,
del resto, di fronte al furore di questo asino è in ansia di vederne “i frutti della pazzia.”
La pazzia di Bonifacio non è quindi solo quella di un innamorato, ma anche quella
di un animale in trasformazione. Il rapporto animalitá-amore-follia è di particolare
importanza perché rappresenta uno dei collanti temataci, figurali e lessicali del
Candelaio. Sullo sfondo di una tale rappresentazione di Bonifacio fa l’ingresso in scena il
personaggio del pittore Gian Bernardo, colui che tramerà alle spalle di Bonifacio e che lo
renderà cornuto. Questo è il loro dialogo:
GIAN BERNARDO: Bondì e bon anno a voi, misser Bonifacio. Avete fatta alcuna
buona fazione, oggi?
BONIFACIO: Che dite voi? Oggi ho fatta cosa che giamai feci in tutto tempo di
mia vita.
GIAN BERNARDO: Voi dite di gran cose. È possibile che quello che hai fatto
oggi, abbi possuto far ieri o altro giorno, o voi o altro che sii? o che per tutto
tempo di vostra vita possiate fare quel che una volta è fatto? Cossì, quel che
facesti ieri, non lo farai mai più; ed io mai feci quel ritratto ch’ho fatto oggi, né
manco è possibile ch’io possa farlo più; questo sì, che potrò farne un altro.
BONIFACIO: Or, lasciamo queste vostre sofisticarie; mi avete fatto sovvenire del
ritratto. Hai visto quel che mi ho fatto fare?
GIAN BERNARDO: L’ho visto e revisto.
BONIFACIO: Che ne giudicate? È buono: assomiglia assai più a voi che a me.
BONIFACIO: Sii come si vuole, ne voglio un altro di vostra mano.
Che lo volete donare a qualche v[ostra] signora per memoria di voi?
BONIFACIO: Basta: son altre cose che mi vanno per la mente.
GIAN BERNARDO: È buon segno, quando le cose vanno per la mente: guardati
che la mente non vadi essa per le cose, perché potrebbe rimaner attaccata con
qualche una di quelle, ed il cervello, la sera, indarno l’aspettarebbe a cena; e poi
bisognasse far come la matre di fameglia, ch’andava cercando lo intellecto co la
lanterna. — Quanto al ritratto, io lo farò quanto prima.
BONIFACIO: Sì; ma, per vita vostra, fatemi bello.
69
GIAN BERNARDO: Non comandate tanto, si volete esser servito. Si desiderate
che io vi faccia bello, è una; si volete ch’io vi ritragga, è un’altra.
BONIFACIO: Di grazia, lasciamo le burle: attendete a far cosa buona, ché io, per
questo, verrò a ritrovarvi in casa.
GIAN BERNARDO: Venite pur quando vi piace, e non dubitate di cosa buona,
dal canto mio; attendete pur voi a far bene, dal canto vostro, perché...
BONIFACIO: Che vuol dir: perché? ... lasciate l’arte antica. Come? non
v’intenderebbe il diavolo.
GIAN BERNARDO: Da candelaio volete doventar orefice.
BONIFACIO: Come orefice? come candelaio?
Basta, me vi raccomando.
BONIFACIO: Dio vi dia quel che desiderate.
Ed a voi quel che vi manca. (Candealio, 295-296)
Il dialogo contiene una delle più note battute del Candelaio sulla quale Bruno si sofferma
con particolare attenzione anche nell’esposizione dell’argomento della commedia: “Da
candelaio volete diventare orefice.” La battuta è stata interpretata in termini sconci,
come un riferimento di carattere sessuale. Eppure proprio su questa si sofferma tanto la
riflessione di Bonifacio quanto quella dello stesso Bruno. Bonifacio infatti dice:
“Da candelaio volete doventar orefice”: è pur gran cosa il fatto mio. Tutti, chi da
cqua, chi da llà, mi motteggiano: ecco, costui non so che diavolo voglia intendere
per l’orefice. Lo essere orefice non è male: non ha egli altro di brutto che quel
guazzarsi le mani dentro l’urina, dove tal volta pone in infusione la materia
dell’arte sua, oro, argento ed altre cose preciose: pur queste parabole, qualche dì,
l’intenderemo. (Candealio, 296)
Bruno, nell’esposizione dell’argomento, anziché fornire una spiegazione, si sofferma
proprio sull’enigmaticità della frase raddoppiando in qualche modo la sorpresa e lo
stupore del lettore:
Bonifacio se ne viene tutto glorioso per certo suo poema di nova cola in onor e
gloria della sua dama: nella qual festa [VIII SCENA] fu ritrovato da Gioan
Bernardo pittore, al quale arrebbe discoperto il suo nuovo poetico furore, ma lo
distrasse il pensier del ritratto, ed il pensier sopra un dubbio che gli lasciò Gio.
Bernardo nella mente. E [IX SCENA] rimane perplesso su l’enigma; perché o più
o meno intende il termino candelaio, ma non molto può capir che voglia dir
orefice. (Candealio, 266)
Lerro 70
La voce autoriale di Bruno si accosta a quella del personaggio di Bonifacio. I due brani
servono a concentrare ulteriormente l’attenzione sul breve dialogo tra Bonifacio e Gian
Bernardo. Vediamo come i due arrivano alla formulazione dell’enigma.
Come Bartolomeo, anche Gian Bernardo si presenta a Bonifacio con qualche
sofisticato sofisma. Il pittore esalta l'unicità di ogni momento della vita e di ogni atto
creativo. Gian Bernardo si dice non capace di ripetere lo stesso quadro due volte.
Proprio a riguardo dell’arte, Bonifacio interviene chiedendo al pittore un ritratto. A
questo punto nascono gli equivoci. Bonifacio vuole essere ritratto bello, ma Gian
Bernardo replica che un conto è ritrarre, un conto è rendere belli. Il candelaio, come con
l’alchimista, ascolta attonito e non comprende quanto gli viene detto. A questo punto
Gian Bernardo pronuncia la famosa battuta, preceduta però da una sorta di monito: “
attendete pur voi a far bene, dal canto vostro, perché…[…] lasciate l’arte antica.”
A prima vista Gian Bernardo sembra appunto far riferimento all’arte del mestiere
con, come sostiene sempre Barberi Squarotti, un doppio senso di carattere sessuale.
Eppure, la battuta di Gian Bernardo sembra dire qualcosa di più. Lo stesso Bonifacio
infatti si lamenta dei “motteggi” che riceve, e si chiede che cosa mai Gian Bernado abbia
voluto dire a proposito del diventar orefice. La perplessità del candelaio si esprime nella
sentenza conclusiva: “pur queste parabole, qualche dì, l’intenderemo.”
Due elementi colpiscono. Innanzitutto la ripetizione del verbo intendere, che
abbiamo già trovato nel proprologo, ed il rimando ad un tempo futuro in cui la
parabola finalmente acquisterà un senso. Bruno, attraverso l’utilizzo del termine
parabola tende ad inscrivere all’interno del motto di Gian Bernardo una storia, un
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racconto allegorico. Questa trama nascosta, come nel proprologo, potrà forse essere
intesa in futuro. Stando all’interpretazione data al verbo intendere nel proprologo,
vorrei suggerire che anche qui Bruno stia facendo riferimento alla volontà del
conoscere, all’azione del soggetto che sceglie di iniziare a comprendere. Il rimando
inoltre ad un tempo futuro riflette l’atmosfera già trovata nella poesia proemiale e nel
proprologo appunto, in cui Bruno gioca con la doppia dimensione del vedere qui ed ora
e lì dopo.
Il Candelaio, ricordiamolo, si apre con una poesia che prefigura l’avvento di un
nuovo Pegaso. Abbiamo visto come Pegaso e l’Asino siano due figure fortemente
correlate in Bruno. Abbiamo inoltre visto come a Bonifacio vengano attribuiti
caratteristiche del cavallo e dell’asino, o meglio, della bestia che si trasforma. La
parabola a cui pertanto fa riferimento Bonifacio è la storia della trasformazione del
candelaio in qualcos’altro, è la prefigurazione di un salto in una forma nuova che,
apparentemente, sembra non appartenergli, come fosse contro-natura.
All’inizio del primo atto però, lo stesso Bonifacio afferma il valore dell’arte come
completamento della natura e come l’arte, sia proprio la trasformazione degli elementi
della natura nei loro opposti. Questa concezione dell’arte è la stessa che Bruno sostiene
nella poesia “Al giudice capace” in cui l’apparenza della contro-natura non é un difetto
d’arte, ma il frutto della natura stessa come una forza dedala e labirintica. Colpisce allora
ricordare come nell’altra poesia, “Al Giudice Sobrio”, Bruno si lamenti con quanti, per
moderatezza, si affrettano nel giudicare e facilmente iniziano a scherzare con le orecchie
di Mida. Nell’immagine di Mida si condensano infatti tre motivi fondamentali: le
Lerro 72
orecchie d’asino, l’oro, e l’affronto ad Apollo per aver preferito la musica di Marsia a
quella del dio29. In sostanza, il trastullarsi con le orecchie di Mida rappresenta per
Bruno la superficialità di chi non coglie i vincoli e i segreti dei movimenti metamorfici.
Mida, il creatore d’oro per eccellenza, è anche per così dire un orefice che viene divorato
dal suo stesso dono. L’immagine dell’oro, all’altezza del dialogo tra Bonifacio e Gian
Bernardo ha quindi un significato sia intratestuale che meta-critico sul valore dell’arte.
Se da un lato Bonifacio considera l’arte completamento della natura, Gian
Bernardo è il fautore della sovranità della natura sull’arte. La sua argomentazione a
favore del ritrarre con fedeltà e dell’impossibilità di ripetere due volte lo stesso quadro
è tutta in favore dell’arte come mimesis. Gian Bernardo non puó ritrarre due volte la
stessa cosa perché questo significherebbe far prevalere la tecnica sulla natura, ed allo
stesso modo non può rendere bello ciò che non lo é per non contraddire lo stato di
natura stesso. Questa visione di Gian Bernardo trova conferma in un’altro momento
della commedia, nella scena diciannove del quinto atto:
Tanto che, figliol mio, tornando al proposito, è opinione comone, che le cose son
talmente ordinate, che la natura non manca nel necessario, e non abonda in
soverchio. Le ostreche non han piedi; perché, in qual si voglia parte del mar che
si trovino, han tutto quel che basta a lor sustentamento, perché d’acqua sola, e
del caldo del sole, — la cui virtude penetra in sino al profondo del mare, — si
mantengono. Le talpe ancora non han occhi; perché la lor vita consiste sotto terra,
e non vivono d’altro che di terra, e non posson perderla. A chi non ave arte, non
si danno ordegni. (Candelaio, 406)
Il dialogo ha luogo tra Gian Bernardo e Ascanio, ed ha una posizione cruciale nella
commedia, visto che si trova in una delle ultime scene prima della fine. Tuo il quanto
Ovid and Charles Martin, Metamorphoses, 1st ed. (New York ; London: W.W.
Norton, 2004). p.372-373
29
73
atto, come vedremo, è una “coda” in cui non accadono azioni rilevanti in termini di
svolgimento della trama, e dovremo chiederci il perché. In questo contesto, il discorso
del pittore sembra una postilla a quanto detto a Bonifacio. Gian Bernardo crede nella
completezza della natura e non crede in nessuna possibile forma contro-natura. Il
pittore, quindi, afferma una visione della natura e dell’arte contraria a quella che Bruno
ha sviluppato nel De Umbris e nel Candelaio, in cui l’arte risponde al labirintico
camuffarsi della natura. Come le talpe sono cieche e non possono quindi che vivere
sotto terra, chi non ha arte non può costruirla. In altre parole, Gian Bernardo sostiene
una visione dell’arte come una pura ispirazione in cui la tecnica, l’acquisizione di un
linguaggio artificiale non trova spazio (mentre per Bruno, come abbiamo visto, la prima
arte è proprio quella che produce gli strumenti, gli “ordigni”). Natura ed arte sono due
data, due elementi che si danno nel mondo senza che l’uomo possa intervenirvi.
Gian Bernardo non accetta quindi il lasciare la vecchia arte del candelaio per
diventare orefice perché dal suo punto di vista questo sarebbe contro natura. Alla luce
di tale considerazioni, la “tela” di inganni costruita dal pittore non sembra avere nulla
di artistico, non sembra essere figura di nessuna poiesis, ma piuttosto, un tramare per il
conseguimento di un proprio piacere individuale. Il quinto atto della commedia si
fonda infatti tutto sul desiderio di Gian Bernardo di vedere riconosciuto il suo onore e
di esporre Bonifacio al dileggio degli altri personaggi. Il pittore desidera vedersi
riconosciuta la sua individualità, il suo onore, e la sua eccellenza. In questo senso, l’att o
conclusivo della commedia assume il significato di una meta-riflessione sul valore
dell’arte e del fare in relazione al conseguimento tanto della conoscenza quanto del
Lerro 74
soddisfacimento di un desiderio. La tela di Gian Bernardo è stata disegnata per ottenere
il possesso di una donna (Carubina):
benché mi sii stato negato dalla fortuna, il giudizio mi ha mostrato l’occasione, la
diligenza me l’ha fatta apprendere pe’ capelli e la perseveranza ritenirla. In tutti
negocii la difficultà consiste che passi la testa, perché a quella facilmente il busto
ed il corpo tutto succede. Per l’avenire tra me e madonna Carubina son certo che
non bisognarranno tanti studi, proemii, discorsi, raggioni ed argumenti.
(Candelaio, 408)
Gian Bernardo si vanta della sua abilitá nel saper sfruttare l’occasione propizia. Come
risultato, egli afferma, lui e Carubina, potranno finalmente incontrarsi senza “tanti
studi, proemii, discorsi, raggioni ed argumenti.” Eppure questi studi e proemi
costituiscono proprio l’ossatura del Candelaio, il cui meccanismo fatto di storie
concentriche e di dilazioni svolge una funzione meta-critica importante ai fini della
formulazione di una nuova epistemologia di carattere poetico. In sostanza, Gian
Bernardo rifiuta la natura dedala della natura a favore di una visione meno mediata e
più diretta degli eventi. Il pittore, come vede il quadro essere una imitazione della
antura, vede gli eventi organizzati secondo un ordine che non manca di niente. In
quest’ordine, la conclusione non consiste nell’appagamento di un desiderio (avere
Carubina), ma nel riconoscimento del suo onore:
Scrisse un epitafio, sopra la sepoltura di Giacopon Tansillo, il Fastidito: che
sonava in questa foggia:
Chi falla in appuntar primo bottone,
Né mezzani né l’ultimo indovina:
Però mia sorte conobbi a mattina
Io che riposo morto Giacopone.
Il primo bottone che appuntò m[esser] Bonifacio fuor della sua greffa, fu
l’inamorarsi di Vittoria; il secondo fu l’averse fatto dar ad intendere che m[esser]
Scaramuré, co l’arte magica, facesse uscire Satanasso da catene, venir le donne
per l’aria volando llà dove piacesse a lui, ed altre cose assai fuor dell’ordinario
corso naturale. Da cqua tutti gli altri svariamenti sono accaduti l’uno dopo
75
l’altro, come figli e figli de figli, nipoti e nipoti di nipoti. Altro non manca adesso
ch’appuntar la stringa e assestar la bracchetta col gippone: il che si farrà,
chiedendo lui mercé e misericordia, per l’offesa fatta a noi poveri innocenti.
(Candelaio, 409-410).
I “bottoni” della storia di Gian Bernardo sono tutti perfettamente in ordine; come la
natura, non mancano di nulla. Il suo “riassunto” della trama è semplice e lineare, ben
diverso dalle intricate fila tessute da Bruno attraverso le poesie i prologhi ed i mologhi
dei personaggi. Volendo accettare allora, come sostiene caldamente Nuccio Ordine, che
Gian Bernardo sia l’altre ego di Bruno nel testo, vorrei però sostenere che questa figura,
piuttosto che esserne il portavoce, ne è la rappresentazione meta-critica; è il doppio della
voce autoriale che si mette in discussione e che critica se stessa.
La richiesta di Gian Bernardo di avere le scuse di Bonifacio puó essere letta alla
luce di un noto passo dello Spaccio de la Bestia Trionfante, in cui Bruno, criticando il mito
dell'età dell’oro, descrive quella che secondo lui è veramente la causa della “caduta”
dell’uomo, e lo fa ricorrendo ad un passo dell’Aminta di Tasso. La scelta di una voce
tragica all’interno del dialogo dello Spaccio ha la funzione di aprire uno spazio lirico in
cui la semantica del testo si arricchisce di un linguaggio nuovo, fatto di evocazione e
persuasione sentimentale:
Non udite come a questi tempi, tardi accorgendosi il mondo di suoi mali, piange
quel secolo, nel quale col mio governo mantenevo gaio e contento il geno umano,
e con alte voci e lamenti abomina il secolo presente, in cui la Sollecitudine ed
industriosa Fatica, conturbando, si dice moderar il tutto con il sprone
dell'ambizioso Onore?
O bella età de l'oro
Non già perché di latte
Se 'n corse il fiume e stillò mèle il bosco;
Non perché i frutti loro
Diêr da l'aratro intatte
Lerro 76
Le terre, e gli angui errar senz'ira e tòsco;
Non perché nuvol fosco
Non spiegò allor suo velo,
E 'n primavera eterna,
Ch'ora s'accende e verna,
Rise di luce e di sereno il cielo,
Né portò peregrino
O guerra o merce a l'altrui lidi il pino:
Ma sol perché quel vano
Nome senza soggetto,
Quel idolo d'errori, idol d'inganno,
Quel che dal volgo insano
Onor poscia fu detto
Che di nostra natura il feo tiranno,
Non meschiava il suo affanno
Fra le liete dolcezze
De l'amoroso gregge;
Né fu sua dura legge
Nota a quell'alme in libertade avezze,
Ma legge aurea e felice,
Che Natura scolpí: S'ei piace, ei lice.30
L’onore è un freno alla legge di natura, in cui “tutto è permesso.” Il riconoscimento
della propria individualità è messo da Bruno in cima alla lista dei motivi di corruzione.
Tutto il quinto atto del Candelaio ha infatti per motivo la ricerca di riconoscimento da
parte di Gian Bernardo. Il pittore, stando alla mia lettura, non è quindi il portavoce del
pensiero bruniano, ma piuttosto il suo alter ego negativo. La sua voce non è in
posizione privilegiata ma in rapporto dialettico con quella dell’”anti-eroe” Bonifacio,
simbolo della metamorfosi animale e della ricerca di una nuova arte. Gian Bernardo
vuole dominare il discorso, mentre Bonifacio ne sembra essere dominato. Nella natura
dedala, come abbiamo visto, è colui che si smarrisce che trova la verità, non colui che
pensa di avere un filo mediante cui orientarsi.
“Spaccio de la Bestia Trionfante in Bruno and Aquilecchia, Opere Italiane. Cit. Vol II
p. 320-321
30
77
La stessa immagine di un Gian Bernardo abile nello sfruttare l’occasione propizia
della fortuna è messa in discussione da uno di quei momenti, come li ho chiamati, di
non-coscienza del testo. Mi riferisco alla famosa storia dell’asino e del leone raccontata da
Sanguino a Vittoria nella scena quarta dell’atto secondo:
Era un tempo che il leone e l’asino erano compagni; ed andando insieme in
peregrinaggio, convennero che, al passar de’ fiumi, si tranassero a vicenna: com’è
dire, che una volta l’asino portasse sopra il leone, ed un’altra volta il leone
portasse l’asino. Avendono, dunque, ad andar a Roma, e, non essendo a lor
serviggio né scafa né ponte, gionti al fiume Garigliano, l’asino si tolse il leone
sopra: il quale natando verso l’altra riva, il leon, per tema di cascare, sempre più
e più gli piantava l’unghie ne la pelle, di sorte che a quel povero animale gli
penetrorno in sin all’ossa. Ed il miserello, come quel che fa professione di
pazienza, passò al meglio che poté, senza far motto. Se non che, gionti a
salvamento fuor de l’acqua, si scrollò un poco il dorso, e si svoltò la schena tre o
quattro volte per l’arena calda, e passoron oltre. Otto giorni dopo, al ritornare che
fecero, era il dovero che il leone portasse l’asino. Il quale, essendogli sopra, per
non cascar ne l’acqua co i denti afferrò la cervice del leone: e ciò non bastando
per tenerlo su, gli cacciò il suo strumento, — o, come vogliam dire, il..., tu
m’intendi, — per parlar onestamente, al vacuo, sotto la coda, dove manca la
pelle: di maniera ch’il leone sentì maggior angoscia che sentir possa donna che
sia nelle pene del parto, gridando: “Olà, olà, oi, oi, oi, oimè! olà, traditore!” A cui
rispose l’asino, in volto severo e grave tuono: “Pazienza, fratel mio: vedi ch’io
non ho altr’unghia che questa d’attaccarmi”. E cossì fu necessario ch’il leone
suffrisse ed indurasse, sin che fusse passato il fiume. — A proposito: “Omnio
rero vecissitudo este”; e nisciuno è tanto grosso asino, che qualche volta,
venendogli a proposito, non si serva de l’occasione. (Candelaio, 316-319)
La storia sembra ben adattarsi a quanto Gian Bernardo afferma nell’ultimo atto nella
commedia. Sembrerebbe quindi che, attraverso una esplicita metafora sessuale, il
racconto descriva la situazione in cui si trovano il pittore e Bonifacio. Come abbiamo
visto però, è Bonifacio ad essere specificamente connotato come asino. La sua asininitá
viene inoltre associata all’essere innamorato. SI può quindi affermare che ogni volta che
ricorra la figura dell’asino, il testo stia indicando il personaggio di Bonifacio. IN questo
senso allora. La “parabola”, non ben chiara nel contesto del dialogo, lascia intendere che
Lerro 78
ad avere l’ultima parola sia Bonifacio, l’asino. Non esistono elementi per associare Gian
Bernardo al leone, e quindi non si puó parlare di una “vittoria” di Bonifacio sul leone,
ma allo stesso se pensiamo all’asino come l’amore e al leone come simbolo della
fierezza, viene da pensare che la storia stia scrivendo la stessa critica che Bruno muove
al concetto di onore nello Spaccio. Per esempio, in un emblema di Andrea Alciato31,
autore molto probabilmente conosciuto a Bruno32, l’amore viene rappresentato come
trionfatore su un leone, simbolo assoluto della forza. Vorrei suggerire attraverso questo
paragone che la figura dell’asino trionfatore sul leone è simile a quella dell’amore
trionfatore su ogni forza. La parabola potrebbe quindi inscrivere in se stessa,
negativamente, una situazione di rovesciamento non apparentemente percettibile dallo
spettatore-lettore. Dapprima è l’asino a soffrire i graffi del leone ma è poi lui che si
prende un’inaspettata rivincita. L'oscenità della storia ha la funzione di sottolineare
l’elemento dell’imprevisto, del capovolgimento inaspettato.
Il Candelaio mette in scena il trionfo della forza sull’asino, in quanto è Bonifacio
che apparentemente subisce il potere di Gian Bernardo ed i vari barri. Eppure, la
commedia apre una prospettiva diversa sull’esito di questo rapporto di forza al di lá dei
contorni del testo stesso. Il Candelaio prefigura il trionfo dell’asino, dell’incosciente,
Miriferisco all’emblema numero 7. Si veda: Andrea Alciati and Mino Gabriele, Il Libro
Degli Emblemi : Secondo Le Edizioni Del 1531 E Del 1534, Classici (Milano: Adelphi,
2009).
32 SU questo punto si veda il saggio di Armando Maggi “L’uomo astratto. Philosophy
and Emblematic rhetoric in the Eroici Furori” in Eugenio Canone and Ingrid D.
Rowland, The Alchemy of Extremes : The Laboratory of the Eroici Furori of Giordano
Bruno, Bruniana & Campanelliana. Supplementi, (Pisa: Istituti editoriali e poligrafici
internazionali, 2007).
31
79
dell’ignorante e del cieco. Per scoprire questa trama nascosta bisogna osservare
cautamente il lessico e i rimandi intratestuali di Bruno.
Ricordiamo come Gian Bernardo avesse implicitamente paragonato la cecità
della talpa all’assenza dell’arte in certi uomini, e di come l’arte non si possa acquisire se
non naturalmente predisposti. Allo stesso modo una talpa non può, contro natura,
ottenere la vista. Le considerazioni di Gian Bernardo sono quanto di piú lontano esista
sulla idea di Bruno di arte e acquisizione tecnica. Fino alle ultime opere quali la Lampas
Triginta Statuarum e il De Imaginorum Compositione,33 Bruno fa coincidere lo sviluppo di
una idea con lo sviluppo di una tecnica rappresentativa: intendere significa pertanto
acquisire di volta in volta una nuova tecnica discorsiva e raffigurativa.
Anche l’immagine della talpa non è un unicum nel corpus delle opere italiane, ed
anzi trova una significativa collocazione proprio nella conclusione degli Eroici Furori,
nel quarto dialogo della seconda parte dove si racconta il percorso di metanóia dei “nove
ciechi” e di come questi siano arrivati alla condizione di “illuminati.” Ad ognuno dei
ciechi corrisponde una poesia:
SEVERINO: Il primo di questi, benché per natura sia cieco, nulladimeno per
amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può persuadersi la natura esser stata
piú discortese a essi che a lui; stante che, quantunque non veggono, hanno però
provato il vedere, e sono esperti della dignità del senso e de l'eccellenza del
sensibile, onde son dovenuti orbi: ma egli è venuto come talpa al mondo a esser
visto e non vedere, a bramar quello che mai vedde.
MINUTOLO: Si son trovati molti innamorati per sola fama.
SEVERINO: Essi, dice egli, aver pur questa felicità de ritener quella imagine
divina nel conspetto de la mente, de maniera che, quantunque ciechi, hanno pure
SI veda in particolare “Lampas Triginta Statuarum” in Bruno, Ciliberto, Matteoli,
Pagnoni-Sturlese and Tirinnanzi, Opere Mnemotecniche. Vol II, cit. p. 929-995 e “De
Imaginorum Compositione in Giordano Bruno and Michele Ciliberto, Opere Magiche,
Classici 67 (Milano: Adelphi, 2000). p.497-553.
33
Lerro 80
in fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua guida,
pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre orrido
spettacolo del sdegno di natura. Dice dunque:
Felici che talvolta visto avete,
Voi per la persa luce ora dolenti
Compagni che doi lumi conoscete.
Questi accesi non fûro, né son spenti;
Però piú grieve mal che non credete
È il mio, e degno de piú gran lamenti: Perché, che fusse torva la natura
Piú a voi ch'a me, non è chi m'assicura.
Al precipizio, o duce,
Conducime, se vuoi darmi contento,
Perché trove rimedio il mio tormento,
Ch'ad esser visto, e non veder la luce,
Qual talpa uscivi al mondo,
E per esser di terra inutil pondo. (Eroici Furori, 716-717)
L’immagine della talpa racchiude una complessa dialettica tra il vedere e il non vedere;
l’essere visto ed il desiderio di nascondersi. Nello scambio di battute che precede la
poesia, viene detto che la fantasia è ció che alimenta il desiderio degli orbi. Il desiderio di
conoscenza è quindi associato ad una dimensione immaginativa, e quindi poetica, fatta
di
raffigurazioni
compiute
nell’ombra,
nell’assenza
di
luce.
È
emblematica
l’autoconsiderazione della talpa come “inutil pondo”, come cioè un peso senza valore
sulla terra. Bruno inscrive in questo verso il desiderio di elevazione, di anagogia, che la
cecità ricerca. Gli Eroici Furori sono la rappresentazione poetica dell’arte di diventar
illuminati, è lo specchio della possibilità data a chi è solo talpa ed a cui, stando invece
alle parole del pittore Gian Bernardo nel Candelaio, non si dovrebbe concedere nessuna
arte.
Bonifacio è questa eroica talpa, è lo specchio di quel percorso che sembra non
rompere i limiti della natura, ma semplicemente rinnovarne i confini, disegnandone
81
nuove forme. Il personaggio del candelaio è il bersaglio di satire e “motteggi” come lo
sono i falsi cornuti ed i filosofi così chiamati solo per dileggio. Il desiderio di Bonifacio
di conquistare Vittoria è legato ad una concezione dell’arte come poiesis, come un fare
per metamorfosi, modificazioni, rivolgimenti. Il candelaio è un cieco che fantastica non
del tutto cosciente del suo stesso cercare. L’architettura del testo di Bruno disperde le
voci in un intrigo di punti di vista che non lasciano nessun personaggio o carattere
prevalere. Ogni figura ha il suo opposto auto-riflessivo, il suo riverso come in uno
specchio.
Il gioco dei travestimenti, l’intrigo degli equivoci, sono forme attraverso cui
vengono messe in scena diversi modi di concepire l’identitá. Gian Bernardo cerca il
riconoscimento del suo “io.” L’aver “trionfato” su Bonifacio facendolo cornuto non
appaga del tutto il suo desiderio. Il pittore vuole vedersi restituita la sua individualitá.
Il suo “io” e l’oggetto del suo desiderio no coincidono. La sua ricerca non ha prodotto
alcuna metamorfosi:
CARUBINA: Togli via queste iscusazioni, scelerato, che io ti conosco, e le
conosco! Chi è costui che, cossì dritto dritto, se ne viene verso noi?
BONIFACIO: Questa è qualch’altra diavolo di matassa: credo che questa
ruffianaccia me ne abbia fatte più di quattro insieme.
GIOAN BERNARDO: O io sono io, o costui è io.
BONIFACIO: Questo è un altro diavolo più grande e più grosso, non tel’ho
detto?
GIOAN BERNARDO: Olà, Messer uomo da bene.
BONIFACIO: Questo ci mancava per la giunta di una mezza libra.
Olà, Messer de la negra barba, dimmi chi di noi dui è io, io o tu? non rispondi?
BONIFACIO: Voi siete voi, ed io sono io.
GIOAN BERNARDO: Come, io sono io? Non hai tu, ladro, rubbata la mia
persona, e, sotto questo abito ed apparenzia, vai commettendo di ribalderie?
come sei cqua tu? che fai con la signora Vittoria?
CARUBINA: Io son sua moglie, m[esser] Gio. Bernardo, che son venuta cossì, per
grazia che mi ha fatta una signora per farmi convencere questo ribaldo.
Lerro 82
Dunque, voi sete madonna Carubina, voi? e costui come è fatto Gioanbernardo?
CARUBINA: Io non so. Dicalo lui che sa parlare ed ave l’età.
BONIFACIO: Ed io ho mutato abito, per conoscere mia moglie. (Candelaio, 382)
In questo noto scambio di battute, sapientemente organizzato attorno a ripetizioni e
sostituzioni, Bruno mette in discussione il principio d'identità opponendolo al
travestimento. Gian Bernardo vuole essere il solo depositario dell'identità tautologica
dell’io. Bonifacio non può essere “io” in quanto camuffato in altre sembianze.
Nell’apparente ilarità del dialogo, possiamo notare come il pittore utilizzi “io” in senso
extra referenziale: “come puoi tu essere io?” Ad un primo livello Gian Bernardo sembra
voler dire “come puoi tu essere tu”, ma su un altro piano discorsivo, la ripetizione
dell’io ha la funzione di denotare un’identità assoluta. La risposta infatti di Bonifacio è
altrettanto duplice: “ho mutato abito per conoscere mia moglie.” Il candelaio si riferisce
sì alla sorpresa nel vedere la moglie Carubina al posto della desiderata Vittoria, ma è
altrettanto vero che alla luce della fitta rete semantica che abbiamo precedentemente
analizzato, la parola “conoscere” ha a questo punto una ambivalente risonanza.
Mentre Gian Bernardo si vede come “io sono io”, come immobile tautologia,
Bonifacio si scorge vestito di un abito che lo ha portato a conoscere quello che, in realtà
già conosceva. Il pittore vuole il suo io riconosciuto dall’esterno, vuole giustizia per la
sua persona, mentre Bonifacio, pur vera vittima dell’intrigo, si lascia travolgere dalla
metamorfosi ed accetta di chiedere perdono e giurare fedeltà alla sua stessa moglie.
Alla fine della commedia, Bonifacio esce di scena ripetendo un nuovo giuramento,
risposando, per così dire, sua moglie in seconde nozze. La figura della donna è adesso
agli occhi di Bonifacio ben diversa di quella che egli aveva immaginato all’inizio della
83
sua avventura. Il candelaio rivede quello che era sempre stato sotto i suoi occhi. La
ricerca del nuovo si conclude con la scoperta del familiare. L’anagogia di Bonifacio ha
come meta il riconciliamento con se stesso, incarnato dalla pace con la moglie.
Il trionfatore sembra essere Gian Bernardo. Eppure l’asino anagogico, durante il
suo percorso ha messo alla prova la sua cecità, la sua ignoranza, la sua incredulità. La
sua uscita di scena è quasi anonima, risolta in questo breve scambio di battute: GB:
“Seguitemi, m[esser] Bonifacio: tenetevi a me ed appigliatevi alla mia cappa, e guardate
di non cascare. B: Io me guardarrò bene.” Il candelaio, il presunto (anti)eroe della
commedia, abbandona la scena a seguito di Gian Bernardo. Eppure il commiato da
Bonifacio non è completo. Nella scena seguente infatti, ormai alla fine della commedia,
a, dove Ascanio racconta a Sanguino la storia del matrimonio tra il candelaio e
Carubina:
SANGUINO: Perché l’ha preso madonna Carub[ina]?
ASCANIO: Perché è pazzo.
SANGUINO: Vi par ch’ell’abbi fatto bene?
ASCANIO: Secondo il conseglio del mustaccio della barba di quella vecchia
lanuta di madonna Angela, ha fatto più che bene, ideste benissimo. Quella è stata
la sua consegliera: quella è la pastora di tutte belle figlie di Napoli. Chi vuol
Agnus dei; chi vuol granelli benedetti; chi vuol acqua di S. Pietro Martire, la
somenza di San Gianni, la manna di S[ant]’Andrea, l’oglio dello grasso della
midolla de le canne dell’ossa del corpo di S. Piantorio; vuol attaccar un voto per
aver buona ventura, vada a trovar madonna Angela Spigna. A costei venne
madonna Carubina, e disse: “Madre mia, voglion darmi marito. Me si presenta
Bonifacio Trucco, il quale ha di che e di modo”. Rispose la vecchia: “Prendilo”.
“Sì, ma è troppo attempato”: disse Carubina. Respose la vecchia: “Figlia, non lo
prendere”. “I miei parenti mi consegliano di prenderlo”. Rispose: “Prendilo”.
“Ma a me non piace troppo”: disse Carubina. “Dunque, non lo prendere”:
rispose. Carubina soggionse: “Io lo conosco di buon parentado”. “Prendilo”:
disse la vecchia. “Ma intendo che dà tre morsi ad un faggiuolo”. Rispose: “Non
lo prendere”. “Sono informata”, disse Carubina, “ch’ave un levrier di buona
razza”. “Prendilo”: rispose la vecchia madonn’Angela. “Ma, heimè!” disse, “ho
udito dir ch’è candelaio”. “Non lo prendere”: rispose. Disse Carubina: “Lo
Lerro 84
stiman tutti pazzo” — “Prendilo, prendilo, prendilo, prendilo, prendilo,
prendilo, prendilo”: sette volte disse la vecchia; “non importa che sii candelaio,
non ti curar che dii tre morsi ad un faggiuolo, non ti fa nulla che non piace
troppo, non ti curar che sii troppo attempato. Prendilo, prendilo, perché è pazzo;
ma guarda che non sii di que’ riggidi, amari, agresti”. “Son certa che non è di
quelli”: disse Carubina. “Prendilo, dunque”, disse madonna Angela, “prendilo”.
Strutturalmente il brano occupa una posizione rilevante in quanto completa luscita di
scena di Bonifacio. Il personaggio, privato della sua voce, costretto a ripetere promesse
solenni al seguito di Gian Bernardo, è qui nuovamente intrappolato nel discorso
dell’altro. Come abbiamo visto, fin dall’inizio della commedia Bonifacio viene
assimilato a figure animalesche che descrivono la follia d’amore. I “gloriosi frutti di
pazzia,”
come
sono
denominati
nel
proprologo,
non
vengono
interamente
rappresentati. Si ha sì lo “scacco” di Bonifacio, un ironico “glorioso frutto”, ma allo
stesso tempo la commedia si conclude con una promessa di amore e fedeltà futura, tutta
cioè ancore da venire. Il testo non completa la rappresentazione dell’azione. In tal senso,
la vicenda tende a scavalcare i confini del testo. La stessa relazione tra Gian Bernardo e
Carubina è proiettata nel futuro ma non consumata nello spazio scenico.
L’ultima parola su Bonifacio l’hanno due figure di servi.34 Il candelaio è privato
della sua parola. La sua afasia riveste un significato importante nell’economia simbolica
della commedia. La sua pazzia viene qui definita non come quella di un innamorato,
ma come tratto fondamentale della sua personalità. In altre parole, alla fine della
Vorrei qui notare come l’uso insistito del discorso riportato e del racconoto di azioni
fuori scena avvicini il Candelaio al gusto del teatro Barocco. Tali stratagemmi
rappresentativi sono infatti l’ossatura della poetica di tragediografi quali Federico Della
Valle e Carlo De’ Dottori.
34
85
commedia, veniamo a scoprire che la follia di Bonifacio, il suo furore amoroso, non ha
inizio con l’appassionarsi alla signora Vittoria, ma precede l’inizio della storia stessa.
La storia di Ascanio ha il tono di un aneddoto. Questo conferisce alla storia del
matrimonio un alone d’inverosimiglianza fiabesco che inscrive la figura del pazzo in un
contesto quasi fantastico. La domanda che viene da porsi è che funzione abbia questo
aneddoto proprio alla fine della commedia, quando il personaggio è ormai fuori scena.
La storia inoltre si riallaccia idealmente al proprologo, e all’argomento della commedia,
in cui viene per la prima volta nominata la follia di Bonifacio. In questo modo il testo
acquisisce una circolaritá che però non dà piena ragione della natura di questa stessa
follia.
Ho ipotizzato che la storia dell’asino e del leone fosse una figura meta-riflessiva
che pone in questione il rapporto di forza tra i personaggi della commedia. Allo stesso
modo, mi sembra che l’aneddoto di Ascanio sia una prefigurazione di una storia
ulteriore. Questa storia è quella della talpa cieca che abbiamo visto aprire le poesie dei
nove ciechi negli Eroici Furori. Bonifacio viene infatti indirettamente assimilato da Gian
Bernardo ad una talpa che vuole trasformarsi in ciò che non può diventare. Questa talpa
è il simbolo a sua volta nei Furori della cecità del furioso che desidera acquisire
conoscenza. Come nel Candelaio, in modo quasi speculare, la storia dei nove ciechi si
conclude con la perdita di voce e con l'appropriazione della parola del soggetto da parte
dell’altro. Nel penultimo dialogo dei Furori, così viene descritto l’ultimo dei noce ciechi:
Viene al fine l'ultimo, il quale è ancor muto: perché non possendo (per non aver ardire)
dir quello che massime vorrebe senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di
qualsivogli'altra cosa. Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la
Lerro 86
quale, per esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza. Parla la guida
del nono cieco.
Fortunati voi altri ciechi amanti,
Che la caggion del vostro mal spiegate:
Esser possete, per merto de pianti,
Graditi d'accoglienze caste e grate;
Di quel ch'io guido, qual tra tutti quanti
Piú altamente spasma, il vampo late,
Muto forse per falta d'ardimento
Di far chiaro a sua diva il suo tormento.
Aprite, aprite il passo,
Siate benigni a questo vacuo volto
De tristi impedimenti, o popol folto,
Mentre ch'il busto travagliato e lasso
Va picchiando le porte
Di men penosa e più profonda morte. (Eroici Furori, 724-725)
Anche nei Furori troviamo una progressione che va da una cieca talpa ad un cieco muto.
L’ultimo dei nove è incapace di parlare. Il desiderio, il furore, la follia non trovano
articolazione verbale se non mediante il discorso dell’altro. La pazzia, nel suo momento
culminante si tramuta nel silenzio, in una sospensione del discorso. Come Bonifacio,
anche il furioso trova espressione solo attraverso una affermazione indiretta, compiuta
da un altro soggetto. Una tale rappresentazione non può che pertanto essere definita
negativa, in quanto afferma il desiderio attraverso la descrizione di ciò che non si ha e
di ciò che non si può ottenere. Il desiderio del pazzo e del furioso vive di dilazioni, di
differimenti del piacere. A chiosa di tale “afasia” del furioso, Bruno scrive:
Onde disse la C a n t i c a : Averte oculos tuos a me, quia ipsi me avolare fecere. E
cossí supprime gli occhi da non vedere quel che massime desidera e gode di
vedere; come raffrena la lingua da non parlare con chi massime brama di parlare,
per tema che difetto di sguardo o difettosa parola non lo avvilisca, o per qualche
modo non lo metta in disgrazia. E questo suol procedere da l'apprensione de
l'excellenza de l'oggetto sopra de la sua facultà potenziale: onde gli più profondi
e divini teologi dicono che più si onora ed ama Dio per silenzio che per parola,
come si vede più per chiuder gli occhi alle specie representate che per aprirli:
87
onde è tanto celebre la teologia negativa de Pitagora e Dionisio sopra quella
demostrativa de Aristotele e scolastici dottori.
La follia cieca e muta è da Bruno accostata alla teologia negativa, ovvero al discorso
apofatico che definisce per negazione il proprio oggetto del discorso. Vorrei suggerire
di leggere l’uscita di scena di Bonifacio, l’asino anagogico, nell’ottica di una
rappresentazione negativa: “i gloriosi frutti di pazzia” non sono dicibili. L’afasia del
personaggio è quella del testo: la negatività è nella rappresentazione di un processo, nel
autoriflettersi del testo nelle sue stesse figure e nel suo farsi, nel suo essere poiesis.
L’unica epistemologia è quella di una poesia in divenire.
Le figure animalesche quindi, il cavallo Pegaso, la nudità sono tutte forme
attraverso cui Bruno cerca di avvicinare la rappresentazione di un soggetto ancora da
costruirsi, ancora all’inizio del proprio percorso conoscitivo, imprigionato quindi nella
indicibilitá delle ombre ed alla ricerca di una nuova arte, di un nuovo alfabeto, di una
nuova retorica.
Il Candelaio con la sua “candela” chiarisce alcune ombre delle idee in chiaroscuro,
mostrandone la difficile conformazione, il loro continuo mutamento di forme come
ombre cinesi su uno schermo bianco, un riflesso multiforme di un’instabile fiamma. Il
personaggio di Bonifacio è, a mio avviso, questa fiamma, questa fioca luce
chiarificatrice. Il suo carattere è simile ad una di quelle statue immaginate da Bruno
nella Lampas Triginta Statuarum per rappresentare i principi irrapresentabili
dell’universo. Solo mediante la costruzione plastica di un corpo, attraverso cioè una
Lerro 88
poiesis, è possibile per il soggetto costruire un filtro35 che renda la luce assoluta del vero
visibile attraverso gli squarci delle ombre, mediante le sfaccettature di una figura mai
stabile ma sempre in metamorfosi.
Secondo Bruno vi sono infatti tre principi infigurabili: il Caos, l’Abisso, e la Notte.
Questi sono gli elementi che conformano l’universo. Bruno immagina di raffigurare
l’infigurabile attraverso la costruzione di statue le quali, non devono essere verosimili,
ma semplicemente contenere una simbologia che permetta al soggetto di ricordare,
creandoli, i significati dell’infigurabile. La Lampas si apre infatti con la disamina di
diversi metodi di conoscenza. Quello che Bruno predilige e l’ottavo e ultimo:
Un ottavo, infine, procede per contrapposizione, ovvero, per parlare in modo più
appropriato, rende manifesta una particolare realtà contrapponendola ad un
sostrato in grado di rifletterla: così come possiamo evocare figure innumerevoli
proiettandone i riflessi in uno specchio unico, e rivolgendolo a regioni del tutto
diverse, è ancora possibile concepire per l’unica e identica virtù dello specchio
tutte le cose, volta per volta diverse dalla loro precedente condizione. (Lampas,
937)36
Bruno immagina quindi la rappresentazione dell’invisibile come il riflettersi di un corpo
in uno specchio. Questo riflesso non è un dato, ma una costruzione artificiale dell’uomo.
Le statue sono per Bruno questo atto poetico, ovvero il prodursi di sostrati che mostrino,
indirettamente, l’aspetto delle cose nel loro mutarsi. Il personaggio di Bonifacio nel
Vorrei qui sottolineare come una tale concezione della letteratura come epistemologia
poetica, come costruzione di corpi chje permetano una visione in chiaroscuro della
realtà sarà non solo di ampia fortuna nel ‘600 (basti pensare a Tesauro, Peregrini,
Paleotti), ma verrà ripresa anche da Vico nel De Antiquissima Italiorum Sapientia, testo
cardine nello sviluppo del pensiero che porterà alla Scienza Nuova.
36 Alia est tandem per obiectionem seu, ut proprius dicam, obiectationem,
quemadmodum eidem speculo informando innumerabiles obiectare possumus figuras,
eodemque prorsus ad diversas converso regiones omnia pro sui conditione diversa,
unica et aequali quadam virtute concipere possumus” (Lampas, 936)
35
89
Candelaio sembra rispondere a questa necessità rappresentativa. Abbiamo visto come la
sua figura oscilli costantemente tra opposti estremi, come la rete di immagini che
sottende la commedia metta in scena una storia di metamorfosi e di rovesciamenti in cui
ogni apparente gerarchia simbolica e di potere viene sempre messa in discussione e
sospesa.
Il personaggio di Bonifacio è la costruzione poetica attraverso cui la visione di una
verità filosofica viene sfaccettata e scolpita in una sempre diversa dinamica di forme e
figure. Per Bruno, abbiamo appena detto, il riflesso nello specchio non è mai statico. La
stessa natura dell’ombra, a cui Bonifacio sembra appartenere, è instabile e matemorfica:
L’ombra è una sorta di sostrato insensibile: non coincide con nessuna specie
naturale, ma viene concepita dalla ragione come sostrato indivisibile ed
immobile delle specie naturali. […] Possiamo conoscere l’ombra solo
distinguendola dalla luce, perché è la luce invece ad essere conoscibile di per se
stessa: non diversamente la notte ovvero la materia si lascia conoscere solo
osservando il susseguirsi delle forme, che sono figlie della luce, tutto intorno al
medesimo principio. […] L’ombra è il primo principio che accoglie su di sé
quanto esiste e che, per così dire, acconsente all’unione con l’atto, in quanto può
congiungersi alla luce. (Lampas, 975)37
La Lampas sembra un perfetto autocommento di Bruno tanto al De Umbris, quanto al
Candelaio. Il testo letterario permette a Bruno di costruire un corpo dalle molteplici forme
che proietta ombre diverse a seconda delle angolazioni. Il meccanismo del Candelaio
Umbra enim subiectum quoddam est insensibile, et nullam naturalem speciem refert,
sed naturalium specierum subiectum individuum et immobile ratione concipitur.
Consequenter a secundo, sicut umbram non cognoscimus praeterquam a differentia a
luce, lux vero per se ipsam est cognoscibilis; ita Noctem seu materiam non cognoscere
contingit, nisi per formarum, quae lucis filiae sunt, successionem circa idem.Dicitur ipsa
primum subiectum, quia neque parens privatio seu Orcus subiectum esse potest, neque
vacuum est subiectum, sed subiectorum receptaculum; ipsa vero umbra, quae Chaos
universum implet et Orci amplitudinem exaequat, primum est quod entitati subiicitur
et actus veluti connubium acceptat, luci utpote coniugabilis. (Lampas, 976)
37
Lerro 90
illustra in definitiva la tensione della scrittura di Bruno verso una epistemologia poetica
di tipo chiaroscurale. La verità in altre parole, non sta nella scoperta di un certo
linguaggio, quanto nella creazione discorsiva stessa. La produzione del discorso, delle
sue immagini, delle sue figure è la Lampas che chiarisce il continuo mutarsi del Candelaio
in opposti. La letteratura diventa lo specchio in cui le forme molteplici dell’essere
possono liberamente associarsi. I personaggi della commedia sono come statue,
dinamiche, che filtrano la luce assoluta nell’abisso della notte. L’ibridismo ed
indefinitezza delle ombre è riflesso dall’indefinitezza semantica e metaforica del testo
stesso. Le metamorfosi di Bonifacio sono il prodursi del discorso tra le ombre di idee
non definite e furori di desideri mai appagati.
La commedia di Bruno non sembra allora essere né la mimesi del reale come è,
nel del reale come potrebbe essere, piuttosto un congegno in costante movimento simile
alle ruote mnemotecniche del De Umbris: ogni combinazione di simboli produce un
cambiamento di tutte le altre catene simboliche le quali, senza gerarchie, sono
costantemente in mutamento. Solo la visione della mano che ruota conosce il significato
di quei simboli perché è essa che li produce.
Mi sembra, in conclusione, che l’unica critica possibile al Candelaio debba essere a
sua volta una critica poetica, una costruzione di figure ed immagini che, piuttosto che
spiegare il testo, lo continuino con un nuovo modificarsi di forme e contorni, ne siano la
prosecuzione infinita. Il lettore, come Bonifacio, deve farsi un po’ asino ed accettare
l'incomprensibilità del testo. Ma allo stesso tempo, il lettore deve sapersi mutare in un
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nuovo Pegaso e cercare sempre nuove fonti di ispirazione, nuovi labirinti, nuove vite da
vivere.
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