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avvenimenti
N. 51 | 22 dicembre 2012 left + l’unità 2 euro (0,80+1,20)
da vendersi obbligatoriamente insieme al numero di sabato 22 dicembre de l’Unità
Crescita, Europa, Nord,
astensionismo, tv.
Ecco su cosa si gioca
la partita elettorale
uno
dei due
di S. Basso, M. Bonaccorsi, D. Coccoli,
L. Mazzetti, C. Tosi
settimanale left avvenimenti
poste italiane spa - SPED. abb.
Post. - D.L. 353/2003 (conv. in l.
27/02/2004 n. 46) ART. 1, COMMA
1 DCB roma - ann0 XXIv - ISSN
1594-123X
inchiesta è boom messico Il ritorno mosca Salviamo
di sfratti
degli zapatisti
il museo Majakovskij
la settimanaccia
2
left.it
22 dicembre 2012
left
left.it
left
Direttore editoriale
Donatella Coccoli
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n. 357/88 del 13/6/88
LA TESTATA FRUISCE DEI CONTRIBUTI
DI CUI LA LEGGE AGOSTO 1990, N. 250
left 8 dicembre 2012
la nota di
Ilaria Bonaccorsi Gardini
e Giommaria Monti
Il buco nero del carcere
I
l vecchio leone ha avuto ragione, ancora una volta. Marco Pannella ha
costretto il Paese a occuparsi di carceri. Lo ha fatto nel modo che gli è proprio da decenni, con la sua pratica nonviolenta del digiuno, in realtà più dolorosa di uno schiaffo in faccia a un’Italia
che si volta sempre dall’altra parte. Mettendo sempre seriamente a rischio la
sua vita. «Dò loro la forza che non hanno», ha detto. E così Monti, la Severino, i giornali hanno trovato il coraggio
di guardare dentro il buco nero delle nostre galere. Noi di left due mesi fa abbiamo cominciato un lungo viaggio dentro
le carceri italiane. Con i tempi necessari per le autorizzazioni siamo entrati a
Volterra e a Badu ’e Carros, il carcere di
massima sicurezza di Nuoro. Nel prossimo numero troverete i nostri racconti
da questi due fronti, insieme a Perugia e
Poggioreale a Napoli.
Perché siamo andati lì? Perché 60
suicidi nel 2012 tra i carcerati e 9 tra
gli agenti di polizia penitenziaria urlavano quel che accade dentro le prigioni. E che ha portato l’Italia in questi decenni a oltre duemila condanne per la
violazione della Convenzione sui diritti dell’uomo. Secondi solo alla Turchia (ricordate il film Fuga di Mezzanotte?). Quando si parla di sovraffollamento bisogna capire esattamente che
cos’è: 66mila e 300 persone chiuse in
spazi che possono contenerne 45mila
e 700. L’art.27 della nostra Costituzione dice che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Forse bisogna ricordarsi che prima dice
che «le pene non possono consistere
in trattamenti contrari al senso di umanità». Costringere a vivere in quel modo dentro le celle viola i principi ele-
mentari della dignità dell’uomo. Questo non lo diciamo solo noi. Ce lo hanno spiegato durante il nostro viaggio gli
agenti di polizia penitenziaria che nelle
carceri lavorano da trent’anni.
E poi, al solito, cercando si trova di
più. Perché quegli stessi agenti di polizia, a Volterra, ci hanno spiegato che da
quando «è entrato il teatro nel carcere
è finita la guerra». La guerra delle guardie e dei ladri. E insieme ai detenuti ci
hanno fatto vedere un pezzo di futuro
che è già presente. Ci hanno fatto vedere che ridare la “libertà di essere esseri umani” è possibile anche nel carcere.
Anzi è già realtà. È bastato stare in quel
carcere tre giorni per capire che “arrestare” la vita di qualcuno e basta è, oltreché che contrario al senso di umanità, completamente folle. E che, invece, “riscrivere” un’altra vita è possibile.
Aniello Arena, ergastolano di Volterra,
attore della Compagnia della Fortezza
di Armando Punzo e interprete sublime dell’ultimo film di Matteo Garrone,
ci ha detto: «Io mentalmente non sono
più detenuto. Ho sotterrato l’ergastolano. Sono nato due volte».
Non è un miracolo, è una realtà incontrovertibile e un progetto per il presente. Perché come dice Punzo «bisogna lavorare sull’uomo, superare
quell’atteggiamento cattolico o di sinistra assistenzialista capace di sfornare
solo una serie di luoghi comuni, tra cui il
pietismo che non produce mai azioni vere per trasformare le situazioni». Ribellarsi a una condizione materiale e ancor
prima culturale. Ripartire da quella frase estrema ma universale di Punzo: «A
me non interessa il carcere e i detenuti.
A me interessano gli uomini».
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[email protected]
left.it
Dopo la rubrica di Andrea Ranieri “Arancioni imparate da
Occupy” (left del 15 dicembre) riceviamo e pubblichiamo.
Mai più
Nessun cappello
sul movimento
Sì al reato di tortura.
Firma la petizione.
“Cambiare si può” vuole ridare un senso alla politica,
sfuggire alla rassegnazione
a cui ci condanna il pensiero
unico del mercato. Mi pare
che la tesi sostenuta da Andrea Ranieri non regga per
più di una ragione. Innanzitutto il grande movimento
di Genova non è morto per
troppa politica ma perché,
a un certo punto, è prevalsa
una politica sbagliata. Quella
che abbandonava la radicalità del “Voi G8, noi 6miliardi”
per infilarsi, in nome dell’antiberlusconismo, in una scelta di alleanza con il centrosinistra che si è rivelata in
continuità con quelle politiche neoliberiste che il movimento contestava. In secondo luogo, nessuno vuole fare l’avanguardia del movimento. Il problema è portare
nell’universo simbolico della comunicazione pubblica e
nel Parlamento una posizione palesemente e dichiaratamente antiliberista. Il nodo è
la messa in discussione della naturalità e della “tecnicità” delle politiche di estrema
destra del governo dei professori. La messa in discussione dello stato di necessità indotto da un’informazione terrorista che punta a spaventare i popoli per annichilire le coscienze e impedire
l’azione. Le elezioni politiche
del 2013 non si ridurranno allo scontro Bersani-Berlusconi-Monti. Noi vogliamo porre
la sfida tra il montismo variamente declinato e l’antimontismo che si basa sulla difesa dei diritti dei lavoratori,
dei precari, delle donne, dello stato sociale e sui diritti civili. La nostra proposta di lista unitaria della sinistra non
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vuole in alcun modo mettere il cappello sul movimento,
ma al contrario restituire alla
politica una coerenza tra ciò
che si dice nelle piazze e ciò
che si vota in Parlamento.
Paolo Ferrero, segr. naz. Prc
mai più
In Italia non esiste il reato di tortura
Le battaglie
ignorate dal Pd
Non me ne voglia Andrea Ranieri, ma mi pare proprio che
il suo ragionamento non contenga alcuna novità. E potrebbe essere riassunto così:
i movimenti protestino pure,
l’importante è che votino Pd
che comunque è sempre meglio della destra. Salvo dover
poi prendere atto che le battaglie condotte dai movimenti sono state, una per una,
disattese, ignorate quando
non tradite dal Pd: dal rispetto della vittoria referendaria
sull’acqua, al taglio delle spese militari, alla lotta al precariato, alla difesa della scuola
pubblica, ecc. La questione è
molto semplice: i movimenti, da Porto Alegre a Genova, non chiedono di aggiungere un +1 alle scelte del Pd,
non sono semplicemente “un
po’ più di sinistra” del Pd, ma
propongono una differente
visione del futuro da realizzarsi attraverso una fuoriuscita dal liberismo e dal pensiero unico del mercato che
invece restano l’orizzonte di
riferimento del Pd, pur con
qualche distinguo dalla destra. I movimenti sociali devono mantenere la loro autonomia da qualunque forza
politica, ma la presenza organizzata di una sinistra politica antiliberista offrirebbe
un’utile sponda all’azione dei
movimenti, nel rispetto delle
reciproche autonomie.
Vittorio Agnoletto, portavoce Genoa social forum 2001
In Italia non esiste il reato
di tortura. left aderisce alla
raccolta di firme promossa
dai familiari delle vittime,
affinché il Parlamento approvi la legge. Ogni settimana torneremo a ricordarlo.
Per firmare la petizione:
www.detenutoignoto.com
Dietro le quinte
del caso Cucchi
di Fabio Anselmo*
L
a perizia è depositata. La situazione è strana,
mentre leggo per la prima volta l’elaborato, in
un bar vicino al tribunale di piazzale Clodio, ho
Ilaria di fianco che ascolta insieme ad una mia collega.
Si parla di Stefano. Si parla di come è stato trattato. Sul
viso di Ilaria iniziano a scendere silenziose le lacrime.
Mi sento in imbarazzo, non so se continuare a leggere o
fermarmi. Indugio. Ilaria mi invita a continuare.
È un atto d’accusa formidabile contro i medici del Pertini che non lo hanno curato. Lo hanno abbandonato in
quelle condizioni.
«Ma in quelle condizioni non ci si è messo da solo.
Non ha fatto alcun sciopero della fame, sì ...è vero che
ha provato a protestare per denunciare coloro che lo
avevano aggredito il giorno prima, ma è altrettanto
vero che poi aveva mangiato, aveva chiesto una cioccolata, aveva chiesto di parlare con mio marito, aveva
scritto una lettera alla comunità chiedendo disperatamente di essere considerato, aveva chiesto una Bibbia». Questo dice Ilaria. «In quegli anni non era assolutamente un tossico - continua - ma faceva una vita
assolutamente normale! Lavorava, faceva palestra, si
occupava dei suoi nipoti! Quando è morto non è stata
trovata alcuna traccia di stupefacenti nel suo sangue!
Dite che era uno spacciatore ma non dite per favore
che era un tossicodipendente!».
Le lacrime di Ilaria sono finite. Le arrivano messaggi da
Patrizia, Lucia e Domenica, da Luciano ma anche da altri. Ilaria si alza. È di nuovo lei. Determinata, composta
con mille interrogativi da porre a coloro che prima o
poi dovranno risponderle.
Sarà un Natale triste, come lo sono stati tutti quelli dopo l’ottobre del 2009.Ma la forza per andare avanti non
manca. La determinazione neppure. Suo fratello è stato
messo in carcere come un albanese senza fissa dimora
ed è morto come un italiano di Roma senza diritti.
*avvocato delle famiglie Aldrovandi,
Cucchi, Ferrulli, Uva
22 dicembre 2012
left
left.it
left.it
sommario
ianno XXIV, nuova serie n. 51 / 22 DICEMbre 2012
copertina
alba dorata
Cultura
Le diverse ricette economiche
sulla crisi di Bersani e Monti.
Il tifo di Bruxelles e dei governi
europei. L’enigma del voto nel
Nord e dell’astensione. La guerra sulle
televisioni. Si apre la campagna elettorale
che ci porterà verso la Terza Repubblica.
Xenofobi, omofobi, antisemiti e antisindacali. Arriva dalla Lombardia
il movimento che dà il nome al partita razzista greco. L’idea è venuta ad
Alessandro Gardossi, l’ex factotum triestino
di Domenico Scilipoti. Si presentano alle Regionali lombarde con la svastica nel simbolo.
L’opera del poeta che voleva fare la
rivoluzione con i versi rischia l’oblìo
nella Russia dell’impero putiniano.
Il museo Majakovskij, uno dei più
originali della Russia, ricchissimo di documenti, rischia di chiudere. Rampanti manager lo
vogliono rendere più commerciale.
corpo a corpo
un brand per fascisti
14
30
la settimana
società
02
03
04
04
la settimanaccia
La nota
LETTERE
l’appello Dietro le
quinte
del caso Cucchi di Fabio Anselmo
l’incontro
10 De Gregori: Sulla strada di un Paese abbandonato di Giommaria Monti
copertina
14 Corpo a corpo di Manuele Bonaccorsi
18 Ue: provaci ancora prof
di Cecilia Tosi
20 Incognita Nord
di Sofia Basso
22 Caccia all’ultimo voto
di Donatella Coccoli
24 Struttura Delta di nuovo in azione
di Loris Mazzetti
26
30
32
34
Sfratti vostri di Ylenia Sina
Alba dorata un brand per fascisti
di Davide Ilarietti
Registri flop di Marilena Vinci
L’isola senza tesoro di Claudio Reale
mondo
38 Il ritorno di Marcos
di Mirko Peddis
42 Tutta la vita in colonia
di Massimiliano Sfregola
48
IDEE
di Adriano Prosperi
06 Il taccuino
07 la locomotiva
di Sergio Cofferati
08 In punta di penna
di Alberto Cisterna
09 LA LETTERA MANCANTE
di Francesca Merloni
54 TRASFORMAZIONE
di Massimo Fagioli
RUBRICHE
di Emanuele Santi
a cura della redazione Interni
a cura della redazione Esteri
a cura della redazione Esteri
cultura e scienza
48 Salviamo il “teppista” della poesia
di Guido Carpi
56 Fiori Nastro: Quella falsa idea di libertà di Ilaria Bonaccorsi Gardini
58 Ingólfsson: non solo Hobbit
di Gabriella Basso Ricci
Fai qualcosa
di sinistra.
Regala left!
in offerta fino
al 6 gennaio
la versione web
a 3522
€ l’anno
left
dicembre 2012
sos museo Majakovskij
35 Calcio mancino
36 Cose dell’altritalia
44 Metropolis
46 newsglobal
52 arte di Simona Maggiorelli
53 libri di Filippo La Porta
59 cinema di Morando Morandini
60 bazar
Teatro, junior, tendenze
61 in fondo di Bebo Storti
62 appuntamenti
a cura della redazione Cultura
vai su www.left.it
o scrivi ad [email protected]
Chiuso in tipografia il 19 dicembre 2012
il taccuino
di Adriano Prosperi
il taccuino
Promemoria per le elezioni
La Chiesa spera che vinca chi fa i loro interessi. È opportuno allora approntare un decalogo
per i candidati del centrosinistra: laicità, tutela del lavoro, immigrazione, diritti
C
i mancava solo il decalogo: quello di Monti, non quello di Mosé. Un termine
che da solo basta a rendere il clima compunto e devoto di questa crisi di governo. Possiamo indovinarne il primo comandamento: «Non avrai altro governo
che il mio». È solo l’ultimo segno del clima che le autorità della Chiesa stanno creando, per la nascita di un altro governo attento ai loro interessi: dopo quello di Berlusconi e quello di Monti, se ne vuole un altro che continui sulla stessa linea. Inutile che il Pd sbandieri la foto di Bersani chierichetto. Quello che si teme non sono le
convinzioni delle persone ma il rischio di un governo fedele alla Costituzione e ai
suoi valori: uguaglianza davanti alla legge, libertà religiosa, rispetto delle coscienze, rafforzamento della scuola pubblica come palestra dei diritti di cittadinanza e
dell’incontro di culture diverse. In fondo è ancora il metodo del patto firmato nel
1912 da Giolitti col conte Gentiloni. Allora la fine del veto vaticano alla partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana fu condizionata all’impegno dei liberali di tutelare congregazioni religiose e scuole private, garantire l’istruzione religiosa cattolica nelle scuole, impedire ogni misura ostile alla Chiesa. Oggi quel pacchetto è stato rimpolpato e aggiornato: la legge sul fine vita, la lotta contro
l’aborto, il riconoscimento della condizione di privilegio della Chiesa cattolica rispetto a ogni altra religione,
con tanti saluti al Concilio Vaticano II. È il seguito di Todi: appoggiare governi che
facciano leggi in presa diretta col Vaticano. La campagna è ossessiva. Dalla Milano
che fu del cardinal Martini, il cardinale Scola rispolvera vigorosamente l’antica teoria della “libertas Ecclesiae”: che è anche libertà di non pagare le tasse, come abbiamo visto con l’Imu, complice un governo che intanto grava la mano su ospedali
e scuole (quelle statali, naturalmente). Berlusconi ieri, Monti oggi.
Allora compiliamo un decalogo che dica quante sono le cose che ci saremmo
aspettati da questo governo e che ora dobbiamo rimandare al prossimo. La cronaca ne suggerisce ogni giorno qualcuna: le carceri per le quali Pannella lotta fino alla morte, il lavoro e la salute (Ilva, Piombino, i mille e mille luoghi dove si muore di lavoro, gli ospedali che chiudono), l’istruzione, la ricerca, la cultura, la tutela dell’ambiente, i diritti delle donne, la lotta contro il razzismo (è
passato solo un anno dall’attentato di Firenze contro i senegalesi). Il catalogo è utile perché accanto alle primarie l’elettorato dia indicazioni di programma per un governo democraticamente eletto. Il 18 dicembre è stata la giornata
mondiale dell’immigrazione, per i diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. In Argentina dedicano due giorni di festa agli immigrati italiani. In Tunisia ci si chiede dove siano finiti e se siano ancora vivi i giovani tunisini che a migliaia hanno attraversato il Mediterraneo verso l’Italia. Giusi Nicolini, sindaco
di Lampedusa, scrive che non ci sono più nemmeno loculi per seppellire i corpi degli annegati. Ma funzionano ancora i Cie, dove la gente è chiusa per diciotto mesi di galera. E sul diritto di cittadinanza è ancora in vigore la legge razzista
che considera italiani solo coloro che nascono da altri italiani.
Accanto alle primarie l’elettorato deve
dare indicazioni di programma per
un governo democraticamente eletto
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left
la locomotiva
di Sergio Cofferati
il taccuino
Non scordiamo i referendum
Ristabilire l’articolo 18. Abrogare l’iniquo articolo 8 di Sacconi. La politica e i media non
parlano più dei quesiti sul lavoro. Dai quali proviene l’unica possibile idea di uscita dalla crisi
L’
agenda politica di queste settimane vive un momento di notevole effervescenza, dovuta evidentemente all’approssimarsi delle Politiche e alla poca
chiarezza degli scenari politici. Una tale dinamica sta tuttavia lasciando al margine
il tema del lavoro e dei diritti, proseguendo una pericolosa tendenza in atto già da
diversi anni. La raccolta delle firme per i referendum che chiedono l’abolizione della norma che ha cancellato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e per l’abolizione dell’articolo 8 della manovra estiva del governo Berlusconi sembra essere decisamente caduta in questo oblio, rimanendo sostanzialmente fuori dalle agende politiche e giornalistiche. Credo invece che quei quesiti portino con sé, sia per il loro
contenuto specifico che per il loro significato più generale, degli elementi non solo di enorme attualità, ma di prospettiva per il futuro. Da una lettura obiettiva sulla
situazione attuale dovrebbe sembrare del tutto evidente che le conseguenze peggiori della crisi stanno gravando sulle spalle dei lavoratori, con risvolti iniqui ed
economicamente recessivi. E questo accade sotto molteplici punti di vista tra loro
connessi: si subiscono gli effetti della disoccupazione e della precarietà; ma si subisce anche la progressiva perdita di valore di salari e stipendi che genera nuovi e
terribili fenomeni di povertà; e non da ultimo si paga anche l’arretramento sul fronte dei diritti, più invisibile e meno materiale, ma senza dubbio non meno pericoloso. Se questa è la situazione, dovrebbe risultare chiaro a tutti che rimettere al centro il tema del lavoro è l’unico modo per iniziare a tracciare una via d’uscita dalla
crisi che sia equa e socialmente sostenibile. I
referendum vanno esattamente in questa direzione. Il reintegro del lavoratore licenziato
in maniera ingiustificata, così come previsto
dallo Statuto dei lavoratori prima della modifica del governo Monti, era un argine per la difesa della dignità del lavoratore, di
valore sia materiale che simbolico. La possibilità, prevista nella modifica, di riparare al licenziamento ingiustificato con il solo indennizzo economico, non solo rischia di aprire la strada a licenziamenti discriminanti, ma rappresenta nella sostanza la mercificazione e la perdita netta di valore del lavoro stesso. Il pericolosissimo
articolo 8 della manovra estiva di Berlusconi e Sacconi attacca invece in maniera
frontale i contratti nazionali e consente di derogare persino alle leggi. Dietro una
rinvigorita logica della flessibilità si nasconde (e neanche troppo bene) un evidente attacco contro i sindacati e, più in generale, contro la rappresentanza e la solidarietà tra i lavoratori. L’abolizione di queste norme, ben lungi dall’essere difensiva, è
il punto di partenza simbolico e materiale, per ricostruire un’agenda politica che rimetta al centro il lavoro. Coscienti che parlare di diritti, significa capovolgere quella logica vecchia almeno vent’anni (che ancora oggi vuole spacciarsi per nuova)
secondo la quale per garantire uno spiraglio di precarietà al figlio è necessario togliere un diritto al padre, significa difendere le conquiste di ieri e aggiornarle e rafforzarle domani. Significa guardare a un futuro più giusto e dignitoso per tutti. Ecco perché occorre firmare per quei referendum e aiutare a raccogliere altre firme
nelle prossime settimane.
[email protected]
Non sono proposte difensive. Ma
il punto di partenza per un’agenda
che rimetta al centro l’equità
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in punta di penna
di Alberto Cisterna
il taccuino
Rassegne stampa al bando
Tra poche settimane niente più consultazioni gratuite online dei giornali. È il risultato
di un accordo tra gli editori e il Parlamento. Così muore la libera circolazione delle idee
L
a Federazione italiana degli editori (Fieg) e il Parlamento hanno appena raggiunto un importante accordo: dal 2013, ossia tra poche settimane,
niente più rassegne stampa online. Basta con la consultazione gratuita degli articoli (poche decine in realtà, non certo le migliaia che riempiono le pagine di
ogni giorno) sui siti di Camera e Senato. Chi vuol leggere, chi avverte la necessità di essere informato compri il giornale o paghi i diritti di consultazione ai siti internet delle testate.
Credo che sia un fatto grave. Capisco che la rassegna stampa online corroda i
diritti degli autori dei pezzi e, soprattutto, gli introiti degli editori, ma è anche
un mezzo straordinario con il quale le idee circolano nel Paese e il pluralismo
informativo viene garantito a tutti, anche a quelli, ai tanti, che non hanno denaro a sufficienza per permettersi un nugolo di giornali o di settimanali.
Tramontata, forse per sempre, la stagione dei giornali-partito, ossia dei quotidiani e dei settimanali che venivano acquistati con spirito partigiano da chi si
riconosceva in un’idea, in un progetto o in una protesta, le rassegne stampa online sono divenute il modo migliore con cui ogni cittadino può formarsi un’opinione plurale sui fatti, sulle prese di posizione, sugli eventi.
In rassegna stampa Il Fatto e Libero stanno l’uno dopo l’altro. In quel luogo virtuale Travaglio e Sallusti si fronteggiano quotidianamente, con pacatezza, senza la ridicola pantomima degli show televisivi. Che i principali consessi della
democrazia, la Camera e il Senato appunto, privino i cittadini della consultazione online delle principali testate giornalistiche del Paese è un vulnus alla libertà di pensiero e alla libertà di voto, soprattutto quando si prepara una stagione politica che, mai come ora, esige donne e uomini consapevoli dei complessi
scenari in gioco. L’invasione della Rete genialmente compiuta da Grillo e quella che si appresterebbe a realizzare il rinato Berlusconi, esigono che ciascuno abbia la possibilità di potersi
formare un’opinione completa e
dialettica. Cancellare l’accesso
maturo alla Rete che le rassegne
stampa garantiscono è, quindi,
un favore alla propaganda e alla demagogia. Non tutte le testate online e non tutti i blog garantiscono qualità delle idee e pacatezza delle proposte, spesso sono solo megafoni di un chiacchiericcio superficiale. Provvedano i presidenti di Camera e Senato a ridurre
una quota dei rimborsi elettorali ai partiti e versino alla Fieg quanto le spetta affinché possano gli editori sopportare, senza troppi danni, i costi che la divulgazione “libera” dei propri articoli (di una parte di essi, invero) comporta sul volume delle vendite di carta stampata. È una battaglia che coinvolge il pluralismo democratico, quello in cui una testata pur piccola ha diritto di tribuna accanto ai potentati dell’editoria e del giornalismo, quello in cui una voce “fuori
dal coro” è messa accanto ai maggiorenti dell’informazione politica. Rassegne,
appunto, e non parate.
Negare a ciascuno il diritto di formarsi
un’opinione in campagna elettorale,
significa fare un favore alla demagogia
8
22 dicembre 2012
left
la lettera mancante
di Francesca Merloni
il taccuino
Acqua del mio mare
È l’orribile fine anno che arriva ogni anno. Il momento dei bilanci. Dove andiamo davvero?
Siamo mai partiti? Il viaggio è solitario. Dove sono i fili che stringiamo per sentire gli altri?
«O
rmai ho imparato che non bisogna idealizzare nessuno e che
molte scelte sono di solitudine...» dice una mia sorella d’anima
e mi accorgo di quanto tutto questo sia essenziale. È la nostra essenza e il
momento è adesso. Sono i giorni dell’anno in cui è più facile parlare di solitudine. È quasi doveroso farlo. La sentiamo forte, e di più, amplificata
dallo stordimento di lucine e melassa. La sentiamo come un dolore, un disperato amore che perforando arriva più in fondo e ci sentiamo, noi, quasi sbagliati, fuori luogo, dissonanti. Dove sono i fili, quelli del cuore, quelli
che stringiamo per sentirci parte, per sentire gli altri all’altro capo? E l’andamento ad onde e i cerchi concentrici, dove? I movimenti del cuore assenti, adesso. È tempo di bilanci, è l’orribile fine d’anno che arriva ogni anno. E chissà perché, poi. Ma non è il tempo un fluire necessario? Perché
cesure? Chi l’ha detto che l’anno debba finire proprio adesso e che adesso
per convenzione ci si debba fermare e riflettere. Oppure fermarci e sentire
il vuoto. Ma non è troppo vuoto? Non è che siamo così abituati al pieno da
non tollerare l’assenza? Non è che il vortice ci ha preso nell’illusoria visione e “con-fusione” a tutti i costi, tampone analgesico all’incapacità di sopportare la nostra costitutiva solitudine? Ma non è solitudine, è identità. Veniamo al mondo soli, soli moriamo. Allora ci si sente più soli tra le voci, nel
convulso muoversi che può apparire senza senso. E dove andiamo davvero? E siamo mai partiti? Il viaggio è solitario. Ognuno capitano del proprio
mare. Ci governiamo, scegliamo, e
Senza nessuna ragione qualcosa si rompe in me
questo forse vuol dire umanità. Essere
e mi chiude la gola
un uomo. Capace di scelte individuasenza nessuna ragione sobbalzo ad un tratto
li e solitarie. Per definizione. Le scelte
lasciando a mezzo lo scritto
richiamano l’essenza, l’identità, la vesenza nessuna ragione nella hall di un albergo
rità, irrinunciabile. Ecco, queste posogno in piedi
che righe sono per te amica mia, e per
senza nessuna ragione l’albero sul marciapiede
i tanti cuori conosciuti in questa pagimi batte in fronte
na, per i tanti che compongono la mia
vita di oggi e che attraverso left sono
senza nessuna ragione un lupo urla alla luna
diventati il mio mare adesso. Andiairoso infelice affamato
mo, insieme. Ci guardiamo, accostiasenza nessuna ragione le stelle scendono a dondolarsi
mo. Facciamo un tratto di mare. Un
sull’altalena del giardino
pezzo di strada. Un attimo di vita. Sosenza nessuna ragione vedo come sarò nella tomba
li, ma no. Insieme. Proprio perché sapsenza nessuna ragione nebbia e sole nella mia testa
piamo essere soli. E stare in piedi sensenza nessuna ragione mi attacco al giorno che inizia
za appoggio. E proprio perché soli e in
come se non dovesse finire mai più
piedi possiamo guardare dritti. Incone ogni volta sei tu
trare altro sguardo senza confonderci.
che sali dalle acque.
Abbiamo chiara la nostra identità. E
non la perdiamo più.
Nazim Hikmet, 1961
[email protected]
left 22 dicembre 2012
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l’incontro
10
left.it
22 dicembre 2012
left
l’incontro
left.it
francesco de gregori. «Ho fatto un disco e sono felice di esserci,
che ci sia gente che lo ascolti, senta la vitalità artistica e creativa».
Il cantautore romano parla del suo ultimo lavoro. E dell’Italia al tempo
dei tecnici: «Tornare alla politica per dare uno scatto alla crescita»
Sulla strada di un Paese
abbandonato
di Giommaria Monti
Illustrazione di Alessandro Ferraro
G
iro per la mia terra abbandonata, abbandonato e solo». “Passo d’uomo”, la
seconda canzone del nuovo lavoro di
Francesco De Gregori Sulla strada, racconta la
solitudine e la marginalità difficile di chi cammina ai bordi della strada. De Gregori usa la chiave
del viaggio per accompagnarci dentro pezzi di realtà di un Paese disorientato.
Sulla strada è un racconto di «quel che vedi
dai finestrini di questa macchina usata». Lo
sguardo è il suo?
è un disco molto piantato su me stesso, queste
nove canzoni parlano di cose vissute, immaginate o ricordate da me. L’uomo sulla strada sono io,
ma mi sento parte di una comunità: quelli che incontro, la politica, il destino di ognuno è una quotidianità basata sul mettersi in gioco, sull’uscire
da casa, sullo smarrirsi anche tra conoscenze, incontri, ripudi, delusioni, ansie. Sono sempre stato attratto dalla strada, dal gusto del viaggio. Che
vuol dire incontro, anche se non è necessariamente l’avventura di Ulisse.
Il suo viaggio dura da quarant’anni. Quanto
ha visto l’Italia cambiare?
Non vedi di più stando su un palco. Lei, come altri, pensa che chi fa il mio mestiere percepisca in
modo più profondo i cambiamenti del Paese. Vedo quello che vedono tutti: un’Italia che attraversa un momento di drammatica inconsapevolez-
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za, che non sa bene da che parte andare. Mi sembra un Paese più abbandonato a se stesso di prima. Chi è stato eletto ha una responsabilità maggiore rispetto al cittadino, e ha il dovere di non
abbandonare l’Italia. C’è un grande bisogno di
tornare alla politica, che ha il dovere di dare uno
scatto di crescita. Ma non solo quella economica
di cui si parla. Non si può prescindere dalla crescita culturale, dalla progettazione di un Paese
più colto, più consapevole, più informato, tecnologicamente più avanzato.
è quel «futuro che è un dovere» di cui parla
in un’altra canzone?
Sì. La politica deve fare il suo dovere, deve assumersi le sue responsabilità. Come la “Ragazza del
’95”, appunto quando si sente dire: «Il futuro è un
dovere». Credo che sia un messaggio forte perché si è sempre parlato di diritto al futuro. Che è
intoccabile, ma ai giovani bisogna anche raccontare che va coniugato con l’impegno, i sacrifici,
che affrontare l’incertezza e l’ambiguità del futuro lo si fa esponendo il petto alla mitraglia, altrimenti non si esce dalla trincea. Credo però che
loro lo sappiano, ne siano consapevoli. Chi ha
vent’anni va incontro a un mondo che non è risolto. Va verso l’incognito, un futuro in qualche misura preoccupante, carico di opportunità ma anche di rischi. Ma si affronta meglio con la consapevolezza che è anche nelle nostre mani la possi11
l’incontro
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Per affrontare l’incertezza e l’ambiguità
del futuro bisogna esporre il petto alla
mitraglia, altrimenti non si esce dalla trincea
bilità di dare un indirizzo alla nostra vita e al luogo in cui viviamo.
Poi, la ragazza della canzone sale su un aereo e «rimette a posto il cellulare». Vuole
chiudere le comunicazioni col mondo che si
lascia alle spalle?
La metafora è esattamente questa. Questo gesto
obbligatorio che dobbiamo compiere in aereo
nella canzone si trasforma in un atto liberatorio:
rompo la comunicazione e in questo momento sono io che sto viaggiando, sono io che passo sopra
le colonne d’Ercole, non mi mandate messaggini, non mi cercate. Il viaggio durerà due o tre
ore, ma in questo spazio sono solo con me stesso. Questa facilità di viaggiare che hanno oggi i
ragazzi con i voli a basso costo è
augurabile che si trasformi in libertà intellettuale, in conoscenza, in capacità di apprendere, di
crescere, di capire le cose.
Non ha paura che l’idea di
dovere venga concepita come un
concetto di destra?
Mi spiace per chi lo pensa.
Se parlare del futuro in termini
di dovere è considerato di destra me ne assumo le responsabilità, ma non penso sia così.
Non credo che la sinistra possa negare che il futuro sia un dovere. Non so se Kennedy quando diceva «non chiederti quello che la nazione può fare per te, chiediti quello che
tu puoi fare per il tuo Paese» esprimesse
un concetto di destra.
Il viaggio è anche dentro la storia. In
“Belle Époque” inizia con una citazione molto forte.
Sì, in quel «Van le troie illuminando il
cammino sgangherato» c’è Dino Campana, che nei Canti Orfici racconta una
sua nottata con quelle che lui chiama «le
ciane». Io uso la stessa metrica, ma non
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è che vado a rileggermi i Canti Orfici. Mi viene
l’idea, mi ricordo di questa cosa, la uso, diventa
materiale narrativo, metrico. Io lavoro così, andando a riacchiappare nella memoria, nella biblioteca. La torre Eiffel, l’esposizione universale,
la tecnologia, la dichiarazione contro la schiavitù
dal lavoro e dalle guerre: il Novecento nacque su
questi mandati culturali. Che poi vennero subito
smentiti: dalla rivoluzione russa alle guerre mondiali. Io scrivo una canzone come “Belle Époque”
e pretendo di parlare del Novecento. Dopo averla scritta mi rendo conto che un verso come «Fischia il sasso fischia il vento sta arrivando il Novecento» è una sintesi formidabile. Non me lo devo dire da solo, però...
Allora glielo dico io: c’è dentro il sasso del
Balilla e del fascismo e fischia il vento della
lotta partigiana...
Sì. È chiaro che nessuno capirà mai cosa sono
stati il fascismo e la Resistenza collegando queste due idee, però per uno che deve dirlo con una
pennellata lo può fare in quella sintesi che la canzone ti concede e che è difficile altrove.
Il viaggio con “La guerra”. Racconta una
storia piccola dentro la grande storia, come
in “Generale”?
È un vecchio trucco, Manzoni ci ha scritto un libro di successo... Però “Generale” finiva con
la parola «amore» («è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore»), ma anche con un sentimento di mestizia: è un ritorno a casa in mezzo ad altri soldati su un treno, è passata una guerra da
cui si esce con una ferita, un ritorno dove l’uomo è sconfitto. Ne “La guerra”, invece, anche se
il soldatino si è visto passare la morte vicino finisce con una nota di rinascita: si ricomincia a fare
l’amore. Fa parte di una mia visione un po’ più
serena: fate pure tutte le guerre che vi pare, però alla fine ci sarà sempre un soldato che troverà una ragazza in un campo, magari la vedova di un nemico, come è sottinteso nella canzone. Tutte le guerre dovrebbero finire così. O finiranno così. Questa canzone è una provocazione
nei confronti della guerra: siamo più forti noi.
Però parliamo troppo di testi e di parole...
Ha ragione, allora mi racconti come inizia la
scrittura di una canzone.
Le faccio l’esempio proprio de “La guerra”. Sono
partito da una frase musicale: tàta tàta tatatà (ride mentre batte il tempo sul tavolino, ndr). Me la
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l’incontro
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sono suonata per un po’, poi mi è venuta una frase che ho cantato sopra: «C’è un soldato in mezzo al campo». Nasce un fatto ritmico, verbale e se
quello che mi viene in testa mi affascina, si apre
come una sequenza cinematografica che si sviluppa come una storia: che ci fa questo soldato
in mezzo al campo? Che ora sarà? C’è il tramonto? Dove sarà il tramonto? Alle spalle? Allora deve stare attento, perché risulta proprio un bersaglio... E così diventa «C’è un soldato in mezzo al
campo. E una casa nella valle. Attenzione soldatino c’è il tramonto alle tue spalle».
Quando comincia a suonarla con i musicisti,
quanto cambia l’idea iniziale della canzone?
Prende forma, ed è il momento più delicato. Lì
devi stare attento a non perdere nulla della forza originale che è nella tua testa, sei tu che sai
dove vuoi arrivare. E sei torturato dal dubbio
mentre questo avviene: che la canzone non valga. Sì, a me piace ma adesso i musicisti che la
devono suonare con me, che sono miei amici da
tempo e che amano tutte le cose che ho scritto
come reagiscono? Temo che magari non me lo
dicano, che facciano una faccia così che sembra dire «ma questa volta cosa ci hai portato?»
È un momento molto delicato. Affascinante,
ma è il momento che forse nella registrazione di
un disco mi fa soffrire di più.
Dopo tanti anni ha ancora la paura di deluderli?
È la paura peggiore perché ho molta stima di loro, sono dei musicisti ed è un giudizio non dico
che temo, ma devo fargliela piacere. Io vado en-
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tusiasta e se poi invece fosse brutta?
In “Guarda che non sono io” racconta il rapporto complicato con chi segue il suo lavoro, i fan.
Lì racconto l’incontro con uno mentre sto facendo la spesa che mi fa pensare: ma che ci stiamo
dicendo? Chiedergli: ma chi credi che io sia, che
idea ti sei fatto di me, perché pensi di conoscermi
se in realtà conosci quattro, cinque, venti canzoni
mie? È un incontro avvenuto davvero, non ho inventato una scena.
Un po’ come il fan che fa cento chilometri
per incontrare “Omero al Cantagiro”?
È l’altra faccia della medaglia, il rapporto divistico con lo spettacolo. Io lo percepisco di riflesso,
ma mi ricordo di averlo vissuto quand’ero giovane dalla parte del fan. Ascoltavo tutte le canzoni di Morandi: ero piccolissimo ma “In ginocchio
da te”, “Non son degno di te” e “Se non avessi più
te” sono tre canzoni che hanno molto influenzato
la mia immaginazione di adolescente che vedeva
questo bel ragazzo che era Gianni Morandi innamorato di quella bellissima ragazza che era Laura
Efrikian, andavo a vedere i film. Ho fatto il fan e lo
farei ancora se incontrassi qui Bob Dylan o... bèh,
pochi altri insieme a lui. Paolo Conte e altri che
stimo. Avrei un atteggiamento se non di devozione comunque di un interesse che forse loro giudicherebbero ipertrofico.
In una canzone descrivo l’incontro casuale,
realmente accaduto, con un fan. Avrei voluto
chiedergli: perché pensi di conoscermi?
Quando sente che dei suoi colleghi, come
Fossati, decidono di non suonare più, che
impressione le fa?
Fossati è molto onesto. Se lui pensa di non avere più nulla da dire fa bene a smettere. Non c’è
niente di più faticoso per chi fa questo mestiere
di continuare a scrivere senza avere più niente da
dire, a cantare senza avere più la voce che lo convince. Fossati spero che cambi idea, non è detto che non la cambi. So che la tentazione di farlo
c’è spesso, l’ho avuta anche io ma è durata poco.
Adesso ho fatto un disco dove sono felice di esserci, felice che ci sia gente che lo ascolti, senta
la vitalità artistica, creativa. E che il giudizio degli
altri corrisponda al mio.
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M
onti e Bersani. Che è come
dire due mondi paralleli. La
pompa di benzina e la Goldman Sachs. L’economia reale e la finanza. L’austerity e la crescita. Il socialdemocratico e il liberista. Berlino e Parigi. Merkel e Holland. Eppure, gli unici
due uomini che potranno guidare il futuro governo - Berlusconi prova ancora
a mordere, ma si fa battere 44 a 7 nell’audience da Benigni - è difficile definirli nemici. Per un anno sono stati fianco a fianco nell’esperienza di governo, uno a Palazzo Chigi a far tagli, l’altro in Parlamento a tentare di lenire i dolori procurati
dal primo. Il governo riduce sul lastrico
gli esodati, le Camere cercano soluzioni.
Il prof cancella l’articolo 18 il segretario
prova a reinserirlo, almeno parzialmente.
Il tecnico taglia i fondi ai Comuni, il politico chiama a raccolta i sindaci. Uniti, con
tanti distinguo, fino a ieri. Avversari, forse,
domani. Nei progetti politici e nelle prospettive personali, nei rapporti internazionali ed europei. L’agenda Monti o quella Bersani? Se il professore guadagna l’investitura di Bruxelles e Wall street, il politico dialoga coi fratelli socialisti europei
e si sbraccia per rabbonire i mercati preoccupati dal pericoloso ritorno della sinistra al potere. Una poltrona per due, co-
me nel vecchio film americano. Tutti gli altri Grillo, Berlusconi, gli arancioni - saranno comprimari. Il governo della delicata transizione alla Terza Repubblica dovranno invece dirigerla
il tecnico liberista o il politico democratico.
Per molti dovrebbero andare a braccetto. Il rigore ma anche lo sviluppo, più liberismo ma
anche più welfare. Per tanti Bersani dovrebbe semplicemente dare continuità all’agenda Monti, con un po’ di «odore di sinistra» (il
copyright è di Vendola), ma sulla stessa strada
tracciata dai tecnici, ritenuta l’unica possibile.
Per troppi il centrosinistra dovrebbe semplicemente fare meglio ciò che la destra vorrebbe già fare. Liberalizzare il mercato del lavoro,
tagliare la spesa pubblica, privatizzare. Il nuovo
Washington consensus all’europea darebbe ragione a chi dice “sono tutti uguali”, e forse fiato
al popolo del non voto. Invece la sfida è Bersani contro Monti: due leader pronti contendersi con le loro diverse ricette il consenso della
maggioranza degli italiani.
La partita vera tra i due si gioca ovviamente sull’economia, che poi è anche il campo nel
quale i contendenti sono più preparati, il loro
pallino e la loro passione. Dopo un anno di governo tecnico, l’infausta previsione di Draghi e
Trichet sembra essersi in gran parte verificata.
La lettera dal linguaggio sobrio ma minaccioso,
inviata il 5 agosto del 2011 dall’allora presiden-
La sfida per palazzo Chigi è tra Monti e Bersani.
Due idee diverse di governo ed economia.
E una rappresentanza sociale diversa. Le grandi
imprese col tecnico. Le piccole e il lavoro col leader
Pd. La partita della campagna elettorale si gioca
tutta sulla crisi
Corpo a
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copertina
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te della Bce e dal suo successore, è già in gran
parte realtà. Basta confrontare quel testo con
i provvedimenti del governo. L’esecutivo tecnico ha già reso «più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità riportando l’età
del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore
pubblico» (riforma Fornero); il governo ha «ridotto significativamente i costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turn over e,
se necessario, riducendo gli stipendi» (ecco la
spending review); ha «introdotto una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento
dagli obiettivi sarà compensato
automaticamente con tagli orizzontali sulle spese» (pareggio di
bilancio in Costituzione); infine
ha «adottato una accurata revisione delle norme che regolano
l’assunzione e il licenziamento
dei dipendenti» (riforma del mercato del lavoro). L’agenda Monti non è esattamente una primizia, stava già lì, scritta nero su bianco nella
lettera inviata a Berlusconi quattro mesi prima
che cedesse il posto al professore. E rimasta a
lungo segreta. Manca solo «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali attraverso privatizzazioni su larga scala», ma solo perché la
Consulta ha preteso il rispetto dei referendum
sull’acqua del 2011. Mentre su crescita e occupazione la Bce non diceva nulla. Silenzio.
cura “Monti-Draghi”, li fotografano in un bianco e nero tragico gli scenari del Centro studi di
Confindustria di questo 11 dicembre. Dopo un
2012 col Pil al -2,1, il 2013 ci riserverà un ulteriore -1,1. La ripresa economica arriverà solo nel 2014, +0,6. La disoccupazione sarà in
crescita, fino al 12,4 per cento. Anche i conti pubblici hanno sofferto dell’aggravarsi
della crisi. Il pareggio di bilancio il prossimo anno sarà raggiunto solo in termini congiunturali. E nel 2014, vaticina l’Ocse, potrebbe seguire una nuova
manovra di tagli consistenti. Secondo Bankitalia circa
la metà della recessione è
causata dalle stesse manovre di austerity, con tagli a
tutto spiano alla spesa pubblica e una pressione fiscale che sfiora ormai il 60 per
cento, appena lenita da
un moderato recupero
dell’inflazione. Niente patrimoniale, pagano i soliti noti, lavoratori dipendenti
e pensionati, il cui potere d’acquisto è
stato già falcidiato da un’inflazione superiore al 3 per cento. La conseguenza
si chiama spirale austerity-recessione.
Più taglio, meno cresco, più devo tagliare: così all’infinito. Il Nobel per l’Economia Paul Krugman la mette così: «È come
la medicina del medioevo: salassavano i pazienti per curarli e quando il sanguinamento li faceva stare peggio, li salassavano ancora di più».
Di questo passo anche gli scenari attuali potrebbero inverarsi. Basti pensare che il governo
stimava a dicembre del 2011 per quest’anno un
modestissimo -0,4 per cento, un quinto della recessione che si è poi avverata.
Su questo punto i programmi tra i due contendenti non potrebbero essere più diversi. «La
Il professore ha
messo in pratica
la lettera della
Bce su pensioni,
lavoro, pareggio
di bilancio
È nient’altro che il programma dell’austerity europea, in cambio del quale l’Italia, esposta all’attacco della finanza internazionale, ha
ricevuto la difesa, per ora solo potenziale, della Bce. La stessa medicina riservata a Spagna,
Grecia, Portogallo e Irlanda, solo con un dosaggio meno indigesto. I risultati, dopo un anno di
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di Manuele Bonaccorsi
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differenza è semplice», spiega Stefano Fassina,
animatore del programma economico del Pd,
candidato a Roma alle parlamentarie di fine mese. «Noi metteremo al centro l’economia reale
perché non consideriamo lavoro e impresa un
sottoprodotto dei vincoli di bilancio e della finanza pubblica», spiega l’esponente democratico. Certo, i vincoli europei valgono per chiunque vinca, non solo per Monti, e Bersani si è
impegnato a rispettarli. «Ma noi ci siamo dati
l’obiettivo di cambiare la rotta dell’Europa, perché l’austerità è insostenibile e solo la crescita può permetterci di ridurre il debito pubblico. Bisogna ripartire dal sostegno alla domanda e ai consumi». La centralità data alla crescita
è l’arma che il Pd vuole usare in una campagna
elettorale dove, nel mondo reale della crisi, sono saltati tutti i punti di riferimento.
Fassina (Pd): «Noi metteremo al centro
l’economia reale, l’austerity è insostenibile»
Qualche esempio? La piccola e media impresa, i commercianti, le partite Iva, storica base di
Berlusconi: non credono più nel tycoon milanese, nonostante il tardivo tentativo di riallacciare i rapporti coi vecchi elettori messa in campo
con gli slogan antitasse delle ultime settimane.
I piccoli non possono neppure sostenere Monti:
«ci ha sommerso di nuove tasse, ha depresso i
consumi e non ci ha mai ascoltati», spiega Filippo Donati, esponente di Confesercenti (presiede gli albergatori di Asshotel). Tra gli aderenti a
Rete impresa Italia, l’associazione che riunisce
Cna, Confcommercio, Confesercenti e Confar16
tigianato, Monti è tutt’altro che amato. Chi voteranno, i piccoli, che rappresentano la colonna vertebrale dell’economia italiana? Nel Nord
la Lega potrebbe tenere botta e il non voto è destinato a crescere. Ma anche a chi mai avrebbe
pensato di votare a sinistra sta balenando qualche dubbio. Il Pd non si è tirato indietro e ha iniziato a corteggiare i piccoli, organizzando con
loro numerosi incontri e iniziative.
Le grandi aziende, invece, sembrano orientate nettamente in direzione del professore. L’endorsement più netto lo ha fatto Luigi Abete, presidente dell’Assonime, l’organizzazione confindustriale delle società per azioni ed ex presidente dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana: «Chi si candida a governare deve restare nel
solco tracciato dal governo Monti. Le forze politiche si impegnino ad attuare i provvedimenti che mancano». Ed è stato emblematico il risultato di un sondaggio svolto questa estate tra
i grandi manager e i banchieri riuniti a Cernobbio per il tradizionale meeting: 81 per cento delle preferenze per Mario Monti e un bis del suo
governo. Poi c’è Montezemolo in prima fila nel
partito di Monti. E gli Agnelli, i quali nonostante
l’emigrazione in America, hanno preso dai tecnici solo qualche svogliato rimbrotto.
Ma Confindustria non è fatta solo dai grandi
imprenditori. Ed è facile intravedere la pressione del ventre molle dell’associazione nelle durissime dichiarazioni che questa estate
il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi
riservò al governo. Prima, accanto a Susanna
Camusso, accusò Monti di fare «macelleria sociale». E poi, ancora, a ottobre: «Non c’è nessuna misura incisiva per la ripartenza». E di
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© monaldo/lapresse
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nuovo, a novembre: «Va bene un Monti bis, ma
solo con la legittimazione del voto».
Molto complesso il campo anche sul fronte
sindacale. Dove lo scontato appoggio della Cgil
ai democratici non è poi così netto. Pesa la distanza della Fiom, messa in scena questa estate
coi fischi riservati a Bersani da una platea di delegati operai chiamati a raccolta da Landini. I metalmeccanici della Cgil dividono le proprie simpatie tra Sel e gli arancioni. Attenzione, nessun
endorsement ufficiale, il capo della Fiom ci tiene a ripetere che il sindacato non fa politica e che
i metalmeccanici voteranno con la propria testa.
Non è detto che sia un fattore positivo: cercando
di indagare sul voto dei lavoratori, in Cgil hanno
scoperto che il Pd resta il primo partito, seguito
però, a brevissima distanza, dai 5 stelle di Grillo.
Qualche diatriba tra i cugini di Pd e Cgil l’ha
messa anche la recente firma dell’accordo sulla
produttività, aspramente contestata da Susanna Camusso e invece sostenuta, seppure criticamente, dai democratici. Nel mondo cislino la
questione è ancor più complessa. Il sindacato guidato da Bonanni è tradizionalmente visto come
un punto di riferimento dai cattolici del Pd (in cui
militano ex segretari di peso come Franco Marini,
Sergio D’Antoni, Pier Paolo Baretta). L’attuale leader non ha però nascosto le sue simpatie per il nascituro Terzo polo e si è fatto immortalare in prima fila accanto ai cattomontiani Riccardi e Oliviero alla convention “Verso la Terza repubblica”. Ma
il dirigente sindacale ha smentito l’ipotesi di una
sua candidatura diretta e di un impegno della Cisl nell’agone politico. «A differenza della Cgil non
parteciperemo alla campagna elettorale. Il nostro
statuto è molto chiaro: è vietato il cumulo di cari-
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Bentivogli (Cisl): «Non ci schieriamo.
Ma Bersani ha una linea cerchiobottista»
che sindacati e politiche. La Cisl rivendica la sua
autonomia formale e sostanziale», spiega Marco
Bentivogli, componente della segreteria nazionale della Fim Cisl. La distanza tutta sindacale dalla
Cgil, per i dirigenti del sindacato bianco, si traduce politicamente in un moderato montismo e in
una profonda antipatia per il Pd. «Nei luoghi di lavoro Monti gode di una certa popolarità, perché
si caratterizza per la sobrietà e il rigore», spiega
il sindacalista. Nonostante il tecnico abbia portato avanti una politica impopolare e abbia più
volte ribadito il suo rifiuto della concertazione
(«che in ogni caso non può essere come in passato un rito inconcludente», specifica Bentivogli). «Noi della Fim Cisl siamo invece arrabbiati coi democratici: non hanno detto neppure una
parola sul contratto dei metalmeccanici», firmato senza la Cgil. «Quel testo - continua Bentivogli - vale per 1,6 milioni di metalmeccanici
ed è stato riconosciuto dall’Ig Metal, il sindacato tedesco, ma non dal Pd. Se il futuro governo
sarà caratterizzato da questa linea cerchiobottista, Dio ce ne scampi». Nello scontro Cgil-Cisl, dunque, Bersani rischia di rimanere scottato, e prova a smarcarsi proponendo una legge
sulla rappresentanza sindacale. «Si può fare, ma
solo se c’è prima un accordo tra di noi. E la Cgil
ha fatto di tutto per evitarlo», spiega Bentivogli.
E chiosa con una battuta, tutt’altro che morbida: «Se il prossimo sarà un esecutivo Bersani,
con dentro Vendola e Camusso, chiederemo asilo politico in Germania».
In queste pagine,
sconti anticipati
nel periodo natalizio
a Roma.
Manifestazione
della Fiom Cgil
per il contratto
dei metalmeccanici.
Il presidente
di Confindustria
Giorgio Squinzi
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Provaci
ancora
Prof
T
ecnocrate chiama tecnocrate. Se la Commissione europea dovesse votare alle elezioni italiane non avrebbe dubbi: il
suo uomo è Mario Monti. Chi meglio del professore in loden, col suo capello brizzolato e l’occhiale
d’ordinanza, così austero da non sembrare neanche italiano? Sarà per questo che piace a Bruxelles, dove lo scetticismo verso i mediterranei cresce allo stesso ritmo della disoccupazione.
Il commissario agli Affari economici Olli Rehn ha
parlato col Financial Times mentre Monti dava
le dimissioni, elogiando i successi del primo ministro italiano. Poi, alla riunione dell’Eurogruppo
del 18 dicembre ci ha tenuto a precisare: «È essenziale che l’Italia rimanga fedele al programma di
risanamento delle finanze pubbliche e che ci sia
continuità nella politica finanziaria».
L’Italia è un convalescente sotto osservazione e senza il professore rischia di ricadere in malattia. E non c’è incubo che atterrisca più l’Europa della possibilità di contagio: con Roma in crisi,
l’eurozona potrebbe trasformarsi in un lazzaretto.
Monti è stato in grado di ridurre lo spread, dice il
Financial Times, e ha messo in sicurezza il Paese, anche se con l’aiuto della Bce.
Ma se Draghi dovesse effettivamente passare dalle promesse ai fatti, la finanza si demoralizzerebbe gravemente. E Bruxelles non vuole rattristare la
finanza. Tifa per un Monti 2.0, che unifichi il fronte moderato come fece Prodi
col centrosinistra. Si augura che il professore ingaggi un coach che lo aiuti a
tradurre il suo linguaggio accademico
in facili slogan elettorali. Gli euro burocrati non ce l’hanno con Bersani, e pensano che sia un candidato più che ragionevole, ma temono che lo schieramento di centrosinistra sia vittima di diatribe interne e, soprattutto, subisca l’influenza negativa di Cgil e «ali estreme».
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Per i leader europei il problema
si chiama Berlusconi. E tra
Bersani e Monti, a Bruxelles
si fidano più del tecnico che
del politico. Anche i socialisti
europei, che governano in soli
6 Stati, sono divisi tra il sostegno
al Pd e il desiderio di continuità
di Cecilia Tosi
Fin qui le istituzioni comunitarie. Ma in un’Europa che è sempre meno Unione, sono i governi nazionali a dire dove il vento deve soffiare. Lo hanno
fatto all’ultima riunione del Partito popolare europeo, che rappresenta 21 formazioni di maggioranza su 27 Stati, visto che solo 6 nazioni della Ue
sono in mano al centrosinistra. E il messaggio dei
conservatori è stato chiaro: Monti è la persona più
adatta a mandare in pensione Berlusconi. Non è
certo che la Merkel abbia chiesto al professore di
candidarsi, ma sicuramente Barroso ha cercato di
arginare il Cavaliere, incontrandolo in privato per
ricordargli «l’importanza delle stabilità».
E la sinistra dov’è finita? Il Partito socialista europeo, di cui il Pd non fa parte - pena i turbamenti
della sua anima cattolica - ha confermato il suo sostegno a Bersani il 14 dicembre, per bocca del bulgaro Sergei Stanishev: «È Pierluigi che può dare
all’Italia la direzione e la guida necessaria per un
futuro di progresso». Un endorsement un po’ moscio per la più antica famiglia politica europea.
«Non credo che i partiti di sinistra vogliano abbandonare Bersani», sostiene Patrick Diamond, ricercatore di Policy Network ed ex consigliere a Dow-
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Monsieur Hollande, porta sulle spalle la responsabilità di un asse franco tedesco che non funziona più. E negli ultimi tempi è stato additato per il
suo presunto sostegno a Mario Monti. «Come si fa
a dire che Hollande è contro Bersani?», sbotta Valerio Motta, vicedirettore Comunicazioni del Partito socialista francese. «Il nostro partito sostiene
totalmente il leader del Pd. L’abbiamo invitato al
congresso di Tolosa e questa settimana il nostro
segretario è a Roma. Se Hollande non fa appelli al
voto è perché non vuole seguire l’esempio dei leader europei di centrodestra, che alle ultime elezioni francesi sostennero in tutti i modi Sarkozy».
Però la sinistra europea non riesce ancora a
conciliare le sue due anime, una fedele ai diktat europei, l’altra ansiosa di riformare il sistema. La tendenza più diffusa sembra quella della doppia morale: «Lottare contro l’austerity a casa propria, e accettare che venga imposta agli altri», sostiene Cuperus. «Tanti partiti progressisti si stanno radicalizzando», aggiunge Diamond. «Anche i laburisti
inglesi, che negli ultimi decenni erano diventati
centristi, adesso sono in prima linea per la redistribuzione delle risorse. Eppure hanno manifestato
tutta la loro stima a Monti». Due pesi e due misure
che solo Hollande sta cercando di compattare, con
risultati per ora deludenti. «È vero che non è facile,
perché non si può procedere alla velocità ideale,
soprattutto a livello europeo», dice Motta. «Ma la
gente capisce che c’è bisogno di uno sforzo per tutti. Ora si vota in Italia e in Germania, nel 2014 ci saranno le primarie per il candidato socialista alla presidenza della Commissione:
molte cose potrebbero cambiare».
Ma secondo un rapporto di Nomura,
Credit suisse e Rbs citato da Linkiesta,
una vittoria di Bersani potrebbe giovare ai mercati. Un po’ perché gode un di
un forte consenso popolare, un po’ perché si allontana lo spettro della richiesta di aiuti alle istituzioni europee, un
po’ perché è già stato ministro nel governo Prodi. Ma soprattutto, come ci dice Giovanni Zanni di Credit suisse, perché «i mercati preferiscono un governo
che prometta di seguire, nelle sue linee
principali, la politica economica voluta
da Monti. Mi sembra che finora sia questo ciò che indica il Pd».
© mayo/ap
ning Street. «Ma senz’altro tutti sono concentrati su quale sia la migliore coalizione possibile per
mantenere l’Italia solida. E Monti viene visto come l’alternativa più credibile a Berlusconi».
I tempi cambiano ma i dubbi restano: a Bruxelles la sinistra italiana si chiama ancora Massimo
D’Alema e l’unica coalizione progressista che ricordano è quella che collassò facendo cadere il
governo. «Quei pochi partiti socialisti che oggi sono al potere - prosegue Diamond - hanno grande
interesse alla stabilità. In più, hanno già collaborato con l’entourage di Monti, trovando partner seri e affidabili». Chi ha responsabilità di governo,
dunque, accarezza un’idea di continuità. Chi resta all’opposizione, invece, vorrebbe più coraggio
dalla sinistra italiana. Lo conferma René Cuperus,
direttore della Wiardi Beckman Foundation, il
think tank dei laburisti olandesi: «L’immagine che
abbiamo dell’Italia è quella dei titoloni su Berlusconi. Abbiamo l’incubo che lui torni al potere. Sicuramente Bersani deve riempire l’enorme spazio
lasciato vuoto all’estremismo populista di Berlusconi e dall’estremismo tecnocratico di Monti. Ma
è poco conosciuto all’estero, non è stato molto attivo a livello internazionale, specialmente qui nel
nord. Forse l’Europa del sud gli è più familiare».
Quindi «dovrebbe prendere posizioni più forti sulle riforme e più radicali in termini di equità sociale e coesione, per dimostrare che ha un’agenda diversa da quella neoliberista della destra».
Anche in Europa, dunque, i socialdemocratici
non hanno le idee tanto chiare. Il più noto tra loro,
Il presidente della
Commissione europea
Manuel Barroso
e il presidente del
Consiglio Ue Herman
Van Rompuy
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In Lombardia e in Veneto si gioca la partita del Senato.
Un territorio dove morde la crisi economica. E che,
archiviato Berlusconi, si scopre senza rappresentanza
© Capra /Imagoeconomica
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Incognita Nord
U
n gigante economico in cerca di rappresentanza. Dopo quasi due decenni di
berlusconismo, il Nord è politicamente
orfano: deluso dal centrodestra, guarda al centrosinistra senza troppa convinzione. Eppure è proprio in Lombardia e in Veneto che alle prossime
elezioni si giocherà la decisiva partita per la maggioranza in Senato. Il quadro è fluido, perché ancora non si sa se Lega e Pdl torneranno alleati oppure
correranno separati, né se il professore scenderà
in campo o resterà super partes. I sondaggi, però,
evidenziano già alcune novità nelle regioni chiave
del Nord: il sorpasso del Carroccio di Maroni sul
Pdl allo sbando e il fiato sul collo del movimento di Grillo al Pd, ormai primo partito anche sopra la linea gotica. Una crisi d’identità di un territorio in profonda trasformazione che non è solo
politica ma anche sociale ed economica. Perché
la recessione morde dappertutto e se la disoccupazione settentrionale ha ancora tassi tedeschi
(6,8 per cento contro il 10 nazionale), solo un anno fa era al 5,1. Così, anche nell’area del Paese
che produce circa il 50 per cento del Pil, precarietà, calo dei consumi e diminuzione del potere
d’acquisto sono ormai di casa.
20
di Sofia Basso
Lombardia, Ohio
I sondaggi di metà dicembre confermano il crollo verticale del Pdl, che in molte regioni è nettamente sotto la Lega. Se in Lombardia il Carroccio
veleggia attorno al 18 per cento e il partito di Berlusconi si ferma al 14, in Veneto lo spread è ancora più ampio: 17 contro 10. Il Pd è costantemente
in testa ma non sfonda: a livello nazionale i democratici superano il 30 per cento, ma al Nord oscillano dal 30 della Liguria al 22 del Veneto. Ed è proprio nella “Vandea verde” che il partito di Bersani potrebbe trovarsi a dividere il primo posto con
il M5S. La partita decisiva, comunque, sarà quella lombarda. Perché perdere nella più popolosa
regione d’Italia, per il Pd significherebbe maggioranza a rischio in Senato. Effetto del Porcellum.
Da qui il paragone con l’Ohio, Stato decisivo per
la corsa alla Casa Bianca. Tra l’altro in Lombardia
è in palio anche il governo della Regione, in mano
a Roberto Formigoni dal 1995. Al momento la sfida per il Pirellone vede in campo Umberto Ambrosoli, l’avvocato appena incoronato dalle primarie del centrosinistra, il leader del Carroccio Roberto Maroni e l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini (Pdl), sedotto dal montismo. Uno schema
22 dicembre 2012
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Questione settentrionale
«Maroni ha come modello la Csu della Baviera.
Sta facendo piazza pulita delle liturgie pagane e si
sta concentrando sugli interessi del Nord. Se il Pd
non affronta veramente la questione settentrionale, tra 5-10 anni potremmo trovarci la Lega primo
partito del Nord», avverte il professore della Luiss, che però non esclude lo scenario opposto di
un Carroccio spazzato via da scissioni insanabili.
Rimane il fatto che oggi l’erede del senatùr mantiene il suo zoccolo duro di voti: «Maroni beneficia del fatto di essere stato coerentemente contro Monti, contro l’Imu e contro la Germania della Merkel». E dopo le grandi aspettative, il governo più nordico della storia ha seminato rabbia e
delusione anche sopra la linea gotica. «Sono 20
anni che la Lega parla di Nord, secessione e federalismo. L’occasione per realizzare la sua proposta l’ha avuta», fa notare Pippo Civati, consigliere
lombardo del Pd. L’ex rottamatore è uno dei pochi
democratici che parla esplicitamente di questio-
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Civati: «L’emergenza è la precarietà.
Che accomuna lavoratori e imprenditori»
ne settentrionale: «Se la risposta leghista è sbagliata, non significa che la domanda non esista. Sono convinto che i Nord, molto diversi tra loro, impongano questioni che debbano essere affrontate, a cominciare dalla pressione fiscale e dalla redistribuzione delle risorse». Ecco perché proporrà al suo partito un viaggio attraverso il Settentrione per «dare un po’ di articolazione» al progetto
politico democratico. Secondo Civati, l’emergenza oggi è soprattutto la precarietà, che accomuna
il lavoratore precario e l’imprenditore: «Chi fa impresa assume su di sé un rischio al ribasso, è costretto a reinventarsi continuamente e soffre perché il sistema non lo aiuta, a cominciare dalle banche». Da qui la necessità di pensare ad ammortizzatori sociali diversi dalla cassa integrazione.
Di una specificità settentrionale parla anche Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre:
«Le parole per vincere nel Nordest non sono quelle abituali della sinistra: sono piccola impresa e
credito. La crisi è come la marea, quando sale travolge tutti. Bisogna capire meglio le difficoltà di
quel mondo: dalla tassazione eccessiva alla stretta che c’è stata». Non solo: «Da noi l’operaio e il padrone lavorano assieme per salvarsi, e quando vedono che non ci riescono se la prendono con chi
comanda. Conquistare questo popolo per la sinistra non è facile, ma quei voti fanno la differenza».
In mezzo c’è il fenomeno Grillo, voto di protesta
senza etichette territoriali: «Anche al Nord alligna una lettura della crisi profondamente critica
rispetto a quello che sta facendo la politica italiana ed europea», aggiunge Civati. «Pesa la grande
crisi di credibilità del centrodestra e, in parte, del
centrosinistra. Dobbiamo recuperare non solo dal
punto di vista elettorale ma anche politico, dando
risposte più precise su temi come l’Europa». Simile l’analisi di Bortolussi: «Il voto a Grillo rappresenta la ribellione a un sistema che non funziona.
Molti qui votano M5S come gesto intermedio: magari non hanno il coraggio di votare Bersani, perché non sono di sinistra. Anche se il Pd, in rilancio
anche grazie al traino delle primarie, ha posizioni moderate». L’unica certezza oggi al Nord è che
quello che sino a pochi anni fa era un feudo incontrastato del centrodestra adesso è un’incognita.
Dall’alto,
Giuseppe Civati,
consigliere Pd
in Lombardia
e Roberto D’Alimonte,
politologo
©Imagoeconomica (2)
a tre che avvantaggia il figlio dell’eroe borghese.
Ma un eventuale accordo Pdl-Lega metterebbe in
difficoltà il centrosinistra. Con il rischio di consegnare anche il Pirellone al Carroccio, che già governa Veneto e Piemonte. «Se Albertini rimane in
pista, Ambrosoli vince tranquillo e questo avrebbe un effetto positivo sulle politiche, perché si
spaccherebbe il Pdl», spiega il politologo Roberto D’Alimonte. «Ma bisogna vedere cosa succede tra Maroni e Berlusconi: se ci fosse un accordo anche per le politiche, i leghisti veneti potrebbero rompere, perché loro vogliono andare da soli. A quel punto Bersani strapperebbe il premio di
maggioranza anche in Veneto». D’Alimonte, però,
non ha dubbi: «Se il Pd vince in Lombardia e in Veneto, non è perché ha conquistato nuovi ceti sociali, ma perché gli altri non si sono organizzati».
Una cosa sono le percentuali, un’altra i voti. Malgrado il centrosinistra governi ormai in tutti i capoluoghi del Nord, la debolezza della coalizione,
secondo il politologo, sta nella mancanza di una
proposta convincente per la piccola e media impresa: «Non mi riferisco solo agli imprenditori, ma
anche agli operai che nel Nordest stanno con il padrone». Per D’Alimonte l’offerta politica in grado
di sottrarre quel mondo all’egemonia della destra
si chiama “questione settentrionale”. E qui, archiviati Chiamparino e Cacciari, il Pd arranca.
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Tutti a rincorrere
l’astensionismo.
Oltre 16 milioni
di potenziali elettori:
delusi della sinistra,
nostalgici di Silvio,
qualunquisti
e anti austerità
Caccia
all’ultimo voto
© dbbent/flickr
di Donatella Coccoli
è
un’area grigia dalle diverse anime, il
popolo dell’astensione. Magmatica e
sfaccettata. Ci sono i delusi della sinistra da anni confinati fuori dal Parlamento e coloro che a destra non si riconoscono più in Berlusconi. Poi quelli del “son tutti uguali, rubano
e basta”. E infine, la massa indistinta di cittadini colpiti dalla crisi, schiacciati dalle tasse (ultima l’Imu), umiliati dalla disoccupazione: quel
ceto medio il cui “smottamento” è stato ben fotografato qualche giorno fa dal Censis. Oltre sedici milioni di persone senza bandiere che non
scendono in piazza né si recano al seggio. È questo il cuore pulsante dell’area grigia: il partito
dell’astensione. Una parte “viva” su cui si giocherà la campagna elettorale.
«Il partito del non voto si sta riducendo, oggi è
al 35 per cento, qualche mese fa era al 45 . Certo, non si arriverà al 20 per cento delle Politiche
del 2008, ma l’astensione sarà inferiore a quel-
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la stimata sei mesi fa», dice Nando Pagnoncelli
presidente dell’Istituto di sondaggi Ipsos. «Da
una parte, la prospettiva elettorale spinge alcuni di quelli che nei mesi scorsi si erano rifugiati nell’astensione a precisare le proprie posizioni, considerando il voto ancora come un dovere. Dall’altra, le primarie del centrosinistra
hanno favorito una maggiore mobilitazione,
facendo rientrare un certo astensionismo nel
Pd», aggiunge Pagnoncelli descrivendo le caratteristiche del non voto degli ultimi due anni. Che, «a differenza del passato non è caratterizzato solo da persone distanti dalla politica anche dal punto di vista sociodemografico
(prevalentemente donne, di età avanzata, poco istruite, residenti in piccoli centri). Il nuovo
astensionismo annovera una parte importante
di ceti scolarizzati, della classe elettiva del Paese, della piccola e media imprenditoria», continua il presidente di Ipsos, evidenziando anche
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A sinistra di voci critiche ce ne sono. «Io non
vado a votare perché semplicemente non c’è
nessun partito di riferimento da appoggiare».
Maurizio, lavoratore dipendente all’università
di Firenze, si è recato alle urne una volta negli
anni 70, poi qualche referendum, quindi stop.
«La ragione è che nessun partito ha messo al
centro del suo programma la classe operaia e il
lavoro dipendente. Non lo ha fatto allora il Pci
né i partiti successivi». Maurizio, super informato, segue la politica con passione e si spende in altre direzioni «come in alcune lotte delle
organizzazioni sindacali».
Invece Giuseppe, giornalista calabrese, tutte le domeniche alle 8 andava a votare, perché
pensava che fosse «un diritto dovere, un atto
di responsabilità». Tra due mesi non lo farà.
Perché? «Questo è un sistema di voto malato»,
spiega. «Dal 2008 in poi l’Italia è sprofondata in
un bipolarismo parossistico, un pensiero unico a destra e a sinistra che nuoce alla politica.
Non c’è più una rappresentanza politica. È un
falso mito della democrazia l’idea che andando a votare si possa cambiare qualcosa». Come
soluzione Giuseppe propone «la resistenza civile, l’azione collettiva non violenta, la ribellione individuale».
L’area grigia si tinge anche di rosa. L’astensionismo infatti è maggiore nella componen-
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te femminile dell’elettorato. Un po’ per ragioni anagrafiche, visto che le donne sono più longeve degli uomini, un po’ per motivi culturali e
sociali. La scarsa istruzione e la lontananza dal
mondo del lavoro hanno come risultato la disaffezione alla politica. Negli ultimi anni le giovani sembrano però più agguerrite nella partecipazione. «Il trend della maggiore presenza delle giovani sembra confermato», afferma la sociologa Francesca Zajczyk che sul rapporto tra
donne e politica insieme ad Assunta Sarlo ha
scritto per Laterza il saggio Dove porta il cuore delle donne. «Soprattutto nelle aree urbane
dove c’è una maggior concentrazione di persone che hanno studiato e che lavorano: due fattori che hanno sempre spostato verso valori progressisti e a sinistra». Ma c’è anche una componente femminile dell’elettorato che continuerebbe a votare Berlusconi, se decidesse di tornare in campo, perché «coinvolta psicologicamente dal personaggio», aggiunge Zajczyk.
Pagnoncelli (Ipsos): «Il partito dell’astensione annovera oggi una parte importante
dei ceti scolarizzati e imprenditoriali»
Come riconquistare il popolo astensionista?
Antonio Longo è presidente del Movimento di
difesa del cittadino, l’associazione che ha presentato ricorso al Consiglio di Stato sulla data
delle elezioni nel Lazio, contestando la governatrice Polverini. Longo elenca tre riforme che
potrebbero riavvicinare i cittadini. Al primo posto propone «una legge elettorale che dia davvero la possibilità di scegliere le candidature».
Poi la riduzione dei costi della politica con l’eliminazione del parassitismo e infine «la riforma
del sistema di redistribuzione del reddito». Perché, continua Longo «non è più sostenibile che
ci sia una massa di cittadini a reddito fisso che
assistono alle note di spesa dei politici, o alle
pensioni accumulate per decine di migliaia di
euro al mese o agli alti stipendi di un capo della Polizia o di un presidente dell’Inps». Alla fine
però quello che conta, conclude Antonio Longo, «è un cambiamento sostanzioso e sostanziale della classe politica: se ci saranno i soliti
arnesi che stanno in video nei talk show, molti
si allontaneranno ancora».
© imagoeconomica
un’asimmetria: è nel centrodestra che si contano le maggiori defezioni.
Nei prossimi due mesi l’area grigia potrebbe
cambiare. «Per certi versi un’offerta Monti potrebbe riportare al voto una parte degli elettori
delusi dalla politica tradizionale. Anche se c’è
una correlazione forte tra la volontà di astenersi e il disagio economico vissuto» di cui
l’agenda Monti per molti è responsabile. Sulla
richiesta di proposte nuove, secondo Pagnoncelli, Monti e Grillo rappresentano «due modi diversi di rispondere alla stessa domanda».
A sinistra del Pd l’incognita è quella della lista
arancione. «Se sarà in grado di coagulare aree
diverse che si richiamano allo stesso progetto,
potrebbe nascere una forza politica in grado di
ottenere un discreto consenso. Bisognerà vedere se la loro è una logica che aggrega o enfatizza le differenze», conclude.
Nando Pagnoncelli
presidente dell’Istituto
di sondaggi Ipsos
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Struttura Delta
di nuovo in azione
di Loris Mazzetti
È
bastata una battuta di Luciana Littizzetto a commento della sesta discesa in campo di Silvio Berlusconi, «una pragmatica
sensazione di aver rotto il cazzo», che in Rai il clima, tornato sopportabile dopo anni di pressioni,
si guastasse nuovamente. I pasdaran del Cavaliere
si sono messi in moto arrivando a portare in Parlamento le parole di una comica con relativa interrogazione. Forse il ricordo di Roberto Benigni
ospite del Fatto di Enzo Biagi in Berlusconi è ancora vivo. Nel caso l’avesse dimenticato glielo ha
ricordato lo stesso Benigni il 17 dicembre con uno
straordinario show su Rai1 dedicato alla Costituzione. Così l’esordio: «Due brutte notizie in questo
mese, una è la fine del mondo, l’altra è terrificante, s’è presentato per la sesta volta, la settima si riposa. È come i sequel dei film: lo Squalo 6, la Mummia, Godzilla contro Bersani». La coppia Fazio e
Littizzetto condurrà il prossimo Festival di Sanremo che, grazie alla sfiducia di Alfano al governo Monti, sta rischiando di andare in onda in piena
campagna elettorale. Ma qualcuno ha già proposto lo spostamento della trasmissione più popolare della tv italiana a dopo il voto: «Per il bene degli italiani». Per fortuna che ai vertici dell’azienda
non ci sono più certi personaggi asserviti alla cau-
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© Monaldo / LaPresse
La tv è ancora
terra di conquista
per Berlusconi.
Lo strapotere
mediatico ha di
nuovo imposto
la presenza del
Cavaliere in tv da
tutti gli schermi.
E anche La7 rischia
di finire nelle sue
mani. Lerner intanto
va a dirigere
la televisione
di Feltrinelli
sa Mediaset, altrimenti apriti cielo. Il direttore generale Gubitosi ha liquidato la vicenda Littizzetto
con un invito a Rai3 «a una maggiore attenzione
nei confronti di tutti gli esponenti politici evitando
gli eccessi». In altri tempi sarebbero arrivate lettere, sospensioni e perché no anche la chiusura del
programma. Per una volta un po’ di lungimiranza
non guasta, ma, trattandosi di Sanremo, il futuro
non sarà fatto di sole rose e fiori.
Quarantacinque giorni prima del voto, cioè
all’inizio di gennaio, scatterà la famosa legge della par condicio, voluta da D’Alema per mettere fine allo strapotere mediatico del Cavaliere. Le emittenti tv hanno l’obbligo di assicurare a tutti i soggetti politici imparzialità e equità. Che la legge non
sia in grado di sostituire quella sul conflitto d’interessi è dimostrato da ciò che sta accadendo in questi giorni. Il 12 dicembre è partita l’offensiva mediatica di Berlusconi: prima trasformando la presentazione dell’ultimo libro di Vespa in una sua
conferenza stampa trasmessa a reti unificate, poi Il
pomeriggio di Canale 5 con una finta intervista di
Barbara D’Urso, La telefonata di Belpietro sempre
su Canale 5, Quinta Colonna di Del Bebbio su Rete4, ancora Porta a porta su Rai1. L’ordine è partito
22 dicembre 2012
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direttamente da Arcore: «Dobbiamo saturare la tv
prima che scatti la par condicio». Ed è stata avviata
anche la trattativa per la partecipazione del Cavaliere a Sevizio pubblico di Santoro.
Cosa accadrà invece a La7 durante la campagna elettorale? Gad Lerner non sarà della partita
dopo l’addio alla prima serata del lunedì, e avrà il
ruolo di presidente del comitato editoriale della
nuova tv multipiattaforma in onda sul digitale terrestre a partire dalla prossima primavera, costituita dal 70 per cento di Effe2005-Gruppo Feltrinelli e 30 per cento di La7. Pare che Santoro, dopo la
richiesta di Bernabè che la par condicio venga applicata alla lettera, stia minacciando di non andare in onda nei quarantacinque giorni canonici prima del volto. Servizio pubblico non in onda sarebbe uno schiaffo al pluralismo. Purtroppo La7, tra il
2011 e il 2012, ha investito eccessivamente nel palinsesto, i risultati di ascolto non hanno rispettato
la previsione e il debito ha superato i 200 milioni di
euro. Il contratto capestro per la pubblicità con la
società di Cairo ha fatto scappare alcuni concreti acquirenti, sul piatto rimangono solo due “offerte vincolanti”: quelle di Clessidra-Equinox e quella
dello stesso Cairo, il più accreditato all’acquisto.
Siamo certi che dietro all’amico non ci sia sempre lui, sua Emittenza? Berlusconi ha la necessità di risalire nei sondaggi e con le prime apparizioni in tv il Pdl è cresciuto di tre punti, assestandosi
al 17,5 per cento. Ad Arcore da un po’ di tempo sono aumentate le cene tra Berlusconi e i suoi fidi:
Confalonieri, il direttore generale dell’informazione del Gruppo Crippa, il direttore del Tg4 e di Studio Aperto Toti e Giordano (Tgcom24). Non si può
escludere che qualche sorpresa arrivi dalla Commissione di vigilanza, che è sempre la stessa che
per le elezioni Regionali 2010 decretò che i politici potevano andare in onda solo nelle tribune elettorali. Il Consiglio d’amministrazione Rai votò a
maggioranza (5 contro 4) la chiusura di Annozero,
Ballarò, Porta a porta e L’ultima parola. Alla decisione della Commissione si opposero Sky e La7.
Il Tar del Lazio diede ragione alle tv ma in Rai nulla cambiò e gli approfondimenti furono sostituiti
con tribune elettorali che fecero bassissimi ascolti. Per l’azienda fu un dramma economico per la
perdita di pubblicità e per i telespettatori di spazi
informativi. Che la Rai sia stata per anni subalterna a Mediaset lo sanno anche i bambini in età pre-
left 22 dicembre 2012
scolare, questo spiega perché la tv di Stato ha poco più di 500 clienti che investono in pubblicità rispetto ai 1.100 di Mediaset e agli oltre 800 di Sky. In
una recente intervista il dg Gubitosi ha dichiarato
che nei quattro anni in cui è stato amministratore
delegato di Wind mai una volta è stato contattato
dalla Sipra, la concessionaria della Rai. Con l’avvento di un professionista capace come Fabrizio Piscopo alla direzione generale commerciale della concessionaria la musica potrebbe cambiare, ma attenzione la struttura Delta è sempre
lì al suo posto. La struttura è la conseguenza del
macroscopico conflitto d’interessi che nessuno
ha mai tentato di risolvere, permettendo così a
Berlusconi di far diventare la tv italiana il mercato del consenso con l’obiettivo di manipolare i
telespettatori. Una struttura che ha operato, come dimostrano le tante intercettazioni telefoniche, alle spalle dei consigli di amministrazione,
della Commissione di vigilanza, dei vari appelli
sul pluralismo dell’informazione dei Presidenti
della Repubblica Ciampi e Napolitano.
Se La7 applicherà alla lettera la par condicio
Santoro potrebbe non andare in onda
Le intercettazioni sono la dimostrazione dell’intreccio tra la Rai e Mediaset nelle quali sono stati
coinvolti top manager, direttori di tg e di reti, con
scambi di informazioni strategiche, in cui sono state concordate variazioni di palinsesto per attenuare l’impatto pubblico di notizie elettorali politicamente sfavorevoli a Berlusconi. Clamorosa fu la
strumentalizzazione della morte di papa Giovanni Paolo II. In una intercettazione la responsabile del Marketing strategico, Deborah Bergamini
(oggi parlamentare del Pdl) chiama una persona
molto vicina a Berlusconi per pianificare la strategia mediatica per gestire al meglio le elezioni regionali che si annunciano una sconfitta per il centrodestra. Quando lo scandalo diventò pubblico
l’Agcom aprì un’istruttoria e il suo presidente Calabrò dichiarò: «Il duopolio ha favorito lo scambio di
informazioni con legami informali tra le due parti e
una simmetria che ne ha facilitato la collusione».
Compito dei nuovi vertici è quello di vigilare sulla correttezza dell’informazione. Nel frattempo godiamoci un Natale purtroppo scarso di regali sotto
all’albero, ma ricco di Berlusconi in tv.
In apertura,
Silvio Berlusconi
ospite a Porta a Porta
su RaiUno
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società
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Livorno, Modena, Rimini.
L’emergenza abitativa
diventa drammatica
nelle città del centro nord
produttivo. Dove crescono
gli interventi degli ufficiali
giudiziari e si impennano
i pignoramenti.
E i Comuni, ridotti
al lastrico dai tagli,
hanno le mani legate.
Viaggio nell’Italia
che ha perso casa
Sfratti
vostri
di Ylenia Sina
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22 dicembre 2012
left
società
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S
duttivo, piegato da cassa integrazione e licenziamenti. Il governo è corso ai ripari, inserendo nella legge di stabilità l’ennesima proroga agli sfratti. Ma è un provvedimento tampone che riguarda
solo gli sfratti per finita locazione e non coinvolge i provvedimenti emessi per morosità, che rappresentano quasi il 90 per cento del totale. Nessuna risposta a breve termine invece per le 650mila domande per una casa popolare, mentre sono
20mila gli alloggi pubblici inutilizzati in assenza di
fondi per la ristrutturazione. E per i Comuni, strozzati dalla riduzione dei trasferimenti e dal patto di
stabilità, è impossibile dare seguito alle 300mila richieste di contributo all’affitto. Dopo un decennio
nel quale, grazie alla facilità di accesso al credito,
gli italiani hanno pensato di poter diventare tutti
proprietari, ora esplodono i pignoramenti.
© Stavrakis/lapresse
essantamila sfratti. Al termine di un anno di crisi e austerità, il bilancio delle
condizioni abitative degli italiani è impietoso. Mentre stenta a decollare il piano per
l’edilizia “sociale” avviato nel 2008 dal governo
Berlusconi che avrebbe dovuto favorire la realizzazione di alloggi “a prezzi accessibili” e, causa tagli, spariscono dalle mappe i programmi per le case popolari, esplode l’emergenza sfratti. Il fenomeno, in Italia, non è una novità. Ma dal 2008 c’è
stata una vera e propria impennata. Aumentano
quelli per morosità, ovvero causati dall’incapacità di continuare a pagare il canone d’affitto. Negli
ultimi cinque anni in Italia sono oltre 200mila gli
sfratti emessi per questo motivo e altri 250mila sono attesi per i prossimi tre anni. In cima alla lista ci
sono le medie e piccole città del centro nord pro-
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Un Paese senza fissa dimora
Elaborazione
dati del
ministero
dell’Interno
relativi agli
sfratti del 2011
miglie sotto sfratto, lo slogan di sindacati e movimenti per il diritto all’abitare è “Perdi il lavoro,
perdi la casa”. Anche in provincia di Bergamo si
ripete il binomio. «Gli sfratti sono aumentati soprattutto nei Comuni più piccoli dove l’occupazione è strettamente legata alle industrie e a piccole aziende disseminate sul territorio», racconta Fabio Cochis, dell’Unione inquilini Bergamo.
«E se prima si parlava quasi solamente di sfratti,
con la crisi, sono aumentate a dismisura le famiglie con case messe all’asta».
L’inutile proroga
© infografica martina fiore
Il governo ha deciso
l’ennesima proroga.
Ma difende solo
il 10 per cento delle
famiglie a rischio
Senza lavoro niente casa
In Italia si eseguono un centinaio di
sfratti al giorno. Il ministero dell’Interno, nell’ultimo dossier annuale, conta 63.846 nuove sentenze nel
solo 2011. Che vanno ad aggiungersi alle 65.664 dell’anno precedente.
L’87 per cento di questi è per morosità. In altre parole, quasi il 90 per cento delle persone è sotto sfratto perché non può permettersi di
pagare l’affitto della casa in cui vive. Quasi 30mila famiglie, 28.641 per la precisione, nel 2011 sono state cacciate dalle proprie case con l’uso della forza pubblica. «Se prima del 2008 le sentenze
emesse ogni anno erano circa 40mila, con l’inizio
della crisi sono cresciute a 65mila, proprio a causa
della morosità», spiega Walter De Cesaris, segretario nazionale di Unione inquilini. E se i numeri
assoluti nelle grandi città restano alti, oltre 5mila
sfratti a Milano, 6.686 a Roma, 3.696 a Napoli, sono
le province più piccole ad avere una maggiore incidenza nel rapporto tra numero di sfratti e famiglie residenti: al primo posto c’è Livorno, seguita
da Lodi, Novara, Modena, Pistoia, Trieste, Pavia,
Rimini. Roma è al decimo posto. Poi ci sono Biella, Brescia, Prato e Cremona. Quasi tutte mediepiccole città del centro nord colpito dalla crisi.
Non a caso a Livorno, dove ci sono circa mille fa-
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Anche quest’anno il governo ha predisposto la
proroga degli sfratti, che si ripete da più di dieci
anni, inserita in extremis all’interno del decreto
stabilità. Con una differenza: sei mesi al posto del
“tradizionale” anno. Un provvedimento che però
copre solo le famiglie sotto sfratto per finita locazione, nel 2011 poco più del 10 per cento del totale. Le sentenze per morosità rimangono escluse
da questo paracadute. «Un provvedimento che
riguarda meno di 20mila famiglie su una stima
di 250-300mila sotto sfratto. Per questo nei mesi
scorsi avevamo espresso al governo l’urgenza di
estendere la proroga anche alla morosità incolpevole che riguarda quelle famiglie che smettono di pagare perché il reddito non glielo permette più», spiega Daniele Barbieri segretario generale del Sunia, Sindacato unitario nazionale inquilini e assegnatari. Troppo poco, per risolvere
una malattia italiana diventata ormai cronica. Il
Paese dei proprietari di casa si sta trasformando
in un Paese di senza casa.
Pignoramenti
La difficoltà a rimanere nella propria casa, infatti,
vale anche per quanti, negli anni scorsi, hanno acceso un mutuo. I numeri parlano di un vero e proprio boom di pignoramenti. Se da un lato, complice il credit cruch, sono crollate le compravendite
immobiliari e i mutui concessi, dall’altro aumentano le case messe all’asta dalle banche per insolvenza. Secondo uno studio di Federconsumatori
e Adusbef, dal 2008 al 2012, le case di circa 100mila famiglie sono state messe all’asta dalle banche.
L’unica ancora di salvataggio è il “Percorso famiglia”, un pacchetto di interventi messo in campo
dall’Associazione bancaria italiana (Abi), in collaborazione con il governo e le associazioni dei con22 dicembre 2012
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sumatori. Tra gli strumenti previsti c’è la possibilità di sospendere le rate dei mutui per un anno
in seguito a eventi particolari come la perdita del
lavoro o la cassa integrazione. Fino al settembre
scorso ne hanno usufruito circa 77mila famiglie,
per un valore totale di 9 miliardi di debito residuo.
Ma la crisi non accenna a diminuire: «Siamo alla
quarta proroga dal 2010 e per questa nuova edizione del provvedimento il termine ultimo di presentazione della domanda scade il 31 gennaio 2013»,
spiegano dall’Abi. Ma secondo l’Adusbef, «questi
protocolli non bastano, i numeri si commentano
da soli», afferma Elio Lannutti, senatore dell’Italia
dei valori e presidente dell’associazione. Una città
come Udine o Ancona è stata pignorata negli ultimi cinque anni. La percentuale aumenta insieme
all’avanzare della crisi. Dal 2008 al 2012 si è avuto
un incremento del 100 per cento.
Sfratti previdenziali
Un’ondata di occupazioni e di sgomberi, mentre
migliaia di famiglie sono alle prese con le dismissioni del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali privatizzati. Nella situazione generale
di crisi Roma resta la capitale dell’emergenza casa. Almeno 30mila appartamenti, nelle mani delle casse sono stati messi in vendita o hanno subito aumenti dei canoni di affitto. Fondazioni come
Enasarco, Enpaia, Enpam, Cassa Forense, Cassa
ragionieri, proprietarie di ingenti patrimoni edilizi investiti negli affitti, dal lontano 1994 si sono
trasformate in “persone giuridiche private”. Oggi
hanno l’obiettivo è quello di “fare cassa”, aumentando la redditività dei loro investimenti: vendendo gli immobili o facendo salire gli affitti agli insostenibili valori di mercato. Secondo quanto dichiarato da diversi enti, il loro patrimonio edilizio,
affittato a canoni agevolati non rende abbastanza. La questione è nazionale, ma a Roma si concentra l’85 per cento delle dismissioni. Un giro di
soldi da far girare la testa se si considera che nel
2010 l’Adepp, l’Associazione degli enti previdenziali privati, stimava il valore complessivo del loro patrimonio immobiliare in 10 miliardi di euro.
Si tratta di appartamenti affittati fin dagli anni settanta a prezzi “agevolati” con la doppia funzione di
calmierare il mercato immobiliare e di dare una risposta agli sfrattati e alle fasce di popolazione più
deboli: negli anni Ottanta gli enti previdenziali di
medici, commercianti o commercialisti erano ob-
left 22 dicembre 2012
© d’errico/lapresse
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bligati a vincolare la metà degli alloggi a famiglie
in emergenza abitativa. Oggi invece a Roma la dismissione degli enti previdenziali cancella centinaia di alloggi a canoni ribassati. Per coloro che
hanno messo da parte qualcosa, può essere l’opportunità per acquistare l’immobile in cui vivono a
un prezzo basso. Ma secondo Angelo Fascetti, del
sindacato inquilini Asia-Usb «circa la metà di queste famiglie ha problemi con la dismissione».
A far salire la tensione tra gli inquilini degli enti previdenziali sono gli sfratti che colpiscono
quanti non hanno accettato l’aumento degli affitti. Una situazione che ha spinto il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, a scrivere una lettera al prefetto Giuseppe Pecoraro per chiedere di bloccare questi provvedimenti. Tra le casse previdenziali che, dopo aver raddoppiato gli affitti in scadenza, hanno chiamato l’ufficiale giudiziario per buttare fuori i propri inquilini c’è la Cassa di previdenza dei ragionieri e dei periti commerciali, la Cnpr,
che nell’ultimo anno ha conferito tutti gli immobili a destinazione residenziale nel fondo “Scoiattolo” gestito da Bnp Paribas Reim Italy sgr che si occuperà della dismissione. Anche l’Ente nazionale
di previdenza per gli addetti e gli impiegati in agricoltura, l’Enpaia, è pronta agli sfratti per 210 gli inquilini che non hanno accettato rinnovi con aumenti degli affitti che vanno dal 60 all’80 per cento.
L’Enpaia si difende: «C’è l’accordo con la maggior parte delle sigle sindacali, comprese le tutele per le fasce più deboli. Inoltre, nonostante
gli aumenti, gli affitti rimangono mediamente inferiori del 30 per cento rispetto al mercato». Eppure l’aria che tira tra gli inquilini è diversa. Spiega Angelo Fascetti: «Nel solo mese di novembre
sono più di dieci i picchetti anti sfratto che gli inquilini hanno organizzato per difendersi. Di media, uno ogni tre giorni. Sono stati tutti rimandati
ai primi mesi del prossimo anno».
Roma, manifestazione
per il diritto alla casa
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Alba Dorata
un brand
per fascisti
di Davide Illarietti
Xenofobi, omofobi, antisemiti, antisindacali.
Arriva dalla Lombardia il movimento che
prende nome dal partito razzista greco.
L’idea è venuta all’ex factotum triestino
di Scilipoti. Un marchio con una svastica
gialloblu. E un candidato alle Regionali
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X
enofobi: «Gli stranieri li andiamo a
prendere, dove lo Stato non arriva,
con la forza». Omofobi: «Ma non abbiamo niente contro i gay: certo, niente esibizioni». Antisemiti: «Diciamo solo che le banche sono governate da una congrega di vampiri sionisti». I seguaci lombardi di Alba dorata, il partito neonazista greco «copiato» e ricucinato in salsa italiana («Ma guardate bene
il nostro simbolo - protestano i militanti - è la
svastica gialloblu, non rossonera. È completamente diverso»), nel giro di un mese hanno
aperto cinque sedi provinciali a Varese, Milano, Lodi, Brescia e Cremona. E si preparano al22 dicembre 2012
left
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le elezioni regionali. Chi sono? Cosa vogliono?
Giorgio Borghesi, 51 anni, proprietario di un
bed & breakfast a Milano, è tra gli ultimi iscritti. Nessuna esperienza politica, nessuna tessera. «Se mai posso dire di essere stato, da ragazzo, uno studente di sinistra, anche se non
ho mai partecipato a manifestazioni», dice. Un
«cittadino qualunque». Vegano con il pallino
della meditazione, Borghesi ha sempre «guardato con diffidenza alla politica. Poi ho conosciuto Alba dorata, tramite internet», spiega.
«Ho letto prima il programma greco, quindi
quello del movimento italiano. Mi hanno convinto». Così Borghesi si è trovato a fare il candidato al Pirellone di Alba dorata Lombardia.
«Il progetto - gli hanno spiegato - è quello di fare della Lombardia un Cantone, come in Svizzera. Avremo anche una moneta complementare, poi una Nuova Lira». Perché, naturalmente, «l’obiettivo è uscire dall’Euro, nazionalizzare tutto». Su facebook, l’account del partito (oscurato più volte per contenuti «razzisti
e xenofobi» contrari alle regole del social network) è stato aperto, chiuso, riaperto, richiuso. Al momento, è di nuovo online. Certo, ci sono le rievocazioni del Ventennio e i riferimenti alla svastica nel simbolo. «Ma volete capirlo che i colori sono diversi», spiega Borghesi.
«Quanto al nome, Alba dorata è un brand, e importarlo è stata solo una trovata pubblicitaria,
molto efficace, da parte del nostro fondatore».
Bella trovata, non c’è che dire. L’intuizione
è di Alessandro Gardossi, classe 1968, ex factotum triestino di Domenico Scilipoti ed ex segretario in Friuli dei neofascisti di Forza nuova: è lui che detiene i diritti del nome, registrato il 25 ottobre scorso presso l’Agenzia delle entrate di Trieste. «Fu quando Grillo disse:
se falliamo noi, arriverà Alba dorata», ricorda il candidato. «Ed eccoci qua». Ma Gardossi, dov’è? Ospite del bed & breakfast di Borghesi nei suoi soggiorni milanesi, il leader trottola da una sede all’altra del partito, fomenta, organizza. «Oggi andava a Varese, poi a Brescia».
E a Brescia incontriamo Antonio Di Domenico, 45 anni, un diploma in ragioneria, autista di
autobus nella società di trasporti del Comune.
«Vogliamo la dittatura dell’intelligenza, la scuola va ripulita dai comunisti, così come la magi-
left 22 dicembre 2012
Alessandro Gardossi: «Siamo incostituzionali? Il nostro statuto è copiato paro paro
da quello dei Cristiani democratici europei»
stratura». È emozionato, Antonio, fa parte della
“cellula” bresciana, ed è finito sul giornale «per
favore, però, non dite anche voi che siamo razzisti...». E oggi incontrerà per la prima volta il
gran capo. Alessandro Gardossi è un omone alto quasi due metri, caviglie sottili, volto stanco.
Arriva per pranzo, preoccupato: «In Regione il
Pd ha fatto un esposto contro la nostra candidatura, dicono che siamo incostituzionali». Embé? «Guardino pure lo statuto: è copiato paro
paro da quello dei Cristiani democratici europei». Sorride, Gardossi. «Mica siamo fessi». Però niente cortei, niente bandiere, pochi soldi:
«Quelli della banca si sono rifiutati di farci aprire un conto con il nome del partito. Del resto, le
banche sono in mano agli ebrei», spiega il leader.
Quella di Alexandros (così si fa chiamare su
internet) Gardossi, è una carriera travagliata:
insegnante, poi infermiere all’Asl di Trieste. Licenziato a suo dire «da un’azienda sanitaria dominata dai comunisti», vive «grazie alla liquidazione». Ex leghista, sogna di fare il rinnovatore dell’ultradestra. «Vengono da noi da tutte le
parti», si vanta. «Lega, Pdl, Fiamma tricolore: io
cerco di tenere tutti insieme, il programma è il
nostro faro». Antonio, in tuta da autista gli illustra le proprie idee. «Divieto di manifestare». Si
vedrà. «Abolizione dei sindacati». Certo. «È già
nel programma, online», conferma Gardossi. E
per la raccolta firme, come si fa? Per presentarsi ne servono 1.700 per provincia, 3mila solo a
Milano. «Speriamo bene», dice Antonio. «No corregge Gardossi - speriamo un corno: noi vinciamo e basta». Poi, in separata sede, confessa:
«E se non vinciamo, prima o poi si arriverà alla
guerra civile. E allora andremo a prenderli a casa, i politici e compagnia bella».
In apertura,
una manifestazione
dei neofascisti greci
di Alba dorata.
In alto, l’home page
del sito internet
del movimento
dell’estrama
destra lombarda
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Registri flop
Gli elenchi delle unioni civili, istituiti da 86 Comuni,
di Marilena Vinci
non funzionano. Poche iscrizioni, specialmente
tra gli omosessuali. Colpa della carente informazione
sui pochi diritti che concedono, ribattono le associazioni Lgbt
A
ll’inizio del nuovo millennio dovevano essere i Pacs (Patto civile di solidarietà); poi vennero i Dico (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi); infine ci si accontentò dei registri per le unioni civili, ovvero di un elenco comunale su cui compaiono i nomi delle coppie di fatto. Peccato però che in Italia, dove sono 86 i Comuni ad averli adottati, si siano rivelati un flop. Sarà perché
sono poco conosciuti o forse perché i diritti che
ne derivano non sono poi così significativi, di sicuro i registri sono stati quasi ovunque un fallimento. Semplicemente, la gente non li usa. Per
le coppie etero sono solo un primo passo verso
il matrimonio, mentre per gli omosessuali sono
32
l’unica forma di ufficializzazione del rapporto.
Eppure proprio per questi ultimi si rileva la partecipazione più bassa.
L’unione civile è un negozio giuridico, diverso
dal matrimonio, che comporta il riconoscimento giuridico della coppia di fatto, al fine di stabilirne diritti e doveri. Uno strumento del genere
esiste nella maggioranza dei Paesi dell’Europa
occidentale (tra cui Francia, Germania e Regno
Unito). Mentre in Spagna, Paesi Bassi, Islanda,
Belgio, Norvegia, Svezia, Portogallo e Danimarca le coppie omosessuali possono accedere direttamente al matrimonio. In Francia il governo ha approvato un ddl per istituire i matrimoni omosessuali ma l’avvio dell’iter parlamenta22 dicembre 2012
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re è previsto per l’inizio del 2013. La scelta di
Parigi ha fatto andare su tutte le furie la Chiesa,
coi cattolici scesi in piazza a protestare. Anche
il pontefice è stato molto chiaro: «I matrimoni
gay sono una ferita alla giustizia e alla pace»,
ha dichiarato Joseph Ratzinger il 14 dicembre.
Lo scontro tra favorevoli e contrari alla regolarizzazione delle unioni omosessuali è ancora
molto aspro, anche in Italia, ed è trasversale alle aree laiche e cattoliche dei vari partiti. Il problema, insomma, è tutto aperto. Secondo l’ultima rilevazione dell’Istat, relativa al 2010-2011,
le coppie conviventi nel nostro Paese sono il 6,6
per cento. Eppure, secondo i dati che left ha raccolto in molte città, sono rare le coppie che decidono di ricorrere ai registri delle unioni civili. A Empoli, prima città a introdurli nel lontano 1993, sono solo 6 le coppie a essersi registrate di cui 2 omosessuali. A Pisa, dal 1997, i registri
comprendono 53 coppie di cui solo 4 omosessuali. E ancora, flop a Firenze (dal 2001, 91 coppie di cui 17 omosessuali) e Siena (5 dal 2011). Va
un po’ meglio a Pesaro, dove alle coppie di fatto
che lo richiedano viene rilasciato uno speciale
stato di famiglia: 580 famiglie iscritte, di cui però
solo una formata da persone dello stesso sesso.
Anche a Roma, dove i registri sono autonomamente istituiti dai municipi, non si può parlare di
successo. Ad esempio nel decimo municipio, che
ha quasi 200mila abitanti, dal 2006 sono iscritte
28 coppie di cui 7 omosessuali.
Nel 2012 ad adottare il registro sono state città come Cagliari (5 le coppie attualmente iscritte), Napoli (7 di cui 1 omosessuale) e Milano, indubbiamente il caso di maggior successo in Italia con 138 coppie di cui 39 omosessuali e 220 prenotazioni per i prossimi mesi.
Per l’assessore ai Servizi civici di Milano, Daniela Benelli «questo registro ha soprattutto un forte
valore simbolico. La maggior parte degli iscritti,
più che per un fatto economico, lo fa perché vuole poter utilizzare l’attestato in caso di necessità,
per esempio se uno dei due conviventi finisce in
ospedale. Adesso stiamo lavorando anche sul regolamento funebre, per equiparare il trattamento
dei conviventi a quello dei coniugi». Perché Milano ha risposto meglio di altre città? «Perché la
città ha uno stile di vita più europeo con un orientamento laico, anche se non laicista. I milanesi si
left 22 dicembre 2012
sentono “europei” e non possono che apprezzare uno strumento che nel resto del continente utilizzano ormai tutti i Paesi a eccezione dell’Italia».
Ma a spingere le “nuove famiglie” milanesi in fila davanti a Palazzo Marino è anche la vastità dei
diritti legati ai registri. Il Comune di Milano s’impegna infatti a tutelare le unioni civili in otto aree
tematiche: casa, sanità e servizi sociali, politiche
per i giovani, genitori e anziani, sport e tempo libero, formazione, scuola e servizi educativi, diritti e partecipazione, trasporti. In pratica gli atti
dell’Amministrazione prevedono condizioni non
discriminatorie di accesso agli interventi. Chi si
iscrive al registro del Comune di Milano è equiparato «al parente prossimo del soggetto con cui
si è iscritto». L’Amministrazione comunale rilascia inoltre su richiesta l’attestato di «unione civile basata su vincolo affettivo» che corrisponde al
più convenzionale stato di famiglia.
Unico caso positivo, Milano: in pochi mesi
138 coppie registrate e 220 prenotazioni
Ma da cosa deriva il flop dei registri? Ha una
tesi precisa in proposito Franco Grillini veterano delle lotte per i diritti civili degli omosessuali e presidente onorario dell’Arcigay: «I registri
sono una battaglia simbolica. Il nostro obiettivo da vent’anni è conquistare le unioni omosessuali tramite una legge. I registri sono nati per fare pressione sul governo», spiega l’attivista. «Non funzionano per un duplice motivo. Uno, a livello locale i Comuni non fanno conoscere questa opportunità e non incoraggiano a iscriversi; secondo i cittadini non riconosco l’utilità pratica di questi registri. Il problema è che non hanno alcun effetto pratico». Diversa la situazione a Milano e Napoli: «Nelle
due città vengono concessi diritti più ampi, realmente utili». Lo scarso numero di registrazioni potrebbe anche essere dovuto al disinteresse verso il matrimonio? «È possibile ma il
punto non è questo. A prescindere da tutto i diritti devono essere uguali per tutti. Molti dicono che non si sposeranno mai, ma questo non
vuol dire che non ci debba essere la possibilità di farlo. È come accadde in passato per il divorzio o l’aborto: il fatto che esistano non vuol
dire che uno scelga di farlo».
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L’Isola
senza
tesoro
Dipendenti senza stipendi,
auto a secco di benzina,
strade senza illuminazione, milioni di debiti
fuori bilancio. In Sicilia 60
Comuni rischiano il default
di Claudio Reale
A
Catania si rivolgono al governo. A Messina invocano la Regione. A Cefalù contano semmai in un intervento della Madonna. Ma tutti, proprio tutti, sono in difficoltà.
Benvenuti in Sicilia, l’isola che il tesoro non ce
l’ha più da un pezzo: qui quasi ogni Comune ha
consumato giorni e notti a cercare nelle pieghe
della matematica un artificio per cacciar via quella parola proibita che significa più tasse, licenziamenti, servizi bloccati: default. I numeri sono impietosi: su 390 Comuni, una sessantina è all’anticamera del dissesto, ha approvato i bilanci in ritardo o si trova a fronteggiare buchi milionari.
Ma secondo Giacomo Scala, presidente dell’Anci Sicilia, la situazione è ancora più nera. Almeno guardando le condizioni della cassa: «Sessanta Comuni in difficoltà? Macché - taglia corto - i
Comuni in crisi di liquidità sono 390. Sì, il 100 per
cento». La causa? «I trasferimenti del governo sono stati tagliati drasticamente, così è impossibile far quadrare i conti». Anche se una luce in fondo al tunnel si intravede: la giunta Crocetta, appena insediata, ha sbloccato 180 milioni. Una goccia
nel mare, ma un inizio.
In attesa che arrivino quei fondi, in Sicilia si gestisce l’esistente. Con casi paradossali come quello di Messina. Qui, il 9 novembre, il commissario
straordinario Luigi Croce si è presentato davanti
alla Corte dei conti con una relazione che calcolava il buco in 243 milioni. Di fronte ai magistrati
contabili il commissario ha scoperto che dal suo
Comune era arrivata anche la relazione del ragioniere generale Ferdinando Coglitore. Che era stato più ottimista: “appena” 60 milioni di buco. Intanto il Comune, fino all’estate guidato dal Pdl
Peppino Buzzanca, ha tagliato quasi tutto, ha alzato le aliquote e ha ottenuto un finanziamento di
40 milioni dalla Regione per mettere una toppa.
Una toppa l’hanno messa anche a Catania. Dove
il bilancio è stato approvato alla vigilia dell’Immacolata: il Comune, oggi guidato da Raffaele Stancanelli (Pdl), si è salvato grazie ai 90 milioni da restituire in 10 anni che il governo dovrà versargli
attraverso il “fondo Salva-Comuni”. Per farlo, pe34
© arianna catania
rò, le aliquote dovranno rimanere a lungo al massimo.
A Palermo, invece, l’incubo del sindaco Leoluca Orlando (Idv) è solo in parte legato ai conti
dell’ente. La bomba a orologeria qui si chiama Gesip: la società comunale che ha assorbito i precari si è vista negare dal governo i 5 milioni utili a
sopravvivere un altro mese e ha chiesto la cassa
integrazione per i suoi 1.800 dipendenti. Centinaia di famiglie senza certezze nel Natale della crisi.
La crisi, però, più che i grandi Comuni mette in
difficoltà quelli medi. E qui l’elenco si fa lungo: Bagheria, Cefalù, Milazzo, Modica, Noto, Monreale,
Sciacca, Avola, Pachino, Favara. Quello più in crisi è senz’altro Cefalù: il centro turistico in provincia di Palermo è stato dichiarato in dissesto dalla Corte dei conti: 12 milioni di debiti fuori bilancio, cioè quasi mille euro per ciascuno dei 14mila
abitanti. Bambini compresi. E il sindaco si rifugia
nella fede: «Solo la Madonna può aiutarci».
Il problema, nell’isola senza tesoro, è sempre più
la quotidianità. Gli stipendi: a Scicli le buste paga dei comunali sono rimaste ferme per 4 mesi, a
Ispica per tre, a Noto e Monreale per due. E poi le
forniture, anche quelle essenziali: a Milazzo stop
ai mezzi pubblici, manca il carburante; a Bagheria
il sindaco Vincenzo Lo Meo, strozzato da 28 milioni di debiti, è in difficoltà con le bollette. «Il debito con la ditta che fornisce l’elettricità è di 1,7 milioni», ha ammesso. Così qualche sindaco si è dato alla creatività. «Per fare cassa - ha spiegato Nicola Bonanno, sindaco di Caltagirone - abbiamo
messo i nostri veicoli in vendita su eBay». All’asta
sono finiti anche il carro funebre, uno scuolabus e
un’autobotte. «Così guadagniamo qualcosa e non
paghiamo più il bollo».
22 dicembre 2012
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calcio mancino
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Benito Lorenzi, uno dei calciatori più violenti e sleali del campionato italiano
Veleno
in campo
di Emanuele Santi
L
orenzi o come
dicevan tutti...
Veleno era nato in Toscana a Borgo
a Buggiano nel 1925. Il
nome di battesimo, Benito, era colpa del nonno materno che vistosi chiudere il forno e la
panetteria per ordine
del podestà, reagì costringendo la figlia Ida
a chiamare il nipotino
proprio come il duce.
Il soprannome Veleno,
invece, non era merito dei giornalisti testimoni di infinite scorrettezze in campo, ma
della stessa madre rassegnata a un carattere che oltrepassava la sana vivacità.
Iniziò la carriera dopo la guerra, durante la quale aveva aderito alla Repubblica di Salò ed era stato ferito
dai partigiani jugoslavi. L’Empoli lo
acquistò nel ’47 per 100mila lire dalla squadretta del paese natio rivendendolo l’anno dopo all’Inter per 12
milioni sulla garanzia di quindici reti nel campionato cadetto. Nella partita d’esordio in nerazzurro rimediò
un cartellino rosso. Dopo un brutto
infortunio sul campo della Pro Patria che gli costò la frattura del perone e diversi punti in testa, rimase a San Siro per undici stagioni segnando 138 reti e vincendo due scudetti nel ’53 e nel ’54. Nel ’58, si trasferì all’Alessandria e, l’anno dopo,
chiuse la carriera a Brescia di nuovo
ti della Juve, con apprezzamenti nei
confronti di Elisabetta II d’Inghilterra, si vide rispondere con un sorriso:
«Io gallese, non è mia regina». Lorenzi alzava le mani anche sui compagni di squadra. Un giorno, a Firenze, il suo partner d’attacco Nyers
sbagliò un gol già fatto e pagò l’ira
di Veleno con un pugno. L’ungherese laBenito Lorenzi,
detto “Veleno”
sciò il campo risentito e lo stesso Lorenzi
gli ordinò di rientrare
minacciandolo di dargli il resto. Nyers rientrò, segnò con un bel
colpo di testa e si prese la rivincita rincorrendo Veleno che se la
diede a gambe. La sua
scorrettezza più famosa resta quella mostrata in occasione di una
stracittadina di campionato tra Inter e Milan. L’arbitro Lo Bello
aveva concesso un rigore al Milan con i nerazzurri in vantaggio
per 1-0. Senza che nessuno se ne accorgesse, Lorenzi aveva raccolto un mezzo limone piovuto dagli spalti e lo aveva posizionato
a trappola tra il dischetto e la palla.
Tito Cucchiaroni, l’ala sinistra, partì
convinto di spiazzare Ghezzi, ma vide il suo tiro superare la traversa di
oltre un metro e l’Inter vinse la partita. Eppure Benito Lorenzi detto Veleno era un cattolico esemplare, osservante e praticante. Tanto che si è
sempre vantato di aver perso la messa della domenica una sola volta
nell’arco di tutta la carriera. In un celebre colloquio con Carlo Maria Martini, all’epoca Arcivescovo di Milano, rassicurò il porporato dicendogli che «Il corpo pecca, ma lo spirito
cattolico rimane nello spogliatoio».
[email protected]
Cattolico praticante non saltava
una messa. Ma sul terreno di gioco
era manesco e insultava gli avversari
left 22 dicembre 2012
in serie B. Ha vestito la maglia della
Nazionale dal ’49 al ’54, stesso anno
in cui, ai mondiali di Svizzera, venne
espulso per un calcio rifilato all’arbitro proprio nel match contro i padroni di casa. Benito Lorenzi era un giocatore estremamente sleale, sia nei
contrasti fisici, sia negli scambi verbali. Il suo colpo preferito consisteva nello stringere i testicoli del difensore avversario per impedirgli di
colpire di testa e poi si gettava nella rissa che spesso ne seguiva. Altra
specialità erano gli insulti, volgarissimi, rivolti sia agli avversari (pare
che sia stato proprio lui ad inventare il soprannome Marisa per Giampiero Boniperti) sia alle madri e alle mogli. Quando volle provocare John Charles, il gigantesco centravan-
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cose dell’altritalia
società
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1 PALERMO
Regione Sicilia, arriva il primo
indagato per mafia. È dell’Udc
Il primo indagato è già arrivato. A pochi giorni dall’inizio
della nuova legislatura al Parlamento regionale siciliano,
è stato recapitato il primo avviso di garanzia: destinatario Pippo Sorbello
dell’Udc, accusato di voto di scambio con il clan Nardo di Lentini in un’inchiesta
coordinata dalla procura di Catania. Alla notizia, Sorbello ha deciso di dimettersi
dall’incarico di vicecapogruppo dell’Udc all’Ars e si è autosospeso da ogni ruolo di
partito. Con lui è indagato anche l’ex deputato regionale Nunzio Cappadona, che,
secondo l’accusa, sarebbe stato aiutato da un altro clan, la cosca Bottaro-Attanasio,
per le elezioni regionali del 2006 e nel 2008 avrebbe invece fatto ricorso al sostegno
del clan Nardo. Entrambi, però, si difendono: «Siamo estranei alle accuse». Intanto,
la conta degli indagati all’Ars è già arrivata a quota nove: se infatti Sorbello è il
primo a essere iscritto nel registro degli indagati dopo l’inizio della legislatura, altri
otto parlamentari si erano ricandidati nonostante inchieste o processi in corso:
nell’elenco tre deputati del Pdl (Francesco Cascio, Salvino Caputo e Mimmo Fazio)
tre del Partito dei siciliani (Pino Federico, Giovanni Di Mauro, Giuseppe Picciolo),
uno del Pd (Giuseppe Laccoto) e uno del movimento di Micciché Grande Sud
(Michele Cimino). Bazzecole in confronto alla scorsa legislatura, quando su novanta
deputati regionali il numero degli indagati era arrivato a quota 29, quasi uno su tre.
6
2 l’Aquila
Gran Sasso senza sci
Visto che anche il turismo delle macerie sta passando di moda, L’Aquila aveva riposto grande fiducia nel business della neve, grazie agli impianti da sci di
Campo Imperatore, in cima al Gran Sasso. Incredibilmente però la Ctgs, società di gestione comunale, ancora non riesce ad aprire gli impianti,
a causa dei ritardi nella manutenzione della seggiovia. Addirittura il gasolio necessario agli impianti non sarebbe stato trasportato in quota in
tempo utile. Gli operatori turistici sono sull’orlo di una crisi di nervi, se non del fallimento. Si
preparano a una class action contro il Comune,
chiedono la testa del sindaco Massimo Cialente,
accusano la ditta che ha eseguito i lavori di aver
giocato sporco, visto che è la stessa che gestisce
gli impianti concorrenti. Il sindaco ha dato le colpe e il benservito al suo ex pupillo, il presidente
dell’ente Alessandro Comola, che respinge le accuse. Intanto si apre il toto nomine per il prossimo Cda. In palio ci sono milioni di euro di appalti
per nuove infrastrutture. Fondi, accusano le associazioni, che potevano essere destinati alla ricostruzione delle case per i terremotati.
36
4
3 LECCE
Frane ed ecomostri
Il cemento è l’effetto o la causa dei crolli? A questa domanda dovrà rispondere la procura di Lecce, che deve verificare se l’intervento di consolidamento sul costone di Porto Miggiano, a Santa Cesarea Terme, un pezzo di paradiso nel Salento, si sia svolto secondo le regole. Sulla carta i lavori di messa in sicurezza hanno ottenuto tutte le autorizzazioni. Ma
insieme alle opere di consolidamento sono stati realizzati anche
due lussuosi resort con vista sulla scogliera, uno dei quali è finito nell’elenco degli “ecomostri” di Legambiente. L’accusa dei pm è
danneggiamento aggravato di beni ambientali. L’obiettivo delle indagini è stabilire se i crolli del costone si siano verificati per cause
naturali o siano legati proprio alle megastrutture.
22 dicembre 2012
left
cose dell’altritalia
left.it
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4 CAGLIARI
Il Real Madrid prende il sole tra i Nuraghi
L’impianto termodinamico più grande d’Europa verrà costruito a Sa Nuxedda, nei pressi di
Cagliari. E sarà pronto tra due anni e mezzo. Lo ha annunciato Alberto Scanu, proprietario della
Sardinia Green Island, impresa capofila di un investimento complessivo di oltre 250 milioni di euro. Dietro il
megaprogetto, però, c’è l’Acs Cobra di Florentino Perez. Proprio lui, il presidente dei “galacticos” la società
calcistica Real Madrid che «fornirà il know how necessario e le garanzie alle banche finanziatrici del progetto»,
ha spiegato Scanu. La megaopera prevede 100 GWh l’anno di potenza elettrica installata su 137 ettari occupati
da 3.500 specchi, a cui si aggiungono gli edifici ausiliari e una torre di 200 metri. Sebbene a qualche centinaio
di metri dall’area sorga l’importate complesso nuragico conosciuto come “Su Casteddu de Fanari” e
nonostante Sa Nuxedda venga considerata zona alluvionale. In cambio il Comune di Vallermosa riceverà
una nutrita compensazione, oltre alla ricaduta occupazionale. Ma quanti posti di lavoro creerà
l’impianto non è ancora chiaro. Si parla di centinaia di posti di lavoro. Un documento sottoscritto
con l’assessorato all’Industria lo scorso 15 giugno impegna la società ad assorbire nell’impianto i
cassintegrati dell’ex Ineos di Macchiareddu, fabbrica chimica ormai chiusa.
5
5 ferrara
La luce è troppo cara
2
I ferraresi potrebbero risparmiare quasi 2 milioni di euro
all’anno. Come? Cambiando il fornitore dell’illuminazione
pubblica. Grazie alla spendig review, infatti, i Comuni possono recedere
i contratti nei quali il fornitore non consenta la riduzione del prezzo.
Grazie a questa norma il Comune guidato da Tagliani potrebbe decidere
di rescindere il contratto per la pubblica illuminazione stipulato con
Hera, la multiutility emiliana, che ha il suo centro nel Comune di
Bologna e di cui è socio anche il Comune estense. Dati alla mano, la
rescissione del contratto in favore di un altro fornitore, Enel,
sarebbe ancora più vantaggiosa. Valentino Tavolazzi, di
Progetto per Ferrara, attacca: «Il sindaco revochi
subito il contratto». Anche il primo cittadino
aveva in più occasioni espresso perplessità sul
contenuto economico del contratto finito
3
nell’occhio del ciclone.
6 LIVORNO
Quei fusti tossici,
ancora in fondo al mare
La ricerca continuerà, almeno fino a tutto il 2014.
L’assessore all’Ambiente della Provincia di Livorno,
Nicola Nista, ha promesso di non interrompere la ricerca dei bidoni tossici caduti nel mare livornese un anno fa, sbalzati dall’eurocargo Venezia in pieno “santuario dei cetacei” a ridosso dell’isola di Gorgona. A causa del mare grosso e del libeccio, 198 fusti d’acciaio contenenti catalizzatori a base di nichel e moblideno, sostanze tossiche
usate per la lavorazione del petrolio, caddero dalla motonave della
compagnia Grimaldi. Il comitato Togliete quei bidoni ha già raccolto
4mila firme per la rimozione dei 72 fusti ancora sul fondo del mare.
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mondo
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L’Esercito zapatista di
liberazione non è scomparso.
I suoi attivisti hanno messo
da parte la formazione
militare per impegnarsi in
progetti sociali e comunitari.
Oggi sono pronti a rientrare
in campo. Per porre fine
alle violenze della sanguinosa
guerra alla droga
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22 dicembre 2012
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mondo
© Castillo/AP/lapresse
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I
l ritorno del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) al governo del Messico ha risvegliato
un attore rimasto in disparte per lungo tempo: l’Esercito zapatista di liberazione nazionale,
universalmente conosciuto come Ezln. Il gruppo
guerrigliero è tornato a pubblicare un comunicato dopo circa un anno di silenzio assoluto, proprio in occasione dell’elezione del nuovo presidente, Enrique Peña Nieto. Lo ha fatto lo scorso
otto dicembre, una settimana dopo l’insediamento del governo. Appena entrato in carica, il nuovo
presidente aveva già represso violentemente una
manifestazione di protesta organizzata proprio
da tutte le forze antagoniste. Dalle pagine di Enlace Zapatista, il sito web di Ezln, è arrivata la denuncia della «spudoratezza con il quale il governo ha represso le mobilitazioni di protesta contro
l’insediamento di Enrique Peña Nieto».
Al di là del nuovo comunicato, sono in molti ora a
chiedersi quale sarà il ruolo degli zapatisti in Messico. Già nel 1994 i seguaci del subcomandante
Marcos avevano dichiarato guerra al Pri, il Partito che dal 1929 al 2000 ha monopolizzato il Paese spacciandosi per progressista ma realizzando una politica autoritaria. I suoi esponenti, però, non sono stati scalzati dai guerriglieri, bensì
da un Partito ancora più di destra, il Pan, che dal
2000 a oggi ha conservato la presidenza del Messico. Nel 2008, esaurito lo slancio rivoluzionario, gli
zapatisti hanno vissuto quasi completamente isolati tra le montagne del Chiapas. Ma l’Ezln non è
scomparso. Ha mantenuto la sua organizzazione
di gruppo armato, pur concentrandosi sull’impegno politico e comunitario. Nel territorio sotto il
suo controllo ha stabilito un sistema autonomo di
Il subcomandante
Marcos
il ritorno
di marcos
di Mirko Peddis
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© Zuniga/AP/lapresse
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Militanti dell’Esercito
zapatista di
liberazione nazionale.
A destra, l’ultima
manifestazione contro
il governo messicano
amministrazione basato sulle Giunte di buon governo (Jbg), formate da delegati e rappresentanti delle popolazioni indigene, cui si aggiunge un’intensa attività internazionale portata avanti principalmente dal suo leader storico e portavoce, il
subcomandante Marcos.
Le manifestazioni contro il governo segnano
l’inizio di un nuovo percorso politico
Già nel maggio del 2011, l’Esercito zapatista ha
partecipato alle proteste che hanno dato vita a una
massiccia ondata di manifestazioni in diverse città messicane. Chiedeva al governo di porre un freno alla violenza scaturita dalla guerra frontale al
narcotraffico, un conflitto che ha già causato oltre
35mila vittime in tutto il Paese. Non è un segreto
che da gennaio dello stesso anno il subcomandante Marcos abbia avuto un intenso scambio di missive con numerose personalità della cultura messicana, per denunciare apertamente il business
della guerra alla droga e la distruzione del tessuto sociale nazionale. Una presa di posizione importante rispetto a uno dei problemi endemici del
Messico che gli zapatisti intendono affrontare attivamente, nel contesto di quello che sembra il loro
rientro alle attività su larga scala.
Secondo molti, inoltre, la partecipazione dell’Ezln
alle manifestazioni contro il governo è il primo
passo verso un nuovo progetto d’opposizione che
andrebbe a sostituire la tradizionale intransigenza
della via militare. Il movimento zapatista, insomma, si starebbe trasformando definitivamente in
un attore politico a tutti gli effetti, che chiede di rispondere alla violenza non con altra violenza ma
con tattiche pacifiche. Se così fosse si capirebbe
meglio anche l’atteggiamento delle istituzioni, tendente a criminalizzare ogni sorta di mobilitazione,
come confermato dalla repressione del primo dicembre alle manifestazioni contro Peña Nieto.
La storia del movimento zapatista comincia nel
1983 in Chiapas, con alcuni attivisti indigeni di
questa regione meridionale che si appoggiavano al movimento guerrigliero delle Forze di liberazione nazionale, attivo fin dagli anni 70 nel nordest e nel sud del Paese con l’obiettivo di redistribuire alla popolazione le terre in mano a possidenti e alle organizzazioni vincolate proprio al Partito
rivoluzionario istituzionale. Secondo un racconto
del subcomandante Marcos: «Il 17 novembre del
1984 festeggiammo il primo anniversario di Ezln.
Eravamo nove. Credo fosse in un accampamento chiamato Margaret Thatcher, perché avevamo
catturato una ragazza che, lo giuro, era il clone
della Lady di Ferro». Ufficialmente, però, il nome
Ezln appare solo nel 1994 quando, entrato in vigore il Trattato di libero commercio tra Messico, Canada e Stati Uniti, gli zapatisti occuparono diversi
edifici governativi e attaccarono le truppe di stanza nel Chiapas. Gli scontri durarono diversi giorni e terminarono solo quando l’allora presidente Carlos Salinas de Gortari annunciò unilateralmente il cessate il fuoco. Da quel momento, l’Ezln
e il governo messicano intavolarono dei negoziati
che si interruppero definitivamente solo nel 2001,
quando il Congresso respinse una serie di riforme
costituzionali proposte dagli zapatisti assieme ad
altre associazioni civili. Nel mezzo successe un
po’ di tutto, compreso il cosiddetto “Piano Chiapas 94” che, secondo alcuni documenti venuti alla luce di recente, puntava all’annichilimento tota22 dicembre 2012
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© Meneghini/AP/lapresse
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le di Ezln da parte dell’esercito messicano già nel
1994, attraverso la creazione di gruppi paramilitari, la sospensione dei diritti individuali in Chiapas
e la censura ai mezzi di comunicazione.
Nel 2002, poi, in occasione dell’anniversario della
“scoperta” dell’America, il subcomandante Marcos si rifece vivo scrivendo una lettera ad Ángel
Luis Lara, ricercatore spagnolo che vive a New
York e oggi membro del movimento Occupy Wall
street. Nella lettera Marcos definì «un pagliaccio
grottesco» il giudice spagnolo Baltasar Garzón,
per aver ritenuto infondate le accuse contro il dittatore Pinochet riguardo a possibili violazioni dei
diritti umani contro cittadini spagnoli in Cile. Marcos definì il giudice spagnolo anche «campione di
provocazioni fasciste» per aver sciolto e dichiarato fuori legge il Partito indipendentista basco Batasuna. Il subcomandante attaccò anche il re spagnolo Juan Carlos I e l’allora del capo del governo
José María Aznar, provocando un vero e proprio
incidente diplomatico che generò un profondo dibattito interno al movimento zapatista.
Il territorio controllato dall’Ezln è stato relativamente accessibile tra il 2001 e il 2008: all’epoca
arrivavano in Chiapas persone da tutta l’America
Latina e dai Caraibi, ma anche dall’Europa e dagli
Stati Uniti, tutti simpatizzanti o attivisti. Centinaia di persone interessate alle lotte degli zapatisti,
gruppi di studenti, persone che volevano realizzare una ricerca o semplicemente conoscere una comunità di guerriglieri. Poi le popolazioni del Chiapas hanno dato avvio a una fase di riflessione interna che ha praticamente reso la zona inaccessibile agli estranei, anche per la crescente attività di disturbo messa in atto da gruppi paramilita-
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Il Chiapas è stato meta di simpatizzanti
fino al 2008, poi la zona è diventata
inaccessibile a causa dei gruppi paramilitari
ri antizapatisti finanziati dal governo fin dal 1994,
come testimoniato dalla ong Centro diritti umani
Fray Bartolomé de las Casas. In più, il movimento
ha perso prestigio a causa di posizioni che in molti casi hanno frammentato il fronte dei suoi simpatizzanti, come la campagna del 2006 contro il candidato presidente di centrosinistra Andrés Manuel López Obrador. Tutte questioni che, secondo
le voci critiche, avrebbero allontanato gli zapatisti
dalle loro prerogative iniziali, ovvero la lotta in difesa delle comunità indigene e delle loro esigenze,
da sempre inascoltate.
Narcotraffico, emigrazione, tratta di persone e
nuovi conflitti sociali, del resto, stanno cambiando la fisionomia del Messico e di, conseguenza, anche la strategie del movimento guerrigliero. Negli
ultimi anni i cosiddetti Municipi autonomi zapatisti hanno scelto di non concentrarsi più sulla preparazione militare dei guerriglieri, ma sullo sviluppo di progetti di produzione, educazione e salute. In silenzio, lontano dalla propaganda, l’Ezln ha
continuato a lavorare per tutti questi anni con organizzazione e disciplina. Gli zapatisti vivono, lavorano e si organizzano in una realtà fatta di sottrazione e di carenze, cui suppliscono con dedizione e creatività. Mantengono chiari i loro obiettivi e
i le loro convinzioni che sono stati e sono un fondamentale insegnamento per milioni di messicani. Non è ancora chiaro se Marcos e l’Ezln assumeranno il comando di un movimento sociale contro
il narcotraffico, o un ruolo politico ancora più attivo contando, magari, sull’appoggio di “amici” internazionali. L’unica cosa sicura, per il momento,
è che l’Esercito zapatista ha ripreso a far sentire la
sua voce. E non sarà facile zittirlo.
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tutta la vita
in colonia
di Massimiliano Sfregola da Amsterdam
Li chiamano “territori non autonomi”, e l’Onu chiede un referendum che metta
fine alla loro ambiguità giuridica. Ma per molte piccole nazioni restare un
protettorato è meglio che essere indipendenti. Questione di prestigio. E di soldi
A
ttaccati alle gonne di mammà, anche
se avrebbero l’età per l’indipendenza e
soprattutto si trovano a migliaia di chilometri di distanza dagli amati “genitori”. Nonostante le Nazioni unite più di mezzo secolo fa li
abbiano dichiarati autonomi, a ben 16 territori
(sugli 80 individuati dal Comitato Onu per la decolonizzazione) non è possibile applicare la risoluzione 1514: quella che mise fine, sul piano
del diritto internazionale, a quattro secoli di politica coloniale.
Secondo il Comitato, nel 2011 solo 2 milioni di
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abitanti vivevano ancora in territori “non indipendenti”. Ma la lista stilata a Palazzo di Vetro,
secondo alcuni, sarebbe stata “aggiustata” grazie al peso politico e diplomatico di alcune ex
potenze, interessate a non cedere il controllo
sulle minuscole ma strategiche terre agli antipodi. Molto spesso con il pieno appoggio delle popolazioni locali che, intimorite delle catastrofiche conseguenze sociali ed economiche
dei processi di decolonizzazione degli Stati africani, hanno scelto di non recidere i legami con
il proprio passato. Così è stato per i Dipartimen22 dicembre 2012
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ti francesi d’Oltreoceano, che sono a tutti gli effetti territori dell’Unione europea, però sparsi
in tre continenti. Qui circola l’euro, i cittadini
hanno in tasca il passaporto francese e mandano propri parlamentari all’Assemblée nationale di Parigi. Ci sono poi i Caraibi olandesi, dove
le isole di Bonaire, Sint Eustasius e Saba, geograficamente contigue al Venezuela, hanno eletto alle ultime elezioni politiche dei Paesi Bassi i
loro primi deputati. Sono incastonate nell’Oceano pacifico e nell’organizzazione statale francese - anche se in una posizione di maggiore autonomia rispetto ai Dipartimenti d’Oltreoceano
- la Polinesia francese e la Nuova Caledonia. Quest’ultima entra ed esce dalla famosa lista:
vorrebbe essere Francia, ma
non può perché il Comitato per
la decolonizzazione non gliene
riconosce il diritto, e la obbliga
a convocare un referendum sul
proprio destino. In questo caso
Parigi non è riuscita a far valere
il proprio peso politico all’interno della commissione di 24 nazioni che stila l’elenco dei “territori non indipendenti” da includere o escludere dalla lista. Lista
che attualmente è quasi integralmente occupata dai “Territori d’oltreoceano” del Regno Unito,
ossia le ultime testimonianze dell’ex Impero britannico nei Caraibi, nell’Oceano Indiano e nel
Pacifico, ma che include anche il promontorio
di Gibilterra - l’ultimo lembo “coloniale” europeo - e le isole Falkland/Malvinas, teatro dell’interminabile contesa tra Inghilterra e Argentina.
una bozza di accordo che avrebbe garantito autonomia al minuscolo arcipelago all’interno del
sistema neozelandese. Ma la Commissione delle Nazioni unite non ha apprezzato e ha patrocinato per ben due volte, nel 2006 e nel 2007, una
consultazione popolare bocciata poi dalla popolazione locale. La colonia di Tokelau resta così
nel mirino delle Nazioni unite, così come accade
per il possedimento britannico delle isole Pitcairn. Rese celebri dalla vicenda degli ammutinati
del Bounty, il processo di autodeterminazione
dovrebbe in questo caso riguardare una popolazione censita di 50 anime, un quarto delle quali
membri del parlamento locale.
Il Comitato per la
decolonizzazione
è accusato di favorire gli interessi
di grandi potenze
come Francia
e Gran Bretagna
Anche le isole Vergini americane, Samoa e
l’isola di Guam (un antico bastione iberico, strappato alla Spagna dagli Stati Uniti dopo la vittoria nel conflitto ispano-americano), sono considerate dall’Onu “colonie”. Di fronte a un quadro
complesso e contraddittorio, il vessillo dell’autodeterminazione, innalzato in alcuni casi con
fermezza dalla Commissione per la decolonizzazione, ha dato anche vita a situazioni al limite
del grottesco. Come nel caso di Tokelau, tre atolli nel cuore del Pacifico, popolati da 1.400 abitanti, dotati di relativa autonomia ma sotto la supervisione della Nuova Zelanda. Nel 2004 le autorità locali e il governo di Wellington avevano stilato
left 22 dicembre 2012
I detrattori del lavoro della Commissione puntano spesso il dito contro il “doppio standard” usato fino a oggi nel distinguere un territorio coloniale da uno indipendente: nella
vaghezza delle linee guida tracciate dalla Risoluzione n.1541
del 1961, la Francia riuscì a sfilarsi dall’elenco, ideando il sistema dei Dipartimenti e delle Collettività; al
Portogallo, che voleva integrare nel proprio
territorio metropolitano le ex colonie dell’Angola e del Mozambico, un’analoga richiesta fu
respinta dall’Assemblea. E caso simile è quello di Gibilterra, una storica rivendicazione territoriale spagnola nonostante Madrid sia oggetto, a sua volta, della pressione delle autorità del
Marocco che da sempre chiedono che le città
di Ceuta e Melilla, enclavi dell’Unione europea
in terra africana, vengano considerate territori
“non indipendenti”.
L’elenco aggiornato del Comitato finisce quindi
per trasformarsi da importante documento a tutela del principio di autodeterminazione in una
incompleta ed incomprensibile lista di “cattivi”,
dominata dall’ultimo ex Impero coloniale della
storia (l’Inghilterra) e dalla sua più nota ex colonia, gli Stati Uniti; succede allora di trovarci
dentro chi lotta per l’indipendenza, come il movimento Polisario e altri, come le isole Bermuda,
che dalla vetta di un’altra lista (quella dei più alti redditi pro capite al mondo) si godono senza
tante storie la propria condizione di territorio
“non autonomo”.
In apertura,
un’immagine
di Curaçao, isola al
largo del Venezuela
che dal 2010 è alle
dipendenze del Regno
dei Paesi Bassi. In
precedenza era parte
delle Antille olandesi
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metropolis
mondo
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parigi
Liberté, fraternité, maternité
Hanno sfidato l’aria rigida della capitale, dribblato i parigini indaffarati negli acquisti di Natale, sorpassato i nuovi treni metropolitani inaugurati il giorno prima, evitato
con eleganza le code davanti ai grandi magazzini e fatto sfoggio di tutta la loro ironia:
i sostenitori del “matrimonio per tutti” hanno così dimostrato che manifestare a Parigi sotto le feste - era il 16 dicembre - non è affatto «causa di problemi». Certo, il traffico ne ha risentito, ma non è tutta responsabilità loro: nella stessa giornata si è aperto il Trocadero on ice, la pista di ghiaccio per pattinatori di fronte alla Tour Eiffel, i
magazzini Lafayette hanno lanciato le vendite di Natale, e il Crédit municipal de Paris (il banco dei pegni, detto familiarmente Ma tante, mia
zia) ha fatto un’asta straordinaria di orologi e gioielli. Eppure la capitale francese se l’è cavata egregiamente, gli unici a essere ar-
rabbiati erano i cattolici oltranzisti, che volevano vietare al corteo di sfilare «nel mese
dedicato a Gesù e alla Madonna». Impossibile, se-
condo loro, che nel periodo natalizio si possa chiedere di autorizzare i
matrimoni tra persone delle stesso sesso, o peggio ancora la procreazione assistita per le coppie non eterosessuali. Ma nell’allegro corteo che
ha sfilato alla Bastiglia i manifestanti che difendevano la libertà di scelta hanno risposto con simpatia: nei cartelli e negli adesivi c’era scritto
“Meglio un matrimonio gay che un matrimonio triste”, oppure “Manif à
l’Avent, mariage au printemps” (manifestazione all’Avvento, matrimonio a primavera). E poi, in tempi di crisi, ricordano che “le liste di nozze
gay rilanciano l’economia”. Sarà questo l’argomento vincente? Mavi Caporali
Losanna
Inferno ferroviario
L’orologio svizzero sarà ancora puntuale, ma i treni
del Paese non riescono a seguirne le lancette. I giornali elvetici hanno definito l’inizio di dicembre “la
settimana d’inferno delle ferrovie” e così davvero è stata per le migliaia di pendolari del
cantone francese che ogni giorno si spostano da Losanna per andare a lavorare a Ginevra. I gestori del trasporto danno tutta la
colpa al maltempo, che ha flagellato la Confederazione, con ghiaccio e neve, bloccando due terzi dei
convogli. Una situazione normale in Italia ma non in
Svizzera, il 90 per cento dei treni è solitamente puntuale. Quando i mezzi arrivati
in ritardo hanno superato il 25 per cento, la contestazione è diventata inevitabile. Soprattutto perché la causa non è il freddo, secon-
do i pendolari: responsabile è il nuovo orario dei treni, modificato per la prima volta dopo 12 anni. Le Ferrovie svizzere si vantano di aver aumentato i convogli da e per Ginevra, ma i viaggiatori sostengono di non aver visto nessun beneficio: «Viaggiamo in piedi come prima», affermano
delusi. E a farli ancor più arrabbiare ci pensa la destra elvetica: Ulrich Giezendanner, dell’Unione di centro, vuole un dibattito parlamentare sul prezzo dei trasporti. Troppo caro? Macché,
troppo economico, sostiene. «Sarà il caso che comincino a pagare, mica possiamo dargli il treno gratis». Insomma, per viaggiare puntuali, mettete mano al portafogli. Marianna Di Marzio
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mondo
left.it
stoccolma
La festa inizia all’Abba
È la seconda meta selezionata dalla Rough guide per il 2013. Dopo Cipro del nord, Stoccolma è il miglior luogo da visitare nel prossimo anno, dicono gli autori della famosa guida per turisti “zaino in
spalla”. L’evento che renderà unica la capitale svedese è l’apertura del museo dedicato agli Abba, il celebre gruppo musicale di “Dancing queen” e “Mama Mia”, nella bellissima music hall
of fame dell’isola davanti a Stoccolma, Djurgarden. Con l’inaugurazio-
ne del museo la città si riempirà di feste
“in costume” ed eventi in pieno stile revival anni 70. Chi non volesse aspettare i fan degli Abba per vi-
sitare Stoccolma, può comunque approfittare di un altro grande personaggio che ha dato fama e lustro alla città: Stieg Larrson. Il grande giallista svedese ha ormai milioni di fan in tutto il mondo, molti dei
quali sono disposti ad affrontare un lungo viaggio per ripercorrere le
strade attraversate da Lisbeth Salander e Mikael Blomkvist, i protagonisti della sua Trilogia del Millennio. Nel quartiere trendy di Södermalm (Söder), ex rione operaio, è già possibile farsi guidare nei luoghi più citati del romanzo, per poi raggiungere anche Kungsholmen,
Vasastan, e Sandhamn, l’isola del cottage di Blomkvist. A organizzare
il tour ci pensa Elisabeth Daude, esperta della Trilogia del Millennio,
capace di raccontare ai turisti gli aneddoti più sconosciuti su Larrson,
un ragazzo povero del nord della Svezia trasformatosi in giornalista di
Anita Magri
inchiesta e autore di un libro da 65 milioni di copie.
Bucarest
Uomo avvisato, non salvato
Il terremoto sarà pure un evento imprevedibile, ma per salvarsi
dal peggio basta abitare in un solido edificio anti sismico. Oppure, se vivi a Bucarest, puoi contare sulle tue gambe: saper scappare rapidamente dai luoghi più
pericolosi può costituire la tua
salvezza. Le autorità rumene
hanno deciso di aiutare i potenziali velocisti con dei segnali di
avvertimento, più precisamente
con un bollino rosso. La mu-
nicipalità ha infatti deciso di segnalare le strutture a
maggiore rischio di
crollo con un grande segnale circolare
accanto al portone
di ingresso. La scritta sul
segnale è inequivocabile: «Questo palazzo è stato classificato
dagli esperti tecnici sotto la classe 1 di rischio sismico». In centro, dove abbondano gli edifici in
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stile modernista, ci sono alcune
strade che si sono ormai riempite di cerchi rossi. La più pericolosa sembra essere Calea Victoriei, un largo viale che attraversa isolati pieni di negozi affollati e di teatri importanti. Ma i cittadini di Bucarest non si lasciano impressionare, facendo poco
caso ai bollini rossi e sperando
semplicemente che non si verifichi nessuna scossa. Nessuno, ad
esempio, abbandona gli appartamenti negli edifici segnalati,
soprattutto perché gli affitti nei
palazzi più vecchi sono molto
più economici. Purtroppo l’Istituto nazionale romeno di fisica
della terra sostiene che tre placche tettoniche si incontrino nella regione di Vrancea, nel centro
del Paese, e che dopo il fragoroso terremoto del 1977 è probabile che se ne verifichino di nuovi.
Uomo avvisato.
Livia Lazzeri
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newsglobal
mondo
left.it
referendum farsa
©ap/lapresse
Le 10 province egiziane
andate al voto il 15 dicembre hanno approvato,
con il 56 per cento dei
consensi, il progetto di
Costituzione (che include
la sharia tra le sue fonti)
voluto dai Fratelli musulmani e dal presidente
Morsi. Gli islamisti hanno
festeggiato, ma la loro vittoria è solo parziale: alle
urne si è recato appena il
32 per cento degli elettori.
E l’astensione mostra che
la protesta si è spostata
dalle piazze ai seggi.
Media cinese
Si chiamerà China Daily Africa Weekly, sarà per adesso in lingua inglese - a breve arriverà anche l’edizione in francese - e avrà
come compito quello di favorire lo scambio di informazioni tra
Pechino e le sue “colonie economiche”. Visto l’impegno profuso
dagli eredi di Mao in Africa, al governo cinese è parso opportuno
favorire la nascita di un giornale che metta in comunicazione i
due mondi e che serva anche da veicolo pubblicitario per le sue iniziative. Entusiasta l’Unione africana, che vede di buon occhio l’interesse di Pechino per lo sviluppo
del continente, visto che la crisi economica ha “ristretto” gli investimenti di Usa e
Ue. Del resto, dal 2009, la Cina è diventata il primo partner dell’Africa e nel 2011 gli
scambi sono aumentati dell’83 per cento, raggiungendo 166 miliardi di dollari.
256
I seggi conquistati dal Partito
liberal democratico giapponese
(Ldp, conservatori) alle elezioni
del 16 dicembre. Il centrosinistra,
tornato da 3 anni al potere dopo
50 anni di dominio Ldp, ottiene
appena 65 seggi contro i 308 che
aveva nel precedente Parlamento
«Samaras non è Babbo
Natale, ma Erode».
11,1
L’aumento medio della speranza di vita
nel mondo dal 1970 al 2010, secondo
uno studio pubblicato questo mese
dalla rivista Lancet. Il posto dove si
vive più a lungo è il Giappone (89,5
la media per le donne) quello dove si
muore prima Haiti (appena 32,5 anni
l’aspettativa di vita per gli uomini)
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Alexis Tsipras, leader di Syriza,
criticando la politica economica
del primo ministro greco Antonis
Samaras. Il 13 dicembre scorso
l’Eurogruppo ha accordato alla
Grecia un prestito di 52,5 miliardi
di euro, di cui 16 destinati alla
ricapitalizzazione delle banche
«Gli economisti?
Bisognerebbe fucilarli,
o quantomeno
mettergli paura».
Jean-Luc Godard,
cineasta francese, intervistato
dal settimanale economico
svizzero Bilan
22 dicembre 2012
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museo
48SOS
Majakovskij
malata
56Quella
“normalità”
solo
58Non
Tolkien
cultura
Le poetiche acrobazie
di Victoria Chaplin (figlia di
Charlie Chaplin) e Jean-Baptiste Thierrée trasformano
il palcoscenico dell’Auditorium di Roma in un mondo
incantato. Dove tutto può
accadere. E con leggerezza.
Antesignani dell’arte teatrale
sotto lo chapiteau, iniziatori
della grande scuola francese, i due artisti sono in scena
il 22 e il 23 dicembre a Roma,
con il loro Cirque invisible.
cultura
Salviamo
il “teppista”
della poesia
di Guido Carpi
P
L’interno del Museo
Majakovskij a Mosca.
Nella pagina accanto,
Lilija Brik con Vladimir
Majakovskij a
Pietroburgo nel 1915
48
er tutto il Novecento, Majakovskij ha incarnato la sintesi fra avanguardia e rivoluzione: l’idea - tradotta in un vissuto concreto, profondamente partecipato - che la ricerca
di nuove forme espressive debba rinunciare a descrivere il mondo, debba ambire a trasformarlo.
Di tale idea, il Museo Majakovskij di Mosca, istituito nel 1937, ha costituito una sorta di reincarnazione espositiva: almeno questo lascito, pensavamo, sarebbe sopravvissuto al crollo dell’utopia
realizzata, magari come stimolo per una sua futura e diversa realizzazione. Unico museo di Mosca a rimanere aperto per tutta la durata della seconda guerra Mondiale (nelle pause, il personale lavava le divise dei piloti militari), oggi il museo Majakovskij è minacciato dai giovani manager sguinzagliati dalla nuova giunta moscovita e
dal suo assessorato alla Cultura che intende “ristrutturare” unità museali non conformi ai dettami del mercato e, come nel nostro caso, all’ideologia imperiale dominante nella Russia di Putin.
Dopo essersi occupati dell’appartamento-museo
Bulgakov, della sala espositiva del Maneggio, e
del Teatro Gogol’, sollevando la protesta del collettivo di attori, tecnici e amministratori che vi lavorano (vedi http://gogol-theatre.ru/) adesso tocca a Majakovskij, proprio a ridosso del 120esimo
anniversario dalla nascita: la direttrice storica e
cofondatrice del museo Svetlana Strižneva viene
“affiancata” da Nadežda Morozova, una funzionaria dell’assessorato che - almeno stando ai documenti pubblicati sul sito del museo Majakovskij sarebbe stata appena licenziata dal museo Puškin
(fortunatamente sotto la responsabilità del mini22 dicembre 2012
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© bartunov/flickr
cultura
Giudicato non conforme alle logiche
commerciali e alla grandeur imperiale di
Putin, il “futuristico museo” di Majakovskij,
a Mosca, rischia la chiusura.
Un patrimonio da difendere
stero della Cultura, non della giunta) «per la sistematica negligenza dei compiti professionali».
Scopo di tutto ciò: liquidare al prezzo più basso
possibile le installazioni d’avanguardia e trasformare in una “normale” galleria d’arte «il futuristico museo» (come lo definisce un membro del personale in una lettera privata in lingua italiana).
Il noto storico dell’arte Grigorij Revzin ha recentemente scritto sul Kommersant (l’analogo
del nostro Il Sole 24 ore): «A Mosca ci sono molti
buoni musei, ma solo uno geniale, il museo Majakovskij». Trasferito nel 1967 nel palazzo dove Majakovskij occupava la «stanzetta-barchetta» evocata nel poema Bene! (la stanza in cui il 14 aprile 1930 si sparò) durante gli anni della perestrojka, in un clima di ritrovato fervore sperimentale
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e di riscoperta degli ideali rivoluzionari, il museo
fu radicalmente trasformato da un ampio collettivo di artisti. Come si può vedere anche attraverso una visita virtuale del museo andando sul sito www.mayakovsky.info/virt, l’impianto espositivo tradizionale fu sostituito (fin dal guardaroba!) da una rutilante catena di scenografie-installazioni che si susseguono in spazi interni privati
di “piani” riconoscibili e organizzati per gradini,
in una spirale di cemento, vetro e metallo (materiali “poveri”, tipici sia del periodo rivoluzionario
che di quello della perestrojka) che ricorda le architetture costruttiviste di Rodcenko e di El’ Lisickij quanto la struttura “a scaletta” dei versi majakovskiani. In questo spazio vorticoso, che trova il
proprio culmine all’ingresso della «stanzetta-barchetta», l’unico spazio lasciato intatto, trovano
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cultura
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posto e acquistano nuova vita i documenti dell’avventura del poeta e scrittore, fase dopo fase. A cominciare dal suo rapporto con le avanguardie artistiche europee. L’esplosione figurativa postimpressionista, fauvista, cubista e primitivista d’inizio Novecento, era ben presente in Russia grazie
a facoltosi mecenati. E quella ricerca si legarono
particolarmente Majakovskij, studente di belle
arti espulso per - si direbbe oggi - “comportamento antisociale”, e in genere i futuristi russi. Molti
termini del loro vocabolario tecnico sono presi
dalla pittura: ad esempio lo sdvig, o “smottamento”, il frangersi improvviso delle linee per svolgere il volume in superficie bidimensionale. Analogamente, la “fattura” (faktura), che in pittura indica la scabra rozzezza della superficie dell’opera, la densità grumosa del colore in contrapposizione alle tecniche tradizionali, è applicata dai cubofuturisti al materiale verbale. Disseminate per i
gradini del museo sono le tipiche plaquettes futuriste, ossia il risultato sinestetico della collaborazione con pittori “d’area”. Il libro, proprio in quanto oggetto materiale, corrispondeva all’ideale di
un’arte sintetica, onnicomprensiva e dinamica
che permetteva la collaborazione fra poeti e pittori. Un’analoga interazione riguardava anche la
realizzazione di coreografie e di costumi per i testi
teatrali futuristi e suscitò - soprattutto in Majakovskij - un forte interesse nei confronti del cinema.
Guido Carpi, fra letteratura e marxismo
© bartunov/flickr
Docente di Lingua e letteratura russa all’università di Pisa, Guido
Carpi ha curato Poesie di Majakovskij (Bur, 2008). Fra i molti titoli
che ha pubblicato, merita ricordare qui la sua Storia della letteratura russa Da Pietro il Grande alla Rivoluzione d’ottobre edita da
Carocci due anni fa. Per lo stesso editore poi nel 2011, è uscita
la sua antologia Lirici russi dell’Ottocento, realizzata con Stefano
Garzonio. E ancora: quest’anno ha pubblicato Dostoevskij economista per la casa editrice moscovita Falanster e sta ultimando
una storia del marxismo russo dalle origini all’epoca staliniana
che uscirà sia in russo che in italiano.
50
Un altro momento importante nel percorso di
Majakovskij, che il museo di Mosca ripercorre, è
la nascita del gruppo cubofuturista Gileja (da Hylaea, la semi mitica terra nordica secondo i Greci), che dal 1912 al 1915 fu un’impressionante fucina di talenti ed esperimenti. Alla parola straniera futuristy, i glejani preferiscono il neologismo
creato da Velimir Chlebnikov: budetljane, ossia,
suppergiù, “gli abitanti del sarà” (da budet, futuro del verbo essere). L’unico modo per rappresentare il futuro è costruire quest’ultimo: usare la poesia come leva per la trasformazione della realtà, come già - pur in un contesto mistico-religioso
ben diverso - avevano predicato i simbolisti russi della generazione precedente. Ciò è possibile
portando alla luce le radici profonde della creatività umana, restituendo al linguaggio la sua primordiale forza evocativa, sepolta sotto secoli di
razionalità: di qui l’interesse dei futuristi russi per
le culture preistoriche, per i rituali arcaici, per il
22 dicembre 2012
left
cultura
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Majakovskij fatto a strisce
mondo dell’infanzia e del folklore. Di qui le tematiche affrontate sia nei testi che nelle illustrazioni dal Majakovskij prerivoluzionario e dai suoi accoliti: la guerra, l’apocalissi imminente, un satanismo più o meno folkloricamente edulcorato, un
cupo primitivismo e un urbanesimo che, a differenza delle fanfare marinettiane, è intriso di orrore e di senso di rovina.
Ma è a questo punto che interviene la cesura
rivoluzionaria. Se nei primi anni Majakovskij si
era atteggiato a istrione, bellimbusto, teppista in
chiave neoromantica, intriso di erotismo visionario, di compiaciuto immoralismo e di superomismo anticristiano, già l’esperienza della guerra gli
aveva dettato una nuova sensibilità civile, la necessità di cercare un nuovo umanesimo, una vena
tribunizia e, a tratti, messianica (vedi ad esempio
il poema Guerra e universo e la violenta invettiva
antimilitarista A voi!). Con la rivoluzione, agli elementi già consolidati del suo stile e alla consueta simbologia parareligiosa si aggiunge un pathos
militante ormai del tutto politicizzato: «Basta vivere secondo le leggi \ dateci da Adamo ed Eva. \
La rozza della storia sfiancheremo, \ A sinistra! \ A
sinistra! \ A sinistra!».
Majakovskij partecipa a numerosissime iniziative artistiche e culturali, in questo periodo; tutte
assai ben documentate nel museo: letture pubbliche, produzione di manifesti di propaganda, attività pubblicistica e polemica letteraria. Persuaso
che l’arte debba esprimere e stimolare la costruzione organizzata della vita da parte delle masse,
Majakovskij si orienta sempre più verso le forme
monumentali, i grandi affreschi cosmici: ne costituisce il culmine il poema Di questo (1923) dove
è lo stesso Io lirico ad attraversare una catena di
metamorfosi per resuscitare nell’amore che «si
espande in tutto l’Universo».
Noi non dobbiamo chiederci cos’abbia ancora da
darci la poesia di Majakovskij - e Majakovskij tutto intero, così come il suo museo ce lo restituisce
- piuttosto dobbiamo chiederci: cos’abbiamo noi,
oggi, da dare a lui? Quali sono le nostre idee, ragioni, i nostri punti di riferimento, le forti motivazioni da nutrire con la sua poesia? Abbiamo qualcosa da dire a Majakovskij? «Risuscitami, \ non
foss’altro perché \ da poeta \ t’ho atteso, \ Ripudiando le assurdità di ogni giorno!». (Dal poema:
Di questo). Rispondiamogli...
left 22 dicembre 2012
La vita di Majakovskij raccontata per immagini. Dalle tinte forti. In
sequenze quasi cinematografiche di disegni che hanno il ritmo
vorticoso e vitale dei suoi versi rivoluzionari. Nel graphic novel Majakovskij il disegnatore e storico dell’arte Pablo Echaurren, emulando
lo stile futurista, è riuscito a realizzare un’opera che fonde linguaggi
diversi: disegno, poesia e narrazione romanzesca. Creando un libro
cult. Che è già un piccolo grande classico. Uscito per la prima volta
nel 1986 in una collana di libri edita da Serraglio e ideata dal cantautore Francesco De Gregori, quest’anno l’editore Gallucci di Roma
l’ha meritoriamente pubblicato in nuova edizione (insieme a Caffeina
d’Europa, il graphic novel che Echaurren ha dedicato a Marinetti).
Con uno stile grafico, ardito, dinamico, imprevedibile, Echaurren
cerca di ricreare le novità proposte dalle avanguardie russe d’inizio
Novecento, mescolando futurismo, raggismo, suprematismo e costruttivismo. Il risultato è un “pastiche” visivo letterario di grande impatto visivo. Ma sintetica ed incisiva è anche la “sceneggiatura” che
accompagna le tavole. Uno script che ripercorre le fasi cruciali della
vita di Majakovskij fino al tragico epilogo finale che Echaurren evoca
attraverso le parole dell’ultimo biglietto che il poeta ci ha lasciato
e in cui si legge: «Io continuerò a parlare ai vivi!». Le sue poesie,
visionarie e potenti, continuano a parlare ai lettori di oggi. La casa
editrice Pgreco ora ci offre l’occasione per tornare a leggerle in due
volumi che raccolgono tutte le opere di Majakovskij . Mentre Einaudi
ripropone La nuvola in calzoni il capolavoro della stagione prerivoluzionaria di Majakovskij, ma anche uno dei testi più sorprendenti del
futurismo russo e della letteratura russa del Novecento.
s.m.
Usare la poesia come leva del cambiamento.
E l’arte per scuotere le coscienze.
Questa fu la sua rivoluzione futurista
Una pagina del
libro Majakovskij di
Pablo Echaurren e la
copertina dell’edizione
Gallucci di questo
graphic novel che uscì
in prima edizione nel
1986. Nella pagina
accanto, l’interno del
museo Majakovskij
a Mosca
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arte
cultura
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Un montaggio che, secondo
Maurizio Bernardelli Curuz
e Adriana Conconi Fedrigolli,
avrebbe dovuto mettere
in evidenza la mano
di Caravaggio nei disegni
del Fondo Peterzano. A sinistra,
I bari (1594) di Caravaggio
In un nuovo libro
Tomaso Montanari
smonta la bufala
dei disegni del Merisi.
E offre un’appassionata
requisitoria contro le truffe ai
danni del patrimonio italiano
L’
esempio del sindaco di Firenze Matteo Renzi che, “novello Michelangelo”, vorrebbe completare la facciata della chiesa
San Lorenzo lasciata incompiuta dal
maestro del Rinascimento non è che
uno dei tanti esempi di cattiva politica
che sfrutta il patrimonio artistico nazionale per auto promozione e mero ritorno di immagine. E se Renzi usa gli Uffizi
come location per sfilate e, sordo ai moniti degli studiosi, insiste nel martoriare
gli affreschi del Vasari per cercare i resti
della Battaglia di Anghiari di Leonardo, quando era ministro della Cultura
Sandro Bondi la fece anche più grossa,
facendo acquistare allo Stato un crocifisso ligneo per più di tre milioni di euro,
salvo poi “scoprire” che si tratta solo di
una scultura di scuola, come ce ne sono tante a Firenze. Per denunciare quello scandalo Tomaso Montanari, docente di storia dell’arte all’università Federico II di Napoli, nel 2011 ha pubblicato
lo sferzante A che cosa serve Michelangelo? (Einaudi). Ora lo studioso e giornalista fiorentino torna alla carica con
un incisivo pamphlet La madre di Caravaggio è sempre incinta (Skira) continuando nel suo importante lavoro di
pronto intervento civile che smaschera
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Si fa presto a
dire Caravaggio
gestioni incompetenti, critica l’assenza
di progettualità culturale del ministero,
e gli effetti dell’insensata separazione
fra tutela e valorizzazione imposta dal
governo Berlusconi. Ma non solo. Questa volta Montanari, con piglio brillante,
da storico dell’arte e da giornalista, stigmatizza anche l’ignoranza che regna sovrana sui giornali e le operazioni truffaldine di sedicenti esperti che propagandano attribuzioni senza riscontri scientifici e filologici e annunciano al mondo
sensazionali ritrovamenti. A tutto vantaggio di interessi economici privati.
Accade così che il catalogo delle opere
di maestri come Michelangelo, Leonardo e Caravaggio subisca nuovi ingressi numericamente vistosi quanto imbarazzanti. Come l’improbabile autoritratto di Leonardo scovato a Salerno nel
2009 e appartenente ad una famiglia di
Acerenza in Lucania. O come la Visione di Ezechiele attribuita a Raffaello
e, guarda caso, anch’essa di proprietà privata che - secondo l’Espresso spodesterebbe la versione autografa
conservata nella Galleria Palatina. Un
trend di miracolose epifanie di capolavori ed epocali agnizioni che di recente (a volerci credere) avrebbe letteralmente stravolto il sistema delle opere di
di Simona Maggiorelli
Caravaggio. Al ritmo di teste di Medusa,
Sant’Agostini e tradimenti di Cristo che
spuntano da tutte le parti. Ultimo in ordine di tempo il caso dei cento disegni
del Fondo Peterzano che due studiosi,
Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana
Conconi Fedrigolli, attribuiscono con
granitica certezza al Merisi. La notizia,
come è noto, è stata battuta lo scorso
5 luglio dall’Ansa che l’ha lanciata senza contraddittori, senza analisi critica
della fonte e, con tutta evidenza, ignorando che Caravaggio non ci ha lasciato alcun disegno. Se l’Ansa avesse fatto
le verifiche necessarie sarebbe emerso
che quei disegni - presumibilmente copie accademiche di opere classiche - sono noti da tempo al mondo accademico e che i due “scopritori” non risulta si
siano mai recati a studiarli dal vivo a Milano, nel Castello sforzesco, dove sono
conservati. E dove ora, in modo opportuno, l’assessorato alla Cultura di Milano promuove una mostra che rilancia
gli studi sul Fondo Peterzano. A scanso di bufale. Come quella propalata dai
due neofiti caravaggisti anche sul sito
www.ilgiovanercaravaggio.it. «Potere dell’inconscio - chiosa Montanari
nel libro - lo sfondo del sito è occupato
dai Bari... quelli di Caravaggio».
22 dicembre 2012
left
libri
cultura
left.it
Fuori dai pregiudizi e dai cliché, il nuovo viaggio inchiesta di Sacchetti
Il vero volto
dell’Iran
di Filippo La Porta
N
egli anni 50 Levi Strauss parlava della
scomparsa dell’altrove nell’epoca dei
viaggi organizzati. Eppure c’è un luogo che ancora per noi occidentali potrebbe incarnare un “altrove” - sconosciuto, indecifrabile,
continuamente equivocato - ed è l’Iran (sì, c’è anche la Corea del Nord, che però è banalmente misteriosa). L’Iran è un Paese che si crede al centro
del mondo e il resto del mondo lo considera periferico, è un Paese multietnico e molto ospitale,
che ha una vocazione per la poesia, una attitudine alla digressione (a volte estenuante) e una inclinazione al rituale, alla insincerità teatralizzata
(il tassista all’inizio deve dirvi che non vuole nulla per la corsa...). Queste informazioni le ricavo
da un reportage di Antonello Sacchetti, TransIran (edizioni Infinito, con interventi di B. Karimi e A. Vanzan), pieno di osservazioni acute e insolite. “Trans” perché l’autore vi si propone di andare oltre pregiudizi e cliché, e anche oltre la facile ricerca dell’esotismo, per relazionarci puntigliosamente sull’Iran ordinario, ma non perciò
privo di fascino. Accennavo alla poesia: anche il popolano più umile sa a memoria centinai di
versi dei poeti classici (spesso oscuri, difficilissimi, ma memorizzabili grazie alla loro geometria prosodica). E poi l’amore feticistico dei persiani per il libro, perfino per la sua fisicità, per
la calligrafia dei titoli: tanto che le librerie sono bellissime e colorate. Quanto al gusto delle digressioni, di preamboli e incisi, provate a leggere i primi articoli della Costituzione: per complessita e articolazione sintattica andrebbero studiati in una scuola di scrittura. Inoltre, a proposito dei molti equivoci il libro si sofferma sulla famigerata dichiarazione di Ahmadinejad
relativa alla distruzione di Israele, che in realtà, pur non essendo un biglietto di auguri, non
intendeva affatto dire questo. La lingua persiana, che ha per metà vocaboli arabi è antica, luminosa e, a giudicare da quanto si legge qui, non proprio facilissima. Un modo di dire in persiano: se non sei andato a un evento e chiedete a chi c’era come è andata, vi risponderà: «Era
vuoto senza di te». Ecco uno di quei formalismi che addolciscono la convivenza. Sacchetti si
innamorò dell’Iran con Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi anche se poi ne ha preso in
parte le distanze (un po’ furbo). E, assai saggiamente, sottolinea il valore assoluto del film La
separazione di Farhadi, vincitore dell’Oscar, mentre diffida del cinema di Kiarostami. Sacchetti ci propone infine una utilissima playlist di libri, film e siti sull’Iran. Il libro si conclude su
una malinconica passeggiata a Teheran sotto la neve, in un paesaggio che sembra appartenere a una infanzia mitica. Qualcuno potrebbe obiettare a Sacchetti di non aver enfatizzato abbastanza la questione dei diritti umani. Ma d’altra parte la sua non è un’inchiesta di Amnesty, e
poi, soprattutto, nel finale ci mostra (tornando in Italia) come il nostro Paese, ipermoderno e
semifeudale, sradicato da ogni tradizione, impoetico e spesso razzista, omologato nel peggio
agli Stati Uniti, in preda a caste e corporazioni, uniformato a uno stile di comportamento cafone, non può davvero permettersi di condannare chicchessia.
left 22 dicembre 2012
scaffale
«Giorgio nutriva un’avversione
di pelle per Berlusconi. In lui
vedeva la sintesi dei peggiori
vizi nazionali», ricorda Marco
Revelli nella prefazione di
questo appassionato libro del
partigiano Bocca, uno dei suoi
migliori. Oggi, più che mai, libro
fondamentale, necessario.
Storia
dell’italia
partigiana
1943-1945
di Giorgio Bocca,
Feltrinelli,
593 pagine
19 euro
Con un saggio di Mario Vargas Llosa escono oggi in Italia le memorie
cubane di Cabrera Infante. Storia
di un incontro con una donna che
fu un terremoto di passione nella
vita del protagonista. E di un’arte
della narrazione che sa fa rivivere
esperienze passate come fossero
scintille vive nel presente.
La ninfa
incostante
di Guillermo
Cabrera Infante,
Sur, traduzione
di G. Lupo,
267 pagine
15 Euro
Erano brillanti e colti. Giustificarono l’eliminazione di 20 milioni
di persone. Il direttore dell’Institut
de l’histoire du temps présent indaga il ruolo degli intellettuali che
dettero man forte a Hitler e alle SS.
Ingrao scava nella biografia di gregari, insospettabili, portando alla
luce un’agghiacciante verità.
Credere,
distruggere
di Christian
Ingrao,
Einaudi,
404 pagine
34 Euro
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trasformazione
Massimo Fagioli, psichiatra
Soltanto Lucrezio, forse, ha composto
la poesia con il rapporto cosciente con la natura
PENSO
comprendo e conosco
S
pesso tornano alla mente le parole: condurre
il linguaggio articolato ad indicare e dare
un nome a realtà umane mai pensate: non è
stato mai fatto. Ed è semplice dire perché.
Non sono soggette a percezione.
E così, scrivo l’osservazione che i termini pensati parlano
di una realtà umana non materiale. I termini: linguaggio
articolato parlano di una realtà umana materiale e percepibile.
E giunge un terzo pensiero che ha, in sé, il mistero che
dice: il movimento che conduce la realtà non materiale
del pensiero, alla realtà materiale del corpo che ha un
comportamento.
Ed anche se il mistero resta, non vedo avvicinarsi
l’angoscia di cadere nell’astrazione simile a quella di coloro
che hanno perduto nel rapporto interumano, la vitalità.
Perché il non umano è l’idea che la realtà non materiale
sia, nel tempo, precedente alla realtà materiale.
Come se ciò che chiamano “spirito” fosse altro e,
più che diverso, opposto ed incompatibile con la realtà
biologica. Esso non avrebbe, diversamente dal corpo, un
tempo finito di nascita e morte.
Pensai, al contrario, che la realtà non materiale
concludesse la sua esistenza con la morte del corpo. E, poi,
nel 1968, stabilirono che la morte era “cerebrale” ovvero
quando cessava il funzionamento della sostanza cerebrale.
Anche se è certezza che, in quel tempo, avevo già
elaborato la realtà della dinamica della nascita con le parole:
fantasia di sparizione e memoria-fantasia dell’esperienza
avuta, non so quanto tempo prima avevo pensato la parola
pulsione, e come sia venuta l’idea dell’emergenza della
realtà non materiale dalla realtà materiale.
Poi vennero le parole, letteralmente note, cui detti una
identità nuova dal momento che si legarono alle realtà non
materiali dell’essere umano. E pensai che l’inizio ha, con sé,
la parola fine, e venne l’idea del tempo finito dell’individuo.
Sono brani di memoria dell’elaborazione di un
rapporto con la realtà umana nascosta oltre la coscienza,
il comportamento, ed il linguaggio articolato.
Riguardo le prime righe scritte e vedo che la prima
colonna è spesa per riprendere la ricerca sul linguaggio
articolato, che è caratteristica specifica dell’essere umano.
L’usignolo cinguetta e canta, ma non ha linguaggio
articolato. Come se fosse un poeta che fa la sua propria
libera espressione senza comunicare con gli altri. Sono
suoni, non c’è alfabeto comune ad altri individui.
E l’osservazione ben nota a tutti è utile per pensare che
la percezione del suono che esce dall’apparato vocale non è
sufficiente per comprendere il linguaggio umano della coscienza.
E se aggiungiamo la seconda osservazione del fatto
palese che il bambino riesce a scrivere soltanto a sei anni di
età, è lecito domandarsi cosa accade nella mente dopo che,
riuscendo a camminare, inizia ad imparare i termini verbali
che indicano le cose.
Allora con la memoria intelligente che non è ricordo
ripensiamo al 20 agosto 1999 quando dissi che la linea è
creazione esclusiva della specie umana. Ed in secondo
luogo, che la linea è l’espressione della fantasia di sparizione.
Evidenzio così l’origine delle caratteristiche che
differenziano la specie umana dagli animali. Con la
deduzione che la nascita umana è diversa da quella animale.
E penso che, certamente, è necessario un processo mentale
che distrugga il significato del termine: regressione. E viene
la parola ricreazione che, immediatamente, chiede che si
comprenda, che essa non ha il significato della parola ripetizione.
E non è facile perché da migliaia di anni è dato come
dogma che il bambino non è un essere umano, ma una
specie di bestia.
Poi venne l’illuminismo che, rivendicando la
separazione e l’autonomia dalla religione, non riuscì a fare
scienza della mente e cadde nell’oscurità della convinzione
che la malattia mentale è soltanto lesione cerebrale o
disordine degli umori… come diceva Ippocrate.
Hanno fatto sparire dalla ricerca quanto avevano detto artisti
e poeti, che sono coloro che più hanno avuto la sensibilità
di intuire la realtà invisibile dell’essere umano. E la parola
pazzia rimase a loro con i loro racconti del pensiero e del
La parola carenza non è mancanza
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comportamento dell’essere umano che era caduto nel… male
dell’inconscio.
I medici che vollero diventare psichiatri, ovvero medici
della psiche, ignorarono Aiace, Macbeth, Riccardo III e
rimasero a guardare la sostanza cerebrale. E non videro
nulla che parlasse di malattia della mente.
Tale identità non riuscì mai a rendere comprensibili le
alterazioni del pensiero, del linguaggio articolato e del
comportamento dette, dal pensiero popolare: pazzia.
La storia del selvaggio dell’Aveyron è il tentativo di
dimostrare che il linguaggio articolato è linguaggio imparato,
che è l’adulto razionale che plasma il corpo del bambino.
E così pensando, vedo che sono sempre mancate le basi
del pensiero che permettessero l’elaborazione del movimento
che conduce l’immagine, che non è ricordo, a giungere a quella
scrittura fatta dai segni che non hanno immagine definita, ma
diventano identità nei pensieri scritti con caratteri propri.
Ed io pensai che, nel momento in cui si fa, con la pulsione,
il falso dell’inesistenza del mondo non umano, si realizza la
verità della memoria-fantasia dell’esperienza avuta.
Forse perché avevo visto la verità del termine negazione
che era alterazione del rapporto con la realtà umana
mediante la formazione di immagini oniriche che non
esprimevano la verità della realtà percepita.
La negazione è patologia della realtà mentale che non è
coscienza.
Guardo, di nuovo, le prime righe scritte e penso
che, se se formulai il pensiero verbale, dicendo fantasia di
sparizione, avevo, evidentemente, un linguaggio articolato
che non era ecolalia, ovvero ripetizione di quanto mi era
stato insegnato. Erano miei pensieri che avevano assunto la
veste della lingua italiana.
Non era, quindi ripetizione meccanica di quanto udito e
letto. Era una libera espressione che andava oltre e più a fondo
rispetto all’immagine indefinita creata dalla memoria fantasia.
Ed alcuni anni fa affiorò alla mente la memoria di quel
periodo di tempo in cui il neonato sembra “non nato”. Li
chiamai «venti secondi». Poi giunge il vagito ed il respiro.
E ricomparve la piccola parola “poi” che, ora, aveva un
senso completamente diverso. Costringeva a pensare, ma
forse lo avevo sempre pensato, all’inizio della vita umana
per lo stimolo luminoso.
Emerge la realtà mentale quando ancora il corpo, inerte e
silenzioso, non ha attività. Come se la capacità di immaginare
avesse assorbito completamente la capacità di reagire del corpo.
E ricordammo che, alla nascita, la circolazione del sangue
cambia perché, da placentare che era, diventa polmonare.
E viene la domanda: è necessaria questa modificazione per
poter respirare? Ma occorre ugualmente per vagire?
Per avere
una scrittura
propria a se stessi
come i poeti,
è necessario
ricreare il silenzio
e l’immobilità
del primo momento
della vita
quando il movimento
è soltanto mentale
La comparsa del vagito è fatto fisico che è mente
umana. Se così non fosse non diventerebbe voce umana
che parla il linguaggio articolato.
Non ci sarebbero poeti che usano il linguaggio imparato
per dire la loro libera espressione in cui i termini verbali
hanno perduto il significato che indica le cose. Sarebbe
soltanto il canto dell’usignolo.
C’è, prima del vagito, un’immagine interiore di se stessi.
E respiro e vagito sono la realtà della fusione della mente
con il corpo.
Ma la mente, abbiamo scritto, è prima che il corpo
sia attivo. Ma è esistente nella sua realtà nuova che ha il
pensiero. Non c’è, quindi, scissione.
Sono tornato a fare le interpretazioni dei sogni e la
ricerca, dopo una sospensione per una malattia, ora risolta.
Ma il pensiero si ferma di fronte ad una strada non
percorribile. Lo scontro vita-morte nel rapporto con la
natura non umana, ed il confronto interumano in cui la
violenza è invisibile perché è anaffettività e negazione.
Ed anche odio silenzioso che influenza il pensiero che
ha sempre il fine di distruggere l’identità umana. Porta ad
un comportamento non vero che manifesta amore falso.
Non spinge alla realizzazione altrui.
Usano il termine desiderio ed, in verità, è negazione
sostenuta dall’anaffettività e dall’odio.
...con il linguaggio articolato si ricrea...
left 22 dicembre 2012
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scienza
L’ennesima strage
assurda in America.
«Il problema serio è che
viene completamente
svilita la gravità
dell’alterazione del
pensiero, tanto della
madre quanto del figlio».
Parla il professor Paolo
Fiori Nastro, docente
di Psichiatria
alla Sapienza di Roma
V
© goldman/ap
left.it
Quella falsa i
enti bambini, sei insegnanti. E Adam Lanza.
Questo il bilancio dell’ultima strage di Newtown, in Connecticut. La quarta in tre anni
(dopo Fort Hood, Tucson e Aurora in Colorado).
Le vittime questa volta sono più giovani che mai e
le armi il ragazzo omicida non ha avuto bisogno di
comprarsele. Le ha prese dall’armadio domestico
di sua madre. In America la polemica è sempre la
stessa, quella tra repubblicani allineati con le lobby
delle armi e democratici che al contrario vogliono
la loro messa al bando. Più in là non si va. Sul perché la storia americana sia segnata da queste assurde sparatorie mortali nessuno si interroga.
Professore, ci risiamo? Perché succedono sempre in America queste tragedie?
Per l’ennesima volta accade un evento drammatico negli Stati Uniti e la cosa paradossale è proprio
questa, che accada per l’ennesima volta negli Stati
Uniti. Nel senso che se uno cerca di documentarsi
su cosa ci potrebbe essere dietro, scopre che il ragazzo era profondamente disturbato. Era uno schizofrenico gravissimo, si bruciava con l’accendino,
aveva comportamenti autoaggressivi, si chiudeva
in casa, era completamente asociale. Un nerd nel
senso che in alcune materie dello studio era molto bravo ma completamente privo di relazioni sociali. E questo fatto che la strage sia stata compiuta
da una persona profondamente sofferente, disturbata, direi malata, almeno taglia la testa al toro di
quella disputa stupida tra chi pensa ad un omicida
e chi a un malato di mente. Dobbiamo pendere atto
che, anche se in un numero molto esiguo, la malattia mentale può portare a comportamenti profondamente violenti nonché insensati. In questo caso
poi il ragazzo cresce e si nutre in un ambiente sconcertante, è evidente. La mamma è una prepper.
Cos’è una prepper?
In America ci sono tre milioni di prepper, sono un
gruppo di persone che si prepara alla catastrofe,
nel senso che ritengono imminente la possibilità
che succeda qualcosa di talmente grave che lo Stato non potrà provvedere a ogni singolo cittadino,
per cui ognuno di loro pensa di dover difendere sé
e i suoi cari nel caso in cui la catastrofe avvenisse.
Le forme di questa catastrofe vanno dall’asteroide
che casca sulla terra alla rovina economica Per questo motivo accumulano cibo in casa in quantità sufficiente a garantirgli la sopravvivenza per mesi, addirittura anni. Uno, per esempio, ha riempito la sua
piscina di pesci, dopo aver calcolato la quantità di
calorie che gli era necessaria per vivere. Un altro si
è ritirato in una foresta e da lì anima un blog che ha
300mila iscritti.
Quindi Adam è il risultato di un ambiente di
folli?
Voglio arrivare a dire che la mamma era questo e
che per questo motivo riempiva la casa di pistole,
nonostante all’apparenza fosse una tipica mamma
americana, impegnata, insegnava a scuola, dedita
- come dichiara lei stessa - a ridurre l’asocialità del
figlio. Questa donna coltivava queste convinzioni
e questi pensieri che, col senno del poi, assumono
un peso specifico nell’escalation che ha portato alla
strage, anzi assumono un peso enorme. E, secondo
me, questa storia dei prepper assume un peso nel
tentativo di leggere perché accade in America.
Il problema allora non sono le troppe armi in
circolazione?
Delle armi non me ne importa nulla, certo già l’accettazione sociale del culto della pistola - 88 cittadini americani su 100 posseggono una pistola -, è
una cosa spaventosa, una vera follia, di per sé nasconde un’ideazione con forti tratti persecutori. Ma
la cosa che mi dicevo e pensavo è che dietro all’accettazione sociale del prepper, c’è una falsa idea di
libertà. Si ha un culto della libertà pericolosamente distorto: invece di «essere liberi di essere esseri umani» come ha più volte sostenuto il professor
Fagioli, in questo caso si è liberi di essere quello che
gli pare. E questo nasconde, a mio avviso, un’indif22 dicembre 2012
left
scienza
© ruttle/ap
left.it
a idea di libertà
di Ilaria Bonaccorsi Gardini
ferenza, una anaffettività totale nei confronti di atteggiamenti, comportamenti, pensieri che alla luce dei fatti di cronaca assumono una drammaticità, ma che anche senza, sono di una gravità enorme. Perché se mi capitasse di cenare con una persona che mi racconta di accumulare cibo per paura dell’asteroide io non riuscirei mai ad ignorarlo.
La cosa era nota, la gente sapeva sia della mamma che di Adam. Così come i giornali scrivevano
dei prepper da tempo... sul Telegraph puoi trovare anche tutta l’aneddotica su di loro. Ma mai nessuno che rispetto a questa realtà di pensiero esprima una preoccupazione, una riflessione tra ciò che
è ancora compatibile con una libertà di pensiero e
ciò che invece travalica questa libertà ed è espressione di malattia. Direi che la psichiatria americana ha fallito.
Non un singolo episodio, ma tanti. Questo,
per lei, dimostrerebbe il fallimento di quella psichiatria americana, tutta imperniata sul
manuale di diagnostica DSM IV (a breve il V).
Ci spiega cosa c’è che non va?
Il capo di accusa è sicuramente l’attenzione smisurata alla realtà materiale. La considerazione innegabile è che la realtà materiale vada tenuta ben
presente, che a tutti deve essere garantito un livello di vita dignitoso ma che questo voglia dire benessere oltre che fisico anche mentale, è una grave lacuna nella teoria psichiatrica americana. Il
benessere materiale è il punto di partenza per la ricerca di una salute mentale. Se invece la realizzazione di una realtà materiale diventa l’unico obiettivo della vita e l’attenzione degli psichiatri si concentra solo sul comportamento, allora la mamma di questo ragazzo non aveva nulla che potesse dare adito a preoccupazione. Mentre proprio la
mamma (al di là che il ragazzo manifestava apertamente un malessere grave) e quindi l’ambiente
nel quale si è nutrito il malessere (oltre tre milioni
di persone come lei) vengono considerate al mas-
left 22 dicembre 2012
In apertura,
il professore Paolo Fiori
Nastro. In alto, il dolore
dei familiari delle
vittime e Adam Lanza
simo con ironia (a volte) ma non certo con preoccupazione. E invece è gente il cui pensiero funziona male.
Adam Lanza le ricorda Anders Breivik?
Di questo ragazzo conosciamo molto meno, di
Breivik sappiamo che aveva un delirio sistematizzato. Nel caso di Adam, per quanto ci è dato sapere,
emerge un disordine gravissimo, che lascia pensare a un disfacimento totale della realtà umana.
Perché sono sempre così giovani?
Perché giovanissimi? Perché la malattia inizia molto presto e se prende pieghe così gravi non lascia
molto tempo fino a che questa cosa si realizzi, fino a che avvenga questa esplosione. Prima o poi
quando è così grave, ed è così grave anche perché
è misconosciuta, viene considerata semplicemente un comportamento anomalo (passa la giornata
davanti al computer…), esplode. Il
problema serio è che viene completamente svilita la gravità dell’alterazione del pensiero, tanto della madre quanto del figlio.
In ordine: prima il pensiero e poi
il comportamento. Giusto?
La questione fondamentale è che
il comportamento si altera quando
il soggetto non è più in grado di sopportare il proprio malessere che deriva da un pensiero distorto
nel rapporto con la realtà. Per cui mette in atto dei
comportamenti che riescono a salvaguardare la
sua integrità. Cioè, per esempio, A. si chiude in casa perché ha una difficoltà nella socialità, ma questa difficoltà è legata al fatto che lui pensa che gli altri ce l’abbiano con lui. Si sente perseguitato. Quindi A. ha cominciato con un pensiero e poi è finito
in un comportamento perché a un certo punto era
talmente sicuro che gli altri ce l’avessero con lui
che a scuola ha smesso di andarci. Da qui ad uccidere venti bambini e sei insegnanti la strada è costellata di mille segnali che vanno riconosciuti.
La mamma era una
prepper. Riempiva
la casa di armi
in attesa di
una catastrofe
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cultura
left.it
l’intervista
Mentre al cinema e in libreria dilagano le saghe di cartapesta, modello Tolkien, il noir
L’enigma di Flatey fa scoprire le radici dei miti nordici. Parla lo scrittore Viktor A. Ingólfsson
Non solo Hobbit
di Gabriella Basso Ricci
U
no studioso alla ricerca di un manoscritto, del “libro di
Flatey”, preziosa raccolta
medievale delle gesta dei Vichinghi, e un villaggio islandese che ancora oggi conserva tradizioni antichissime. È un viaggio nelle saghe
nordiche L’enigma di Flatey (Iperborea. Traduzione
di Alessandro Storti), raffinato noir dell’islandese Viktor Arnar Ingólfsson. Autore molto noto all’estero e
che con questo libro si presenta al pubblico italiano.
Ambientato nei primi anni
Sessanta, in un piccolo arcipelago all’estremo nord
ovest dell’Islanda, il libro
affresca un luogo affascinante e remoto, quasi senza
tempo, una regione fra terra e mare dove hanno radici le più antiche saghe nordiche, (che nulla hanno a
che fare con le fantasmagorie di cartapesta alla Tolkien
che sotto Natale impazzano
al cinema). «Nella baia del
Breiðafjörður ci sono centinaia di isole deserte. Conosco la zona molto bene. I
miei nonni vivevano a Flatey e da bambino passavo
l’estate da loro», racconta
Ingólfsson a left. «Verso la
metà del Novecento la comunità di Flatey era ancora viva e autonoma, ma negli anni Settanta l’isola ha
iniziato a spopolarsi e oggi solo un paio di famiglie
ci vivono tutto l’anno. Per
lo più le vecchie case sono
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Una veduta dell’isola di Flatey. Un ritratto di Viktor A. Ingólfsson e la copertina del suo noir
diventate residenze estive.
L’Islanda è una terra famosa per i suoi climi estremi».
Com’era la vita a Flatey?
Allora la vita sull’isola era
bella, ma piuttosto primitiva. L’elettricità c’era solo
per poche ore al giorno. Fino agli anni Sessanta non
esistevano trattori, si coltivava tutto a mano. Avere
memorie di quell’epoca lo
sento come un privilegio.
Aver conosciuto persone
che appartenevano a un altro tempo: ho potuto usare
l’esperienza diretta come
sfondo per la mia storia.
Che importanza hanno
ancora le saghe nella cultura islandese di oggi?
Le saghe islandesi sono le
radici della nostra cultura:
iniziamo a leggerle a scuola e quasi tutti gli islandesi le amano anche da adulti.
Ogni lettore ha le sue storie
e i suoi personaggi preferiti. I programmi di formazio-
ne continua dell’università islandese offrono corsi di
lettura e analisi critica delle saghe, che sono sempre al
completo, con partecipanti
di tutte le età.
Il libro di Flatey, al centro della trama, esiste
davvero, ed è conservato
a Reykjavík, che cosa l’ha
colpita di quel testo antichissimo?
A sei anni mio nonno mi portò nella piccola biblioteca
dell’isola di Flatey: là, in una
teca, c’era una copia del libro di Flatey. Solo dopo molti anni ho capito che quello
non era il manoscritto originale, che il libro non era
stato scritto sull’isola e non
parlava dei suoi abitanti. Ma
quella copia mi è sempre rimasta mente. Il manoscritto originale di Flatey, invece,
è famoso perché è un’opera
d’arte molto bella e ben conservata. È più una biblioteca
che un libro, in realtà, rac-
coglie le gesta dei re norreni che regnarono per secoli in Scandinavia. Alcune di
queste storie si trovano unicamente in quel manoscritto per questo è un libro fondamentale per conoscere la
storia della Scandinavia.
L’enigma di Flatey, è il
suo primo romanzo pubblicato in Italia, ma lei
ha alle spalle una carriera ben più lunga. Com’è
nato il suo interesse per
la scrittura?
Sono sempre stato un lettore appassionato di letteratura di ogni genere. In effetti mi considero più lettore che scrittore, più ascoltatore che oratore. Mi sono avvicinato molto presto
alla scrittura, quando ho
intuito di avere idee abbastanza buone per trarne un
libro. Da allora non ho più
smesso di raccontare e sono sempre alle prese con
una nuova storia.
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cinema
cultura
left.it
Due immagini del film di Daniele Segre
Storia di Luciana, comunista
di Morando Morandini
Tra documentario e ritratto d’autore il film che Daniele Segre ha dedicato alla Castellina, straordinaria figura
di donna impegnata in politica e nel giornalismo. Un racconto appassionato della storia del Novecento
Q
uando era una bimbetta le
domandano che cosa avrebbe voluto fare da grande.
«Il facchino», disse. Risposta balorda, pensarono, e le spiegarono che non
era un mestiere per donne, ma per maschiacci robusti. Mezzo secolo dopo il
nipotino Vito le domandò: «Nonna, ma
davvero sei comunista?». Sono due degli aneddoti che Luciana Castellina racconta a Daniele Segre nel suo documentario/ritratto d’autore, condito con
l’ironia. Nata nel 1929 in una famiglia
della media borghesia romana, racconta, sfogliando album di fotografie che
lo spettatore non vede mai, che rimase
bambina fino ai sedici anni: senza tette,
ma con molta testa e un’arroganza verbale con cui (mal)trattava i maschietti
coetanei. «Ho sempre fatto parte di una
tribù più che di una famiglia» con i vantaggi e gli inconvenienti dell’appartenenza. Era totalmente fascista la cultura di cui furono impregnate l’infanzia e
l’adolescenza. Già rivela a posteriori il
suo futuro di scrittrice quando rievoca
il 25 luglio 1943, parlando di «caduta del
fascismo». Per lei, quattordicenne borghese (e per i suoi familiari) «il fascismo cadde». Come e perché “cadde”,
chi e che cosa lo fece cadere? L’ignoranza storico-politica l’aveva trasformato
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in un evento naturale, una tempesta, un
ciclone. Daniele Segre (nato nel ’52 ad
Alessandria) ha un passato sportivo di
rilievo (salto triplo) e comincia a lavorare nel cinema dal basso, come fotografo di scena sui set di Nessuno o tutti
e La macchina cinema. Esordisce col
mediometraggio Perché droga, seguito
da Il potere dev’essere bianconero e da
Ragazzi di stadio, sul fenomeno del tifo ultras negli stadi di calcio. Rari i suoi
lungometraggi di fiction come Testa
dura (1983, titolo che è anche un autoritratto), presentato alla Mostra di Venezia e nel 1992 Manila
Paloma Bianca, ritratto dell’attore alla deriva Carlo Colnaghi che
vi fa la figura di un «extraterrestre con un’oliva in mano». Nel cinema narrativo è il suo risultato più riuscito anche se nove critici su dieci non se ne
accorgono. Prodotto e distribuito dalla sua società I cammelli di Torino come gli innumerevoli documentari, Luciana Castellina, comunista (2012) è
un altro notevole esempio di quel “cinema della realtà” che Segre pratica
da sempre. In questo dvd il contributo
della Castellina è più vicino a una sim-
biosi più che a una normale collaborazione tra interprete e regista. Il 17 ottobre 1947, compiuti i diciott’anni, la Castellina si iscrive alla federazione romana del Pci. È quasi una contraddizione.
Nonostante l’insistenza sulla propria
natura borghese, aveva già raggiunto la
chiarezza delle idee. Sapeva già chi era
e che cosa voleva. Lo si sente il 18 aprile 1948 quando nelle elezioni politiche
il Pci subisce una netta sconfitta che,
tra l’altro, i massimi esponenti del partito non avevano previsto. Era cominciata la “guerra fredda” un po’ dappertutto
in Europa, non soltanto in Italia. Il resoconto
della Castellina diventa
appassionato e concitato con la fondazione
de Il Manifesto nel 1969
in forma di mensile. Ne
fanno parte, oltre a lei,
Aldo Natoli, Rossana
Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri. Il
mensile diventa quotidiano nel 1971,
organo del Pdup nel quale il movimento era confluito, rendendosi poi indipendente. Daniele Segre ha curato anche il montaggio, affidando la fotografia a suo figlio Emanuele. Suono, musiche originali, postproduzione grafica,
sono di Maria Teresa Soldani.
Tra regista e
protagonista c’è
una forte simbiosi. Un esempio
di “cinema
della realtà”
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bazar
cultura
left.it
teatro di Anna Fava
Il cuore di Napoli è collettivo
Non è una struttura gestita dal Comune e nemmeno un’occupazione: all’Ex Asilo Filangieri, nel cuore di Napoli, sta succedendo qualcosa di completamente nuovo. Da marzo scorso, quando il collettivo di lavoratori dell’arte, dello spettacolo e
della cultura la Balena ha occupato la
sede della fondazione Forum universale delle culture, in città si sta sperimentando un nuovo tipo di istituzione pubblica per governare i beni comuni. Incrociando un’interpretazione innovativa dell’istituto giuridico
degli usi civici, che regola la gestione collettiva dei terreni, con l’articolo 43 della Costituzione, che consente l’affidamento di strutture pubbliche a comunità di lavoratori, la Balena ha creato una formula efficace: lo
spazio è di proprietà pubblica, la gestione collettiva. Con una delibera
di giunta, promossa dall’assessore ai
Beni comuni, Alberto Lucarelli, il Comune di Napoli ha accolto l’idea. E il
processo innescato dalla Balena ha
avuto inizio: la creazione di un palco
e di un teatro con amplificatori e casse, laboratori teatrali di alta qualità,
come quelli di Salvatore Cantalupo e
Napoli, l’Ex Asilo Filangieri
Claudio Morganti, spettacoli, concerti e apertura al territorio con cineforum per i bambini del quartiere. I lavoratori condividono gli strumenti di
lavoro, si autogovernano e finanziano
l’allestimento dello spazio con sottoscrizioni volontarie. L’obiettivo è quello di creare un centro di produzione
indipendente. Intanto, in nove mesi
la struttura dell’Ex Asilo Filangieri è
stata attraversata da artisti, studiosi,
gruppi e cittadini che, attraverso assemblee pubbliche, hanno programmato insieme le attività. Con numeri impressionanti: 15mila artisti, as-
sociazioni e ricercatori, 100 giorni di
laboratori e formazione, 70 compagnie teatrali, gruppi musicali e singoli artisti, 80 presentazioni di libri, documentari, proiezioni cinematografiche e mostre. E per il 2013 sono già 4
gli spettacoli in produzione.
Tra i prossimi eventi in calendario ricordiamo il Laboratorio sul gusto e
la narrazione condotto dal Teatro dei
Sensi Rosa Pristina il 21 e 22 dicembre e gli incontri di fotografia con Mario Spada, tutti i giovedì (16:30-18:30).
Il programma completo sul sito:
http://labalena.wordpress.com
tendenze
di Sara Fanelli
L’abito fa
il personaggio
A Londra vale il paradosso: “Non c’è nulla di più profondo di quanto appaia in superficie”. Si parte dal 1912 per arrivare
al 2012, in Hollywood Costume, una mostra allestita fino al 27 gennaio 2013. Presso il Victoria and Albert Museum, la storia
del cinema in oltre cento costumi: Fight
Club, Marie Antoinette, Dangerous Liaisons, Shakespeare in Love. La mostra raccoglie anche i costumi indossati dai personaggi dei venti film campioni d’incassi
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cultura
left.it
di
Bebo Storti
il taccuino
Junior di Martina Fotia
Libertà vo cercando
In fondo.
È il momento che tutti i genitori temono di
più, quel delicato passaggio verso l’indipendenza e la maturità che chiamano adolescenza. Insicurezze e sentimenti turbolenti
legati alla costruzione di sé e della propria
identità rendono gli “adorati cuccioli” improvvisamente incomprensibili e le dinamiche familiari subiscono uno scossone simile a un terremoto. Preziose come gemme
risultano in questo contesto operazioni come quella portata a termine dall’autrice Luisa Mattia, che nel suo libro Noi siamo così edito da Sinnos, riesce ad aprire un varco
nell’universo dei teenager. Come dice l’autrice stessa, Noi siamo così è «un romanzo nato per ostinazione, avviato con cautela, cresciuto con allegria e concluso con
entusiasmo». È un libro dalla genesi fuori dal comune, ci mette di fronte a un coraggioso progetto di scrittura collettiva, dopo
l’incontro tra l’autrice e un gruppo di ragazzi dell’Istituto comprensivo di via Casale del Finocchio a Roma. Un quartiere periferico, “terra di mez-
Era una bigia mattina nella
campagna vicino a Verghera di Sammarate. Nevischio
freddo cadeva sui campi
già innevati di quella profonda provincia lombarda,
così aspra fredda incolore
e solitaria ma tanto cara a
tutti coloro che ci vivevano.
Anche perché andar via di
lì è complicato, c’è sempre
nebbia o acquerugiola
diaccia e diventa quasi
impossibile ritrovare la
strada. Ma agli uomini delle
’ndrine quel posto piaceva... Perché lì, prima che
Maroni si accorgesse che
la ’ndrangheta esiste grazie
a Fazio e Saviano, ci si poteva nascondere per anni e
perdersi fra il Bergamasco
e il Lecchese “come a non
esser mai nati” per citare
il Manzoni. In quelle lande
desolate e boschive, vive
un uomo, ma più che un uomo un ragazzo, ma più che
un ragazzo un mantenuto,
per un po’ dalla Regione,
poi dalla famiglia e chissà,
se la memoria della gente
aspra di quelle terre non
dovesse reggere, anche
dal Parlamento del popolo
italiano. Ma si vedrà. Quello
che ci interessa è sapere
perché un ragazzo che
aveva tutto - la paghetta da
Belsito, i cd di Moscagiuro
da ascoltare e le tette della
Minetti da guardare - abbia
fatto un passo così estremo
e doloroso. Il ritirarsi dalla
vita pubblica e dedicarsi
alla vanga, al letame, per
altro suo destino di sempre.
Un badile e della merda,
quale occupazione migliore
per un giovane che per
prendere un congiuntivo
gli devi dare un Devoto Oli
sulla faccia. Perché ora è lì,
in abiti da contadino con gli
stivali di gomma ben affondati nella boassa di mucca?
lo saprete
la prossima puntata...
di tutti i tempi, tra cui Avatar, Guerre stellari, Titanic, Via col vento, Harry Potter, I predatori dell’arca perduta, L’uomo ragno, I pirati dei Caraibi. La mostra
nasce da Deborah Nadoolman Landis, costumista di professione. «Il compito più
arduo - racconta - è stato quello di dover
recuperare i pezzi da esporre». In molti
casi dopo la produzione di un film gli abiti
vengono abbandonati, oppure nella peggiore delle ipotesi danneggiati, distrutti,
perduti, portati via da qualche attore. Come nel caso di Robert De Niro che ha prestato cinque abiti da lui indossati in vari
film e che aveva tenuto per sé, inclusa la
mantella-accappatoio leopardata di Toro
scatenato. Spesso i costumisti sono nar-
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zo” in cui la vita si svolge come un mondo
a parte rispetto alla metropoli. La sfida lanciata a questi ragazzi è stata quella di provare a raccontare chi sono e questa avventura
li ha portati ad esprimere esperienze di vita, pensieri, desideri, pareri, in lunghi mesi
di dibattiti e incontri. Luisa Mattia ha conferito a questo prezioso materiale “umano”
una cornice narrativa e ha tessuto la storia
di Arianna, 14 anni e tanta voglia di libertà.
Ma che cosa è la libertà? Arianna non lo sa
bene, scappa di casa per impulso, farà nuove conoscenze, che in qualche modo la cambieranno definitivamente. Il gesto di Arianna trasforma e mette in discussione anche
la vita di amici e familiari, i cui dubbi e pensieri vengono annotati a margine della storia e fedelmente riportati così come i ragazzi
li hanno scritti. Non ci
sono pregiudizi in questa narrazione collettiva, c’è il desiderio forte di raccontare il modo di vivere i rapporti, i conflitti e i sentimenti, in un’età difficile e molto spesso troppo etichettata in modo
semplicistico.
ratori, storici, commentatori sociali o antropologi, Quando un personaggio di un
film riesce a catturare l’immaginazione
del pubblico allora è fatta, i costumi possono infiammare le tendenze della moda
in tutto il mondo. Ci sono vestiti che raccontano meglio di una scena ed entrano
nel mito: «Arriverei a dire che la lunghezza di una gonna, sopra o sotto il ginocchio, a volte è più importante di un’idea
di sceneggiatura», raccontava il maestro
Bertolucci. Hollywood Costume si pone
il compito di approfondire l’importanza
del costumista, forse artista, che per poter rendere indimenticabili i personaggi,
deve riuscire a esaltarne l’anima attraverso l’abbigliamento.
Nebbie
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[email protected]
cultura
roma
Genova
Fringe
italiano
Sguardi sull’America No global
Dopo le retrospettive di Ansel Adams ed
creativi
Edward Weston (ora al Ciac di Foligno fino
Il porto degli acrobati
Acrobati, giocolieri, clown, funamboli invadono
il Porto antico, portando fantasia e meraviglia.
Sabato 22 dicembre debutta GenovAccesa
suggestivo spettacolo di luci, colori, sfavillanti
effetti pirotecnici che colorerà il cielo della città
su melodie natalizie. Sabato 29 dicembre, invece, si parte con il Circumnavigando festival.
Roma
firenze
I monelli di Erwitt
Il mago di Oz
Fino al 5 maggio la
mostra Vino fra mito e
storia. Anfore vinarie
etrusche, brocche ritrovate negli antichi corredi funerari, buccheri
all’Enoteca Italiana.
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Nei suggestivi spazi
affacciati sul Canal
Grande della Galleria
Workshop, fino al 22
gennaio, va in scena
Urbicide una collettiva
in cui installazioni, video
e suoni interagiscono
con un ambiente davvero unico. Curata dall’artista Usa Diann Bauer, la
mostra racconta la globalizazazione in chiave
caustica e graffiante.
al 17 febbraio), continua il viaggio nella
migliore fotografia Usa del ’900 avviato dalla
Fondazione Fotografia con la mostra Flags
of America. Fino al 7 aprile nell’ex ospedale
di Sant’Agostino, con autori di primo piano
come Diane Arbus. Stephen Shore (in foto
una sua opera del ’73), Robert Frank, Irving
Penn, Richard Avedon e altri.
SIENA
Vino
etrusco
Venezia
© Erwitt/Magnum Photos
Fino al 30 dicembre il
quartiere San Lorenzo
diventa teatro di una
versione inedita del
Roma Fringe Festival
inglese, la più grande
vetrina del Teatro Off
che nell’estate 2012
ha portato in scena
54 spettacoli con oltre
20mila presenze. Il 22
dicembre, in particolare, vanno in scena
i Presi Per Caso con
lo spettacolo Nella
Mia Ora di Libertà.
Il giorno dopo grande
festa per grandi e piccini cone Celestina Je
l’emo (nella foto).
Modena
Sabato 22 e domenica 23 dicembre al Nuovo Teatro dell’Opera di Firenze, uno spettacolo composto da due atti unici, il balletto Il Mago
di Oz, nuova creazione di Francesco Ventriglia,
dalla celebre fiaba di di Lyman Frank Baum
e ispirato al celebre film di Victor Fleming del
1939 che vedeva protagonista Judy Garland.
Dopo l’intervallo, senza soluzione di continuità
gli spettatori potranno assistere anche al Gianni Schicchi di Giacomo Puccini, in versione semi scenica. Ambientato a Firenze nel 1299, è i
mescola suggestioni dal XXX canto dell’Inferno
dantesco e dalla commedia Le Testament du
père Leleu di Roger Martin du Gard.
Cinquanta scatti. Ovvero Fifty Kids di Elliott
Erwitt: una mostra, un libro, un progetto. Una
raccolta delle più belle immagini di bambini
scattate dal grande fotografo nato a Parigi nel
1928 in oltre mezzo secolo di storia. Un evento
dedicato ai bambini per aiutare altri bambini.
Organizzata da Civita, la mostra nelle sale
di Palazzo Incontro resterà aperta fino al 17
marzo 2013. Come ha detto Cartier-Bresson,
che è stato uno dei suoi maestri, «Elliott ha
ottenuto il massimo proponendo una gamma
di immagini rubate e sprigionanti un aroma, un
sorriso dal suo intimo più profondo». Questo
aroma e questo sorriso attraversano tutta la
sua produzione. I bambini sono da sempre uno
dei suoi soggetti preferiti e talvolta sono proprio i suoi: Elliott Erwitt ha 6 figli e 5 nipoti.
Roma
Brueghel
e Bosch
Con 20 opere in più,
alcune delle quali
mai prima esposte
in Italia, nel Chiostro
del Bramante, dal 18
dicembre viene riproposta una importante
mostra di arte fiamminga. Con il titolo
Brueghel le meraviglie
dell’arte va in scena
un confronto fra il
talento dei pittori della
famiglia dei Brueghel
e quello di Bosch.
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