Giulio Albanese

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Giulio Albanese
Giulio
Albanese
Oggi tutto si mondializza; i mercati, l’informazione, il lavoro, la cultura, persino la
povertà, sono sempre più questioni globali
e tutti, in un modo o nell’altro, subiamo gli
influssi di questo fenomeno denominato globalizzazione che pervade a livello planetario
ciascun settore della società contemporanea.
Questo libro ha la pretesa di voler guardare
oltre la notizia, suggerendo alcuni spunti
di riflessione sul contesto esistenziale nel
quale viviamo immersi, per tentare una
risposta alle domande sui valori e sull’etica
che formano la nostra concezione del mondo
globale.
€ 10,00 (I.C.)
Giulio Albanese Ma io che c’entro?
Giulio Albanese, religioso comboniano,
ha diretto il New People Media Centre di
Nairobi e fondato la Missionary Service
News Agency. Attualmente collabora con
varie testate giornalistiche, tra cui «Avvenire» e il Giornale Radio Rai per i temi
legati all’Africa e al Sud del mondo. Dal
2007 insegna Giornalismo missionario
presso la Pontificia Università Gregoriana
di Roma ed è direttore delle riviste missionarie delle Pontificie Opere Missionarie. È
anche autore di alcuni libri tra cui Hic sunt
leones (2006), Soldatini di piombo (2005),
Il mondo capovolto (2003), Ibrahim, amico
mio (1997) e Sudan: solo la speranza non
muore (1994).
www.edizionimessaggero.it
Ma io
che
c’entro?
Il bene comune
in tempi di crisi
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Problemi & Proposte
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giulio albanese
ma io
che c’entro?
Il bene comune in tempi di crisi
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isbn 978-88-250-277-
Copyright © 2009 by P.P.F.M.C.
MessaggeRo Di sanT’anTonio – eDiTRiCe
basilica del santo - Via orto botanico, - 52 Padova
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Prima edizione digitale 2010
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civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
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Ai miei genitori,
a Francesca e Giorgia.
…Tu non sai niente di me.
Né da dove vengo
né perché mi trovo nella tua patria…
(Nemàt Mirzazadeh, poeta esule iraniano)
… Sopra il cuore
firmano le genti un patto eterno
di pace e fraternità…
(Jorge Carrera Andrade, poeta equadoregno)
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Premessa
L’idea di scrivere questo breve saggio è nata da una ripetuta sollecitazione che ho ricevuto andando in giro per
l’Italia, incontrando studenti, giovani ricercatori, gruppi
missionari e tanta, ma tanta società civile. Considerando
in tutte le sue molteplici espressioni e sfaccettature lo
scenario geopolitico che caratterizza il «villaggio globale», ho cercato d’interpretare in queste pagine una
sfida di grande attualità. Quella di rispondere alle istanze
dell’educazione alla mondialità tanto cara sia al mondo
missionario come anche a quello della cooperazione allo
sviluppo, in un paese, il nostro, che pur avendo un patrimonio universale dettato dalla sua millenaria tradizione, rischia di chiudersi a riccio nell’attuale congiuntura
economica. L’educazione alla mondialità, forse è bene
rammentarlo, non costituisce una disciplina a sé stante,
né ha tanto meno la presunzione di sostituirsi alle materie
curricolari. Essa piuttosto si pone a servizio, integrandola, della didattica tradizionale, facendo della relazione
– tra persone, argomenti e discipline – l’orizzonte, il
metodo e l’oggetto della propria ricerca. La posta in
gioco è alta, come faceva intendere a chiare lettere il
grande poeta senegalese Léopold Sédar Senghor, uno dei
massimi intellettuali del ’900 africano: «Noi neri – soleva
ripetere – vogliamo essere non solo consumatori ma anche produttori di cultura perché questa è l’unica maniera
possibile di essere».
Parole profetiche che, da un punto di vista evangelico, esprimono l’esigenza di affermare un processo della
ragione capace di trasformare le relazioni tra Nord e
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Sud del mondo. La sfida per un nuovo ordine mondiale
rispettoso della dignità dei popoli, prima ancora che
essere politica, sociale o economica, ha una forte valenza culturale. Da questo punto di vista i cristiani sono
chiamati a essere costruttori di una nuova umanità, nella
consapevolezza che tutti abbiamo qualcosa da imparare
dall’altro. È l’impegno che intendo suggellare con i lettori, una promessa rinnovata aperta alla comprensione che
l’umanità ha un destino comune. Sì, come ad attualizzare
la profezia letteraria dello scrittore senegalese Cheikh
Hamidou Kane che, a proposito dei rapporti tra Europa
e Africa, mette sulla bocca di uno dei suoi personaggi
queste parole: «Non abbiamo avuto lo stesso passato,
voi e noi, ma avremo necessariamente lo stesso futuro».
Vorrei infine ringraziare sinceramente coloro che hanno
reso possibile la pubblicazione di questo breve saggio. In
particolare, oltre all’editore, l’amico Mauro Bellini, con
cui condivido parte della mia esperienza professionale a
Missio Italia, il quale pazientemente ha riletto e ordinato
le bozze, offrendo peraltro preziosi e utili suggerimenti.
A tutti un augurio di buona lettura.
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Introduzione
In Italia, da diverso tempo si avverte l’esigenza di
promuovere un’attenzione nuova ai problemi del mondo, contrastando una visione eccessivamente provinciale che caratterizza la nostra cultura, quella del Bel
Paese, troppe volte prigioniera di pregiudizi e arcane
valutazioni rispetto a quanto accade sulla scena internazionale. Il sociologo Marshall McLuhan, negli anni ’60,
disegnando i futuri scenari della comunicazione, inventò la metafora del «villaggio globale». Non immaginava
però che in così breve tempo la storia gli avrebbe dato
appieno ragione.
Oggi tutto si mondializza, davvero tutto: dalle scarpe
da tennis ai pantaloni, dai biscotti al latte in polvere, dai
videogiochi agli accendini. I mercati, l’informazione, il
lavoro, la cultura e la povertà sono sempre più questioni
globali che riguardano il pastore masai e la casalinga di
Voghera, l’indio brasiliano e il metalmeccanico di Poggibonsi. E non v’è dubbio che, indipendentemente dalle
latitudini geografiche, siamo davvero tutti, in un modo o
nell’altro, nel bene o nel male, con accentuazioni diverse,
a subire per induzione gli influssi di questo fenomeno
denominato in maniera altisonante globalizzazione. Una
realtà che pervade a livello planetario ciascun settore della società contemporanea; fenomeno tremendo e affascinante che consente, sulle ali delle moderne tecnologie, di
trasferire digitalmente informazioni e capitali a dismisura,
da un capo all’altro del mondo. Eppure, questo divenire
impresso dalla congiunzione storica tra libero mercato
e rivoluzione digitale ha innescato una sperequazione
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senza precedenti, una sorta di nuova divaricazione tra
ricchi e poveri.
È il paradosso del nostro tempo, nel quale si contrappongono scenari di straordinario progresso e supersviluppo per pochi eletti, ad abissi inauditi di solitudine
nelle periferie del mondo, sia a Meridione che a Settentrione.
Tornando alla realtà nostrana, quella italiana, il colmo
sta proprio nel fatto che patiamo i condizionamenti di
questo mondo senza frontiere, forse più di tante altre
nazioni occidentali, senza però rendercene conto. Le ragioni, come vedremo più avanti nella lettura di questo
saggio, sono molteplici, ma possono essere riassunte in
quell’atteggiamento di eccessiva autoreferenzialità che
contraddistingue vasti settori della società italiana. Come
se si guardasse al resto del mondo con l’illusione di poter
prescindere dalla sorte di quei popoli affetti da miserie e
pandemie, costretti alla migrazione.
Nella migliore delle ipotesi s’innescano sentimenti
compassionevoli, all’insegna della carità pelosa; sparare
qualche raffica di sms, con l’intento di lavarsi la coscienza
mettendo mano virtualmente al portafoglio per finanziare
questo o quel progetto, puntando poi il dito contro gli
stessi beneficiari, stigmatizzandone tutti i difetti possibili e immaginabili. Insomma, duole doverlo ammettere:
siamo un po’ tutti affetti da un senso di etnocentrismo
che ci porta a credere, per presunzione o negligenza,
che siamo migliori degli altri per i nostri trascorsi che
affondano nel passato, dai fasti dell’antica Roma alla postmoderna rivoluzione digitale, passando per il Medio Evo
e il Rinascimento.
Tranne alcune eccezioni, la maggioranza dell’opinione pubblica non ha sentore che i problemi del resto del
mondo siano i nostri problemi e che soprattutto anche
noi, con tutto il nostro bagaglio di cultura e reminescenze dei fasti antichi, abbiamo una notevole quota di
responsabilità nelle vicende dei diseredati, di coloro che
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sopravvivono nei bassifondi della storia contemporanea.
In effetti, continua a farsi strada una sorta di rassegnazione, per la verità non completamente nuova, rispetto
all’informazione ipertecnologica dove tutto sembra schizzare via alla velocità della luce.
Sopraffatti da una risma di dipendenze mediatiche,
non di rado corriamo il pericolo di assuefarci alle suggestioni fuorvianti o banalizzanti che invadono a dismisura
molti aspetti pubblici e privati della società cui apparteniamo. Alla fine avvertiamo una confusione interiore
generata dall’incapacità di saper discernere, di volta in
volta, la qualità effettiva di ciò che viene veicolato da
ogni genere di emittenza. Ecco che allora persino gli avvenimenti cruenti, quelli che dovrebbero sollevare la nostra costernazione, appaiono nella loro estemporaneità,
perdendo l’abbrivio per durare nel tempo. Un esempio
emblematico è quello delle persecuzioni contro i cristiani
dello stato indiano di Orissa, per non parlare della sanguinosa guerra civile somala, o della crisi umanitaria in
atto nella regione sudanese del Darfur, dove si consuma
un conflitto lontano dai riflettori internazionali.
Certo, vorremmo che l’interesse perdurasse e che
qualcuno, nelle sedi opportune del vasto areopago della
comunicazione, richiamasse l’attenzione all’esigenza di
promuovere il rispetto per la persona umana; che vi
fosse poi maggiore diligenza nel raccontare la verità dei
fatti, nella consapevolezza che, in quelle terre, vessazioni
e angherie d’ogni genere sono consuetudinarie e non
occasionali.
Mai come oggi, vi è una discrepanza tra la sfera valoriale del giornalismo e la nuda e cruda realtà dei fatti.
Un fenomeno che riscontriamo in modo macroscopico
negli affari internazionali e che riguarda il diritto/dovere
d’essere informati.
Tutti sanno che la libertà di stampa è stata al centro
di importanti battaglie con l’intento di affermare l’indipendenza dell’informazione da ogni forma di potere.
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Dall’avvento della cosiddetta globalizzazione, tuttavia, i
condizionamenti della politica e del mercato hanno decisamente fatto sentire il loro influsso sull’editoria al punto
tale che la gente ha cominciato a dubitare seriamente
dell’eticità di una professione che, in linea di principio,
dovrebbe essere votata al servizio della verità. L’obiezione
potrebbe essere quella di pensare questo ragionamento
non estendibile a tutte le realtà nazionali, in quanto storicamente risultano esservi delle differenze sostanziali, per
esempio, tra il giornalismo di matrice statunitense e quello italiano. Come sostiene Gianni Riotta, «la vera libertà
di stampa, qui da noi, comincia dopo la guerra fredda,
negli ultimi dieci, quindici anni, ma si tratta di una stampa molto vicina ai gruppi di interesse politico-economici,
mentre negli Stati Uniti essa è un potere economico a
sé. Gli editori del “New York Times” creano la propria
ricchezza vendendo la libertà di questo quotidiano, come
quando si vende un panino; ne vendi tanti se il panino è
buono e il “New York Times” si vende perché è un buon
giornale. Negli Stati Uniti la libertà di stampa è molto
radicata, mentre da noi è molto giovane».
Io stesso, avendo vissuto per un certo periodo negli
Usa, posso affermare quanto siano radicate nella cultura
statunitense certe convinzioni.
Detto questo però, l’avvento dei grandi gruppi legati
all’information technology, unitamente a tutte le limitazioni determinate dalla politica della Casa Bianca dopo l’11
settembre, soprattutto durante la presidenza di George
W. Bush, hanno condizionato fortemente l’editoria d’Ol
http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=909. L’indirizzo URL in questione, fa accedere direttamente all’intervista fatta al
prof. Gianni Riotta dagli studenti del liceo classico «Orazio» di Roma, il 6 maggio 2002, in ordine proprio all’argomento informazione,
giornalismo e potere negli Stati Uniti d’America.
Basti pensare alla celebre sentenza proferita da Thomas Jefferson, uno dei grandi padri degli Stati Uniti, secondo il quale: «Tra
uno stato senza giornali e giornali senza stato, io preferisco giornali
senza stato».
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treoceano, innescando una contaminazione d’interessi
in netto contrasto con una tradizione a connotazione
fortemente liberale. Per non parlare del difficile rapporto tra l’isolazionismo tipico di alcuni stati del West e le
aperture verso il resto del mondo imposte dalla globalizzazione dei mercati. E dire che il primo emendamento
della Costituzione americana sancisce il divieto assoluto
per il Congresso di legiferare col proposito di limitare la
libertà di stampa.
Nel complesso, comunque, l’informazione prodotta
in Occidente appare ostaggio degli indici di gradimento
per cui anche i notiziari televisivi debbono rispondere
alle istanze dell’intrattenimento che svilisce il senso stesso
delle notizie, addirittura in alcuni casi annullandole, soprattutto quando si tratta di accadimenti che avvengono
all’estero.
Per quanto concerne la televisione, rilevante è poi la
questione della presbiopia mediatica legata frequentemente alla mancanza d’immagini che possano consentire
la realizzazione di servizi giornalistici adeguati. Nel frattempo, la maggior parte degli uffici di corrispondenza dei
grandi giornali chiude e, seppure ci siano segnali di apertura come il recente caso della redazione Rai a Nairobi,
gli spazi dedicati all’Africa sono sempre legati a notizie
eclatanti riguardanti il coinvolgimento dei nostri connazionali in vicende di cronaca nera: uccisioni o sequestri
di persona, poco importa se di missionari o turisti.
La questione di fondo, insomma, è legata soprattutto
al ruolo che la pagina esteri riveste nei piani redazionali di
questo o quel giornale. Parafrasando lo storico Fernand
Braudel, vorremmo gridare senza esitazione che il tempo
della reciprocità nel mondo dell’informazione è ormai
alle porte. Opporvisi equivarrebbe alla rinuncia del bene
comune, per ignavia o delusione. L’idea di queste pagine
perciò è quella di offrire al lettore una raccolta di pensieri
sparsi su quei fatti riguardanti il nostro povero mondo
che qualcuno ha curiosamente lasciato nel cassetto.
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Il desiderio di partenza è ambizioso, lo ammetto, perché in fondo la dimensione esperienziale di chi racconta
non può prescindere dal proprio vissuto con tutto il carico di limitazioni che esso comporta. Tuttavia, non esiste
un modo di raccontare asettico e neutrale, disincarnato
rispetto alla storia. A spiegarlo in maniera convincente,
in una sua missiva pastorale, è stato qualche anno fa
un pastore d’anime eccellente, il cardinale Carlo Maria
Martini, arcivescovo emerito di Milano, il quale sostiene
che: «È praticamente impossibile porsi esattamente tra
fonte dell’informazione e il destinatario perché il mediatore è colui che porta le ragioni dell’uno e dell’altro, e
viceversa. È colui che si fa carico dell’uno e dell’altro, che
sa cogliere il senso del loro dire. Soprattutto, mediatore
è colui che traduce; ciò vuol dire che non può essere un
passacarte, né un megafono, né uno che letteralmente
trasporta ogni parola da un codice all’altro. Mediatore è
colui che si assume i rischi di ogni traduzione; tradurre,
concretamente, significa anche andare all’essenziale, cercare il senso di una vicenda in sé e nel contesto, e riferire
con parole vive».
Dunque, il mito dell’oggettività non può prescindere
dalla fatica di chi umanamente si erge da tramite tra
l’evento in quanto tale e il destinatario finale che è il
fruitore di notizie.
In questo contesto, le pagine che seguono hanno la
pretesa di spingersi oltre la notizia, suggerendo alcuni
spunti di riflessione sul contesto esistenziale nel quale
viviamo immersi, da Oriente a Occidente, da un emisfero
all’altro.
«Nel mondo contemporaneo – ha scritto il premio
Nobel per l’economia, l’indiano Amartya Sen –, c’è un
impellente bisogno di porre domande non solo sull’economia e la politica della globalizzazione, ma anche sui
C.M. Martini, Il lembo del mantello. Lettera ai fedeli per l’anno
pastorale 1991/92, Arcidiocesi di Milano, § 47.
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valori e sull’etica che formano la nostra concezione del
mondo globale; particolarmente importante è, allora, non
essere sopraffatti dalla miscela di ostinato ottimismo e
pessimismo assurdo che conduce a una rassegnazione
globale e a una compiaciuta acquiescenza».
A. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002,
pp. 11, 25 e 27.
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Il paradosso della disinformazione
Sono certo che quanto sto per scrivere potrà suscitare
qualche risentimento tra gli addetti ai lavori, i giornalisti
come me, intendo. Ho l’ardire di denunciare, con buona
dose di temerarietà, le responsabilità di una categoria che,
dal mio modesto punto di vista, nel suo complesso, ha
un bisogno estremo di imprimere al proprio timone un
deciso cambiamento di rotta.
Un tema, questo, a cui peraltro ho già dedicato in
passato ampio spazio in numerose pubblicazioni, ribadendo sempre lo stesso concetto e che cioè, per colpa
della disinformazione, sappiamo davvero poco o niente
di quello che succede sul palcoscenico del mondo. Lungi
dal voler essere disfattista, dobbiamo tenere presente
che il sistema mediatico planetario – facendo la media
tra società moderne e altre arretrate – comunica appena
il 20% delle notizie che tutti saremmo tenuti a conoscere. Lo constata con grande amarezza Sergio Zavoli
in un suo recente saggio, citando fonti statunitensi. Un
esempio? Ma quando mai possiamo seguire la cronaca
africana con regolarità sulla stampa nostrana? Questo
continente è sempre il fanalino di coda nella gerarchia
delle notizie. Ecco che allora scoppia l’ennesima sanguinosa guerra nella Repubblica Democratica del Congo e
praticamente nessuno ci fa caso, a parte un manipolo di
volenterosi lettori appartenenti al mondo missionario o
più in generale al Terzo Settore. D’altronde, a pensarCf. S. Zavoli, La Questione, eclissi di Dio o della Storia?, Mondadori, Milano 2007, p. 218.
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ci bene, il fenomeno è riscontrabile anche per quanto
concerne l’attualità europea; vi è mai capitato di leggere
qualcosa sui paesi scandinavi, prescindendo dall’annuale
cerimonia di assegnazione dei premi Nobel? Quando si
tratta invece di affrontare le grandi crisi internazionali
come quella irachena o afgana, il ritmo mediatico è così
battente, all’insegna troppe volte della banalizzazione,
per cui nell’opinione pubblica s’innescano meccanismi di
assuefazione, col risultato che alla fine la gente comune,
a mala pena, riesce a trattenere qualche blanda nozione.
Il paradosso è evidente: viviamo in un «villaggio globale» dove sulle ali delle moderne tecnologie dovremmo
essere in grado di ricevere in tempo reale informazioni su
quanto accade a Timbuctu o a Dar es Salaam, eppure il
disinteresse verso ciò che accade fuori dallo Stivale regna
sovrano. L’Italia, in particolare, rispetto ad altre nazioni
industrializzate, continua a essere un paese caratterizzato da un provincialismo cronico elevato all’ennesima
potenza.
Da un sondaggio pubblicato in un recente studio
sui conflitti dimenticati di Caritas Italiana, «Famiglia
Cristiana» e «Il Regno», emerge addirittura che il 20%
dei nostri connazionali non è in grado di indicare alcun
conflitto armato del pianeta risalente agli ultimi cinque
anni: né Iraq, né Afghanistan, né Palestina/Israele...
Sono i giovani quelli che ne sanno meno: basti pensare
che il 30% non serba alcun vago ricordo di tali guerre. Eppure, gli interessi in gioco sono tanti e la nostra
gente ha davvero tutto l’interesse a conoscere la verità
dei fatti.
Da questo punto di vista, la sfida nelle relazioni tra
i popoli, prima ancora che essere sociale, politica o economica è davvero culturale.
Si tratta di capire col cuore e con la mente l’urgenza
di sfatare certi luoghi comuni che soffocano ogni serio
ragionamento, nella consapevolezza che l’umanità, indipendentemente dalle latitudini, ha un destino comune.
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Può essere utile a questo riguardo ricorrere all’acuta saggezza della filosofia semiotica dove l’altro è nello stesso
tempo epifania e mistero. Dunque non un «accidente»
come vorrebbe qualcuno.
Sta di fatto che, sebbene l’epoca coloniale sembri
distante anni luce dal nostro immaginario, l’etnocentrismo casereccio è sempre in agguato; un concetto
di civiltà omologante secondo il quale, per vocazione,
noi saremmo destinati a gustare il sapore della civilizzazione, a scapito di altri popoli in preda a barbarie e
paganesimo.
Come ricorda saggiamente il grande africanista Basil
Davidson, queste idee permangono addirittura nelle menti ben disposte all’azione solidale, quasi vi fosse una sorta
di pregiudizio cronico. Da qui la necessità di compiere uno
sforzo collettivo – ad esempio tra europei e africani – per
decodificare la storia, quei sedimenti d’incomprensione,
quei misunderstanding di senso e di significato, che hanno
fuorviato per lunghi secoli i nostri rapporti.
Dobbiamo «smettere di elaborare ciascuno separatamente – come scrive con senno l’intellettuale congolese
Jean Leonard Touadi – un sapere sull’altro che non tenga
conto dell’incontro ormai avvenuto in condizioni drammatiche, ad esempio, tra Europa e Africa».
Insomma, si tratta di realizzare un decentramento
narrativo nel grande libro dei saperi umani, ossia imparare a guardare le cose una volta tanto dal punto di vista
dell’altro. Dunque, un rovesciamento salutare, per così
dire un mondo capovolto, se vogliamo approdare con
piena consapevolezza all’appuntamento del dare e del
ricevere auspicato dal poeta senegalese Léopold Sédar
Senghor.
B. Davidson, The Black Man’s Burden Africa and the Curse of
the Nation-State, Knopf, New York 1992.
G. Albanese, Hic Sunt Leones, Paoline, Milano 2007, Introduzione di J.L. Touadi, p. 13.
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Un appuntamento, come vedremo più avanti, dove
viene lasciato spazio all’irrompere dell’altro nella sua
verità intrinseca, affermando il valore della persona nella
sua integralità.
Il digital divide
Comunque, proprio perché vorrei sempre rimanere
con i piedi per terra, senza rischiare d’avventurarmi in
valutazioni che al lettore potrebbero sembrare eccessivamente teoretiche, cioè astratte, desidero raccontare
quanto mi è capitato alla fine del 2008 in Etiopia e precisamente nel vicariato di Meki.
Ho trascorso lì una ventina di giorni, incontrando
numerosi missionari, missionarie, sacerdoti fidei donum
e laici. Un’esperienza estremamente arricchente, sia dal
punto di vista spirituale che umano. Un posto paradisiaco, a oltre 2000 metri di quota, con un clima temperato
davvero eccezionale. Eppure, fin dal primo momento, la
sensazione che ho avuto è stata quella di essere completamente tagliato fuori dal resto del mondo. Per carità, nella
missione cattolica di Gighessa c’è anche la televisione
satellitare, ma ogni altra forma di collegamento ad extra
lascia molto a desiderare. Da lì avrei voluto continuare
ad aggiornare il mio blog sull’Africa, ma la mancanza di
un accesso soddisfacente a internet me lo ha impedito.
Tutta colpa del digital divide, fenomeno sintomatico del
divario tra il Nord e il Sud del mondo.
Dico subito che ritengo fuorviante pensare che, portando un computer in ogni capanna, i problemi della
povera gente possano essere considerati risolti. Sicuramente le nuove tecnologie, se organicamente introdotte,
potrebbero, in tempi e modi adeguati, diventare uno
Il blog è visitabile all’indirizzo: http://blog.vita.it/africana.
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strumento di sviluppo e conoscenza, ma il cammino è
molto lungo e tutto in salita.
La mancanza di volontà politica da parte di coloro
che siedono nella stanza dei bottoni, unitamente alla
gravissima crisi economico-finanziaria dei mercati internazionali, sono alcuni dei fattori che stanno fortemente
penalizzando in particolare l’Africa. Sta di fatto che in
Etiopia, in meno di un anno, i generi di prima necessità
sono aumentati per ben tre volte causando gravissimi
problemi alla povera gente che fa fatica a sbarcare il
lunario.
Tornando al discorso sul digital divide, vorrei condividere due brevissime considerazioni. La prima riguarda
l’uso della tecnologia che, dal mio punto di vista, non
dovrebbe servire a creare in questi paesi dei bisogni
indotti (connettività ultraveloce, computer sempre più
potenti), ma a farli sentire in grado di definire e realizzare
uno sviluppo tecnico adeguato alle loro reali esigenze.
Nell’ambito dell’informatica poi, ed è questo il secondo
punto, il paradigma tecnologico più sostenibile dovrebbe
essere quello legato ai cosiddetti free software.
Infatti, la possibilità per gli utenti di partecipare attivamente all’innovazione, la possibilità di personalizzare
per le diverse esigenze i software, e più in generale il modello cooperativo a cui fanno riferimento i free software,
sono alcuni dei punti di forza di una strategia globale che
potrebbe giovare alla causa dello sviluppo.
A questo proposito mi pare che alcune Organizzazioni non governative (Ong) si stiano occupando di questi
temi in prima linea, con grande serietà e interesse, anche
se poi, molto spesso, mancano di quel supporto tecnico
e finanziario da cui non si può prescindere per ogni serio
ragionamento in questa materia.
Come giustamente rileva Giulio Carcani, grande
esperto nelle problematiche inerenti il digital divide, «il
problema più difficile a oggi sembra essere quello di
far incontrare l’esperienza pluriennale nei progetti di
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4.  A proposito di religioni, dialogo, fondamentalismi e migrazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.53
Un po’ di storia: figure e momenti del dialogo cristianesimo-islam . . . . . . . . . . . . . . . . All’origine delle violenze e degli estremismi
di parte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La vittoria dei vinti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quando la religione diventa ideologia . . . . . » 57
»61
»64
5.  Educhiamoci alla mondialità . . . . . . . . . . . . » 70
No profit e marketing . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il mondo capovolto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La decrescita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 73
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6.  La frontiera dell’impegno umano e cristiano
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Tutti insieme protagonisti e responsabili,
impegnati per la pace . . . . . . . . . . . . . . . . . La parresia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 91
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» 54
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Finito di stampare nel mese di luglio 2009
Villaggio Grafica – Noventa Padovana, Padova
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