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UN PASSATO CHE NON SAPEVO.
Viaggiare nell'America Latina
COCKTAIL DI BENVENUTO
Vacanza in Yucatàn, Messico
Prima del 2001 non avevo mai preso un volo intercontinentale, ma avevo fatto solo viaggi straccioni
in Europa, caratterizzati da puzza di treno, pranzi luridi al supermercato e budget ridotti all'osso.
Grazie ad un potentissimo sponsor (mio padre) nella primavera del 2001 uscii per la prima volta
dall'Europa e vissi la mia prima (e probabilmente ultima) esperienza di vacanza in un villaggio all
inclusive allocato in una località da cartolina, nel quale una buona parte degli umani soggiorna solo a
causa di un viaggio di nozze.
Ci recammo nella Riviera Maya, quella porzione di costa affacciata sul Caribe messicano che segue il
contorno sud-orientale della penisola dello Yucatán. Da qualche anno era scoppiato un vero e proprio
boom turistico (soprattutto di provenienza statunitense), accompagnato da megalomania, lusso,
camicie hawaiane e sedili per ciccioni.
Le tredici ore di aereo necessarie per raggiungere Cancun furono un vero trauma, superato grazie ad
alcuni film americani e alle appassionanti immagini del planisfero solcato dall'aereo minuscolo che
molto lentamente si allontanava dai familiari profili europei per avvicinarsi alle sconosciute coste
centroamericane, restando per molte ore (in cui per fortuna ogni tanto mi appisolavo) parallelo
all'infinito oceano Atlantico. Questo buco nero di angoscia fu prontamente dimenticato all'arrivo,
perché annullato da tutte le novità che si presentavano davanti ai miei occhi. Dopo tutte quelle ore
con l'ansia di precipitare nell'oceano e tutti quei pranzi e cene nella vaschetta di alluminio, scoprire
che erano ancora le sei di pomeriggio e che avremmo dovuto ancora cenare mi frastornò.
Ma poi nel frattempo il pulmino ci aveva consegnati alle porte del villaggio dove questi animatori
felicissimi di vederci ci avevano accolto porgendoci dei cocktail con la cannuccia e la fetta di
arancia, e poi ci avevano condotti nei nostri bungalow prenotati dotati di aria condizionata,
attraverso sentieri orlati di piante e fiori maestosi (e il profumo è forse la cosa che resta più in testa
insieme al caldo umido, e infatti avevo deciso di mettermi un vestitino leggero), e in pratica poi mi
ero dimenticata che avremmo dovuto cenare di nuovo. Questo finché non entrammo nella spaziosa
villetta dove si mangiava e dove scoprii che qualunque cosa io volessi lì c'era. Mi era salita una lieve
nausea anche se, poiché era tutto gratis, non potevo rifiutarmi di assaggiare almeno un boccone di
qualcuna delle pietanze e comunque come minimo una birra media, perché tanto lì potevi spillartene
quante ne volevi.
Durante quella sera ci misero anche il braccialetto al polso, che nel nostro caso era azzurro perché
eravamo italiani. In quel villaggio lì, situato a una quarantina di chilometri da Playa del Carmen,
oltre a noi italiani c'erano anche i tedeschi che avevano il braccialetto grigio, i canadesi che lo
avevano rosso e non mi ricordo chi che lo aveva giallo (mi sembra gli spagnoli). Con questo
braccialetto ogni volta che andavi in un bar o ristorante, quasi a qualunque ora del giorno, ti davano
da mangiare e da bere.
Tale onnipotenza può seriamente determinare in alcuni soggetti una frenetica e patologica
ingordigia, e anzi alla fine mi sono meravigliata di non aver visto mai nessuno che vomitava seduto al
bancone del bar (come sarebbe normale dopo aver bevuto un numero incalcolabile di cocktail) e
dunque ho ipotizzato che questi barman messicani sapevano il fatto loro e dunque, quando vedevano
qualcuno sull'orlo del vomito, mettevano mano a delle finte bottiglie che da fuori sembravano
cachaca o gin ma in effetti erano semplice acqua.
Quando io vado in un posto nuovo, nonostante la stanchezza del viaggio (durante il quale magari ho
pure trascorso una notte seduta in un treno espresso), il sonno mi passa completamente e devo
subito guardarmi intorno e scoprire dove sono capitata. Per questo la sera del nostro arrivo sfidai il
jet-lag doppiando le 24 ore da sveglia. Come è facilmente immaginabile, mi abituai subito all'ora
locale: alle otto di mattina infatti, mentre gli altri neo-arrivati già alle 4 avevano gli occhi sbarrati e
dalla fame avevano quasi divelto la porta chiusa del bar, io russavo come se niente fosse e dovettero
telefonarmi e attendere anche diversi minuti prima che io rispondessi.
In effetti le giornate che si prospettavano non erano proprio una schifezza: la spiaggia che è come
uno si immagina una cartolina tropicale con le palme ondeggianti al vento e la sabbia bianca fredda e
leggera, le piscine idromassaggio, i cocktail colorati che se non ti piacciono li abbandoni e ne chiedi
un altro, le canzoni caraibiche, gli animatori che ti trascinano a fare dei giochi cretinissimi facendoti
ubriacare di tequila mentre indossi un sombrero gigantesco, le passeggiate a Playa del Carmen
(questa cittadina turistica piena di negozietti e bancarelle, ristoranti, bar e internet cafè).
Va bene il mare cristallino, il sole cocente, le tortillas con salsa piccante, le palme da cocco
diagonali, gli animatori che ti mettono la lingua in bocca in discoteca, ma qui siamo venuti anche per
ammirare le testimonianze storiche e artistiche risalenti alla civiltà maya.
La sera del nostro arrivo, mentre gli altri dormivano, avevo appreso che di domenica l'ingresso ai siti
archeologici fosse gratis. Dunque senza indugio ci recammo a Tulum, usufruendo di un pullman di
seconda classe con l'aria condizionata sparata al massimo, in compagnia di alcune galline vive e altre
morte.
Tulum sorge proprio di fronte al punto dell'oceano in cui al mattino sorge il sole: oltre a donare al
posto un grande fascino estetico, questa posizione costiera era sicuramente favorevole per i
commerci marittimi, ma poi gli si è rivoltata contro nel momento in cui sono arrivati gli spagnoli. I
poveri maya con le loro piroghine sono stati immediatamente sbaragliati dagli invasori, e proprio nel
loro apogeo di prosperità. L'edificio simbolo di questo sito è il Castillo, un tempio fortificato costruito
a picco sul mare. Spingendosi verso l'interno nell'aria rovente si possono visitare anche il tempio degli
affreschi, la casa delle colonne, il tempio dedicato al mitico dio discendente (una divinità metà uomo
e metà ape dotata di ali e di coda di uccello) e tutte le pitture e i bassorilievi che rappresentano le
infinite e paradossali divinità maya. Per fortuna ci si può comodamente refrigerare con un tuffo e
godere della piacevolissima brezza che soffia sulla costa. Negli anfratti strisciavano le tipiche iguane,
in vendita presso le bancarelle si affastellavano amache e sombreri, sotto gli ombrelloni andava per
la maggiore la birra Corona. Tutto come da copione. Eravamo felici.
Presso il villaggio si potevano prenotare delle escursioni che di solito duravano l'intera giornata,
comprendevano anche un pranzo e accoppiavano due o tre attrazioni differenti. Certo, così si spende
qualcosa in più, ma così non ci si deve sbattere a cercare un autobus sovraffollato oppure un taxi in
mezzo alla statale deserta, si ha diritto ad un autobus privo di galline e ad una guida che parla la
propria lingua. Per le sei si fa ritorno al villaggio, giusto in tempo per il classico acquazzone
pomeridiano che annuncia le imminenti tenebre.
Per raggiungere Chichén Itzá, potentissima città maya-tolteca che dominò lo Yucatán per circa tre
secoli, partimmo alle 6 e mezza circa, quando il sole già spaccava le pietre. La guida che parlava
italiano si chiamava Luis, era vestito di bianco e profumava di fiori. I suoi racconti erano davvero
suggestivi e ricchi di dettagli, ma purtroppo mi addormentai perdutamente in autobus. Inizialmente
visitammo la parte più recente, dove è ubicato il suggestivo Sacro cenote, un enorme pozzo destinato
ad accogliere le offerte in onore di Chaac, il dio della pioggia: caucciù, giada, vasellame, oggetti
d'oro, ma anche esseri umani e animali sacrificati. I cenote in epoca maya erano fondamentali perché
fornivano l'acqua necessaria alla vita delle popolazioni, ma c'è anche chi ha visto proprio in questo
una delle cause della decadenza della città: bere acqua in cui si sono sbriciolate ossa umane — opinò
qualche eminente studioso — non fa benissimo alla salute. Poco più in là apparve il gigantesco campo
della pelota, fatto a forma di "i": questo gioco, chiamato in lingua maya "pok ta pok", era un famoso
rituale legato al culto del sole, una cerimonia pericolosa in cui alla fine c'era chi perdeva
letteralmente la testa. Sui muri sono incise scene dal significato religioso e mitologico, che
dovrebbero aiutare a capire come si svolgeva il gioco: la palla di caucciù poteva essere toccata
soltanto con i fianchi, le ginocchia e i gomiti e dunque necessitava di enorme abilità, specialmente
per centrare gli anelli di pietra che erano posti in alto sui muri.
Il tempio di Kukulcan o Quetzalcòatl, amichevolmente conosciuto come El castillo, è l'edificio
simbolo del sito. Si tratta di una piramide alta 24 metri e dotata di 4 scalinate ornate da serpenti
piumati, ognuna costituita da 91 gradini, per una somma totale di 364; aggiungendo la piattaforma
centrale si ottiene l’esatto numero dei giorni del ciclo solare. Le conoscenze astronomiche dei maya
erano avanzatissime e li avevano portati ad elaborare un calendario di estrema precisione (poco
distante c'è infatti l'osservatorio astronomico, detto Caracol, da cui registravano i movimenti celesti).
È possibile entrare nelle budella del tempio di Kukulcan tramite una scaletta ripida e umida, che
porta ad un altare antropomorfo raffigurante un uomo semisdraiato e a un trono a forma di giaguaro.
Si possono ammirare inoltre il tempio dei guerrieri, decorato di bassorilievi di soldati e serpenti
piumati, e il tempio delle mille colonne, il cui tetto è già crollato da eoni perché era di legno. A
partire dal Tredicesimo secolo le rivalità tra Chichén Itzá e le altre città guerriere si accentuarono,
iniziò un periodo di declino e gli spagnoli al loro arrivo nel 1527 praticamente si trovarono nel bel
mezzo di una guerra civile, cosa che non facilitò certo la conquista. Ciò non gli ha comunque
impedito di sottometterli, come si sa. Per il pranzo ci portarono in un ristorante circondato da un
vasto giardino con palme e alberi di mango, dove assistemmo a una danza in cui i ballerini si
muovevano portando in equilibrio sulla testa un vassoio con una bottiglia di birra semipiena e dei
bicchieri.
Sulla via del ritorno erano previsti: 1) sosta in un tanguis, ossia un mercatino dove i prezzi erano
altissimi; 2) un ragazzino grasso e bisunto che salì sul pullman per farci fotografare un armadillo
schifosissimo in cambio di denaro; 3) visita della cittadina di Valladolid, che ha ancora oggi un
grazioso centro di origine coloniale e i palazzi costruiti dai conquistadores. Durante la sosta nella
piazza Parque Francisco Canton Rosado c'era un'esibizione di danzatori concheros, dai costumi di
velluto e dalle acconciature con le piume, che sembrava fatta apposta (anzi, ora che ci penso, era
fatta apposta ).
Ovviamente il motivo principale per cui si va in vacanza in questa penisola tropicale è il mare.
Peccato che il primo giorno di sole mi sia venuto uno spaventoso eritema che mi ha impedito di
mettermi in costume da bagno per tutta la settimana, e che io sia tornata in Italia bianca come un
cadavere.
Ero in maglietta a Coco Beach, nei pressi di Playa del Carmen, deserta al mattino presto, con il mare
azzurro e sterminato. Ero in maglietta a Cozumel (l'isola delle rondini), famosa per i fondali
trasparenti adattissimi agli amanti dello scuba diving. Ero in maglietta all'isla Mujeres, famosa per le
sue spiagge.
E comunque il momento sublime lo ho vissuto (seppur in maglietta) alla paradisiaca isola di Contoy.
Essendo una riserva ornitologica protetta, il numero dei visitatori era limitato e ci si poteva andare
soltanto con una gita organizzata. Dunque partimmo da Cancun con un motoscafo pieno di altri turisti
prenotati. Nel tragitto ci fermammo per fare snorkeling sulla barriera corallina, che era una
esperienza meravigliosa che non avevo mai fatto. Raggiunta l'isola accarezzammo le razze che
strisciavano vicino alla costa e demmo da mangiare ai pellicani, con il loro sottile collo che si
deformava al passaggio del cibo. Per pranzo ci diedero dei pesci enormi cucinati sulla brace, mentre
al ritorno l'esuberante capobarca Manolo mi fece bere una quantità industriale di tequila (che con il
mal di mare non è indicatissima). La sera andammo in una pacchianissima discoteca di Cancun dove
facemmo le 5 ballando sul bancone del bar. Ora non è che mi ricordo granché di quella sera, ma da
allora quando penso a Cancun mi viene in mente una chitarra gigante fatta di lucine colorate.
E così il viaggio finì in un battibaleno, con l'impressione di non aver penetrato per niente la vita vera
ma solo la vita fasulla e luccicante che sembra quello che i turisti vanno cercando, visto che di vita
vera e noiosa ne hanno già abbastanza nelle loro quotidiane vicissitudini. E con la promessa di non
mettere mai più piede in un villaggio all inclusive, nemmeno in viaggio di nozze.
(aprile 2001)
UN PUNTO DI VISTA AUSTRALE
Viaggio nell'Argentina del nord
Il passato del viaggiatore cambia a seconda dell'itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo
cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto. Arrivando a ogni nuova città
il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva di avere: l'estraneità di ciò che non sei più o non
possiedi più t'aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.
[ Italo Calvino, "Le città invisibili" ]
Il mio primo viaggio in Sudamerica ebbe come meta l'Argentina, ma fu soltanto una coincidenza di
tipo amministrativo. L'Argentina è un Paese così grande che, girandolo in lungo e in largo, potete
spaziare dal paesaggio tipico delle latitudini tropicali di bassa quota, caldo e umido, agli scenari
maestosi e aridi della regione pre-andina, fino alle aree più temperate, abitate per la maggioranza
da bianchi. Potete incontrare contadini quechua, indios guaranì, donne robuste di montagna che
trasportano pesanti sacchi colorati, ballerine di tango bionde e flessibili, gelatai campani e
imprenditori torinesi. Potete imbattervi in palazzi coloniali tinteggiati di fresco, cactus altissimi a
forma di mano, altopiani nudi e desolati, canyon dai tanti colori, chiese cattoliche e misteriose
statue pre-colombiane.
E mentre passerete dalle infradito al cappello di lana, diventerà sempre più evidente quanto l'Europa
abbia dato forma a questa parte di mondo. Quando visiterete il Sudamerica, dunque, se punterete
idealmente un cannocchiale in direzione dell'Europa, la riconoscerete per quello che realmente è: un
continente ridicolmente piccolo ma storicamente ingombrante.
Buenos Aires
Ci sistemiamo tra gli edifici art déco della centralissima Avenida de Mayo. La sera fa freddo, ma è
logico: qui in agosto è inverno. A cena in un ristorante con parrilla (suprema griglia su cui
campeggiano gigantesche bistecche e imponenti salsicce), ho il primo impatto con i camerieri
argentini, che mi hanno conquistato con le loro facce da commedia all'italiana. Dopo cena nessuno
vuole accompagnarmi in una milonga, ma mi consolano promettendomi che ci andremo a fine
viaggio, quando torneremo nella capitale per un giorno ancora.
La mattina è libera prima del volo pomeridiano per Iguazù. Piove ed è grigio in Avenida de Mayo e
infatti i cani previdentemente indossano caldi maglioncini. Scorgo la sede delle Madri di Plaza de
Mayo, il cui simbolo è un fazzoletto legato sotto il mento; sono ormai decenni che esse si incontrano
ogni giovedì pomeriggio nella piazza da cui prendono il nome, per rivendicare la scomparsa e
ottenere la restituzione dei loro figli, arrestati, torturati e fatti sparire durante il periodo della
dittatura militare. Siamo a un soffio dalla movimentata Avenida Corrientes, una via così larga che ci
sono quattro semafori di seguito da attraversare a piedi: qui Carlotto inizia il suo tour dell'orrore nei
meandri della storia della "guerra sporca" e dei desaparecidos nel libro "Le irregolari".
Il nostro tour meteorologicamente mesto procede invece verso plaza de Mayo, dominata dalla Casa
rosada, il palazzo governativo da dove si sono affacciati, tra gli altri, Evita Peron e Maradona. Di
fronte invece vi è il cabildo, l'unico edificio in stile coloniale della città, semplice e lineare con le
sue forme arrotondate e la bianchezza abbacinante della calce. Proseguiamo la passeggiata per vie
commerciali come Calle Florida, poco battute in questa cupa mattinata, se non fosse per i venditori
di pellame che a quanto pare sono ben informati in merito all'interesse maniacale che gli italiani
riservano a borsette, cinture e giacconi in pelle. Superata Plaza San Martín, dedicata all'onnipresente
generale che guidò la lotta per l'indipendenza del Paese dalle potenze europee, giungiamo a
costeggiare il Porto Madero che schiera una lunga fila di magazzini in mattoni rossi, molti dei quali
trasformati in ristoranti fighetti.
Las cataratas del Iguazú
A Iguazú (regione de El litoral, provincia di Misiones) ci attende tutt'altro clima e ambiente naturale:
caldo umido con vegetazione lussureggiante, amache e farfalle. Alloggiamo a Puerto Iguazú per tre
notti in un accogliente hotel dotato di cortile; il paese è infestato di negozi di souvenir, tra i quali
spicca la tazza per il mate a forma di zoccolo di mucca con tanto di peli. Le cene sono precedute e
seguite da aperitivi e cocktail sorseggiati in posizione orizzontale sulle sdraio del semibuio bar
"Moe's", che ci dà l'illusione di avere un'abitudine. Al ristorante scopriamo che quella che loro
chiamano mozzarella è in realtà galbanino e che la pizza a la piedra è molto più buona di quella di
alcune pizzerie romane.
Ci aspetta la visita alle cascate più imponenti del Sudamerica, le Cataratas di Iguazù, luogo mitico e
simbolico per i due innamorati del film di Wong Kar-Way "Happy together". Le cascate nacquero quasi
200 mila anni fa dalla confluenza tra i fiumi Iguazú e Paraná e il luogo è ora conosciuto come "Unione
Tre Frontiere" (Argentina, Brasile e Paraguay). Normalmente precipitano almeno cinquemila metri
cubi d'acqua al secondo per oltre settanta metri d'altezza e due chilometri di larghezza, nello
scenario indimenticabile della foresta subtropicale. Ci prepariamo con costumi da bagno e buste di
plastica ad essere travolti dall'acqua che bagna completamente i visitatori che attraversano le
passerelle, ad essere assordati dalla favolosa Garganta del Diablo, ad essere praticamente sommersi
durante la gita in barca. E invece non veniamo sfiorati nemmeno da una goccia d'acqua perché non
piove da tre mesi, e anche il giro in barca si riduce di un pezzo perché il fiume è di gran lunga sotto il
livello solito e le grandi pietre levigate sono squallidamente nude sotto il sole. Era dal '78 che non
capitava un evento del genere e io mi chiedo che avrebbero fatto Jeremy Irons e Robert De Niro alle
prese con la siccità alle cascate di Iguazú.
La nostra speranza di vedere qualche animale tropicale, anche messo lì apposta, viene
drammaticamente frustrata: nel giro in jeep scorgiamo soltanto una minuscola scimmia cappuccino,
le farfalle sono belle sì ma non grandi quanto una mano come ci avevano detto, ci lasciamo
intenerire dal coati, che è una specie di procione simbolo stesso del Parco Naturale, e purtroppo non
appare nemmeno il becco di un tucano. Sul trenino del parco chiacchiero amabilmente con una mia
anziana conterranea, che insieme alla sua amica di origine calabrese è venuta in vacanza da Buenos
Aires, dove sono emigrate da bambine. Ci troviamo nel cuore della cultura di lingua guaranì, regione
di grandi consumatori di mate, la bevanda energizzante e amarissima che gli argentini si portano
dietro dovunque in grossi thermos. Oltre alla yerba mate, qui si producono anche tè, legno e il
prelibato palmito, che non è altro che l'interno del tronco della palma tenuto a macerare per cinque
anni.
Nonostante siano a secco, le cascate ce le andiamo a guardare meglio anche dal lato brasiliano:
attraversiamo il confine di stato, ci puliamo i piedi su un tappetino disinfettante e le ruote del
pulmino su un tappetone disinfettante. Prima di raggiungere il Parco visitiamo la gigantesca diga
idroelettrica di Itaipu, la più grande del mondo, situata al confine tra Brasile e Paraguay, che fornisce
un quarto dell'energia di tutto il Brasile e la quasi totalità di quella del Paraguay. Ci informa il
dépliant che con il ferro e l'acciaio usati nella centrale si sarebbero potute costruire 380 Tour Eiffel.
Quindi visitiamo un negozio superkitsch con annessa cioccolateria e attraversiamo la cittadina di Foz
de Iguaçu, dotata di moderni grattacieli e di un numero spaventoso di farmacie. Il Parque Nacional do
Iguaçu del versante brasiliano è privato (e non pubblico come dal lato argentino) e dunque
perfettamente organizzato con attività di arborismo, canoa, rafting, corde sospese (e puoi fare anche
il giro in elicottero).
Misiones
Nella provincia di Misiones vi è la Miniera Wanda, dove si estraggono topazi, ametiste, cristalli di
rocca, acquamarine e quarzi. I minatori spaccano la roccia alla ricerca di pietre preziose che vengono
poi trasformate in gioielli ma anche, per esempio, in orrendi soprammobili.
Nei paraggi si possono visitare le rovine delle missioni di San Ignacio Miní, di Loreto e di sant'Ana,
alcune delle comunità di indios convertiti gestite dai gesuiti, create nel XVII secolo negli attuali
territori dell'Argentina, del Paraguay e del Brasile per evangelizzare la popolazione locale. All’interno
di queste reducciones gli indios abitavano in case tutte uguali, dividevano equamente le risorse della
terra ed erano accomunati dai riti cristiani, cristianamente imposti con la forza. I gesuiti erano una
potenza molto influente e le reducciones godettero di autonomia politica e amministrativa, grazie
alla libertà che gli veniva garantita. È vero che grazie all'istituzione di questi villaggi gli indios
guaranì ebbero modo di raggiungere un certo livello di sviluppo e di istruzione, ma ciò avveniva a
patto di venir privati della libertà individuale e di essere sottoposti a un controllo molto rigido:
inutile dire che i gesuiti non ci pensavano proprio a rispettare lo stile di vita, le tradizioni e la lingua
degli autoctoni. Nella seconda metà del Settecento, i gesuiti vennero espulsi da tutta l’America
spagnola e tutte le missioni vennero distrutte.
A San Ignacio Miní si possono visitare i resti delle abitazioni, della chiesa (di cui sono rimaste ampie
porzioni ricoperte di bassorilievi), del collegio, del cimitero; qui nel periodo di apogeo vivevano più
di tremila abitanti. Gli edifici erano tutti realizzati in roccia arenaria, il cui colore rosso crea un
bellissimo contrasto con il verde dell'erba della Plaza de armas in questo pomeriggio di luce perfetta.
L'uomo che ci fa da guida fa l'insegnante e ha metà viso devastata da un'ustione; parlando come una
macchinetta, mi riferisce che guadagna circa 250 dollari al mese, troppo pochi per vivere
dignitosamente, e dunque è costretto ad arrotondare con quest'altro lavoro.
Da Posadas, capoluogo della provincia, attraversando immense pianure brulle su strade sterrate
battute da sporadici gauchos, si può raggiungere un posto davvero speciale: la Reserva Natural del
Iberà. Il giro in barca di due ore ci porta dentro la laguna a stretto contatto con numerosissimi
caimani mangiatori di piranha, capibara (giganteschi roditori nuotatori che vivono su queste isole
flottanti), cicogne, cormorani, cervi delle lagune e numerosi altri uccelli. Dopo il pranzo possiamo
scegliere tra un giro a cavallo e una passeggiata nell'umida foresta delle scimmie urlatrici, infestata
da zanzare voraci e formiche enormi, arbusti strangolatori e alberi pelosi.
L'ultima tappa orientale nella cosiddetta Mesopotamia Argentina è Corrientes, dove campeggia un
enorme murales realizzato dagli italiani per celebrare la grandezza argentina. Gli italiani che
lottarono insieme agli argentini nell'eroica battaglia del 25 maggio 1865 sono ricordati anche
nell'adiacente busto di Dante Alighieri.
È trascorsa una settimana dal nostro arrivo in questo emisfero e abbiamo trovato un clima davvero
piacevole, alcuni paradisiaci paesaggi e diversi luoghi di interesse storico-culturale. Le restanti due
settimane ci vedranno scorrazzare in climi e ambienti totalmente diversi, quelli del nord ovest
andino, dove potremo finalmente tirare fuori pile, sciarpe e cappelli finora relegati negli anfratti più
nascosti dello zaino.
La Quebrada di Humahuaca
Il trasferimento nel nord ovest avviene con un bus notturno semi-cama (ossia quasi-letto, ossia molto
comodo), con sandwich, merendina, "Superman" e "Titanic" inclusi nel prezzo, che parte a Resistencia
e arriva a Guemes alle 5 di mattina. Da qui un altro bus ci conduce a San Salvador de Jujuy,
capoluogo della provincia omonima, dove fa un freddo cane, le donne vendono tè bollente e mi si
rompono i sandali.
Visitiamo la piazza principale, di forma quadrata, e la cattedrale, dotata di un fantastico pulpito in
legno. Dopo la notte disagiata in bus ci ristoriamo alle Termas de Reyes, dove colgo l'occasione per
rilassarmi con un massaggio "Armonia e raggi di sole". Chiacchierando nell'atrio, una coppia di Buenos
Aires mi svela che tutti gli argentini di pelle bianca sono o italiani o spagnoli.
Da oggi abbiamo un pulmino giallo che ci accompagnerà per diversi giorni su e giù tra valli e altipiani,
guidato dal godereccio Renè affiancato dal suo fido servitore muto. Siamo nella provincia di Jujuy, la
più nord-orientale di tutta l'Argentina, situata ai confini con la Bolivia a nord e con il Cile a Ovest. Ci
inoltriamo subito nella Quebrada di Humahuaca, un canyon lungo più di 150 km scavato dal Rio
Grande, storico asse di collegamento tra le pianure meridionali e le Ande.
La prima sosta avviene a Tumbaya, dove c'è una delle tante deliziose cappelle risalenti al Seicento (in
questo caso dipinta di giallo intenso e dalle forme semplici e arrotondate), che contiene un Cristo
crocifisso che indossa una gonna di pizzo. Un passante in bicicletta mi racconta che il giorno della
Domenica delle Palme il paese, che normalmente conta 600 anime, si affolla fino a raggiungere circa
30mila presenze. La fede cattolica è molto sentita e c'è un nutrito calendario di festività religiose,
che in questa provincia convivono naturalmente con le antiche tradizioni dei popoli andini.
A Maimarà veniamo accolti da donne che ci lasciano i loro indirizzi per spedirgli cartoline e vestiti,
sulla strada da cui si ammira la "tavolozza del pittore", una curiosa conformazione di rocce con colori
che vanno dal rosso scuro al giallo. Facciamo un'escursione fino al cimitero, abbarbicato sul fianco
della montagna, con le tipiche corone di coloratissimi fiori finti appese alle croci bianche sparse
disordinatamente.
A Tilcara c'è il pucarà, il villaggio fortificato abitato già nel periodo pre-incaico e poi fino alla
definitiva occupazione spagnola. Questi popoli coltivavano mais e patate e allevavano lama, vigogne
e alpaca. Bevo una gustosa birra blanca e acquisto cappello e sciarpa di lana per affrontare i rigori
del clima andino.
Infine, arrivati a Humahuaca, ci aspetta un hotel senza riscaldamento, dotato di un lugubre corridoio
che potrebbe benissimo condurre alla cella della morte. Il paese è pieno di turisti fricchettoni e
infestato da bambini che, con la scusa che oggi è il Dìa del niño, ci sciorinano poesiole in cambio di
propina. L'arrivo in quota miete le prime vittime di mal di testa fulminante, da cui per il momento
sono indenne: mi posso liberamente ingozzare di picante de mondongo (trippa), locro (una zuppa di
mais, cipolle, carne e legumi), carne di lama e capretto.
Per raggiungere Iruya bisogna attraversare dei canyon a zampa d'elefante e poi superare un valico
situato a 4000 metri, battuto da un vento gelido. Il delizioso paesino, dalle solide radici indigene, è
incastonato tra suggestive montagne, pieno di viuzze strette e ripide, abitato da signore con maglioni
di lana colorata e cappelli tondi. L'hotel sembra carino ma è un bluff: il bastone con la tenda cade al
minimo tocco, nei letti si affonda e le lenzuola sono incendiabili, il soffitto del bagno è composto da
pannelli che non ne vogliono sapere di stare al posto loro, lasciando entrare correnti siberiane. Di
fronte c'è una scuola elementare dove i bimbi entrano alle 8, cantano e recitano poesie per mezz'ora,
ed escono alle 18, dopo aver cantato e recitato poesie per un'altra mezz'ora. Il breve soggiorno è
caratterizzato da: birra blanca, empanadas, tramonto mozzafiato all'ora della messa, artigianato
inutile e sopa per cena.
--Il pulmino ci attende per condurci in Bolivia, attraverso scenari di rosse montagne. Effettuata una
sosta ad Abra Pampa per il pranzo (polvere e desolazione), giungiamo a La Quiaca, distante 5121 km
da Ushuaia, estremo sud dello stesso Paese infinitamente largo (cioè lungo) ed estremo sud di tutte
le terre emerse del mondo.
Qui a La Quiaca c'è la frontiera con la Bolivia per giungere a Villazon, dove ci incamminiamo insieme
a decine di persone cariche di sacchi di merce, proteggendoci dal vento, dalla polvere e dal fumo di
copertoni bruciati da alcuni manifestanti. La confusione e i colori di questa cittadina boliviana sono
abbaglianti e lo shopping ci risucchia, come doveva essere.
Tornati in Argentina, per la cena e la notte raggiungiamo Yavi, sede dell'unico marchesato della
provincia, ricordato con un museo che visitiamo insieme all'iglesia. Nell'hostal beviamo vino tinto
davanti al camino. L'altitudine procura mal di testa e difficoltà respiratorie e agogno il livello del
mare. Dopo cena chiacchieriamo con degli italiani che sono in viaggio con le loro enormi jeep
superaccessoriate imbarcate dall'Italia.
Al mattino il freddo è intenso, Renè impreca contro il hijo de pute dell'albergo dove ha dormito come
un surgelato. Lo convinciamo a portarci nei pressi di una duna sul cui fianco ci danno per iscritto il
"Bienvenidos al Huancar" e l'escursione è deliziosa: lama al pascolo, piccola laguna luccicante e
sabbia chiara tutta da scalare.
Rientrati nella ormai nota Quebrada di Humahuaca, facciamo sosta a Uquia (dove sorge la chiesetta
di San Francesco), attraversiamo il Tropico del Capricorno a Huacalera (segnalato da cippo e vela di
pietra) e arriviamo a Purmamarca, dove si affaccia la montagna dai sette colori. Tutto ci ricorda che
la Quebrada è inserita da poco nel Patrimonio dell'umanità: bustine di zucchero, di shampoo, di
cuffie da bagno. Questo riconoscimento ha apportato denari utili a risollevare il paese dove infatti si
costruiscono case a più non posso, con i tetti in canne di bambù raccolte dalla strada adiacente e
legate una per una con filo di ferro (tutto a norma). L'hotel tutto rosa è molto confortevole e il
freddo intenso. Nonostante ciò ancora non è stato avvistato uno spazzolone per il water. Apprendo
che il cerro de los sietes colores, davanti al quale siamo alloggiati, ha acquisito queste splendide
sfumature poiché le montagne contengono notevoli quantità di ferro, zolfo, rame e altri minerali; ma
invece di andarlo a toccare compiendo la "passeggiata dei colori" preferisco andare ad acquistare
tappeti colorati nelle botteghe artigianali.
Abbandoniamo per sempre la Quebrada e procediamo attraverso la puna andina verso le Salinas
Grandes, abbaglianti come un campo da sci. Il ristorante tutto di sale (tavoli, sedie, pareti) è chiuso
perché, secondo l'autista, «quelli non hanno gana de trabajar». Gli scultori di statue di sale fanno
una pausa per partecipare a una mitica partita di pallone Italia-Argentina a quasi 4000 metri di
altura, che vede la vittoria degli indigeni sicuramente perché gli italiani non sono avvezzi a questa
altitudine.
Offriamo torta alla nutella e vino ad altri turisti e lavoratori della zona e ci rimettiamo sulla strada:
tre ore di sterrato polveroso per giungere a San Antonio de Los Cobres (che sarebbe il rame). Il paese
è desolato e polveroso, i pochi abitanti quechua sembra che non se la passino tanto bene, l'unico
riferimento politico alla distantissima capitale te lo ricordano i graffiti elettorali sui muri. L'hotel è
veramente un'isola di tepore e bellezza: riscaldato dal camino, arredato con gran gusto e dotato di
uno chef simpatico e creativo. Il mal d'altura continua nonostante l'infuso di foglie di coca.
Salta la linda
Per raggiungere Salta, compiamo a ritroso l'itinerario del Treno delle nubi, che — quando funziona —
collega Salta a San Antonio attraverso la Quebrada del Toro. Il paesaggio comincia a mutare
radicalmente: verde, mucche al pascolo, grandi fattorie. Ed ecco la grande città, dove la sera fino a
tardi c'è gente, negozi aperti, bancarelle, locali, pop corn, noccioline, cd taroccati, zucchero filato.
A Salta sono presenti numerose testimonianze storiche risalenti all'epoca coloniale. Nella piazza
principale si erge la cattedrale dove, al termine della messa, ha luogo una cerimonia in onore della
vergine di Urkupiña, la Madonna dell'Assunzione nella cultura boliviana. La chiesa di San Francisco
invece — realizzata da un architetto italiano praticamente ubriaco — è rossa e dorata. Il cabildo è un
edificio che risale al periodo coloniale ma fu restaurato a fine '800 per combattere l'eccessiva
europeizzazione architettonica della città; oggi ospita il museo storico, dedicato alla storia della
regione e di Salta stessa, caratterizzata da splendidi portoni, balconi, case antiche.
Al mercato artigianale troviamo la solita paccottiglia di presepi, scialli, terracotte, bamboline; ne
approfittiamo allora per pranzare al sole con humitas e tamales, pacchettini avvolti in foglie di
granturco e ripieni di composti a base di farina di granturco (choclo), formaggio, prosciutto, carne
(insieme alle empanadas sono il nostro pranzo più comune). Nel primo pomeriggio imitiamo le
abitudini locali andando a fare la siesta: la città è calda e deserta. Usciamo giusto in tempo per
raggiungere la teleferica che porta sul cerro San Bernardo e trovarla bloccata, con i poveri sfortunati
che penzolano rinchiusi in quelle gabbiette sospese. Panorama strepitoso su tutta la città che da
lassù sembra la Springfield dei Simpson.
Il mercato coperto alle nove di sera è tutto un casino di ragazzi che mangiano la pizza, casalinghe
che comprano salsicce, uomini soli che guardano la partita in una delle decine di tv sintonizzate sul
campionato di calcio. Buster Keaton ci serve picante de mondongo, pollo e pizza seduti ai tavolini nel
cuore del reparto macelleria: maiali interi appesi ai ganci incombono su di noi.
Piffero, pietà!
Le ultime tappe prima di tornare al capolinea sono frenetiche. Prima di tutto lasciamo con
rammarico questa città davvero linda e attraversiamo il parco Los Cardones, pieno di questi
giganteschi cactus a forma di enormi mani col dito medio puntato verso la volta celeste.
Percorrendo il rettilineo di origine incaica denominato ruta Tin Tin e poi vari sterrati, giungiamo in
questo piccolo centro affollato di turisti: Cachi. Una visita della chiesa ci permette di ammirare
suppellettili, cornici, confessionali, tutti realizzati in legno di cactus. Quindi seguiamo un cane nero
che ci conduce di sua iniziativa al cimitero: le croci, i fiori e i cuori sono accampati in cima a una
collinetta, circondati da magnifiche montagne in quel momento dorate dal tramonto. In ostello si
rompe la caldaia e fa un freddo cane. Concludiamo la serata con caffè corretti in un bar affollato di
turisti americani e italiani (anche perché è l'unico bar).
Per arrivare a Cafayate, città di vino e cantine, bisogna percorrere molte strade dissestate attraverso
le valli Calciques, abitate all'epoca da fieri oppositori degli spagnoli conquistatori. Poi è d'obbligo la
sosta in una bodega a degustare vino, e irrinunciabile la visita alla meravigliosa Quebrada di Cafayate
tra favolose montagne rosse di arenaria tutte da scalare, rocce a forma di castelli, frati, rospi, gole
del diavolo e anfiteatri. A cena piano-bar con applauso a ogni gruppo di commensali provenienti da
Rosario, Buenos Aires, Cordoba, ITALIA (campioni del mondo). Però oggi, dopo diversi giorni di cd in
bus, chiediamo con vigore: Piffero, pietà! Il "Gelato Miranda" è citato da tutte le guide del mondo per
il suo gelato al vino e infatti ne approfitta per venderlo a prezzi europei; in gelateria incappiamo in
un ennesimo gruppo di oriundi italiani che per fortuna hanno attività ben avviate e ci riferiscono dei
loro parenti di Milano, Firenze, Calabria.
Il giorno dopo visitiamo le ruinas di Quilmes, un insediamento precedente all'arrivo degli Incas, di cui
rimangono mortai, muri perimetrali, punti di osservazione panoramici da cui guardare i cactus a
perdita d'occhio. A seguire il museo della Madre Terra (Pachamama), un altro culto tipico della
cultura andina, a cui sono dedicate feste e cerimonie di offerta. Qui osserviamo le ricostruzioni di
come si viveva anticamente nelle quebradas e passeggiamo tra enormi statue che fanno rivivere le
icone di antiche culture indigene.
Dopo un pranzo con tempi d'attesa biblici, per ricevere poi le solite empanadas e milanesas di pollo,
sosta nella località denominata El infernillo a 3000 metri di altitudine, con lama paciosi messi lì dalla
proloco per farceli fotografare. Passeremo la notte a Tafi del valle, la località di villeggiatura dei
cittadini di San Miguel de Tucumán, che così sfuggono al caldo estivo. Ora però è inverno e non c'è
nessuno e la piscina è vuota. Fuori stagione anche i ristoranti, di solito così affollati che sottolineano
a grandi lettere stampate quanto sia importante la pazienza quando aspetti da mangiare, sono
semivuoti; e meno male che c'è il mago Harry che ci intrattiene con qualche gioco di prestigio.
San Miguel de Tucumán è l'ultima tappa prima del rientro a Buenos Aires. Prima di arrivarci ci
fermiamo in punti panoramici con l'intento di contemplare due statue gigantesche, El Indio e il Cristo
gigante, ma essi risultano invisibili a causa della nebbia. Tucumán è una grande città, di pomeriggio
affollata di studentesse in divisa scolastica che prevede sempre una minigonna, anche per le
ciccione. Visitiamo la Casa dell'Indipendenza, dove ci viene illustrato il cammino storico che ha
portato alla nascita dello Stato argentino: dalla conquista spagnola del 1536 al vicereame del Rio de
la Plata (creato nel 1776 dalla Spagna e che comprendeva anche Paraguay, Uruguay e Bolivia), alle
prime aspirazioni all'indipendenza che maturarono in età napoleonica. L'indipendenza fu proclamata
ufficialmente in questo edificio in occasione del Congresso di Tucumán, il 9 luglio 1816.
Nel resto del pomeriggio la sottoscritta decide di varcare la soglia di una peluqueria dopo ben 17
anni, sfoggiando al termine dell'operazione un taglio sbarazzino.
Quanto mar per l'Argentina
E abbiamo piste infinite / negli aeroporti d'Argentina / lasciami la mano che si va. / Ahi, quantomar
quantomar per l'Argentina. / La distanza è atlantica / la memoria cattiva e vicina / e nessun tango
mai più / ci piacerà.
[ Ivano Fossati, "Italiani d'Argentina" ]
A Buenos Aires mi prende un'urgenza visiva incontenibile: «Taxi, alla Boca!» Il sole sta ormai calando
e fra poco non potremo più fotografare le case in legno e ferro ondulato, tinteggiate dagli immigrati
di inizio secolo con le stesse vernici a colori vivaci usate per dipingere le imbarcazioni. Siamo in un
quartiere portuale; le vie più vicine al fiume sono quelle più turistiche e anche fotogeniche, ma allo
stesso tempo davvero sorprendenti, piene di ballerini e cantanti di tango, disegni e dipinti del
quartiere esposti uno dopo l'altro, bar e ristoranti caratteristici. Ballerine nerovestite prendono i
nostri uomini e li baciano sulla bocca lasciando sulle labbra tracce rosso fuoco. Al ristorante, tra una
empanada e l'altra, il gestore, anche lui oriundo italiano, mi racconta delle comunità di molfettesi
che risiedono in questo quartiere popolare. A pochi isolati c'è la Bombonera, lo stadio del Boca
Juniors, la squadra diventata famosa grazie a Maradona.
Dopo aver fatto un salto a San Telmo, il quartiere degli antiquari e dei negozi di classe, all'ora di
punta ci facciamo portare ai campionati mondiali di tango, dove riusciamo a vedere gli ultimi
concorrenti in gara. A cena non posso dire di no all'ultimo bife de chorizo, una gigantesca e
succulenta bistecca; musicista di tango e attore borgesiano ci allietano una decina di minuti. Infine
mi portano all'anelata serata di tango, che non è altro che un triste stanzone simile al salotto di mia
nonna ma più capiente, dove gente eterogenea e orribilmente vestita balla un tango dopo l'altro,
ogni tanto intervallato da un merengue o un rock'n'roll.
All'aeroporto, al momento del controllo dei bagagli a mano, ci fanno buttare tutti i liquidi: acqua,
vino, soluzione per lenti a contatto, shampoo eccetera. Chi si rifiuta di mollare la sua preziosa
bottiglia di vino acquistata apposta nella bodega di Cafayate, deve berlo in presenza degli incaricati.
Giunta in Italia scopro che è stato sventato un attentato aereo in Gran Bretagna, nel quale gli
esplosivi erano contenuti in bottiglie di liquidi e che questa era l'incredibile misura di sicurezza presa
a livello internazionale.
Il viaggio di 13 ore è interminabile come all'andata, grazie anche all'equipaggio della Aerolineas
Argentinas che è composto nella quasi totalità da gente che ha sbagliato lavoro. La maggior parte di
loro, anche sforzandosi, non riusciva a comporre un sorriso, e chi ci riusciva sembrava che la faccia
gli si stesse sfasciando dalla fatica. Avere un bicchiere d'acqua era un'utopia, per cui dovevi
approfittare dell'unico pranzo servito per accaparrarti qualche lattina. I film erano gli stessi
all'andata e al ritorno, scelti probabilmente da un'apposita commissione che pensava di dover
organizzare il cineforum di una scuola media. Ma d'altra parte, si sa, dall'Argentina la distanza è
atlantica e la memoria cattiva e vicina.
(agosto 2006)
NON VOGLIO IMPARARE A BALLARE
Viaggio a Cuba
Conoscevo Cuba attraverso le storie di Pedro Juan Gutierrez, il trasgressivo scrittore considerato il
Bukowski del Caribe. Per questa ragione ero preparata alla sporcizia, alla trascuratezza, al sudore,
alla carenza d'acqua, all'arrabattarsi, al rum economico e allo sfacelo. Però avevo in testa una
valanga di altri ritagli che non sapevo bene in che parte del puzzle sistemare: cartoline delle spiagge
di Varadero, soggiorni nella perla dell'arcipelago Cayo Largo, mojitos e havana club, aragoste e
Cohiba, turisti protetti dalla polizia e fidanzatine di una settimana, rumba e son, Compay Segundo e
Ibrahim Ferrer, congas, gardenias e carreteros, l'hombre sincero che coltiva la rosa bianca, guajira
guantanamera, il Che morto con cento colpi in un giorno d'ottobre in terra boliviana, Venceremos
adelante. Lì, alla fine, ho trovato decine di altre Cuba e il puzzle, in un certo senso, ha cominciato a
prendere forma. Ma diverse tessere ancora non sono riuscita a collocarle.
Vivo en un pais libre
Il nostro uomo all'Avana si chiama Manuel. Ci aiuta a rintracciarlo il cugino di Milvia, una meravigliosa
donna cubana bianca dall'incantevole accento ispano-veneto, con la quale ho condiviso il sorvolo
dell'Atlantico. La sua fortuna è stata andare a studiare nella Germania dell'Est prima della caduta del
Muro di Berlino e lì conoscere quello che sarebbe divenuto suo marito (ricco costruttore, proprietario
di villa con piscina e cani e bambini stupendi). È l'una di notte all'aeroporto "Josè Martì" della
capitale cubana, ma nessuno pare farci caso; tutti fumano e sorridono. Un chofer baffuto
accompagna los cinco in hotel.
Avendo dormito ben otto ore in aereo, mi vedo costretta ad attendere l'alba al bar dell'albergo,
sorseggiando le due birre preferite dai cubani: la Cristal e la Bucanero. Ne smezzo un paio con un
giovane tecnico telefonico che l'indomani sarebbe partito per Las Tunas, per trascorrere le vacanze
natalizie insieme alla sua famiglia. Per prima cosa mi monetizza il suo stipendio, argomento che ogni
cubano tira fuori pochi istanti dopo le presentazioni. Nel suo caso sembrerebbe ammontare
all'equivalente di 14 euro, cioè 17 pesos convertibili — i cosiddetti CUC, la moneta che dal 2004 ha
sostituito il dollaro per tutti quei commerci legati all'economia non socialista. Una lattina di birra
invece costa poco più di un euro.
Stabilito chi offre le birre, può raccontarmi del suo percorso scolastico. In questo Paese è
obbligatorio avere il diploma di scuola superiore per ottenere un lavoro e, poiché se non lavori
potresti anche essere arrestato, va da sé che sono tutti come minimo diplomati. Per verificare che
tutto ciò sia vero somministro al tecnico installatore qualche esercizio di analisi logica: sufficiente.
Nel frattempo ho appreso che le trasmissioni che possiamo aprovechar in quel momento sui due
maxischermi, i cubani non le possono guardare a casa propria, perché la TV satellitare è vietata e se
vengono scoperti sono costretti a pagare una multa molto salata. Deduco quindi che il mio amico non
ami le telenovelas, le lezioni di ingegneria meccanica, le partite di baseball e l'altra consueta
programmazione "rivoluzionaria" delle reti nazionali. D'altra parte vive con la vecchia nonna, perché
— come se non bastasse — le case non si possono comprare né vendere. E non si possono nemmeno
affittare, almeno ufficialmente. Lo scenario comincia a delinearsi.
La Reina de La Habana
La prima giornata da turista scopro che qui è tutto truccato. I muri scoloriti mi avvisano che
vinceranno patria o muerte, mi annunciano che il socialismo si difende unidos y combativos, mi
comunicano trionfali che la revoluciòn è in ogni quartiere. La bandiera nazionale monostella sventola
con persistenza accanto agli eroi a cavallo e alla sfilza di lampioni liberty. Allungando lo sguardo, da
una parte si intravedono i grattacieli, dall'altra, in lontananza, il forte del Morro, che si trova all'altra
estremità della baia dell'Avana. E dovunque la decadenza. I condomini hanno facciate da antologia,
ma sono in rovina, gli intonaci sono scrostati, l'abbandono non potrebbe essere più evidente. In
pratica, l'Avana cade a pezzi.
Siamo all'inizio del quartiere Vedado. Il famoso Malecon è a pochi passi e il mare blu intenso non è
agitato da ondate paurose come lo immaginavo, per cui si può tranquillamente pescare in piedi
sull'argine o addirittura tuffarsi e arpionare le prede a mani nude. Lo sfondo è costituito da nuvole
bianche molto fotogeniche e il mio sollievo è enorme, considerati gli ultimi miei viaggi tropicali
funestati da monsonici cieli grigi cancella-colori. Mentre pensavo che la temperatura fosse quella che
ogni essere umano desidererebbe e che avrei camminato su questo lungomare per sempre, arriva
Damiano, guidatore autorizzato di calesse. Questo ometto col cappello a visiera ci istiga a fare un
giro della durata di un'ora cubana alla scoperta della consistenza habanera. In pratica: ci porta
dall'amico che spreme la canna da zucchero, ci aggiunge un dito di rum e fa pagare questo
pregiatissimo cocktail 3 CUC; ci racconta che la mamma lavora alla fabbrica di sigari e che ha la
possibilità di farci lo sconto del 300%; ci fa entrare in un ristorante gelido e scarsamente illuminato,
impietosendoci con la storia che gli regalano il dentifricio e la saponetta.
--Mentre percorriamo a passi lenti il classico itinerario turistico del'Avana vecchia, ci imbattiamo in una
serie di personaggi che in qualche modo cercano di sbarcare il lunario: donne mascherate da antiche
habaneras che fumano sigari giganteschi, un vecchio con i capelli bianchi che imita Che Guevara, un
tizio che anni fa fu fotografato da quelli della Lonely Planet e continua a vestirsi esattamente come è
vestito nella copertina della guida, un terzetto in bicicletta composto da un uomo e due bassotti
(tutti col cappellino), decine di sosia dei Buena Vista Social Club che suonano nei bar, un giovane
studente di medicina che — chiacchierando con quella cantilena ipnotizzante che hanno loro — ci
scrocca un mojito.
Quando ne ho abbastanza del patrimonio storico ridipinto con i colori originali grazie ai soldi
dell’Unesco, abbandono definitivamente il set dell'Habana Vieja ed entro in Centro Habana. In questo
bar in calle San Rafel ordino un soft drink, che bevo al tavolino sui centrini di pizzo, tra puzza di
fritto e musica non cubana. Mentre sollevo gli occhi per osservare una vecchia malridotta che si
aggira furtivamente cercando di vendere un pacchetto di chewingum, mi sento osservata. «De donde
eres?» mi chiede sorridendo una dignitosa signora seduta al tavolo accanto, in compagnia del figlio e
della nuora. «Beata te che puoi viaggiare!» dice lui col cappello da baseball e lo sguardo lontano «Noi
non siamo liberi». «Questa cena non la possiamo pagare con i nostri stipendi» aggiunge la giovane
moglie. Intanto arrivano le loro enormi pizze e mi invitano a mangiare con loro.
Ma io devo andare alla Casa de la Musica nella calle Galliano. Antonio, un cameriere uguale a
Banderas che stava sulla porta a fumare, mi indica la strada. Sul palco suona dal vivo un nutrito
gruppo di tamarri, e anche in pista le magliette più di moda sono elasticizzate, stampate nei colori
moda oro e argento e chi se lo può permettere sfoggia scritte Armani e Dolce & Gabbana in ogni
dove, catenoni d'oro e occhiali giganteschi. Questa ragazza apparentemente minorenne, priva di
mutande e in pratica priva anche di gonna, si dimena indefessamente davanti a Lorenzo. Lorenzo,
però, non è intenzionato ad imparare a ballare.
Un hombre sincero
Manuel doveva palesarsi a las nueve de la mañana in hotel, dunque — intuito rapidamente l'andazzo
generale — possiamo stare tranquilli che come minimo fino a mezzogiorno la nostra querida
presencia non sarà richiesta. Possiamo dunque raggiungere plaza de la Revolución, una delle piazze
più grandi del mondo. Più di un milione di cubani si sono radunati qui durante importanti celebrazioni
politiche, ma anche per ascoltare Jovanotti che canta "Penso positivo". Su un lato della piazza svetta
il monumento a Josè Martì, eroe, patriota, rivoluzionario, intellettuale, storico, sociologo, poeta,
martire e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una torre alta più di cento metri accompagnata da
un'enorme statua bianca dell'ometto, accigliato e compreso nel suo ruolo come si conviene. Con
l'ascensore si può arrivare al punto panoramico più alto dell'Avana e ammirarla in tutto il suo
splendore di grattacieli e giardini e quadras e mare bluissimo in fondo, mentre gli enormi avvoltoi
che svolazzano si ritagliano uno spazio in quasi ogni foto. Se vuoi portare con te la macchina
fotografica il prezzo del biglietto (mezzo stipendio medio di un cubano) raddoppia e già lì ti girano
un po' le palle. Quando arrivi su e ti accorgi che tutti gli affacci sono protetti da vetri di una sporcizia
incommensurabile, ti senti definitivamente preso per il culo.
Sulla via del ritorno, mentre passeggiamo pigramente schivando le palle da baseball colpite con
veemenza dai ragazzini, per errore compro un gelato con un peso convertibile invece di un peso
cubano (in poche parole gli pago 25 gelati). Questa doppia moneta comincia a sembrarmi
un'assurdità.
Al bar dell'hotel cerco di raccogliere informazioni sulla Playa del Este, ma gli interpellati sono troppo
impegnati ad appendere enormi angeli dorati a mo' di decorazioni per la festa in programma la sera e
poi il volume dei video dei Van Van è troppo alto per riuscire a capirci qualcosa. Nell'indecisione
ordino una Cristal. In quel mentre sopraggiunge al bancone Lazaro, il quale per prima cosa dice che
conosce un po' di italiano perché sua sorella vive a Milano. Ripensandoci, la consequenzialità logica
tra le due affermazioni non è così evidente come mi era sembrato in quel momento.
Questo medico specializzando in neurochirurgia sta in paranoia per due motivi: 1) gli hanno rubato il
cellulare; 2) vuole diventare il più grande chirurgo di tutti i tempi. Nel frattempo studia su dei libroni
di antiquariato pieni di polvere e — come tutti i cubani un po' svegli — si arrangia come può. Infatti ci
conduce al paladar "La Tasquita", un ristorante autorizzato dallo Stato, di norma situato praticamente
dentro una normale casa. Il cibo è, come promesso, una exquisita comida criolla. Lazaro cita il fatto
di cronaca italiano del momento: Berlusconi colpito al volto da un souvenir a forma di Duomo di
Milano. Se, mentre parla Fidel, — fa lui — un uomo non dico lancia un Capitolio in miniatura, ma
soltanto fa il gesto di lanciarlo, in tre secondi è circondato da un plotone armato. Il futuro
neurochirurgo ci spiega inoltre che la sanità a Cuba è totalmente gratuita e molto qualificata, e
infatti la diffusione dell'Aids è molto limitata, la speranza di vita è quasi a livelli europei e anche la
mortalità infantile ha un'incidenza molto bassa.
Lazaro fa dei turni molto particolari in ospedale, tipo che lavora 24 ore filate e poi per due o tre
giorni sta a casa. Siccome oggi sta a casa, terminato il pranzo ci conduce in un condominio affollato
come un alveare, dove possiamo acquistare dei sigari di qualità a prezzo scontato, offerta riservata
agli universitari ma di cui possiamo approfittare anche noi. Siamo vicini alla celebre gelateria
Coppelia, nota per i tempi di attesa così lunghi che innumerevoli coppie si sono conosciute e
fidanzate mentre erano in fila; non per niente nel film "Fragola e cioccolato" fa da scenario
all'incontro tra lo scrittore omosessuale critico del regime e il bravo giovane studente rivoluzionario.
La sera in hotel c'è la grande festa della vigilia di Natale e l'eleganza regna sovrana: la regola
naturalmente è che più oro hai addosso meglio è. Io, visto che non sono interessata a ballare, me ne
vado a dormire.
La Carretera central
¡Buendia compañeros! La Carretera central ci attende e con lei tutti i cubani possibili che stazionano
sul bordo della strada sventolando le banconote nella speranza di essere caricati su. Quando avevo
visto queste situazioni nei film di Tabío, avevo pensato che fossero state ingigantite per far ridere,
invece sono tutte reali. La prima tappa è Punta Perdiz dove c'è un mare da sogno e nessuno che ne
approfitta, così posso godermi un bagno favoloso e poi mangiare la grigliata di pesce al tavolino.
Siamo nella famosa Baia dei Porci, dove nel 1961 avvenne lo sbarco dei mercenari al soldo degli
americani con l’intento — clamorosamente fallito — di rovesciare il governo Castro. Questo episodio è
molto famoso perché da lì derivò una crisi internazionale durante la quale il mondo temette
seriamente un'esplosione nucleare e poi si posero le basi per l'embargo da parte degli USA o, come
dicono qui, il bloqueo, che d'altra parte dura tuttora e continua a rappresentare un credibile
paravento a cui ascrivere tutte le disfunzioni dell'isola.
Allo sbarco è dedicato il museo di Playa Giròn, a 10 km di distanza. Lì dentro, prima ci propinano il
documentario con filmati originali dell'epoca, poi visitiamo l'esposizione permanente che comprende
le divise dei barbuti, le lanterne, le fotografie, molti documenti e vari altri oggetti, corredati da
pannelli che spiegano ad esempio che prima del "trionfo del socialismo" i bambini e gli adulti
morivano per la carenza di strutture mediche, il tasso di analfabetismo era altissimo, i mezzi di
comunicazione erano inesistenti e l'economia sottosviluppata. Invece oggi a Cuba la sanità e
l'istruzione sono completamente gratuite; in merito all'economia e alle comunicazioni invece avrei
qualcosa da ridire. La propaganda, comunque, si taglia con il coltello.
La casa de la musica
La vita è una rumba, Boy, una guaracha. Bisogna prenderla come viene, senza aspettarsi troppo. È
meglio ballare, bere e divertirsi. Impara da me.
[ Pedro Juan Gutierrez, "Il nostro GG all'Avana" ]
Effettuiamo una sosta breve nell'elegante Cienfuegos, che in questo primo pomeriggio natalizio è
placidamente assorta. La luce è liberty e squisita nella piazza quadrata su cui si affacciano il teatro
Terry e la cattedrale, mentre il Che, con basco e stella, da più parti ribadisce i suoi slogan. La
cittadina si affaccia sulla sognante baia omonima, che percorriamo per ammirare eleganti ville.
Giungiamo a Trinidad dopo un toccante tramonto che indora la sierra in lontananza, condito dai video
di musica salsa che si alternano al televisore del bus. È ormai buio mentre prendiamo posto nella
casa particular. La padrona di casa, una psichiatra dal sorriso più dolce del mondo, ci accompagna sul
selciato sconnesso fino alla sua abitazione, ingabbiata da grate di ferro bianche. Mi spiega che per
poter affittare parte della propria abitazione è necessaria un'autorizzazione statale e viene richiesto
il rispetto di ben precise regole ed il pagamento di corpose tasse. A cena sul terrazzo si susseguono i
soliti, numerosi mojito, che agli italiani non piacciono un granché perché l'erba non è pestata, il
ghiaccio è inesistente e lo zucchero di canna non è granuloso. Per loro fortuna qui c'è un altro
cocktail tipico, chiamato "canchanchara", preparato con il liquore di miele.
Trascorriamo il resto della serata alla Casa della musica, un locale all'aperto vicino alla cattedrale
dove fior di musicisti suonano dal vivo, diverse coppie ballano e tutti gli altri stanno seduti su
un'enorme scalinata simile a quella di Piazza di Spagna. In realtà gli unici cubani che ballano sono
maschi e quelli che ballano con le turiste sventolano gran mazzi di banconote. Tra questi c'è Gavino
(nome di fantasia dovuto alla sua somiglianza con un pastore sardo) che è dotato di molte amiche di
tutte le nazionalità. Io invece resto sulla scalinata perché, come si è capito, non ho nessunissima
voglia di imparare a ballare.
Sulla via del ritorno ci rendiamo conto che le case colorate con le inferriate sono tutte uguali e
dunque soltanto dopo un lungo peregrinare in questa infinita scacchiera riusciamo a raggiungere la
nostra.
--Alla luce del sole risplende la bellezza soporifera di questa cittadina, con le facciate delle case
turchesi e gialle e verdi e rosa intonacate grazie ai soldi dell'Unesco, con le vie attraversate da
carretti a cavallo, con i ritagli di luce e ombra stampati sulla strada, con le balaustrate e i cortiletti
fioriti, e con una quantità di bambini sorridenti in bicicletta, e vecchi stupendi che si muovono ad
una lentezza strabiliante, certamente chiedendosi che diavolo vogliono da loro tutti questi turisti.
Raggiunta la Playa Ancón, trascorriamo la maggior parte del tempo in una gita in catamarano, dal
quale è possibile tuffarsi ed effettuare lo snorkeling. Peccato al ritorno verso riva quell'orrendo hotel
Ancón che rovina il panorama. In ogni caso, sulla spiaggia si possono affittare i lettini e anche
ordinare delle squisite piña colada direttamente a domicilio.
Nella controra dell'afosa Trinidad mangiamo dei panini da El rapido, il fast food indigeno affacciato
sulla piazza centrale, e poi mentre il sole si avvia a tramontare passeggiamo sotto qualche goccia di
pioggia in pieno vecchio West osservando case di legno, ampie verande con le panche e le sedie a
dondolo, la cattedrale e i diversi locali caratteristici dove c'è sempre qualche bravo musicista
all'opera, anche se il tutto sembra fatto apposta per i turisti, persino tenere le porte delle case
aperte, da dove puoi spiare Tom e Jerry alla televisione e le foto dei bambini nudi e gli animali di
peluche. Per cena nel terrazzino pieno di fiori della casa particular ci sono i camarones e la yucca
affogati nell'aglio, gli immancabili tostones, cioè il platano fritto a rondelle, e infine la macedonia,
rovinata da quell'orrendo frutto rosa fucsia con i semini che si chiama guayaba. — Mi amor, mi amor!
— cinguetta la psichiatra tra i suoi libri vecchi e i suoi orrendi cani di ceramica.
Todo Santa Clara se despierta para verte
Il valente chofer di bus, Pedro, dentone baffuto con al seguito una bambolina muta dalle
acconciature antiquate (sua figlia Wendy), ci conduce nella Valle de los ingenios, che sarebbero i
mulini della canna da zucchero. Come d'abitudine turistica si sosta in un bar panoramico (il Mirador
de la Loma del Puerto) da cui si gode un ampio belvedere del paesaggio. Qui si può assaggiare il
guarapo, ossia il succo della canna da zucchero, che viene spremuta da questo marchingegno fino a
secernere una grande quantità di liquido, molto meno dolce di quanto potete immaginare. La tappa
successiva è la Torre Iznaga, che serviva per tenere sotto controllo gli schiavi al lavoro nei campi.
L'antica hacienda accanto è stata trasformata in un ristorante e volendo si può fare un giro su questa
locomotiva d'epoca.
A Sancti Spíritus, il capoluogo di provincia, è una domenica pomeriggio di ristoranti chiusi, cani
malati e afa immobile. Digiuni raggiungiamo Santa Clara, dove ebbe luogo la battaglia decisiva della
rivoluzione cubana, quella che trasformò in mito il comandante Ernesto "Che" Guevara. Per questo
motivo hanno costruito qui il suo monumento, sotto il quale sorge il memorial che contiene le sue
spoglie mortali e la fiamma perenne, accesa da Fidel dopo il ritrovamento delle presunte ossa in
Bolivia nel 1997. Accanto un piccolo museo racconta l'avventurosa vita del Che con oggetti personali,
come ad esempio il giubbotto che indossava quando Alberto Korda gli scattò la foto più famosa del
mondo intero. Nei pressi c'è anche il Monumento al Treno Blindato, che ricorda una delle imprese più
eroiche dell'Argentino, quando nel 1958 si impossessò di un treno carico di armi e munizioni, inviato
da Batista a rinforzo dell'esercito regolare.
--Qua sono tutti ingegneri dottori professori fisici nucleari, anche quelli che affittano la propria casa ai
turisti e cucinano e puliscono e fanno conversazione sfoggiando il loro miglior sorriso. A Remedios ad
esempio alloggiamo nella casa di Josè, professore universitario di economia. Suo figlio, che ci viene
presentato subito insieme alla fidanzata, invece insegna educazione fisica e scacchi. Josè è un
incrollabile ottimista. Ci racconta con entusiasmo che viaggia per lavoro, per esempio è stato
ospitato in alcuni Paesi amici del Sudamerica, e non ritiene un problema il fatto che per recarsi in
qualunque altra nazione del mondo per tutti loro sia necessaria una scoraggiante trafila burocratica.
Cuba infatti ha stretto accordi con il Cile, con il Brasile e soprattutto con il Venezuela di Chavez, che
possiede il prezioso petrolio, in cambio del quale gli vengono spediti migliaia di medici; però lasciare
il Paese non rientra ancora tra i diritti fondamentali di un cubano. Così come mancano all'appello
altri fondamentali diritti, come quello alla libertà di informazione. Questo professore usa internet ma
glissa sulla censura, non gli risulta che le mail vengono controllate, non sembra preoccuparlo che i
cellulari, introdotti nel Paese da pochi mesi, abbiano costi proibitivi.
Si scopre che, per soli due giorni di ritardo, ci siamo persi l'appuntamento mondano dell'anno, La
Parranda, che è una sorta di Carnevale che ha luogo la sera della vigilia di Natale, durante il quale i
due quartieri della cittadina si sfidano in una gara di carri, impalcature, maschere e fuochi d'artificio
che richiedono una lunga preparazione segretissima. Al termine della gara in realtà il vincitore
praticamente nessuno si ricorda chi era, questo per dirvi il livello alcolico che si può raggiungere. I
carri abbandonati occupano ancora gran parte della piazza della Cattedrale e, se proprio uno vuole
approfondire l'argomento, può recarsi al museo delle Parrandas. Per fortuna noi non ne abbiamo
bisogno, in quanto una cover della festa si svolgerà proprio stasera nel vicino comune di Caibarién,
dove ci rechiamo dopo cena. Bancarelle, maialini arrosto, spaghetti, panini giallo fosforescente,
giostre, salsa moderna e reggaetón rendono l'esperienza allegra e spensierata. Io già non ero
interessata a imparare a ballare la salsa, figuriamoci il reggaetón.
No quiero aprender a bailar
I cayos sono gli isolotti corallini, quasi sempre sinonimo di turismo molto poco fai da te. Cayo Coco è
collegato alla terraferma da una lunga strada, costruita recentemente scatenando le ire degli
ambientalisti, perché lì vicino nidificano i fenicotteri. Prima di imboccarla vi è un posto di blocco per
il controllo passaporti, poiché l'accesso è vietato ai cubani, i quali potrebbero approfittare della
vicinanza con la Florida per prendere il largo e abbandonare il Paese per sempre; cosa che molti
disperati hanno fatto, soprattutto nel período especial, quegli anni successivi al crollo dell'Unione
Sovietica in cui la situazione era veramente drammatica. In spiaggia apprendo dal titolare del
baretto che ormai lo Stato chiude un occhio se un cubano coi soldi (ossia più ladro degli altri) viene
qui previa prenotazione di un ristorante oppure pagando direttamente l'ingresso; l'importante è che
se ne vada a las cinco de la tarde.
Questa spiaggia è davvero "un eden di sabbia chiara bagnato da acque cristalline", come potrebbe
definirla un catalogo in agenzia viaggi, ma per il resto meno male che siamo rimasti un giorno solo.
Intorno ci sono solo hotel a svariate stelle, grandi e costose strutture alberghiere spuntate negli
ultimi anni e villaggi all inclusive con discoteche gelide, prezzi da paura e turisti tristi. Dopo il
bagno, le passeggiate, le noci di cocco, le foto da calendario e il corso di salsa improvvisata,
arriviamo al resort e veniamo istantaneamente aggrediti da un nugolo di zanzare inferocite. Per cena
non possiamo far altro che andare a mangiare al Sitio La Güira, ma poi ce ne andiamo a dormire: se
non me ne può fregare di meno del ballo, non ci penso proprio ad imparare in una discoteca ad aria
condizionata situata in un villaggio all inclusive.
--Attraverso enormi campi di canna da zucchero, ci direzioniamo verso la provincia di Granma, che
prende il nome dall'imbarcazione con cui i rivoluzionari cubani — tra cui Fidel Castro, Che Guevara e
il partigiano italiano Gino Donè Paro — partiti dal Messico giunsero sull'isola nel 1956, con lo scopo di
abbattere il regime di Batista. Man mano che ci avviciniamo a Camaguey, possiamo ammirare le
campagne con i bufali, gli scintillanti torrenti e le maestose ceibe. Ci fermiamo per una sosta in
quella che è la terza città dell'isola, nota per le sue vie perpendicolari tra le quali è facile perdersi.
Per questo motivo una volta cambiati i soldi alla Cadeca, conosciuto l'ennesimo ballerino di salsa con
sorella in Italia e visitato il mercato alimentare, è già tempo di correre al bus, parcheggiato nei
pressi della stazione dei treni, schivando le migliaia di biciclette.
¡Al combate, corred, bayameses!
A Bayamo alloggiamo in un hotel appena fuori dal centro. Come tutti gli altri alberghi che ci hanno
ospitato durante il viaggio, appartiene alla Islazul, una delle cinque catene alberghiere dell'isola,
tutte rigorosamente di proprietà statale. La Islazul è la più economica ed è aperta anche ai cubani,
che infatti qui sono stravaccati nei pressi della piscina e pasteggiano ad Havana Club, ridendo
sguaiatamente. Questa città fiera e bellicosa fu, dopo Baracoa, la seconda città di Cuba ad essere
fondata da Diego Velasquez. Qui inoltre è nato l’inno nazionale di Cuba, "La Bayamesa", suonato la
prima volta durante la battaglia di Bayamo del 1868.
Alla Casa de la trova assistiamo a uno sbrigativo concerto dei soliti meravigliosi vegliardi. Qui conosco
un cubano ciccione che ha una macchina fotografica impegnativa e sfoggia mazzette di banconote. È
accompagnato dalla sorella povera e dal cognato e mi offre un drink (per fortuna non mi invita a
ballare: forse ha già capito il mio totale disinteresse). Il mistero è presto svelato: qualche anno
addietro ha vinto la Lotería del visa e ora vive a Miami. Questo programma speciale di migrazione,
conosciuto anche come "bombo", fu creato nel 1994 e ha permesso ad un certo numero di fortunati
diplomati, con esperienza di lavoro e parenti negli USA, di emigrare negli Stati Uniti. Inutile stupirsi
che il governo cubano lo avalli, considerando quanto le rimesse dall'estero contribuiscano a non far
crollare definitivamente l'economia.
--Al Parco della Sierra Maestra i turisti vanno a fare il trekking nelle stesse selvagge location in cui, alla
fine degli anni Cinquanta, si rifugiarono i rivoluzionari di Fidel durante la lotta armata contro il
regime di Batista. Dal Parque Nacional Turquino (che prende il nome dal monte più alto dell'isola), si
può infatti raggiungere la Comandancia de la Plata, il quartier generale dell’esercito Rebelde a
partire dal 1957. Prima di tutto bisogna raggiungere Villa Santo Domingo, da dove partono le
costosissime escursioni guidate (circa trenta euro, quattro in più se vuoi portarti la camera, com'è
consuetudine a Cuba). Alex, la guida, ci fa presente che allo Stato non gliene importa nulla di
abbassare i prezzi, tanto c'è il monopolio, e che a loro invece li pagano una miseria, quindi se non
fosse per la nostra mancia lui col cavolo che continuerebbe a fare questo lavoro.
Per arrivare fino al Salto de Naranjo, è meglio salire su una jeep in quanto l'eccessiva pendenza
rende molto faticoso andarci a piedi. Qui siamo a quasi 1000 metri, la vista è spettacolare, fa
freschino e si possono raccogliere i mandarini direttamente dagli alberi. Poi si parte per un trekking
di circa tre chilometri, ammirando orchidee, piante di caffè e insomma le tipiche specie delle foreste
tropicali. Infine, giunti nel quartier generale dei rivoluzionari, si possono visitare la capanna che
veniva usata come ospedale, l'ufficio della stampa, il museo con la macchina per scrivere, le armi e
gli altri oggetti appartenuti ai guerriglieri e infine la casa di Fidel; la struttura in legno è stata
ricostruita, ma al suo interno ci sono ancora gli arredi originali: il letto, la scrivania, il tavolo e
persino il frigorifero.
Rebelde ayer, hospitalaria hoy, heroica siempre
Brezza e alcol nelle ruote. / Andrò a Santiago. / Corallo nella tenebra. / Andrò a Santiago. / Il mare
affogato nell’arena. / Andrò a Santiago. / Caldo bianco, frutta morta. / Andrò a Santiago. / O
bovina freschezza delle piantagioni di canne! / Andrò a Santiago.
[ Federico García Lorca, "Son negros en Cuba" ]
A difesa di Santiago e della sua bahia si erge il Castello del Morro, una bellissima fortezza spagnola
risalente al 1600. È da qui che comincio la conoscenza di questa affascinante città. La posizione fa sì
che si possa godere di una stupenda vista sul mare e sul cayo Granma che sta di fronte, attraverso i
ritagli delle finestre e delle feritoie con i cannoni davanti. Dentro c'è un museo sulla pirateria che ci
illustra la differenza tra pirati, filibustieri, corsari e bucanieri, tutti personaggi con cui questa città
ha avuto a che fare per lungo tempo.
Tornata in centro, dalla cattedrale scendo verso il porto. Prima di arrivarci bevo una birretta
comodamente seduta all'ombra in questo terrazzino con preziosa vista mare; il padrone di casa mi
racconta come funziona il mercato nero: a causa dei prezzi alti il pesce e il manzo — monopolio dello
Stato — praticamente sono inavvicinabili, mentre del pollo e del maiale, più economici, ne hanno le
tasche piene. E anche in merito al fabbisogno nazionale non si scherza: sono costretti ad importare
anche cibi di base come il riso.
Mi spingo attraverso il quartiere francese fino alle zone più popolari. In occasione della vigilia di
Capodanno gli abitanti lavano le auto (chi le ha), ballano per strada, arrostiscono maialini da latte in
ogni dove e fanno la fila per comprare birra alla spina. Dovete sapere infatti che il cubano è sempre
in coda: loro hanno la libreta, che sarebbe la tessera con la quale lo stato, a prezzi molto bassi, gli
vende alcuni prodotti. Le quantità e la scelta di tali beni di prima necessità lasciano molto a
desiderare (e a quanto pare anche i tempi di consegna).
Dal centro mi avvio a piedi in albergo; quasi giunta a destinazione, vengo inavvertitamente
accalappiata dal giovane guardiano dello zoo più triste della terra. Lui e il suo collega mi mostrano
questi poveri animali ingabbiati, che pare che non se la passino benissimo (soprattutto i leoni, che
hanno la fossa vicina alla mia stanza, e lanciano delle urla da film dell'orrore, che già la notte
precedente mi avevano fatto venire brividi su tutto il corpo). Il guardiano mi spiega che fanno così
perché sentono l'odore dei maialini arrostiti in ogni dove e gli viene l'acquolina in bocca. Questo
ragazzone ha poco meno della mia età e ha già un figlio ventenne, dice che loro fanno tutto in fretta
e furia.
Giunta in hotel, ordino un refresco al tavolino vicino alla piscina. Un gruppo di italiani sta
festeggiando rumorosamente il nuovo anno all'orario italiano (sono infatti le sei di pomeriggio).
L'attempato bagnino si avvicina con cortesia e come ormai è abitudine entro cinque minuti è
innamorato perso. Mi spiega che la sua sofferenza è di non potermi invitare a cena, perché non
potrebbe permettersi di pagare il conto. Tutti in questo Paese preferiscono lavorare a contatto con i
turisti perché le mance, anche le più irrisorie, per loro sono superiori alla paga di una giornata di
lavoro (in pratica un insegnante guadagna molto di più se fa il lavapiatti).
Per l'ultimo dell'anno è allestito un sontuoso concerto nella Piazza centrale. Invece sulla terrazza
dell'hotel Casagranda (dove alloggiava Graham Greene mentre scriveva "Il nostro agente all'Avana"),
oltre agli avanzi del cenone, è spiaggiato un triste repertorio di facce sfatte di turisti anglosassoni
che indossano ridicoli cappellini, trombette e gadget analoghi; poiché non siamo cubani, anche noi
possiamo andare a berci un paio di piña colada al bancone in tutta tranquillità. A mezzanotte
esplodono i fuochi d'artificio.
Alla Casa de la Musica il gruppo non è malvagio, ma l'ambiente è buio e freddo. Mentre sono fuori in
strada a fumare, attacca bottone questo ragazzo che mi mette in guardia da quei personaggi che mi
si avvicinano perché vogliono ottenere qualcosa da me. Anche lui — mi racconta — un tempo era così,
ma adesso che ha fatto fortuna mi può addirittura offrire una birra. Brindiamo alla sua conversione —
e soprattutto alle sue amiche che gli mandano i soldi dall'Europa.
Alla Casa de la trova chiacchiero con il nipote di Ibrahim Ferrer (il cantante dei Buena Vista Social
Club dagli occhietti vispi e la voce flebile, che ebbe successo a tarda età), bevo un paio di drink e
poi, come capita a tutti i turisti, vengo abbordata. Questo mulatto qui si chiama Angelo, ma lo hanno
soprannominato Leonardo poiché, oltre ad essere un pittore, è anche un inventore come Leonardo da
Vinci. «I negri sono eccessivi in tutto», si lamenta «non sono raffinati». Angelo se ne vuole andare da
Cuba, e io gli dico che sono sicura che cambierà presto la situazione, anche se sinceramente non so
se il cambiamento sarà per forza una cosa positiva. Naturalmente dopo manco cinque minuti è
innamorato anche lui a prima vista (nonostante io gli avessi detto sin dall'inizio che non volevo
imparare a ballare); e dunque te quiero, te deseo e — in poche parole — sono già pronte le
bomboniere.
Non si sa come, ma riusciamo a raggiungere la habitacion con un taxi abusivo, che poi è il solito
carro rosso degli anni Cinquanta, che da fuori è stato riverniciato tante di quelle volte che è
sicuramente diventato più voluminoso di quello che era, ma dentro è un ammasso di ruggine e pezzi
ricavati da chissà quali altri mezzi meccanici che per la grazia di dio si tengono ancora assieme.
Cien años de soledad
Dice essere quell'isola la più bella che occhi umani mai abbian visto.
[ Cristoforo Colombo, "Diario del primo viaggio" - 28 ottobre 1492 ]
Baracoa, la capitale del cacao, occupa la punta più orientale dell'isola. È faticoso spingersi fin qui ma
il paesaggio è sicuramente il più piacevole paesaggio tropicale che io abbia mai visto. Superata
Guantanamo, fuori dal finestrino cominciano a scorrere i cactus, i palmeti e le coste scoscese (simili
a quelle del Gargano) della costa Imías, finché si è costretti a tagliare nell'interno percorrendo la
serpeggiante strada La Farola ("A caballo vamo’ pa’l monte"). Man mano che ci si avvicina, la
vegetazione diventa sempre più verde brillante di palme da cocco, banani, mango, guayaba, caffè e
cacao. Baracoa fu la prima capitale cubana quando Diego Velazquez arrivò dalla Spagna nel 1511 ed è
rimasta isolata dal resto dell'isola per circa 450 anni. Poiché sorge su un promontorio, infatti, fino
agli anni ’60 era raggiungibile solo via mare ed è tuttora circondata da una giungla rigogliosa.
Al centro di questa cittadina tranquilla e affascinante c'è la Catedral de Nuestra Señora de la
Asuncion, che custodisce la croce che probabilmente Cristoforo Colombo piantò sulla spiaggia di
Baracoa nel suo primo viaggio, oppure — più verosimilmente — che qualche altro spagnolo dell'epoca
portò dall'Europa. Di fronte alla chiesa c'è il busto del capo indio Hatuey, il primo guerrigliero
cubano, che all'inizio del 1500, dopo mesi di strenuo combattimento in difesa del suo popolo, fu
torturato e ucciso sul rogo dagli spagnoli. Passeggiando senza meta si incontrano gallerie d'arte e
centri culturali, murales e fiancate di legno dipinto, locali e bancarelle, corsi di salsa frequentati da
tardone con ballerini carini e turisti europei rapiti dall'atmosfera. Procedendo lungo la strada
panoramica si può ammirare tutta la baia arrossata dall'atardecer, con quel trapezio dello Yunque a
fare da guardia e un relitto abbandonato nel mezzo. Proseguendo si arriva al Malecon, guarnito da
orrendi palazzoni, alcuni dei quali sventrati dal terribile uragano del 2008.
Ci sistemiamo presso la casa particular di Rafael e Yasmine. A lui in paese lo chiamano El Gordo a
causa della sua enorme stazza, e quando lo dicono allargano un po' i gomiti. Lei si chiama Yasmin
perché negli anni '70 andavano di moda i nomi di donna che iniziano con la Y. Entrambi al momento
hanno lasciato i loro precedenti lavori e si occupano solo della casa, per cui si sono specializzati nella
cucina e nella preparazione di cocktail: el Gordo — si autopubblicizza — prepara il miglior mojito che
abbiamo mai assaggiato in vita nostra. — ¡No me digas! Per cena invece ci servono un'ottima zuppa di
fagioli, filetto de “peccao”, insalata di pomodori, lattuga e cavolo, banane fritte e postre. E
comunque si mangia benissimo in tutte queste case particolari cubane.
Vicino Baracoa c'è la Playa Maguana, bianca e palmosa: non ci sono strutture di cemento che la
rovinano e il mare è ottimo per un bagnetto. Peccato i tedeschi alcolizzati e sbruffoni che
frequentano il bar, le scrofe che ficcano il muso negli zaini rubando pacchi di cracker interi e pisciano
sugli asciugamani, i cani randagi e i venditori di noci di cocco, oggetti in legno, cacao, pesce e
quant'altro, che non ti lasciano un minuto in santa pace. Al calare del sole raccattiamo le nostre cose
e ce ne torniamo in città.
Il dopocena comincia alla Casa de la trova, piccola ma molto accogliente e movimentata, dove si
alternano concerti dal vivo sin dal pomeriggio. Poi seguo questo tipo — amico dell'autista — col
cappellino a visiera e la collana invadente, che già al mattino era salito sull'autobus a fare il di più. A
dirla tutta non mi sta tanto simpatico: forse è una questione di pelle, o forse perché è intelligente e
si approfitta dei turisti cazzoni. Fatto sta che andiamo sulla Terrazza, che è un altro locale poco
distante, dove acquista una bottiglia di ron blanco per 5 cuc, che prodigalmente mi offre. In realtà il
tipo non è affatto un rompicoglioni come gli altri, ma purtroppo è accompagnato da un
insopportabile amico ciccione interamente vestito di bianco, così sono costretta ad abbandonarli al
loro destino e a seguire lo spettacolo in solitudine. Lo show è condotto da un presentatore pomposo e
propone una quantità di balletti supercoreografici pieni di molti culi e tette in movimento.
--Lo Yunque è una montagna con la sommità piatta, già citata da Colombo nel diario del suo primo
viaggio. Volendo, se ne può raggiungere la cima, tanto è alta meno di 600 metri, ma noi ci
accontentiamo di un'escursione nei suoi dintorni di foresta vergine, piante rare e piscina naturale. La
passeggiata è molto facile e piacevole e la nostra guida, un negro che negli anni '80 — insieme a tanti
altri sfortunati — fu spedito da Fidel a combattere in Angola, ci mostra le piante tipiche come la
papaya e l'ananas, i fiori come la mariposa (simbolo di Cuba) o come quello da cui si estrae un
colorante naturale rosso, vari uccelli tra cui il colibrì. La montagna a forma di incudine si intravede
ogni tanto tra le palme, finché non arriviamo al fiume. Qui bisogna prima togliersi tutti i vestiti, poi
guadare stando attenti a non bagnare la borsa e soprattutto a non farsi spazzare via dalla corrente.
Potrebbe infatti capitare di poggiare male il piede sui ciottoli arrotondati e scivolare perdendo una o
più ciabatte. Il bagno in questa pozza d'acqua freschissima è la solita meraviglia di tuffi e paesaggio e
massaggio sotto la cascata.
Alla Casa de la trova già suonano, così mi fermo con i capelli ancora bagnati. Un gruppo di ragazzi del
posto vuole insegnarmi a suonare il guiro, anche perché hanno capito che di ballare proprio non ne
voglio sapere. In realtà non riescono a capacitarsi di questo mio disinteresse. Uno di loro, che mi
accompagna a fare due passi, mi confessa che, anche nei suoi momenti più tristi, la musica lo rende
felice e gli fa scordare tutti i guai. Non riesce a star fermo, ce l'ha nel sangre! Non capisce come è
possibile che io non lo senta allo stesso modo. Naturalmente è disperato perché l'indomani partirò e
tutte le volte è così e come sono sfortunato e insomma il melodramma incombe. Ma se ci stiamo
parlando soltanto da due minuti!
Stasera si cena fuori, al Colonial, con la solita monotona scelta tra “peccao”, “langota”, “poio” e
“serdo”, l'insalata mista di verdura cruda (lattuga pomodori cetrioli cavolo) e il riso con fagioli neri
piccoli, chiamato Moros y Cristianos. Di nuovo alla Casa de la trova e di nuovo alla Terrazza, ma
stasera pioviggina e io mi sono rotta degli occhi da pesce lesso, di quelli che vogliono insegnarmi a
ballare, di tutta questa gente che dice sempre le stesse cose e del presentatore pomposo e del tizio
col cappellino e del suo amico vestito di bianco e del rum e dei culi a mongolfiera dentro ai
pantaloncini corti. Me ne vado a dormire.
Triste solitario y final
A colazione, mentre bevo un delizioso frullato di fruta bomba (che sarebbe la papaya), Rafael,
guardando il mio passaporto, mi comunica che siamo nati lo stesso giorno. Ci tiene che io sappia che
il 10 ottobre è una data simbolica molto importante a Cuba, perché in quel giorno, nel 1868, il dueño
Carlos Manuel de Céspedes liberò tutti i suoi schiavi al suono della campana dell'ingenio e da lì ebbe
inizio la lotta contro la dominazione spagnola. Sul lungomare nuvoloso, prima di partire, un nodo in
gola mi prende mentre dal bar sparano a tutto volume un pezzo di Ramazzotti che canta in spagnolo.
Con gli occhi lucidi osservo gli abitanti di Baracoa, pazientemente in fila per le galletas, e la
tenerezza mi invade guardando Pedro che, accanto al bus Viazul, sorride nonostante la stanchezza,
mentre si abbottona la camicia azzurra da autista, che ha appena indossato sopra la canottiera
verdone. Sta per accompagnarci a Santiago; in serata ci lascerà all'aeroporto, dove ci attende un volo
interno per l'Avana.
La strada è la stessa dell'andata, con i cactus e la costa scoscesa e le folte palme e la sosta
nell'anonima periferia di Guantanamo per mangiare le indigeste pizzette al formaggio. Nel bus
intanto si accumulano banane e mandarini per la famiglia di Pedro. Sulla strada è un continuo di
manifesti di propaganda governativa, che per esempio vorrebbero far venire voglia di lavorare grazie
a queste simpatiche formicone che recitano: "¿Nos trabajamos y tu?" «Ma se questi non hanno voglia
di lavorare!» continuano a ripetere sprezzanti gli ultimi della classe, seduti in fondo all'autobus.
«Guardate,» proseguono «più della metà delle terre sono incolte. E poi li vedi sempre a ciondolare e
a fare un cazzo. Che poi, prima avevano l'Unione Sovietica, adesso hanno la Cina che li aiuta. Troppo
comodo. Cominciate a dissodare tutti questi terreni abbandonati invece di grattarvi il culo».
Ad un certo punto ci fermano ad un posto di blocco. Si presenta un omino con in mano un enorme
motore diesel travestito da disinfestatore. Ci dicono che c'è un'epidemia di dengue: quelli seduti in
ultima fila, dopo aver letto cos'è la dengue sulla guida, si spruzzano litri di autan.
Mi sveglio a Santiago, in plaza de la Revolución, davanti al monumento equestre ad Antonio Maceo,
una statua circondata da venticinque lame di machete.
Los cinco volverán
Dopo estenuanti attese all'aeroporto "Antonio Maceo", arriviamo ad un orario improponibile all'hotel
dell'Avana, e ci arriviamo congelati visti i circa 20 gradi di differenza tra il profondo oriente
meridionale di Santiago e la latitudine dell'Avana, che sta esattamente sopra al Tropico del Cancro.
L'ultimo giorno di vacanza un taxi collettivo con un CUC mi porta al centro dell'Avana. Lazaro ci aveva
dato appuntamento alle 3 ma arriva circa due ore e mezza dopo, nonostante possieda un orologio
digitale parecchio ingombrante. La casa si è allagata, si giustifica. Sì, in questo paese pieno di
cervelloni, l'acqua è razionata e arriva — se va bene — due volte al giorno e gestire queste cisterne
casalinghe a volte è un problema. La paranoia di dieci giorni fa è, se possibile, aumentata.
Continuiamo a maledirci per non aver portato almeno uno dei vari cellulari vecchi e da buttare che
abbiamo nelle nostre case italiane.
Seduta accanto a lui sulla scalinata dell'Università dell'Avana, con in mano un libro di Graham Greene
tradotto in spagnolo, mi chiedo come si fa a vivere senza acqua ma con l'armadio pieno di scarpe All
Star. Come si fa a guadagnare 10 euro al mese e spenderne 150 per comprare un cellulare. Come si fa
a diventare il più grande neurochirurgo di tutti i tempi e studiare su libri così vecchi. Come si fa a
vivere in un mondo che ci mette in testa dei desideri così poco naturali, e poi magari non ci permette
nemmeno di esaudirli. E mentre guardo i muri scrostati, i ragazzi che giocano a pallone, il cielo
nuvoloso che incombe, mi domando in cosa consisterebbe secondo loro questa justicia tanto
sbandierata e fino a quale victoria, precisamente, dovrebbero combattere, quando invece tutti
sappiamo come andrà a finire e andrà a finire nel solito modo e in quello sì, che stiamo diventando
tutti uguali, come qualcuno sognava.
Alle sette NON arriva il bus prenotato per l'aeroporto, per cui ci imboschiamo in un altro guagua che
stava caricando della gente. Il viaggio di ritorno non me lo ricordo bene, mi sa che ho dormito quasi
sempre. E poi ho pensato al puzzle da finire. Al fatto che il cuba libre non si fa con la Coca Cola ma
con la Tu Kola, ad esempio; o che a scuola gli insegnano gli scacchi, forse perché piacevano al Che. Al
motivo per cui usano barricarsi in casa con tutte quelle grate così elaborate (nonostante il numero di
furti sia relativamente basso) o alla incomprensibile passione per il baseball. Mi sono domandata se è
meglio avere i muri tappezzati con le frasi poetiche del Che oppure le città piene di manifesti di
femmine provocanti in biancheria intima e faccioni rivoltanti di politici. E poi prima di chiudere gli
occhi, mi sono venute in mente quasi tutte le facce di quelli a cui ho detto che non volevo imparare
a ballare.
(gennaio 2010)
VADO AL MASSIMO
Viaggio in Messico
Viaggiare da solo ti dà le vertigini, cioè perdita di identità, è uno slordarsi dal carico inutile
dell'ego, sempre fittizio, e radicato come una cattiva abitudine, se deve entrare in scena in
presenza di altri. Sai che non incontrerai nessuno, a parte te, e ti sperdi, al momento ti manca la
terra sotto i piedi, poi è fin troppa.
[ Aldo Busi, “La camicia di Hanta” ]
Gli esseri umani non amano fare le cose da soli. Gli italiani, in particolare, sono un popolo che cerca
compagnia persino per andare al cinema o al cesso, figuriamoci per i viaggi. Partire da soli sembra ai
più una roba da sfigati o, al massimo, un'esperienza incompleta. Non a caso, una buona parte dei
“solo traveller” italiani che ho incontrato in giro per il mondo erano partiti con qualcuno e poi se ne
erano liberati (magari momentaneamente), oppure stavano raggiungendo il classico amico che ha
aperto un baretto a Playa del Carmen o che fa il baby pensionato in qualche posto fricchettone
dell'India.
Tre albe a México, D.F. (abbondanti precipitazioni)
— Mi piace viaggiare — disse. — Non sai quant'è bello arrivare la sera in un'altra città. — Viaggiare
sola. — mi diceva. — Cambiare abitudini, casa, città. Piantare ogni cosa, e per un mese, per un anno
essere un'altra.
[ Cesare Pavese, “Il compagno” ]
Io ho viaggiato spesso da sola, ma non sempre è stato facile liberarsi del condizionamento sociale:
prima di partire infatti solitamente alcuni miei conoscenti si divertono a terrorizzarmi, elencandomi
le sfighe più drammatiche che mi potrebbero capitare e dalle quali difficilmente mi salverò a causa
della mia irrimediabile solitudine.
Quando sono arrivata in Messico, ad esempio, dall'aeroporto ho raggiunto il centro storico della
capitale in autobus: erano le dieci di sera quando sono scesa e ho cominciato a vagare nelle vie buie
e deserte alla ricerca dell'indirizzo dell'hotel prenotato. L'atmosfera era inquietante e anche i
capannelli di poliziotti che chiacchieravano negli angoli, invece di tranquillizzarmi, mi hanno messo
l'ansia. L'accoglienza che ho ricevuto alla reception da una donna scorbutica, protetta da una gabbia
di ferro, non ha contribuito affatto a rasserenarmi. Mi sono convinta solo il giorno dopo che non mi
trovavo in una zona a rischio, tanto più che l'albergo era proprio accanto ad una stazione di polizia.
All'alba mi sono svegliata in preda ai morsi della fame, che ho messo a tacere con un pacco di biscotti
ripieni provvidenzialmente in vendita al piano terra dell'hotel. L'unico suono che proveniva dalle
strade era la cantilena del venditore ambulante di gas, ripetuta all'infinito. Città del Messico si è
svegliata molto tempo dopo, quando io già avevo raggiunto l'immenso Zocalo (a quell'ora popolato
solo da spazzini in divisa fluorescente e lustrascarpe) e visitato la cattedrale ancora vuota. Appreso
che il Palacio Nacional era chiuso al pubblico per non so bene quale tafferuglio e che il Museo de las
culturas apriva solo alle dieci, mi sono calata nel budello della metropolitana per raggiungere la mia
prima meta: Chapultepec. Sono riemersa in Paseo de la Reforma provata dai corpo a corpo che avevo
dovuto sostenere per entrare e uscire dai treni, e frastornata dalle caterve di ambulanti che
recitavano le loro litanie a turno, senza soluzione di continuità.
Ognuno ha le sue fissazioni: una delle mie — forse per una sorta di regressione infantile tipica del
viaggio — è visitare gli zoo e i giardini botanici. La prima mattina messicana dunque l'ho dedicata alla
natura addomesticata dello Zoológico di Chapultepec e del Jardin botánico (pappagalli, tucani,
condor, panda, tigri, bradipi ma anche orchidee e piante spinose), mentre il pomeriggio l'ho trascorso
allo straordinario Museo di antropologia. In un momento di pausa mi sono seduta sul prato a guardare
lo spettacolo dei voladores, acrobati indios colorati che — legati ad una corda — volteggiavano
nell'aria intorno a un palo altissimo. Ci sono tante interpretazioni del significato di questa danza
rituale indigena, ma le più accreditate la associano alla fertilità, rappresentata dalla discesa dei
volatori che sembrano mimare la caduta della pioggia.
Sono tornata allo Zocalo e ho stentato a riconoscerlo: durante il giorno la piazza era affollatissima e
il traffico nelle vie circostanti congestionato. Molti defeños erano in fila per usufruire della pista di
pattinaggio o per entrare nel cubo e assistere allo spettacolo di luci e suoni, attrazioni che per tutto
il periodo natalizio occupavano una buona porzione della piazza. Lo show dei danzatori aztechi (o
concheros), che ballavano al ritmo di percussioni tradizionali, ornati di copricapi di piume e
cavigliere di conchiglie, mi ha ricordato che un tempo qui c'era il centro cerimoniale di Tenochtitlán,
la capitale dell'Impero “Mexica”. Dietro la cattedrale si possono ancora visitare le rovine del Templo
Mayor, la grande piramide nonché tempio principale della città. I conquistadores di Cortés in realtà
distrussero quasi tutto: già al museo dell'antropologia avevo osservato la gigantesca “piedra del sol”
− miracolosamente ritrovata secoli dopo durante il restauro della cattedrale − e il modello in scala
del Templo Mayor, dal quale si evince che in cima alla piramide sorgevano due tempietti: quello di
Huitzilopochtli (dio della guerra e del sole) e quello di Tlaloc, dio della pioggia e della fertilità,
ritenuto responsabile delle inondazioni e degli annegamenti e dunque molto temuto. Tenochtitlán
infatti era a quei tempi un'isola, situata al centro del lago Texcoco e collegata alla terraferma con
ponti e calzadas. Fu proprio in seguito ad un'esondazione del lago che si avviò una straordinaria
ricostruzione della città, durante la quale si provvide anche all'ampliamento del Templo Mayor — e in
questa occasione furono sacrificati migliaia di uomini in onore del dio Tlaloc. Com'è noto,
Tenochtitlán fu fondata su quest'isola perché qui apparve la leggendaria aquila di cui parlava la
profezia: un complesso di statue che commemora l'evento è collocato su uno dei lati della piazza,
mentre l'aquila, appollaiata sopra un cactus e con in bocca il serpente, campeggia tuttora al centro
della bandiera messicana.
Alle sette ho incontrato Raul di fronte alla cattedrale. Nonostante l'opinione di certi miei conoscenti,
viaggiare da soli non vuol dire infatti avere una vita sociale inesistente nel Paese che si è scelto di
visitare. Mentre passeggiavamo, mi ha raccontato alcune curiosità di México, DeFe: ad esempio mi ha
spiegato che quella statua a forma di scheletro con indosso veste e velo di pizzo rappresenta la santa
de la muerte, mentre quel santo che le stava di fronte in mezzo alla strada, vestito di verde, con una
moneta sul petto e una fiamma in testa, è San Juda, il santo delle cause perse; entrambi sono molto
popolari anche nel mondo dei delinquenti e narcotrafficanti, ha chiosato. A cena ormai mi sono
rassegnata al fatto che sarebbe stato impossibile alimentarsi senza avere a che fare col mais.
Abbiamo terminato la serata nella mitica plaza Garibaldi, storico ritrovo dei mariachi, che si
esibiscono ogni sera in attesa di un ingaggio per feste o serenate.
---
La pioggia...
Sono nata nella pioggia.
Sono cresciuta sotto la pioggia.
Una pioggia fitta, sottile... una pioggia di lacrime. Una pioggia continua nell’anima e nel corpo.
Sono nata con lo scroscio della pioggia battente.
[ Pino Cacucci, “¡Viva la vida!” ]
La mattina dopo ho raggiunto la stazione degli autobus e mi sono diretta a Teotihuacan. I controlli di
sicurezza alla stazione erano minuziosi: sia prima dell'imbarco sia sulla corriera tutti i passeggeri
venivano accuratamente perquisiti e poi ripresi da una videocamera.
Era questa la capitale di una delle civiltà più particolari della storia dell'umanità, densamente
abitata da una comunità multietnica di zapotechi, mixtechi, maya e nahua. Nel suo periodo di
apogeo (tra il secondo e il quinto secolo dopo Cristo) era una delle città più grandi del mondo.
Furono loro — prendendo come modello le circostanti montagne — a inventare le piramidi a gradini,
così sfruttate da aztechi e maya e così sfiancanti da salire per noi turisti. Anche qua si praticavano
sacrifici umani e si adoravano celebri dei come il Serpente Piumato e il Dio della pioggia. Il declino a
quanto pare cominciò proprio a causa della siccità, cosa che sembra impossibile a credersi il giorno
della mia visita, visto che la pioggia non ha smesso per un istante di cadere, copiosa. E anche se, a
giudicare dai riti e dal pantheon religioso, gli indigeni ne sarebbero stati entusiasti, per me il diluvio
non è stato molto piacevole: enormi pozzanghere maculavano la calzada de los muertos, il viale
principale su cui si affacciano tutti i maggiori monumenti di Teotihuacan, e dopo la massacrante
scalata della piramide del sole (la seconda più alta di tutto il continente, dopo quella di Cholula)
sono rimasta molto delusa dal panorama, semicancellato dalla nebbia. Se già normalmente è
difficilissimo immaginarsi questi siti archeologici come dovevano apparire all'epoca, magari tutti
colorati, con questo clima è proprio al di là delle mie capacità.
Quando sono tornata in città il diluvio proseguiva e faceva freddo. Sono entrata in un ristorante per
asciugarmi vicino al fuoco adibito alla cottura del pastor, un cilindro rotante apparentemente
identico al kebab ma fatto di carne di maiale (una contraddizione in termini). Ero a due passi dal
Museo delle Belle arti, dove pregustavo di ammirare finalmente i murales di Rivera. Be', la farò
breve: tutti i musei di città del Messico il 24 dicembre erano chiusi. Al colmo della delusione ho
visitato le poste centrali, ho cazzeggiato qualche quarto d'ora tra la folla che percorreva le vie del
centro e poi mi sono chiusa in malinconica solitudine nella mia camera. Alla televisione ho scoperto
tutti i segreti della stella di Natale o poinsettia, questo fiore tipico natalizio che in realtà è un albero
e in Messico (di dove è originario) si chiama “noche buena”, definizione che si riferisce anche alla
sera della vigilia. Grazie alla consulenza della receptionist, ho scoperto che durante la “noche
buena” i defeños festeggiano in famiglia e tutti i ristoranti sono chiusi, ma per appurarlo
personalmente mi sono dovuta avventurare sotto la pioggia nelle strade deserte (tranne i già noti
capannelli di poliziotti, alcuni raggruppati nei cassoni delle camionette) fino ad approdare al
ristorante Sanborns in calle Madero, l'unico aperto della zona (il cameriere poi mi ha detto che tutti i
ristoranti erano chiusi perché nessuno aveva voglia di lavorare, a Città del Messico). Una profonda
tristezza mi ha preso al pensiero di stare seduta da sola a questo tavolo tra tanti, dopo aver fatto
persino la fila per entrare, nell'unico ristorante aperto (seppur ubicato in un palazzo bellissimo) del
centro di una città di venti milioni di abitanti, con quel clima davvero poco tropicale per i miei gusti.
Ho cominciato a covare pensieri dissennati: forse il dio Tlaloc aveva deciso di ricambiare la devozione
e i sacrifici umani che per secoli i messicani gli avevano dedicato, e magari c'era anche lo zampino
dei voladores, che erano stati un po' troppo alacri nelle loro acrobazie. Mi è venuto in mente allora
Cortés: pure quella famosa “noche triste”, quando i mexica riuscirono a mettere in fuga gli spagnoli,
pioveva; e l'eroico conquistador si mise a piangere per la sconfitta, seduto insieme alla sua Malinche
sotto a un'immensa ceiba.
Sono andata a letto presto, sfiorata dal fugace dubbio che forse avevano ragione i miei conterranei a
scegliere di viaggiare in compagnia.
--Che cosa bella gli orari! Gli orari sono fatti di un tempo speciale che non appartiene al Tempo con la
maiuscola, appartiene a un tempo stretto, contabile, che entra nella pagina di un'agenda. Si fanno i
calcoli: prendendo l'autobus delle quattro del mattino arrivo ad Oaxaca alle sette del pomeriggio.
La cerimonia degli stregoni zapotechi sulle colline è alle ventuno, se l'autobus non ritarda ce la
dovrei fare. Questo lunedì. Per martedì poi si vede.
[ Antonio Tabucchi, “Viaggi e altri viaggi” ]
Il giorno di Natale mi sono svegliata afflitta: avevo letteralmente sprecato una giornata di viaggio ed
era di nuovo l'alba. Ho addentato un'orrenda merendina che avevo provvidenzialmente portato in
camera e ho atteso il giorno. Quindi mi sono recata alla stazione degli autobus TAPO, determinata ad
andarmene al più presto; c'era un gran putiferio e la prima corriera disponibile diretta a Oaxaca
sarebbe partita ben tre ore dopo.
Uscita all'aria aperta, per passare il tempo mi sono messa a chiacchierare con dei tassisti molto
cordiali, seppur dotati di un umorismo piuttosto crasso, i quali mi hanno proposto una gitarella per
arrotondare il loro (magro, sostenevano) stipendio. Per quanto la cifra richiesta non mi sembrasse
bassissima, e nonostante nutrissi i miei dubbi che si trattasse davvero di conducenti di un taxi
turistico, ho trattato un po' e alla fine, tra un frizzo e un lazzo, mi sono lasciata convincere.
La meta prescelta è la Basilica di Nostra Signora di Guadalupe. In effetti su quella piazza, situata un
po' in altura, di chiese ce ne sono due: in quella nuova (riconoscibile dall'inconfondibile stile anni
Settanta) è tuttora conservato il miracoloso mantello di Juan Diego, l'azteco convertito a cui
comparve la vergine nel lontano 1531, proprio su questa collina. Su questo pezzo di stoffa, detto
tilma, è impressa l'immagine della cosiddetta Virgen morenita (trattasi infatti di una fanciulla india
dalla pelle scura): secondo la Chiesa cattolica è tuttora inspiegabile sia il modo in cui è stata
realizzata l'immagine, sia il fatto che il tessuto sia giunto perfettamente integro fino a noi. I tassisti
mi hanno inoltre comunicato che nelle pupille della vergine appare l'immagine di Juan Diego che
incontra il vescovo Juan de Zumárraga e che il mantello e il vetro che lo proteggeva rimasero intatti
durante un attentato che danneggiò la basilica. Dopo quella mitica apparizione, il culto per la
madonna di Guadalupe è cresciuto smisuratamente in tutto il Sudamerica; la sua festa cade il 12
dicembre ma anche il 25 dicembre la basilica era gremita, infatti di lì a poco è iniziata la solenne
messa, officiata da decine e decine di preti e chierichetti in un profluvio di mazzi di stelle di Natale.
È stato allora che ho capito che tutto sto fatto del tour era una scusa per partecipare alla messa di
Natale (visto che tutti e tre i tassisti erano devoti della vergine), oltre che per mettersi nel contempo
qualche peso extra in tasca. Poi mi hanno lasciato, pronti per raggiungere le famiglie a tavola e
addentare il classico pavo natalizio.
--Il museo delle Belle Arti (ubicato in un magnifico palazzo di marmo bianco che risalta nell'ampia
avenida Làzaro Càrdenas), in extremis, riuscii a visitarlo. L'ultimo giorno tornai apposta a Città del
Messico con qualche ora in anticipo. Purtroppo era domenica, giorno in cui l'ingresso è gratuito,
dunque una folla indescrivibile sciamava tra gli interni in stile art decó in marmo nero, ottone e
legno che virano nel kitsch, adatti alle manie di grandezza primonovecentesca di Porfirio Diaz. Un'ora
tonda tonda l'ho passata in fila al bagno delle signore, mentre nelle sale adibite alla mostra dedicata
a “Octavio Paz y el arte” c'era così da sgomitare che ne sono uscita subito. Per fortuna c'erano delle
guide molto preparate che gratuitamente spiegavano nel dettaglio gli enormi capolavori di Rivera,
Siqueros, Orozco e dunque ho appreso che al centro del murale di Rivera dal titolo “El hombre
controlador del universo” appare un operaio che comanda la macchina che controlla l'universo; nel
pannello di sinistra figura la società capitalista — fondata sulla scienza e sulla religione — e in quello
di destra il mondo socialista, dove Lenin, Marx, Trotsky e Engels guidano i lavoratori nella Piazza
Rossa. Tutti questi personaggi non riscuotevano grande simpatia presso la famiglia Rockefeller, che
aveva inizialmente commissionato l'opera, e infatti la prima bozza del murale fu distrutta.
48 ore nell'Oaxaca (per lo più sereno)
"Sono stato a Oaxaca. Ricordi Oaxaca?"
"...Oaxaca?"
"...Oaxaca."
La parola era come un cuore che si schianta, era come un improvviso squillar di campane soffocate
in una rapina di vento, le ultime sillabe di uno che muore di sete nel deserto.
[ Malcolm Lowry, “Sotto il vulcano” ]
La corriera per Oaxaca è partita dopo i consueti, maniacali controlli di sicurezza; continuavo a non
capire se fossero procedure abituali oppure fosse accaduto qualcosa di grave. Lasciata la capitale, il
paesaggio si è dispiegato in variegate combinazioni da cartolina e sono comparse piante succulente e
cactacee, verdi sentinelle ombreggiate a tratti da nuvoloni grigi e poi bianchissimi. Costeggiando la
città di Puebla, mi sono rammaricata di non poterla visitare ma non importava poi così tanto:
procedevo trionfalmente verso sud.
Sono arrivata in città al colmo dell'entusiasmo: era così calda che mi sono tolta tutti gli abiti
invernali. Mi sono fatta portare subito in Calle de la Noche triste, dove si trovava l'hostal che avevo
prenotato. Helene e Ivan si sono affacciati inaspettatamente alla reception mentre facevo il checkin: mi avevano detto che sarebbero partiti quel pomeriggio e invece avevano rimandato la partenza
al giorno dopo. Insieme a loro, ho trascorso la serata in una scoppiettante compagnia multiculturale,
nel cortile della casa di Miguel, al centro del quale spuntavano un albero e una amaca. C'era anche
un gatto sul bancone di un bar in disuso, del vino rosso, una ricca insalata, una caffettiera da dodici
tazze, una bottiglia di tequila e una chitarra che emise sonorità vagamente portoghesi. In definitiva,
una noche tutt'altro che triste, che mi ha fatto completamente dimenticare le paturnie del Defe.
Lo Stato dell'Oaxaca, come la Romania, ha la forma di un pesce. A nord c'è la fertile regione della
Cañada, che avevo attraversato in autobus, a sud le regioni costiere dove sorgono celebri
destinazioni balnear-fricchettone come Puerto Escondido e Mazunte (sovraffollate durante le vacanze
natalizie), a nord est le montagne e a oriente, in corrispondenza della coda, l'umida regione
dell'Istmo, che avrei attraversato per andare in Chiapas.
Oaxaca de Juárez, il capoluogo, sorge alla confluenza delle valli centrali. Nonostante si trovi a sud
del Tropico del Cancro (grossomodo sul diciassettesimo parallelo), l'altitudine superiore ai 1500 metri
rende il suo clima non troppo afoso, gradevolissimo.
Per addentrarmi nella Valle di Tlacolula, ho subito optato per una gita organizzata (muy barata).
Queste escursioni sono un'ottima possibilità per conoscere gente nuova ma allo stesso tempo sono un
azzardo: non sai mai con chi dovrai trascorrere la giornata e i ritmi potrebbero essere troppo serrati,
ma a quanto pare era l'unica maniera per raggiungere Hierve el Agua. Sono stata fortunata: alle nove
ero già in agenzia e sono stata inserita in un gruppo abbastanza grande, da smistare in due auto. Sin
da subito ho notato che avremmo avuto il tempo di fare tutto con molto agio, godendoci pienamente
la giornata in un bel gruppo di persone affabili e felici, tra cui ho eletto da subito due vice-genitori di
Monterrey.
Abbiamo allegramente imboccato la Carretera 190 o Panamericana, porzione del sistema di strade
che attraversa quasi tutto il continente, dall'Alaska al Cile. Il paesaggio era assolato e arido,
punteggiato da fichi d'India, agavi, cereus e jacaranda. La prima tappa è stata El Tule, uno degli
alberi più grandi del pianeta. Questo cipresso di Montezuma, oltre ad essere enorme (in confronto la
chiesa che gli sta accanto sembra un modellino), è anche molto antico e — a giudicare dal casino di
gente — molto visitato; tutte le guide indicano indefesse i diversi punti del suo tronco dove (con
molta immaginazione) pare di vedere animali e oggetti scolpiti nel legno. Certo, la visita a El Gigante
non mi ha scatenato la stessa straordinaria ammirazione che produsse nel neurologo e scrittore
britannico Oliver Sacks e, prima ancora, nel naturalista, esploratore e botanico tedesco Alexander
von Humboldt, ma in ogni caso fa decisamente impressione pensare che “lui” era già là minimo da
mille anni quando arrivarono gli spagnoli.
Subito dopo, attraverso una strada sterrata lunga e tortuosa, ci siamo lentamente direzionati verso
Hierve el Agua. Oltre al biglietto d'ingresso, siamo obbligati a pagare un pedaggio agli abitanti dei
villaggi di San Lorenzo Albarradas e San Isidro Roaguia: l'autista ci spiega che ciò accade perché lo
stato dell'Oaxaca fa pagare l'ingresso ai turisti, ma questi soldi non vengono investiti per migliorare le
condizioni di vita degli abitanti della zona, che restano tuttora misere. In questa remota regione
arida l'attrazione turistica consiste in due speroni di roccia che si innalzano sopra alla valle: grazie ai
sedimenti lasciati dall'acqua ricca di minerali, si sono modellati nei secoli a forma di cascate, come
prodigiose stalattiti. L'acqua sgorgata dalle sorgenti, prima di scivolare via, forma delle piscine
naturali turchesi nelle quali molte persone stanno allegramente sguazzando, sperando nei promessi
effetti curativi. Non vi fate ingannare dal nome: l'acqua non "hierve" ("bolle") veramente e dunque
non è propriamente calda. Il luogo è molto affascinante e il panorama suggestivo; dicono che anche
dalla cascata più grande (che si vede in lontananza, raggiungibile tramite un sentiero) si goda una
spettacolare vista, ma io non lo saprò mai perché i miei vice-genitori hanno pensato bene di offrirmi
una birra. Comunque se mai ci tornerò lo spettacolo sarà ancora più bello perché il processo di
deposito continua incessantemente e le cascate pietrificate diventeranno sempre più imponenti.
A questo punto ci aspetta Mitla, un sito archeologico zapoteco noto per i mosaici ancora ben
conservati. Queste piccole pietre incastonate insieme compongono complessi disegni geometrici, che
ricordarono a Oliver Sacks quelle allucinazioni che possono colpire gli uomini “durante gli stati di
assideramento, di perdita dei sensi, d'intossicazione oppure di emicrania”. In occasione della sua
visita a Mitla, il noto neurologo e divulgatore si chiese se queste cosiddette “costanti formali
allucinatorie universali” (magari indotte dal consumo di funghi allucinogeni) potessero aver
influenzato le forme d'arte geometriche di questa come di altre culture. Dell'antico centro religioso
sopravvivono ancora due gruppi principali di edifici e altri piccoli resti sparsi, mentre una buona
parte di ciò che è stato distrutto nel 1500 dagli spagnoli è stato usato per costruire l'adiacente chiesa
di San Pablo. E quindi tutti al ristorante a mangiare tortillas, enchiladas, tacos e affini,
accompagnati da abbondante birra Negra Modelo, con una calma serafica, come se non fossero già le
cinque di pomeriggio e non dovevamo visitare ancora i laboratori di tappeti di Teotitlán del Valle e la
fabbrica di mezcal. Stavolta ero io ad avere fretta, perché avevo prenotato un biglietto per lo
spettacolo di Guelaguetza all'hotel Camino Real alle 9. Inutile dire che alle 10, dopo aver appreso le
antichissime tecniche zapoteche per la tintura naturale dei tappeti fatti a mano (in particolare
quella ottenuta dalla cocciniglia) e dopo aver seguito tutti i passaggi del tradizionale processo di
produzione del mezcal (assaggiando persino un pezzo di agave putrefatto), stavamo beatamente
bevendo il diciassettesimo cicchetto (a quel punto eravamo passati dal mezcal puro a quello
aromatizzato alla frutta) e sgranocchiando cavallette fritte piccanti; e che allo spettacolo di balli
tradizionali non ci sono mai andata, visto che siamo tornati verso le 11, abbastanza borrachos e con
circa quattro ore di ritardo sulla tabella di marcia.
--Dopo aver vagato per un paio d'anni, ha deciso di fermarsi a Oaxaca, chissà per quanto tempo
ancora. E quando gli ho chiesto perché proprio in questa città, lui ha risposto semplicemente: «Ma
l'hai respirata bene, l'aria?».
Ho intuito cosa volesse dire.
E poi ha fatto un gesto strano, come di abbracciare quell'aria sapendo di non aver bisogno di
nient'altro, che non fossero le pietre delle stradine che portano al mercato, la nube di polvere che
si leva al passaggio di una vecchia corriera rumorosa, la risata acuta di una donna che lo saluta da
una bottega di formaggi, le note dell'orchestrina al centro della piazza, il cielo striato di rosso
dietro le mura di Nuestra Senora de la Soledad...
[ Pino Cacucci, “La polvere del Messico” ]
Cos'è la felicità? Ad esempio, avere un'intera giornata da trascorrere a Oaxaca, senza nessuno a cui
dover dare conto e senza alcun impegno o appuntamento. Passeggiando sulla Calle Alcalá di prima
mattina la luce pura accende le facciate dipinte e gli edifici coloniali. L'andador turistico — lo dice la
parola stessa — è fatto per me, perché io vada e lo percorra tutto, ma anche perché io mi fermi e
per esempio entri nei negozi e nelle gallerie d'arte o nelle agenzie che organizzano escursioni, o
addirittura nelle chiese e nei bar, a bere un caffè o una cioccolata. Naturalmente, ho fatto subito il
mio ingresso nel Templo de Santo Domingo: esternamente lineare e solido, dalle spesse mura di
pietra, ma dentro invaso da un sorprendente barocco dorato con migliaia di piccole statue. L'exconvento, di cui la chiesa faceva parte, dopo il restauro è stato trasformato nel bellissimo Museo de
las culturas, che ho percorso accuratamente e con molta curiosità seguendo le tappe della storia
dell'Oaxaca, ammirando dalle finestre persino l'antico giardino, oggi orto etnobotanico.
Quando sono uscita dal museo, di fronte all'entrata principale della chiesa mi sono imbattuta in una
figura femminile ambigua: troppo giovane e colorata per essere una sposa, troppo vecchia per essere
una bambina in età da prima comunione, troppo reale per essere una principessa delle favole, troppo
fuori stagione per essere una maschera di carnevale. Non mi potevo dare pace, dunque ho chiesto
lumi a una passante, la quale mi ha svelato che si trattava di una "quinceañera" e ha poi aggiunto che
in Messico è usanza che le ragazze festeggino i quindici anni in maniera molto coreografica, con tanto
di messa seguita da un banchetto. Quella ragazza ad esempio sfoggiava una pomposa gonna di tulle
azzurra e uno scialle molto scintillante, un'elaborata pettinatura e il trucco pesante, mentre il
bouquet era dello stesso colore della gonna e della cravatta indossata dai suoi "ciambellani"
(ragazzotti impomatati in abito scuro che le camminavano intorno in un fiero manipolo difensivo).
L'andador turistico a un certo punto sbuca sullo Zocalo, quadrato e circondato tutto intorno dai
portici, sotto i quali sono presenti diversi caffè: all'inizio della giornata tutti siedono ai tavoli al sole,
poi transumano all'ombra nelle ore centrali. Come accade sovente, è in atto una protesta. I dissidenti
sono accampati nelle tende nel giardino centrale e decine di manifestini colorati attirano l'attenzione
sul tragico fatto di cronaca avvenuto a settembre: quarantatré studenti sono scomparsi in un agguato
nello stato di Guerrero. Su fogli colorati e sotto alle foto degli studenti le accuse stanno scritte a
pennarello: “Ayotzinapa crimine di Stato”, “Sono una maestra e mi manca un gruppo di 43”,
“Governo oppressore che uccide gli studenti”, “Basta bugie”. Oaxaca è una città combattiva e
ribelle, che pretende justicia per questo come per altri crimini. Non molti anni fa, tra il 2006 e il
2007, ci furono manifestazioni e scioperi, seguiti da violenti scontri tra l'autoritario governo dello
stato e le forze d'opposizione; i lavoratori in lotta (mi sembra insegnanti) alla fine ottennero un
aumento di stipendio ma a prezzo di feriti, arresti e persino dei morti. Anche se nel centro di Oaxaca
è difficile notarlo, ancora oggi questo è uno degli Stati più poveri del Paese.
In un angolo della piazza è situato il Museo del Palacio, dove c'è un'esposizione interattiva molto
interessante (Espacio della Diversidad) e dove è possibile ammirare l'enorme murale di Arturo García
Bustos che illustra gli episodi salienti della città, terra di origine del politico più amato dai messicani
(Benito Juárez) e del più odiato (Porfirio Díaz). Per raggiungere invece il Museo “Rufino Tamayo”
bisogna allontanarsi — seppur di pochissimo — dall'andador. La collezione del pittore oaxaqueño
Tamayo è costituita da centinaia di statuette preispaniche di una bellezza mozzafiato, stagliate su
sfondi di colore intenso come i muri degli edifici, a farne risaltare meglio i dettagli, i sorrisi e i gesti,
le collane e gli orecchini, le unghie e le costole, gli occhi e i denti. Passando dinanzi alla cattedrale
ho intercettato un'altra inquietante bambolina quindicenne vestita tutta di rosa a balze, con tacco
dodici e inconcepibile pettinatura a grossi boccoli, circondata da eleganti valletti, mentre all'interno
era già in corso un matrimonio (gli sposi erano molto seri, inginocchiati di fronte al sacerdote, legati
l'uno all'altra da una corda).
Però la cosa più bella che ho fatto a Oaxaca è stata addentrarmi nei mercati e perdermi tra le
piramidi di peperoncini di ogni varietà (chile mulato, huacle negro) e di cavallette (“35 años de
experiencia de venta de chapulines”), di mole rojo e coloradito; tra le cataste di frutta e gli ordinati
bicchieri di aguas frescas y nieves, tra le colorate piñatas (ripiene di dolci e caramelle, da rompere
con un bastone, bendati), i vasi e le statuette di terracotta, i tappeti, i sombreri, le amache, gli
oggetti di latta che imitano gli ex-voto, gli alebrijes (sculture variopinte che rappresentano creature
fantastiche e animali immaginari).
Con tutti questi colori negli occhi ho lasciato Oaxaca, di sera, a bordo di un autobus ADO, con il
rimpianto di non aver visitato il sito di Monte Albán. Mentre prendevo sonno sul sedile reclinato
dell'autobus, pensavo che gli spagnoli — dopo meno di un anno da quella epica notte triste —
riuscirono a conquistarla Tenochtitlan, la distrussero quasi del tutto ed è da lì che tutto cominciò: la
noche buena, le cattedrali metropolitane, la virgen de Guadalupe, San Juda, i Gesù crocifissi così
afflitti, il morbillo e la scarlattina, la ruota, il metallo, i cavalli, e tutta quella mezcla che oggi,
nonostante tutto, ci affascina tanto.
Ben coperta per combattere l'aria condizionata, mi sono fatta una indimenticabile dormita, mentre
la strada scendeva verso la pianura, dove la notte dell'Istmo è calda e umida. Stavo andando
finalmente in Chiapas.
--Al sito di Monte Albán poi ci sono andata: mi ci sono fermata apposta, sulla strada da San Cristobal a
Puebla, accompagnata dalle suggestioni del racconto “Sotto il sole giaguaro”. Sono arrivata
sull'altopiano quando il sito aveva appena aperto, cercando come Calvino di immaginare “il sangue
caldo zampillante dai petti squarciati dalle lame di pietra dei sacerdoti”. Nella luce del primo
mattino il panorama giallastro galleggiava nella nebbiolina e le ombre delle acacie erano ancora
molto lunghe. A quell'ora i turisti erano pochissimi.
Quattro notti a San Cristóbal (forti escursioni termiche)
Era ancora buio quando l'autobus ha parcheggiato nel terminal di Tuxtla Gutiérrez. Ho aspettato
l'alba bevendo un tè bollente, quindi con un combi ho raggiunto Chiapa de Corzo, base di partenza
per le gite nel canyon del Sumidero.
Nonostante l'orario, all'imbarcadero già c'era un imponente nugolo di turisti, muniti di giubbotto
arancione e pronti a prendere posto sulle lance. Una volta sistemati tutti, si sono accesi i motori.
L'imbarcazione si è introdotta nella gola per farci ammirare alcune bizzarrie della natura: una
stalattite a forma di caballito de mar, una grotta striata di colori differenti, una formazione rocciosa
che ricorda un albero di Natale. A debita distanza, sono stati inoltre avvistati: un'iguana dorata tra il
fogliame, delle scimmiette sui rami e alcuni coccodrilli nel fiume. Nei momenti di accelerazione si
sono levate urla stridule (assolutamente immotivate), quindi la barca ha fatto inversione di fronte
alla grande diga, ci siamo fermati in un tratto pieno di spazzatura a comprare cibarie dalle barche a
ciò adibite, ci siamo goduti pochi minuti di sole e poi siamo tornati indietro, questa volta a grande
velocità, senza effettuare più soste. Visto che quasi tutto il viaggio si è svolto all'ombra, faceva un
freddo cane; è il mio destino compiere queste gite in barca sempre a un livello di gelo
insopportabile, che poi resta la cosa che meglio mi ricordo, più delle balene nel San Lorenzo, più dei
bei panorami architettonici baltici, più delle pareti scoscese dei canyon di ogni latitudine.
--«Sai, Camila, che cosa rischi fermandoti qui? Rischi d’innamorarti di questa città. Non è un luogo
casuale, non è uno dei tanti nell’immensa geografia del nostro continente. È un posto ricco di
conflitti, tradizioni, costumi. Sembra destinato a essere lo spazio da cui sfidare il mondo unico e
globalizzato della vita postmoderna.»
[ Marcela Serrano, “Quel che c'è nel mio cuore” ]
San Cristóbal de las Casas è una di quelle città di cui ci si può innamorare a prima vista. Quando sono
arrivata, sembrava che fosse stata appena lavata e stesa ad asciugare. Gli edifici colorati
(apparentemente pitturati di recente) risplendevano al sole, le bandierine traforate di papel picado
sventolavano allegramente, il cielo si imponeva su tutto con il suo irresistibile “azzurro Messico”, la
luce dei duemila metri aveva qualcosa di magnetico che mi invitava a restare.
Risolte le faccende pratiche sono trionfalmente entrata nel ristorante che avrei poi frequentato ogni
giorno, con le tovaglie di plastica a quadrettini bianchi e blu e un arioso patio. Qualunque cosa
ordinassi aveva quell'ormai familiare sapore di mais, ma era buono e la birra fresca. Che bella la vita!
E poi eccomi a passeggio per le vie a scacchiera del centro con un sorriso beato rivolto a tutti quelli
che passeggiavano. Ecco la cattedrale giallo senape contro il fondale blu, l'albero di Natale altissimo
lì di fronte e la pista di pattinaggio, così fuori luogo nel sole del primo pomeriggio. Ed eccomi al
tramonto (troppo presto) dopo aver salito i gradini della Iglesia De Guadalupe, a guardare tutta la
città ai miei piedi.
Raggiunto lo Zocalo, mi sono seduta su una panchina in ferro battuto di fronte al neoclassico Palacio
Municipal; ma poi, quando sono partite le prime note dell'orchestrina e il palazzo ha cominciato a
diventare di tutti i colori — dal rosso al bianco, dal verde al giallo —, le temperature sono precipitate
e io sono corsa ad indossare qualcosa di molto pesante.
Dovunque vado mi piace trovare un posto in cui mi sento a casa, dove riposarmi, mangiare e bere. A
San Cristóbal ho naturalmente eletto il café de la Revolucion a mia casa, dove trascorrere le serate
ascoltando musica dal vivo. Qui ho conosciuto le due allegre ragazze argentine e la coppia di romani
che si davano un sacco di arie; ho trascorso uno spumeggiante fine serata con un certo Juan, che era
stato piantato dalla moglie ma ha continuato a bere tequila con me come se niente fosse; ho dato
l'addio all'anno 2014 ascoltando un gruppo di musica cubana e a mezzanotte sono uscita ad accendere
le stelle filanti nell'umido gelo della notte, insieme a tre giovanotti toscani e a due fanciulle
berlinesi.
Nei miei giorni a San Cristóbal, molte ore ho passato su e giù per la Real de Guadalupe e per calle
Madero, nei saliscendi delle strade variopinte, tra le coloratissime bancarelle. Ho girovagato a lungo
nel mercato alimentare, dove molti quadri caravaggeschi si componevano sotto il tendone: uomini
col sombrero, donne con le trecce e i bambini appesi al collo, tutti a vendere o comprare
pannocchie, polli, pomodori, ananas, fagioli, avocado, nopales, tra barbieri, madonnine e una
miriade di tacchini vivi. Ho visitato il Templo de Santo Domingo e molte altre deliziose chiese
coloniali rosse, gialle, bianche, azzurre, piene di statue di santi, nastri colorati e gesucristi in croce
vestiti e infiocchettati. Ho salito la scalinata della chiesa di San Cristobalito dall'alto della quale si
vedeva tutta la città, circondata dalle montagne della Sierra Madre. Insomma, non ci è voluto molto
per capire come mai San Cristóbal è stata inserita nella lista mondiale delle “Città Magiche”.
Il primo gennaio mi sono svegliata con un gran mal di stomaco, probabilmente una reazione alle forti
escursioni termiche. Quando alle 10 ho dovuto lasciare l'hotel, mi aspettavano diverse ore da
riempire fino al tardo pomeriggio, quando sarebbe partito il mio autobus. La città, colpita da una
perturbazione, era diventata nuvolosa e fredda, gli allegri colori di San Cristóbal si erano spenti e le
strade luccicavano di pioggia. Anche qui, a causa delle festività di Capodanno, tutti i musei erano
chiusi — e meno male che il giorno prima ero riuscita a visitare l'incantevole museo di Na Bolom. Non
potevo fare altro che far passare il tempo. Seduta a un tavolino davanti a un caldo de gallina
bollente, guardavo la gente e aspettavo che i crampi cessassero presto, ma questa volta non mi
sentivo triste e non invidiavo affatto i miei connazionali che partono in gruppo; d'altra parte anche il
ragazzo toscano con cui avevamo acceso le stelle filanti era in camera sua a vomitare.
--Tutti si stavano divertendo un mondo, come erano tutti felici, come ognuno era felice! Con quanta
letizia il Messico dimenticava ridendo la sua tragica storia, il passato, la morte in agguato!
[ Malcolm Lowry, “Sotto il vulcano” ]
Quante probabilità ci sono che tu possa incontrare, in un paese lontano migliaia di chilometri
dall'Italia, qualcuno che conosci, almeno di vista? È un caso se nella chiesa di San Juan de Chamula,
piena come un uovo, buia, sinistra e annebbiata dall'incenso, mi sia ritrovata gomito a gomito con
Tiziano, abitante della stessa cittadina dove ho vissuto tre anni e partito insieme ad un mio ex
collega che in quel momento si trovava, per la precisione, a Playa del Carmen, insieme alla moglie e
alla suocera? Devo trovare una giustificazione nel fatto che a San Cristóbal de Las Casas c'erano molte
altre persone che avrei potuto conoscere, visto che nel periodo natalizio il Chiapas è una meta molto
gettonata? Devo pensare che io e Tiziano ci siamo rivolti la parola perché in qualche modo ci siamo
riconosciuti? Fatto sta che sono andata proprio a quell'ora nella chiesa sincretica di San Juan, quindi
calpestando gli aghi di pino di cui il pavimento era ricoperto e cercando di evitare le centinaia di
candele poggiate per terra, mi sono messa ad ascoltare lo stesso indigeno tzotzil ubriaco con cui
stava parlando Tiziano e insieme abbiamo accettato un bicchiere di posh, l'acquavite locale che cura
tutte le malattie. In quel momento già c'erano troppe cose che non quadravano: il pulviscolo nelle
lame di luce che provenivano dalle finestre in alto, le girandole di neon con la musica, i sonori rutti
al gusto di cocacola, le statue di santi con uno specchio al collo, la curandera che tirava il collo al
gallo per guarire un bambino malato. E non ho avuto nemmeno il tempo di sorprendermi che il posh
ha trasferito la realtà ai confini del sogno.
Fuori, sotto il sole, le gonne e i gilet di lana a ciuffi parevano fuori luogo e i cappelli con i nastri
colorati indossati dai nuovi encargos facevano un po' ridere. La chiesa di San Juan si stagliava bianca
contro il cielo bluissimo, con i suoi bordi dipinti di verde e i bassorilievi a forma di fiori. Di fronte si
dispiegava il mercato: abbiamo contrattato presso alcune bancarelle e poi abbiamo mangiato il pollo
alla brace; dunque abbiamo preso la macchina parcheggiata vicino al cimitero e ci siamo diretti a San
Lorenzo Zinacantan.
All'ingresso del villaggio, una promoter bambina ci ha condotto nella loro casa-atelier dove erano in
vendita tessuti e abiti; la mamma ci ha mostrato come funzionava il telaio a mano, poi abbiamo
accettato le tortillas cotte su una piastra e la birra Corona e infine abbiamo lasciato loro alcuni
spiccioli. Da lì ci siamo spostati verso la chiesa: a quanto pare, pure a Zinacantan i riti religiosi sono
una scusa per bere l'impossibile. Chi si era portato avanti col lavoro già dormiva sulle panche, altri
mescevano il posh (anche io e Tiziano abbiamo accettato un altro bicchierino), altri ancora
ballavano: qui indossavano tutti la stessa camicia ricamata a fiori di colori sgargianti, mentre i pezzi
grossi erano intabarrati in pesanti sai neri e in testa portavano dei turbantini rossi. Nel frattempo
avevano iniziato a suonare (tromba, trombone, percussioni), e sono arrivati altri turisti che si sono
uniti alla festa. Mentre gli uomini si divertivano a modo loro, le donne (anch'esse con scialletti dello
stesso identico allegro tessuto fiorato) sedevano pazientemente fuori dalla chiesa accanto ai thermos
e alle ceste piene del cibo che attendeva di essere mangiato, e i bambini e le bambine (vestiti con le
stesse camicie e gli stessi scialletti) correvano e giocavano per le strade. Quando abbiamo lasciato il
villaggio, gli uomini si stavano divertendo un mondo a far scoppiare micidiali mortaretti.
--Discesi, risalii alla luce del sole-giaguaro, nel mare di linfa verde delle foglie. Il mondo vorticò,
precipitavo sgozzato dal coltello del re-sacerdote giù dagli alti gradini sulla selva di turisti con le
cineprese e gli usurpati sombreros a larghe tese, l’energia solare scorreva per reti fittissime di
sangue e clorofilla, io vivevo e morivo in tutte le fibre di ciò che viene masticato e digerito e in
tutte le fibre che s’appropriano del sole mangiando e digerendo.
[ Italo Calvino, “Sotto il sole giaguaro” ]
Alle cinque di mattina era ancora notte fonda e io aspettavo il minibus che mi avrebbe condotto a
Palenque. Dopo pochi minuti, ad aspettare eravamo io e Andrea, un ragazzo emiliano che come me
avrebbe visitato il celebre sito archeologico maya e un paio di cascate sulla strada. Sono arrivati altri
giovani di varie nazionalità e siamo partiti incontro al giorno, scendendo dalle montagne verso
l'umida pianura del Chiapas. La strada era tortuosa e tempestata di temibili topes, quei dossi che
obbligano a rallentare così tanto che a volte ci hanno costretto a procedere a passo d'uomo,
facendoci alla fine impiegare quasi cinque ore per percorrere poco più di duecento chilometri. L'altra
complicazione consisteva nei bambini piazzati con una corda tesa da un lato all’altro della strada,
che fermavano le macchine cercando di vendere qualcosa o chiedendo l'elemosina. Man mano che
andavamo, la giungla diventava sempre più fitta e il clima più umido e afoso.
Vicino all'entrata delle cascate di Agua Azul siamo stati fermati ad un posto di blocco da loschi figuri
con il volto coperto da passamontagna o bandane: il loro volantino mi ha informata che dal 2011 il
“mal governo” li ha spogliati della terra ("patrimonio dei nostri antenati") e ha realizzato, senza il
consenso del pueblo, questo sito turistico che attraversa il loro appezzamento demaniale di San
Sebastian Bachalon. La nostra “integridad fisica” era fortunatamente garantita, aggiungevano:
potevamo visitare il centro tranquillamente. Dopo aver mostrato il dovuto respeto all'autonomia
zapatista e a quella dei pueblos indigenas pagandogli un pedaggio, siamo entrati in questo luogo
ameno. Si tratta di una serie di cascate bianche e spumose che cadono in un'acqua color turchese, il
tutto avvolto dalla foresta tropicale e circondato da bancarelle di ogni genere. Ora, il posto è di
grande bellezza ma, a parte che il cielo nuvoloso ha smorzato di molto la magnificenza dello
spettacolo, bisogna tener presente che durante le vacanze natalizie c'è tanta di quella gente che
bisogna fare la fila non solo per camminare lungo i sentieri, ma anche per farsi i selfie nei punti più
panoramici. Gran parte della gente che stava ad Agua Azul poi ha fatto, come noi, un salto a Misolha, una cascata sola ma alta più di trenta metri, che precipita dentro ad un lago rotondo.
Camminando dietro la cascata grande si può entrare in una grotta buia e lì ammirarne da vicino
un'altra più piccola, però in questo caso si perde più tempo e bisogna tornare al van di corsa,
sgomitando tra la folla, per evitare che l'autista si incazzi.
L'ultima tappa è Palenque. Qua va detto che quei tirchi fricchettoni dei miei compagni di viaggio si
sono rifiutati di dividere il prezzo di una guida con me e dunque ho dovuto cavarmela da sola. Per
prima cosa l'attenzione è stata catturata dal tempio delle Iscrizioni, mausoleo del re Pakal il Grande,
che governò per moltissimi anni durante il Seicento (l'epoca di maggior sviluppo di questa città). La
storia più interessante relativa a Palenque riguarda proprio il sarcofago di Pakal, scoperto negli anni
Cinquanta; in particolare è il bassorilievo istoriato sul coperchio (una lastra di cinque tonnellate) che
ha creato scalpore. Il cartello presente nel sito dice che vi è rappresentato il re Pakal che emerge
dalla terra nelle sembianze di una manifestazione del dio maya del mais; egli cresce, invecchia,
muore e va nell'inframondo dove rinasce ciclicamente. Ma già poco dopo la sua scoperta, un'altra
interpretazione, ben più affascinante, si fece strada, ossia che sulla lastra tombale fosse raffigurato
Pakal dentro una specie di antica astronave, con le mani che manovrano dei comandi, un respiratore
nel naso, e addirittura delle fiamme di un reattore a propulsione. Ovviamente ciò ha messo in
fibrillazione tutta una serie di appassionati di fanta-archeologia e di paleoastronautica mondiali, i
quali hanno trovato nel reperto la conferma della presenza di forme di vita extraterrestre sulla Terra.
La visita della cripta è interdetta da più di dieci anni, ma una copia della controversa tomba è
presente al Museo di Antropologia di Città del Messico insieme ai preziosi ornamenti.
Altre impressionanti costruzioni dovevano essere all'epoca il Palacio (un complesso di edifici dotati di
cortili e portici, collegati tra loro da passaggi sotterranei), il tempio del Leone, il tempio del Conte, i
tre templi del Gruppo delle croci. Anche nei bassorilievi presenti in questi ultimi (che commemorano
questa volta l'ascesa al trono del successore di Pakal) si riconosce facilmente l'albero della creazione,
ossia la stessa immagine allegorica, scambiata per un'astronave dai fanta-archeologi, che sta sul
sarcofago di Pakal. In ogni caso, secondo le stime, meno del 10% della superficie totale che raggiunse
la città è stata portata alla luce, e dunque la maggior parte degli edifici sono tuttora nascosti nella
foresta, tra l'altro molto lussureggiante e piena di stupendi ficus, liane e rampicanti.
Nonostante tutte le interessanti scoperte, alla fine della giornata non vedevo l'ora di tornare alla
limpidità, ai colori decisi e alla qualità dell'aria che si respira a San Cristóbal. E anche se mi
aspettavano altre cinque ore di topes, mi complimentai con me stessa per aver cambiato i miei piani
e non dover restare a dormire a Palenque.
Due serate a Puebla (nuvolosità sparsa)
Il fatto di viaggiare da solo mi parve un vantaggio. Le nostre reazioni al mondo esterno subiscono
l'influenza decisiva di chi ci sta vicino, e spesso moderiamo la nostra curiosità per adattarci alle
aspettative altrui. Magari i nostri compagni di viaggio hanno una visione precisa di noi e
impediscono così ad alcune parti di emergere. "Non ti avrei mai creduto un appassionato di ponti"
potrebbe commentare qualcuno, intimidendoci, e il sentirci osservati da vicino potrebbe
analogamente inibire la nostra osservazione degli altri, costringendoci a sintonizzarci sulle domande
e i commenti di chi abbiamo accanto e ad apparire più normali di quanto la nostra curiosità non
vorrebbe.
[ Alain de Botton, “L'arte di viaggiare” ]
Puebla l'ho inserita nel programma di viaggio all'ultimo momento ed è la mia ultima tappa prima del
rientro a Città del Messico, da cui dista poco più di cento chilometri. La cosa bella di viaggiare da soli
è che puoi cambiare i tuoi piani senza che nessuno ti faccia il muso per ore, anche se decidi di
ripercorrere la stessa strada già compiuta e finanche di dormire un'altra notte in autobus: l'itinerario
circolare via Palenque e Veracruz che avevo programmato inizialmente si era infatti trasformato in
un tragitto lineare, ricalcato una seconda volta per consentirmi di visitare il sito di Monte Albàn e
fare una sosta a Puebla.
Sono arrivata nel pomeriggio al Centro de Autobuses e mi sono inserita in una fila lunga ma ben
organizzata per prendere il taxi; il mio colorato ostello era in pieno centro, a due passi dallo Zocalo.
Quando sono uscita per una passeggiata esplorativa, la cattedrale e i leggiadri palazzi vicini si erano
già illuminati, nella piazza principale la folla delle vacanze di Natale brulicava sotto un cielo di stelle
a neon oppure riempiva ciarliera i caffè presenti uno accanto all'altro sotto i portici, mentre i
bambini giocavano con la neve artificiale in un piccolo parco giochi. Non sembrava proprio una città
di un milione e mezzo di abitanti, ma c'era piuttosto un'atmosfera da paesone. Quella sera ero molto
stanca, dopo la notte in autobus e la visita antelucana del sito archeologico: ho mangiato un caldo de
pollo ascoltando un pedissequo cantante chitarrista in una esibizione di trova, ho effettuato una
breve perlustrazione dei locali frequentati dai giovani della Puebla bene e sono andata a letto
presto.
Al mattino mi sono messa in marcia, baldanzosa e piena di energia, per questa penultima giornata di
Messico, guidata da una toponomastica estremamente funzionale: all'altezza dello Zocalo si
incrociano le due direttrici principali (Calle 16 de Septiembre e Avenida Reforma); a partire da
questo incrocio, le Calles o Avenidas parallele a Reforma sono seguite da numeri pari o dispari a
seconda della direzione, e si distinguono in Ponente e Oriente. La stessa sorte tocca alle parallele di
Calle 16 de Septiembre, con la differenza che sono seguite da Sur o Norte.
Il nome completo di questa metropoli è Heroica Puebla de Zaragoza, in ricordo del generale al
comando dell'esercito che il 5 maggio 1862 respinse i 6000 francesi mandati da Napoleone III a
invadere il Messico per imporre come imperatore Massimilano d'Asburgo. Non importa che i francesi
sconfitti erano in preda alla diarrea e che un anno dopo vinsero, tenendo la città fino al 1867: quella
vittoria viene tuttora sontuosamente celebrata, soprattutto negli USA.
Una cinquantina di anni dopo, qui mosse i primi passi la rivoluzione contro Porfirio Diaz, che fa da
sfondo alla storia narrata da Ángeles Mastretta nel romanzo “Male d'amore” (era questo il motivo
principale per cui ci tenevo a visitare Puebla). Seguendo l'invito a prendere le armi lanciato da
Francisco Madero (che aveva dichiarato nulle le elezioni dalle quali era uscito sconfitto), nel
novembre del 1910 Aquiles Serdán, i suoi fratelli e i loro seguaci antirreeleccionistas stavano
organizzando la rivolta contro l'odioso dittatore, quando nella casa di calle 6 Oriente giunse la milizia
con un mandato di perquisizione; ingaggiarono dunque una battaglia all'ultimo sangue, al termine
della quale morirono quasi tutti, compreso Aquiles (il quale si era nascosto per quattordici ore in un
buco nel pavimento). Oggi questa casa, che ancora mostra i fori dei proiettili, sia sul muro esterno
sia in una delle stanze ancora arredate come all'epoca, è stata trasformata in un interessante Museo
de la revoluciòn.
L'eroica città è stata inserita nel patrimonio UNESCO grazie agli stili architettonici dei mille edifici
coloniali decorati con azulejos e delle decine e decine di chiese barocche che ricordano i bei tempi
di quando questo era un importante centro del cattolicesimo conservatore. Girando per la città non
si fa fatica a notare le imponenti testimonianze religiose: la Cattedrale ha le torri più alte del
Messico ed è raffigurata sulla banconota da 500 pesos, il Templo de Santo Domingo contiene
l'incredibile Capilla del Rosario, decorata con stucco dorato e sculture di pietra, nella iglesia di San
Cristóbal c'è uno sconsolatissimo Cristo seduto con i capelli veri e la corona di spine, circondato da
bellissimi azulejos. Molto belle anche la più periferica chiesa della ormai nota Virgen de Guadalupe,
ricoperta di piastrelle colorate, la chiesa dell'Angelo Custode, vicina al jardin de Analco, e l' iglesia de
la Compañia o del Espiritu Santo, dalla consistenza di meringa. Anche qui a Puebla c'è l'usanza dei
listones, quei nastri colorati, in vendita nelle chiese stesse, sui quali si scrivono le richieste di
miracoli; i colori sono diversi a seconda del tipo di petizione: ad esempio blu e rosa per i miracoli
afferenti la salute, rosso per quelli relativi all'amore e all'amicizia eccetera.
Passeggiare per Puebla mi mette di buonumore, con quelle facciate variopinte o ricoperte di
piastrelle e tutta quella messicanità esposta nelle botteghe e nelle bancarelle di artigianato. Nei
negozi di magia bianca — mayoreo o menudeo (all'ingrosso e al dettaglio) — si vendono essenze,
lozioni, amuleti, saponi, talismani e si offrono incantesimi e amarres de amor, che servono a far
tornare a sé l'amore perduto. Le attività dei mariachi sono pubblicizzate a grandi lettere, scritte a
mano sui muri degli edifici dai colori pastello che pullulano ad esempio in Avenida 12 Ponente.
Visitando i mercati de artesanias si deduce che qui ferve la produzione di ceramiche: si tratta della
Talavera, pregevole maiolica realizzata sin dall'antichità con l'argilla locale sui toni del blu. E
naturalmente anche qui, l'immagine onnipresente nei negozi è quella dello scheletro, che prende
spunto dalla Calavera Catrina, il personaggio inventato circa un secolo fa dal disegnatore e
caricaturista Jose Guadalupe Posada (un teschio vestito elegantemente con un grande cappello). La
Calavera inizialmente non era catrina, bensì garbancera, venditrice di ceci: l'intento di Posada era
infatti quello di criticare quei messicani poveri — venditori di ceci, appunto — che rinnegavano le
loro origini indigene e fingevano di essere europei. Poi arrivò il solito Diego Rivera che gli diede
l'aspetto e il nome che ha oggi, con la sua stola di piume, quando la raffigurò nel suo murale “Sueño
de una tarde dominical en la Alameda Central”. La Catrina, impegnata in attività di ogni genere e
accompagnata da scheletri maschi, oggi è il soggetto prediletto di disegni e tele, sculture di legno,
cartapesta, maiolica, argilla eccetera.
--C’era una sfida nell’aria, in quest’aria secca e fine dei duemila metri: l’antica sfida tra le civiltà
d’America e di Spagna nell’arte d’incantare i sensi con seduzioni allucinanti, e dall’architettura
questa sfida s’estendeva alla cucina, dove le due civiltà s’erano fuse, o forse dove quella dei vinti
aveva trionfato, forte dei condimenti nati dal suo suolo. Attraverso bianche mani di novizie e mani
brune di converse, la cucina della nuova civiltà ispano-india s’era fatta anch’essa campo di battaglia
tra la ferinità aggressiva degli antichi dèi dell’altopiano e la sovrabbondanza sinuosa della religione
barocca...
[ Italo Calvino, “Sotto il sole giaguaro” ]
A Puebla c'è un museo meraviglioso che si chiama Amparo, dedicato all'arte in tutte le sue forme. È
situato in un bellissimo edificio di grande ricchezza storica, trasformato in uno spazio culturale muy
contemporaneo, con una bella terrazza dotata di bar da cui si gode una stupefacente vista sulle torri
e la cupola della cattedrale. Gran parte della sua collezione è dedicata all'arte preispanica e all'arte
coloniale fino all'Ottocento, e inoltre offre un'ampia agenda di esposizioni temporanee.
È lì che ho conosciuto l'opera dell'artista argentino Ramiro Chaves, che in quei giorni esponeva il suo
lavoro sulla lettera X e in particolare sui modi in cui essa è stata usata nell'architettura messicana.
All'epoca della conquista spagnola, infatti, si discuteva se il nome della colonia dovesse scriversi
“Mexico” oppure “Mejico”. Scegliendo ufficialmente la prima versione, la X diventò un simbolo
dell'incrocio culturale tra la tradizione preispanica e la nuova identità meticcia, un'icona della
nascita del moderno stato messicano, ed è su questo che gli oggetti, i disegni e le foto proposte
fanno riflettere.
La sera stessa, mi chiedo se abbia analogo significato la gigantesca ics tutta di lucine rosse piazzata
sull'ingresso del Teatro Principal in occasione delle feste natalizie.
Un altro campo in cui “le civiltà d’America e di Spagna” si incontrano e si sfidano per sedurre i sensi
è, come dice Calvino, la cucina, il grande orgoglio di Puebla e dei suoi abitanti. La tradizione
gastronomica poblana, che parte dagli ingredienti della sua terra ma ha fatto tesoro delle ricette
nate nei conventi, va fiera del suo classico piatto di chiles en nogada (peperoni ripieni di picadillo e
ricoperti di salsa alle noci e melograno) e soprattutto del mole poblano, una salsa cremosa — che
accompagna di solito tacchino o pollo — a base di cacao, tre tipi di peperoncino, frutta secca e varie
spezie. Oltre a vari tipi di dolci e allo street food, essa propone, per i più ardimentosi, eccentriche
specialità stagionali come le larve di formica saltate nel burro, i vermi dell'agave (gusanos) fritti in
una salsa al peperoncino, il fungo del mais e le chapulines (cavallette essiccate). Purtroppo a causa
del mio mal di stomaco in quei due giorni mi sono alimentata esclusivamente di brodo di pollo e
dunque non ho assaggiato assolutamente nulla di tutto questo ben di Dio.
L'ultima serata di questo viaggio mi hanno consigliato una zona molto animata della città, il barrio
del artista. Mentre mi avvicinavo all'unico tavolino libero di uno dei locali in cui suonavano la trova,
Ricardo, che stava cercando un posto dove sedersi con la sua amica, mi ha proposto con un sorriso
smagliante di condividerlo. Impossibile dire di no: Ricardo, così giovane da poter essere mio figlio,
parlava un ottimo inglese ed aveva un carisma incredibile, che si è rafforzato quando è salito sul
palco per cantare una canzone (oltre a un fantastico sorriso aveva anche una bella voce). Già da
subito, approfittando della breve assenza della ragazza magra e timida con cui era uscito, mi aveva
confessato che gli piaceva, ma ancora non si era dichiarato. E mentre lui cantava, lei pure mi fece
capire che non le dispiaceva, Ricardo. Appresi che Tiziano Ferro era molto amato fino a che non
aveva detto in televisione che le donne messicane hanno i baffi, e questo aveva fatto incazzare a
morte molti suoi fan, e infatti nessuna sua canzone è stata proposta quella sera, mentre ad esempio
Gianluca Grignani andava alla grande. Poi mi hanno salutato: abitavano molto lontano dal centro e
l'ultimo autobus sarebbe partito dopo poco. Io ho bevuto l'ultima cervecita, a un prezzo che loro non
potevano permettersi, augurandomi che il bruno Ricardo e la sua ragazza dalla pelle bianchissima
presto si sarebbero fidanzati.
--Si abbandonò nella poltrona. L'Ixtaccihuati e il Popocatepeti, quest'immagine del matrimonio
perfetto, spiccavano ora chiari e belli all'orizzonte sotto un cielo mattutino quasi puro. Altissime
sopra il suo capo alcune nuvole bianche correvano perdutamente all'inseguimento di una pallida
luna gibbosa. Bevi per tutta la mattina, gli dicevano, bevi per tutto il giorno. Questo è vivere!
[ Malcolm Lowry, “Sotto il vulcano” ]
Pochi minuti dopo aver lasciato Puebla, apparvero nel finestrino dell'autobus due maestose
montagne: una delle quali, indiscutibilmente, un vulcano a punta. Sarà sicuramente il Popocatepetl,
pensai, la montaña humeante. E la conferma la ebbi dalla donna seduta accanto a me, la quale
aggiunse che l'altro pure era un vulcano, confidenzialmente chiamato la mujer dormida,
ufficialmente l'Iztaccíhuatl. Mi sorpresi moltissimo di non averli notati affatto nel viaggio di andata e
questo fu un ulteriore segno che avevo fatto bene a tornare da quella strada. Appresi in seguito la
leggenda, secondo la quale Iztaccíhuatl era una principessa innamorata del guerriero Popocatepetl;
questi compì grandi imprese per amore della fanciulla, la quale però purtroppo morì. Allora il suo
corpo fu trasportato dal suo amato sopra un monte e gli dei la trasformarono in un vulcano attivo;
anche il guerriero diventò un vulcano, per sempre di guardia alla principessa Iztaccíhuatl.
Ed eccomi a Città del Messico, nel tardo pomeriggio, sotto l'angelo dell'indipendenza, che spicca
dorato, lucidissimo contro il cielo blu. Sono seduta su una panchina con Raul e sono stremata. Sto
provando a descrivergli il mio viaggio in un misto di italiano, spagnolo e quel poco di inglese decente
che ancora riesco a parlare. Gli racconto l'itinerario non più circolare ma lineare e il fatto che non ho
più seguito il suo consiglio di andare a Tlacotalpàn. Gli parlo della pioggia a Teotihuacan e della
tristezza della “noche buena”, della divertente gita intorno a Oaxaca, delle proteste e della polizia,
del Canyon del Sumidero e dei colori di San Cristóbal, dell'incredibile incontro nella chiesa sincretica
di San Juan e del caldo di Palenque, della luce perfetta di Monte Albàn, degli azulejos di Puebla e dei
due vulcani. E infine gli dico della lettera X e dell'incrocio delle “civiltà d’America e di Spagna” e lui
mi sorride con quella bella faccia mestiza che si apre in un sorriso aperto mentre mi dice: «Me alegra
mucho que hayas disfrutado de mi tierra».
(gennaio 2015)