Marzo 2014 - Liceo Manara
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Marzo 2014 - Liceo Manara
Marzo 2014 1 INDICE Editoriali: Editoriali dei direttori di Guido Panzano e Sofia Zollo……………………………………………...………….…3 Editoriali dei rappresentanti d’istituto…………………………………………………………………………….4 Editoriali dei rappresentanti alla consulta provinciale di Francesco Negozio……………………………..…….5 Articoli: Partita dura ai confini dell’Europa di Alessandro Vigezzi…………………………………………………...…6-9 Luna Rossa per l’Europa di Marco Cilona………………………………………………………………….……..9 Considerazioni attuali: la caduta dei castelli di carta di Guido Panzano……………………………………..…10 Psicologia di massa del fascismo: come questo ha attirato milioni di persone e come tutti, in fondo, ne siamo attirati di Francesco Negozio……………………………………………………………………….…………11-12 Ironie paradossali di Marta Spizzichino………………………………………………………………….…..12-13 Steve Jobs: così parlò l’Ulisse senecano dei tempi nostri di Eleonora Corradi…………………………...….13-14 Alla luce del sole di Elisabetta Tortora…………………………………………………………………......…14-15 Alain Resnais, il “grande artiere” della Nouvelle Vague di Luca Zammito…………………………………16-18 La Grande Bellezza siamo noi di Alice Bertino…………………………………………………..……….….18-19 La Grande Bellezza di Eleonora Di Benedetto………………………………………………………………..19-20 Johnny Cash Out Among The Stars di Raffaele Ventura………………………………………….………..…20-22 Molecola 8KS di Distress Club……………………………………………………………………………….…..23 Jok di Distress Club ……………………………………………………………………………..………………..24 Test di Distress Club ……………………………………………………………………………………………..25 “Sotto questo cielo” di Martina Mangione……………………………………………………………….......…..26 Componimenti creativi: Frozen di Anonimo………………………………………………………………………………………….……28 La teoria delle stelle di Anonimo……………………………………………………………………………....…28 Senza nome di Anonimo……………………………………………………………………………………..…....28 Cera di Alice Sagrati………………………………………………………………………………….…………..28 Sintomi di Alice Sagrati……………………………………………………………………………………….28-29 La strada nel deserto di Felix…………………………………………………………………………….………29 L’angelo e la corda di Giulia Corsini……………………………………………………………………….……30 La Tana del Ragno: parti quarta e quinta………………………………………………………….…………31-32 La meravigliosa e triste storia di poeti, scrittori e impavidi briganti: parte quinta di Gianmaria Gherardi De Candei e Guido Panzano…………………………………………………….……32-33 Disegni: Yuki Cross di Daisy Colantuono………………………………………………………………………………….34 Equilibrio di Distress Club………………………………………………………………………………………..36 Direttori: Guido Panzano e Sofia Zollo Capiredattori: Alessandro Vigezzi e Luca Zammito Impaginazione: Guido Panzano, Alessandro Vigezzi, Luca Zammito e Sofia Zollo Copertina: Anna Parlani Docente referente: Giulio De Martino Si desidera ringraziare i redattori, la segreteria, il Dirigente Scolastico Fabio Foddai e, in particolar modo, Loredana Polentini. 2 EDITORIALI DEI DIRETTORI Care lettrici e cari lettori, in questi mesi ho sempre incominciato i miei brevi editoriali con frasi come “quello che avete tra le mani è il quarto numero de La Lucciola” oppure “questo è il primo numero de La Lucciola”. Per variare, questo è il terzultimo numero de La Lucciola. Ebbene, contro tutte le previsioni che ci eravamo fatti all’inizio, abbiamo raggiunto la quinta uscita in cinque mesi, raggiungendo le sette che ci eravamo proposti a Novembre. Fortunatamente, molto è cambiato dai primi numeri, la tecnica si va sempre più perfezionando. Come vi ho ripetuto stancamente, anche questa volta La Lucciola è un giornale splendido. Ma permettetemi di fare, prima di lasciarvi alla lettura, qualche riflessione con voi. Innanzitutto, se girerete questa pagina, ne troverete una vuota. Devo dire che già da due numeri avevo l’intenzione di lasciare una facciata non scritta e, ammetterlo, per la redazione e per me è una grandissima sconfitta. Nonostante la nostra richiesta di articoli da parte dei rappresentati di Istituto, di editoriali informativi per tutti gli studenti, nulla è arrivato alla nostra mail. Negli ultimi tempi, mi ero anche personalmente abbassato a dei “richiami”. Insomma, prima delle elezioni della rappresentanza, tutte le liste ci mandarono i loro programmi, all’assemblea di presentazione si riempirono la bocca con il nome del giornale e poi, in cinque mesi di pubblicazione, nemmeno una parola. Davvero, niente. Scusate, cari rappresentanti di Istituto, eletti democraticamente dal suffragio universale (oserei dire quasi dal plebiscito) della nostra vecchia scuola, ma tra i tanti impegni “istituzionali” (permettetemi l’uso di questo termine tanto amato negli anni passati), quanto tempo poteva portare via la stesura di alcune misere righe di commento? Insomma, non dico di riportare i verbali dei comitati, delle vostre riunioni, delle proposte al preside, delle assemblee, dei collettivi, delle iniziative, delle manifestazioni, della cogestione, compito arduo e difficilissimo, ma almeno spendere qualche riga per presenziare su quella che è la fonte principale, nonché unica, di informazione nella nostra scuola! Avevate l’opportunità di spiegare ed esporre a noi comuni studenti le gesta del nuovo organo della Commissione, idea sicuramente suggerita tenendo a modello le più alte diplomazie europee e mondiali, con tanto di rappresentanti dei rappresentanti e di presidenti dei rappresentanti. Perdonatemi se insisto, cari miei, ma io, dal basso del mio ultimo anno, non ho capito cos’è questa Commissione e vi assicuro, per indagine diretta, che come me molti considerano “oscure” le vostre manovre nel corso di questo periodo scolastico. Uscite, se potete ancora farlo, dallo specchio degli occhiali della vostra perduta confusione e riprendetevi quello che in voi hanno visto i vostri elettori. Dimostratecelo. O almeno fate finta. Ma vi prego, fate qualcosa! Con sincero affetto, GUIDO PANZANO Gentili signori e signore, ci avviamo verso la fine di questo Anno Scolastico e bisogna accelerare i tempi per tentare di recuperare il recuperabile e, mentre mi concentro per non diventare isterica – causa esame di maturità -, mi è capitato l’altro giorno di risfogliare i vecchi numeri del giornale degli anni passati e mi ha fatto un enorme piacere notare come il giornale sia cambiato, cresciuto, pur rimanendo sempre con lo stesso spirito che ci permette di pubblicarlo ogni mese sempre con nuova euforia. Tutto ciò per dirvi, molto semplicemente, che a giugno quasi tutti i direttori (almeno si spera) se ne andranno dal Manara e, dopo questi mesi e anni in cui ho scritto sulla Lucciola, vi prego, vi scongiuro di non trascurarlo perché è una perdita per lei, per la scuola e per voi. Mi appello a tutta la redazione e a coloro a cui non interessa minimamente niente, continuate sempre e comunque a buttare giù qualcosa perché anche se fosse orrendo (e vi assicuro che ce ne sono stati di pezzi osceni tra queste pagine nel corso degli anni), nessuno, tranne i direttori, saprà chi diavolo siete. Con l’augurio che anche questo numero vi appassioni, SOFIA ZOLLO 3 EDITORIALI DEI RAPPRESENTANTI DI ISTITUTO 4 EDITORIALE DEI RAPPRESENTANTI ALLA CONSULTA PROVINCIALE 22 FEBBRAIO, BANDIERE ROSSE AL VENTO Avevo previsto di pubblicare questo editoriale a Febbraio per evidenti motivi, poi ho avuto qualche problema a inviarlo. Il 22 febbraio 1980 tre uomini incappucciati entrano in casa Verbano nel quartiere di Montesacro, legano e imbavagliano i signori Verbano e attendono che rientri a casa il loro unico figlio: Valerio. Quando questi rientra, prima tentano di colpirlo per stordirlo ma, non essendoci riusciti, gli sparano alle spalle e lui cade, morendo di fronte ai genitori impotenti nelle ore successive. Gli assassini non verranno mai riconosciuti, ma tutti gli indizi puntano ad appartenenti ai NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), la formazione terroristica neo-fascista che imputridì Roma tra il 1977 e il 1981. Tuttavia nel 1989 la Procura chiuse l'inchiesta per mancanza di indizi, dopo uno dei processi più surreali, mal condotti e probabilmente inquinati della storia repubblicana italiana. Valerio era un diciottenne appartenente ad Autonomia Operaia, un ragazzo normale, appassionato di karate, Roma e fotografia. E forse fu proprio la passione per la fotografia che gli fu fatale. Nella stanza da letto di Valerio infatti venne ritrovato quello che poi verrà chiamato “dossier Verbano”, una raccolta di fotografie e appunti riguardante gli appartenenti all'estrema destra romana, forse l'inchiesta più completa sulle organizzazione sovversive neo-fasciste di questo periodo e sulle loro attività criminali. In questi fogli Valerio scrisse circa 900 nomi di coloro che, secondo un sentore comune presente negli ambienti della Sinistra romana, avrebbero tentato il colpo di stato sull'esempio di ciò che era accaduto in Argentina e in Cile. L'11 febbraio 1984 la Corte d' Appello ordinò la distruzione del dossier, distruggendo così la possibilità di rendere pubblici i risultati delle sue indagini. Grazie a testimonianze e alcune fotocopie di quei fogli sappiamo solo alcuni dei 900 appartenenti a organizzazioni sovversive neo-fasciste denunciati da Valerio. Tra questi ne riporto solo tre: Teodoro Buontempo, deputato senza interruzioni dal 1992 al 2008 con l'MSI e Alleanza Nazionale; Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale; Francesco Storace, deputato e senatore per La Destra e Alleanza Nazionale, Ministro della Salute nel 2005 e Presidente della Regione Lazio tra il 2000 e il 2005. È per questo, e non solo per questo, che dobbiamo ricordare Valerio. Dobbiamo ricordarlo perché se fossimo nati 30 anni fa Valerio sarebbe potuto essere un mio compagno di banco, un mio vicino o sarei potuto essere io. Dobbiamo ricordarlo perché, se dimentichiamo le vittime del fascismo e del neo-fascismo, ricadremo nell'errore di sottovalutare queste forze. Dobbiamo ricordarlo perché in un momento di crisi economica, politica e sociale come questo, la politica demagogica fascista fa presa assoldando e formando giovani menti ignoranti. Dobbiamo ricordarlo perché le indagini furono svolte in maniera approssimativa e ignorando volontariamente prove importanti. Dobbiamo ricordarlo perché Valerio era un diciottenne che sapeva “troppo”. Dobbiamo ricordarlo perché 34 anni dopo altri “Valerio Verbano” sono stati uccisi da neo-fascisti: da Dax ucciso a Milano nel 2001 a Pavlos e Clement uccisi l'anno scorso rispettivamente in Grecia e in Francia. Dobbiamo ricordarlo perché il suo sacrificio non sia vano. FRANCESCO NEGOZIO 5 Partita dura ai confini dell’Europa maggioranza della popolazione è di etnia russa, e il governo autonomo di quella regione è dichiaratamente filorusso. La Crimea per la Russia non è, quindi, solo una regione dell'Ucraina in posizione strategica, ma è anche la più facile da conquistare. Putin ci si butta a pesce: le forze armate russe occupano la penisola, quasi senza incontrare resistenza. I soldati "ucraini" (parlano russo) si lasciano circondare e si consegnano spontaneamente. Un ufficiale ucraino, tale Iuli Mamciur, si è arreso qualche giorno fa, tutto fiero di essersi asserragliato quattro ore nella sua base, cantando l'inno nazionale, mentre i blindati russi sparavano in aria. Poi ha lodato i suoi uomini, di cui ben due su diverse centinaia erano feriti, elogiandoli "per aver fatto tutto il possibile" per difendere l'onore della loro divisa, e ha infine calato le brache. Che abbia fatto una saggia decisione a cedere di fronte a forze molto superiori è indubbio. Se è difficile indovinare la schedina del Totocalcio, per la quale si commettono turpi delitti contro chi suggerisce sbagliato, per la quale si esulta per aver vinto cento cucuzze dopo averne perse mille, figuriamoci allora provare a prevedere il corso della Storia! Io, per esempio, ero convinto che la Russia non avrebbe mai osato far guerra all'Ucraina. Al giorno d'oggi, le grandi nazioni tendono ad evitare i conflitti armati per il più solido dei motivi: non convengono. E' infatti il progresso stesso della tecnologia militare a rendere sempre più improbabile lo scontro diretto: più si è in grado di far male al proprio avversario, più l'avversario sarà in grado di contraccambiare la cortesia. Se poi l'avversario non è in grado, con ogni probabilità non combatterà, soprattutto se il nemico è della stessa etnia e non porta devastazione, ma promette ricchezza. E' quello che sta accadendo in Crimea: Putin e l'élite russa conoscono (e molto più profondamente) tutto questo, perciò si stanno muovendo con grande cautela e abilità. La fuga di Yanukovic e degli altri filorussi al governo dell'Ucraina ha fatto capire nelle stanze del potere russe che controllare quel Paese, anche indirettamente, è impossibile. Però l'Ucraina è una terra in posizione strategica, al confine con la Russia e alle porte dell'Unione Europea; è una terra fondamentale per il controllo del Mar Nero e delle vie di transito del metano. Una terra, insomma, da non abbandonare a rivali politico-economici come la UE. Tutta questa contentezza per il proprio gesto, e il fatto che quasi tutti i soldati ucraini di stanza in Crimea lo stiano imitando, significa che nessuno ha mai pensato seriamente di opporsi. Il che è molto comprensibile: perché quei soldati dovrebbero scegliere di versare il loro sangue combattendo contro un invasore che parla la loro stessa lingua, e che promette loro di poter continuare a servire nell'esercito mantenendo il grado e con uno stipendio maggiore? Quanto al governo di Kiev, non ha nessuna intenzione di impegnarsi in una lotta dall'esito incerto contro un esercito superiore per numero e mezzi, in cui avrebbe tutto da perdere, e ha quindi ordinato una ritirata strategica (e che fatica stanno facendo per cercare di convincere i soldati della Crimea a non entrare nelle fila dei Russi!). Il nuovo governo di Kiev, inoltre, è ancora troppo fragile politicamente, ed è occupato quindi a consolidare la propria posizione, cavalcando l'entusiasmo del popolo per la cacciata dell'antieuropeista Yanukovic. Stanno varando misure per l'integrazione con l'Unione Europea, e iniziando la "caccia alle streghe" per demolire il potere oligarchico dei grandi magnati industriali, che avevano sostenuto il governo Visto che i patti stretti con Yanukovic e i suoi sono diventati carta straccia, si è imposta l'esigenza di limitare i danni. Il governo di Mosca ha scelto il campo giusto, la Crimea, dove la stragrande 6 filorusso per le più vantaggiose condizioni economiche che offriva un’ alleanza con Putin, e che è inviso agli Ucraini per le porcate varie che si è concesso nel ventennio in cui è stato al potere: sono stati arrestati l'ex ministro dell'Energia, al quale è stato confiscato l’ ingente patrimonio, ed un oligarca sospettato di organizzare una milizia separatista. il più possibile la propria influenza in Ucraina: sfruttando tutti i "canali di contatto" dei tempi di Yanukovic (gli oligarchi, in cerca di protezione vista la cordialità del nuovo governo), e approfittando del fatto che nelle regioni del Sud e dell'Est quasi la metà della popolazione è di etnia russa, vorrebbe quanto meno staccare quelle terre da Kiev, in modo da chiuderle ogni sbocco sul mare. Ma torniamo, letteralmente, a bomba (ne sono scoppiate poche, ma non si sa mai): per dare un gradevole aroma democratico all'incruenta occupazione della Crimea, il governo russo ha fatto indire un referendum, ed un modico 98% della popolazione si è dichiarato favorevole all'annessione. Ora, è noto come sia inutile e poco intelligente pensare che la Storia conceda il bis, però eventi similari avvengono ugualmente. Ai miei dotti lettori non potrà non venire in mente l'Austria del 1938, passata alla Germania di Hitler, dopo essere stata invasa senza spargimento di sangue e dopo un referendum in cui soltanto il 98% degli Austriaci (che parlano tedesco) hanno detto "sì" all'unione dei due Stati. Anche allora una terra arcistufa di un ventennio di malgoverno ha accolto con sincero giubilo l'invasore. C'è però una differenza a rendere la situazione potenzialmente ancora più esplosiva: in Crimea sono esasperati anche dal fatto che fino ad ora si sono sentiti Russi dominati dai corrotti Ucraini di Kiev, e questa rivalità etnica fa sì che ora si sentano russi finalmente liberi nella propria nazione. Per essere molto più tranquilli è bene sapere che Putin è noto per aver rafforzato i suoi poteri personali a scapito degli organi democratici, per aver imposto leggi discriminanti, per esempio contro gli omosessuali, ma in generale contro tutti coloro che divergono dal pensiero di massa della Russia di oggi, che costituisce la base del potere del governo. Per fare questo occorre mettere in difficoltà il governo avversario e accrescere il malcontento fra la gente, con l'aiuto delle tensioni etniche, e quale miglior mossa che colpire le tasche dei cittadini? Oltre a cessare gli aiuti economici promessi all'Ucraina con Yanukovic, il governo russo ha fatto salire alle stelle il prezzo del metano, e dato che da quelle parti non è che consumino molti gelati, la gente è costretta a svuotarsi il portafogli. Questo, da una parte, rende i "russi ucraini" sempre più vogliosi di unirsi alla Russia; dall'altra, rende invece gli Ucraini sempre più desiderosi di entrare nell'Unione Europea. Abbiamo visto nel precedente articolo come l'Ucraina sia troppo debole per affidarsi esclusivamente a sé stessa, ma abbia bisogno di modelli di civiltà da seguire e a cui appoggiarsi. Noi Occidentali lo siamo stati dopo la caduta dell'Urss, quando in quelle terre in ginocchio eravamo visti come portatori di libertà e ricchezza. Passato il nostro apogeo non siamo più in grado di garantire quel benessere che stanno cercando da troppi secoli, come invece può fare la Russia, in gran ripresa. Quando però il filorusso Yanukovic, allontanatosi dalla UE, dopo essersi troppo appoggiato ai "russi ucraini" e agli odiati oligarchici, ha limitato la libertà dei cittadini, è esplosa la rivolta provocando tutta la serie di eventi fino a quelli attuali. Abbiamo visto come gli Ucraini che vogliono l'Europa, e quindi la libertà e l'indipendenza, siano animati dal significato mistico di queste parole, che li ha fatti morire (inutilmente) come martiri fra le strade di Kiev. Ebbene, ora in quella città e nelle regioni a maggioranza ucraina del Nord e dell'Ovest, dove è nata la rivolta, tanto più dure saranno le mosse della Russia tanto più crescerà in loro la volontà di raggiungere ciò per cui hanno combattuto. Queste persone tendenzialmente fanno la fine delle Pussy Riot, mandate in gulag, travestiti da "centri di rieducazione. L’esimio presidente russo ha inoltre fortemente limitato la libertà di informazione, e palesato le sue mire espansionistiche in campo politico, economico e militare. Ma lasciamo perdere prima di venire assassinati dal KGB o da quello che ne resta. Per mettersi definitivamente l'animo in pace basterà infine narrare come l'élite russa non si voglia limitare solo all'annessione della Crimea, ma voglia estendere 7 E qui entriamo in gioco noi Occidentali. trenta straricchi oligarchi sono stati inseriti nella lista nera, e la finanza russa è in ebollizione. I potenti che fino ad ora hanno appoggiato Putin potrebbero mettere in dubbio la loro fedeltà: la borsa russa è in perdita, il rating rischia di essere abbassato, il Pil rallenta la sua crescita, le rendite finanziare degli oligarchi assomigliano sempre di più alle fiches del poker. Tutto questo è polvere di stelle, vero? Non tocca la nostra realtà quotidiana? Forse allora toccherà di più la nostra realtà il fatto che a Chelsea-Arsenal allo stadio di Stamford Bridge mancavano sia il presidente del primo club che l'azionista di maggioranza del secondo. Obama, a cui è rimasto sul gozzo quel "bello e abbronzato" detto da Silvio in presenza di Putin, non ha intenzione di starsene a guardare, e nemmeno i decadenti Stati europei sono così deboli da abbandonare completamente il proprio pianerottolo politico. Anche questi devono scegliere il terreno adatto per vincere lo scontro: finché si rimane in ambito politico-militare, la Russia è troppo forte, lo scontro diretto non conviene mai, soprattutto in tempi di crisi, ed intervenire è complicato e controproducente. Si sposti però lo scontro sul piano economico, e Putin sobbalzerà come se gli avessero piantato uno spillo nel sedere. Perché è vero che la Russia è un colosso in ascesa e gli Stati occidentali sono chi più chi meno colossi in crisi, però siamo comunque tanti colossi e la Russia è sola. L'unica arma adoperabile, con tutti i macchinosi battibecchi fra alleati, sono le sanzioni economiche, le quali finora hanno avuto un'utilità relativa, per non dire che siano state completamente fallimentari (leggi Iran). E per mancare ad uno scontro diretto in chiave primo posto dovevano avere una buona ragione: si dà il caso infatti che Abramovich e Usmanov siano due fra i più ricchi oligarchi russi, e che durante la partita fossero in Russia a tastare il terreno. La finanza può sembrare polvere di stelle, ma Abramovich durante il crack mondiale del 2007 ha perso oltre la metà del proprio patrimonio e ha rischiato di dover vendere il Chelsea. Questo per dire che neanche la Russia dorme su un letto di rose, e che il tutto potrebbe ripercuotersi in Occidente, visto che il calcio è uno buono specchio dell'economia di un Paese. Ma c'è un altro fatto, ancora più importante: il disinteresse di quasi tutti per quello che sta accadendo, che si ripercuote poi inevitabilmente sulle classi dirigenti, così come Hitler e Mussolini sono stati frutto del malcontento dei propri popoli, e così come Putin è espressione della voglia di rivalsa del suo, dopo la crisi di vent'anni fa. Alla base di ogni decadenza nella storia c'è un peggioramento della mentalità, e la nostra decadenza non fa eccezione. Il nostro orizzonte politico è imploso dal Vietnam alla Crimea, e sta collassando ulteriormente: se alla maggioranza delle persone non importerà più nulla nemmeno del confine dell'Europa, allora saremo finiti. In questo senso la Crimea è forse l'ultima spiaggia. Non è un caso che sull'orlo dell'Europa, da una parte, Putin violi i diritti umani e il diritto internazionale e sia applaudito da coloro che sono invasi, e che, dall'altra, Erdogan imbavagli Twitter e i mezzi di informazione e la libertà di espressione, che le Ma i governi occidentali stanno dimostrando di aver imparato qualcosa dai loro precedenti errori, e stanno cercando di volgere a loro vantaggio una caratteristica dell'attuale economia russa: la struttura oligarchica. Questa è la "pensata" che hanno avuto: invece di imporre sanzioni pantagrueliche che colpirebbero tutti i cittadini russi e farebbero peggiorare i rapporti internazionali oltre il livello di guardia, visto che l'economia (e quindi anche la politica) russa si basa sui singoli Lords, con sanzioni ad personam si colpirebbe il governo, ostacolandone le mosse, senza far esplodere il malcontento. Più di 8 Primavere Arabe, sorte ad un passo dalle nostre terre un tempo portatrici di civiltà, stiano miseramente morendo nel solito autunno senza fine. Non è un caso: sono i nostri valori, la nostra più alta cultura che non siamo più in grado di trasmettere, e questo semplicemente perché la stiamo perdendo, perché la stiamo a guardare impotenti mentre evapora, senza tentare in alcun modo di opporci, ma anzi approvando coloro che se ne infischiano. Ridicolo? Non tanto. Si provi a leggere la politica come frutto di tutto questo, e ogni cosa coinciderà. Sull'orlo dell'Europa si sta giocando una partita veramente dura; l'orlo dell'Europa è l'ultima spiaggia, poi il vestito si può solo scucire fino al centro. Ma dall'orlo si può anche ripartire. Ora l'Ucraina (o quello che ne resterà) aderirà all'Unione. Spero solo che quel popolo giovane e indurito dalle sventure porti nuova linfa, nuova energia nelle nostre pile scariche, e svegli magari chi ha voglia di fare qualcosa. Sto parlando di noi. delle Sinistre del continente si rispecchia unitariamente nelle sue coraggiose idee contro la politica dell’austerità che, a suo parere, porta a pochi risultati pagati a un costo elevatissimo… Infatti l’aumento improvviso delle imposte e il drastico taglio sui servizi provocano solamente la crescita del tasso di disoccupazione e le disuguaglianze sociali, dato che i più bersagliati da questa strategia, volta a risanare il deficit pubblico, sono i componenti degli strati sociali più bassi. Altri punti del programma “Tsipras” sono il finanziamento di un progetto di ricostruzione economica, basato sull’impiego della tecnologia e delle infrastrutture, che creerebbe nuovi posti di lavoro e spezzerebbe la lunga fase di recessione in cui è caduta l’UE; la creazione di una Banca Europea che fornisca prestiti a basso interesse alle banche che accettano di fare credito a piccole e medie imprese, e che possa prestare denaro direttamente agli Stati membri. Tsipras propone inoltre una politica fiscale modificabile ciclicamente che esenti gli investimenti pubblici e che eviti nelle fasi recessive il diktat del pareggio di bilancio. Tra le altre idee trova spazio anche l’aspirazione a una conferenza europea per il debito, sul modello di quella che si svolse nel ‘53 che cancellò una parte del debito tedesco dando i presupposti alla Germania per ripartire. In Italia è stata fondata una lista in suo sostegno promossa da intellettuali come Andrea Camilleri e Paolo Flores D’Arcais e appoggiata da numerosi partiti della nostra sinistra radicale tra cui SEL (Sinistra Ecologia e Libertà) e PRC (Rifondazione Comunista) che sperano, dopo gli ultimi vani tentativi, di ricreare un movimento di sinistra che possa competere con il PD sfruttando il carisma di questo nuovo leader proveniente dall’Est Europa. Il dubbio che rimane è se i suoi discorsi siano solo demagogici oppure realizzerà, in caso di vittoria, le sue promesse. ALESSANDRO VIGEZZI Luna Rossa per l’Europa Non è Renzi, non ama l’arroganza e la chiusura di Grillo, non è italiano e ha un programma rivoluzionario pronto a sorprendere l’Europa. Stiamo parlando del greco Alexis Tsipras candidato del G.U.E. (Partito della Sinistra Europea) alla Presidenza della Commissione Europea per le elezioni europee di maggio. In Grecia è riuscito nell’impresa di riunire sotto un’ unica coalizione la Sinistra radicale più divisa di tutta Europa, e nelle ultime elezioni svoltesi nel suo Paese, pur avendo in partenza un esiguo bacino elettorale, ha ottenuto il 26% dei consensi classificandosi al secondo posto alle spalle del democratico Antonis Samaras, ancora oggi a capo del governo greco (sebbene i sondaggi indichino Tsipras in vantaggio in caso di voto anticipato). In Europa c’è chi già lo considera il nemico numero uno della UE mentre una gran parte MARCO CILONA 9 Alla fine dell’epoca, la disponibilità di beni diventa quasi massima, insostenibile, non più di tanto migliorabile. Possiamo fare un parallelismo tra la crisi morale e le crisi cicliche di sovrapproduzione dell’economia. La concezione borghese della vita, che poi si è espressa nel capitalismo, ha raggiunto il punto più alto della sua curva, fare di più è difficile, se non impossibile. Da qui viene in desiderio di una qualche autodistruzione, di una caduta della nostra qualità della vita per poter poi ritrovare la felicità nella speranza della crescita. Quindi, questo abisso davanti alla quale ci troviamo, possiamo affermare sia che esiste sia che non esiste. Può esistere in quanto siamo stati noi, viziati dalla disponibilità dei beni di cui ci siamo forniti, che ci siamo resi conto di una qualche insensatezza e insoddisfazione di tutto il nostro percorso. Dall’altra parte può non esistere se paragoniamo la nostra condizione a chi non ha avuto le nostre possibilità. Facciamo per un attimo riferimento a chi non vive la sua vita, ai deboli, agli ultimi, che mai hanno visto salire la curva della loro esistenza. Anzi. Dunque, che valore ora ha questo nostro desiderio di distruzione, questo senso di decadenza, questa sterile depressione giustificatrice paragonata a quelle vite, così lontane dal nostro sguardo e dal nostro pensiero? Che valore hanno i piccoli residui di saggezza, sparsi in un mare di corruzione? Che valore hanno i geni e i corpi belli sepolti sotto un mare di trucco davanti a, per esempio, “i bei persiani” di cui ci parlava Pier Paolo Pasolini? Siamo diventati tutti dei Mastro-don Gesualdo, ma ancor meno sinceri e molto meno innocenti. Penso, in conclusione, che ci dobbiamo solamente vergognare dei nostri eccessi e delle nostre ree giustificazioni. Ritengo stucchevoli le considerazioni “inattuali”, dell’epoca che finisce, del male incurabile, perché inutili e false, davanti a chi è stato meno eccessivo, eccentrico e egoista di noi. Usciamo solo per un momento dalle nostre lunghe automobili, mettiamo il naso fuori per sentire il vero odore del mondo. Quello che disprezziamo è solo la nostra torre di avorio, il nostro nido pieno di specchi che non ci doveva far sembrare fratelli, ma bensì amanti. Guardiamo coloro diversi da noi, che siamo i forti. Sono gli ultimi i soli che hanno qualcosa da insegnarci, dal loro luogo di spettatori esterni e non coinvolti, dall’alto delle loro baracche e palazzi popolari. Alcuni intravidero una qualche giustizia sociale, altri una ricerca della purezza perduta. Forse è proprio per questo che vediamo “bella” l’onestà di quei colori a tinte forti, perché proprio nei nostri ultimi c’è la soluzione alla consapevolezza di essere, al fine della Storia, colpevoli. Considerazioni attuali: la caduta dei castelli di carta Resisto con molto piacere. Ero partito con l’idea di commentare le ultime uscite della scena politica italiana. Venerdì scorso c’è stata la prima “rappresentazione” (scusate non ho altre parole) del grillo parlante davanti alle televisioni italiane. Il comico, dall’alto della saggezza suggeritagli dai suoi sessantasei anni, consigliato dal suo “gaio” guru dai capelli al vento, ha deciso di rispondere, di fatto non rispondendo, alle domande di un troppo sorridente e poco fiero giornalista. Pensavo di scrivere delle tante falsità che sono state dette, di come al populismo si univa una brillante tecnica oratoria, sicuramente attraente per le menti dei telespettatori più distratti. Scusate, ma oggi mi asterrò dallo scrivere dei fatti (non credo che quello che sta avvenendo di recente possa essere considerato veramente “politica”) e vorrei piuttosto esporvi delle “considerazioni”, idee concrete, derivate totalmente dall’esperienza, attuali, appunto. Prima di tutto, sentiamo intorno a noi, un’aria comune di decadenza. Tutto ci parla di una fine di un’epoca, di un trascinarsi stanco di vecchie abitudini del passato, inattuali e sterili. Vincono Oscar film che parlano di Eumolpi che vagheggiano tra bei paesaggi in distruzione e vaghe idee di (grande) bellezza. Lo si riscontra anche nella politica. “I partiti sono morti”. “l’antipolitica ci farà morire”, “siete vecchi”. C’è, nella nostra società, un senso di totale disfacimento, di crollo di antiche illusioni che non vengono sostituite da nulla. E c’è quasi un senso di piacere, di autocompiacimento, nel non avere speranze, nel lasciare che le cose ci scorrano addosso, nel togliere la mano dal fiume della vita che scorre impetuoso. Molti, o quasi tutti, provano piacere nel rifugiarsi del pensare comune e in questo abisso (che sia esistente o da loro creato cambia ben poco) cercano le soluzioni di evasione più perversa. Lasciando stare ai moralisti il loro arduo compito, questa sensazione di decadenza (“sterile depressione”) diventa quindi una giustificazione al soddisfacimento dei desideri più proibiti, una spugna che cancella ogni senso di colpa. Questa può essere l’osservazione imparziale di un osservatore (quasi) esterno, questo è quello che un occhio da spettatore può vedere nei balli sopra grattaceli illuminati e “polveri bianche stese nei salotti buoni”. Cosa possiamo dedurre da tutto ciò? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo ritornare all’inizio del nostro ragionamento, parlavamo di una fine di un’epoca. Di conseguenza c’è stato un inizio e uno svolgimento di quest’epoca che ha potuto volgersi e spiegarsi grazie al progresso dei suoi individui, alla ricerca di una raggiungibile felicità materiale, consumistica e della proprietà. GUIDO PANZANO 10 struttura caratteriale umana media, esso costituisce l'atteggiamento fondamentale dell'uomo autoritariamente represso dalla civiltà della macchine”. Senza ricorrere eccessivamente ai concetti di repressione freudiana (tra cui “l'inibizione morale della sessualità naturale del bambino che lo porta ad essere pauroso, timido, timoroso dell'autorità, ubbidiente, buono ed educabile in senso autoritario”) che Reich ritiene essere parte dei fondamenti del fascismo, egli ritiene che esso dipenda, anche e soprattutto, dalla paura di vivere. L'uomo di massa, infatti, pensa unicamente a salvaguardare la normalità della propria quotidianità, finendo poi con l'aderire al nazismo spontaneamente per sanare le contraddizioni della propria coscienza. Quindi non dobbiamo rivolgere tanto l'attenzione ai fattori esterni storico-sociali, quanto ai fattori interni, alle contraddizioni del nostro io combattuto tra Bene e Male. È indubbiamente difficile riuscire, nel corso della nostra vita, a isolare l'Ombra che inevitabilmente ci appartiene, ma, quando lasciamo che essa vinca, la paura di vivere ha la meglio. A questo punto la via è segnata: siamo portati a esternare l'Ombra su qualcun altro, per rassicurare il nostro ego. Ecco che vengono fuori le ideologie razziste, in cui l'Ombra è proiettata collettivamente sul diverso, che incarna tutte le meschinità e le vergogne che ci appartengono, ma di cui vogliamo disfarci. Psicologia di massa del fascismo: come questo ha attirato milioni di persone e come tutti, in fondo, ne siamo attirati Nello studio del fascismo spesso ci si domanda come questo abbia potuto convincere così tante persone, nonostante le idee che portasse avanti fossero non solo assurde ma anche incredibilmente contraddittorie. Uno dei primi a chiederselo fu sicuramente Wilhelm Reich (1897-1857), psichiatra austriaco di simpatie marxiste che, già nel 1933, con il saggio “Psicologia di massa del fascismo”, analizzò come e perché il nazi-fascismo avesse potuto prendere il sopravvento sulle masse. La spiegazione che si è data finora della “svolta a destra” degli anni '30, come dettata dalla crisi del '29 o dal trattato di Versailles, è sicuramente insufficiente a spiegare come più popoli si siano assoggettati a un autoritarismo così ridicolo e incoerente come quello nazi-fascista. In questo modo, infatti, si tende a svilire il fascismo come ideologia appartenente a una singola epoca storica e non ripetibile, mentre i fatti ci dimostrano che il fascismo (nelle sue infinite sfaccettature, tra cui quella razzista) non è iniziato nel '29 e finito nel '45, ma continua a permeare la nostra società. La prima domanda da farsi prima di affrontare qualunque discorso è questa: “che cos'è il fascismo?”. Facciamo rispondere Reich attraverso tre citazioni: “Il fascismo non è l'opera di un Hitler o di un Mussolini, ma è l'espressione della struttura irrazionale dell'uomo di massa”; “la mentalità fascista è la mentalità dell'uomo della strada mediocre, soggiogato, smanioso di sottomettersi ad un'autorità e allo stesso tempo ribelle”; “il fascismo è l'espressione politicamente organizzata della “La teoria della razza non è una creazione del fascismo. Al contrario: il fascismo è una creazione dell'odio razziale e la sua espressione politicamente organizzata”. Perché? Perché quando l'Ombra ci vince e la proiettiamo sugli Ebrei c'è il bisogno patologico di un Hitler che ci rassicuri, assicurandoci che lui combatterà gli Ebrei. Non solo l'odio razziale, però, è alla base del successo di un leader fascista: nel caso specifico della Germania come è possibile, infatti, che settanta milioni di persone siano state sedotte da uno psicopatico? 11 La risposta ovviamente non è semplicissima e non è data da un unico fattore, ma sicuramente possiamo rilevare che in Hitler vi fossero tutti i fattori psicologici di un membro medio della comunità portati all'estremo (il sentimento nazionalistico, l'anti-semitismo, l'anti-democraticità, etc.). Da ciò deriva l'infantile bisogno di appoggiarsi a qualcuno con cui identificarsi e riscoprirsi. Ecco quindi che il piccolo borghese ama e odia, in modo meccanico, ciò che il Führer dice di amare o odiare. Otto Strasser, confondatore del partito Nazista, scrive: “Hitler risponde alle vibrazioni del cuore umano con la sensibilità di un sismografo che lo pone in grado di agire, come l'altoparlante che proclama apertamente i desideri più segreti, gli istinti più perversi, le sofferenze e le frustrazioni intime di un'intera nazione”. Ironie paradossali Ciò che risulta strano è pensare come in una persona possano confluire idee e opinioni diametralmente opposte. Mi capita spesso di fermarmi, sedermi e poi di rendermi conto che ciò che volevo realmente fare fosse solo camminare. In me, quindi, risiede l’idea o la voglia di stare seduta come di stare in piedi. Ciò avviene anche quando ci si rende conto di dover prendere delle scelte di spessore ben maggiore, se è meglio arrancarsi a ciò che conosciamo o buttarsi alla cieca da un burrone di cui non si vede la fine. Risiedono in me opinioni discordi che si contraddicono in modo continuo senza arrivare a un pensiero di natura compatta e univoca. C’è sempre una lotta intestina all’interno della mente su ciò che è bene o è male fare, su ciò che bisognerebbe o si dovrebbe fare. E’ questo uno delle questioni che ha interessato maggiormente il pensiero filosofico e teologico da migliaia di anni. Quale sia la vera essenza ed identità del libero arbitrio, e soprattutto se è vero che esso sia davvero libero, credo che almeno uno volta tutti se lo siano chiesto. Anche se paradossalmente a volte il mio libero arbitrio appare tutt’altro che libero, anzi, lo definirei paralizzato, del tutto immobile. E perché non si muove? La domanda sorge spontanea. L’uomo è dotato d’istinto. Istinto che spinge ad agire e ad amare, a cui però si contrappone una razionalità incatenata che priva l’uomo di una delle facoltà più belle: la gioia di poter scegliere senza un perché o senza un fine. L’arbitrio è dunque figlio della coscienza e dell’incoscienza. Nasce dall’anomala e contraddittoria unione della razionalità con l’irrazionalità e noi siamo figli diretti di questi due elementi cardini. Impareremo prima poi a far convivere i due pacificamente in modo tale da poterci permettere di prendere delle decisioni con impavida e incosciente saggezza? Si riflette ininterrottamente tentando di porre, almeno per una volta, la ragione da una parte, ma più la si sopprime più essa riemerge (ciò che è più ironico e paradossale è voler razionalmente provare a pensare in maniera irrazionale) . E allora cosa fare? Quale sia realmente la natura di questo sentimento L'errore del comunismo e dei partiti anti-fascisti in generale è stato quello di non riconoscere ciò, ma di negarlo fortemente, vedendo nel fascismo solo un movimento reazionario, senza interrogarsi per davvero su come questo movimento reazionario e fortemente anti-democratico e anti-liberale riuscisse a ottenere l'appoggio di masse che, a rigor di logica, sarebbero dovute essere attratte da altre ideologie che dessero loro la “dittatura del proletariato” (per le classi disagiate) o la democrazia liberale e liberista (per il ceto borghese). Ragionando e parlando a slogan, i partiti anti-fascisti non hanno saputo, o voluto, riconoscere che il fascismo va rintracciato nel proprio essere e che per renderlo inoffensivo non va negato ma riconosciuto. Se non lo si rintraccia nel proprio essere e nelle istituzioni che lo favoriscono (come una famiglia autoritaria o una società moralistica) non si potrà mai sconfiggere e si lascerà che intere popolazioni si vendano al Male per proteggersi dal Male stesso, non essendo più capaci di isolarlo e respingerlo dentro di loro. FRANCESCO NEGOZIO 12 che ci rende del tutto inermi e fragili di fronte alla natura credo dovremmo saperlo! Kierkegaard forse parlerebbe d’angoscia, io ancora devo riuscire a definirla. L’arbitrio nasce nel presente di fronte alle aspettative di ciò che in potenza potrebbe essere tutto e che non è ancora niente di determinato. Viviamo, purtroppo, in una società oppressa dalla razionalità: mi chiedo solo se prima o poi potremmo far riemergere quella scintilla di irragionevolezza che rendevano gli uomini del passato così liberi. Il suo è un incoraggiamento ad aver fiducia nel futuro, poiché i puntini che appaiono ora senza senso si uniranno con il passare del tempo. Proseguendo con il suo discorso, Steve ci racconta una storia di amore e perdita. Scoprì presto qual’era il lavoro dei suoi sogni, il lavoro che amava fare e così fondò la Apple ad appena vent’anni, nel garage di casa. L’azienda continuò a crescere quando, dopo dieci anni e in seguito a contrasti all’interno della compagnia, Jobs venne licenziato. Un colpo così duro avrebbe fatto arrendere chiunque. Ma non lui. L’unica cosa che avrebbe potuto salvarlo era l’amore infinito per il suo mestiere e così fu. Il licenziamento non rappresentava infatti alcun reale impedimento per Jobs, anzi gli diede l’opportunità di ricominciare da zero, di entrare nel momento più creativo della sua vita e, come lui stesso afferma, il licenziamento fu la cosa migliore che gli potesse capitare. Infatti fondò altre due aziende, in seguito riacquistate dalla Apple, dove ben presto tornò a lavorare. L’amore per le proprie passioni è ciò che ognuno di noi deve imparare a coltivare, a perseguire fino alla fine. Condurre il lavoro dei propri sogni è l’aspirazione a cui tutti dovremmo mirare, senza perdere la fiducia, perché si sa che il cammino per arrivare al traguardo è sempre pieno di difficoltà. C’è anche un altro modo per seguire il proprio cuore: l’inesorabile scorrere del tempo. Steve Jobs da sempre ha creduto di voler vivere ogni istante come se fosse l’ultimo, come del resto fa ciascuno di noi, ma mai ha capito fino in fondo cosa volesse dire come quando si è trovato di fronte alla morte: un cancro incurabile, massimo tre o sei mesi di vita. Ricordare che sarebbe morto presto fu lo strumento più utile che lo poté aiutare a fare le scelte importanti, poiché di fronte alla morte svanisce ogni cosa superflua e rimane solo ciò che davvero conta. Non si può perciò sprecare la propria esistenza seguendo dogmi, false credenze, vivendo la vita altrui o lasciandosi influenzare dalle opinioni. MARTA SPIZZICHINO Steve Jobs: così parlò l’Ulisse senecano dei tempi nostri La mia storia racconta di una vita vera. Leggendo le tracce di un saggio breve che avrei dovuto svolgere come compito in classe, sono stata catturata dalla trama di un racconto. Protagonista della storia è Steve Jobs che, descrivendo le esperienze più importanti della sua esistenza, impartisce agli studenti universitari di Stanford una grandissima lezione di vita. Jobs comincia il lungo discorso proprio dalle esperienze giovanili, dal momento in cui decise di abbandonare l’università per seguire i suoi sogni, le sue aspirazioni. Tutte le scelte fatte da giovane, scelte operate seguendo il cuore, si sono rivelate per lui le più importanti e, anche quelle che sul momento potevano sembrare insensate, con il passare del tempo si sono rivelate di un valore inestimabile. Ad esempio, tutti i corsi di calligrafia che seguì al college da quel momento in poi risultarono fondamentali anni dopo per la programmazione del Macintosh: il primo computer ad avere una bella tipografia. Ovviamente non era possibile all’epoca “unire i puntini” (come ci dice Jobs), ma tutto diventò più chiaro dieci anni dopo, voltandosi indietro. 13 La cosa più importante è avere il coraggio di seguire il proprio cuore e la propria intuizione, uniche strade che ci portano verso ciò che è veramente giusto. raramente le mettiamo in discussione sperimentando ciò che recepiamo. Spesso viviamo tutti i giorni conducendo una vita monotona e avendo poche aspirazioni per il futuro. Ma io credo che è proprio in un tale momento di crisi che dobbiamo prendere iniziative e affrontare le situazioni che ci si presentano con decisione e determinazione. Siamo noi gli artefici del nostro destino, siamo noi a decidere il nostro futuro. Il futuro è nelle nostre mani. ELEONORA CORRADI Alla luce del sole “Alla luce del sole” è un film di Roberto Faenza, tratto dalla storia vera di Don Pino Puglisi; è ambientato nel quartiere Brancaccio di Palermo tra il 1990 e il 1993. Don Puglisi è il sacerdote della chiesa del quartiere; vivendo a Brancaccio, si accorge di una dura verità: i bambini del quartiere sono coinvolti nella malavita e molti hanno dei genitori mafiosi. Il cancro diagnosticato a Steve Jobs si rivelò curabile e da quel momento in poi egli visse veramente ogni giorno come se fosse l’ultimo della sua vita. Il suo racconto termina con un invito, una frase letta molti anni prima su una rivista degli anni Settanta, che per lui divenne una vera e propria filosofia di vita, ed è ciò che augura a tutti gli universitari di Stanford per il loro futuro: “stay hungry, stay foolish”. Fin dall’antichità filosofi, pensatori e, più semplicemente, uomini hanno discusso riguardo la vita e la sua brevità. Leggendo questo discorso meraviglioso, ho subito pensato alla filosofia di Seneca, che pure affronta il tema dello scorrere inesorabile del tempo. Secondo Seneca, l’uomo fa un uso profondamente scorretto della propria esistenza lamentandosi poi della sua brevità: infatti solo quando giunge alla fine si rende conto di averla vissuta soltanto per metà. Seneca è convinto, al contrario di molti altri, che la vita non sia affatto così breve, ma anzi lunga se il tempo viene gestito bene. Sempre secondo l’autore latino, bisogna quindi vivere pienamente l’oggi, considerandolo come una vita intera. Esiste anche un altro personaggio che incarna alla perfezione tutti gli aspetti riproposti da Steve Jobs: Ulisse, l’uomo dominato dalla sete di conoscenza, mito dell’eterna ricerca. Dove sono finiti oggi tutti questi valori? Abbiamo ora a disposizione mezzi tecnologici per recepire le informazioni ma Egli cerca allora di cambiare i loro modi di fare, consigliando loro di andare a scuola, in chiesa e di non rubare. I ragazzi iniziano, quindi, a frequentare la sua parrocchia, perché è un luogo dove si possono sfogare giocando, per esempio, a calcio; i genitori mafiosi, però, non gradiscono gli insegnamenti di Don Puglisi e a un ragazzo di nome Domenico viene anche impedito di frequentare la parrocchia. Il sacerdote manda, comunque, dei messaggi chiari ai mafiosi di Brancaccio facendo un discorso nella piazzetta della chiesa, ma non viene ascoltato da nessuno. Il suo messaggio per i cosiddetti uomini d'onore era di presentarsi “alla luce del sole” e di non agire nell'ombra. In televisione e alla radio, annunciano l'omicidio di Giovanni Falcone e Don Puglisi decide di dedicargli una messa; successivamente arriva anche quello di Paolo Borsellino. In seguito ad una aggressione, Don 14 Puglisi si rende conto di essere in pericolo e che potrebbe essere ucciso da un momento all'altro. Ciò accade il giorno del suo 56º compleanno, per strada, da parte di un gruppo di mafiosi che lo avevano seguito in auto, proprio mentre Roberto Baggio segna un gol per la Juventus. Le sue ultime parole sono state: “Vi aspettavo”. Nell'ultima scena in cui viene celebrato il funerale, tutti i bambini della parrocchia sono presenti e lasciano un pensiero sopra la bara. Personaggi molto importanti sono i tanti bambini e ragazzi verso cui il parroco rivolge i propri sforzi: giovani e giovanissimi il cui animo è diviso tra il desiderio e il bisogno di legalità, suscitato da Don Puglisi, e la tradizione familiare legata alla criminalità organizzata. Si può dire che la pellicola si concentri su un dato: i bambini possono salvarci, sono la bellezza della rivoluzione, i bambini siamo noi prima di avere la rassegnazione dell'esser diventati adulti. Don Puglisi parla di regole, lo fa perché esse possono essere infrante a patto che prima si abbia la consapevolezza di essere liberi; ma questi bambini non lo sono, lo si comprende già da come pensano, ragionano e sognano; c'è chi, per esempio, desidera crescere, comprare una pistola e uccidere i poliziotti che hanno arrestato suo padre. silenzio disinteressato, non possiede più l'udito, perché non vuole ascoltare (aumentando la musica o il rumore del frullatore), non possiede più gli occhi, perché non vuole vedere (chiudendo le finestre o abbassando le serrande), tutto ciò per paura di essere coinvolta in un vortice che non lascia più liberi. Nonostante sia stato a volte solo nella sua lotta contro la mafia, Don Pino, nella sua determinazione, intende continuare a portare speranza e giustizia ai ragazzi dei luoghi in cui era nato. Lo scopo di Faenza è quello di mettere in luce chi è dimenticato mentre deve essere ricordato, è quello di parlare al cuore e non solo alla ragione, attraverso un linguaggio realistico e semplice. La macchina da presa trova il realismo di quei luoghi attraverso i desideri, la speranza che si annida negli animi di chi non teme, di chi non ha paura della sconfitta. La naturalezza e la verità del racconto sono tali che anche l'unico episodio di invenzione (il ragazzo che si suicida alla fine) è credibile, da brivido con quella danza della morte con la moto che inscena attorno a Don Puglisi prima di compiere quanto ha già deciso. Ci sono voluti anni per riconoscere il valore dell'opera di Don Puglisi e questo film testimonia ulteriormente come il suo sacrificio non sia stato vano, ma offra anche oggi una scintilla di speranza. ELISABETTA TORTORA Il compito di Don Puglisi è, quindi, quello d'insegnare la libertà attraverso le regole, con semplici azioni, come una partita a pallone o una festa di parrocchia. La mafia è talmente radicata tra le povere case di Brancaccio che ormai la gente è diventata preda del 15 Truffaut, Godard e gli altri si proponevano un tipo di cinema fedele alla sua vocazione realistica, che fosse scevro dalle manipolazioni del montaggio e che fosse espressione della soggettività degli autori. Un cinema in cui i confini fra critica, teoria e pratica cinematografiche fossero sempre più labili. Un cinema dove emergessero la spontaneità, la casualità e la leggerezza di un nuovo modo di operare. Considerando le premesse, risulta alquanto forzato l’inserimento di Resnais nel novero dei registi della Nouvelle Vague. Non solo perché egli è stato un regista dalle grandissime ed elaboratissime abilità tecniche, ma anche perché il suo è un cinema tutt’altro che spontaneo: è un cinema studiato e ponderato dove non è lasciato spazio all’improvvisazione e in cui la matrice letteraria è molto forte, se non essenziale. Proveniente dalla borghesia medio-alta francese, Resnais è un uomo dall’immensa cultura: lettore vorace che affonda le proprie radici artistiche nella letteratura francese dell’Ottocento (Marcel Proust, in particolare) e nella tradizione cinematografica francese. Il regista nasce inizialmente come documentarista (realizzerà dal ’48 al ’57 ben otto corto-mediometraggi documentari) per poi approdare nel 1959 al lungometraggio con Hiroshima Mon Amour. Alain Resnais, il “grande artiere” della Nouvelle Vague Spero vivamente che i lettori possano perdonarmi la citazione di sapore carducciano (vedasi Congedo – Giosuè Carducci), ma mi sembrava la più plausibile e adatta per tentare di delineare la figura di un regista tanto poliedrico, “multiforme” e inafferrabile qual è stato Alain Resnais, deceduto il 1° marzo 2014. Per quanto Resnais sia sempre stato annoverato fra i registi della Nouvelle Vague, è prima di tutto importante notare che non vi prese mai esplicitamente parte e che, per molti aspetti, si allontana dal modo di fare e concepire il cinema di Truffaut, Godard, Rivette e Chabrol (i principali animatori del movimento). Il movimento della Nouvelle Vague (“Nuova Ondata”) sorse a Parigi negli anni Cinquanta quando un gruppo di giovani critici cinematografici – radunatisi intorno alla rivista Cahieurs du Cinéma (“Quaderni di Cinema”) e al suo direttore spirituale André Bazin – incominciò a polemizzare con il cosiddetto “cinema di qualità” francese accusandolo di eccessiva letterarietà e di incapacità ad esprimersi in termini cinematografici. Questi giovani teorici riprendevano, fra tutte, le esperienze di registi del calibro di Hawks, Hitchcock, Minnelli, sottolineando come fossero riusciti ad imporre il marchio della propria personalità nonostante le sempre più rigide imposizioni del cinema hollywoodiano e i codici standardizzati del film di genere. Per loro la figura dell’artista doveva essere in grado di esprimersi in termini autenticamente cinematografici. Hiroshima Mon Amour (1959): Emanuelle Riva e Eiji Okada Per quanto Resnais si avvicini quindi ad un cinema di apparente finzione, la matrice documentaria è sempre presente nella persistenza oggettiva della realtà, di cui i suoi film diventano registrazioni autonome, in quanto sottoposte a sottili processi di astrazione. Lo stesso regista nega una qualunque intenzione simbolica e metaforica, ma è subito possibile individuare una sottile trama, nascosta sotto l’apparente narratività del prodotto filmico. Il cinema di Resnais instaura, infatti, un rapporto dialettico fra il dato oggettivo e le operazioni mentali che su di esso i personaggi compiono. L’esempio più lampante di questa compresenza di percezione e immaginazione è L’anno scorso a Marienbad (1961), scritto dall’esponente della Noveau Roman Alain Robbe-Grillet. Nel film la commistione fra le due dimensioni è fortissima e in molti casi è quasi impossibile individuarne una sostanziale distinzione: come infatti il dato percettivo è presente ed attivo nella sfera immaginativa, così quello immaginativo è L’anno scorso a Marienbad (1961): Delphine Seyrig e Giorgio Albertazzi 16 presente ed attivo nella sfera percettiva. Il film risulta essere allora «una messa in scena di una visione psicologica» (Paolo Bertetto). Esso rappresenta la proiezione della visione soggettiva del personaggio, che è però sempre costantemente determinata per via oggettiva e razionale. Come ha dichiarato lo stesso Resnais, il film rappresenta un vero e proprio tentativo di «avvicinarsi alle complessità del pensiero, del suo meccanismo». Proprio da queste considerazioni è possibile individuare il tema fondamentale della produzione di Resnais: l’impossibilità di fondare e organizzare scientificamente la realtà. Essa si presta a continui mutamenti, e appare conseguentemente inafferrabile. Da qui emerge il profondo pessimismo dell’autore: l’impossibilità di determinare e di autodeterminarsi si esplicita nel continuo vagare, senza fine dei personaggi (i corridoi dell’albergo nel caso de L’anno scorso a Marienbad e la città di Hiroshima in Hiroshima Mon Amour) incessantemente desiderosi di comunicare. “Tu non hai visto niente a Hiroshima”, “Io ho visto tutto a Hiroshima” si alternano ininterrottamente sulle immagini del Giappone drammaticamente segnato dagli effetti della bomba atomica: un invocazione-evocazione che svela il desiderio senza posa di conoscenza. Il personaggio resnaisiano è l’antieroe per eccellenza, l’erranza rimpiazza l’azione e il silenzio il discorso. Quest’estetica del “chiaro-confuso” viene conseguentemente ad esplicitarsi per due vie: da una parte, l’indistinzione del livello della realtà; dall’altra, l’utilizzo di un montaggio frenetico e maniacalmente preciso. A proposito di questa tecnica filmico-linguistica, Vincent Amiel ha ben definito il montaggio in Resnais “un montaggio di ricomposizione che ordina diversamente delle realtà che appartengono a logiche diverse, indipendenti le une dalle altre”. E’ chiaro, quindi, che il film si contraddistingua per una sostanziale frammentarietà. cristallizza: provoca degli attriti che sanciscono il definitivo strappo dell’unità e, di conseguenza, la frammentarietà del senso della realtà. Il flusso filmico, apparentemente preciso, si caratterizza per un sostanziale “lasciar accadere”. Amiel distingue tre diverse forme di montaggio nel cinema di Resnais: il montaggio per accumulazione, il montaggio per sovrapposizione, il montaggio per interruzione. Il giardino e i frequentatori dell’albergo in Marienbad Il primo tipo di montaggio si contraddistingue per inquadrature di oggetti immobili che si susseguono e sono accompagnate da una voce fuori campo (Mon oncle d’Amèrique); il secondo per l’esplicitarsi degli artifici della rappresentazione di cui si evidenza il processo di “incollaggio” (Hiroshima Mon Amour); il terzo per la sostanziale interruzione della processione narrativa per mezzo di musica, movimento, luce e colore (L’amour à mort). I film di Resnais appaiono perciò essere delle sfuggevoli rappresentazioni di una realtà indefinibile. All’indeterminatezza della narrazione pone rimedio la partitura musicale che costituisce lo scheletro intorno al quale il regista struttura i propri film. Essi presentano una “costruzione musicale”, in cui intorno ad un’immagine se ne dispongono altre «che devono essere omogenee alla prima come lo sono gli elementi di una composizione musicale» (dichiarazione di Resnais in un’intervista rilasciata a J. Carta e M. Mesnil). La musica non è un semplice accessorio, ma costituisce un elemento di primaria importanza nella costruzione drammatica del film. Resnais (la cui vasta conoscenza musicale è stata più volte riconosciuta dai suoi stessi collaboratori) non usa musica di repertorio, ma interagisce direttamente con il compositore in modo che il prodotto musicale possa essere il più funzionale possibile agli effetti prefissati. I film trovano nella musica l’elemento di continuità del racconto: essa amplifica le emozioni, «per cui il non detto delle immagini e dei dialoghi viene affidato al commento sonoro» (Roberto Calabretto). Lo stesso Resnais, in un articolo di Providence (1976) di Alain Resnais Ogni inquadratura è concepita autonomamente in base alla singolarità della sequenza in esame ed appartiene ad un solo livello della realtà. Vi potrebbe essere però l’equivoco di ritenere il montaggio di Resnais puramente meccanico: è proprio l’opposto. Il montaggio è preciso, ma non si 17 poetica, sottolinea la grandissima importanza del sonoro nello spettacolo cinematografico: «Ciò che attira di più la loro [degli spettatori] attenzione… non è tanto l’immagine quanto la colonna sonora – il suono delle voci, i rumori, le atmosfere, le musiche – e soprattutto la possibilità di agire su due sensi contemporaneamente, l’occhio e l’orecchio». Ma la musica però non agisce solo sulle sfere visiva e uditiva dello spettatore: essa opera anche su quella mentale «giacché deve generare nello spettatore delle associazioni di idee». La Grande Bellezza siamo noi Molto è stato detto su La Grande Bellezza, il film di Sorrentino che ha vinto l'Oscar come miglior film straniero, ben 15 anni dopo "La Vita è Bella" di Benigni. La critica si divide tra coloro che ritengono che si tratti di un capolavoro, un'opera meravigliosa "che rimarrà nella Storia" e coloro che invece lo descrivono come un film pessimo, una semplice scopiazzatura di Fellini, che riflette un'immagine sbagliata di Roma e dell'Italia, quella che piace tanto agli Americani (che per questo l'hanno premiato). Come al solito, ogni mezza misura è abolita, non si contempla nessun altro giudizio se non i due estremi "è orrendo" - "è stupendo"; tra l'altro, molti di quelli che fino a pochi mesi fa rientravano nella prima categoria, oggi, un premio Oscar dopo, si affrettano a passare alla seconda e si dicono orgogliosi dell'opera meritatamente premiata. In ogni caso, è indubbio che La Grande Bellezza sia un film ben fatto: Sorrentino mostra grande maestria nel dirigere la macchina da presa, nella scelta delle musiche, nella costruzione scenica in generale. Poi, certo, il risultato può piacere come no: è un film sicuramente complesso, in primo luogo per il fatto che una vera e propria trama non c'è; è più un affresco, un alternarsi di immagini tra l'onirico e il descrittivo. E l'insieme è assurdo e grottesco, ma lo è volutamente: l'autore intende infatti compiere un'opera di osservazione, attraverso lo sguardo di un Jep Gambardella (interpretato da Toni Servillo) rassegnato alla vacuità della società che lo circonda e in essa perfettamente integrato. Il cinema di Alain Resnais risulta molto complesso nel rapporto che si instaura fra mezzo filmico e spettatore. La sua complessità è ulteriormente accresciuta dalla propria matrice letteraria: Resnais non ha mai scritto né collaborato alla scrittura delle sceneggiature per i propri film, ma è sempre ricorso ad uno sceneggiatore, che è stato, allo stesso tempo, anche uno scrittore. Lui stesso non si è mai definito un “autore”, bensì un metteur en scène. Questo non fa però sì che il cinema del regista sia asservito alla sua componente letteraria: quest’ultima non è altro che un materiale profilmico che interagisce insieme agli altri all’interno di una comune espressione artistica. Il regista tenta, attraverso i testi (perlopiù lirici) di sollecitare la reazione dello spettatore, stimolarlo procurandogli delle sensazioni e svegliando la sua riflessione. «E’ ciò che ho voluto realizzare: l’equivalente di una lettura, lasciare allo spettatore altrettanta libertà e immaginazione che a un lettore di romanzi, che attorno all’immagine, dietro l’immagine e persino all’interno dell’immagine egli possa lasciar andare la sua immaginazione, subendo contemporaneamente la fascinazione dello schermo». E' un film di profondi contrasti, che proprio con un contrasto inizia: si apre infatti con una visione immensa ed eterna di Roma dal Gianicolo, mentre si leva un canto sublime di musica sacra. Ma a rompere la serenità del momento è un urlo, un rumore LUCA ZAMMITO 18 sbagliato, che rompe la perfezione e porta al movimento frenetico; infatti subito dopo il regista passa a inquadrare la scena della festa del sessantacinquesimo compleanno di Jep, dove gli invitati, vecchie cariatidi e patetici faccioni tirati a lucido, ballano sulle note di "A far l'amore comincia tu", che erompe altissima dopo il silenzio iniziale. stereotipo dell'Italia all'estero, ma uno sguardo, se non realistico, quantomeno azzeccato, di ciò che effettivamente essa è: un contrasto vivente. E, del resto, tutto ciò che è italiano, compreso lo stesso Sorrentino, lo è: il regista, infatti, perfettamente in linea con quanto ha voluto mostrare nel suo film (e con quanto avrebbe tranquillamente potuto fare il suo protagonista, Jep), al momento di ritirare la statuetta, in un inglese maccheronico, dedica la vittoria, accanto a nomi quali Fellini e Scorsese (più che giusto), a Diego Armando Maradona, noto evasore del fisco italiano. Siamo così. ALICE BERTINO La Grande Bellezza E’ un film che ti schiaffeggia sulla poltroncina del cinema. Uno di quelli che parla per immagini e non sai se amarlo o odiarlo. E’ agrodolce, come l’Oscar che ne segna la grandezza. Non sai fino a che punto gioirne perché racconta di una drammatica, inesorabile decadenza. La nostra. Il degrado della metropoli occidentale, dei suoi salotti un po’ sbilenchi e un po’ tragici che ospitano Jep Gambardella e i suoi amici. Jep è solo, deluso e consapevole del vuoto che lo circonda di cui si fa interprete. E tutto il film è costruito su continui scarti da scene di questo tipo a meravigliose vedute di Roma, da musiche da villaggio turistico a meditativi silenzi: il regista intende in questo modo esprimere la contraddizione di una città come Roma, la Città Eterna, che ha in sé secoli e secoli di storia testimoniati dai meravigliosi e solenni monumenti antichi, e che, però, allo stesso tempo mostra un'altra faccia, quella degli uomini di potere corrotti, membri di una società privilegiata che si intrattengono in festini esagitati in cui regna lo sfarzo e il cattivo gusto, e dove si assiste alla triste sfilata di personaggi patetici nelle loro facce rifatte, nei loro balli sguaiati, nella loro mondanità. Mondanità che ha catturato nella sua bolla dorata, fatta di niente, lo stesso Jep, ex scrittore che ha scritto un solo libro per poi darsi alla bella vita; e accanto a lui vari altri personaggi non fanno altro che rappresentare la dissoluzione morale, che si accompagna al disfacimento fisico dopo una vita che si scopre essere stata inutile. E' un film per molti versi lugubre, che parla di decadenza, di vuoto, di morte; che esprime la consapevolezza di un'occasione perduta per sempre, di una grandezza antica che ormai non c'è più, sostituita invece da una modernità sbagliata, piena di brutture se non per il ricordo di uno splendore scheggiato, consumato nel tempo, la cui immagine sbiadita è offerta soltanto dalle rovine antiche di Roma. Sorrentino non lancia nessun messaggio di speranza, non offre nessuna conclusione morale; del resto non è quello il suo scopo. Si limita semplicemente a scattare una fotografia di Roma (e dell'Italia) per come la vede lui (e per come lui stesso l'ha vissuta), nelle sue contraddizioni, tra lo splendore antico e la moderna superficialità; e ciò che offre non è il piatto Quasi se ne compiace, a tratti, e nella sua malinconia ondeggia senza meta tra le meraviglie di Roma, quelle che non sono riuscite a salvarlo. E anche tutti gli altri sono vittime dello stesso paradosso: superstiti maledetti di un naufragio ormai compiuto. Alcuni preferiscono alienarsi e lasciarsi morire, come il figlio della facoltosa borghese Viola, impazzito e ormai dissociato da una realtà troppo abbruttita. Poi c’è Romano, l’autore di teatro troppo scrupoloso e troppo poco sfacciato, amico e “figlioccio” di Jep, che alla fine torna a casa dei suoi, a Nepi, alle sue radici. Roma ha deluso anche lui, e le sue origini sono l’ultima ancora. Ma non tutti ne hanno una e preferiscono lasciarsi inghiottire dal 19 fracasso crescente delle terrazze in festa vicino al Colosseo, dove rimbomba in versione tecno sdrucita il tormentone della Carrà “uh, uh, uh, uh, a far l’amore comincia tuuuu…”. E tutti ballano, e ridono e si baciano tra loro come se si amassero. Ma non è così, e Jep lo sa e dice «Siamo tutti sull'orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che farci compagnia, prenderci un po' in giro». Torna sempre l’onirico flashback del primo amore di Jep, ambientato al mare, il mare purificatore di Fellini. Qui non c’è spazio per l’artificio e la spettacolarità, solo per la bellezza, quella primordiale che sanno i giovani. C’è raccontata poi un’amicizia, quella tra Gambardella e la bellissima Ramona interpretata da Sabrina Ferilli. “E’ stato bello non fare l’amore” dice Jep, “è stato bello volesse bene” risponde lei con uno dei suoi sorrisi sinceri. La sua è una storia diversa, quella di una donna malata e sorpresa di fronte alla bambina magra e bionda che svuota barili di colore su una tela bianca e grandissima all’ennesima festa strampalata e surreale degli amici di Jep. Col vestito imbrattato e gli occhi appiccicati dalla vernice fa di uno studiato delirio artistico lo spettacolo per gli ospiti compiaciuti e impassibili che la circondano e solo alla fine la catarsi sembra compiersi e mostrare il suo frutto nella tela armoniosa della piccola artista. Quindi eccesso e spettacolarità sono i paradigmi indiscussi della mondanità. La sofferenza inghiottita dal caos dionisiaco dei protagonisti, moderne Baccanti di una tragedia universale. La follia e il suicidio del figlio di Viola sembrano terapeutici e non è più possibile distinguere chi sia realmente sano. E la morte è solo un altro spettacolo. Fulminea e così cieca da non riuscire a capire cosa voglia dire. All’improvviso sceglie e lascia soli coloro che restano, ma non tanto più soli di quando erano tutti insieme. E Jep è così dolce col suo sorriso autentico, con la sua parlata popolare che dice cose profonde. La sua sensibilità si scontra con il mondo e lui si lascia colpire come se non avesse scelta. Questo film inietta una grande responsabilità in tutte le vene di chi lo guarda, la responsabilità di essere migliori come vorrebbe Jep, che però è troppo deluso per provarci. Come immagine questa, magari bella grande, ma solo questa. Johnny Cash Out Among The Stars E’ da poco uscito il nuovo album composto da inediti di Johnny Cash, risalenti agli anni Ottanta e pubblicati dieci anni dopo la morte. Ma chi si ricorda ancora di lui? John Ray Cash nasce nei primi anni Trenta nell'Arkansas dove, però, non resterà a lungo infatti in quel periodo la grande depressione che colpiva l'America, costringe la famiglia a traslocare. Johnny inizia a dare una mano ai suoi e lavora nei campi; all'età di dodici anni decide di battezzarsi e inizia così il suo interesse per la musica, ascoltando canti di chiesa e canzoni passate alla radio fino al 1950, quando la Corea del Nord invade quella del Sud. Johnny decide allora di arruolarsi ed entra a far parte della U.S. Air Force; diventa abile con il codice Morse e viene mandato in Germania Ovest, dove compra la sua prima chitarra. Cash inizia a scrivere canzoni sotto lo pseudonimo di John Dollar e viaggia attraverso l'Europa per circa un anno. Il 3 luglio 1954 John Ray viene congedato e due giorni dopo un ragazzo, di nome Elvis Aaron Presley, inciderà That's All Right. A settembre dello stesso anno conoscerà di persona Elvis che lo condurrà verso il primo album, facendo da tramite con Sam Philips, direttore della Sun Records. Da qui in poi, la sua vita è costellata da una serie di successi come I Walk The Line. Continua così almeno fino al 1957, quando rompe con la Sun Records perché lo costringeva a trovare sounds sempre più pop, da lui poco apprezzati. La Columbia Records non ci pensa due volte e gli propone un contratto più fruttuoso e nessuna restrizione sui suoi generi musicali. Nel 1959 la Columbia pubblica The Fabulous Johnny Cash, un disco che afferma ancora una volta il talento che si era mostrato nella Sun Records; l'album contiene canzoni dal sapore molto western, piene di spensierata energia come One More Ride, insieme a brani più malinconici e drammatici accompagnati dalla sua voce profonda, come nella magnifica Don't Take Your Guns To Town. Nel frattempo la Sun Records, pentita di essersi lasciata ELEONORA DI BENEDETTO 20 scappare un ragazzo con così tante potenzialità, pubblica Greatest! un album con alcune canzoni di John Ray che entro la fine dello stesso anno coronerà con la Columbia un sogno che la Sun aveva ostacolato: un album composto solamente da gospel, ultimo album da buon cristiano e padre di famiglia. la fede in Dio. Il 1968 per John Ray è un anno di svolta: incide un album dal vivo, At Folsom Prison. Uno show memorabile, durante il quale Cash, ripulito dalle vesti da drogato, suona e canta ai circa 3500 carcerati di Folsom in California. At Folsom Prison, sempre della Columbia Records, vende più di sei milioni di copie. In seguito a questo grande successo e ad altri live in America e in Gran Bretagna, John Ray Cash sposa June Carter con cui trascorre il viaggio di nozze in Israele sulle orme di Gesù, in nome della fede che voleva ritrovare completamente. Tornato in America, inizia a suonare con Bob Dylan incidendo circa una ventina di pezzi, alcuni indimenticabili come la bellissima Girl From The North Country. Nel 1969 viene registrato un altro live At San Quentin, un'altra prigione sempre in California. Durante questa videoregistrazione voluta dalle tv britanniche, Johnny suona classici al ritmo sfrenato del rockabilly o testi profondi dal sound country o gospel. All'inizio del 1970 si gode la popolarità raggiunta dal Johnny Cash Show, suonando con grandi ospiti e riprendendo le tematiche del vecchio West. E così le tournèe lo portano a girare l'America senza tregua, passando molto tempo lontano da casa. Per sostenere tutto questo John inizia ad assumere dosi di anfetamina, iniziando così un legame con la droga che riuscirà a sciogliere a fatica dopo molti anni. L'alba di un nuovo decennio inizia con una serie di album che mostrano l'anima di Cash sofferente e tormentata da se stesso e dalla droga. Nel novembre del 1961 verrà arrestato per la prima volta per ubriachezza molesta, aggravando la crisi sia per l'uomo che per l'artista, che terminerà nel 1963 con The Ring Of Fire, un brano che inserisce nel contesto country la tromba, mai ascoltata prima di quella performance. In quegli anni il country cambia aspetto e sound grazie anche a un certo Bob Dylan che vede in Johnny Cash un maestro, il quale a sua volta stima e apprezza un giovane talentuoso come Dylan. Il 1964 apre le porte anche al Rock, alla Beatlemania in America e a un nuovo periodo di creatività per Johnny che scrive all'insegna della musica folk di protesta. Nell'ottobre del 1965 però la vita di Cash subisce un altro duro colpo sempre a causa dell'anfetamina: verrà fermato al confine con il Messico con un migliaio di pasticche nella chitarra e accusato di spaccio; passa una notte in carcere e durante l'udienza in tribunale si dichiarerà colpevole. Subito dopo il processo smette di assumere la droga ma l'astinenza durerà poco perché dopo aver fatto una tournèe in Inghilterra: frequentando Bob Dylan ricomincia la dipendenza per l'anfetamina che forse non era mai terminata. Tornato in America divorzia e nel 1967 pubblica Greatest Hits Volume 1 con la Columbia, una raccolta che contiene solo un inedito, Jackson, cantato a due voci, la sua e quella di June Carter sua futura moglie. A novembre dello stesso anno viene arrestato per la terza volta in Georgia per il solito motivo che lo perseguitava da sempre, la droga. June cerca di aiutarlo e riesce a risvegliare nel suo cuore Tuttavia questo momento di tranquillità sulla scia del successo durerà ancora per poco, infatti gli anni Settanta sono per Johnny l'inizio di un declino, interrotto solo nel 1976, anno del bicentenario della nascita degli Stati Uniti d'America, quando prese parte a molte trasmissioni come simbolo della musica tradizionale americana. Una breve parentesi che dura non più di dodici mesi, mentre la fama che diminuiva lo avvicina ad una vecchia conoscenza, la droga, e lo allontana dalla fede. Nel 1978 ritorna a essere il Johnny Cash tormentato e drogato, incide tre album con la Bear Family Records, un'etichetta tedesca, che ricordano il sound degli albori, quando era in cerca di gloria e soldi. Gli anni Ottanta si aprono con il suo ingresso nella Country Hall Of Fame, ma purtroppo l'onorificenza non gli restituisce il successo. Il country era in declino, in quel periodo i Ramones e i Clash avevano 21 preso il potere con il Punk. John prova a dare una svolta al suo suono incidendo Johnny 99, in cui si rifà moltissimo a Bruce Springsteen. È forse questo il periodo in cui John Ray scrive i pezzi di Out Among The Stars, inediti che il figlio John Carter Cash ha pubblicato solo quest'anno. Brani che forse negli anni Ottanta, quando la musica si stava evolvendo e il country risuonava monotono e troppo scontato, non avrebbero mai avuto successo, ma oggi rinfrescano con qualcosa di apparentemente diverso il panorama musicale. Alcune canzoni veramente toccanti, come She Used To Love Me A Lot, che suona come un classico intramontabile, come già lo sono molti dei suoi brani, non sembrano avere quel sapore vecchio e obsoleto. Cash scrive alcuni di questi brani con Waylon Jenning, un altro countryman amico di Johnny: molto interessante infatti è il duo in I'm Movin' On, un pezzo country molto ritmato che trasmette allegria e spensieratezza. Gli anni bui per Johnny Cash però non terminano con gli anni Ottanta: dopo essere stato costretto a lasciare la Columbia Records, scrive un disco per la Cristiana casa di registrazioni World un altro cd gospel. Nel 1987 muore il padre ottantottenne: inizia così un periodo in cui si dedica di più al figlio che aveva avuto con la seconda moglie June. Scrive un brano con Paul Mc Cartney, New Moon Over Jamaica, lavorando con l'etichetta Mercury con cui inciderà album fino ai primi anni Novanta, quando pubblica The Mistery Of Life, un album del tutto privo di novità e difatti venderà meno di mille copie. glorie. Sembra che gli sia tornata la voglia di suonare e la fame di successo. Rick Rubin ha l'idea geniale di farlo suonare alla Viper Room a Hollywood, locale di proprietà di Johnny Depp. Cash si esibirà in più di una serata, davanti a un pubblico giovane che non lo ricorda o lo conosce solo di nome, apparendo come un debuttante, una novità. Così Johnny continua a suonare dal vivo fino al 2000, anno in cui è costretto a fermarsi e smettere di esibirsi in pubblico, annunciando di essere afflitto dal morbo di Parkinson: era cosciente che gli rimanevano pochi anni di vita, così tra il 2000 e il 2002 pubblicò ancora diversi album tra cui l'ultimo ed eccezionale The Man Comes Around, composto da quasi tutte cover molto diverse tra loro ma più malinconiche delle originali, tutte con l'inconfondibile firma di Cash. Personal Jesus cantata con John Frusciante alla chitarra o una Hurt, in cui si percepiscono pienamente il dolore la sofferenza di un uomo arrivato quasi alla fine. Il 12 settembre 2003 muore raggiungendo la moglie che lo aveva lasciato pochi mesi prima. John Ray Cash ci lascia una discografia immensa: 78 album e chissà quante altre incisioni mai pubblicate degne di essere ascoltate, opere di una leggenda della musica moderna che oggi come un tempo può essere riproposta e riscoperta come qualcosa di nuovo. Out Among The Stars quindi è più che un piacevole ritorno, è la puntata finale di una storia di grande talento. Almeno per ora… Nel 1992 entra nella Rock 'n Roll Hall Of Fame; nel 1993 decide di tornare a suonare dal vivo in un tour europeo: suonerà a Dublino e incontrerà gli U2 e Brian Eno che lo invitano ai Windmil Studios. Johnny darà il suo contributo per scrivere The Wanderer. Tornato dalla tournèe europea, incontra Rick Rubin, proprietario della casa discografica Def American Records, e in meno di un solo anno registra novantaquattro canzoni, per lo più vecchie RAFFAELE VENTURA 22 Molecola 8KS Che cosa è: Una bio-molecola concettuale, benefica che fa tendere in modo naturale alla felicità. Come si presenta: Essendo una molecola è pertanto invisibile ad occhio nudo. Può essere veicolata attraverso prodotti esposti alla molecola, come questo testo e quelli che seguiranno. Effetti Indesiderati Inspiegabile buonumore in momenti di monotonia cosmica. Euforia fuori luogo, sovra-fiducia in se stessi, autoironia. Sordità temporanea a critiche distruttive altrui. Incredibile sensitività ricettiva a critiche costruttive altrui. Propensione a cantare a voce alta in luoghi non adatti. In una percentuale dal 48% al 58% DIPLOMA. Composizione: - Giocare (Jok) in forma instabile semiseria; - Ironia (AH²) sonoro ghigno sibilante; - Ego (Ès) di composizione magmatica; - Comunicare (αβ) in scariche logorroiche; - Imparare (Σ) tessuto spugnoso tentacolare ad alta densità curiosa e con 80% di umiltà ricettiva; - Sperimentare (X∞) destrutturato adrenalinico nebuloso; - Viaggiare (Go) soluzione di micropulviscoli nomadi; - Cibo (Fo₂D) aroma gelatinoso, in posizione prona e chimicamente passivo. Scadenza e Conservazione 8ks è sviluppata per resistere alla banalità e alla nebbia psicologica. Se intrisa di queste sostanze potrebbe scoppiarvi nello zaino, che tenderà a gonfiarsi fino a portarvi a dodici metri di altezza. Potete scriverlo nelle giustificazioni scolastiche. Ah, è una molecola evolutiva, quindi instabile per definizione. Reagisce in modo diverso a seconda dell’organismo ospite. DISTRESS CLUB Indicazioni Terapeutiche Agisce contro patologie dello spirito quali: depressione, tristezza, pigrizia, apatia, alta influenzabilità. Indicata nei casi di ansia da distacco dalla coperta, noia scolastico-teorica, amnesie improvvise durante interrogazioni e successiva tendenza a belare. Predispone al pensiero autonomo. Agevola l’ingresso neuronale di informazioni rilevanti, ostacola quello delle idiozie televisive, tiene uniti pezzi sparsi di materia grigia. Vivamente consigliata in caso di smarrimento di sicurezza personale, insufficienza di sinonimi, scompenso di intuizioni geniali, astinenza da caffeina. Controindicazioni Allergia comprovata all’intelligenza. 23 simulazione. Vivi in gruppo insieme ad altri cadetti alieni, acquisisci i gradi, impari a guidare astronavi di ogni classe e a superare le missioni spaziali. Il quadro comandi delle navicelle è davvero complesso. I tecnici NASA e BM stanno cercando di studiarlo per trarne ispirazione. Hai una tua stanza, soldi, armi, caratteristiche personali incredibili, ti innamori, baci, parli, mangi, dormi, ti stanchi, impari le lingue aliene. Quando ricevi i gradi di capitano, puoi entrare in sala tattica e vedere l’universo ologrammatico. Oltre la via Lattea, oltre i pianeti conosciuti. Vedi il database di tutte le razze aliene con una vastità e una precisione di particolari che in confronto Star Trek non è niente. Puoi viaggiare nell’iperspazio e raggiungere pianeti lontani anni luce, conoscere altri mondi e altra “gente” e le loro abitudini. In modalità online potresti incontrare Bill Fatality Hawl che ti “sfancula” mentre aziona l’iperguida. Sei un universopolita, conosci le galassie come il tuttocittà, e sei libero di diventare ciò che vuoi. Next è infinito. Il nostro pilota Quarto è innamorato di Alayaga, ufficiale di Ves. Jay, via olomessaggio, lo invita a raggiungerlo su Saruk per bere qualcosa. Ma Quarto è in missione per l’Accademia e sta sfidando il giapponese Kentaro. Deve batterlo a tutti i costi. Si avvicina al pianeta Baldur, attorno al quale girano vorticosamente asteroidi ferrosi. Deve entrare nell’orbita per completare la sfida. Quarto vede Kentaro nei visori dell’astronave, impenna, decelera, fa lo slalom tra i meteoriti, attraversa la nebulosa ed eccolo lì a ruotare nell’orbita planetaria. Applausi di tutta la squadra. Kentaro brucia il suo joypad, deciso a non giocare mai più. Dieci minuti dopo prenderà il pad di riserva. Quarto è l’idolo dei cadetti. Alla base festeggia con la troupe virtuale. Il giorno dopo si sveglia alle 5 per accendere il pc. Suonano al campanello. Stupito, va ad aprire alla porta. Di fronte casa è parcheggiata la sua astronave. Alayaga, in carne e ossa aliene, insieme al secondo pilota di Quarto, lo saluta. “Perché quella faccia? Ci conosci bene no? Sì, siamo reali. Next è un protocollo di selezione. Sei il migliore! Abbiamo seguito il tuo addestramento. Abbiamo bisogno di nuovi piloti, hai 10 minuti per prepararti. Decolliamo”. Jok Atomo: Giocare Simbolo: Jok Configurazione: forma instabile semiseria Descrizione: per indole si aggroviglia intorno ai neuroni, disturbando il loro normale funzionamento. In composizione crea figure acrobatiche che distraggono la vostra attenzione da tutto ciò che stavate facendo. Il mondo dei Gamer è sconvolto dall’arrivo di NEXT, un videogioco che promette l’infinito. Concepito da una nuovissima Software House, crea un’aspettativa maggiore della missione su Marte. Il trailer su YouTube è il più sensazionale che si sia mai visto, lontano anni luce dagli altri, e assicura un finale inverosimile. Si dice che il presidente della Ubisoft vedendolo sia svenuto dalla sedia. Il sito ufficiale di NEXT è invaso dai giocatori più famosi. Kentaro Shimazu, leader giapponese di Final Fintasy e COD, provoca gli altri giocatori affermando che riuscirà a finire il gioco in una settimana. Quarto da Vinci, Master di NFS e GTA, dichiara che in Italia abbiamo le palle di finirlo in 5 giorni. Bill Hawl from Massachussets, in arte Fatality, organizza lo squadrone USA deciso a fare il culo a strisce di tutte le altri nazioni meno dotate. C’è chi vende il motorino per avere tutti i requisiti di sistema sul PC. Il traffico di console triplica in tutto il mondo entro le due settimane dal lancio. Tutti pronti. Chi ha dormito in sacco a pelo davanti ai negozi per tre giorni riesce ad avere il gioco originale. Gli altri vagano disperati e sono disposti ad acquistare la versione russa in cirillico, pur di averlo. Per un mese l’80% dei ragazzi tra i 13 e i 20 anni non esce di casa. I genitori li implorano per poter giocare. In Next sei te stesso. Con la scansione dell’impronta digitale inviata online, Next riproduce le tue fattezze con una verosimiglianza del 100%. Vivi in una base spaziale e sei un pilota. Ma non è solo un gioco di DISTRESS CLUB 24 Ego Test 6) Ti lavi la faccia con: [M] trattamento specifico niente FINALMENTE PUOI SCOPRIRE LE PERCENTUALI DEL TUO IO FEMMINILE E DEL TUO IO MASCHILE, RISONDENDO A QUESTE DOMANDE. [N] acqua / sapone / 7) Hai più di un tatuaggio? [O] No [P] Si 1) Hai paura di invecchiare? [A] No [B] Si 8) Chi tra i tuoi genitori si veste meglio? [Q] Padre [R] Madre 2) Vai dal parrucchiere: [C] Quando capita [D] A intervalli regolari 9) Vorresti: [S] essere il tuo idolo 3) Sai cosa significa “Grippare”? [E] No [F] Si [T] incontrare il tuo idolo 10) Riesci a leggere ascoltando musica? [U] Si [V] No 4) Pensi sia assurdo spendere più di 50€ per una maglietta? [G] No [H] Si 11) Nelle tue conversazioni telefoniche, prevalentemente: [W] Parli del più e del meno [X] dai e ricevi informazioni 5) Vorresti essere: [I] Un gatto [L] Un cane 12) È meglio essere: [Y] bellissimi e stupidi [Z] intelligenti e brutti DISTRESS CLUB 25 “Sotto questo cielo” è speso in sponsorizzazioni di innumerevoli prodotti e le migliori aziende del mondo hanno fatto i salti mortali per strappargli un contratto: basti pensare che solo in Italia è stato testimonial di Martini, Fiat, Nespresso e Fastweb. Dopo 7 anni di sodalizio con Nestlè, oggi lo ritroviamo con la sua tazzina di caffè in mano, alla ricerca di un posto libero dove sedersi. Lo trova accanto ad una donna che sembra non riconoscerlo. Lui si allontana un attimo e la sua presenza viene segnalata alle numerose donne presenti nel locale. La bella donna voleva gustarsi in pace il caffè che il bel George le aveva lasciato a tavolino. Vorrei farvi riflettere un attimo sul linguaggio delle pubblicità. E’ il linguaggio, infatti, che garantisce l’efficacia del messaggio e il suo successo: uno spot raggiunge il successo giocando sulle emozioni del consumatore. Il tempo a disposizione che si ha per cogliere un messaggio pubblicitario è breve, una questione di secondi in cui tutto si regge sul primo impatto. Bisogna per questo risvegliare l’interesse, colpendo nel minor tempo possibile con un accostamento di immagini e slogan che rimangano impressi. Daniel Kahneman, psicologo israeliano e Premio Nobel per l’economia nel 2002, sostiene che uno dei capisaldi dell'efficacia di una campagna pubblicitaria sia l’Immedesimazione: lo spettatore si proietta in quello che vede perché è una situazione alla quale ambisce e che lo fa sognare. Ci si aspetterebbe che il consumatore acquisisca stima della marca reclamizzata e desideri persino il prodotto. Proviamo allora ad immedesimarci in una di queste pubblicità. Torniamo al commesso della Conad: - Amore, c'è un problema. - Tra noi due? No, tra la gente. Caro signore della Conad, alla gente non gliene frega nulla perché dorme. Io soprattutto mi chiederei perché, mentre ti dirigi a palpare la lattuga, incontri sempre un uomo che va in giro in bicicletta nella parte opposta alla tua. Ecco, solo io sono così cattiva da aver pensato che vada da tua moglie? E riguardo lei, perché la svegli? Ma vacci da solo al supermercato! Al signor Daniel Kahneman, quindi vorrei dedicare queste poche parole: avrai anche vinto il premio Nobel, ma nessun uomo ambisce ad essere la moglie o il commesso della Conad. Al massimo la lattuga. Noi giovani sentiamo spesso dire che viviamo nell’era dell’informazione, che ne siamo circondati e che è impossibile sfuggire ad essa. Dai cartelloni alle fermate degli autobus, alla televisione, fino alle riviste e ad Internet: la pubblicità ha finito per accompagnarci in ogni momento della nostra vita. In Italia spesso si preferisce puntare su messaggi rassicuranti e tradizionali. Pensiamo, per esempio, agli spot della Mulino Bianco: ecco Antonio Banderas che da Zorro è diventato un mugnaio. Dalle stelle ai Pan di Stelle, è il caso di dirlo. Ma dico, Antonio, possibile che non hai un briciolo di dignità? Un uomo che ha vissuto gran parte della sua vita attorniato da donne e ad interloquire con loro, ora, in tempo di crisi, si ritrova a parlare con le galline. Ma la Mulino Bianco non è la sola ad avere un’idea particolare della famiglia. Sicuramente molti di voi avranno avuto la sfortuna di ritrovarsi a guardare alla televisione l’ultimo degli spot della Conad, in caso contrario, leggetevi queste righe: nel cuore della notte un uomo si sveglia perché avverte l’irrefrenabile urgenza di correre al supermercato a controllare la freschezza della lattuga mentre la povera moglie cerca di riposare sotto le coperte. Si tratta pur sempre di finzione, ma amica tu hai bisogno di uomo con cui parlare senza dover staccare un numerino al banco della salumeria. Chiedi subito il divorzio! Nessuno dei due spot, che vi ho menzionato, ha però mai raggiunto in fatto di fama quelli della Nespresso. Non c’è tregua, appena accendi il televisore ti ritrovi i visi di George Clooney e di Matt Damon e quell’odiosa canzoncina di sottofondo. Tutti ne parlano, tutti lo hanno parodiato, lo spot del caffè Nestè è ormai diventato un tormentone! Chi non ha mai sentito la frase: “George Clooney is inside!” (in caso, buon per voi). George Clooney è ormai un brand ben consolidato e negli ultimi anni si MARTINA MANGIONE 26 COMPONIMENTI CREATIVI 27 Frozen Cera Fredda. Non volo, non migro, non cado, non sono. Fredda come il ghiacciolo, come la neve che inaridisce il suolo, come il cadavere sotto il gelido lenzuolo. Mi hanno sciolto le ali troppo presto. Fredda come l'usignolo che perdendo un'ala non può più spiccare il volo, come il ghiaccio che scricchiola su al polo, come il vento che danza da solo. Sintomi La teoria delle stelle Leggevo così poco che non ricordavo più come si scrivesse. Perdevo tempo e sonno in perdite di tempo. Mangiavo poco e male e mai a casa. E non ricordavo l’età di mia figlia né in che giorno mi fossi sposato. Non ricordavo se fossi sposato. E la mia unica aspirazione era diventare direttore del Salòn del Libro Iberoamerico e prendere un tè con Luis. E avevo la presunzione di poter mettere contenuti impliciti nelle mie opere prime. E sfortunatamente mi innamorai una volta sola, a diciannove anni, senza idee di come si parlasse a una donna o di come si accarezzasse a letto e semplicemente la lasciai andare. Avevo paura di avere paura. Che sciocco. E di tutte le donne che mi scopai non ricordo nemmeno il nome, solo che avevo assunto tanta di quella droga sintetica che mi sembravano tutte bionde e tutte come lei. Non voglio ricordare nemmeno il suo di nome. Ora che ho imparato ad aver paura. Ed era insopportabile avere una moglie e una figlia e dover far finta di essere interessato a qualcosa o a qualcuno. Ero spaesato in una vita non mia con gente che non conoscevo e cercavo sempre gli stessi occhi dal 1991, quando li vidi la prima volta, ma non li cercai mai. Non ho mai avuto il permesso di cercare. E correvo per tutta la città per non tornare a casa e viaggiavo per tutto il paese per non trovare una casa. E ho cercato per tutta la vita di non appartenere a niente, mentre contavo le gocce di Xanax prima di andare a dormire. Io non sapevo cosa fare. Guardavo la tv e non parlavo con chi guardava la tv, leggevo le guide nelle città che visitavo ma mi perdevo tutte le volte. Ed ero quasi sicuro che la libertà fosse questo. Ero in macchina mentre ascoltavo la sua canzone preferita, l’ho vista dall’altra parte della strada mentre fumava una sigaretta e l’ho immaginata con il In alcune persone si nasconde una stella. Essa, celata e poco notata, abbaglia i passanti con una luce leggera, riflessa da altre lune che le ruotano intorno. Alcune persone hanno gli occhiali da sole giusti, che permettono loro di ammirarne la bellezza; Ogni stella è diversa e per ognuna c'è bisogno di diversi occhiali. Chi rimane incantato a guardarle, si rende conto di quanto siano insignificanti le altre lune e non vorranno più abbandonare la loro stella. ANONIMO Sono ancora ad aspettare la tua chiamata, sotto le coperte tutte le parole fanno le capriole. Non mi chiamerai, e poi arriveranno le tue scuse domani, che verranno accettate: amare. Il mio problema sono le decisioni, fammi crescere più di quanto hai fatto troppo spesso fin ora. Sta tutto sfumando in una monotonia estrema, sta tutto sfumando. Non riesco a ricordare com'era prima ma posso rimpiangerlo, il prima. Vorrei parlarti spiegarti, spiegarmi. Qualcosa mi blocca, tu. Posso parlare del passato finché non arrivi, il prima è quando tu ci sei. ANONIMO 28 suo nuovo fidanzato nella loro nuova casa a fare qualcosa di troppo noioso per le sue aspirazioni. Ho messo la quinta e ho corso, ho corso fino a perdere il controllo che non ho mai voluto avere. Ho chiuso gli occhi e ho sperato di non aprirli mai più. Ho lasciato il volante mentre ridevo fortissimo, io che della vita non avevo capito niente. cangiando in una grigia distesa costellata di alture semi sabbiose piramidali sormontate da rocce che sembravano ruderi diroccati. In quel momento l’attenzione di tutti quanti si focalizzò sull’ambiente esterno. Era alquanto ammaliante ma alla stesso tempo inquietante. La strada procedeva dritta. L’aria era tersa e lo sguardo scorreva in profondità verso il lontano orizzonte. La strada si svolgeva attraverso questo sterminato ambiente lunare. Un brivido percorse loro la schiena. Si calmarono solamente quando videro un'auto nell'altro senso di marcia. Si rilassarono, ma nessuno ammise di aver provato un attimo prima una paura infondata. La strada asfaltata procedeva, eppure iniziavano a intendere di essere fuori dal mondo. Tentavano di scacciare il ronzio di questo pensiero aggrappandosi alla consolazione di non essere soli. Dopo un lungo lasso di tempo, in cui la loro fiducia stava crollando di nuovo, incrociarono due persone che camminavano lungo il bordo della via. Che ci fanno quelli in mezzo al nulla? La visione, invece di tirare alto il tenore, alimentò la disperazione. Il grigiore era quasi abbagliante. Più s'inoltravano nel deserto più si sentivano a disagio. I sensi erano appannati, il tatto quasi inesistente, le orecchie ovattate. Spuntava sempre più gente, a chiazze, insieme, poi soli, una processione di automobili, moto, biciclette, e di nuovo solitudine e ancora motorini e persone a gruppi, a tratti. I ragazzi iniziarono a ridere nervosamente, una risata isterica, forzata. E intanto procedevano nella loro corsa infinita sulla strada dritta che non moriva nell'orizzonte. ALICE SAGRATI La strada nel deserto Sottili strisce rosse, quasi parallele, si arrotolavano sulle cime di dolci collinette che spuntavano sul pendio di una parete. Cespuglietti di erba spinosa si ergevano tra una crepa e un'altra, pini audaci si aggrappavano sulle pendici di un baratro. La roccia striata era simile a cioccolato fuso sopra lamine. Il cielo plumbeo intensificava i colori della pietra. Una macchina incespicava su una strada che pareva sospesa in quello scenario mozzafiato. La macchina si arrestò in una piazzola accanto a un altro veicolo ad ammirare il paesaggio. Quattro persone scesero ammaliate. “Scusi ci può fare una foto?” I quattro amici si misero in posa e ringraziarono la signora grassoccia con il maglione rosso. Avevano un marcato accento straniero. Erano giovani turisti frementi di conoscere e in cerca di nuove emozioni. Indugiarono un po’ finché non cominciarono a scendere gocce di pioggia. Si rimisero in moto: viaggiavano cauti, ma a quella velocità non sarebbero mai arrivati in tempo. Bisognava accelerare, ma le curve ripide e il fondo stradario bagnato non lo permettevano. Adesso si trovavano sulla cresta della montagna e ben presto iniziarono la discesa. Sotto si apriva il dirupo scosceso in fondo al quale si distingueva a malapena il fondo. Ai bordi della carreggiata non c’era una recinzione di protezione per far attraversare gli animali selvatici. La pioggia si tramutò in diluvio, picchiava sul vetro della macchina e sugli alberi. Il ragazzo al volante era teso ma non voleva darlo a vedere agli altri. Una ragazza che stava seduta accanto a lui studiava la cartina, un’altra dormiva placida con la testa appoggiata su un altro ragazzo che ascoltava la musica; ognuno era assorto nei suoi pensieri. Finalmente arrivati a valle, il cielo iniziò a schiarire. Ben presto ripresero la loro corsa. Man mano che procedevano il paesaggio diventava sempre più variegato, attraversarono praterie, canyon, foreste di betulle e di nuovo alture frastagliate - come intagliate - di terra rossa. La natura gradualmente si piegava in colline di arena gialla e poi bigia, infine si prostrò Telegiornale serale: un giornalista intervista una signora grassoccia con un maglione rosso sconvolta, s'intravede un movimento affannato dietro di lei e si sentono alcune sirene suonare. “Sono scioccata … Li ho visti poco dopo sparire davanti a me. Ho pensato “ci mancava solo la nebbia adesso”. E invece no... non era nebbia, la macchina è proprio precipitata di sotto, nel precipizio. È stato orribile, veramente… quattro giovani, così giovani”. FELIX 29 L’angelo e la corda nera come la notte. Non sapeva perché si fosse fermata davanti a quella, ma era sicura che fosse lì. Era per il silenzio, quel dolce, straziante e molto innaturale silenzio. Spinse la porta: era già socchiusa. Come una muta, tacita richiesta di aiuto cigolò un poco, timida, leggera. Elena abbassò lo sguardo: le lacrime erano ricomparse. Lui era lì, al centro della stanza. Come un tempo c’era stata sua madre: Il collo leggermente piegato, la testa china, come se dormisse. C’era anche quel leggero moto ondulatorio, come se fosse mosso da una qualche brezza primaverile. “Papà, perché mamma dorme in aria?” aveva chiesto la prima volta, quando era piccola. Era tutto uguale, solo che ora sapeva che quel sonno sarebbe stato eterno. Lui era lì, il volto quasi perfetto, imperturbabile, senza età: giovane ed al contempo vecchio. Era nella camera, spoglia e puzzolente, fermo dinnanzi a Mario, come se volesse svegliarlo. Ma sapevano entrambi che non si sarebbe svegliato, non più. Elena urlò. Urlò forte perché tutti, suo padre, la mamma, Mario e il suo angelo, avvolto nel suo lungo mantello nero, la potessero sentire. “Signorina, per l’amor del cielo si allontani subito”, una voce allarmata. Due pistole puntate. I poliziotti. Erano due ragazzi imberbi, sui volti ancora i segni dell’acne giovanile. Elena rimase lì, ferma. Nessuno lo vedeva, nessuno riusciva a vedere il suo angelo silenzioso. Perché? Perché? Roma Nord, Fiano Romano, vicino l’autostrada A1. 28 novembre. Ore 16.41. Circa 20 minuti prima. Elena non smise di correre. Non ci riusciva, non poteva, non voleva. Le porte dello squallido motel le scorrevano davanti agli occhi, i loro numeri stampati nella mente: 20…..25….30. Elena si strinse nel leggero cardigan color fango: aveva il fiatone. Appoggiò il palmo della piccola mano olivastra sullo stipite della porta, sussultando per riprendere il fiato. Ecco, aveva le lacrime agli occhi. Due piccole gocce le rigarono il volto. La donna singhiozzò in silenzio; non voleva crederci. Non ora, no. Proprio quando la sua vita stava andando per il verso giusto. Forse suo padre aveva ragione: la Vita si prendeva sempre gioco di quelli che poi, in realtà, erano solo i suoi balocchi: li strapazzava, dava loro un momento di calma, un po’ di pace e felicità per poi togliere loro tutto e farli piombare nel buio. Oh! Di sicuro “la Vita” si era presa gioco di quell’ alcolizzato di suo padre. Con un moto di rabbia ricacciò indietro le lacrime. Non era il momento. Spinta dalla disperazione riprese a correre. Raggiunse una rampa di scale. Ai lati l’intonaco verde chiaro era caduto, buio ovunque. La poca luce del tramonto filtrava attraverso le poche finestre, coperte da pesanti tende polverose. Rossa, rossa come il sangue. Fece i gradini a due a due. Come quando era piccola e lei e suo padre facevano a gara per vedere chi arrivava primo dal pianterreno alla camera della mamma. Un tonfo. “No”. Sussurrò gelida Elena. L’aveva riconosciuto quel tonfo. Quel tonfo di morte. Lo stesso che aveva portato via la mamma malata, lo stesso che aveva gettato suo padre nell’alcol, l’unico rifugio che aveva trovato. No, no, no. Anche lui no. Da fuori giungevano le urla e le sirene. Erano arrivati ,ma troppo tardi. Fece un profondo respiro. Non sapeva perché stesse lì, lì ferma, senza nemmeno più lacrime da versare. Avrebbe dovuto correre, urlare, vedere cosa era successo, ma la speranza era per gli stolti, lei non lo era più da molto. Sentì delle voci provenienti dalle rampe delle scale inferiori. Erano nervose, agitate, credevano ancora che si potesse fare qualcosa. Fece le scale con calma, non come quella volta, da piccola quando stava giocando, prima di vedere. Il suo angelo, quello che l’accompagnava da quando aveva nove anni, sarebbe stato ancora lì. Lo sapeva, non aveva nemmeno bisogno di sentirlo. Ogni emozione era scomparsa, sostituita da una fredda consapevolezza. Salì le scale con tutta calma, lui l’avrebbe aspettata, lo sapeva, aveva tutto il tempo del mondo. Giunse alla porta numero 70: era scura, Roma Nord, Fiano Romano, vicino l’autostrada A1. 28 novembre. Ore 17.01. 20 minuti dopo. Ora. Lui, il nero angelo, si gira, il volto contratto in una smorfia, un sorriso estatico, pieno di una malsana e ambigua soddisfazione. Il suo magro e ossuto braccio si alza con una tetra lentezza. Elena non vorrebbe vedere. Chiude gli occhi, ma non bastano le palpebre a oscurarle la vista. Dalla oscura voragine della manica cade una corda. E’ chiara, uguale a quella della mamma, a quella di Mario. Il nodo è già fatto. Il suo angelo fa un gesto. La mano si chiude con molta lentezza. Solo l’indice rimane fermo, aperto dritto. La indica, la rivendica, vuole il suo cuore, il suo cuore vivo, ancora per poco. GIULIA CORSINI 30 La Tana del Ragno Parte quarta Parte quinta Nei giorni che seguirono, il confine tra sogno, realtà e follia si fece per Arnolphe sempre più sottile. Infatti, nonostante il vecchio avesse capito ormai da un pezzo che la bestia non poteva rappresentare un vero pericolo, non riusciva a sopprimere il senso dell’orrore e del disgusto, e questo lo portava ad avere diversi incubi, a volte a occhi chiusi, altre volte no. Il più terribile di quelli vedeva Arnolphe correre via, scappare dalla bestia, a sua volta diventata gigantesca. Questa passava attraverso i muri, buttandoli giù, e costringeva il vecchio a comportarsi alla stregua di un ratto, nascondendosi in qualsiasi anfratto trovasse. Poi, Arnolphe arrivava nella camera del bagno, correndo, trovava la vasca piena e ci si gettava. Questa immediatamente assumeva dimensioni sempre più notevoli, sino a diventare una vasca enorme, scura, e Arnolphe vi si sdraiava sul fondo. Il ragno intanto si avvicinava, piano, e adagio cominciava a poggiare sulla superficie dell’acqua prima una zampa, poi due, poi tutte quelle anteriori e infine scivolava completamente su di essa, senza andare a fondo. Arnolphe, terrorizzato, guardava da sotto l’addome del ragno, le sue gambe contorcersi, strisciare, e le fauci schioccare, mentre gli occhi lo guardavano fisso. Poi, pian piano, l’aria cominciava a mancargli e il suo corpo a galleggiare, a risalire dritto alla superficie, dritto verso le fauci del mostro… Quando si svegliava, spesso si sentiva angosciato, e la bestia sopra di lui gli pareva ancora più terribile e minacciosa. Ma altre volte, più lucido, alzava la testa e guardava quell’animaletto, stanco, distrutto, abbrutito da quella permanenza angosciante; e quando questo accadeva, Arnolphe si sentiva quasi peggio. Frattanto, al di fuori della dimora di Arnolphe il tempo scorreva veloce: l’inquieto vento autunnale e i suoi temporali si erano placati, i fiumi, prima in piena per l’abbondanza di piogge, avevano congelato il loro corso e la neve ricopriva il muschio ed il fogliame, ovattando qualsiasi suono. Gli uccelli erano migrati e anche gli altri animali andati in letargo e nemmeno le orme di qualche vagabondo sperduto apparivano più nella neve. Anche l’atmosfera dentro la tana del ragno sembrava ora più statica, immobile, ma di una staticità diversa dalla candida quiete invernale: fetore, marciume e abbrutimento dimoravano ormai dentro quelle mura e l’aria era così densa da sembrare soffocante. E nel buio si sentivano solo il respiro dell’uomo e il rantolo della bestia, spezzati e discontinui. In realtà, nonostante nella tana regnasse il silenzio, Arnolphe non riusciva a goderne, ma aveva nell’orecchie mille rumori, impressioni di suoni che non sentiva da tanto tempo o che immaginava soltanto. - Saranno i rumori del pensiero - commentava tra sé e sé, e improvvisamente si chiese quale fosse il suono della sua voce. Prima dell’arrivo del ragno, non è che intrattenesse discorsi, certo, ma qualche parola ad alta voce gli scappava; ora, invece, viveva nel silenzio più completo e non si ricordava nemmeno più quale fosse il suono della sua voce. Né aveva voglia di rammentarselo, di risentirlo… Era assorto in questi pensieri quando il ragno emise improvvisamente un rantolo più forte, quasi come… ma sì! Un colpo di tosse. Poi un altro e un altro ancora. Sputava bava, per la maggior parte bianca, come al solito, ma anche nera. Arnolphe lo fisso negli occhi, terrorizzato: la bestia li teneva chiusi. Poi di nuovo un colpo di tosse, poi un altro. Aprì gli occhi, o almeno qualcuno dei tanti: erano occhi provati, afflitti, e Arnolphe non riuscì a provare un sentimento di pietà – per un ragno! Doveva proprio essere impazzito –, ma poi al nuovo soffio di bava e sangue, nero, l’orrore rimosse qualsiasi altro sentimento. Il ragno continuava a sputare, sempre più forte, e il suo corpo si contorceva, si rattrappiva ad ogni colpo, e poi fischiava, sibilava, si scuoteva e ritossiva. E Arnolphe... Arnolphe la stava guardando, per la prima volta in vita sua, la stava guardando, con disgusto: la morte! E il ragno alzò disperatamente la testa e urlò orribilmente: qualcosa si ruppe, se ne sentì il crepitio, e in una scia di tela e sangue, la bestia cadde giù, completamente addosso ad Arnolphe: un corpo caldo, orribile sopra il suo petto, che lo bagnava di sangue e sudore. Fuggì. Arnolphe fuggì disperatamente, disgustato e orripilato. Correva via, da quella camera che era ormai diventata la 31 tomba della creatura, inciampava e barcollava senza una direzione, se non andare più lontano possibile. E nella sua corsa, sbatté contro la porta in fondo al corridoio, e inciampò dentro l’androne vuoto, proprio davanti all’enorme finestra, che si stagliava davanti a lui come in una visione… E c’era aria, c’era luce lì, proprio come nei suoi sogni, c’era spazio per muoversi, per camminare, per respirare. I mille rumori nella sua testa erano cessati, era rimasto solo un bisbiglio, una voce sommessa, serena, la voce della fresca brezza invernale. Arnolphe si alzò, chiuse gli occhi e sollevò la testa, facendo un respiro profondo, a pieni polmoni, e si fece guidare dalla voce del vento. Assaggiò l’aria fredda, frizzante sulla sua pelle. Era vicino: vedeva già il cielo, limpido, e il sole mattutino che diffondeva nell’aria una luce tenue, ma chiara e vivace. Voleva sentirsi un tutt’uno con quel cielo e quel sole, senza sentirsi mai più schiacciato dalle mura, imprigionato nella tela vischiosa di un ragno, appesantito da un aria fetida e chiusa. Un primo passo verso l’alto. Mise il primo piede nel vuoto: com’era dolce non sentire più il marmo duro sotto la pianta! Salì. Si resse con le mani sul cornicione, e, di nuovo a occhi chiusi, assaporò ancora una volta quell’aria frizzante. Poi, con una giravolta, diede le spalle a quella mattina meravigliosa, guardò per un’ultima volta lo squallore della sua prigione e si tuffò, giù, nella neve. la mia pistola non sparò, Tredici, con la sua mira impeccabile, schioccò un colpo preciso. Di quello che accadde dopo, ricordo solo un gran frastuono di schioppettate. Vidi solamente tre guardie scappare, mentre una di loro sparò a Tredici, che cadde svenuto, colpito al fianco. In tutto questa confusione, ero rimasto in piedi, bianco per la paura e immobile. Mi destai quando Tauro si avvicinò e mi strinse forte il braccio. “Sù, Corsivo, hai mancato il governatore, ma quelle guardiacce sono tue! Diranno tutto al vescovo!”. Andai a prenderle assieme a Squarcio. Corremmo per circa dieci minuti senza intravedere nessuno. Il sentiero era quasi finito e dovevamo sbrigarci per raggiungerli in tempo. Squarcio era velocissimo e facevo molta fatica a stargli dietro. Mi urlava: “Dai Corsivo, più veloce!”. Finalmente vedemmo il primo servitore, che Squarcio ferì con un colpo alla gamba. Poi lo uccise, sparandogli dritto in faccia. Intanto, la strada si apriva perfettamente dritta davanti a noi e i tre fuggitivi non avevano più vie d’uscita. Prima che potessi davvero realizzarlo, Squarcio ne freddò due. Solo uno continuava a correre e in lui riconobbi l’uomo che aveva ferito Tredici. “Lascialo a me” urlai a Squarcio. “Tranquillo, Corsivo, hai tutto il tempo” mi rispose Squarcio. Il bersaglio era in movimento e correva ormai lontano. Rimisi la pistola nella fondina della mia cintura e imbracciai il fucile che portavo a tracolla. Era perfettamente carico. Non poteva sbagliare. Mirai la schiena dell’uomo, poi alzai di poco il fucile per la distanza che ci separava e schiacciai il grilletto. Così uccisi un uomo per prima volta. La meravigliosa e trista storia di poeti, scrittori e impavidi briganti Sommario del precedente episodio: un mese or sono, abbiam scritto di come il nostro Fausto, oramai lo chiameremo Corsivo, sia diventato parte fondamentale nella banda di Tredici. Abbiam narrato delle loro canzonacce, del sotterraneo della casa di Oliviero, pieno di quadri e di opere d’arte. Infine, della spedizione per uccidere il governatore Andrea del Castagno, di come Corsivo, noncurante del pericolo, abbia puntato la sua rivoltella alla tempia del corrotto. Quando tutto fu finito, raggiunsi il punto della strada dove giaceva l’uomo in una pozza di sangue. Era giovane, non aveva ancora la barba. I suoi occhi erano ancora aperti e con le mani stringeva qualcosa al collo, un medaglione, pensai, forse un regalo di qualche caro. Dopo poco, le dita della mano destra mi iniziarono a tremare. Sentii dei forti dolori alle braccia e alle gambe. Era una sensazione insopportabile. Sentivo il cuore che mi batteva veloce, schiacciato dentro il petto, soffocato. Parte quinta Pensavo di sparare a colpo sicuro. Ora il tempo per caricare la pistola non l’avevo, lo scagnozzo di Andrea del Castagno stava già prendendo la mira con il suo fucile. Sarei morto se non fosse stato per Tredici, che mi aveva seguito fino a quei cespugli dove mi ero riparato poco prima. Fu così che quando 32 “Se non lo uccidevi tu, era lui a farti secco” mi disse Squarcio. “Non lo so, Squarcio…”, ma proprio in quel momento un’ombra si mosse tra i cespugli e feci appena in tempo a vedere che un uomo puntava contro Squarcio la sua rivoltella che presi istantaneamente la pistola e feci fuoco. Squarcio si volse e mi sorrise. Guardandomi, fieramente mi abbracciò, da fratello. “ Se non lo uccidevo io, era lui a farti secco” gli dissi, ricordandomi che era stato lui a salvarmi ormai tanto tempo addietro. Fu una delle rare volte in cui si lasciò andare completamente. Forse gli uscì anche una lacrima, ma non lo vidi in modo chiaro. Quando ritornammo dagli altri, le condizioni di Tredici erano peggiorate. Tauro lo caricò sulle sue larghe spalle e insieme riuscimmo a metterlo sul suo cavallo. Cassio disse di seguirlo e, dopo due ore di cammino, arrivammo nella casa di un medico, Alfredo, che abitava ai confini del bosco. Non potendo entrare tutti, decisi di rimanere io con Tredici. Cassio, Squarcio e Tauro partirono per andare a portare al nostro covo il bottino sequestrato al governatore. gentilissimo. Era un uomo onesto e, nel tempo che passammo in casa sua, si guadagnò tutta la mia stima. Alfredo mi disse di avere quarantatre anni e di conoscere mio zio da molto tempo, mentre estraeva la pallottola dal fianco di Tredici. Poi prese da un barattolo varie erbe e, bagnandole con dell’acqua fresca, le poggiò delicatamente sulla spalla del ferito. Mentre sistemava le ultime medicazioni, Alfredo mi mandò nella casa a prendere un ago. Prima di entrare, vidi che mi stava guardando, dalla finestra del piano di sopra, una ragazza, dai capelli biondi e gli occhi chiari. Se prima quest’esile figura sembrava spaventata, poi mi sorrise da dietro il vetro e con la mano bianca mi fece segno di entrare. Aveva un sorriso meraviglioso. GIAN MARIA GHERARDI GUIDO PANZANO Alfredo era un uomo grassoccio, con due paia di grandi baffi che gli coprivano il labbro superiore. “Sarà una cosa molto lunga, ragazzo. Oliviero deve rimanere qui almeno per un mese. La ferita è profonda e avrò bisogno di tempo. Lo terrò nella mia stalla e farò del mio meglio per salvarlo, a quest’uomo devo la vita di mio figlio”. Se all’inizio lo guardai stupito, non feci molta attenzione alle sue ultime parole. Il medico mi offrì anche un posto dove dormire, vicino a Tredici. Fu 33 34 35 36