Marzo 2014 - Liceo Manara

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Marzo 2014 - Liceo Manara
Marzo 2014
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INDICE
Editoriali:
Editoriali dei direttori di Guido Panzano e Sofia Zollo……………………………………………...………….…3
Editoriali dei rappresentanti d’istituto…………………………………………………………………………….4
Editoriali dei rappresentanti alla consulta provinciale di Francesco Negozio……………………………..…….5
Articoli:
Partita dura ai confini dell’Europa di Alessandro Vigezzi…………………………………………………...…6-9
Luna Rossa per l’Europa di Marco Cilona………………………………………………………………….……..9
Considerazioni attuali: la caduta dei castelli di carta di Guido Panzano……………………………………..…10
Psicologia di massa del fascismo: come questo ha attirato milioni di persone e come tutti, in fondo, ne siamo
attirati di Francesco Negozio……………………………………………………………………….…………11-12
Ironie paradossali di Marta Spizzichino………………………………………………………………….…..12-13
Steve Jobs: così parlò l’Ulisse senecano dei tempi nostri di Eleonora Corradi…………………………...….13-14
Alla luce del sole di Elisabetta Tortora…………………………………………………………………......…14-15
Alain Resnais, il “grande artiere” della Nouvelle Vague di Luca Zammito…………………………………16-18
La Grande Bellezza siamo noi di Alice Bertino…………………………………………………..……….….18-19
La Grande Bellezza di Eleonora Di Benedetto………………………………………………………………..19-20
Johnny Cash Out Among The Stars di Raffaele Ventura………………………………………….………..…20-22
Molecola 8KS di Distress Club……………………………………………………………………………….…..23
Jok di Distress Club ……………………………………………………………………………..………………..24
Test di Distress Club ……………………………………………………………………………………………..25
“Sotto questo cielo” di Martina Mangione……………………………………………………………….......…..26
Componimenti creativi:
Frozen di Anonimo………………………………………………………………………………………….……28
La teoria delle stelle di Anonimo……………………………………………………………………………....…28
Senza nome di Anonimo……………………………………………………………………………………..…....28
Cera di Alice Sagrati………………………………………………………………………………….…………..28
Sintomi di Alice Sagrati……………………………………………………………………………………….28-29
La strada nel deserto di Felix…………………………………………………………………………….………29
L’angelo e la corda di Giulia Corsini……………………………………………………………………….……30
La Tana del Ragno: parti quarta e quinta………………………………………………………….…………31-32
La meravigliosa e triste storia di poeti, scrittori e impavidi briganti: parte quinta
di Gianmaria Gherardi De Candei e Guido Panzano…………………………………………………….……32-33
Disegni:
Yuki Cross di Daisy Colantuono………………………………………………………………………………….34
Equilibrio di Distress Club………………………………………………………………………………………..36
Direttori: Guido Panzano e Sofia Zollo
Capiredattori: Alessandro Vigezzi e Luca Zammito
Impaginazione: Guido Panzano, Alessandro Vigezzi, Luca Zammito e Sofia Zollo
Copertina: Anna Parlani
Docente referente: Giulio De Martino
Si desidera ringraziare i redattori, la segreteria, il Dirigente Scolastico Fabio Foddai e, in particolar modo, Loredana Polentini.
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EDITORIALI DEI DIRETTORI
Care lettrici e cari lettori,
in questi mesi ho sempre incominciato i miei brevi editoriali con frasi come “quello che avete tra le mani è il
quarto numero de La Lucciola” oppure “questo è il primo numero de La Lucciola”.
Per variare, questo è il terzultimo numero de La Lucciola. Ebbene, contro tutte le previsioni che ci eravamo fatti
all’inizio, abbiamo raggiunto la quinta uscita in cinque mesi, raggiungendo le sette che ci eravamo proposti a
Novembre. Fortunatamente, molto è cambiato dai primi numeri, la tecnica si va sempre più perfezionando. Come
vi ho ripetuto stancamente, anche questa volta La Lucciola è un giornale splendido.
Ma permettetemi di fare, prima di lasciarvi alla lettura, qualche riflessione con voi.
Innanzitutto, se girerete questa pagina, ne troverete una vuota. Devo dire che già da due numeri avevo
l’intenzione di lasciare una facciata non scritta e, ammetterlo, per la redazione e per me è una grandissima
sconfitta. Nonostante la nostra richiesta di articoli da parte dei rappresentati di Istituto, di editoriali informativi
per tutti gli studenti, nulla è arrivato alla nostra mail. Negli ultimi tempi, mi ero anche personalmente abbassato a
dei “richiami”. Insomma, prima delle elezioni della rappresentanza, tutte le liste ci mandarono i loro programmi,
all’assemblea di presentazione si riempirono la bocca con il nome del giornale e poi, in cinque mesi di
pubblicazione, nemmeno una parola. Davvero, niente.
Scusate, cari rappresentanti di Istituto, eletti democraticamente dal suffragio universale (oserei dire quasi dal
plebiscito) della nostra vecchia scuola, ma tra i tanti impegni “istituzionali” (permettetemi l’uso di questo
termine tanto amato negli anni passati), quanto tempo poteva portare via la stesura di alcune misere righe di
commento?
Insomma, non dico di riportare i verbali dei comitati, delle vostre riunioni, delle proposte al preside, delle
assemblee, dei collettivi, delle iniziative, delle manifestazioni, della cogestione, compito arduo e difficilissimo,
ma almeno spendere qualche riga per presenziare su quella che è la fonte principale, nonché unica, di
informazione nella nostra scuola!
Avevate l’opportunità di spiegare ed esporre a noi comuni studenti le gesta del nuovo organo della
Commissione, idea sicuramente suggerita tenendo a modello le più alte diplomazie europee e mondiali, con tanto
di rappresentanti dei rappresentanti e di presidenti dei rappresentanti.
Perdonatemi se insisto, cari miei, ma io, dal basso del mio ultimo anno, non ho capito cos’è questa Commissione
e vi assicuro, per indagine diretta, che come me molti considerano “oscure” le vostre manovre nel corso di
questo periodo scolastico.
Uscite, se potete ancora farlo, dallo specchio degli occhiali della vostra perduta confusione e riprendetevi quello
che in voi hanno visto i vostri elettori. Dimostratecelo. O almeno fate finta. Ma vi prego, fate qualcosa!
Con sincero affetto,
GUIDO PANZANO
Gentili signori e signore,
ci avviamo verso la fine di questo Anno Scolastico e bisogna accelerare i tempi per tentare di recuperare il
recuperabile e, mentre mi concentro per non diventare isterica – causa esame di maturità -, mi è capitato l’altro
giorno di risfogliare i vecchi numeri del giornale degli anni passati e mi ha fatto un enorme piacere notare come
il giornale sia cambiato, cresciuto, pur rimanendo sempre con lo stesso spirito che ci permette di pubblicarlo ogni
mese sempre con nuova euforia. Tutto ciò per dirvi, molto semplicemente, che a giugno quasi tutti i direttori
(almeno si spera) se ne andranno dal Manara e, dopo questi mesi e anni in cui ho scritto sulla Lucciola, vi prego,
vi scongiuro di non trascurarlo perché è una perdita per lei, per la scuola e per voi. Mi appello a tutta la
redazione e a coloro a cui non interessa minimamente niente, continuate sempre e comunque a buttare giù
qualcosa perché anche se fosse orrendo (e vi assicuro che ce ne sono stati di pezzi osceni tra queste pagine nel
corso degli anni), nessuno, tranne i direttori, saprà chi diavolo siete.
Con l’augurio che anche questo numero vi appassioni,
SOFIA ZOLLO
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EDITORIALI DEI RAPPRESENTANTI DI ISTITUTO
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EDITORIALE DEI RAPPRESENTANTI ALLA CONSULTA PROVINCIALE
22 FEBBRAIO, BANDIERE ROSSE AL VENTO
Avevo previsto di pubblicare questo editoriale a Febbraio per evidenti motivi, poi ho avuto qualche problema a
inviarlo.
Il 22 febbraio 1980 tre uomini incappucciati entrano in casa Verbano nel quartiere di Montesacro, legano e
imbavagliano i signori Verbano e attendono che rientri a casa il loro unico figlio: Valerio. Quando questi rientra,
prima tentano di colpirlo per stordirlo ma, non essendoci riusciti, gli sparano alle spalle e lui cade, morendo di
fronte ai genitori impotenti nelle ore successive.
Gli assassini non verranno mai riconosciuti, ma tutti gli indizi puntano ad appartenenti ai NAR (Nuclei Armati
Rivoluzionari), la formazione terroristica neo-fascista che imputridì Roma tra il 1977 e il 1981.
Tuttavia nel 1989 la Procura chiuse l'inchiesta per mancanza di indizi, dopo uno dei processi più surreali, mal
condotti e probabilmente inquinati della storia repubblicana italiana.
Valerio era un diciottenne appartenente ad Autonomia Operaia, un ragazzo normale, appassionato di karate,
Roma e fotografia. E forse fu proprio la passione per la fotografia che gli fu fatale. Nella stanza da letto di
Valerio infatti venne ritrovato quello che poi verrà chiamato “dossier Verbano”, una raccolta di fotografie e
appunti riguardante gli appartenenti all'estrema destra romana, forse l'inchiesta più completa sulle
organizzazione sovversive neo-fasciste di questo periodo e sulle loro attività criminali.
In questi fogli Valerio scrisse circa 900 nomi di coloro che, secondo un sentore comune presente negli ambienti
della Sinistra romana, avrebbero tentato il colpo di stato sull'esempio di ciò che era accaduto in Argentina e in
Cile. L'11 febbraio 1984 la Corte d' Appello ordinò la distruzione del dossier, distruggendo così la possibilità di
rendere pubblici i risultati delle sue indagini.
Grazie a testimonianze e alcune fotocopie di quei fogli sappiamo solo alcuni dei 900 appartenenti a
organizzazioni sovversive neo-fasciste denunciati da Valerio. Tra questi ne riporto solo tre: Teodoro Buontempo,
deputato senza interruzioni dal 1992 al 2008 con l'MSI e Alleanza Nazionale; Stefano Delle Chiaie, fondatore di
Avanguardia Nazionale; Francesco Storace, deputato e senatore per La Destra e Alleanza Nazionale, Ministro
della Salute nel 2005 e Presidente della Regione Lazio tra il 2000 e il 2005.
È per questo, e non solo per questo, che dobbiamo ricordare Valerio.
Dobbiamo ricordarlo perché se fossimo nati 30 anni fa Valerio sarebbe potuto essere un mio compagno di banco,
un mio vicino o sarei potuto essere io.
Dobbiamo ricordarlo perché, se dimentichiamo le vittime del fascismo e del neo-fascismo, ricadremo nell'errore
di sottovalutare queste forze.
Dobbiamo ricordarlo perché in un momento di crisi economica, politica e sociale come questo, la politica
demagogica fascista fa presa assoldando e formando giovani menti ignoranti.
Dobbiamo ricordarlo perché le indagini furono svolte in maniera approssimativa e ignorando volontariamente
prove importanti.
Dobbiamo ricordarlo perché Valerio era un diciottenne che sapeva “troppo”.
Dobbiamo ricordarlo perché 34 anni dopo altri “Valerio Verbano” sono stati uccisi da neo-fascisti: da Dax
ucciso a Milano nel 2001 a Pavlos e Clement uccisi l'anno scorso rispettivamente in Grecia e in Francia.
Dobbiamo ricordarlo perché il suo sacrificio non sia vano.
FRANCESCO NEGOZIO
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Partita dura ai confini dell’Europa
maggioranza della popolazione è di etnia russa, e il
governo autonomo di quella regione è
dichiaratamente filorusso. La Crimea per la Russia
non è, quindi, solo una regione dell'Ucraina in
posizione strategica, ma è anche la più facile da
conquistare. Putin ci si butta a pesce: le forze armate
russe occupano la penisola, quasi senza incontrare
resistenza. I soldati "ucraini" (parlano russo) si
lasciano circondare e si consegnano spontaneamente.
Un ufficiale ucraino, tale Iuli Mamciur, si è arreso
qualche giorno fa, tutto fiero di essersi asserragliato
quattro ore nella sua base, cantando l'inno nazionale,
mentre i blindati russi sparavano in aria. Poi ha
lodato i suoi uomini, di cui ben due su diverse
centinaia erano feriti, elogiandoli "per aver fatto tutto
il possibile" per difendere l'onore della loro divisa, e
ha infine calato le brache. Che abbia fatto una saggia
decisione a cedere di fronte a forze molto superiori è
indubbio.
Se è difficile indovinare la schedina del Totocalcio,
per la quale si commettono turpi delitti contro chi
suggerisce sbagliato, per la quale si esulta per aver
vinto cento cucuzze dopo averne perse mille,
figuriamoci allora provare a prevedere il corso della
Storia! Io, per esempio, ero convinto che la Russia
non avrebbe mai osato far guerra all'Ucraina.
Al giorno d'oggi, le grandi nazioni tendono ad
evitare i conflitti armati per il più solido dei motivi:
non convengono. E' infatti il progresso stesso della
tecnologia militare a rendere sempre più improbabile
lo scontro diretto: più si è in grado di far male al
proprio avversario, più l'avversario sarà in grado di
contraccambiare la cortesia. Se poi l'avversario non è
in grado, con ogni probabilità non combatterà,
soprattutto se il nemico è della stessa etnia e non
porta devastazione, ma promette ricchezza.
E' quello che sta accadendo in Crimea: Putin e l'élite
russa conoscono (e molto più profondamente) tutto
questo, perciò si stanno muovendo con grande
cautela e abilità. La fuga di Yanukovic e degli altri
filorussi al governo dell'Ucraina ha fatto capire nelle
stanze del potere russe che controllare quel Paese,
anche indirettamente, è impossibile. Però l'Ucraina è
una terra in posizione strategica, al confine con la
Russia e alle porte dell'Unione Europea; è una terra
fondamentale per il controllo del Mar Nero e delle
vie di transito del metano. Una terra, insomma, da
non abbandonare a rivali politico-economici come la
UE.
Tutta questa contentezza per il proprio gesto, e il
fatto che quasi tutti i soldati ucraini di stanza in
Crimea lo stiano imitando, significa che nessuno ha
mai pensato seriamente di opporsi. Il che è molto
comprensibile: perché quei soldati dovrebbero
scegliere di versare il loro sangue combattendo
contro un invasore che parla la loro stessa lingua, e
che promette loro di poter continuare a servire
nell'esercito mantenendo il grado e con uno stipendio
maggiore?
Quanto al governo di Kiev, non ha nessuna
intenzione di impegnarsi in una lotta dall'esito
incerto contro un esercito superiore per numero e
mezzi, in cui avrebbe tutto da perdere, e ha quindi
ordinato una ritirata strategica (e che fatica stanno
facendo per cercare di convincere i soldati della
Crimea a non entrare nelle fila dei Russi!). Il nuovo
governo di Kiev, inoltre, è ancora troppo fragile
politicamente, ed è occupato quindi a consolidare la
propria posizione, cavalcando l'entusiasmo del
popolo per la cacciata dell'antieuropeista Yanukovic.
Stanno varando misure per l'integrazione con
l'Unione Europea, e iniziando la "caccia alle streghe"
per demolire il potere oligarchico dei grandi magnati
industriali, che avevano sostenuto il governo
Visto che i patti stretti con Yanukovic e i suoi sono
diventati carta straccia, si è imposta l'esigenza di
limitare i danni. Il governo di Mosca ha scelto il
campo giusto, la Crimea, dove la stragrande
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filorusso per le più vantaggiose condizioni
economiche che offriva un’ alleanza con Putin, e che
è inviso agli Ucraini per le porcate varie che si è
concesso nel ventennio in cui è stato al potere: sono
stati arrestati l'ex ministro dell'Energia, al quale è
stato confiscato l’ ingente patrimonio, ed un oligarca
sospettato di organizzare una milizia separatista.
il più possibile la propria influenza in Ucraina:
sfruttando tutti i "canali di contatto" dei tempi di
Yanukovic (gli oligarchi, in cerca di protezione vista
la cordialità del nuovo governo), e approfittando del
fatto che nelle regioni del Sud e dell'Est quasi la
metà della popolazione è di etnia russa, vorrebbe
quanto meno staccare quelle terre da Kiev, in modo
da chiuderle ogni sbocco sul mare.
Ma torniamo, letteralmente, a bomba (ne sono
scoppiate poche, ma non si sa mai): per dare un
gradevole
aroma
democratico
all'incruenta
occupazione della Crimea, il governo russo ha fatto
indire un referendum, ed un modico 98% della
popolazione si è dichiarato favorevole all'annessione.
Ora, è noto come sia inutile e poco intelligente
pensare che la Storia conceda il bis, però eventi
similari avvengono ugualmente. Ai miei dotti lettori
non potrà non venire in mente l'Austria del 1938,
passata alla Germania di Hitler, dopo essere stata
invasa senza spargimento di sangue e dopo un
referendum in cui soltanto il 98% degli Austriaci
(che parlano tedesco) hanno detto "sì" all'unione dei
due Stati. Anche allora una terra arcistufa di un
ventennio di malgoverno ha accolto con sincero
giubilo l'invasore. C'è però una differenza a rendere
la situazione potenzialmente ancora più esplosiva: in
Crimea sono esasperati anche dal fatto che fino ad
ora si sono sentiti Russi dominati dai corrotti Ucraini
di Kiev, e questa rivalità etnica fa sì che ora si
sentano russi finalmente liberi nella propria nazione.
Per essere molto più tranquilli è bene sapere che
Putin è noto per aver rafforzato i suoi poteri
personali a scapito degli organi democratici, per aver
imposto leggi discriminanti, per esempio contro gli
omosessuali, ma in generale contro tutti coloro che
divergono dal pensiero di massa della Russia di oggi,
che costituisce la base del potere del governo.
Per fare questo occorre mettere in difficoltà il
governo avversario e accrescere il malcontento fra la
gente, con l'aiuto delle tensioni etniche, e quale
miglior mossa che colpire le tasche dei cittadini?
Oltre a cessare gli aiuti economici promessi
all'Ucraina con Yanukovic, il governo russo ha fatto
salire alle stelle il prezzo del metano, e dato che da
quelle parti non è che consumino molti gelati, la
gente è costretta a svuotarsi il portafogli.
Questo, da una parte, rende i "russi ucraini" sempre
più vogliosi di unirsi alla Russia; dall'altra, rende
invece gli Ucraini sempre più desiderosi di entrare
nell'Unione Europea. Abbiamo visto nel precedente
articolo come l'Ucraina sia troppo debole per
affidarsi esclusivamente a sé stessa, ma abbia
bisogno di modelli di civiltà da seguire e a cui
appoggiarsi. Noi Occidentali lo siamo stati dopo la
caduta dell'Urss, quando in quelle terre in ginocchio
eravamo visti come portatori di libertà e ricchezza.
Passato il nostro apogeo non siamo più in grado di
garantire quel benessere che stanno cercando da
troppi secoli, come invece può fare la Russia, in gran
ripresa. Quando però il filorusso Yanukovic,
allontanatosi dalla UE, dopo essersi troppo
appoggiato ai "russi ucraini" e agli odiati oligarchici,
ha limitato la libertà dei cittadini, è esplosa la rivolta
provocando tutta la serie di eventi fino a quelli
attuali. Abbiamo visto come gli Ucraini che vogliono
l'Europa, e quindi la libertà e l'indipendenza, siano
animati dal significato mistico di queste parole, che
li ha fatti morire (inutilmente) come martiri fra le
strade di Kiev. Ebbene, ora in quella città e nelle
regioni a maggioranza ucraina del Nord e dell'Ovest,
dove è nata la rivolta, tanto più dure saranno le
mosse della Russia tanto più crescerà in loro la
volontà di raggiungere ciò per cui hanno combattuto.
Queste persone tendenzialmente fanno la fine delle
Pussy Riot, mandate in gulag, travestiti da "centri di
rieducazione. L’esimio presidente russo ha inoltre
fortemente limitato la libertà di informazione, e
palesato le sue mire espansionistiche in campo
politico, economico e militare. Ma lasciamo perdere
prima di venire assassinati dal KGB o da quello che
ne resta.
Per mettersi definitivamente l'animo in pace basterà
infine narrare come l'élite russa non si voglia limitare
solo all'annessione della Crimea, ma voglia estendere
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E qui entriamo in gioco noi Occidentali.
trenta straricchi oligarchi sono stati inseriti nella lista
nera, e la finanza russa è in ebollizione.
I potenti che fino ad ora hanno appoggiato Putin
potrebbero mettere in dubbio la loro fedeltà: la borsa
russa è in perdita, il rating rischia di essere
abbassato, il Pil rallenta la sua crescita, le rendite
finanziare degli oligarchi assomigliano sempre di più
alle fiches del poker.
Tutto questo è polvere di stelle, vero? Non tocca la
nostra realtà quotidiana?
Forse allora toccherà di più la nostra realtà il fatto
che a Chelsea-Arsenal allo stadio di Stamford Bridge
mancavano sia il presidente del primo club che
l'azionista di maggioranza del secondo.
Obama, a cui è rimasto sul gozzo quel "bello e
abbronzato" detto da Silvio in presenza di Putin, non
ha intenzione di starsene a guardare, e nemmeno i
decadenti Stati europei sono così deboli da
abbandonare completamente il proprio pianerottolo
politico. Anche questi devono scegliere il terreno
adatto per vincere lo scontro: finché si rimane in
ambito politico-militare, la Russia è troppo forte, lo
scontro diretto non conviene mai, soprattutto in
tempi di crisi, ed intervenire è complicato e
controproducente. Si sposti però lo scontro sul piano
economico, e Putin sobbalzerà come se gli avessero
piantato uno spillo nel sedere. Perché è vero che la
Russia è un colosso in ascesa e gli Stati occidentali
sono chi più chi meno colossi in crisi, però siamo
comunque tanti colossi e la Russia è sola.
L'unica arma adoperabile, con tutti i macchinosi
battibecchi fra alleati, sono le sanzioni economiche,
le quali finora hanno avuto un'utilità relativa, per non
dire che siano state completamente fallimentari
(leggi Iran).
E per mancare ad uno scontro diretto in chiave primo
posto dovevano avere una buona ragione: si dà il
caso infatti che Abramovich e Usmanov siano due
fra i più ricchi oligarchi russi, e che durante la partita
fossero in Russia a tastare il terreno. La finanza può
sembrare polvere di stelle, ma Abramovich durante il
crack mondiale del 2007 ha perso oltre la metà del
proprio patrimonio e ha rischiato di dover vendere il
Chelsea. Questo per dire che neanche la Russia
dorme su un letto di rose, e che il tutto potrebbe
ripercuotersi in Occidente, visto che il calcio è uno
buono specchio dell'economia di un Paese.
Ma c'è un altro fatto, ancora più importante: il
disinteresse di quasi tutti per quello che sta
accadendo, che si ripercuote poi inevitabilmente
sulle classi dirigenti, così come Hitler e Mussolini
sono stati frutto del malcontento dei propri popoli, e
così come Putin è espressione della voglia di rivalsa
del suo, dopo la crisi di vent'anni fa.
Alla base di ogni decadenza nella storia c'è un
peggioramento della mentalità, e la nostra decadenza
non fa eccezione. Il nostro orizzonte politico è
imploso dal Vietnam alla Crimea, e sta collassando
ulteriormente: se alla maggioranza delle persone non
importerà più nulla nemmeno del confine
dell'Europa, allora saremo finiti. In questo senso la
Crimea è forse l'ultima spiaggia.
Non è un caso che sull'orlo dell'Europa, da una parte,
Putin violi i diritti umani e il diritto internazionale e
sia applaudito da coloro che sono invasi, e che,
dall'altra, Erdogan imbavagli Twitter e i mezzi di
informazione e la libertà di espressione, che le
Ma i governi occidentali stanno dimostrando di aver
imparato qualcosa dai loro precedenti errori, e stanno
cercando di volgere a loro vantaggio una
caratteristica dell'attuale economia russa: la struttura
oligarchica. Questa è la "pensata" che hanno avuto:
invece di imporre sanzioni pantagrueliche che
colpirebbero tutti i cittadini russi e farebbero
peggiorare i rapporti internazionali oltre il livello di
guardia, visto che l'economia (e quindi anche la
politica) russa si basa sui singoli Lords, con sanzioni
ad personam si colpirebbe il governo, ostacolandone
le mosse, senza far esplodere il malcontento. Più di
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Primavere Arabe, sorte ad un passo dalle nostre terre
un tempo portatrici di civiltà, stiano miseramente
morendo nel solito autunno senza fine. Non è un
caso: sono i nostri valori, la nostra più alta cultura
che non siamo più in grado di trasmettere, e questo
semplicemente perché la stiamo perdendo, perché la
stiamo a guardare impotenti mentre evapora, senza
tentare in alcun modo di opporci, ma anzi
approvando coloro che se ne infischiano. Ridicolo?
Non tanto. Si provi a leggere la politica come frutto
di tutto questo, e ogni cosa coinciderà.
Sull'orlo dell'Europa si sta giocando una partita
veramente dura; l'orlo dell'Europa è l'ultima
spiaggia, poi il vestito si può solo scucire fino al
centro.
Ma dall'orlo si può anche ripartire. Ora l'Ucraina (o
quello che ne resterà) aderirà all'Unione. Spero solo
che quel popolo giovane e indurito dalle sventure
porti nuova linfa, nuova energia nelle nostre pile
scariche, e svegli magari chi ha voglia di fare
qualcosa. Sto parlando di noi.
delle Sinistre del continente si rispecchia
unitariamente nelle sue coraggiose idee contro la
politica dell’austerità che, a suo parere, porta a pochi
risultati pagati a un costo elevatissimo…
Infatti l’aumento improvviso delle imposte e il
drastico taglio sui servizi provocano solamente la
crescita del tasso di disoccupazione e le
disuguaglianze sociali, dato che i più bersagliati da
questa strategia, volta a risanare il deficit pubblico,
sono i componenti degli strati sociali più bassi.
Altri punti del programma “Tsipras” sono il
finanziamento di un progetto di ricostruzione
economica, basato sull’impiego della tecnologia e
delle infrastrutture, che creerebbe nuovi posti di
lavoro e spezzerebbe la lunga fase di recessione in
cui è caduta l’UE; la creazione di una Banca Europea
che fornisca prestiti a basso interesse alle banche che
accettano di fare credito a piccole e medie imprese, e
che possa prestare denaro direttamente agli Stati
membri. Tsipras propone inoltre una politica fiscale
modificabile ciclicamente che esenti gli investimenti
pubblici e che eviti nelle fasi recessive il diktat del
pareggio di bilancio. Tra le altre idee trova spazio
anche l’aspirazione a una conferenza europea per il
debito, sul modello di quella che si svolse nel ‘53
che cancellò una parte del debito tedesco dando i
presupposti alla Germania per ripartire. In Italia è
stata fondata una lista in suo sostegno promossa da
intellettuali come Andrea Camilleri e Paolo Flores
D’Arcais e appoggiata da numerosi partiti della
nostra sinistra radicale tra cui SEL (Sinistra Ecologia
e Libertà) e PRC (Rifondazione Comunista) che
sperano, dopo gli ultimi vani tentativi, di ricreare un
movimento di sinistra che possa competere con il PD
sfruttando il carisma di questo nuovo leader
proveniente dall’Est Europa. Il dubbio che rimane è
se i suoi discorsi siano solo demagogici oppure
realizzerà, in caso di vittoria, le sue promesse.
ALESSANDRO VIGEZZI
Luna Rossa per l’Europa
Non è Renzi, non ama l’arroganza e la chiusura di
Grillo, non è italiano e ha un programma
rivoluzionario pronto a sorprendere l’Europa.
Stiamo parlando del greco Alexis Tsipras candidato
del G.U.E. (Partito della Sinistra Europea) alla
Presidenza della Commissione Europea per le
elezioni europee di maggio. In Grecia è riuscito
nell’impresa di riunire sotto un’ unica coalizione la
Sinistra radicale più divisa di tutta Europa, e nelle
ultime elezioni svoltesi nel suo Paese, pur avendo in
partenza un esiguo bacino elettorale, ha ottenuto il
26% dei consensi classificandosi al secondo posto
alle spalle del democratico Antonis Samaras, ancora
oggi a capo del governo greco (sebbene i sondaggi
indichino Tsipras in vantaggio in caso di voto
anticipato). In Europa c’è chi già lo considera il
nemico numero uno della UE mentre una gran parte
MARCO CILONA
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Alla fine dell’epoca, la disponibilità di beni diventa
quasi massima, insostenibile, non più di tanto
migliorabile. Possiamo fare un parallelismo tra la
crisi morale e le crisi cicliche di sovrapproduzione
dell’economia. La concezione borghese della vita,
che poi si è espressa nel capitalismo, ha raggiunto il
punto più alto della sua curva, fare di più è difficile,
se non impossibile. Da qui viene in desiderio di una
qualche autodistruzione, di una caduta della nostra
qualità della vita per poter poi ritrovare la felicità
nella speranza della crescita.
Quindi, questo abisso davanti alla quale ci troviamo,
possiamo affermare sia che esiste sia che non esiste.
Può esistere in quanto siamo stati noi, viziati dalla
disponibilità dei beni di cui ci siamo forniti, che ci
siamo resi conto di una qualche insensatezza e
insoddisfazione di tutto il nostro percorso. Dall’altra
parte può non esistere se paragoniamo la nostra
condizione a chi non ha avuto le nostre possibilità.
Facciamo per un attimo riferimento a chi non vive la
sua vita, ai deboli, agli ultimi, che mai hanno visto
salire la curva della loro esistenza. Anzi. Dunque,
che valore ora ha questo nostro desiderio di
distruzione, questo senso di decadenza, questa
sterile depressione giustificatrice paragonata a quelle
vite, così lontane dal nostro sguardo e dal nostro
pensiero? Che valore hanno i piccoli residui di
saggezza, sparsi in un mare di corruzione? Che
valore hanno i geni e i corpi belli sepolti sotto un
mare di trucco davanti a, per esempio, “i bei
persiani” di cui ci parlava Pier Paolo Pasolini? Siamo
diventati tutti dei Mastro-don Gesualdo, ma ancor
meno sinceri e molto meno innocenti. Penso, in
conclusione, che ci dobbiamo solamente vergognare
dei nostri eccessi e delle nostre ree giustificazioni.
Ritengo stucchevoli le considerazioni “inattuali”,
dell’epoca che finisce, del male incurabile, perché
inutili e false, davanti a chi è stato meno eccessivo,
eccentrico e egoista di noi.
Usciamo solo per un momento dalle nostre lunghe
automobili, mettiamo il naso fuori per sentire il vero
odore del mondo. Quello che disprezziamo è solo la
nostra torre di avorio, il nostro nido pieno di specchi
che non ci doveva far sembrare fratelli, ma bensì
amanti. Guardiamo coloro diversi da noi, che siamo i
forti. Sono gli ultimi i soli che hanno qualcosa da
insegnarci, dal loro luogo di spettatori esterni e non
coinvolti, dall’alto delle loro baracche e palazzi
popolari. Alcuni intravidero una qualche giustizia
sociale, altri una ricerca della purezza perduta. Forse
è proprio per questo che vediamo “bella” l’onestà di
quei colori a tinte forti, perché proprio nei nostri
ultimi c’è la soluzione alla consapevolezza di essere,
al fine della Storia, colpevoli.
Considerazioni attuali:
la caduta dei castelli di carta
Resisto con molto piacere. Ero partito con l’idea di
commentare le ultime uscite della scena politica
italiana. Venerdì scorso c’è stata la prima
“rappresentazione” (scusate non ho altre parole) del
grillo parlante davanti alle televisioni italiane. Il
comico, dall’alto della saggezza suggeritagli dai suoi
sessantasei anni, consigliato dal suo “gaio” guru dai
capelli al vento, ha deciso di rispondere, di fatto non
rispondendo, alle domande di un troppo sorridente e
poco fiero giornalista. Pensavo di scrivere delle tante
falsità che sono state dette, di come al populismo si
univa una brillante tecnica oratoria, sicuramente
attraente per le menti dei telespettatori più distratti.
Scusate, ma oggi mi asterrò dallo scrivere dei fatti
(non credo che quello che sta avvenendo di recente
possa essere considerato veramente “politica”) e
vorrei piuttosto esporvi delle “considerazioni”, idee
concrete, derivate totalmente dall’esperienza, attuali,
appunto. Prima di tutto, sentiamo intorno a noi,
un’aria comune di decadenza. Tutto ci parla di una
fine di un’epoca, di un trascinarsi stanco di vecchie
abitudini del passato, inattuali e sterili. Vincono
Oscar film che parlano di Eumolpi che vagheggiano
tra bei paesaggi in distruzione e vaghe idee di
(grande) bellezza. Lo si riscontra anche nella
politica. “I partiti sono morti”. “l’antipolitica ci farà
morire”, “siete vecchi”. C’è, nella nostra società, un
senso di totale disfacimento, di crollo di antiche
illusioni che non vengono sostituite da nulla. E c’è
quasi un senso di piacere, di autocompiacimento, nel
non avere speranze, nel lasciare che le cose ci
scorrano addosso, nel togliere la mano dal fiume
della vita che scorre impetuoso. Molti, o quasi tutti,
provano piacere nel rifugiarsi del pensare comune e
in questo abisso (che sia esistente o da loro creato
cambia ben poco) cercano le soluzioni di evasione
più perversa. Lasciando stare ai moralisti il loro
arduo compito, questa sensazione di decadenza
(“sterile depressione”) diventa quindi una
giustificazione al soddisfacimento dei desideri più
proibiti, una spugna che cancella ogni senso di colpa.
Questa può essere l’osservazione imparziale di un
osservatore (quasi) esterno, questo è quello che un
occhio da spettatore può vedere nei balli sopra
grattaceli illuminati e “polveri bianche stese nei
salotti buoni”. Cosa possiamo dedurre da tutto ciò?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo
ritornare all’inizio del nostro ragionamento,
parlavamo di una fine di un’epoca. Di conseguenza
c’è stato un inizio e uno svolgimento di quest’epoca
che ha potuto volgersi e spiegarsi grazie al progresso
dei suoi individui, alla ricerca di una raggiungibile
felicità materiale, consumistica e della proprietà.
GUIDO PANZANO
10
struttura caratteriale umana media, esso costituisce
l'atteggiamento
fondamentale
dell'uomo
autoritariamente represso dalla civiltà della
macchine”.
Senza ricorrere eccessivamente ai concetti di
repressione freudiana (tra cui “l'inibizione morale
della sessualità naturale del bambino che lo porta
ad essere pauroso, timido, timoroso dell'autorità,
ubbidiente, buono ed educabile in senso
autoritario”) che Reich ritiene essere parte dei
fondamenti del fascismo, egli ritiene che esso
dipenda, anche e soprattutto, dalla paura di vivere.
L'uomo di massa, infatti, pensa unicamente a
salvaguardare la normalità della propria quotidianità,
finendo poi con l'aderire al nazismo spontaneamente
per sanare le contraddizioni della propria coscienza.
Quindi non dobbiamo rivolgere tanto l'attenzione ai
fattori esterni storico-sociali, quanto ai fattori interni,
alle contraddizioni del nostro io combattuto tra Bene
e Male.
È indubbiamente difficile riuscire, nel corso della
nostra vita, a isolare l'Ombra che inevitabilmente ci
appartiene, ma, quando lasciamo che essa vinca, la
paura di vivere ha la meglio. A questo punto la via è
segnata: siamo portati a esternare l'Ombra su qualcun
altro, per rassicurare il nostro ego. Ecco che vengono
fuori le ideologie razziste, in cui l'Ombra è proiettata
collettivamente sul diverso, che incarna tutte le
meschinità e le vergogne che ci appartengono, ma di
cui vogliamo disfarci.
Psicologia di massa del fascismo:
come questo ha attirato milioni di persone e
come tutti, in fondo, ne siamo attirati
Nello studio del fascismo spesso ci si domanda come
questo abbia potuto convincere così tante persone,
nonostante le idee che portasse avanti fossero non
solo
assurde
ma
anche
incredibilmente
contraddittorie.
Uno dei primi a chiederselo fu sicuramente Wilhelm
Reich (1897-1857), psichiatra austriaco di simpatie
marxiste che, già nel 1933, con il saggio “Psicologia
di massa del fascismo”, analizzò come e perché il
nazi-fascismo avesse potuto prendere il sopravvento
sulle masse.
La spiegazione che si è data finora della “svolta a
destra” degli anni '30, come dettata dalla crisi del '29
o dal trattato di Versailles, è sicuramente
insufficiente a spiegare come più popoli si siano
assoggettati a un autoritarismo così ridicolo e
incoerente come quello nazi-fascista.
In questo modo, infatti, si tende a svilire il fascismo
come ideologia appartenente a una singola epoca
storica e non ripetibile, mentre i fatti ci dimostrano
che il fascismo (nelle sue infinite sfaccettature, tra
cui quella razzista) non è iniziato nel '29 e finito nel
'45, ma continua a permeare la nostra società.
La prima domanda da farsi prima di affrontare
qualunque discorso è questa: “che cos'è il
fascismo?”.
Facciamo rispondere Reich attraverso tre citazioni:
“Il fascismo non è l'opera di un Hitler o di un
Mussolini, ma è l'espressione della struttura
irrazionale dell'uomo di massa”; “la mentalità
fascista è la mentalità dell'uomo della strada
mediocre, soggiogato, smanioso di sottomettersi ad
un'autorità e allo stesso tempo ribelle”; “il fascismo
è l'espressione politicamente organizzata della
“La teoria della razza non è una creazione del
fascismo. Al contrario: il fascismo è una creazione
dell'odio razziale e la sua espressione politicamente
organizzata”.
Perché? Perché quando l'Ombra ci vince e la
proiettiamo sugli Ebrei c'è il bisogno patologico di
un Hitler che ci rassicuri, assicurandoci che lui
combatterà gli Ebrei.
Non solo l'odio razziale, però, è alla base del
successo di un leader fascista: nel caso specifico
della Germania come è possibile, infatti, che settanta
milioni di persone siano state sedotte da uno
psicopatico?
11
La risposta ovviamente non è semplicissima e non è
data da un unico fattore, ma sicuramente possiamo
rilevare che in Hitler vi fossero tutti i fattori
psicologici di un membro medio della comunità
portati all'estremo (il sentimento nazionalistico,
l'anti-semitismo, l'anti-democraticità, etc.).
Da ciò deriva l'infantile bisogno di appoggiarsi a
qualcuno con cui identificarsi e riscoprirsi.
Ecco quindi che il piccolo borghese ama e odia, in
modo meccanico, ciò che il Führer dice di amare o
odiare.
Otto Strasser, confondatore del partito Nazista,
scrive: “Hitler risponde alle vibrazioni del cuore
umano con la sensibilità di un sismografo che lo
pone in grado di agire, come l'altoparlante che
proclama apertamente i desideri più segreti, gli
istinti più perversi, le sofferenze e le frustrazioni
intime di un'intera nazione”.
Ironie paradossali
Ciò che risulta strano è pensare come in una persona
possano confluire idee e opinioni diametralmente
opposte. Mi capita spesso di fermarmi, sedermi e poi
di rendermi conto che ciò che volevo realmente fare
fosse solo camminare. In me, quindi, risiede l’idea o
la voglia di stare seduta come di stare in piedi. Ciò
avviene anche quando ci si rende conto di dover
prendere delle scelte di spessore ben maggiore, se è
meglio arrancarsi a ciò che conosciamo o buttarsi
alla cieca da un burrone di cui non si vede la fine.
Risiedono in me opinioni discordi che si
contraddicono in modo continuo senza arrivare a un
pensiero di natura compatta e univoca.
C’è sempre una lotta intestina all’interno della mente
su ciò che è bene o è male fare, su ciò che
bisognerebbe o si dovrebbe fare. E’ questo uno delle
questioni che ha interessato maggiormente il
pensiero filosofico e teologico da migliaia di anni.
Quale sia la vera essenza ed identità del libero
arbitrio, e soprattutto se è vero che esso sia davvero
libero, credo che almeno uno volta tutti se lo siano
chiesto. Anche se paradossalmente a volte il mio
libero arbitrio appare tutt’altro che libero, anzi, lo
definirei paralizzato, del tutto immobile. E perché
non si muove? La domanda sorge spontanea.
L’uomo è dotato d’istinto. Istinto che spinge ad
agire e ad amare, a cui però si contrappone una
razionalità incatenata che priva l’uomo di una delle
facoltà più belle: la gioia di poter scegliere senza un
perché o senza un fine.
L’arbitrio è dunque figlio della coscienza e
dell’incoscienza.
Nasce
dall’anomala
e
contraddittoria unione della razionalità con
l’irrazionalità e noi siamo figli diretti di questi due
elementi cardini. Impareremo prima poi a far
convivere i due pacificamente in modo tale da
poterci permettere di prendere delle decisioni con
impavida e incosciente saggezza?
Si riflette ininterrottamente tentando di porre,
almeno per una volta, la ragione da una parte, ma più
la si sopprime più essa riemerge (ciò che è più
ironico e paradossale è voler razionalmente provare
a pensare in maniera irrazionale) . E allora cosa fare?
Quale sia realmente la natura di questo sentimento
L'errore del comunismo e dei partiti anti-fascisti in
generale è stato quello di non riconoscere ciò, ma di
negarlo fortemente, vedendo nel fascismo solo un
movimento reazionario, senza interrogarsi per
davvero su come questo movimento reazionario e
fortemente anti-democratico e anti-liberale riuscisse
a ottenere l'appoggio di masse che, a rigor di logica,
sarebbero dovute essere attratte da altre ideologie
che dessero loro la “dittatura del proletariato” (per le
classi disagiate) o la democrazia liberale e liberista
(per il ceto borghese).
Ragionando e parlando a slogan, i partiti anti-fascisti
non hanno saputo, o voluto, riconoscere che il
fascismo va rintracciato nel proprio essere e che per
renderlo inoffensivo non va negato ma riconosciuto.
Se non lo si rintraccia nel proprio essere e nelle
istituzioni che lo favoriscono (come una famiglia
autoritaria o una società moralistica) non si potrà mai
sconfiggere e si lascerà che intere popolazioni si
vendano al Male per proteggersi dal Male stesso, non
essendo più capaci di isolarlo e respingerlo dentro di
loro.
FRANCESCO NEGOZIO
12
che ci rende del tutto inermi e fragili di fronte alla
natura credo dovremmo saperlo!
Kierkegaard forse parlerebbe d’angoscia, io ancora
devo riuscire a definirla. L’arbitrio nasce nel
presente di fronte alle aspettative di ciò che in
potenza potrebbe essere tutto e che non è ancora
niente di determinato. Viviamo, purtroppo, in una
società oppressa dalla razionalità: mi chiedo solo se
prima o poi potremmo far riemergere quella scintilla
di irragionevolezza che rendevano gli uomini del
passato così liberi.
Il suo è un incoraggiamento ad aver fiducia nel
futuro, poiché i puntini che appaiono ora senza senso
si uniranno con il passare del tempo.
Proseguendo con il suo discorso, Steve ci racconta
una storia di amore e perdita. Scoprì presto qual’era
il lavoro dei suoi sogni, il lavoro che amava fare e
così fondò la Apple ad appena vent’anni, nel garage
di casa. L’azienda continuò a crescere quando, dopo
dieci anni e in seguito a contrasti all’interno della
compagnia, Jobs venne licenziato. Un colpo così
duro avrebbe fatto arrendere chiunque. Ma non lui.
L’unica cosa che avrebbe potuto salvarlo era l’amore
infinito per il suo mestiere e così fu. Il licenziamento
non rappresentava infatti alcun reale impedimento
per Jobs, anzi gli diede l’opportunità di ricominciare
da zero, di entrare nel momento più creativo della
sua vita e, come lui stesso afferma, il licenziamento
fu la cosa migliore che gli potesse capitare. Infatti
fondò altre due aziende, in seguito riacquistate dalla
Apple, dove ben presto tornò a lavorare.
L’amore per le proprie passioni è ciò che ognuno di
noi deve imparare a coltivare, a perseguire fino alla
fine. Condurre il lavoro dei propri sogni è
l’aspirazione a cui tutti dovremmo mirare, senza
perdere la fiducia, perché si sa che il cammino per
arrivare al traguardo è sempre pieno di difficoltà.
C’è anche un altro modo per seguire il proprio cuore:
l’inesorabile scorrere del tempo. Steve Jobs da
sempre ha creduto di voler vivere ogni istante come
se fosse l’ultimo, come del resto fa ciascuno di noi,
ma mai ha capito fino in fondo cosa volesse dire
come quando si è trovato di fronte alla morte: un
cancro incurabile, massimo tre o sei mesi di vita.
Ricordare che sarebbe morto presto fu lo strumento
più utile che lo poté aiutare a fare le scelte
importanti, poiché di fronte alla morte svanisce ogni
cosa superflua e rimane solo ciò che davvero conta.
Non si può perciò sprecare la propria esistenza
seguendo dogmi, false credenze, vivendo la vita
altrui o lasciandosi influenzare dalle opinioni.
MARTA SPIZZICHINO
Steve Jobs:
così parlò l’Ulisse senecano dei tempi nostri
La mia storia racconta di una vita vera. Leggendo le
tracce di un saggio breve che avrei dovuto svolgere
come compito in classe, sono stata catturata dalla
trama di un racconto. Protagonista della storia è
Steve Jobs che, descrivendo le esperienze più
importanti della sua esistenza, impartisce agli
studenti universitari di Stanford una grandissima
lezione di vita. Jobs comincia il lungo discorso
proprio dalle esperienze giovanili, dal momento in
cui decise di abbandonare l’università per seguire i
suoi sogni, le sue aspirazioni.
Tutte le scelte fatte da giovane, scelte operate
seguendo il cuore, si sono rivelate per lui le più
importanti e, anche quelle che sul momento potevano
sembrare insensate, con il passare del tempo si sono
rivelate di un valore inestimabile. Ad esempio, tutti i
corsi di calligrafia che seguì al college da quel
momento in poi risultarono fondamentali anni dopo
per la programmazione del Macintosh: il primo
computer ad avere una bella tipografia. Ovviamente
non era possibile all’epoca “unire i puntini” (come ci
dice Jobs), ma tutto diventò più chiaro dieci anni
dopo, voltandosi indietro.
13
La cosa più importante è avere il coraggio di seguire
il proprio cuore e la propria intuizione, uniche strade
che ci portano verso ciò che è veramente giusto.
raramente le mettiamo in discussione sperimentando
ciò che recepiamo. Spesso viviamo tutti i giorni
conducendo una vita monotona e avendo poche
aspirazioni per il futuro. Ma io credo che è proprio in
un tale momento di crisi che dobbiamo prendere
iniziative e affrontare le situazioni che ci si
presentano con decisione e determinazione.
Siamo noi gli artefici del nostro destino, siamo noi a
decidere il nostro futuro. Il futuro è nelle nostre
mani.
ELEONORA CORRADI
Alla luce del sole
“Alla luce del sole” è un film di Roberto Faenza,
tratto dalla storia vera di Don Pino Puglisi; è
ambientato nel quartiere Brancaccio di Palermo tra il
1990 e il 1993. Don Puglisi è il sacerdote della
chiesa del quartiere; vivendo a Brancaccio, si
accorge di una dura verità: i bambini del quartiere
sono coinvolti nella malavita e molti hanno dei
genitori mafiosi.
Il cancro diagnosticato a Steve Jobs si rivelò curabile
e da quel momento in poi egli visse veramente ogni
giorno come se fosse l’ultimo della sua vita.
Il suo racconto termina con un invito, una frase letta
molti anni prima su una rivista degli anni Settanta,
che per lui divenne una vera e propria filosofia di
vita, ed è ciò che augura a tutti gli universitari di
Stanford per il loro futuro: “stay hungry, stay
foolish”.
Fin dall’antichità filosofi, pensatori e, più
semplicemente, uomini hanno discusso riguardo la
vita e la sua brevità. Leggendo questo discorso
meraviglioso, ho subito pensato alla filosofia di
Seneca, che pure affronta il tema dello scorrere
inesorabile del tempo. Secondo Seneca, l’uomo fa un
uso profondamente scorretto della propria esistenza
lamentandosi poi della sua brevità: infatti solo
quando giunge alla fine si rende conto di averla
vissuta soltanto per metà. Seneca è convinto, al
contrario di molti altri, che la vita non sia affatto così
breve, ma anzi lunga se il tempo viene gestito bene.
Sempre secondo l’autore latino, bisogna quindi
vivere pienamente l’oggi, considerandolo come una
vita intera.
Esiste anche un altro personaggio che incarna alla
perfezione tutti gli aspetti riproposti da Steve Jobs:
Ulisse, l’uomo dominato dalla sete di conoscenza,
mito dell’eterna ricerca. Dove sono finiti oggi tutti
questi valori? Abbiamo ora a disposizione mezzi
tecnologici per recepire le informazioni ma
Egli cerca allora di cambiare i loro modi di fare,
consigliando loro di andare a scuola, in chiesa e di
non rubare. I ragazzi iniziano, quindi, a frequentare
la sua parrocchia, perché è un luogo dove si possono
sfogare giocando, per esempio, a calcio; i genitori
mafiosi, però, non gradiscono gli insegnamenti di
Don Puglisi e a un ragazzo di nome Domenico viene
anche impedito di frequentare la parrocchia. Il
sacerdote manda, comunque, dei messaggi chiari ai
mafiosi di Brancaccio facendo un discorso nella
piazzetta della chiesa, ma non viene ascoltato da
nessuno. Il suo messaggio per i cosiddetti uomini
d'onore era di presentarsi “alla luce del sole” e di non
agire nell'ombra.
In televisione e alla radio, annunciano l'omicidio di
Giovanni Falcone e Don Puglisi decide di dedicargli
una messa; successivamente arriva anche quello di
Paolo Borsellino. In seguito ad una aggressione, Don
14
Puglisi si rende conto di essere in pericolo e che
potrebbe essere ucciso da un momento all'altro. Ciò
accade il giorno del suo 56º compleanno, per strada,
da parte di un gruppo di mafiosi che lo avevano
seguito in auto, proprio mentre Roberto Baggio
segna un gol per la Juventus. Le sue ultime parole
sono state: “Vi aspettavo”. Nell'ultima scena in cui
viene celebrato il funerale, tutti i bambini della
parrocchia sono presenti e lasciano un pensiero sopra
la bara. Personaggi molto importanti sono i tanti
bambini e ragazzi verso cui il parroco rivolge i
propri sforzi: giovani e giovanissimi il cui animo è
diviso tra il desiderio e il bisogno di legalità,
suscitato da Don Puglisi, e la tradizione familiare
legata alla criminalità organizzata.
Si può dire che la pellicola si concentri su un dato: i
bambini possono salvarci, sono la bellezza della
rivoluzione, i bambini siamo noi prima di avere la
rassegnazione dell'esser diventati adulti. Don Puglisi
parla di regole, lo fa perché esse possono essere
infrante a patto che prima si abbia la consapevolezza
di essere liberi; ma questi bambini non lo sono, lo si
comprende già da come pensano, ragionano e
sognano; c'è chi, per esempio, desidera crescere,
comprare una pistola e uccidere i poliziotti che
hanno arrestato suo padre.
silenzio disinteressato, non possiede più l'udito,
perché non vuole ascoltare (aumentando la musica o
il rumore del frullatore), non possiede più gli occhi,
perché non vuole vedere (chiudendo le finestre o
abbassando le serrande), tutto ciò per paura di essere
coinvolta in un vortice che non lascia più liberi.
Nonostante sia stato a volte solo nella sua lotta
contro la mafia, Don Pino, nella sua determinazione,
intende continuare a portare speranza e giustizia ai
ragazzi dei luoghi in cui era nato. Lo scopo di
Faenza è quello di mettere in luce chi è dimenticato
mentre deve essere ricordato, è quello di parlare al
cuore e non solo alla ragione, attraverso un
linguaggio realistico e semplice. La macchina da
presa trova il realismo di quei luoghi attraverso i
desideri, la speranza che si annida negli animi di chi
non teme, di chi non ha paura della sconfitta.
La naturalezza e la verità del racconto sono tali che
anche l'unico episodio di invenzione (il ragazzo che
si suicida alla fine) è credibile, da brivido con quella
danza della morte con la moto che inscena attorno a
Don Puglisi prima di compiere quanto ha già deciso.
Ci sono voluti anni per riconoscere il valore
dell'opera di Don Puglisi e questo film testimonia
ulteriormente come il suo sacrificio non sia stato
vano, ma offra anche oggi una scintilla di speranza.
ELISABETTA TORTORA
Il compito di Don Puglisi è, quindi, quello
d'insegnare la libertà attraverso le regole, con
semplici azioni, come una partita a pallone o una
festa di parrocchia.
La mafia è talmente radicata tra le povere case di
Brancaccio che ormai la gente è diventata preda del
15
Truffaut, Godard e gli altri si proponevano un tipo di
cinema fedele alla sua vocazione realistica, che fosse
scevro dalle manipolazioni del montaggio e che
fosse espressione della soggettività degli autori. Un
cinema in cui i confini fra critica, teoria e pratica
cinematografiche fossero sempre più labili. Un
cinema dove emergessero la spontaneità, la casualità
e la leggerezza di un nuovo modo di operare.
Considerando le premesse, risulta alquanto forzato
l’inserimento di Resnais nel novero dei registi della
Nouvelle Vague. Non solo perché egli è stato un
regista dalle grandissime ed elaboratissime abilità
tecniche, ma anche perché il suo è un cinema
tutt’altro che spontaneo: è un cinema studiato e
ponderato
dove
non
è
lasciato
spazio
all’improvvisazione e in cui la matrice letteraria è
molto forte, se non essenziale.
Proveniente dalla borghesia medio-alta francese,
Resnais è un uomo dall’immensa cultura: lettore
vorace che affonda le proprie radici artistiche nella
letteratura francese dell’Ottocento (Marcel Proust, in
particolare) e nella tradizione cinematografica
francese. Il regista nasce inizialmente come
documentarista (realizzerà dal ’48 al ’57 ben otto
corto-mediometraggi documentari) per poi approdare
nel 1959 al lungometraggio con Hiroshima Mon
Amour.
Alain Resnais,
il “grande artiere” della Nouvelle Vague
Spero vivamente che i lettori possano perdonarmi la
citazione di sapore carducciano (vedasi Congedo –
Giosuè Carducci), ma mi sembrava la più plausibile
e adatta per tentare di delineare la figura di un regista
tanto poliedrico, “multiforme” e inafferrabile qual è
stato Alain Resnais, deceduto il 1° marzo 2014.
Per quanto Resnais sia sempre stato annoverato fra i
registi della Nouvelle Vague, è prima di tutto
importante notare che non vi prese mai
esplicitamente parte e che, per molti aspetti, si
allontana dal modo di fare e concepire il cinema di
Truffaut, Godard, Rivette e Chabrol (i principali
animatori del movimento).
Il movimento della Nouvelle Vague (“Nuova
Ondata”) sorse a Parigi negli anni Cinquanta quando
un gruppo di giovani critici cinematografici –
radunatisi intorno alla rivista Cahieurs du Cinéma
(“Quaderni di Cinema”) e al suo direttore spirituale
André Bazin – incominciò a polemizzare con il
cosiddetto “cinema di qualità” francese accusandolo
di eccessiva letterarietà e di incapacità ad esprimersi
in termini cinematografici. Questi giovani teorici
riprendevano, fra tutte, le esperienze di registi del
calibro di Hawks, Hitchcock, Minnelli, sottolineando
come fossero riusciti ad imporre il marchio della
propria personalità nonostante le sempre più rigide
imposizioni del cinema hollywoodiano e i codici
standardizzati del film di genere. Per loro la figura
dell’artista doveva essere in grado di esprimersi in
termini autenticamente cinematografici.
Hiroshima Mon Amour (1959): Emanuelle Riva e Eiji Okada
Per quanto Resnais si avvicini quindi ad un cinema
di apparente finzione, la matrice documentaria è
sempre presente nella persistenza oggettiva della
realtà, di cui i suoi film diventano registrazioni
autonome, in quanto sottoposte a sottili processi di
astrazione. Lo stesso regista nega una qualunque
intenzione simbolica e metaforica, ma è subito
possibile individuare una sottile trama, nascosta sotto
l’apparente narratività del prodotto filmico.
Il cinema di Resnais instaura, infatti, un rapporto
dialettico fra il dato oggettivo e le operazioni mentali
che su di esso i personaggi compiono. L’esempio più
lampante di questa compresenza di percezione e
immaginazione è L’anno scorso a Marienbad
(1961), scritto dall’esponente della Noveau Roman
Alain Robbe-Grillet. Nel film la commistione fra le
due dimensioni è fortissima e in molti casi è quasi
impossibile individuarne una sostanziale distinzione:
come infatti il dato percettivo è presente ed attivo
nella sfera immaginativa, così quello immaginativo è
L’anno scorso a Marienbad (1961): Delphine Seyrig e Giorgio Albertazzi
16
presente ed attivo nella sfera percettiva. Il film
risulta essere allora «una messa in scena di una
visione psicologica» (Paolo Bertetto). Esso
rappresenta la proiezione della visione soggettiva del
personaggio, che è però sempre costantemente
determinata per via oggettiva e razionale. Come ha
dichiarato lo stesso Resnais, il film rappresenta un
vero e proprio tentativo di «avvicinarsi alle
complessità del pensiero, del suo meccanismo».
Proprio da queste considerazioni è possibile
individuare il tema fondamentale della produzione di
Resnais: l’impossibilità di fondare e organizzare
scientificamente la realtà. Essa si presta a continui
mutamenti, e appare conseguentemente inafferrabile.
Da qui emerge il profondo pessimismo dell’autore:
l’impossibilità di determinare e di autodeterminarsi
si esplicita nel continuo vagare, senza fine dei
personaggi (i corridoi dell’albergo nel caso de
L’anno scorso a Marienbad e la città di Hiroshima in
Hiroshima Mon Amour) incessantemente desiderosi
di comunicare.
“Tu non hai visto niente a
Hiroshima”, “Io ho visto tutto a Hiroshima” si
alternano ininterrottamente sulle immagini del
Giappone drammaticamente segnato dagli effetti
della bomba atomica: un invocazione-evocazione
che svela il desiderio senza posa di conoscenza. Il
personaggio resnaisiano è l’antieroe per eccellenza,
l’erranza rimpiazza l’azione e il silenzio il discorso.
Quest’estetica
del
“chiaro-confuso”
viene
conseguentemente ad esplicitarsi per due vie: da una
parte, l’indistinzione del livello della realtà;
dall’altra, l’utilizzo di un montaggio frenetico e
maniacalmente preciso. A proposito di questa tecnica
filmico-linguistica, Vincent Amiel ha ben definito il
montaggio in Resnais “un montaggio di
ricomposizione che ordina diversamente delle realtà
che appartengono a logiche diverse, indipendenti le
une dalle altre”. E’ chiaro, quindi, che il film si
contraddistingua per una sostanziale frammentarietà.
cristallizza: provoca degli attriti che sanciscono il
definitivo strappo dell’unità e, di conseguenza, la
frammentarietà del senso della realtà. Il flusso
filmico, apparentemente preciso, si caratterizza per
un sostanziale “lasciar accadere”.
Amiel distingue tre diverse forme di montaggio nel
cinema di Resnais: il montaggio per accumulazione,
il montaggio per sovrapposizione, il montaggio per
interruzione.
Il giardino e i frequentatori dell’albergo in Marienbad
Il primo tipo di montaggio si contraddistingue per
inquadrature di oggetti immobili che si susseguono e
sono accompagnate da una voce fuori campo (Mon
oncle d’Amèrique); il secondo per l’esplicitarsi degli
artifici della rappresentazione di cui si evidenza il
processo di “incollaggio” (Hiroshima Mon Amour);
il terzo per la sostanziale interruzione della
processione narrativa per mezzo di musica,
movimento, luce e colore (L’amour à mort).
I film di Resnais appaiono perciò essere delle
sfuggevoli rappresentazioni di una realtà indefinibile.
All’indeterminatezza della narrazione pone rimedio
la partitura musicale che costituisce lo scheletro
intorno al quale il regista struttura i propri film. Essi
presentano una “costruzione musicale”, in cui
intorno ad un’immagine se ne dispongono altre «che
devono essere omogenee alla prima come lo sono gli
elementi
di
una
composizione
musicale»
(dichiarazione di Resnais in un’intervista rilasciata a
J. Carta e M. Mesnil). La musica non è un semplice
accessorio, ma costituisce un elemento di primaria
importanza nella costruzione drammatica del film.
Resnais (la cui vasta conoscenza musicale è stata più
volte riconosciuta dai suoi stessi collaboratori) non
usa musica di repertorio, ma interagisce direttamente
con il compositore in modo che il prodotto musicale
possa essere il più funzionale possibile agli effetti
prefissati. I film trovano nella musica l’elemento di
continuità del racconto: essa amplifica le emozioni,
«per cui il non detto delle immagini e dei dialoghi
viene affidato al commento sonoro» (Roberto
Calabretto). Lo stesso Resnais, in un articolo di
Providence (1976) di Alain Resnais
Ogni inquadratura è concepita autonomamente in
base alla singolarità della sequenza in esame ed
appartiene ad un solo livello della realtà. Vi
potrebbe essere però l’equivoco di ritenere il
montaggio di Resnais puramente meccanico: è
proprio l’opposto. Il montaggio è preciso, ma non si
17
poetica, sottolinea la grandissima importanza del
sonoro nello spettacolo cinematografico: «Ciò che
attira di più la loro [degli spettatori] attenzione…
non è tanto l’immagine quanto la colonna sonora – il
suono delle voci, i rumori, le atmosfere, le musiche –
e soprattutto la possibilità di agire su due sensi
contemporaneamente, l’occhio e l’orecchio». Ma la
musica però non agisce solo sulle sfere visiva e
uditiva dello spettatore: essa opera anche su quella
mentale «giacché deve generare nello spettatore delle
associazioni di idee».
La Grande Bellezza siamo noi
Molto è stato detto su La Grande Bellezza, il film di
Sorrentino che ha vinto l'Oscar come miglior film
straniero, ben 15 anni dopo "La Vita è Bella" di
Benigni. La critica si divide tra coloro che ritengono
che si tratti di un capolavoro, un'opera meravigliosa
"che rimarrà nella Storia" e coloro che invece lo
descrivono come un film pessimo, una semplice
scopiazzatura di Fellini, che riflette un'immagine
sbagliata di Roma e dell'Italia, quella che piace tanto
agli Americani (che per questo l'hanno premiato).
Come al solito, ogni mezza misura è abolita, non si
contempla nessun altro giudizio se non i due estremi
"è orrendo" - "è stupendo"; tra l'altro, molti di quelli
che fino a pochi mesi fa rientravano nella prima
categoria, oggi, un premio Oscar dopo, si affrettano a
passare alla seconda e si dicono orgogliosi dell'opera
meritatamente premiata.
In ogni caso, è indubbio che La Grande Bellezza sia
un film ben fatto: Sorrentino mostra grande maestria
nel dirigere la macchina da presa, nella scelta delle
musiche, nella costruzione scenica in generale.
Poi, certo, il risultato può piacere come no: è un film
sicuramente complesso, in primo luogo per il fatto
che una vera e propria trama non c'è; è più un
affresco, un alternarsi di immagini tra l'onirico e il
descrittivo. E l'insieme è assurdo e grottesco, ma lo è
volutamente: l'autore intende infatti compiere
un'opera di osservazione, attraverso lo sguardo di un
Jep Gambardella (interpretato da Toni Servillo)
rassegnato alla vacuità della società che lo circonda e
in essa perfettamente integrato.
Il cinema di Alain Resnais risulta molto complesso
nel rapporto che si instaura fra mezzo filmico e
spettatore. La sua complessità è ulteriormente
accresciuta dalla propria matrice letteraria: Resnais
non ha mai scritto né collaborato alla scrittura delle
sceneggiature per i propri film, ma è sempre ricorso
ad uno sceneggiatore, che è stato, allo stesso tempo,
anche uno scrittore. Lui stesso non si è mai definito
un “autore”, bensì un metteur en scène. Questo non
fa però sì che il cinema del regista sia asservito alla
sua componente letteraria: quest’ultima non è altro
che un materiale profilmico che interagisce insieme
agli altri all’interno di una comune espressione
artistica. Il regista tenta, attraverso i testi (perlopiù
lirici) di sollecitare la reazione dello spettatore,
stimolarlo procurandogli delle sensazioni e
svegliando la sua riflessione. «E’ ciò che ho voluto
realizzare: l’equivalente di una lettura, lasciare allo
spettatore altrettanta libertà e immaginazione che a
un lettore di romanzi, che attorno all’immagine,
dietro
l’immagine
e
persino
all’interno
dell’immagine egli possa lasciar andare la sua
immaginazione, subendo contemporaneamente la
fascinazione dello schermo».
E' un film di profondi contrasti, che proprio con un
contrasto inizia: si apre infatti con una visione
immensa ed eterna di Roma dal Gianicolo, mentre si
leva un canto sublime di musica sacra. Ma a rompere
la serenità del momento è un urlo, un rumore
LUCA ZAMMITO
18
sbagliato, che rompe la perfezione e porta al
movimento frenetico; infatti subito dopo il regista
passa a inquadrare la scena della festa del
sessantacinquesimo compleanno di Jep, dove gli
invitati, vecchie cariatidi e patetici faccioni tirati a
lucido, ballano sulle note di "A far l'amore comincia
tu", che erompe altissima dopo il silenzio iniziale.
stereotipo dell'Italia all'estero, ma uno sguardo, se
non realistico, quantomeno azzeccato, di ciò che
effettivamente essa è: un contrasto vivente. E, del
resto, tutto ciò che è italiano, compreso lo stesso
Sorrentino, lo è: il regista, infatti, perfettamente in
linea con quanto ha voluto mostrare nel suo film (e
con quanto avrebbe tranquillamente potuto fare il
suo protagonista, Jep), al momento di ritirare la
statuetta, in un inglese maccheronico, dedica la
vittoria, accanto a nomi quali Fellini e Scorsese (più
che giusto), a Diego Armando Maradona, noto
evasore del fisco italiano. Siamo così.
ALICE BERTINO
La Grande Bellezza
E’ un film che ti schiaffeggia sulla poltroncina del
cinema. Uno di quelli che parla per immagini e non
sai se amarlo o odiarlo. E’ agrodolce, come l’Oscar
che ne segna la grandezza. Non sai fino a che punto
gioirne perché racconta di una drammatica,
inesorabile decadenza. La nostra. Il degrado della
metropoli occidentale, dei suoi salotti un po’
sbilenchi e un po’ tragici che ospitano Jep
Gambardella e i suoi amici.
Jep è solo, deluso e consapevole del vuoto che lo
circonda di cui si fa interprete.
E tutto il film è costruito su continui scarti da scene
di questo tipo a meravigliose vedute di Roma, da
musiche da villaggio turistico a meditativi silenzi: il
regista intende in questo modo esprimere la
contraddizione di una città come Roma, la Città
Eterna, che ha in sé secoli e secoli di storia
testimoniati dai meravigliosi e solenni monumenti
antichi, e che, però, allo stesso tempo mostra un'altra
faccia, quella degli uomini di potere corrotti, membri
di una società privilegiata che si intrattengono in
festini esagitati in cui regna lo sfarzo e il cattivo
gusto, e dove si assiste alla triste sfilata di personaggi
patetici nelle loro facce rifatte, nei loro balli sguaiati,
nella loro mondanità.
Mondanità che ha catturato nella sua bolla dorata,
fatta di niente, lo stesso Jep, ex scrittore che ha
scritto un solo libro per poi darsi alla bella vita; e
accanto a lui vari altri personaggi non fanno altro che
rappresentare la dissoluzione morale, che si
accompagna al disfacimento fisico dopo una vita che
si scopre essere stata inutile.
E' un film per molti versi lugubre, che parla di
decadenza, di vuoto, di morte; che esprime la
consapevolezza di un'occasione perduta per sempre,
di una grandezza antica che ormai non c'è più,
sostituita invece da una modernità sbagliata, piena di
brutture se non per il ricordo di uno splendore
scheggiato, consumato nel tempo, la cui immagine
sbiadita è offerta soltanto dalle rovine antiche di
Roma.
Sorrentino non lancia nessun messaggio di speranza,
non offre nessuna conclusione morale; del resto non
è quello il suo scopo. Si limita semplicemente a
scattare una fotografia di Roma (e dell'Italia) per
come la vede lui (e per come lui stesso l'ha vissuta),
nelle sue contraddizioni, tra lo splendore antico e la
moderna superficialità; e ciò che offre non è il piatto
Quasi se ne compiace, a tratti, e nella sua malinconia
ondeggia senza meta tra le meraviglie di Roma,
quelle che non sono riuscite a salvarlo. E anche tutti
gli altri sono vittime dello stesso paradosso:
superstiti maledetti di un naufragio ormai compiuto.
Alcuni preferiscono alienarsi e lasciarsi morire,
come il figlio della facoltosa borghese Viola,
impazzito e ormai dissociato da una realtà troppo
abbruttita. Poi c’è Romano, l’autore di teatro troppo
scrupoloso e troppo poco sfacciato, amico e
“figlioccio” di Jep, che alla fine torna a casa dei suoi,
a Nepi, alle sue radici. Roma ha deluso anche lui, e
le sue origini sono l’ultima ancora. Ma non tutti ne
hanno una e preferiscono lasciarsi inghiottire dal
19
fracasso crescente delle terrazze in festa vicino al
Colosseo, dove rimbomba in versione tecno sdrucita
il tormentone della Carrà “uh, uh, uh, uh, a far
l’amore comincia tuuuu…”. E tutti ballano, e ridono
e si baciano tra loro come se si amassero. Ma non è
così, e Jep lo sa e dice «Siamo tutti sull'orlo della
disperazione, non abbiamo altro rimedio che farci
compagnia, prenderci un po' in giro». Torna sempre
l’onirico flashback del primo amore di Jep,
ambientato al mare, il mare purificatore di Fellini.
Qui non c’è spazio per l’artificio e la spettacolarità,
solo per la bellezza, quella primordiale che sanno i
giovani. C’è raccontata poi un’amicizia, quella tra
Gambardella e la bellissima Ramona interpretata da
Sabrina Ferilli. “E’ stato bello non fare l’amore” dice
Jep, “è stato bello volesse bene” risponde lei con uno
dei suoi sorrisi sinceri. La sua è una storia diversa,
quella di una donna malata e sorpresa di fronte alla
bambina magra e bionda che svuota barili di colore
su una tela bianca e grandissima all’ennesima festa
strampalata e surreale degli amici di Jep. Col vestito
imbrattato e gli occhi appiccicati dalla vernice fa di
uno studiato delirio artistico lo spettacolo per gli
ospiti compiaciuti e impassibili che la circondano e
solo alla fine la catarsi sembra compiersi e mostrare
il suo frutto nella tela armoniosa della piccola artista.
Quindi eccesso e spettacolarità sono i paradigmi
indiscussi della mondanità. La sofferenza inghiottita
dal caos dionisiaco dei protagonisti, moderne
Baccanti di una tragedia universale. La follia e il
suicidio del figlio di Viola sembrano terapeutici e
non è più possibile distinguere chi sia realmente
sano. E la morte è solo un altro spettacolo. Fulminea
e così cieca da non riuscire a capire cosa voglia dire.
All’improvviso sceglie e lascia soli coloro che
restano, ma non tanto più soli di quando erano tutti
insieme. E Jep è così dolce col suo sorriso autentico,
con la sua parlata popolare che dice cose profonde.
La sua sensibilità si scontra con il mondo e lui si
lascia colpire come se non avesse scelta. Questo film
inietta una grande responsabilità in tutte le vene di
chi lo guarda, la responsabilità di essere migliori
come vorrebbe Jep, che però è troppo deluso per
provarci. Come immagine questa, magari bella
grande, ma solo questa.
Johnny Cash Out Among The Stars
E’ da poco uscito il nuovo album composto da
inediti di Johnny Cash, risalenti agli anni Ottanta e
pubblicati dieci anni dopo la morte. Ma chi si ricorda
ancora di lui?
John Ray Cash nasce nei primi anni Trenta
nell'Arkansas dove, però, non resterà a lungo infatti
in quel periodo la grande depressione che colpiva
l'America, costringe la famiglia a traslocare. Johnny
inizia a dare una mano ai suoi e lavora nei campi;
all'età di dodici anni decide di battezzarsi e inizia
così il suo interesse per la musica, ascoltando canti di
chiesa e canzoni passate alla radio fino al 1950,
quando la Corea del Nord invade quella del Sud.
Johnny decide allora di arruolarsi ed entra a far parte
della U.S. Air Force; diventa abile con il codice
Morse e viene mandato in Germania Ovest, dove
compra la sua prima chitarra. Cash inizia a scrivere
canzoni sotto lo pseudonimo di John Dollar e viaggia
attraverso l'Europa per circa un anno. Il 3 luglio
1954 John Ray viene congedato e due giorni dopo un
ragazzo, di nome Elvis Aaron Presley, inciderà
That's All Right. A settembre dello stesso anno
conoscerà di persona Elvis che lo condurrà verso il
primo album, facendo da tramite con Sam Philips,
direttore della Sun Records. Da qui in poi, la sua vita
è costellata da una serie di successi come I Walk The
Line. Continua così almeno fino al 1957, quando
rompe con la Sun Records perché lo costringeva a
trovare sounds sempre più pop, da lui poco
apprezzati. La Columbia Records non ci pensa due
volte e gli propone un contratto più fruttuoso e
nessuna restrizione sui suoi generi musicali.
Nel 1959 la Columbia pubblica The Fabulous
Johnny Cash, un disco che afferma ancora una volta
il talento che si era mostrato nella Sun Records;
l'album contiene canzoni dal sapore molto western,
piene di spensierata energia come One More Ride,
insieme a brani più malinconici e drammatici
accompagnati dalla sua voce profonda, come nella
magnifica Don't Take Your Guns To Town. Nel
frattempo la Sun Records, pentita di essersi lasciata
ELEONORA DI BENEDETTO
20
scappare un ragazzo con così tante potenzialità,
pubblica Greatest! un album con alcune canzoni di
John Ray che entro la fine dello stesso anno coronerà
con la Columbia un sogno che la Sun aveva
ostacolato: un album composto solamente da gospel,
ultimo album da buon cristiano e padre di famiglia.
la fede in Dio. Il 1968 per John Ray è un anno di
svolta: incide un album dal vivo, At Folsom Prison.
Uno show memorabile, durante il quale Cash,
ripulito dalle vesti da drogato, suona e canta ai circa
3500 carcerati di Folsom in California. At Folsom
Prison, sempre della Columbia Records, vende più
di sei milioni di copie. In seguito a questo grande
successo e ad altri live in America e in Gran
Bretagna, John Ray Cash sposa June Carter con cui
trascorre il viaggio di nozze in Israele sulle orme di
Gesù, in nome della fede che voleva ritrovare
completamente. Tornato in America, inizia a suonare
con Bob Dylan incidendo circa una ventina di pezzi,
alcuni indimenticabili come la bellissima Girl From
The North Country.
Nel 1969 viene registrato un altro live At San
Quentin, un'altra prigione sempre in California.
Durante questa videoregistrazione voluta dalle tv
britanniche, Johnny suona classici al ritmo sfrenato
del rockabilly o testi profondi dal sound country o
gospel. All'inizio del 1970 si gode la popolarità
raggiunta dal Johnny Cash Show, suonando con
grandi ospiti e riprendendo le tematiche del vecchio
West.
E così le tournèe lo portano a girare l'America senza
tregua, passando molto tempo lontano da casa. Per
sostenere tutto questo John inizia ad assumere dosi di
anfetamina, iniziando così un legame con la droga
che riuscirà a sciogliere a fatica dopo molti anni.
L'alba di un nuovo decennio inizia con una serie di
album che mostrano l'anima di Cash sofferente e
tormentata da se stesso e dalla droga.
Nel novembre del 1961 verrà arrestato per la prima
volta per ubriachezza molesta, aggravando la crisi sia
per l'uomo che per l'artista, che terminerà nel 1963
con The Ring Of Fire, un brano che inserisce nel
contesto country la tromba, mai ascoltata prima di
quella performance. In quegli anni il country cambia
aspetto e sound grazie anche a un certo Bob Dylan
che vede in Johnny Cash un maestro, il quale a sua
volta stima e apprezza un giovane talentuoso come
Dylan.
Il 1964 apre le porte anche al Rock, alla Beatlemania
in America e a un nuovo periodo di creatività per
Johnny che scrive all'insegna della musica folk di
protesta. Nell'ottobre del 1965 però la vita di Cash
subisce un altro duro colpo sempre a causa
dell'anfetamina: verrà fermato al confine con il
Messico con un migliaio di pasticche nella chitarra e
accusato di spaccio; passa una notte in carcere e
durante l'udienza in tribunale si dichiarerà colpevole.
Subito dopo il processo smette di assumere la droga
ma l'astinenza durerà poco perché dopo aver fatto
una tournèe in Inghilterra: frequentando Bob Dylan
ricomincia la dipendenza per l'anfetamina che forse
non era mai terminata.
Tornato in America divorzia e nel 1967 pubblica
Greatest Hits Volume 1 con la Columbia, una
raccolta che contiene solo un inedito, Jackson,
cantato a due voci, la sua e quella di June Carter sua
futura moglie. A novembre dello stesso anno viene
arrestato per la terza volta in Georgia per il solito
motivo che lo perseguitava da sempre, la droga. June
cerca di aiutarlo e riesce a risvegliare nel suo cuore
Tuttavia questo momento di tranquillità sulla scia del
successo durerà ancora per poco, infatti gli anni
Settanta sono per Johnny l'inizio di un declino,
interrotto solo nel 1976, anno del bicentenario della
nascita degli Stati Uniti d'America, quando prese
parte a molte trasmissioni come simbolo della
musica tradizionale americana. Una breve parentesi
che dura non più di dodici mesi, mentre la fama che
diminuiva lo avvicina ad una vecchia conoscenza, la
droga, e lo allontana dalla fede. Nel 1978 ritorna a
essere il Johnny Cash tormentato e drogato, incide
tre album con la Bear Family Records, un'etichetta
tedesca, che ricordano il sound degli albori, quando
era in cerca di gloria e soldi.
Gli anni Ottanta si aprono con il suo ingresso nella
Country Hall Of Fame, ma purtroppo l'onorificenza
non gli restituisce il successo. Il country era in
declino, in quel periodo i Ramones e i Clash avevano
21
preso il potere con il Punk. John prova a dare una
svolta al suo suono incidendo Johnny 99, in cui si
rifà moltissimo a Bruce Springsteen. È forse questo
il periodo in cui John Ray scrive i pezzi di Out
Among The Stars, inediti che il figlio John Carter
Cash ha pubblicato solo quest'anno. Brani che forse
negli anni Ottanta, quando la musica si stava
evolvendo e il country risuonava monotono e troppo
scontato, non avrebbero mai avuto successo, ma oggi
rinfrescano con qualcosa di apparentemente diverso
il panorama musicale. Alcune canzoni veramente
toccanti, come She Used To Love Me A Lot, che
suona come un classico intramontabile, come già lo
sono molti dei suoi brani, non sembrano avere quel
sapore vecchio e obsoleto. Cash scrive alcuni di
questi brani con Waylon Jenning, un altro countryman amico di Johnny: molto interessante infatti è il
duo in I'm Movin' On, un pezzo country molto
ritmato che trasmette allegria e spensieratezza.
Gli anni bui per Johnny Cash però non terminano
con gli anni Ottanta: dopo essere stato costretto a
lasciare la Columbia Records, scrive un disco per la
Cristiana casa di registrazioni World un altro cd
gospel. Nel 1987 muore il padre ottantottenne: inizia
così un periodo in cui si dedica di più al figlio che
aveva avuto con la seconda moglie June. Scrive un
brano con Paul Mc Cartney, New Moon Over
Jamaica, lavorando con l'etichetta Mercury con cui
inciderà album fino ai primi anni Novanta, quando
pubblica The Mistery Of Life, un album del tutto
privo di novità e difatti venderà meno di mille copie.
glorie. Sembra che gli sia tornata la voglia di suonare
e la fame di successo. Rick Rubin ha l'idea geniale di
farlo suonare alla Viper Room a Hollywood, locale
di proprietà di Johnny Depp. Cash si esibirà in più di
una serata, davanti a un pubblico giovane che non lo
ricorda o lo conosce solo di nome, apparendo come
un debuttante, una novità.
Così Johnny continua a suonare dal vivo fino al
2000, anno in cui è costretto a fermarsi e smettere di
esibirsi in pubblico, annunciando di essere afflitto
dal morbo di Parkinson: era cosciente che gli
rimanevano pochi anni di vita, così tra il 2000 e il
2002 pubblicò ancora diversi album tra cui l'ultimo
ed eccezionale The Man Comes Around, composto
da quasi tutte cover molto diverse tra loro ma più
malinconiche
delle
originali,
tutte
con
l'inconfondibile firma di Cash. Personal Jesus
cantata con John Frusciante alla chitarra o una Hurt,
in cui si percepiscono pienamente il dolore la
sofferenza di un uomo arrivato quasi alla fine.
Il 12 settembre 2003 muore raggiungendo la moglie
che lo aveva lasciato pochi mesi prima. John Ray
Cash ci lascia una discografia immensa: 78 album e
chissà quante altre incisioni mai pubblicate degne di
essere ascoltate, opere di una leggenda della musica
moderna che oggi come un tempo può essere
riproposta e riscoperta come qualcosa di nuovo.
Out Among The Stars quindi è più che un piacevole
ritorno, è la puntata finale di una storia di grande
talento. Almeno per ora…
Nel 1992 entra nella Rock 'n Roll Hall Of Fame; nel
1993 decide di tornare a suonare dal vivo in un tour
europeo: suonerà a Dublino e incontrerà gli U2 e
Brian Eno che lo invitano ai Windmil Studios.
Johnny darà il suo contributo per scrivere The
Wanderer. Tornato dalla tournèe europea, incontra
Rick Rubin, proprietario della casa discografica Def
American Records, e in meno di un solo anno
registra novantaquattro canzoni, per lo più vecchie
RAFFAELE VENTURA
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Molecola 8KS
Che cosa è: Una bio-molecola concettuale, benefica
che fa tendere in modo naturale alla felicità.
Come si presenta: Essendo una molecola è pertanto
invisibile ad occhio nudo. Può essere veicolata
attraverso prodotti esposti alla molecola, come
questo testo e quelli che seguiranno.
Effetti Indesiderati
Inspiegabile buonumore in momenti di monotonia
cosmica. Euforia fuori luogo, sovra-fiducia in se
stessi, autoironia. Sordità temporanea a critiche
distruttive altrui. Incredibile sensitività ricettiva a
critiche costruttive altrui. Propensione a cantare a
voce alta in luoghi non adatti. In una percentuale dal
48% al 58% DIPLOMA.
Composizione:
- Giocare (Jok) in forma instabile semiseria;
- Ironia (AH²) sonoro ghigno sibilante;
- Ego (Ès) di composizione magmatica;
- Comunicare (αβ) in scariche logorroiche;
- Imparare (Σ) tessuto spugnoso tentacolare ad alta
densità curiosa e con 80% di umiltà ricettiva;
- Sperimentare (X∞) destrutturato adrenalinico
nebuloso;
- Viaggiare (Go) soluzione di micropulviscoli
nomadi;
- Cibo (Fo₂D) aroma gelatinoso, in posizione prona
e chimicamente passivo.
Scadenza e Conservazione
8ks è sviluppata per resistere alla banalità e alla
nebbia psicologica. Se intrisa di queste sostanze
potrebbe scoppiarvi nello zaino, che tenderà a
gonfiarsi fino a portarvi a dodici metri di altezza.
Potete scriverlo nelle giustificazioni scolastiche.
Ah, è una molecola evolutiva, quindi instabile per
definizione. Reagisce in modo diverso a seconda
dell’organismo ospite.
DISTRESS CLUB
Indicazioni Terapeutiche
Agisce contro patologie dello spirito quali:
depressione, tristezza, pigrizia, apatia, alta
influenzabilità.
Indicata nei casi di ansia da distacco dalla coperta,
noia scolastico-teorica, amnesie improvvise durante
interrogazioni e successiva tendenza a belare.
Predispone al pensiero autonomo. Agevola l’ingresso
neuronale di informazioni rilevanti, ostacola quello
delle idiozie televisive, tiene uniti pezzi sparsi di
materia grigia. Vivamente consigliata in caso di
smarrimento di sicurezza personale, insufficienza di
sinonimi, scompenso di intuizioni geniali, astinenza
da caffeina.
Controindicazioni
Allergia comprovata all’intelligenza.
23
simulazione. Vivi in gruppo insieme ad altri cadetti
alieni, acquisisci i gradi, impari a guidare astronavi
di ogni classe e a superare le missioni spaziali.
Il quadro comandi delle navicelle è davvero
complesso. I tecnici NASA e BM stanno cercando di
studiarlo per trarne ispirazione. Hai una tua stanza,
soldi, armi, caratteristiche personali incredibili, ti
innamori, baci, parli, mangi, dormi, ti stanchi, impari
le lingue aliene. Quando ricevi i gradi di capitano,
puoi entrare in sala tattica e vedere l’universo
ologrammatico. Oltre la via Lattea, oltre i pianeti
conosciuti. Vedi il database di tutte le razze aliene
con una vastità e una precisione di particolari che in
confronto Star Trek non è niente. Puoi viaggiare
nell’iperspazio e raggiungere pianeti lontani anni
luce, conoscere altri mondi e altra “gente” e le loro
abitudini. In modalità online potresti incontrare Bill
Fatality Hawl che ti “sfancula” mentre aziona
l’iperguida. Sei un universopolita, conosci le galassie
come il tuttocittà, e sei libero di diventare ciò che
vuoi. Next è infinito.
Il nostro pilota Quarto è innamorato di Alayaga,
ufficiale di Ves. Jay, via olomessaggio, lo invita a
raggiungerlo su Saruk per bere qualcosa. Ma Quarto
è in missione per l’Accademia e sta sfidando il
giapponese Kentaro. Deve batterlo a tutti i costi. Si
avvicina al pianeta Baldur, attorno al quale girano
vorticosamente asteroidi ferrosi. Deve entrare
nell’orbita per completare la sfida. Quarto vede
Kentaro nei visori dell’astronave, impenna, decelera,
fa lo slalom tra i meteoriti, attraversa la nebulosa ed
eccolo lì a ruotare nell’orbita planetaria. Applausi di
tutta la squadra. Kentaro brucia il suo joypad, deciso
a non giocare mai più. Dieci minuti dopo prenderà il
pad di riserva.
Quarto è l’idolo dei cadetti. Alla base festeggia con
la troupe virtuale.
Il giorno dopo si sveglia alle 5 per accendere il pc.
Suonano al campanello. Stupito, va ad aprire alla
porta. Di fronte casa è parcheggiata la sua astronave.
Alayaga, in carne e ossa aliene, insieme al secondo
pilota di Quarto, lo saluta. “Perché quella faccia? Ci
conosci bene no? Sì, siamo reali. Next è un
protocollo di selezione. Sei il migliore! Abbiamo
seguito il tuo addestramento. Abbiamo bisogno di
nuovi piloti, hai 10 minuti per prepararti.
Decolliamo”.
Jok
Atomo: Giocare
Simbolo: Jok
Configurazione: forma instabile semiseria
Descrizione: per indole si aggroviglia intorno ai
neuroni, disturbando il loro normale funzionamento.
In composizione crea figure acrobatiche che
distraggono la vostra attenzione da tutto ciò che
stavate facendo.
Il mondo dei Gamer è sconvolto dall’arrivo di
NEXT, un videogioco che promette l’infinito.
Concepito da una nuovissima Software House, crea
un’aspettativa maggiore della missione su Marte. Il
trailer su YouTube è il più sensazionale che si sia
mai visto, lontano anni luce dagli altri, e assicura un
finale inverosimile. Si dice che il presidente della
Ubisoft vedendolo sia svenuto dalla sedia. Il sito
ufficiale di NEXT è invaso dai giocatori più famosi.
Kentaro Shimazu, leader giapponese di Final Fintasy
e COD, provoca gli altri giocatori affermando che
riuscirà a finire il gioco in una settimana. Quarto da
Vinci, Master di NFS e GTA, dichiara che in Italia
abbiamo le palle di finirlo in 5 giorni. Bill Hawl
from Massachussets, in arte Fatality, organizza lo
squadrone USA deciso a fare il culo a strisce di tutte
le altri nazioni meno dotate. C’è chi vende il
motorino per avere tutti i requisiti di sistema sul PC.
Il traffico di console triplica in tutto il mondo entro
le due settimane dal lancio. Tutti pronti.
Chi ha dormito in sacco a pelo davanti ai negozi per
tre giorni riesce ad avere il gioco originale. Gli altri
vagano disperati e sono disposti ad acquistare la
versione russa in cirillico, pur di averlo.
Per un mese l’80% dei ragazzi tra i 13 e i 20 anni
non esce di casa. I genitori li implorano per poter
giocare.
In Next sei te stesso. Con la scansione dell’impronta
digitale inviata online, Next riproduce le tue fattezze
con una verosimiglianza del 100%. Vivi in una base
spaziale e sei un pilota. Ma non è solo un gioco di
DISTRESS CLUB
24
Ego Test
6) Ti lavi la faccia con:
[M] trattamento specifico
niente
FINALMENTE PUOI SCOPRIRE LE
PERCENTUALI DEL TUO IO FEMMINILE E
DEL TUO IO MASCHILE, RISONDENDO A
QUESTE DOMANDE.
[N] acqua / sapone /
7) Hai più di un tatuaggio?
[O] No [P] Si
1) Hai paura di invecchiare?
[A] No [B] Si
8) Chi tra i tuoi genitori si veste meglio?
[Q] Padre
[R] Madre
2) Vai dal parrucchiere:
[C] Quando capita
[D] A intervalli regolari
9) Vorresti:
[S] essere il tuo idolo
3) Sai cosa significa “Grippare”?
[E] No [F] Si
[T] incontrare il tuo idolo
10) Riesci a leggere ascoltando musica?
[U] Si [V] No
4) Pensi sia assurdo spendere più di 50€ per una
maglietta?
[G] No [H] Si
11) Nelle tue conversazioni telefoniche,
prevalentemente:
[W] Parli del più e del meno
[X] dai e ricevi
informazioni
5) Vorresti essere:
[I] Un gatto
[L] Un cane
12) È meglio essere:
[Y] bellissimi e stupidi [Z] intelligenti e brutti
DISTRESS CLUB
25
“Sotto questo cielo”
è speso in sponsorizzazioni di innumerevoli prodotti
e le migliori aziende del mondo hanno fatto i salti
mortali per strappargli un contratto: basti pensare che
solo in Italia è stato testimonial di Martini, Fiat,
Nespresso e Fastweb.
Dopo 7 anni di sodalizio con Nestlè, oggi lo
ritroviamo con la sua tazzina di caffè in mano, alla
ricerca di un posto libero dove sedersi. Lo trova
accanto ad una donna che sembra non riconoscerlo.
Lui si allontana un attimo e la sua presenza viene
segnalata alle numerose donne presenti nel locale. La
bella donna voleva gustarsi in pace il caffè che il bel
George le aveva lasciato a tavolino.
Vorrei farvi riflettere un attimo sul linguaggio delle
pubblicità. E’ il linguaggio, infatti, che garantisce
l’efficacia del messaggio e il suo successo: uno spot
raggiunge il successo giocando sulle emozioni del
consumatore. Il tempo a disposizione che si ha per
cogliere un messaggio pubblicitario è breve, una
questione di secondi in cui tutto si regge sul primo
impatto. Bisogna per questo risvegliare l’interesse,
colpendo nel minor tempo possibile con un
accostamento di immagini e slogan che rimangano
impressi.
Daniel Kahneman, psicologo israeliano e Premio
Nobel per l’economia nel 2002, sostiene che uno dei
capisaldi dell'efficacia di una campagna pubblicitaria
sia l’Immedesimazione: lo spettatore si proietta in
quello che vede perché è una situazione alla quale
ambisce e che lo fa sognare. Ci si aspetterebbe che il
consumatore acquisisca stima della marca
reclamizzata e desideri persino il prodotto.
Proviamo allora ad immedesimarci in una di queste
pubblicità. Torniamo al commesso della Conad:
- Amore, c'è un problema.
- Tra noi due?
No, tra la gente.
Caro signore della Conad, alla gente non gliene frega
nulla perché dorme.
Io soprattutto mi chiederei perché, mentre ti dirigi a
palpare la lattuga, incontri sempre un uomo che va in
giro in bicicletta nella parte opposta alla tua.
Ecco, solo io sono così cattiva da aver pensato che
vada da tua moglie? E riguardo lei, perché la svegli?
Ma vacci da solo al supermercato!
Al signor Daniel Kahneman, quindi vorrei dedicare
queste poche parole: avrai anche vinto il premio
Nobel, ma nessun uomo ambisce ad essere la moglie
o il commesso della Conad. Al massimo la lattuga.
Noi giovani sentiamo spesso dire che viviamo
nell’era dell’informazione, che ne siamo circondati e
che è impossibile sfuggire ad essa. Dai cartelloni alle
fermate degli autobus, alla televisione, fino alle
riviste e ad Internet: la pubblicità ha finito per
accompagnarci in ogni momento della nostra vita. In
Italia spesso si preferisce puntare su messaggi
rassicuranti e tradizionali. Pensiamo, per esempio,
agli spot della Mulino Bianco: ecco Antonio
Banderas che da Zorro è diventato un mugnaio.
Dalle stelle ai Pan di Stelle, è il caso di dirlo. Ma
dico, Antonio, possibile che non hai un briciolo di
dignità? Un uomo che ha vissuto gran parte della sua
vita attorniato da donne e ad interloquire con loro,
ora, in tempo di crisi, si ritrova a parlare con le
galline. Ma la Mulino Bianco non è la sola ad avere
un’idea particolare della famiglia. Sicuramente molti
di voi avranno avuto la sfortuna di ritrovarsi a
guardare alla televisione l’ultimo degli spot della
Conad, in caso contrario, leggetevi queste righe: nel
cuore della notte un uomo si sveglia perché avverte
l’irrefrenabile urgenza di correre al supermercato a
controllare la freschezza della lattuga mentre la
povera moglie cerca di riposare sotto le coperte. Si
tratta pur sempre di finzione, ma amica tu hai
bisogno di uomo con cui parlare senza dover staccare
un numerino al banco della salumeria. Chiedi subito
il divorzio!
Nessuno dei due spot, che vi ho menzionato, ha però
mai raggiunto in fatto di fama quelli della
Nespresso. Non c’è tregua, appena accendi il
televisore ti ritrovi i visi di George Clooney e di Matt
Damon e quell’odiosa canzoncina di sottofondo.
Tutti ne parlano, tutti lo hanno parodiato, lo spot del
caffè Nestè è ormai diventato un tormentone! Chi
non ha mai sentito la frase: “George Clooney is
inside!” (in caso, buon per voi). George Clooney è
ormai un brand ben consolidato e negli ultimi anni si
MARTINA MANGIONE
26
COMPONIMENTI
CREATIVI
27
Frozen
Cera
Fredda.
Non volo,
non migro,
non cado,
non sono.
Fredda come il ghiacciolo,
come la neve che inaridisce il suolo,
come il cadavere sotto il gelido lenzuolo.
Mi hanno
sciolto le ali
troppo presto.
Fredda come l'usignolo
che perdendo un'ala non può più spiccare il volo,
come il ghiaccio che scricchiola su al polo,
come il vento che danza da solo.
Sintomi
La teoria delle stelle
Leggevo così poco che non ricordavo più come si
scrivesse.
Perdevo tempo e sonno in perdite di tempo.
Mangiavo poco e male e mai a casa.
E non ricordavo l’età di mia figlia né in che giorno
mi fossi sposato. Non ricordavo se fossi sposato.
E la mia unica aspirazione era diventare direttore del
Salòn del Libro Iberoamerico e prendere un tè con
Luis.
E avevo la presunzione di poter mettere contenuti
impliciti nelle mie opere prime.
E sfortunatamente mi innamorai una volta sola, a
diciannove anni, senza idee di come si parlasse a
una donna o di come si accarezzasse a letto e
semplicemente la lasciai andare. Avevo paura di
avere paura. Che sciocco.
E di tutte le donne che mi scopai non ricordo
nemmeno il nome, solo che avevo assunto tanta di
quella droga sintetica che mi sembravano tutte
bionde e tutte come lei. Non voglio ricordare
nemmeno il suo di nome. Ora che ho imparato ad
aver paura.
Ed era insopportabile avere una moglie e una figlia e
dover far finta di essere interessato a qualcosa o a
qualcuno.
Ero spaesato in una vita non mia con gente che non
conoscevo e cercavo sempre gli stessi occhi dal
1991, quando li vidi la prima volta, ma non li cercai
mai. Non ho mai avuto il permesso di cercare.
E correvo per tutta la città per non tornare a casa e
viaggiavo per tutto il paese per non trovare una casa.
E ho cercato per tutta la vita di non appartenere a
niente, mentre contavo le gocce di Xanax prima di
andare a dormire. Io non sapevo cosa fare.
Guardavo la tv e non parlavo con chi guardava la tv,
leggevo le guide nelle città che visitavo ma mi
perdevo tutte le volte.
Ed ero quasi sicuro che la libertà fosse questo.
Ero in macchina mentre ascoltavo la sua canzone
preferita, l’ho vista dall’altra parte della strada
mentre fumava una sigaretta e l’ho immaginata con il
In alcune persone si nasconde una stella.
Essa, celata e poco notata, abbaglia i passanti
con una luce leggera, riflessa da altre lune
che le ruotano intorno.
Alcune persone hanno gli occhiali da sole giusti,
che permettono loro di ammirarne la bellezza;
Ogni stella è diversa e per ognuna
c'è bisogno di diversi occhiali.
Chi rimane incantato a guardarle,
si rende conto di quanto siano
insignificanti le altre lune
e non vorranno più abbandonare
la loro stella.
ANONIMO
Sono ancora ad aspettare la tua chiamata, sotto le
coperte tutte le parole fanno le capriole.
Non mi chiamerai, e poi arriveranno le tue scuse
domani, che verranno accettate: amare. Il mio
problema sono le decisioni, fammi crescere più di
quanto hai fatto troppo spesso fin ora.
Sta tutto sfumando in una monotonia estrema, sta
tutto sfumando. Non riesco a ricordare com'era
prima ma posso rimpiangerlo, il prima. Vorrei
parlarti spiegarti, spiegarmi. Qualcosa mi blocca, tu.
Posso parlare del passato finché non arrivi, il prima è
quando tu ci sei.
ANONIMO
28
suo nuovo fidanzato nella loro nuova casa a fare
qualcosa di troppo noioso per le sue aspirazioni.
Ho messo la quinta e ho corso, ho corso fino a
perdere il controllo che non ho mai voluto avere.
Ho chiuso gli occhi e ho sperato di non aprirli mai
più.
Ho lasciato il volante mentre ridevo fortissimo, io
che della vita non avevo capito niente.
cangiando in una grigia distesa costellata di alture
semi sabbiose piramidali sormontate da rocce che
sembravano ruderi diroccati. In quel momento
l’attenzione di tutti quanti si focalizzò sull’ambiente
esterno. Era alquanto ammaliante ma alla stesso
tempo inquietante. La strada procedeva dritta. L’aria
era tersa e lo sguardo scorreva in profondità verso il
lontano orizzonte. La strada si svolgeva attraverso
questo sterminato ambiente lunare. Un brivido
percorse loro la schiena. Si calmarono solamente
quando videro un'auto nell'altro senso di marcia. Si
rilassarono, ma nessuno ammise di aver provato un
attimo prima una paura infondata. La strada asfaltata
procedeva, eppure iniziavano a intendere di essere
fuori dal mondo. Tentavano di scacciare il ronzio di
questo pensiero aggrappandosi alla consolazione di
non essere soli. Dopo un lungo lasso di tempo, in cui
la loro fiducia stava crollando di nuovo, incrociarono
due persone che camminavano lungo il bordo della
via. Che ci fanno quelli in mezzo al nulla? La
visione, invece di tirare alto il tenore, alimentò la
disperazione. Il grigiore era quasi abbagliante. Più
s'inoltravano nel deserto più si sentivano a disagio. I
sensi erano appannati, il tatto quasi inesistente, le
orecchie ovattate. Spuntava sempre più gente, a
chiazze, insieme, poi soli, una processione di
automobili, moto, biciclette, e di nuovo solitudine e
ancora motorini e persone a gruppi, a tratti. I ragazzi
iniziarono a ridere nervosamente, una risata isterica,
forzata. E intanto procedevano nella loro corsa
infinita sulla strada dritta che non moriva
nell'orizzonte.
ALICE SAGRATI
La strada nel deserto
Sottili strisce rosse, quasi parallele, si arrotolavano
sulle cime di dolci collinette che spuntavano sul
pendio di una parete. Cespuglietti di erba spinosa si
ergevano tra una crepa e un'altra, pini audaci si
aggrappavano sulle pendici di un baratro. La roccia
striata era simile a cioccolato fuso sopra lamine. Il
cielo plumbeo intensificava i colori della pietra. Una
macchina incespicava su una strada che pareva
sospesa in quello scenario mozzafiato. La macchina
si arrestò in una piazzola accanto a un altro veicolo
ad ammirare il paesaggio. Quattro persone scesero
ammaliate. “Scusi ci può fare una foto?” I quattro
amici si misero in posa e ringraziarono la signora
grassoccia con il maglione rosso. Avevano un
marcato accento straniero. Erano giovani turisti
frementi di conoscere e in cerca di nuove emozioni.
Indugiarono un po’ finché non cominciarono a
scendere gocce di pioggia. Si rimisero in moto:
viaggiavano cauti, ma a quella velocità non
sarebbero mai arrivati in tempo. Bisognava
accelerare, ma le curve ripide e il fondo stradario
bagnato non lo permettevano. Adesso si trovavano
sulla cresta della montagna e ben presto iniziarono la
discesa. Sotto si apriva il dirupo scosceso in fondo al
quale si distingueva a malapena il fondo. Ai bordi
della carreggiata non c’era una recinzione di
protezione per far attraversare gli animali selvatici.
La pioggia si tramutò in diluvio, picchiava sul vetro
della macchina e sugli alberi. Il ragazzo al volante
era teso ma non voleva darlo a vedere agli altri. Una
ragazza che stava seduta accanto a lui studiava la
cartina, un’altra dormiva placida con la testa
appoggiata su un altro ragazzo che ascoltava la
musica; ognuno era assorto nei suoi pensieri.
Finalmente arrivati a valle, il cielo iniziò a schiarire.
Ben presto ripresero la loro corsa. Man mano che
procedevano il paesaggio diventava sempre più
variegato, attraversarono praterie, canyon, foreste di
betulle e di nuovo alture frastagliate - come intagliate
- di terra rossa. La natura gradualmente si piegava in
colline di arena gialla e poi bigia, infine si prostrò
Telegiornale serale: un giornalista intervista una
signora grassoccia con un maglione rosso sconvolta,
s'intravede un movimento affannato dietro di lei e si
sentono alcune sirene suonare. “Sono scioccata …
Li ho visti poco dopo sparire davanti a me. Ho
pensato “ci mancava solo la nebbia adesso”. E
invece no... non era nebbia, la macchina è proprio
precipitata di sotto, nel precipizio. È stato orribile,
veramente… quattro giovani, così giovani”.
FELIX
29
L’angelo e la corda
nera come la notte. Non sapeva perché si fosse
fermata davanti a quella, ma era sicura che fosse lì.
Era per il silenzio, quel dolce, straziante e molto
innaturale silenzio. Spinse la porta: era già
socchiusa. Come una muta, tacita richiesta di aiuto
cigolò un poco, timida, leggera. Elena abbassò lo
sguardo: le lacrime erano ricomparse.
Lui era lì, al centro della stanza. Come un tempo
c’era stata sua madre: Il collo leggermente piegato,
la testa china, come se dormisse. C’era anche quel
leggero moto ondulatorio, come se fosse mosso da
una qualche brezza primaverile.
“Papà, perché mamma dorme in aria?” aveva chiesto
la prima volta, quando era piccola. Era tutto uguale,
solo che ora sapeva che quel sonno sarebbe stato
eterno. Lui era lì, il volto quasi perfetto,
imperturbabile, senza età: giovane ed al contempo
vecchio.
Era nella camera, spoglia e puzzolente, fermo
dinnanzi a Mario, come se volesse svegliarlo. Ma
sapevano entrambi che non si sarebbe svegliato, non
più. Elena urlò. Urlò forte perché tutti, suo padre, la
mamma, Mario e il suo angelo, avvolto nel suo lungo
mantello nero, la potessero sentire.
“Signorina, per l’amor del cielo si allontani subito”,
una voce allarmata. Due pistole puntate. I poliziotti.
Erano due ragazzi imberbi, sui volti ancora i segni
dell’acne giovanile. Elena rimase lì, ferma.
Nessuno lo vedeva, nessuno riusciva a vedere il suo
angelo silenzioso. Perché? Perché?
Roma Nord, Fiano Romano, vicino l’autostrada A1.
28 novembre. Ore 16.41.
Circa 20 minuti prima.
Elena non smise di correre. Non ci riusciva, non
poteva, non voleva. Le porte dello squallido motel le
scorrevano davanti agli occhi, i loro numeri stampati
nella mente: 20…..25….30.
Elena si strinse nel leggero cardigan color fango:
aveva il fiatone. Appoggiò il palmo della piccola
mano olivastra sullo stipite della porta, sussultando
per riprendere il fiato. Ecco, aveva le lacrime agli
occhi. Due piccole gocce le rigarono il volto. La
donna singhiozzò in silenzio; non voleva crederci.
Non ora, no. Proprio quando la sua vita stava
andando per il verso giusto.
Forse suo padre aveva ragione: la Vita si prendeva
sempre gioco di quelli che poi, in realtà, erano solo i
suoi balocchi: li strapazzava, dava loro un momento
di calma, un po’ di pace e felicità per poi togliere
loro tutto e farli piombare nel buio. Oh! Di sicuro “la
Vita” si era presa gioco di quell’ alcolizzato di suo
padre. Con un moto di rabbia ricacciò indietro le
lacrime. Non era il momento. Spinta dalla
disperazione riprese a correre. Raggiunse una rampa
di scale. Ai lati l’intonaco verde chiaro era caduto,
buio ovunque. La poca luce del tramonto filtrava
attraverso le poche finestre, coperte da pesanti tende
polverose. Rossa, rossa come il sangue.
Fece i gradini a due a due. Come quando era piccola
e lei e suo padre facevano a gara per vedere chi
arrivava primo dal pianterreno alla camera della
mamma. Un tonfo.
“No”. Sussurrò gelida Elena. L’aveva riconosciuto
quel tonfo. Quel tonfo di morte. Lo stesso che aveva
portato via la mamma malata, lo stesso che aveva
gettato suo padre nell’alcol, l’unico rifugio che aveva
trovato.
No, no, no. Anche lui no. Da fuori giungevano le
urla e le sirene. Erano arrivati ,ma troppo tardi. Fece
un profondo respiro. Non sapeva perché stesse lì, lì
ferma, senza nemmeno più lacrime da versare.
Avrebbe dovuto correre, urlare, vedere cosa era
successo, ma la speranza era per gli stolti, lei non lo
era più da molto. Sentì delle voci provenienti dalle
rampe delle scale inferiori. Erano nervose, agitate,
credevano ancora che si potesse fare qualcosa. Fece
le scale con calma, non come quella volta, da piccola
quando stava giocando, prima di vedere. Il suo
angelo, quello che l’accompagnava da quando aveva
nove anni, sarebbe stato ancora lì. Lo sapeva, non
aveva nemmeno bisogno di sentirlo. Ogni emozione
era scomparsa, sostituita da una fredda
consapevolezza. Salì le scale con tutta calma, lui
l’avrebbe aspettata, lo sapeva, aveva tutto il tempo
del mondo. Giunse alla porta numero 70: era scura,
Roma Nord, Fiano Romano, vicino l’autostrada A1.
28 novembre. Ore 17.01. 20 minuti dopo.
Ora.
Lui, il nero angelo, si gira, il volto contratto in una
smorfia, un sorriso estatico, pieno di una malsana e
ambigua soddisfazione. Il suo magro e ossuto
braccio si alza con una tetra lentezza. Elena non
vorrebbe vedere. Chiude gli occhi, ma non bastano le
palpebre a oscurarle la vista. Dalla oscura voragine
della manica cade una corda. E’ chiara, uguale a
quella della mamma, a quella di Mario. Il nodo è già
fatto. Il suo angelo fa un gesto. La mano si chiude
con molta lentezza. Solo l’indice rimane fermo,
aperto dritto. La indica, la rivendica, vuole il suo
cuore, il suo cuore vivo, ancora per poco.
GIULIA CORSINI
30
La Tana del Ragno
Parte quarta
Parte quinta
Nei giorni che seguirono, il confine tra sogno, realtà
e follia si fece per Arnolphe sempre più sottile.
Infatti, nonostante il vecchio avesse capito ormai da
un pezzo che la bestia non poteva rappresentare un
vero pericolo, non riusciva a sopprimere il senso
dell’orrore e del disgusto, e questo lo portava ad
avere diversi incubi, a volte a occhi chiusi, altre volte
no. Il più terribile di quelli vedeva Arnolphe correre
via, scappare dalla bestia, a sua volta diventata
gigantesca. Questa passava attraverso i muri,
buttandoli giù, e costringeva il vecchio a
comportarsi alla stregua di un ratto, nascondendosi
in qualsiasi anfratto trovasse. Poi, Arnolphe
arrivava nella camera del bagno, correndo, trovava
la vasca piena e ci si gettava. Questa
immediatamente assumeva dimensioni sempre più
notevoli, sino a diventare una vasca enorme, scura, e
Arnolphe vi si sdraiava sul fondo. Il ragno intanto si
avvicinava, piano, e adagio cominciava a poggiare
sulla superficie dell’acqua prima una zampa, poi
due, poi tutte quelle anteriori e infine scivolava
completamente su di essa, senza andare a fondo.
Arnolphe, terrorizzato, guardava da sotto l’addome
del ragno, le sue gambe contorcersi, strisciare, e le
fauci schioccare, mentre gli occhi lo guardavano
fisso. Poi, pian piano, l’aria cominciava a mancargli
e il suo corpo a galleggiare, a risalire dritto alla
superficie, dritto verso le fauci del mostro…
Quando si svegliava, spesso si sentiva angosciato, e
la bestia sopra di lui gli pareva ancora più terribile e
minacciosa. Ma altre volte, più lucido, alzava la testa
e guardava quell’animaletto, stanco, distrutto,
abbrutito da quella permanenza angosciante; e
quando questo accadeva, Arnolphe si sentiva quasi
peggio.
Frattanto, al di fuori della dimora di Arnolphe il
tempo scorreva veloce: l’inquieto vento autunnale e i
suoi temporali si erano placati, i fiumi, prima in
piena per l’abbondanza di piogge, avevano congelato
il loro corso e la neve ricopriva il muschio ed il
fogliame, ovattando qualsiasi suono. Gli uccelli
erano migrati e anche gli altri animali andati in
letargo e nemmeno le orme di qualche vagabondo
sperduto apparivano più nella neve. Anche
l’atmosfera dentro la tana del ragno sembrava ora più
statica, immobile, ma di una staticità diversa dalla
candida quiete invernale: fetore, marciume e
abbrutimento dimoravano ormai dentro quelle mura
e l’aria era così densa da sembrare soffocante. E nel
buio si sentivano solo il respiro dell’uomo e il
rantolo della bestia, spezzati e discontinui. In realtà,
nonostante nella tana regnasse il silenzio, Arnolphe
non riusciva a goderne, ma aveva nell’orecchie mille
rumori, impressioni di suoni che non sentiva da tanto
tempo o che immaginava soltanto. - Saranno i rumori
del pensiero - commentava tra sé e sé, e
improvvisamente si chiese quale fosse il suono della
sua voce. Prima dell’arrivo del ragno, non è che
intrattenesse discorsi, certo, ma qualche parola ad
alta voce gli scappava; ora, invece, viveva nel
silenzio più completo e non si ricordava nemmeno
più quale fosse il suono della sua voce. Né aveva
voglia di rammentarselo, di risentirlo… Era assorto
in questi pensieri quando il ragno emise
improvvisamente un rantolo più forte, quasi come…
ma sì! Un colpo di tosse. Poi un altro e un altro
ancora. Sputava bava, per la maggior parte bianca,
come al solito, ma anche nera. Arnolphe lo fisso
negli occhi, terrorizzato: la bestia li teneva chiusi.
Poi di nuovo un colpo di tosse, poi un altro. Aprì gli
occhi, o almeno qualcuno dei tanti: erano occhi
provati, afflitti, e Arnolphe non riuscì a provare un
sentimento di pietà – per un ragno! Doveva proprio
essere impazzito –, ma poi al nuovo soffio di bava e
sangue, nero, l’orrore rimosse qualsiasi altro
sentimento. Il ragno continuava a sputare, sempre
più forte, e il suo corpo si contorceva, si rattrappiva
ad ogni colpo, e poi fischiava, sibilava, si scuoteva e
ritossiva. E Arnolphe... Arnolphe la stava guardando,
per la prima volta in vita sua, la stava guardando, con
disgusto: la morte! E il ragno alzò disperatamente la
testa e urlò orribilmente: qualcosa si ruppe, se ne
sentì il crepitio, e in una scia di tela e sangue, la
bestia cadde giù, completamente addosso ad
Arnolphe: un corpo caldo, orribile sopra il suo petto,
che lo bagnava di sangue e sudore. Fuggì. Arnolphe
fuggì disperatamente, disgustato e orripilato. Correva
via, da quella camera che era ormai diventata la
31
tomba della creatura, inciampava e barcollava senza
una direzione, se non andare più lontano possibile. E
nella sua corsa, sbatté contro la porta in fondo al
corridoio, e inciampò dentro l’androne vuoto,
proprio davanti all’enorme finestra, che si stagliava
davanti a lui come in una visione… E c’era aria,
c’era luce lì, proprio come nei suoi sogni, c’era
spazio per muoversi, per camminare, per respirare.
I mille rumori nella sua testa erano cessati, era
rimasto solo un bisbiglio, una voce sommessa,
serena, la voce della fresca brezza invernale.
Arnolphe si alzò, chiuse gli occhi e sollevò la testa,
facendo un respiro profondo, a pieni polmoni, e si
fece guidare dalla voce del vento. Assaggiò l’aria
fredda, frizzante sulla sua pelle. Era vicino: vedeva
già il cielo, limpido, e il sole mattutino che
diffondeva nell’aria una luce tenue, ma chiara e
vivace. Voleva sentirsi un tutt’uno con quel cielo e
quel sole, senza sentirsi mai più schiacciato dalle
mura, imprigionato nella tela vischiosa di un ragno,
appesantito da un aria fetida e chiusa. Un primo
passo verso l’alto. Mise il primo piede nel vuoto:
com’era dolce non sentire più il marmo duro sotto la
pianta! Salì. Si resse con le mani sul cornicione, e, di
nuovo a occhi chiusi, assaporò ancora una volta
quell’aria frizzante. Poi, con una giravolta, diede le
spalle a quella mattina meravigliosa, guardò per
un’ultima volta lo squallore della sua prigione e si
tuffò, giù, nella neve.
la mia pistola non sparò, Tredici, con la sua mira
impeccabile, schioccò un colpo preciso. Di quello
che accadde dopo, ricordo solo un gran frastuono di
schioppettate. Vidi solamente tre guardie scappare,
mentre una di loro sparò a Tredici, che cadde
svenuto, colpito al fianco.
In tutto questa confusione, ero rimasto in piedi,
bianco per la paura e immobile. Mi destai quando
Tauro si avvicinò e mi strinse forte il braccio.
“Sù, Corsivo, hai mancato il governatore, ma quelle
guardiacce sono tue! Diranno tutto al vescovo!”.
Andai a prenderle assieme a Squarcio. Corremmo
per circa dieci minuti senza intravedere nessuno. Il
sentiero era quasi finito e dovevamo sbrigarci per
raggiungerli in tempo. Squarcio era velocissimo e
facevo molta fatica a stargli dietro. Mi urlava: “Dai
Corsivo, più veloce!”.
Finalmente vedemmo il primo servitore, che
Squarcio ferì con un colpo alla gamba. Poi lo uccise,
sparandogli dritto in faccia. Intanto, la strada si
apriva perfettamente dritta davanti a noi e i tre
fuggitivi non avevano più vie d’uscita. Prima che
potessi davvero realizzarlo, Squarcio ne freddò due.
Solo uno continuava a correre e in lui riconobbi
l’uomo che aveva ferito Tredici.
“Lascialo a me” urlai a Squarcio. “Tranquillo,
Corsivo, hai tutto il tempo” mi rispose Squarcio.
Il bersaglio era in movimento e correva ormai
lontano. Rimisi la pistola nella fondina della mia
cintura e imbracciai il fucile che portavo a tracolla.
Era perfettamente carico. Non poteva sbagliare.
Mirai la schiena dell’uomo, poi alzai di poco il fucile
per la distanza che ci separava e schiacciai il
grilletto. Così uccisi un uomo per prima volta.
La meravigliosa e trista storia di poeti,
scrittori e impavidi briganti
Sommario del precedente episodio: un mese or sono,
abbiam scritto di come il nostro Fausto, oramai lo
chiameremo
Corsivo,
sia
diventato parte
fondamentale nella banda di Tredici. Abbiam
narrato delle loro canzonacce, del sotterraneo della
casa di Oliviero, pieno di quadri e di opere d’arte.
Infine, della spedizione per uccidere il governatore
Andrea del Castagno, di come Corsivo, noncurante
del pericolo, abbia puntato la sua rivoltella alla
tempia del corrotto.
Quando tutto fu finito, raggiunsi il punto della strada
dove giaceva l’uomo in una pozza di sangue. Era
giovane, non aveva ancora la barba. I suoi occhi
erano ancora aperti e con le mani stringeva qualcosa
al collo, un medaglione, pensai, forse un regalo di
qualche caro. Dopo poco, le dita della mano destra
mi iniziarono a tremare. Sentii dei forti dolori alle
braccia e alle gambe. Era una sensazione
insopportabile. Sentivo il cuore che mi batteva
veloce, schiacciato dentro il petto, soffocato.
Parte quinta
Pensavo di sparare a colpo sicuro. Ora il tempo per
caricare la pistola non l’avevo, lo scagnozzo di
Andrea del Castagno stava già prendendo la mira con
il suo fucile. Sarei morto se non fosse stato per
Tredici, che mi aveva seguito fino a quei cespugli
dove mi ero riparato poco prima. Fu così che quando
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“Se non lo uccidevi tu, era lui a farti secco” mi disse
Squarcio.
“Non lo so, Squarcio…”, ma proprio in quel
momento un’ombra si mosse tra i cespugli e feci
appena in tempo a vedere che un uomo puntava
contro Squarcio la sua rivoltella che presi
istantaneamente la pistola e feci fuoco. Squarcio si
volse e mi sorrise. Guardandomi, fieramente mi
abbracciò, da fratello. “ Se non lo uccidevo io, era lui
a farti secco” gli dissi, ricordandomi che era stato lui
a salvarmi ormai tanto tempo addietro.
Fu una delle rare volte in cui si lasciò andare
completamente. Forse gli uscì anche una lacrima, ma
non lo vidi in modo chiaro. Quando ritornammo
dagli altri, le condizioni di Tredici erano peggiorate.
Tauro lo caricò sulle sue larghe spalle e insieme
riuscimmo a metterlo sul suo cavallo. Cassio disse di
seguirlo e, dopo due ore di cammino, arrivammo
nella casa di un medico, Alfredo, che abitava ai
confini del bosco. Non potendo entrare tutti, decisi di
rimanere io con Tredici. Cassio, Squarcio e Tauro
partirono per andare a portare al nostro covo il
bottino sequestrato al governatore.
gentilissimo. Era un uomo onesto e, nel tempo che
passammo in casa sua, si guadagnò tutta la mia
stima. Alfredo mi disse di avere quarantatre anni e di
conoscere mio zio da molto tempo, mentre estraeva
la pallottola dal fianco di Tredici. Poi prese da un
barattolo varie erbe e, bagnandole con dell’acqua
fresca, le poggiò delicatamente sulla spalla del ferito.
Mentre sistemava le ultime medicazioni, Alfredo mi
mandò nella casa a prendere un ago. Prima di
entrare, vidi che mi stava guardando, dalla finestra
del piano di sopra, una ragazza, dai capelli biondi e
gli occhi chiari. Se prima quest’esile figura sembrava
spaventata, poi mi sorrise da dietro il vetro e con la
mano bianca mi fece segno di entrare. Aveva un
sorriso meraviglioso.
GIAN MARIA GHERARDI
GUIDO PANZANO
Alfredo era un uomo grassoccio, con due paia di
grandi baffi che gli coprivano il labbro superiore.
“Sarà una cosa molto lunga, ragazzo. Oliviero deve
rimanere qui almeno per un mese. La ferita è
profonda e avrò bisogno di tempo. Lo terrò nella mia
stalla e farò del mio meglio per salvarlo, a
quest’uomo devo la vita di mio figlio”.
Se all’inizio lo guardai stupito, non feci molta
attenzione alle sue ultime parole. Il medico mi offrì
anche un posto dove dormire, vicino a Tredici. Fu
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