Il genocidio ruandese: cause e prospettive Tangram

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Il genocidio ruandese: cause e prospettive Tangram
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15 giugno 2007
Studi e riflessioni, opinioni, esperienze e testimonianze a confronto sui temi della
cooperazione internazionale, dell’intercultura e dell’educazione alla mondialità
Tangram
Uno sguardo sul mondo e cooperazione internazionale
Il genocidio ruandese: cause e prospettive
Di recente è stato riproposto in televisione (Rai1) il film HOTEL RWANDA, che ci ha
ricordato il terribile genocidio del 1994 in Ruanda, attuato nella quasi indifferenza delle
grandi potenze mondiali.
Proponiamo la lettura di queste riflessioni di Mughanda Muhindo, uno studente
congolese da anni in Italia, che collabora col Progetto Harambee; il testo è la sintesi di
una conversazione dopo la visione del film.
Muhindo, oltre a delineare le vere cause di questo conflitto “pseudo-etnico”, ci aiuta
soprattutto a guardare in prospettiva sviluppi futuri, nella speranza di realizzare
situazioni che possano evitare il ripetersi di conflitti di questo genere, non solo in Africa
ma anche in altre parti del mondo.
I
l genocidio ruandese è una delle cosìddette guerre d’Africa; e come molte di loro è definito
una guerra etnica. Si tratta però di un modo riduttivo, etnologico e anacronistico di indicare
fenomeni, al contrario, complessi e riconducibili a cause socio-politiche ed economiche ben
definite e perfettamente coerenti con la tipologia di altre crisi del nostro pianeta (Kosovo,
Bosnia-Erzegovina, Caucaso).
Applicata all’Africa, l’espressione “guerra etnica” evoca un mondo di violenze e di barbarie
ataviche, un patrimonio antico di popoli geneticamente violenti e di solito strutturalmente
assetati di sangue. In realtà le guerre dell’Africa si situano in una drammatica conformità con
la natura delle guerre del nostro tempo. Dire guerra etnica significa mascherare la fitta rete
d’interessi geopolitici ed economici che determinano, alimentano e perpetuano conflitti che in
realtà sono il risultato di molte concause.
Per capire qualsiasi conflitto ci si incentra in
genere sui protagonisti, sulle cause e sullo
svolgimento. Il nostro è un tentativo di
trovare non solo le cause del genocidio
ruandese, ma anche di indicare prospettive
che possano nel futuro evitare tragedie di
questo genere.
Diciamo fin da subito che il genocidio
ruandese sarebbe difficile da capire al di
fuori del quadro generale dei conflitti di
vario genere che insanguinano l’Africa. In
questo continente, infatti, sono state
combattute o sono tuttora in atto guerre di Fonte: www.didaweb.net/mediatori/articolo.php?d_vol=195
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liberazione (quelle anticolonialiste e quelle contro le dittature), guerre secessionistiche e
inclusionistiche (caso del Katanga in Congo, del Casamance in Senegal e del Biafra in Nigeria),
ribellioni riformiste (quelle che mirano al rovesciamento di governi) e conflitti tra i warlords,
imprenditori che ricorrono alla violenza per aumentare la propria ricchezza (in Sierra Leone,
Liberia…). Queste guerre hanno delle motivazioni di vario genere: economiche, politiche,
culturali, ma anche etniche e religiose. Il genocidio ruandese è il risultato di una combinazione
di varie situazioni e di diverse cause, che lo hanno reso possibile.
Il genocidio ruandese sembra vedere sulla scena solo due attori: gli hutu e i tutsi (ma dietro le
quinte ci sono stati tanti altri attori, che però per mancanza di prove è meglio non citare). Si
tratta veramente di due gruppi etnici? La risposta a questa domanda non è facile; in realtà si
tratta di due gruppi che hanno coesistito per secoli in maniera pacifica nella condivisione degli
stessi usi e costumi, nonostante le chiare distinzioni di tipo somatico e di “casta”: gli Hutu
sono per la maggior parte agricoltori, mentre i Tutsi sono degli allevatori. Va anche precisato
che il passaggio da un gruppo all’altro poteva avvenire col
cambio di attività o di “casta”.
Questo ci porta ad escludere di per sé la motivazione
puramente etnica del conflitto che ha insanguinato il
Ruanda nel 1994. Se fossero state unicamente motivazioni
etniche a scatenare il genocidio, sarebbe difficile spiegare
la contemporanea pacifica convivenza tra gruppi hutu e
tutsi stabiliti in altre aree dell’Africa (RDC orientale,
Uganda del sud e Tanzania occidentale).
Le motivazioni più plausibili sono quelle di tipo politico ed
economico. La base politica del conflitto risale al periodo
coloniale. Il governo coloniale privilegiò il ruolo sociale dei
Tutsi e formalizzò le preesistenti distinzioni con
l’emissione di carte di identità etniche. Questo contribuì a
scavare una frattura tra i due gruppi. Lo stesso accadde
con le discriminazioni attuate dai regimi hutu di
Kayibanda (1962-1973) e Habyarimana (1973-1994) nel
periodo post-coloniale; il fenomeno si potrebbe chiamare
esclusione politica in nome del divide et impera.
Fonte:
Le motivazioni di tipo economico sono riconducibili al fatto
www.avizora.com/publicaciones/guerras/
che il Ruanda ha una densità di popolazione molto
textos/...
elevata: il rapporto tra popolazione e superficie territoriale
ha addirittura una densità pari a quella del Giappone. In
una società con un basso tasso di urbanizzazione e industrializzazione, il crescente
sovrappopolamento si può tradurre in una accesa competizione per la terra, che può assumere
anche il tono di una competizione etnica.
Le sole motivazioni di tipo politico ed economico non ci permettono però di capire
profondamente le ragioni della tragedia ruandese. Quello che è successo in Ruanda potrebbe
riprodursi in qualsiasi altro luogo della terra, se si ponesse la sua popolazione nelle stesse
condizioni in cui Hutu e Tutsi si sono ritrovati in Ruanda. Con ciò non voglio giustificare le
barbarie, ma mettere in evidenza il fatto che la causa profonda dei conflitti, quello ruandese
compreso, si trova nell’uomo, nell’individuo. Ecco perché per comprendere il genocidio
ruandese, (come ogni altro conflitto) c’è bisogno di una “antropologia del conflitto”.
La possibilità della guerra viene data, a mio avviso, dal senso di appartenenza. Nel passato
come oggi, il senso di appartenenza ad una nazione ha giustificato l’implicazione di
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individui in guerre, così come il senso di
appartenenza ad interessi economici o di
sicurezza mobiliterà altri a partecipare a
conflitti. Nel caso ruandese c’è il senso di
appartenenza ad un gruppo pseudo-etnico.
Non pretendo che oggi l’uomo sia in
grado di vedere il proprio prossimo in
quanto uomo, a prescindere dalle
differenze, che possono essere di vario
genere. Ciò metterebbe probabilmente
fine ai conflitti. La non immediatezza di
Fonte: www.voltairenet.org/article126127.html
tale traguardo impone di percorrere altre
strade, che stanno dando prova di
efficacia in certe situazioni (anche se la loro efficienza è da rivedere); e queste strade
possono essere il funzionalismo economico e la costruzione dello Stato di diritto.
Partire dal miglioramento delle condizioni economiche potrebbe spostare l’attenzione
dall’appartenenza ad un gruppo etnico all’appartenenza ad un gruppo di interesse di
altro genere, nel quale Hutu e Tutsi si possono incontrare indistintamente. L’Unione
Europea deve i suoi primi 60 anni di pace in tutta la sua storia in parte a questa
formula: il funzionalismo che i padri dell’integrazione europea sostennero è riuscito
fino ad ora a spostare l’attenzione dalla “nazione”, che dava la possibilità della guerra,
ad interessi di altro genere, principalmente economici e sociali.
Tuttavia, il funzionalismo economico da solo non basta. Esso va accompagnato con
una costruzione di uno Stato di diritto, che sia in grado di gestire i conflitti, un sistema
nel quale nessuno si fa giustizia da solo e nel quale la legge, votata dagli organi
liberamente scelti dalle popolazioni, è uguale per tutti: un sistema dove i diritti
dell’uomo occupano un posto di prima importanza.
La realizzazione di un progetto del genere richiede non solo lo sforzo dei Ruandesi di
uscire dal circolo vizioso in cui porta la violenza, ma anche quello di una classe politica
regionale e mondiale e di tutti gli attori presenti sullo scenario mondiale
(multinazionali e società civile) disposti e decisi a costruire un mondo migliore.
Mughanda MUHINDO
Laureato in Filosofia al
Philosophicum di Buhimba (Goma),
in Teologia all’Università Urbaniana
di Roma, in Scienze Politiche e delle
Relazioni Internazionali
all’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano, Muhindo ha svolto
uno stage presso la sede di Milano
dell’Associazione Harambee.
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Pole pole
Un passo alla volta (da un’espressione nella lingua swahili) conosciamo meglio i Paesi in cui opera il Progetto Harambee
Storia del Kenya (terza parte)
Riprendiamo qui la pubblicazione di un breve profilo della storia del Kenya (le prime due parti sono già
state pubblicate nell’Albero di Mae n.1 e n. 2:
http://www.brownsea.it/harambee/albero di mae).
Le prime fasi della lotta per l’indipendenza
Si può dire che l’unico aspetto dello statuto coloniale a favore degli autoctoni fu
l’autorizzazione a creare delle associazioni.
Il primo movimento nazionalista kenyano fu guidato da Harry Thuku per protestare contro il
predominio dei coloni bianchi. Thuku fu arrestato dalle autorità coloniali nel 1922 e fu esiliato
per sette anni.
Harry Thuku
Fonte: www.yellowpageskenya.com
Anche i Kikuyu fondarono una loro
associazione, la Kikuyu Association (KA) con l’obiettivo di lottare per la ridistribuzione delle
terre e difendere i membri della popolazione africana dalle usurpazioni dei bianchi.
Nell’organizzazione della resistenza contro i bianchi però i Kikuyu avevano difficoltà anche
“interne”, dovute a conflitti esasperati fra le diverse generazioni.
Nel lottare contro i coloni inglesi erano tutti d’accordo, ma gli anziani volevano cercare di
evitare una lotta dura, ponendosi solo l’obiettivo di cercare di migliorare un po’ le loro
condizioni di vita.
I giovani invece volevano fare una e vera
propria rivoluzione armata, con
l’obiettivo finale di cacciare i coloni
inglesi. I giovani e gli anziani avevano
un’istruzione differente: gli anziani non
erano mai andati a scuola, mentre i
giovani avevano frequentato le scuole
delle missioni; molti di loro svolgevano
un lavoro da impiegati soprattutto nella
capitale Nairobi. I membri che
formavano la K.A. erano disoccupati e
piccoli commercianti, impiegati,
lavoratori delle poste, guardiani,
fattorini, addetti alle pulizie, domestici.
Fonte: www.fao.org
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Obiettivo comune di giovani e anziani era la lotta contro i soprusi imposti dagli inglesi:
l’acquisizione violenta delle terre, gli aumenti continui delle tasse da pagare ai bianchi, che si
arricchivano sempre di più proprio grazie alle tasse pagate dai Kikuyu, il lavoro forzato.
Il rapporto fra i giovani rivoluzionari e gli anziani moderati della K.A. si complicò ancora di
più quando il governo inglese decise di arrestare il capo e dichiarare fuori legge la sezione
giovanile dell’organizzazione, la YKA, Young Kikuyu Association, e gli anziani si opposero
molto debolmente.
In quello stesso periodo, oltre ai Kikuyu, altre tribù cominciavano ad organizzarsi contro i
soprusi imposti dagli inglesi, ad esempio la tribù dei Luo, nella regione intorno al lago
Vittoria.
I colonizzatori avevano imposto le loro leggi, uguali per tutte le tribù del Kenya. Questo
principio fondamentale era simboleggiato dalla frase “Il governo dice”; i Luo delle
organizzazioni ribelli modificarono la frase in: “Il popolo dice”, in lingua Luo “Piny Awacho”.
La Young Kikuyu Association, anche se era stata dichiarata fuorilegge, non si era per niente
arresa ed era tornata a combattere nel 1924-25 con un nuovo nome: Kikuyu Central
Association (K.C.A.). La nuova K.C.A. voleva che i bianchi restituissero le terre che avevano
“rubato” agli Africani e voleva che gli inglesi concedessero loro il permesso per coltivare
autonomamente il caffè. Nella K.C.A. assunse un ruolo importante Jomo Kenyatta, un
impiegato del municipio di Nairobi, il futuro primo Presidente della Repubblica del Kenya.
Jomo Kenyatta
Fonte: www.answers.com/topic/jomo-kenyatta
Kenyatta alla nascita
era stato chiamato
Kaman una Ngengi, cioè “Kaman figlio di Ngengi”. Da bambino la sua principale occupazione
era quella di portare al pascolo il gregge della madre, con cui viveva in un villaggio vicino a
Fort Hall. Verso i 10 anni il ragazzo, rimasto orfano, fu ospitato da uno zio, ma presto lasciò la
casa dello zio per andare a scuola presso una missione della Chiesa di Scozia. Per guadagnarsi
la possibilità di frequentare la scuola lavorò prima come aiutante in cucina e poi come
carpentiere. In questa chiesa venne battezzato col nome di Jonstone, che solo più tardi, in Gran
Bretagna, verrà trasformato in Jomo. Il nome Kenyatta gli fu dato per la vistosa cintura
ricamata che era solito indossare insieme ad un copricapo ornato di perline. In lingua kikuyu
la cintura ricamata si chiamava appunto “kenyatta”.
Diventato adulto, Johnstone Kenyatta lasciò la missione e trovò un lavoro come impiegato
nella città di Nairobi, dove in poco tempo diventò molto popolare per la sua socievolezza, per
l’abilità nella danza e per le sue capacità di guida e di decisione. Kenyatta, avvantaggiato dal
livello, sia pur minimo, di istruzione, apparteneva ormai ad un gruppo sociale di un certo
prestigio, infatti aveva un buon lavoro, superiore a quello della maggioranza degli africani.
Il primo problema che Kenyatta affrontò, aderendo al movimento nazionalista del KCA, fu
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quello dell’unificazione; egli già guardava oltre
l’obiettivo dell’indipendenza: si trattava di
riuscire a formare un popolo unico, il che era
molto difficile, perché le varie tribù inglobate
dagli Inglesi nello Stato del Kenya erano molto
diverse, sia per origine etnica, sia per cultura
tradizionale. Alcune tribù erano perfino state in
guerra fra di loro.
Fonte: www.britannica.com
Kenyatta era anche consapevole delle
conseguenze negative della vita nelle “riserve”
non solo sul piano economico, ma anche sul piano sociale: rompendo una millenaria
tradizione, qui i giovani iniziavano a non rispettare più gli anziani e, cosa ancora più grave,
alcuni per ottenere privilegi dagli inglesi tradivano il proprio popolo, assumendo
comportamenti di predominio sui propri compagni.
Nel 1929 Kenyatta decise di recarsi in Inghilterra con lo scopo di appellarsi all’opinione
pubblica britannica e internazionale e di far capire al
governo inglese che il popolo kenyota voleva ottenere
l’indipendenza con mezzi pacifici. Fu un lungo periodo
di volontario esilio nel Paese dei colonizzatori, interrotto
solo nel 1933 da una breve permanenza di tre mesi
nell’Unione Sovietica; riguardo a questa visita non ci
sono notizie precise, però certamente Kenyatta volle
verificare la possibilità di avere aiuti dal mondo
comunista.
Esclusa questa alternativa, dal 1933 al 1936 Kenyatta
insegnò all’università di Londra; in questo periodo
pubblicò un libro sulle tradizioni e la cultura dei popoli
Fonte:www.fgmnetwork.org
del Kenya. Grazie a questo studio approfondito delle
condizioni di vita tribale e della società kikuyu, ricevette
il diploma di antropologia. Ma soprattutto, scrivendo questo libro, Kenyatta si proponeva e
ottenne per il suo paese il risultato politico di far apprendere all’opinione pubblica europea
la situazione del Kenya.
Nel 1940 in Kenya la K.C.A. venne dichiarata fuori legge e Kenyatta, nonostante il successo in
Inghilterra, fu costretto a rimanere in esilio fino al 1946.
Nel frattempo, immediatamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, per la
prima volta fu convocato un congresso pan–africano, evento molto importante, perché riunì
uomini africani che negli anni successivi sarebbero stati protagonisti dell’indipendenza dei
loro Paesi. In questo congresso furono condivisi ideali di nazionalismo, democrazia e
socialismo, ma Kenyatta aveva un piano di azione che lo rendeva una voce un po’ fuori dal
coro, in quanto sperava di raggiungere l’indipendenza in modo pacifico, senza scontri
armati.
Nel dopoguerra Nairobi era diventata la sede di molte organizzazioni clandestine, sia politiche
che religiose; il governo inglese si rendeva conto dell’evoluzione storica dei paesi coloniali e
dell’inutilità di contrastare rivolte violente degli Africani. Cercò piuttosto di avviare una
strategia politica di conciliazione, promettendo ai Kenyani una sicura partecipazione al
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governo del loro Paese. Questa strategia fu però rifiutata drasticamente dai coloni, che, in
contrasto con le indicazioni del governo centrale, fondarono l’Unione degli Elettori,
un’organizzazione molto razzista, che aveva lo scopo di contrastare qualsiasi cambiamento.
Kenyatta, dall’esilio, continuava a lavorare per ottenere un’unità nazionale; senza unità
sapeva bene che non era possibile lottare per l’indipendenza. Parlava della comune identità
degli Africani e della necessità di avere al più presto un benessere politico ed economico;
parlava al suo popolo con un linguaggio molto semplice, che diffuse fra gli Africani grande
fiducia in lui.
Nel 1948 solo nella città di Mombasa si contavano circa 50 organizzazioni africane che
volevano combattere per la libertà e i giornali politici erano ormai letti da tutto il popolo.
Fonte: www.reisefuehrer-online.de/Kenya
Fine terza parte - continua
Voci dall’Africa
Lettere, relazioni, documenti provenienti dall’Africa
Racconto africano
Il Progetto Harambee di Scambio Educativo in atto dal 1998 fra dodici scuole dei Gwassi
(la regione del Kenya sud-occidentale affacciata sul lago Vittoria) e una ventina di scuole
italiane, di anno in anno si è arricchito di contenuti sempre nuovi. Dallo scambio di saluti e
di semplici informazioni sulle rispettive scuole e sulle abitudini di vita, si è passati ad uno
scambio di documenti delle due culture e ad un lavoro comune su argomenti importanti
per i giovani, come il tempo libero, la musica o il problema AIDS.
Una novità è lo scambio di racconti realistici, inventati dai ragazzi italiani e kenyani, per
mettere a fuoco problemi ed esperienze comuni.
Riportiamo qui un racconto inviato ai coetanei italiani da un ragazzo di tredici anni, dei
Gwassi. Il testo è stato utilizzato in molte classi per avviare una discussione e un confronto
sul tema della fragilità degli adolescenti, che affrontano il mondo adulto. È emerso che i
ragazzi italiani difficilmente si trovano nelle condizioni di essere attratti e imbrogliati nel
gioco d’azzardo, come il protagonista del racconto; ma identici sono i meccanismi
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psicologici che portano molti adolescenti a lasciarsi abbindolare e adescare da adulti
disonesti (nel mondo della droga o della prostituzione per esempio).
Mulu ingannato al gioco
Era una luminosa domenica mattina e Mulu si sentiva orgoglioso di se stesso. Era appena
riuscito a convincere sua madre a dargli 50 KSH (scellini keniani) per tagliarsi i capelli, ma le
aveva mentito perché sapeva che avrebbe speso solo 20 KSH dal barbiere. Il resto dei soldi gli
sarebbe servito il mattino dopo a comprare dolci e snack lungo la strada per la scuola.
Mentre si affrettava verso Jimmi Kimoni Creazioni, il suo barbiere preferito, udì una voce rauca
che chiamava. Sopraffatto dalla curiosità, Mulu si avvicinò.
Scoprì che l’uomo era un giocatore, che chiamava per il Passerslay, un gioco d’azzardo, in cui
qualcuno riesce a raddoppiare la propria puntata. Ma nella maggior parte dei casi i giocatori
sprovveduti perdono tutto il loro denaro.
Mulu si fermò a guardare un uomo ubriaco che piazzava una banconota da 200 KSH come
puntata.
- Bene, un nuovo venuto! - esclamò l’uomo rauco che teneva il gioco.
Dopo alcuni giri di carte l’uomo del banco esclamò: - Hai vinto! - e tese all’uomo fortunato 400
KSH.
Poi chiese: - Chi altro vuole tentare la fortuna?.
Mulu guardava con la bocca spalancata: sembrava così semplice guadagnare altro denaro! E si
chiedeva perché altri abitanti del villaggio passassero oltre, non curandosi del gioco.
Effettivamente, Mulu aveva già sentito parlare di certi uomini imbroglioni dal suo fratello
maggiore, che aveva già provato a raddoppiare il proprio denaro, ma lo aveva poi perso tutto.
Dopo qualche ripensamento, Mulu convinse se stesso che in fondo suo fratello era stato solo
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sfortunato e decise di tentare.
Prese dalla tasca i suo 50 KSH e fece la sua puntata. - Immagina cosa potrei fare con tutti questi
soldi! - pensò tra sé e sé.
- Bravo ragazzo! - esclamò il padrone del banco da gioco e dichiarò che Mulu era stato
fortunato e in effetti aveva raddoppiato la sua puntata. Mulu non poteva credere alla propria
fortuna: 100 scellini! Prese il suo denaro e si incamminò verso il negozio del barbiere, ma dopo
pochi passi cambiò idea: - E se facessi un’altra puntata di 100 KSH? - pensò.
Pieno di speranze si buttò nuovamente nel gioco; il giocatore d’azzardo rimescolò le carte per
un secondo giro, e con voce afflitta dichiarò che purtroppo Mulu aveva perso il suo denaro.
Poi con indifferenza intascò la puntata di Mulu e si rivolse agli spettatori, chiedendo chi altri
volesse vincere del denaro.
Mulu non poteva credere a quello che gli era successo. Come era stato possibile?
- Ridammi il mio denaro; stavo andando al mercato a tagliarmi i capelli!
Ma nessuno gli prestò attenzione. Con un’occhiataccia l’uomo fece capire a Mulu di togliersi di
torno, dicendogli in malo modo: - In un gioco d’azzardo anche tu puoi perdere.
Mulu non aveva altra scelta che incamminarsi verso casa. Mentre camminava triste, si pentì
non solo di aver giocato, ma anche di aver mentito a sua madre, dicendole che un taglio
sarebbe costato 50 KSH. - Probabilmente è per questo che ho perso il mio denaro - pensò.
Quando sua madre vide i suoi occhi pesti e i capelli ancora non tagliati, gli chiese cosa fosse
successo. Mentre tra i singhiozzi Mulu le spiegava cosa era successo, la madre afflitta
esclamò: - Come hai potuto giocare con un imbroglione, quando sapevi che proprio degli
imbroglioni avevano già raggirato tuo fratello?”
Quel giorno Mulu imparò a non mentire e a stare sempre attento con gli imbroglioni.
Omondi Vincent
classe VIII, 13 anni
Pubblicazione interna della “Fondazione Brownsea”
a cura del Gruppo Comunicazione via Burigozzo 11 - 20122 Milano
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