Dipinti e Sculture dal XVII al XIX secolo
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Dipinti e Sculture dal XVII al XIX secolo
Dipinti e Sculture dal XVII al XIX secolo - 25 novembre 2016 / 24 febbraio 2017 ESPOSIZIONE 25 novembre 2016 / 24 febbraio 2017 Milano, via Olona, 2 Tel. 02 72094708 ORARI ESPOSIZIONE Dal lunedì al venerdì dalle ore 10.00 alle ore 13.00, dalle ore 15.00 alle ore 18.00 SEDE 20123 - Milano Via Olona, 2 Tel. + 39 02 72094708 Fax + 39 02 862440 [email protected] www.porroartconsulting.it AMMINISTRAZIONE [email protected] DIPARTIMENTI Dipinti antichi Umberto Savoia [email protected] Dipinti del XIX secolo Umberto Savoia [email protected] Arte Moderna e Contemporanea Kimiko Bossi [email protected] Arredi e Arti Decorative [email protected] Per informazioni Porro & C. via Olona, 2 - 20123 Milano Tel. 02 72094708 - Fax 02 862440 [email protected] www.porroartconsulting.it KIMIKO BOSSI Arte moderna e contemporanea [email protected] UMBERTO SAVOIA Dipinti antichi Dipinti del XIX secolo [email protected] 2 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 3 Prefazione A seguito della mostra presentata nei mesi di aprile e maggio 2015 proponiamo, in questa nuova manifestazione, un altro percorso espositivo grazie alla disponibilità dei proprietari delle opere che hanno reso possibile l’iniziativa. Si tratta di nove lavori, tra dipinti e sculture, che spaziano tra il XVII e il XIX secolo. L’asse portante della mostra è incentrato sulle opere toscane: si inizia infatti con un raffinato dipinto di Francesco Lupicini – di prossima pubblicazione nella monografia dedicata al pittore – probabilmente risalente al secondo ventennio del XVII secolo. In tema più dichiaratamente barocco la mostra prosegue con una grande tela di Rutilio Manetti di poco posteriore al primo dipinto: siamo infatti sul finire degli anni Venti, epoca in cui l’eco caravaggesca è ancor più vivida nel patrimonio figurativo dell’artista senese. Spostandoci di circa mezzo secolo in avanti troviamo un’importante opera di Alessandro Gherardini dipinta durante il periodo giovanile contemporaneamente al soggiorno fiorentino di Luca Giordano. L’opera che conclude il nucleo di dipinti toscani è costituita da un grandioso ritratto di Giovanni Domenico Ferretti, dipinto a Firenze presumibilmente durante gli anni Quaranta del XVIII secolo e forse raffigurante un esponente dell’antica famiglia dei Lorena. In ambito ottocentesco vi sono poi tre sculture e due dipinti: la prima ancora in ambito toscano, una Testa ideale di Beatrice di Lorenzo Bartolini, risalente al secondo decennio del XIX secolo. Degli stessi anni ma realizzato a Milano vi è uno straordinario dipinto di Francesco Hayez il cui soggetto trae ispirazione da una delle vicende storiche più care in epoca romantica: la tragica esecuzione della regina di Scozia, Mary Stuart. Il catalogo si chiude con tre opere vicine ai temi del neoclassicismo romano: una scultura di Raimondo Trentanove, un raffinato dipinto di Vincenzo Camuccini in relazione al grande capolavoro custodito presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, e un aristocratico busto in marmo di Francesco Pozzi, artista formatosi proprio accanto al grande pittore romano. Desidero ringraziare gli studiosi che hanno mostrato sin dall’inizio la loro disponibilità ad approfondire lo studio delle opere in catalogo: la Professoressa Francesca Baldassari, che ha curato i dipinti di Lucipini, Gherardini e Ferretti, il Professor Marco Ciampolini che si è occupato dell’opera di Rutilio Manetti, e il Professor Fernardo Mazzocca che ha studiato le sculture e i dipinti di Hayez e Camuccini. francesco lupicini rutilio manetti alessandro gherardini giovanni domenico ferretti lorenzo bartolini francesco hayez raimondo trentanove vincenzo camuccini francesco pozzi Milano, 24 ottobre 2016 4 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo Umberto Savoia 5 francesco lupicini Firenze, 1591 Saragozza, 1656 La Maddalena portata in cielo dagli angeli olio su tela, cm121,5x101. Provenienza: Montecarlo di Monaco, collezione privata 2002; Milano, collezione privata; Milano, Asta Porro & C. n. 31, 23 novembre 2006, n. 234; collezione privata. Opera in temporanea importazione artistica. 6 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 7 1. Secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, Maria Maddalena, giunta a Marsiglia assieme ad altri compagni di viaggio, tra i quali la sorella Marta e Massimino, avvertì la necessità di ritirarsi in penitenza e scelse un eremo a Sainte Baume, una località a circa cinquanta chilometri da Marsiglia. Qui dimorò per un decennio e, una volta consunti gli abiti, ebbe come unica ‘coperta’ una cascata di lunghi capelli dorati. L’elevazione al Paradiso delle sue nude membra, sorrette dagli angeli, avveniva ogni giorno all’ora settima. Penitenza ed estasi, edificazione e voluttà sono mirabilmente fusi in questa scena caratterizzata da un’intensa cromia oro, più decisa ai bordi della tela e ricca di luminosità al centro. La protagonista ha lo sguardo devoto rivolto verso l’alto, le mani giunte in preghiera e i lunghi ondulati capelli biondi che lasciano scoperti un seno, l’ombelico del ventre e la coscia destra. Il suo aspetto è florido e sensuale, come se la macerazione della carne non avesse intaccato la sua femminilità. La qualificazione dell’immagine esemplifica in modo singolare la doppia valenza della Maddalena nell’iconografia della Controriforma: peccatrice legata alla materia, alla terra e alla natura, ma anche donna passionale e tentatrice, capace di sublimare il proprio bruciante desiderio nell’amore divino. Attraverso la penitenza, Maddalena riuscì a riscattare i peccati di tutte le donne, responsabili, da Eva in poi, di essere le alleate del demonio, in quanto suscitatrici di passioni. Due fanciulli in vesti contemporanee e dai volti regolari, -chiaro legame della Maddalena con 8 dipinti eantichi sculture dal XVII al XIX secolo la vita terrena- aiutano la santa nella salita al cielo sorreggendola per il corpo e per le chiome. Di queste sembrano quasi assaporare, con le dita, la morbidezza dei riccioli, contribuendo significativamente alla sensualità della scena. Nessun attributo della Maddalena è stato inserito dal pittore, così come non vi è alcun accenno al paesaggio eremitico, a conferma dell’originalità iconografica e dell’interpretazione personale da parte dell’autore che è da riconoscersi, per ovvi motivi di stile, nel fiorentino Francesco Lupicini. La tavolozza chiara e calda, sensibile ai giochi della luce, così come la pennellata cremosa che conferisce agli incarnati un effetto di porcellana, in anticipo su Carlo Dolci, rimandano all’esemplare della Maddalena in contemplazione conservato in collezione privata a Bruxelles (Fig. 1; cfr. F. Baldassari, La Pittura del Seicento a Firenze. Indice degli artisti e delle loro opere, Torino 2009, pp. 70 e 471, tav. LI); la trattazione più alta tra quelle dedicate all’artista alla figura della prostituta pentita, senz’altro il soggetto a lui più caro (cfr. Fig. 2). L’iconografia e gli esiti pittorici di questa Maddalena portata in cielo dagli angeli sarebbero impensabili senza l’alunnato di Lupicini presso lo zio Cristofano Allori, inventore della poetica degli affetti fiorentina. All’esempio del grande maestro si deve infatti l’attenzione alla resa introspettiva della dimensione psicologica dei personaggi rappresentati, portati dall’allievo ad una sensualità maggiore. Una vena languidamente erotica percorre infatti tutta l’opera di Lupicini, oggetto della mia ricostruzione in uno studio monografico 9 Fig. 1 Fig. 2 Fig. 3 10 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo di prossima pubblicazione (F. Baldassari, Un apice del Seicento fiorentino: il David e Golia di Francesco Lupicini, Perugia, Volumnia Editrice, 2016, in corso di stampa). All’interno del suo catalogo non vi è opera più scopertamente alloriana di questa, essendo evidente il rimando alla pala dedicata allo stesso soggetto dal maestro Allori nella chiesa di San Domenico a Pistoia. Se la posa della Maddalena è quasi sovrapponibile, notevole è la semplificazione della composizione, privata di un angelo a sollevare la figura e della festosa gloria di angeli in cielo. L’adozione del fondo oro da parte di Lupicini è estremamente significativa della sua volontà di conferire preziosità e misticismo all’episodio. Oltre all’influenza dell’Allori si riscontrano, nella tela, tangenze con l’opera di Francesco Curradi nella dolcezza del volto della santa, mentre nel chiaroscuro degli angeli non mancano rapporti con la produzione degli anni Venti di Filippo Tarchiani, autore all’epoca della Pietà (1618), un tempo nella cappella sotterranea del Duomo di Pistoia e oggi nel Museo capitolare della città. Se la virtuosa e composta eleganza degli angeli trova un precedente, nei colori cangianti delle vesti, nell’opera del Cigoli, -si veda l’Adorazione dei pastori con Santa Caterina d’Alessandria, firmata e datata 1599, oggi al Metropolitan Museum di New York-, le fisionomie caricate rimandano al romano Angelo Caroselli, un pittore che Lupicini poteva aver conosciuto nel verosimile soggiorno di studi a Roma, avvenuto tra il 1618 e il 1625. Significativo, a mio parere, il rimando dei due angeli, con i profili scorciati, ai vari Gesù Bambini dipinti da Caroselli nelle sue Madonne giovanili su tavola, tra le quali, ad esempio, la Madonna con il Bambino e sant’Anna presso la collezione della Banca Nazionale del Lavoro di Roma (Fig. 3). Non è certo impresa semplice ricostruire e seriare cronologicamente il catalogo pittorico di Francesco Lupicini, ignorato dal biografo Filippo Baldinucci e confuso fino a trent’anni fa con il l’omonimo cugino Giovan Battista sotto il cui nome passavano le poche opere note. La sua vita errabonda, tra Roma, Firenze e la Spagna, dove si trasferì intorno al 1635 per poi morire nel 1656 nella città di Saragozza, ha contribuito al lento recupero della sua personalità, che si pone, invece, tra le più interessanti nel panorama fiorentino del terzo e quarto decennio del Seicento. Alla luce di tutte le considerazioni storiche e stilistiche svolte, è tuttavia possibile avanzare un’ipotesi di datazione della tela qui esposta intorno agli anni Venti del Seicento, considerando come termine post quem la sopracitata pala dedicata allo stesso soggetto dal maestro Allori nella chiesa di San Domenico a Pistoia. I confronti con la Caduta della manna, compiuta da Lupicini nel dicembre del 1625 per Giovan Francesco Manadori ed oggetto di una lunga controversia documentata nelle filze dell’Accademia del Disegno di Firenze, avallano la cronologia proposta. Francesca Baldassari 11 rutilio manetti Siena, 1571 Siena, 1639 Il Tempo strappa le ali ad Amore olio su tela, cm 143x216. Provenienza: Milano, collezione privata. 12 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 13 2. Rutilio Manetti Siena, 1571 Siena, 1639 Il Tempo strappa le ali ad Amore olio su tela cm 143x216 14 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 15 Dipinto di grande forza espressiva, tratta il tema della punizione di Amore, soggetto amato dalla pittura caravaggesca e dallo stesso Caravaggio, che, come sappiamo dalla corrispondenza fra i fratelli Deifebo e Giulio Mancini, aveva realizzato un soggetto del genere, acquisito dal cardinal Francesco Maria Del Monte e oggi disperso (cfr. M. Maccherini, Novità su Bartolomeo Manfredi nel carteggio familiare di Giulio Mancini: lo “Sdegno di Marte” e i quadri di Cosimo II granduca di Toscana, in “Prospettiva”, 93-94, 1999, p. 131). Nelle varie interpretazioni del tema Amore può essere punito da Marte, oppure, con maggior risvolto morale, dal Tempo, come nel dipinto in esame. Elemento pressoché costante del soggetto è la figura di Venere, che, disperata, tenta di frenare l’azione del Tempo. Nell’opera in oggetto il Tempo, Amore e Venere si stagliano su di un fondo scuro in una composizione che ha uno sviluppo longitudinale. Una luce imparziale evidenzia con identico nitore la carnagione decrepita quasi repellente del vecchio padre Tempo e la delicata materia serica della veste di Venere. Opera in esame 16 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo Fig. 1 Tutto rientra nell’estetica caravaggesca e l’autore arriva addirittura ad attingere dal repertorio figurativo del Merisi per ideare la posa della figura urlante a braccia aperte di Amore, che deriva dal ragazzo che fugge inorridito dalla scena del Martirio di san Matteo nella Cappella Contarelli di S. Luigi dei Francesi (Fig. 1). A dispetto del suo straordinario fascino, questa tela sembra ignota alla letteratura artistica e alle fonti documentarie. L’inventario dell’eredità del nobile senese Adriano Sani (1729) registra un dipinto con “il tempo che leva le penne all’ali di amore di Raffaello Vanni con cornice dorata” (Archivio di Stato di Siena, Curia del Placito, 313, c. 66. L’inventario è disponibile on line: Getty Provenace Index, Arch. doc, I-1818). Ho riconosciuto con certezza l’opera in un dipinto già in possesso degli eredi della famiglia Sani, attribuendolo al tardo caravaggista, oriundo dei territori senesi, Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino (Marco Ciampolini, Novità su Cavalier d’Arpino e Rustichino: appunti sul collezionismo senese dei caravaggeschi, una proposta per Spadarino e un possibile Vouet, in Atti della giornata di studi Francesco Maria del Monte e Caravaggio, a cura di Pierluigi Carofano, Monte Santa Maria Tiberina, 2 ottobre 2010, Pontedera, Bandecchi & Vivaldi, 2011, p. 56 fig. 7). Questo dipinto, in seguito, è stato alienato dalla famiglia e venduto all’asta Pandolfini di Firenze con il generico riferimento a “Pittore caravaggesco, sec. XVII” (15 ottobre 2013, pp. 112-113 n. 116, fig. col.). Opera in esame Fig. 2 Tuttavia la notizia è interessante, si tratta di un’ulteriore prova dell’interesse dei committenti senesi per questo soggetto. Nel 1613 il Mancini, appunto, non avendo potuto ottenere la Punizione di Amore di Caravaggio, fece eseguire da Bartolomeo Manfredi una replica variata del soggetto per Agostino Chigi, rettore dello Spedale di Santa Maria della Scala a Siena, ossia lo straordinario Marte che punisce Amore, oggi nell’Art Institute di Chicago (Maccherini, Novità su Bartolomeo Manfredi...cit., pp. 131133). Anche il dipinto in esame è di probabile committenza senese, infatti l’opera è con certezza di Rutilio Manetti, il più sincero caravaggista di Siena e il caposcuola della città nella prima metà del Seicento. 17 Opera in esame Fig. 3 La figura del Tempo è stata indubbiamente partorita dalla stessa mano che ha dipinto il profeta Isaia (Fig. 2) nell’Immacolata con i profeti David e Isaia di S. Niccolò degli Alienati a Siena, mentre il volto di Venere si lascia confrontare con quello dell’angelo di destra (Fig. 3) del Lot intrattenuto dagli angeli del Keresztèny Múzeum di Esztergom (sui dipinti di S. Niccolò degli Alienati e di Esztergom vedi Alessandro Bagnoli, Rutilio Manetti 1571-1639, catalogo della mostra, Siena, Palazzo Pubblico, 15 giugno-15 ottobre 1978, Firenze, Centro Di, 1978, pp. 123-124 n. 58a, fig.; Marco Ciampolini, Pittori Senesi del Seicento, Siena, Nuova Immagine Editrice, 2010, pp. 256, 285 tav. 144 col., con precedente bibliografia). Si tratta di due opere di Rutilio Manetti collocabili intorno al 1630 (l’Immacolata è firmata e datata 1629), periodo in cui il pittore approfondisce nella sua arte l’indagine realistica, sottolineando, senza compiacenza, gli aspetti più crudi della realtà e intensificando lo studio dei valori materici degli oggetti o dei panneggi che riproduce. 18 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo Opera in esame Fig. 4 Un’esigenza nata forse in seguito a un soggiorno a Roma (non documentato e non ancora postulato dalla critica, ma collocabile nel 1627 anno in cui abbiamo un singolare vuoto di notizie sul Manetti), che spiegherebbe il ripasso sulla produzione di Caravaggio e dei suoi più fedeli seguaci, rilevabile nelle opere di questo periodo, come quella in esame, con l’esplicito richiamo al fanciullo che grida nel Martirio di san Matteo Contarelli (Fig. 1) del Caravaggio che si ripete nella Resurrezione di S. Niccolò in Sasso a Siena (Fig. 4), una pala commissionata nel 1629 e ultimata nei primi mesi del 1631 (Bagnoli, Rutilio Manetti... cit., p. 126 n. 60), che elabora anch’essa in chiave teatrale, quasi a passo di danza, la spettacolarità di gesta, emozioni, luci e colori, insita nella cultura caravaggesca. Marco Ciampolini 19 alessandro gherardini Firenze, 1655 Livorno, 1726 Sacrificio di Ifigenia olio su tela, cm 87x113. Provenienza: collezione privata. Bibliografia: E. Riccomini, Ricordi di scuola bolognese. Un paio di aggiunte al catalogo del Burrini e del Cittadini, in “Arte a Bologna. Bolettino dei musei civici d’arte antica”, 5/1999, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1999, fig. 4, pp. 133-134 (ill.). (Il soggetto della tela è stato interpretato erroneamente come Morte di Lucrezia); E. Riccomini, Giovanni Antonio Burrini, Tipoarte, Ozzano Emilia (Bologna) 1999, p. 7 (cit.). Opera in temporanea importazione artistica. 20 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 21 3. Alessandro Gherardini Firenze, 1655 Livorno, 1726 Sacrificio di Ifigenia olio su tela cm 87x113 22 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 23 Fig. 1 Nella tela è illustrata la versione più antica e tragica del mito di Ifigenia, la bella figlia primogenita di Clitemnestra e Agamennone, capo della spedizione greca nella guerra di Troia (Eschilo, Agamennone). La tradizione vuole che i re ateniesi, radunati con le loro navi nel porto di Aulide da oltre tre mesi, non riuscissero a salpare per la Troade, a causa dei venti 24 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo contrari. Agamennone interrogò allora l’indovino Calcante per sapere il loro destino. Questi lo informò della mala sorte: aveva peccato di presunzione con la dea Artemide quando, tempo prima, si era vantato di essere più bravo di lei, grazie al bel colpo messo a segno per uccidere un cerbiatto. Per far partire la flotta, Artemide offesa pretendeva dunque il sacrificio della sua prediletta figlia primogenita, Ifigenia. Ad Agamennone non rimase che attirare la figlia nel porto di Aulide con l’inganno, facendole credere di voler celebrare le sue nozze con Achille, e, solo dopo averla vestita con l’abito bianco nuziale da vergine, la trafisse con la sua stessa spada. Nel dipinto Ifigenia è mostrata esanime a terra, piegata su un fianco, le braccia abbandonate lungo il corpo e la ferita sul petto grondante di sangue che contrasta fortemente col pallore marmoreo e cadaverico delle membra già prive di vita. Alla sua sinistra la madre Clitemnestra, sconvolta, spalanca le braccia in un gesto di orrore misto a incredulità, mentre su di lei il sorpreso, mancato sposo Achille ripete il gesto della donna slanciandosi col braccio sinistro verso il capo della fanciulla in uno spontaneo ed inutile tentativo di salvataggio. Sulla destra il padre Agamennone, al quale viene riconsegnata la spada, rivolge al cielo uno sguardo disperato e colpevole, al quale fanno eco gli astanti fantasmagorici che riempiono la scena e piangono lo scempio di un delitto compiuto per solo capriccio divino. Assegnata in un primo tempo all’emiliano Antonio Burrini da Eugenio Riccomini (E. Riccomini, Ricordi di scuola bolognese. Un paio di aggiunte al catalogo del Burrini e del Cittadini, in “Arte a Bologna. Bollettino dei musei civici d’arte antica”, 5/1999, pp. 133-134, fig. 4. Il soggetto della tela è stato interpretato erroneamente come Morte di Lucrezia), la tela è stata successivamente attribuita dallo stesso studioso al corpus dell’estroso pittore fiorentino Alessandro Gherardini (E. Riccomini, Giovanni Antonio Burrini, Tipoarte, Ozzano Emilia, Bologna, 1999, p. 7), all’interno del quale costituisce una preziosa aggiunta tra i suoi rari quadri da stanza. Sebbene la sua personalità non sia stata ancora oggetto di uno studio monografico (Per vedere illustrata la sua opera pittorica è ancora indispensabile ricorrere a G. Ewald, Il pittore fiorentino Alessandro Gherardini, in “Acropoli”, III, 1963, pp. 81-132), è senz’altro il pittore più affascinante nell’ambiente fiorentino tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, sia per la stravagante condotta di vita che per i brillanti risultati pittorici. Peculiarità del pittore sono le linee scheggiate dei panneggi a suggerire il movimento e l’ariosità delle composizione, la fantasia esuberante, ma anche il pathos drammatico dell’azione e la gamma cromatica chiara e acidula, che contempla il verde acquamarina, le varie tonalità di viola, il grigio e il rosso mattone. Nelle lumeggiature fredde che si innervano lungo i panneggi frastagliati rivive la lezione di Salvator Rosa, artista sul quale Gherardini pare meditare soprattutto nella scelta della tavolozza che predilige gli accostamenti giustapposti di tonalità calde e fredde e nella figura del vecchio barbuto colto in un pianto sommesso dietro ad Achille. Le tipologie caricate dei protagonisti, altro tratto distintivo dell’artista, in particolare quella di Agamennone, devono molto al napoletano Luca Giordano, attivo a Firenze a partire dagli anni Ottanta e forse ammirato al di sopra di tutti. Non mancano contatti, infine, con l’estroso emiliano Burrini, conosciuto nel giovanile soggiorno nel Nord Italia, ma soprattutto mi pare evidente la lezione di Donato Creti nella figura del giovane aggraziato che restituisce la spada ad Agamennone. Allievo di un cervello altrettanto bizzarro, il conterraneo Alessandro Rosi, Gherardini, che era “spiritosissimo” e sapeva suonare il violoncello a conferma di un talento innegabile per le arti, si allontanò presto dalla patria 25 per andare a lavorare a Pontremoli, importante snodo commerciale, ma anche fulcro di irradiazione di numerose influenze artistiche, tra Toscana, Liguria e Nord Italia. In questa città rimase per circa quattro anni e vi fece ritorno ad intervalli più o meno regolari, dipingendo bellissimi semisconosciuti affreschi, alcuni dei quali andati distrutti e documentati solo da fotografie (Cfr. A. R. Bossaglia V. Bianchi - L. Bertocchi, Due secoli di pittura barocca a Pontremoli, Genova, 1974, pp. 9 s., 16, 62, 65, 71-78). Lasciata Pontremoli, non senza dimenticare di assimilare anche il migliore insegnamento dei maestri liguri, da Valerio Castello a Grechetto, intorno al 1682 soggiornò cinque anni nel Nord Italia, con tappe a Parma e Venezia. Nel 1688 rientrò a Firenze, verosimilmente attratto dal fervore di iniziative che animava la città in vista del matrimonio tra il Gran Principe Ferdinando de’ Medici e Violante di Baviera. Dal Gran Principe ottenne l’incarico di decorare con Storie della Vergine una cappella attigua alla sala di Bona a Palazzo Pitti. Stando al biografo Francesco Saverio Baldinucci (F. S. Baldinucci, Vite di artisti dei secoli XVII-XVIII, a cura di A. Matteoli, Roma, 1975, pp. 400-412), una fonte indispensabile per il recupero della sua attività, terminò in forte ritardo e talmente di malavoglia i lavori da esasperare il committente che non si servì più di lui. Non tardò comunque a trovare altri entusiasti committenti tra la nobiltà fiorentina come i Corsini, gli Orlandini, i Ginori, i Giugni, all’interno dei cui palazzi è ancora oggi possibile ammirare la sua straordinaria produzione. Dopo essere stato attivo anche a Prato (pala con l’Assunzione della Vergine nel Conservatorio di San Niccolò), tornò a Pontremoli per portare a termine le diverse opere iniziate per i Dosi, tra cui una bella tela con le Virtù 26 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo teologali, per poi seguire la nobile famiglia a Piacenza “per suo divertimento” (Idem, p. 404) . Nel 1700 o 1709 (cronologia che rimane incerta per problemi di decifrazione della data; cfr. S. Meloni Trkulja, La pittura a Firenze nel Seicento, in La pittura in Italia. Il Seicento, Milano, 1989, II, p. 759). affrescò la Visione di San Romualdo nella volta della chiesa camaldolese di S. Maria degli Angioli a Firenze (oggi sconsacrata) e i due riquadri sulle pareti laterali, raffiguranti La Carità e La Fede con la Speranza, dando vita ad una delle più eleganti decorazioni sacre del Settecento fiorentino. Nell’estate del 1703 il cardinale Francesco Maria de’ Medici gli commissionò la decorazione dell’alcova nella sua villa di Lappeggi. Il carattere insofferente e la delusione del non sentirsi sufficientemente apprezzato spinsero il pittore a dichiarare di volersi trasferire in Inghilterra, e forse vi andò davvero se si presta fede ad una annotazione che appare nei registri delle tasse versate dagli artisti all’Accademia. In seguito, trascorse a Livorno gran parte degli ultimi anni, in attesa di essere chiamato alla corte di Danimarca dal re Federico IV (Per questo viaggio cfr. S. Meloni Trkulja, Alessandro Gherardini in Danimarca, in “Antichità viva”, XXXIV 1995, 5-6, pp. 70-74.). dove dipinse l’Annunciazione (già New York, Sotheby’s, 28 gennaio 1999, n. 303) oggi nella collezione Haukohl a Houston in Texas. In pittura il suo maggior merito fu quello di intuire prima e meglio di chiunque altro la portata rivoluzionaria delle opere eseguite da Luca Giordano a Firenze tra il 1680 e il 1685, che ispirarono nel Granducato la rinascita della grande decorazione religiosa e profana. Dopo l’iniziale influenza giordanesca, Gherardini seppe comunque trovare una sua personale cifra stilistica, luminosa e originale, che esercitò un’influenza profonda sulle nuove generazioni di artisti: da Sebastiano Galeotti, suo allievo, al giovane Gian Domenico Ferretti, a Giovanni Camillo Sagrestani. E’ alla fase giovanile, appena successiva al suo soggiorno in Emilia (1682-1687), che spetta verosimilmente il Sacrificio di Ifigenia qui esposto, molto vicino stilisticamente alla tela di Ester davanti ad Assuero (Fig. 1) oggi alla Bayerische Staatsegaldesammlungen ad Aschaffenburg, ma anche agli affreschi in Palazzo Giugni (Fig. 2, 3, 4) a Firenze (1695 circa). Francesca Baldassari Fig. 2, 3, 4 27 giovanni domenico ferretti Firenze, 1692 Firenze, 1768 Ritratto di gentiluomo olio su tela, cm 210x174. Provenienza: Castello di Gramont, collezione Eugène Labat 1840 circa, e, di qui, ai discendenti; Montecarlo di Monaco, Sotheby’s, 19 giugno 1994, n. 467 (come Francesco Solimena); Milano, Giorgio Baratti antiquario; collezione privata. Bibliografia: D. Benati, Per Antonio Corbara: tre temi romagnoli dal ‘500 al ‘700, in Atti del Convegno di Studio in onore dello Storico e critico d’arte Dott. Antonio Corbara, Faenza 1994, p. 145, nota 40, fig. 6; M. Chiarini, Un ritratto inedito di Gian Domenico Ferretti, in Hommage au dessins, mélanges offerts à Roseline Bacou, Etudes réunies par Maria Teresa Caracciolo, Galleria Editrice, Rimini 1996, pp. 406-409; B. Brejon de Lavergnée, Catalogue des dessins italiens. Collections du Palais des Beaux-Arts de Lille, Réunion Des Musées Nationaux, Paris 1997, p. 90, n. 211; F. Baldassari, Giovanni Domenico Ferretti, Federico Motta Editore, Milano 2002, n. 217, pp. 208-209. Opera in temporanea importazione artistica. 28 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 29 4. Un gonfio tendaggio dalle tonalità argentate funge da quinta architettonica e scopre la figura maestosa del gentiluomo avvolto in un sontuoso abito di broccato d’oro a tramature floreali. Il mantello blu svela la fodera interna dello stesso colore freddo della tenda conferendo un ulteriore tocco di raffinatezza e solennità alla rappresentazione. Il protagonista siede su un trono nascosto da ampi panneggi e, con gesto plateale, indica quattro figure sopra le quali si apre una grande architettura classica. Tra queste si riconosce, nell’uomo che ci guarda, l’autoritratto di Giovanni Domenico Ferretti, simile a quello che compare nella Cacciata dei mercanti dal tempio di collezione privata, già pubblicato da chi scrive e passato di recente ad un’asta Sotheby’s a New York (Fig. 1, 29 gennaio 2016, n. 504; F. Baldassari, op. cit., pp. 177-178, n. 126). Sopra l’architettura è dipinta una balaustra in cui sono raffigurate altre due figure, rese in modo ancora più abbozzato, analoghe a quelle che affollano anche tanti affreschi del pittore, come quelli nella chiesa dei Santi Filippo e Prospero a Pistoia o in Palazzo Roffia a Firenze. Alla destra del gentiluomo compare in bella vista un tavolino, anche questo semi-celato da un sontuoso e opulente manto rosso, su cui poggia un vaso istoriato con putti, sostenuto da una massiccia figura erculea, forgiata a telamone. Il trattamento scultoreo delle pieghe morbide e materiche, il rigonfiamento dei panneggi fluidi, il calibrato e sapientissimo uso di luci e colori, nonché le fisionomie caricate dei personaggi sullo sfondo sono elementi fondamentali per riconoscere la mano del fiorentino Giovanni Domenico Ferretti, pittore apprezzato e prolifico, particolarmente dotato nel genere del ritratto, e autore, in questa tela, di uno dei capi d’opera della ritrattistica italiana settecentesca, come riconosciuto indipendentemente da 30 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo Daniele Benati (op. cit. 1994), da Marco Chiarini (op. cit. 1996) e dalla sottoscritta (op. cit. 2002). A lato di un’attività più ufficiale che riscosse notevole successo -da pale d’altare, a dipinti da cavalletto e affreschi di edifici pubblici e privati- occorre ricordare la sua originale produzione di caricature e arlecchinate, datate tra il 1742 (quando Goldoni fu a Firenze) e il 1760, quando furono incise da Francesco Bartolozzi. Una serie è nel Ringling Museum a Sarasota in Florida, una nelle collezioni della Fondazione della Cassa di Risparmio di Firenze, mentre dipinti singoli o a coppia sono conservate in altre significative raccolte pubbliche (Lawrence, Kansas) e private. Tenendo a mente la lezione della ritrattistica veneta, ma anche la scultura tardo-barocca fiorentina, Ferretti ha conferito al ritratto in esame il massimo della grazia e della nobiltà, evidente nell’allungamento e nel gesto delle mani affusolate e delle gambe distese del personaggio, di cui è palese il tono regale ed ufficiale. Tipico del pittore fiorentino è il gioco di contrapposizioni tra luci e ombre, possanza volumetrica e fluidità longilinea, tonalità sgargianti e bruni bituminosi che si traduce, in questo caso, nella contrapposizione tra i colori accesi utilizzati per le vesti del gentiluomo e per il drappo rosso in primo piano, e l’insistita terrosità delle tinte del fondo e dei personaggi ivi rappresentati, divisi da un cono d’ombra di materia marmorea. La paternità del maestro fiorentino è inconfutabile, anche alla luce del disegno preparatorio conservato al Musée des Beaux Arts di Lille (Fig. 2, inv. PL220; B. Brejon de Lavergnée, op. cit.), nel quale il primo piano dell’angolo a sinistra è riservato ad uno dei due cani che compaiono composti nella versione dipinta a scapito del tavolino che 31 Fig. 1 Fig. 2 32 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo viene sbalzato fuori campo e di cui si percepisce solo il sostegno. Nello schizzo grafico, inoltre, la scena sullo sfondo è incora indefinita, non vi è alcun accenno degli astanti, mentre le forme del personaggio sono più allungate ed è evidente il pentimento nella resa del ginocchio sinistro per la posa delle gambe incrociate. Problematica è l’identificazione dell’effigiato, una volta scartati i suggerimenti di Daniele Benati che ha proposto interrogativamente di riconoscervi i tratti del Gran Principe Ferdinando de’ Medici (1663-1713) e poi quelli di Gian Gastone (1661-1737; F. Baldassari, op. cit.). Innumerevoli elementi inducono a supporre che non si tratti di un membro della famiglia Medici, ma forse di un membro appartenente all’aristocrazia toscana. La foggia dell’abito tipica del corredo imperiale asburgico suggerirebbe l’identificazione del soggetto con Francesco Stefano I di Lorena, così come i fedeli cani da caccia dal pelo maculato, accucciati ai piedi dello sguardo soddisfatto del padrone, ma troppo deboli sono le somiglianze con i suoi ritratti noti, per proporne, come piacerebbe, l’identificazione. Senza dubbio l’affascinante protagonista di questa tela fu un amante della caccia, una delle grandi passioni della nobiltà toscana e lorenese. Nel 1840 la tela fece parte della collezione del banchiere e collezionista Eugène Labat (1784-1858) proprietario di tele, tra le altre, di Guido Reni, Paolo Veronese e Rubens. Alla morte di Labat l’opera rimase nelle proprietà di famiglia fino al 1994, anno in cui fu posta in vendita ad un’asta Sotheby’s a Montecarlo di Monaco con l’attribuzione errata al napoletano Francesco Solimena. Francesca Baldassari 33 lorenzo bartolini Savignano di Prato, 1777 Firenze, 1850 Testa ideale di Beatrice (Ritratto di Juliette Récamier come Beatrice) (da Antonio Canova) marmo, altezza cm 47. Firmato lungo il bordo, sul lato a destra: “L. BARTOLINI” Provenienza: collezione privata. 34 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 35 5. Tra gli aspetti più interessanti dell’ attivita dello studio di Lorenzo Bartolini è stata recentemente riconsiderata (Si rimanda alle schede di Paride e di Jeanne-Françoise Julie Adélaïde Bernard Récamier redatte da E. Spalletti in Lorenzo Bartolini scultore del bello naturale, catalogo della mostra di Firenze, Galleria dell’ Accademia, a cura di F. Faletti, S. Bietoletti, A Caputo, Firenze, Giunti, 2011, pp. 190-193) la pratica, peraltro comune ad altri atelier contemporanei, di realizzare copie perfette di alcune opere particolarmente apprezzate di Antonio Canova, ormai consacrato a modello così come lo erano state e continuavano ad esserlo le sculture antiche. Ma probabilmente c’era anche una richiesta da parte dei collezionisti che non potendo aspirare ad avere originali canoviani, esigevano almeno delle riproduzioni d’ autore, di una qualità che si avvicinasse quanto più possibile ai capolavori del maestro, come è avvenuto nel caso della testa ideale di Beatrice, ma anche di quella di un’ altra statua particolarmente apprezzata quale il Paride anch’ essa replicata dallo scultore toscano. Questo marmo appare del tutto simile, nelle dimensioni e nella qualità a quello conservato in una collezione privata fiorentina e presentato alla mostra dedicata nel 2011 a Bartolini, con l’ unica differenza che la scritta a lettere capitali “L. BARTOLINI” lì e collocata sul retro e qui lungo il bordo sul lato destro (Lorenzo Bartolini cit., pp. 192-193). La fedeltà di queste versioni rispetto agli originali presuppone la disponibilità da parte di Bartolini di calchi in gesso dei modelli allora presenti nello studio del grande scultore e ora nella Gipsoteca di Possagno, calchi eseguiti dagli ottimi operatori di cui Canova disponeva proprio per andare incontro alle frequenti richieste. 36 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 37 La testa di Beatrice era stata inizialmente concepita come una sorta di ritratto idealizzato di Juliette Récamier (1777 – 1849), del quale nel 1813 aveva plasmato il modello in gesso conservato appunto a Possagno. Fu in quell’ anno che lo scultore aveva avuto l’ occasione di ritrarre ad Albano, dove la donna esiliata dalla Francia napoleonica risiedeva, la grande amica e corrispondente. Ci volle però molto tempo perché dal gesso venisse ricavata la versione in marmo che alla morte di Canova, nel 1822, si trovava ancora nello studio di Roma e solo successivamente sarà donata all’ effigiata dal fratellastro ed erede dell’ artista Giambattista Sartori. Fu probabilmente in quella circostanza che la statua, non ancora conclusa, venne portata a termine dagli antichi collaboratori con l’ aggiunta di una corona d’ ulivo non presente nel modello. Il Sartori accompagnò questo dono così speciale con i celebri versi danteschi: “Sovra candido vel, cinta d’ oliva / Donna m’ apparve” e l’ attestazione: “Ritratto di Giulietta Récamier modellato da Canova nel 1813 e poi consecrato in marmo col nome di Beatrice” (Si rimanda alle schede aggiornate di F. Mazzocca, in Antonio Canova, catalogo della mostra di Venezia, Museo Correr, e Possagno, Gipsoteca, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 323-325 e S. Picot- Bocquillon, in Juliette Récamier muse et mécène, catalogo della mostra di Lyon, Musée des Beaux-Arts, a cura di S. Paccoud e L. Widerkeher, Lyon, Hazan, 2009, pp. 83-85). In realtà da quel modello in gesso erano già state ricavate le diverse versioni, a partire da quella non ancora rintracciata realizzata nel 1817-1818 per Leopoldo Cicognara, della testa ideale di Beatrice che si ricollegava a quella della petrarchesca Laura e alle altre teste ideali concepite da Canova negli ultimi anni. È significativo che, dopo la morte di Canova, Bartolini, 38 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo il quale ambiva a prendere il suo posto come maggiore scultore italiano contemporaneo, eseguendo la copia della Beatrice abbia guardato ad un nuovo aspetto della poetica canoviana. Infatti con questa testa ideale, dedicata alla musa ispiratrice di Dante, lo scultore aveva inteso proporre un diverso tipo di bellezza che si distaccava dai canoni classsici, dall’ antico per avvicinarsi alla sensibilità moderna, una – come la definì - “bellezza italiana”, ispirata ai sublimi versi di Dante, ai dipinti e alle sculture dei cosiddetti Primitivi, dalle tavole dell’ Angelico e del Perugino ai marmi di Donatello e di Ghiberti, diventati in questi anni oggetto di studio e di confronto. Ma soprattutto, come sottolineò Cicognara destinatario della prima versione della Beatrice, l’ artista aveva inteso esprimere un “quasi nuovo genere di imitazione del naturale per cui” aveva “preso a consulta la bella, gentile e semplice natura cogli accorgimenti del grande artista che nasconde ogni artificio dell’ arte” (si vedano al proposito le Lettere inedite di Leopoldo Cicognara ad Antonio Canova, a cura di L. Rusconi, Padova 1839; ampiamente citate da F. Mazzocca nella scheda ricordata alla nota precedente). Tornando alla nostra scultura, questa raffinata versione della testa ideale di Beatrice è una testimonianza fondamentale per chiarire le fonti del naturalismo di Bartolini, destinato a segnare una svolta nel corso della scultura italiana. Mentre la straordinaria qualità dell’ esecuzione conferma come il confronto con Canova sia stato perseguito anche sul versante di una tecnica impeccabile, tale da rendere, attraverso una estrema rifinitura, viva e palpitante nella sua luminosa trasparenza la superficie del marmo. Fernando Mazzocca 39 francesco hayez Venezia, 1791 Milano, 1882 Maria Stuarda condotta al supplizio 1826-1827 circa olio su tavola, cm 47x65,5. Provenienza: Milano, Finarte, Asta di dipinti del XIX secolo, Asta 317, 19 giugno 1979, lotto n. 107; Milano, Il Ponte Casa d’ Aste. Importanti dipinti del XIX secolo, 1 dicembre 2001, lotto n. 56; collezione privata. Bibliografia: Elenco ms. s.d., I, Quadri storici ed allegorici, n. 19; F. Hayez, Le mie memorie, con appendice a cura di G. Carotti e con discorso di E. Visconti Venosta, Milano 1890, p. 275; F. Mazzocca, Francesco Hayez. Catalogo ragionato, Federico Motta Editore, Milano 1994, n. 98, p. 176 (ill.); F. Mazzocca (a cura di), Francesco Hayez, Silvana Editoriale, Milano 2015, p. 140 (ill.). 40 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 41 6. Francesco Hayez Venezia, 1791 Milano, 1882 Maria Stuarda condotta al supplizio, 1826-1827 circa olio su tavola cm 47x65,5 42 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 43 Passata due volte sul mercato antiquario, questa tavola smagliante, perfetta nel suo stato di conservazione, è da porre in relazione ad uno dei dipinti più importanti di Hayez, un grande capolavoro del Romanticismo europeo, la monumentale Maria Stuarda che sale al patibolo (Fig. 1); olio su tela cm. 211 x 290 (Milano, Collezione Banca Cesare Ponti. Sul dipinto e la sua estesa bibliografia si rimanda a F. Mazzocca, Francesco Hayez. Catalogo ragionato, Milano, Federico Motta Editore, 1994, pp. 176-178 n. 99; E. Lissoni, in Francesco Hayez, catalogo della mostra di Milano, Gallerie d’ Italia, a cura di F. Mazzocca, Cinisello Balsamo - Milano, Silvana Editoriale, 2015, pp. 140143 n. 30). La grandiosa scena corale, dove i numerosi personaggi sono quasi tutti ritratti di persone contemporanee, entrava, dopo la trionfale presentazione all’ esposizione di Brera del 1827, a far parte della prestigiosa quadreria del barone tedesco Ludwig von Seufferheld, presso palazzo già Passalaqua in contrada del Morone, decorato da affreschi di Appiani. Della collezione facevano parte altri quadri di Hayez, Palagi, Molteni e d’ Azeglio che la renderanno, insieme a quella di un’ altra famiglia d’ origine tedesca i Mylius, una delle più importanti della città. Questa versione dello stesso soggetto, realizzata su tavola, dovette precedere quella ad olio su tela di tanto maggiori dimensioni e fu eseguita, stando all’attendibile Elenco manoscritto delle opere di Hayez (Elenco ms. s.d., Quadri storici e allegorici, n. 19, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Fondo Hayez. La meno attendibile lista pubblicata da Giulio Carotti, in appendice all’ edizione delle Memorie, riporta un’ indicazione errata del proprietario, cfr. F. Hayez, Le 44 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo mie memorie, con appendice a cura di G. Carotti e con discorso di E. Visconti Venosta, Milano, Tipografia Bernardoni, 1990, p. 275.), conservato adesso presso il fondo di documenti dell’ artista acquistato dalla Biblioteca Nazionale Braidense, per Antonio Chiesa Molinari uno dei più appassionati collezionisti di Hayez, del quale possedeva una decina di dipinti, tra cui l’ Ila rapito dalle Ninfe del 1825 e il Bagno di Ninfe del 1826, tutti non ancora rintracciati tranne questo. Lo straordinario estro narrativo della versione grande è felicemente anticipato in questo dipinto dove l’ artista veneziano mostra di saper comporre, pur in dimensioni ridotte, una magnifica e ben orchestrata scena corale. Infatti, nonostante il gran numero dei personaggi, riesce a rendere ciascuno con la propria individualità, caratterizzandolo dal punto vista del costume, degli atteggiamenti e della fisionomia. La composizione, con la folla che sembra emergere lentamente dal fondo entrando dall’ ampio arco gotico per occupare il primo piano con un effetto quasi cinematografico, presenta un’ impostazione molto simile nella suddivisione dei vari gruppi e nella posizione delle figure principali, anche se poi sono molte le differenze, soprattutto per quanto riguardo le fisionomie ed i costumi, a partire da quello della protagonista. Forse anche in questa prima redazione il pittore ha dato ad alcuni personaggi il volto di amici o di persone che frequentava e che passarono dal suo studio. Ma la differenza sostanziale è nella qualità della stesura pittorica, in entrambi i dipinti eccezionale, dovuta al differente uso della tavola in questa prima versione e della tela nella seconda. Dipingere su quel primo tipo di supporto, ora meno in uso e che rimandava agli antichi maestri, consentiva ad Hayez – che tra gli anni venti e trenta utilizzava spesso la tavola ed in particolare nei ritratti – di rendere i colori smaglianti con un raffinato effetto quasi di smalto. Nel repertorio del Romanticismo la vicenda dell’ infelice regina di Scozia è diventato uno dei soggetti prediletti, sia sulle scene tra il dramma (Schiller) e l’ opera in musica (Mercadante, Donizetti), sia in pittura dove Hayez, pur preceduto da una serie di pittori francesi che non ha avuto occasione di conoscere, diventa il maggiore interprete del tema da lui trattato in diverse occasioni. Maria Stuarda veniva così identificata nell’ immaginario collettivo come la martire cattolica la cui iconografia finiva con sovrapporsi, proprio nel momento in cui andava al patibolo, con quella di Cristo che sale al Calvario. Anche se in definitiva finiva per prevalere la forza di una pittura che riusciva a confrontarsi con la letteratura e la musica nel restituire le emozioni e il fascino di una vicenda che aveva sostituito, nella sensibilità del pubblico contemporaneo, a quella classica una nuova mitologia moderna. Fernando Mazzocca Fig. 1 45 raimondo trentanove Faenza, 1792 Roma, 1832 Busto maschile, 1832 marmo, altezza cm 65. Firmato e datato sul retro: “R. Trentanove fece Roma 1832” Provenienza: collezione privata. 46 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 47 7. Quest’ opera conferma con la sua qualità le doti di ritrattista di Raimondo Trentanove, un artista di sicuro talento e di grandi promesse, cui solo la morte sopraggiunta ad appena quarant’ anni impedirà di raggiungere la fama alla quale pareva destinato, anche perché figlio d’ arte, nato in quella Faenza che era stata una straordinaria officina dell’arte neoclassica (L’età neoclassica a Faenza 17801820, catalogo della mostra di Faenza, Palazzo Milzetti, a cura di A, Ottani Cavina et alii, Bologna, Alfa, 1979, p. 223. In questa occasione sono stati esposti il Busto di Napoleone, a lui tradizionalmente attribuito del Museo del Risorgimento di Faenza e il Busto del Cardinale Giambattista Zauli, firmato e datato Roma 1818, che viene in realtà considerata l’unica sua opera certa conservata nella città d’origine). Il padre Antonio aveva infatti svolto un ruolo di rilievo, come decoratore in stucco di grande versatilità e raffinatezza, negli straordinari cantieri dell’ architetto Giuseppe Pistocchi e di Felice Giani, quei palazzi, come quello Milzetti, che avevavo fatto di Faenza negli anni napoleonici la piccola Atene della Romagna. Raimondo, prima di trasferirsi a Roma, luogo di elezione di chi voleva affermarsi in scultura, si era formato, soprattutto dal punto di vista della tecnica, in quella vera fucina di talenti che fu allora l’ Accademia di Belle Arti di Carrara, protetta e finanziata dalla sorella di Napoleone Elisa Baciocchi granduchessa di Toscana. Qui era stato per lui decisivo seguire le direttive di due maestri come Giacomo De Maria e Lorenzo Bartolini. Questa preparazione gli consentì di presentarsi a 48 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo Roma con le credenziali giuste per intraprendere una carriera fortunata. Fu del resto favorito anche dal suo fascino personale, come dalle sue riconosciute doti di cantante, fornito di una straordinaria estensione vocale che andava dal basso profondo a soprano, per cui venne conteso dai migliori salotti romani. Egli si era prefissato come primo traguardo, cui non molti erano in grado di poter aspirare, quello di entrare nello studio di Canova e le fonti lo documentano come uno trai suoi più apprezzati collaboratori. Venne impegnato su diversi fronti, a partire dalla riproduzione delle sculture del maestro, tra cui l’ Autoritratto (Milano, Galleria d’ Arte Moderna), per poi affidargli anche opere originali, come il busto del Perugino eseguito nel 1815 e quello di Cristoforo Colombo nel 1817, entrambi destinati alla serie dei ritratti degli illustri italiani voluta da Canova per essere collocata al Pantheon e che troverà invece la sua sede definitiva, quella attuale, nella Protomoteca Capitolina in Campidoglio (V. Martinelli, C, Pietrangeli, La Protomoteca Capitolina, Roma 1955, pp. 65, 77). Questo stretto e fondamentale rapporto di collaborazione con il maestro riguarda in particolare una delle imprese canoviane più impegnative degli ultimi anni, il perduto Monumento a George Washington destinato al Campidoglio di Raleigh nello stato del North Carolina dove andò distrutto da un incendio a pochi anni dalla sua realizzazione (G. Capitelli, Il monumento a George Washington a Raleighi, North Carolina. Modalità di una committenza d’oltreoceano in “Studi Neoclassici”, I, 2013, pp. 181-190; G. Capitelli, Jefferson e la 49 prima stagione della statuaria pubblica negli Stati Uniti, in Jefferson e Palladio. Come costruire un mondo nuovo, catalogo della mostra di Vicenza (Palladio Museum) a cura di G. Beltramini, F. Lenzo, Milano-Vicenza 2015, pp. 116-121). A Raimondo venne affidata l’ esecuzione dei bassorilievi, che decoravano il piedistallo della statua canoviana, relativi alle gesta del grande statista. La fonte più diretta per ricostruire le vicende di questa commissione sono le lettere tra Canova e il bostoniano Thomas Appleton, amico del presidente 50 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo Thomas Jefferson che nel 1797 lo aveva nominato console a Livorno, dove trascorrerà il resto della sua vita. Fu lo stesso a volerlo da intermediario per seguire il prestigioso incarico affidato dalla giovane Repubblica americana allo scultore “considered by all Europe as withouth a rival”. Venne in realtà proprio da Appleton, con cui Canova intrattenne una lunga corrispondenza, il suggerimento del nome di Trentanove, per cui il 28 luglio 1817 aveva scritto allo scultore, proponendogli per l’ esecuzione del “piedistallo, e gli emblemi, che devono esere scolpiti nelle quattro parti”, “un giovine, che ho inteso essere sotto la sua direzione, e per il quale ho mota stima, e amicizia”. Il giovane scultore faentino, che probabilmente vista la vicinanza con Livorno conosceva il console americano sin dagli anni trascorsi a Carrara, doveva essere a quella data già noto, stimato e richiesto nel giro di quella società cosmopolita da cui tanto dipendevano ancora le sorti dell’ arte italiana e della scultura in particolare. Resta un fatto molto significativo che nel periodo, tra il 1817 e il 1821, in cui venne eseguito il Monumento a George Washington, sul quale Canova si impegnò moltissimo e che verrà celebrato universalmente come uno straordinario capolavoro, Trentanove lavorasse nello studio del grande scultore in via San Giacomo frequentato dai maggiori collezionisti del mondo. Fu probabilmente in quegli anni che ebbe occasione di venire in contatto con gli aristocratici inglesi per cui realizzò busti e opere di carattere mitologico, come la Vestale destinata al duca di Devonshire che si trova ancora a Chatsworth (Per le altre opere vedi G. Hubert, La sculpture dans l’ Italie Napoléonienne, Paris, Éditions E. De Boccard, 1964, p. 175). Sempre tramite il grande scultore dovette entrare nel giro della famiglia Bonaparte per cui Canova aveva eseguito tanti capolavori. Datano proprio al 1818 i due bellissimi busti in collezione privata di Luciano Bonaparte, Principe di Canino, fratello di Napoleone, e della moglie Alexandrine Blechamp, che risentono ancora molto della suggestione del maestro (F. Mazzocca, Roma 1818: George Washinghton, il Bonaparte che rinunciò a un regno e un giovane scultore virtuoso del canto nell’ atelier di Canova, s.n.t, Orsini, Arte Antica – Libri rari, s.d), come quello di Letizia Ramolino Bonaparte, madre dell’ imperatore, acquisito nel 1982 dalla Galleria Nazionale di Parma, dove si avverte invece la nuova suggestione del naturalismo di Bartolini con cui si era formato a Carrara (Scheda di G. Gasparotto, in Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere. L’ Ottocento e il Novecento, a cura di L. Fornari Schianchi, Milano, Franco Maria Ricci, 2001, p. 11). Appare affrancarsi ancora di più da Canova, per accostarsi oltre che a Bartolini (Lorenzo Bartolini scultore del bello naturale, catalogo della mostra di Firenze, Galleria dell’ Accademia, a cura di F. Faletti, S. Bietoletti, A. Caputo, Firenze, Giunti, 2011) a Thorvaldsen (S. Grandesso, Bertel Thorvaldsen, 1770 – 1844, Cinisello Balsamo - Milano, Silvana Editoriale, 2010), che iniziò a frequentare dopo la scomparsa nel 1822 del maestro, proprio in questo busto dove risulta peraltro raggiungere una cifra molto personale. L’ opera si può considerare come una sorta di testamento artistico, in quanto realizzata nel 1832, l’ anno della morte. Vi ritroviamo quella sorvegliata idealizzazione tipica di certi ritratti del grande scultore danese, da cui però si discosta nell’ originale raggiungimento di una forte caraterizzazione psicologica e nella qualità della modellazione, straordinaria soprattutto nella resa della folta capigliatura e del movimentato panneggio all’ antica che nobilita l’ immagine. Fernando Mazzocca 51 vincenzo camuccini Roma, 1771 Roma, 1844 La morte di Cesare olio su tela, cm 38x70. Provenienza: Roma, Finarte, Arredi, Dipinti, Maioliche e Porcellane da una villa lombarda e altre provenienze, Asta 950, 25 ottobre 1995, lotto n. 306; collezione privata. 52 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 53 8. Vincenzo Camuccini Roma, 1771 Roma, 1844 La morte di Cesare olio su tela cm 38x70 La paternità del dipinto, comparso a un’ asta Finarte nel 1995 con l’ attribuzione a Pelagio Palagi sulla base del confronto con un quadro molto simile, ma di maggiori dimensioni (olio su tela, cm. 114 x 194) conservato alla Galleria d’ Arte Moderna di Bologna, va restituita a Vincenzo Camuccini. Questa conclusione si deve non solo ai caratteri formali e alla qualità che rimandano al grande protagonista del Neoclassicismo a Roma, ma anche al fatto che nel frattempo il dipinto bolognese, che si considerava 54 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo una copia eseguita durante il suo soggiorno romano da Palagi dal capolavoro di Camuccini (G. Zucchini, Catalogo delle Collezioni comunali d’ arte di Bologna, Bologna, Grafiche Nerozzi, 1938, p. 138; R. Grandi, Sull’ attivita bolognese e romana di Pelagio Palagi, in “Musei ferraresi – Bollettino annuale”, 4, 1974, p. 75; R. Grandi, in Pelagio Palagi artista e collezionista, catalogo della mostra di Bologna, Museo Civico, a cura di R. Grandi, C. Morigi Govi e altri, Bologna, Grafis, 1976, pp. 58-59), è stato giustamente restituito da Claudio Poppi allo stesso Camuccini, come del resto veniva indicato nei documenti che ne attestavano la provenienza dalla collezione di Giovanni Aldini e non già dal fondo palagiano entrato nel 1861 nelle civiche raccolte bolognesi (C. Poppi, in Pelagio Palagi pittore. Dipinti dalle raccolte del comune di Bologna, catalogo della mostra di Bologna, Museo Civico Archeologico, a cura di C. Poppi, Milano, Electa, 1996, pp. 192-194). Lo studioso ha avanzato l’ ipotesi condivisibile che possa trattarsi del modello, e in questo caso allora il nostro sarebbe un bozzetto preliminare, della grande composizione de La morte di Cesare, il monumentale dipinto commissionato al giovane Camuccini nel 1793 da Frederick August Hervey, quarto conte di Bristol e vescovo di Derby, uno dei maggiori collezionisti del suo tempo (J. Ingamells, A Dictionary of British and Irish Travellers in Italy 1701 – 1800, New Haven e London, Yale University Press, 1997, 55 pp. 126-130). Seguirà nel 1799 la richiesta di un pendant con un altro soggetto sublime ispirato sempre alla storia romana La morte di Virginia. Quest’ ultimo quadro venne portato a conclusione nel 1804, quando fu esposto con grande successo nello studio dell’ artista, mentre La morte di Cesare, già terminata e presentata al pubblico nel 1799, pur avendo riscosso l’ ammirazione di Ennio Quirino Visconti, Giovanni Gherardo De Rossi, Seroux d’ Agincourt e Canova (C. Falconieri, Vita di Vincenzo Camuccini, Roma 1875, p. 41), venne distrutta dal suo autore come segno di protesta verso le riserve espresse dalla critica (Vincenzo Camuccini 1771 – 1844. Bozzetti dallo studio dell’ artista, catalogo della mostra di Roma, Galleria Nazionale d’ Arte Moderna, a cura di G. Piantoni, Roma, De Luca, 1978, p. 30). Essendo passata la commissione dei due dipinti, dopo la morte di Lord Bristol nel 1803, a Gioacchino Murat, La morte di Virginia arrivò nel 1807 a Napoli, mentre La morte di Cesare, di cui Camuccini realizzò una seconda versione, sarà conclusa e giungerà a destinazione, il Palazzo Reale partenopeo, solo nel 1818, acquisita quindi dal restaurato Ferdinando I di Borbone (U. Hiesinger, The Paintings of Vincenzo Camuccini 1771 – 1844, in “The Art Bulletin”, 1978, pp. 299-300; E. di Majo, in Civiltà dell’ Ottocento. Le arti a Napoli dai Borbone ai Savoia, catalogo della mostra di Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, a cura di N. Spinosa, Napoli, Electa, 1997, p. 460). Le due opere, ora unite a altri monumentali dipinti di Pietro Benvenuti e di Francesco Hayez, si trovano nel Museo Nazionale di Capodimonte. 56 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo Mentre il dipinto oggi conservato alla Galleria Nazionale d’ Arte Moderna di Roma (Fig. 1; olio su tela, cm. 112 x 195), che l’ha acquistato dagli eredi Camuccini (F. Leone, scheda in Romantici e Macchiaioli. Giuseppe Mazzini e la grande pittura europea, catalo della mostra di Genova, Palazzo Ducale, a cura di F. Mazzocca, Milano, Skira, 2005, pp. 229-230), è considerato il modello “eseguito nel corso della stesura della grande tela di Capodimonte e sempre rimasto nello studio del pittore, verosimilmente come riferimento per la realizzazione di altri dipinti dello stesso soggetto che gli furono commissionati in seguito di diverse dimensioni” (G. Piantoni, L’ opera della domenica: Vincenzo Camuccini, Morte di Giulio Cesare, Galleria Nazionale d’ Arte Moderna, 22 febbraio 1998), Roma 1998, p.2), la tela della Galleria d’ Arte Moderna di Bologna già attribuita a Palagi, che ha praticamente le stesse dimensioni, doveva avere una funzione analoga rispetto alla prima versione. Mentre il nostro dipinto, che va posto in stretta relazione, deve essere stata una redazione di piccolo formato che, come sappiamo, Camuccini aveva realizzato di un’ opera che esprimeva al meglio la vocazione del suo classicismo eroico. La vicenda, che in quel momento assumeva anche un’ attualità politica dato che proprio nel 1799 il Giulio Cesare di Voltaire veniva rappresentato al Teatro Apollo di Roma e aveva avuto grande risonanza anche nella tragedia di Alfieri Bruto secondo del 1785 (F. Mazzocca, I grandi temi tragici, in Vittorio Alfieri aristocratico ribelle (17491803), catalogo della mostra di Torino, Archivio di Stato, a cura di R. Maggio Serra, F. Mazzocca, C. Sisi, C. Spantigati, Torino, Electa, 2003, p. 53), era ispirata a Plutarco, una delle fonti privilegiate dalla pittura neoclassica ed in particolare da David. Camuccini può considerarsi il corrispettivo italiano del maggior interprete del Neoclassicismo pittorico. Ha infatti dato in quest’ opera, che rimane il risultato più alto della sua brillante vicenda creativa, un’ interpretazione molto originale di un linguaggio classicista, elaborato tra Roma e Parigi in quegli anni, che riesce a rinnovare la tradizione della grande maniera basata sui modelli dell’ antico, di Raffaello e di Poussin. Nello spazio architettonico semplice e solenne, nobilitato dalla presenza delle sculture antiche, le figure, avvolte in panneggi dalle linee dinamiche, restituiscono forza e attualità a un evento straordinario depositato dagli storici e dai drammaturghi, Plutarco, Shakespeare, Voltaire, Alfieri, nell’ immaginario collettivo. Camuccini rivela una nobiltà di stile che si rivela particolarmente congeniale a rendere la “grandiosa elementarità”, come ha sottolineato Mario Fubini, dei versi alfierani che devono essere stati la sua guida nella realizzazione dei due capolavori destinati al grande collezionista irlandese e poi acquistati da due discussi sovrani. Fernando Mazzocca Fig. 1 57 francesco pozzi Portoferraio (Livorno ), 1790 Firenze, 1844 Busto femminile, 1824 marmo, altezza cm 66. Firmato e datato sul retro: “F.co Pozzi F.e / In Roma 1824” Provenienza: collezione privata. 58 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 59 9. Questo elegantissimo busto femminile è la rara testimonianza di un artista molto dotato, ma ancora poco noto, in particolare per quanto riguarda la ritrattistica, Francesco Pozzi che, originario dell’ Isola d’ Elba, ha conosciuto una certa fama nell’ ambito della scultura di carattere monumentale (F.M., Necrologia, in “Giornale del Commercio”, 24 prile 1844; G. E. Saltini, Le Belle Arti in Toscana da mezzo il secolo XVIII ai di nostri, Firenze 1862, p. 31; Cultura neoclassica e romantica nella Toscana granducale, catalogo della mostra di Firenze, Galleria d’ Arte Moderna di Palazzo Pitti, a cura di S. Pinto, Firenze, Centro Di, 1972, pp. 40-41, 63, 122, 218-219; V. Vicario, Gli scultori italiani dal Neoclassicismo al Liberty, Lodi 1990, pp. 503-504; A. Panzetta, Nuovo Dizionario degli scultori italiani dell’ Ottocento e del primo Novecento da Antonio Canova a Arturo Martini, Torino, AdArte, 2003, p. 701). Si era formato all’ Accademia di Belle Arti di Firenze, vincendo nel 1812 il premio maggiore della scultura con una statua di Dante che verrà esposta in permanenza nella sala destinata alle opere premiate. Nel 1816 aveva vinto una borsa di studio a Roma, dove seppe subito inserirsi ad alto livello, dato che risultano le sue frequentazioni di Canova, Landi, Camuccini, Stern e Thorvaldsen; mentre la sua intraprendenza lo portò ad ottenere commissioni da collezionisti e mecenati importanti. I suoi progressi sono testimonaiti dalle opere inviate a Firenze ed esposte in Accademia, come nel 1817 il gesso del Ciparisso e nel 1820 quello della Baccante con piccolo fauno e pantera (entrambi 60 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo 61 nella raccolta della Galleria d’ Arte Moderna di Palazzo Pitti, come una Testa ideale in marmo di impronta canoviana che aveva inviato nel 1819 in omaggio al Granduca), opere che molto apprezzate gli daranno notorietà e commissioni. Tra queste il gruppo di una Danzatrice con Amore che la invita alla danza eseguito in marmo per il Granduca e destinato al Salone della Musica negli appartamenti del secondo piano nobile di Palazzo Pitti; una Carità per un monumento funerario dei Colonna a Roma; un nuovo gruppo di Giove e Antiope. Una svolta nella sua carriera è segnata dalla nomina nel 1823 a professore di scultura presso l’ Accademia di Firenze, cui seguirà la realizzazioni di opere significative, come la Sivia e Latona con i figli, sempre improntate a una elegante cifra neoclassica, e nuovi incarichi importanti, come quelli per i Borbone di Lucca e soprattutto il grandioso monumento al Granduca Ferdinando III commissionatogli nel 1831 dal Comune di Livorno per la piazza del Voltone (oggi piazza della Repubblica) dove sarà inaugurato nel 1847 (G. Piombanti, Guida storica e artistica di Livorno, Livorno 1903, p. 275). Nel frattempo continuò a lavorare con grande fervore, eseguendo diverse tombe in chiese fiorentine come Santa Croce, (Santa Croce nell’ Ottocento, catalogo della mostra di Firenze, Basilica di Santa Croce, a cura di A. Calvani, M.G. Ciardi Duprè Dal Poggetto, Firenze, Alinari, 1986) e San Marco, altre sculture per il Granduca che ancora arredano gli ambienti di Palazzo Pitti. Infine nel 1843 ebbe la prestigiosa commissione della statua di Farinata degli Uberti 62 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo per il Loggiato degli Uomini Illustri degli Uffizi, opera che si accinse a “sculpire – come aveva promesso – con tutta l’ attenzione e il maggior impegno”. Ma tre mesi prima della scadenza, prevista per il giungo del 1844, la morte gli impedì di rifinire la statua che sarà condotta a termine da Emilio Santarelli (S. Iacopozzi in Gli Uomini Illustri del Loggiato degli Uffizi. Storia e restauro, a cura di M. Scudieri, Firenze, Edifir, 2001, pp. 188-193). Rarissimo esempio della sua ritrattistica, questo busto, datato 1824, testimonia come, anche dopo il suo ritorno nel 1823 a Firenze e l’ insegnamento in Accademia, Pozzi avesse mantenuto i legami con Roma dove si era formato e aveva avuto i primi importanti clienti, quali i Colonna. Anche se non è nota l’ identità dell’ effigiata, il suo aspetto ci riporta ad un ambiente aristocratico confermato dall’ eleganza dell’ abito e dell’ acconciatura, elementi che assumono un assoluto rilievo, in particolare i riccioli che ricadono ai due lati, incorniciando l’ ovale perfetto del volto, mentre il resto dei capelli è raccolto con complicate volute sopra la nuca. Pozzi dimostra così la sua grande perizia tecnica tale da sfiorare il virtuosismo, unito ad un naturalismo, nella resa del ritratto, che rimanda a Thorvaldsen e Bartolini, i due maggiori scultori del tempo cui ha guardato come modelli. Naturalismo che appare comunque mitigato da una certa idealizzazione, retaggio della sua formazione rigorosamente neoclassica. Fernando Mazzocca 63 via Olona, 2 20123 Milano tel + 39 02 72094708 fax + 39 02 862440 [email protected] www.porroartconsulting.it PHOTOS: Stefano Porro - www.stefanoporro.it GRAPHIC PROJECT: Luca Bossi - www.lucabossi.it PRINTING: Galli Thierry - ottobre 2016