Dipinti e Sculture dal XVII al XIX secolo

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Dipinti e Sculture dal XVII al XIX secolo
Dipinti e Sculture dal XVII al XIX secolo - 25 novembre 2016 / 24 febbraio 2017
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25 novembre 2016 / 24 febbraio 2017
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Arte moderna e
contemporanea
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UMBERTO SAVOIA
Dipinti antichi
Dipinti del XIX secolo
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dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
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Prefazione
A seguito della mostra presentata nei mesi di aprile e maggio 2015 proponiamo, in questa nuova manifestazione,
un altro percorso espositivo grazie alla disponibilità dei proprietari delle opere che hanno reso possibile
l’iniziativa.
Si tratta di nove lavori, tra dipinti e sculture, che spaziano tra il XVII e il XIX secolo. L’asse portante della mostra
è incentrato sulle opere toscane: si inizia infatti con un raffinato dipinto di Francesco Lupicini – di prossima
pubblicazione nella monografia dedicata al pittore – probabilmente risalente al secondo ventennio del XVII
secolo. In tema più dichiaratamente barocco la mostra prosegue con una grande tela di Rutilio Manetti di poco
posteriore al primo dipinto: siamo infatti sul finire degli anni Venti, epoca in cui l’eco caravaggesca è ancor
più vivida nel patrimonio figurativo dell’artista senese. Spostandoci di circa mezzo secolo in avanti troviamo
un’importante opera di Alessandro Gherardini dipinta durante il periodo giovanile contemporaneamente
al soggiorno fiorentino di Luca Giordano. L’opera che conclude il nucleo di dipinti toscani è costituita da un
grandioso ritratto di Giovanni Domenico Ferretti, dipinto a Firenze presumibilmente durante gli anni Quaranta
del XVIII secolo e forse raffigurante un esponente dell’antica famiglia dei Lorena.
In ambito ottocentesco vi sono poi tre sculture e due dipinti: la prima ancora in ambito toscano, una Testa ideale
di Beatrice di Lorenzo Bartolini, risalente al secondo decennio del XIX secolo. Degli stessi anni ma realizzato
a Milano vi è uno straordinario dipinto di Francesco Hayez il cui soggetto trae ispirazione da una delle vicende
storiche più care in epoca romantica: la tragica esecuzione della regina di Scozia, Mary Stuart. Il catalogo si
chiude con tre opere vicine ai temi del neoclassicismo romano: una scultura di Raimondo Trentanove, un
raffinato dipinto di Vincenzo Camuccini in relazione al grande capolavoro custodito presso la Galleria Nazionale
d’Arte Moderna di Roma, e un aristocratico busto in marmo di Francesco Pozzi, artista formatosi proprio accanto
al grande pittore romano.
Desidero ringraziare gli studiosi che hanno mostrato sin dall’inizio la loro disponibilità ad approfondire lo studio
delle opere in catalogo: la Professoressa Francesca Baldassari, che ha curato i dipinti di Lucipini, Gherardini e
Ferretti, il Professor Marco Ciampolini che si è occupato dell’opera di Rutilio Manetti, e il Professor Fernardo
Mazzocca che ha studiato le sculture e i dipinti di Hayez e Camuccini.
francesco lupicini
rutilio manetti
alessandro gherardini
giovanni domenico ferretti
lorenzo bartolini
francesco hayez
raimondo trentanove
vincenzo camuccini
francesco pozzi
Milano, 24 ottobre 2016
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dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
Umberto Savoia
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francesco
lupicini
Firenze, 1591
Saragozza, 1656
La Maddalena
portata in cielo dagli angeli
olio su tela, cm121,5x101.
Provenienza:
Montecarlo di Monaco, collezione privata 2002;
Milano, collezione privata;
Milano, Asta Porro & C. n. 31, 23 novembre 2006, n. 234;
collezione privata.
Opera in temporanea importazione artistica.
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dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
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1.
Secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine,
Maria Maddalena, giunta a Marsiglia assieme ad
altri compagni di viaggio, tra i quali la sorella
Marta e Massimino, avvertì la necessità di ritirarsi
in penitenza e scelse un eremo a Sainte Baume, una
località a circa cinquanta chilometri da Marsiglia.
Qui dimorò per un decennio e, una volta consunti
gli abiti, ebbe come unica ‘coperta’ una cascata
di lunghi capelli dorati. L’elevazione al Paradiso
delle sue nude membra, sorrette dagli angeli,
avveniva ogni giorno all’ora settima.
Penitenza ed estasi, edificazione e voluttà sono
mirabilmente fusi in questa scena caratterizzata
da un’intensa cromia oro, più decisa ai bordi della
tela e ricca di luminosità al centro.
La protagonista ha lo sguardo devoto rivolto
verso l’alto, le mani giunte in preghiera e i lunghi
ondulati capelli biondi che lasciano scoperti un
seno, l’ombelico del ventre e la coscia destra. Il suo
aspetto è florido e sensuale, come se la macerazione
della carne non avesse intaccato la sua femminilità.
La qualificazione dell’immagine esemplifica in
modo singolare la doppia valenza della Maddalena
nell’iconografia della Controriforma: peccatrice
legata alla materia, alla terra e alla natura, ma anche
donna passionale e tentatrice, capace di sublimare
il proprio bruciante desiderio nell’amore divino.
Attraverso la penitenza, Maddalena riuscì a
riscattare i peccati di tutte le donne, responsabili,
da Eva in poi, di essere le alleate del demonio, in
quanto suscitatrici di passioni.
Due fanciulli in vesti contemporanee e dai volti
regolari, -chiaro legame della Maddalena con
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dipinti eantichi
sculture dal XVII al XIX secolo
la vita terrena- aiutano la santa nella salita al
cielo sorreggendola per il corpo e per le chiome.
Di queste sembrano quasi assaporare, con le
dita, la morbidezza dei riccioli, contribuendo
significativamente alla sensualità della scena.
Nessun attributo della Maddalena è stato inserito dal
pittore, così come non vi è alcun accenno al paesaggio
eremitico, a conferma dell’originalità iconografica e
dell’interpretazione personale da parte dell’autore
che è da riconoscersi, per ovvi motivi di stile, nel
fiorentino Francesco Lupicini. La tavolozza chiara
e calda, sensibile ai giochi della luce, così come la
pennellata cremosa che conferisce agli incarnati
un effetto di porcellana, in anticipo su Carlo
Dolci, rimandano all’esemplare della Maddalena
in contemplazione conservato in collezione privata
a Bruxelles (Fig. 1; cfr. F. Baldassari, La Pittura
del Seicento a Firenze. Indice degli artisti e delle
loro opere, Torino 2009, pp. 70 e 471, tav. LI); la
trattazione più alta tra quelle dedicate all’artista alla
figura della prostituta pentita, senz’altro il soggetto
a lui più caro (cfr. Fig. 2).
L’iconografia e gli esiti pittorici di questa
Maddalena portata in cielo dagli angeli sarebbero
impensabili senza l’alunnato di Lupicini presso lo
zio Cristofano Allori, inventore della poetica degli
affetti fiorentina. All’esempio del grande maestro
si deve infatti l’attenzione alla resa introspettiva
della dimensione psicologica dei personaggi
rappresentati, portati dall’allievo ad una sensualità
maggiore. Una vena languidamente erotica
percorre infatti tutta l’opera di Lupicini, oggetto
della mia ricostruzione in uno studio monografico
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Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3
10 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
di prossima pubblicazione (F. Baldassari, Un
apice del Seicento fiorentino: il David e Golia di
Francesco Lupicini, Perugia, Volumnia Editrice,
2016, in corso di stampa).
All’interno del suo catalogo non vi è opera più
scopertamente alloriana di questa, essendo
evidente il rimando alla pala dedicata allo stesso
soggetto dal maestro Allori nella chiesa di San
Domenico a Pistoia. Se la posa della Maddalena è
quasi sovrapponibile, notevole è la semplificazione
della composizione, privata di un angelo a sollevare
la figura e della festosa gloria di angeli in cielo.
L’adozione del fondo oro da parte di Lupicini è
estremamente significativa della sua volontà di
conferire preziosità e misticismo all’episodio.
Oltre all’influenza dell’Allori si riscontrano, nella
tela, tangenze con l’opera di Francesco Curradi
nella dolcezza del volto della santa, mentre nel
chiaroscuro degli angeli non mancano rapporti
con la produzione degli anni Venti di Filippo
Tarchiani, autore all’epoca della Pietà (1618),
un tempo nella cappella sotterranea del Duomo di
Pistoia e oggi nel Museo capitolare della città. Se
la virtuosa e composta eleganza degli angeli trova
un precedente, nei colori cangianti delle vesti,
nell’opera del Cigoli, -si veda l’Adorazione dei
pastori con Santa Caterina d’Alessandria, firmata
e datata 1599, oggi al Metropolitan Museum di
New York-, le fisionomie caricate rimandano al
romano Angelo Caroselli, un pittore che Lupicini
poteva aver conosciuto nel verosimile soggiorno
di studi a Roma, avvenuto tra il 1618 e il 1625.
Significativo, a mio parere, il rimando dei due
angeli, con i profili scorciati, ai vari Gesù Bambini
dipinti da Caroselli nelle sue Madonne giovanili su
tavola, tra le quali, ad esempio, la Madonna con
il Bambino e sant’Anna presso la collezione della
Banca Nazionale del Lavoro di Roma (Fig. 3).
Non è certo impresa semplice ricostruire e
seriare cronologicamente il catalogo pittorico
di Francesco Lupicini, ignorato dal biografo
Filippo Baldinucci e confuso fino a trent’anni fa
con il l’omonimo cugino Giovan Battista sotto il
cui nome passavano le poche opere note. La sua
vita errabonda, tra Roma, Firenze e la Spagna,
dove si trasferì intorno al 1635 per poi morire
nel 1656 nella città di Saragozza, ha contribuito
al lento recupero della sua personalità, che
si pone, invece, tra le più interessanti nel
panorama fiorentino del terzo e quarto decennio
del Seicento. Alla luce di tutte le considerazioni
storiche e stilistiche svolte, è tuttavia possibile
avanzare un’ipotesi di datazione della tela qui
esposta intorno agli anni Venti del Seicento,
considerando come termine post quem la
sopracitata pala dedicata allo stesso soggetto dal
maestro Allori nella chiesa di San Domenico a
Pistoia.
I confronti con la Caduta della manna,
compiuta da Lupicini nel dicembre del 1625
per Giovan Francesco Manadori ed oggetto di
una lunga controversia documentata nelle filze
dell’Accademia del Disegno di Firenze, avallano
la cronologia proposta.
Francesca Baldassari
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rutilio
manetti
Siena, 1571
Siena, 1639
Il Tempo strappa le ali ad Amore
olio su tela, cm 143x216.
Provenienza:
Milano, collezione privata.
12 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
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2.
Rutilio Manetti
Siena, 1571
Siena, 1639
Il Tempo strappa le ali
ad Amore
olio su tela
cm 143x216
14 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
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Dipinto di grande forza espressiva, tratta il tema della
punizione di Amore, soggetto amato dalla pittura
caravaggesca e dallo stesso Caravaggio, che, come
sappiamo dalla corrispondenza fra i fratelli Deifebo
e Giulio Mancini, aveva realizzato un soggetto del
genere, acquisito dal cardinal Francesco Maria Del
Monte e oggi disperso (cfr. M. Maccherini, Novità su
Bartolomeo Manfredi nel carteggio familiare di Giulio
Mancini: lo “Sdegno di Marte” e i quadri di Cosimo II
granduca di Toscana, in “Prospettiva”, 93-94, 1999,
p. 131).
Nelle varie interpretazioni del tema Amore può essere
punito da Marte, oppure, con maggior risvolto morale,
dal Tempo, come nel dipinto in esame. Elemento
pressoché costante del soggetto è la figura di Venere,
che, disperata, tenta di frenare l’azione del Tempo.
Nell’opera in oggetto il Tempo, Amore e Venere si
stagliano su di un fondo scuro in una composizione
che ha uno sviluppo longitudinale. Una luce imparziale
evidenzia con identico nitore la carnagione decrepita
quasi repellente del vecchio padre Tempo e la delicata
materia serica della veste di Venere.
Opera in esame
16 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
Fig. 1
Tutto rientra nell’estetica caravaggesca e l’autore
arriva addirittura ad attingere dal repertorio
figurativo del Merisi per ideare la posa della figura
urlante a braccia aperte di Amore, che deriva
dal ragazzo che fugge inorridito dalla scena del
Martirio di san Matteo nella Cappella Contarelli di
S. Luigi dei Francesi (Fig. 1).
A dispetto del suo straordinario fascino, questa tela
sembra ignota alla letteratura artistica e alle fonti
documentarie. L’inventario dell’eredità del nobile
senese Adriano Sani (1729) registra un dipinto
con “il tempo che leva le penne all’ali di amore
di Raffaello Vanni con cornice dorata” (Archivio
di Stato di Siena, Curia del Placito, 313, c. 66.
L’inventario è disponibile on line: Getty Provenace
Index, Arch. doc, I-1818).
Ho riconosciuto con certezza l’opera in un dipinto
già in possesso degli eredi della famiglia Sani,
attribuendolo al tardo caravaggista, oriundo dei
territori senesi, Giovanni Antonio Galli detto lo
Spadarino (Marco Ciampolini, Novità su Cavalier
d’Arpino e Rustichino: appunti sul collezionismo
senese dei caravaggeschi, una proposta per
Spadarino e un possibile Vouet, in Atti della
giornata di studi Francesco Maria del Monte e
Caravaggio, a cura di Pierluigi Carofano, Monte
Santa Maria Tiberina, 2 ottobre 2010, Pontedera,
Bandecchi & Vivaldi, 2011, p. 56 fig. 7). Questo
dipinto, in seguito, è stato alienato dalla famiglia
e venduto all’asta Pandolfini di Firenze con il
generico riferimento a “Pittore caravaggesco, sec.
XVII” (15 ottobre 2013, pp. 112-113 n. 116, fig.
col.).
Opera in esame
Fig. 2
Tuttavia la notizia è interessante, si tratta di
un’ulteriore prova dell’interesse dei committenti
senesi per questo soggetto.
Nel 1613 il Mancini, appunto, non avendo potuto
ottenere la Punizione di Amore di Caravaggio,
fece eseguire da Bartolomeo Manfredi una replica
variata del soggetto per Agostino Chigi, rettore
dello Spedale di Santa Maria della Scala a Siena,
ossia lo straordinario Marte che punisce Amore,
oggi nell’Art Institute di Chicago (Maccherini,
Novità su Bartolomeo Manfredi...cit., pp. 131133).
Anche il dipinto in esame è di probabile
committenza senese, infatti l’opera è con certezza
di Rutilio Manetti, il più sincero caravaggista di
Siena e il caposcuola della città nella prima metà
del Seicento.
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Opera in esame
Fig. 3
La figura del Tempo è stata indubbiamente partorita
dalla stessa mano che ha dipinto il profeta Isaia (Fig.
2) nell’Immacolata con i profeti David e Isaia di S.
Niccolò degli Alienati a Siena, mentre il volto di Venere
si lascia confrontare con quello dell’angelo di destra
(Fig. 3) del Lot intrattenuto dagli angeli del Keresztèny
Múzeum di Esztergom (sui dipinti di S. Niccolò degli
Alienati e di Esztergom vedi Alessandro Bagnoli,
Rutilio Manetti 1571-1639, catalogo della mostra,
Siena, Palazzo Pubblico, 15 giugno-15 ottobre 1978,
Firenze, Centro Di, 1978, pp. 123-124 n. 58a, fig.;
Marco Ciampolini, Pittori Senesi del Seicento, Siena,
Nuova Immagine Editrice, 2010, pp. 256, 285 tav.
144 col., con precedente bibliografia). Si tratta di due
opere di Rutilio Manetti collocabili intorno al 1630
(l’Immacolata è firmata e datata 1629), periodo in
cui il pittore approfondisce nella sua arte l’indagine
realistica, sottolineando, senza compiacenza, gli
aspetti più crudi della realtà e intensificando lo studio
dei valori materici degli oggetti o dei panneggi che
riproduce.
18 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
Opera in esame
Fig. 4
Un’esigenza nata forse in seguito a un
soggiorno a Roma (non documentato e non
ancora postulato dalla critica, ma collocabile
nel 1627 anno in cui abbiamo un singolare
vuoto di notizie sul Manetti), che spiegherebbe
il ripasso sulla produzione di Caravaggio e dei
suoi più fedeli seguaci, rilevabile nelle opere
di questo periodo, come quella in esame, con
l’esplicito richiamo al fanciullo che grida nel
Martirio di san Matteo Contarelli (Fig. 1) del
Caravaggio che si ripete nella Resurrezione di
S. Niccolò in Sasso a Siena (Fig. 4), una pala
commissionata nel 1629 e ultimata nei primi
mesi del 1631 (Bagnoli, Rutilio Manetti...
cit., p. 126 n. 60), che elabora anch’essa
in chiave teatrale, quasi a passo di danza,
la spettacolarità di gesta, emozioni, luci e
colori, insita nella cultura caravaggesca.
Marco Ciampolini
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alessandro
gherardini
Firenze, 1655
Livorno, 1726
Sacrificio di Ifigenia
olio su tela, cm 87x113.
Provenienza:
collezione privata.
Bibliografia:
E. Riccomini, Ricordi di scuola bolognese. Un paio
di aggiunte al catalogo del Burrini e del Cittadini,
in “Arte a Bologna. Bolettino dei musei civici d’arte
antica”, 5/1999, Nuova Alfa Editoriale, Bologna
1999, fig. 4, pp. 133-134 (ill.).
(Il soggetto della tela è stato interpretato
erroneamente come Morte di Lucrezia);
E. Riccomini, Giovanni Antonio Burrini, Tipoarte,
Ozzano Emilia (Bologna) 1999, p. 7 (cit.).
Opera in temporanea importazione artistica.
20 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
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3.
Alessandro Gherardini
Firenze, 1655
Livorno, 1726
Sacrificio di Ifigenia
olio su tela
cm 87x113
22 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
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Fig. 1
Nella tela è illustrata la versione più antica e tragica del
mito di Ifigenia, la bella figlia primogenita di Clitemnestra
e Agamennone, capo della spedizione greca nella guerra
di Troia (Eschilo, Agamennone).
La tradizione vuole che i re ateniesi, radunati con le
loro navi nel porto di Aulide da oltre tre mesi, non
riuscissero a salpare per la Troade, a causa dei venti
24 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
contrari. Agamennone interrogò allora l’indovino
Calcante per sapere il loro destino. Questi lo informò
della mala sorte: aveva peccato di presunzione con la dea
Artemide quando, tempo prima, si era vantato di essere
più bravo di lei, grazie al bel colpo messo a segno per
uccidere un cerbiatto. Per far partire la flotta, Artemide
offesa pretendeva dunque il sacrificio della sua prediletta
figlia primogenita, Ifigenia. Ad Agamennone non rimase
che attirare la figlia nel porto di Aulide con l’inganno,
facendole credere di voler celebrare le sue nozze con
Achille, e, solo dopo averla vestita con l’abito bianco
nuziale da vergine, la trafisse con la sua stessa spada.
Nel dipinto Ifigenia è mostrata esanime a terra, piegata su
un fianco, le braccia abbandonate lungo il corpo e la ferita
sul petto grondante di sangue che contrasta fortemente
col pallore marmoreo e cadaverico delle membra già
prive di vita. Alla sua sinistra la madre Clitemnestra,
sconvolta, spalanca le braccia in un gesto di orrore misto
a incredulità, mentre su di lei il sorpreso, mancato sposo
Achille ripete il gesto della donna slanciandosi col braccio
sinistro verso il capo della fanciulla in uno spontaneo
ed inutile tentativo di salvataggio. Sulla destra il padre
Agamennone, al quale viene riconsegnata la spada,
rivolge al cielo uno sguardo disperato e colpevole, al
quale fanno eco gli astanti fantasmagorici che riempiono
la scena e piangono lo scempio di un delitto compiuto
per solo capriccio divino.
Assegnata in un primo tempo all’emiliano Antonio
Burrini da Eugenio Riccomini (E. Riccomini, Ricordi
di scuola bolognese. Un paio di aggiunte al catalogo del
Burrini e del Cittadini, in “Arte a Bologna. Bollettino dei
musei civici d’arte antica”, 5/1999, pp. 133-134, fig.
4. Il soggetto della tela è stato interpretato erroneamente
come Morte di Lucrezia), la tela è stata successivamente
attribuita dallo stesso studioso al corpus dell’estroso
pittore fiorentino Alessandro Gherardini (E. Riccomini,
Giovanni Antonio Burrini, Tipoarte, Ozzano Emilia,
Bologna, 1999, p. 7), all’interno del quale costituisce
una preziosa aggiunta tra i suoi rari quadri da stanza.
Sebbene la sua personalità non sia stata ancora oggetto
di uno studio monografico (Per vedere illustrata la sua
opera pittorica è ancora indispensabile ricorrere a G.
Ewald, Il pittore fiorentino Alessandro Gherardini, in
“Acropoli”, III, 1963, pp. 81-132), è senz’altro il pittore
più affascinante nell’ambiente fiorentino tra la fine del
Seicento e gli inizi del Settecento, sia per la stravagante
condotta di vita che per i brillanti risultati pittorici.
Peculiarità del pittore sono le linee scheggiate dei
panneggi a suggerire il movimento e l’ariosità delle
composizione, la fantasia esuberante, ma anche il pathos
drammatico dell’azione e la gamma cromatica chiara e
acidula, che contempla il verde acquamarina, le varie
tonalità di viola, il grigio e il rosso mattone.
Nelle lumeggiature fredde che si innervano lungo i
panneggi frastagliati rivive la lezione di Salvator Rosa,
artista sul quale Gherardini pare meditare soprattutto
nella scelta della tavolozza che predilige gli accostamenti
giustapposti di tonalità calde e fredde e nella figura del
vecchio barbuto colto in un pianto sommesso dietro
ad Achille. Le tipologie caricate dei protagonisti,
altro tratto distintivo dell’artista, in particolare quella
di Agamennone, devono molto al napoletano Luca
Giordano, attivo a Firenze a partire dagli anni Ottanta e
forse ammirato al di sopra di tutti. Non mancano contatti,
infine, con l’estroso emiliano Burrini, conosciuto nel
giovanile soggiorno nel Nord Italia, ma soprattutto mi
pare evidente la lezione di Donato Creti nella figura
del giovane aggraziato che restituisce la spada ad
Agamennone.
Allievo di un cervello altrettanto bizzarro, il conterraneo
Alessandro Rosi, Gherardini, che era “spiritosissimo”
e sapeva suonare il violoncello a conferma di un talento
innegabile per le arti, si allontanò presto dalla patria
25
per andare a lavorare a Pontremoli, importante snodo
commerciale, ma anche fulcro di irradiazione di numerose
influenze artistiche, tra Toscana, Liguria e Nord Italia. In
questa città rimase per circa quattro anni e vi fece ritorno
ad intervalli più o meno regolari, dipingendo bellissimi semisconosciuti affreschi, alcuni dei quali andati distrutti
e documentati solo da fotografie (Cfr. A. R. Bossaglia V. Bianchi - L. Bertocchi, Due secoli di pittura barocca a
Pontremoli, Genova, 1974, pp. 9 s., 16, 62, 65, 71-78).
Lasciata Pontremoli, non senza dimenticare di assimilare
anche il migliore insegnamento dei maestri liguri, da
Valerio Castello a Grechetto, intorno al 1682 soggiornò
cinque anni nel Nord Italia, con tappe a Parma e Venezia.
Nel 1688 rientrò a Firenze, verosimilmente attratto
dal fervore di iniziative che animava la città in vista del
matrimonio tra il Gran Principe Ferdinando de’ Medici e
Violante di Baviera. Dal Gran Principe ottenne l’incarico
di decorare con Storie della Vergine una cappella attigua
alla sala di Bona a Palazzo Pitti. Stando al biografo
Francesco Saverio Baldinucci (F. S. Baldinucci, Vite
di artisti dei secoli XVII-XVIII, a cura di A. Matteoli,
Roma, 1975, pp. 400-412), una fonte indispensabile
per il recupero della sua attività, terminò in forte
ritardo e talmente di malavoglia i lavori da esasperare
il committente che non si servì più di lui. Non tardò
comunque a trovare altri entusiasti committenti tra la
nobiltà fiorentina come i Corsini, gli Orlandini, i Ginori, i
Giugni, all’interno dei cui palazzi è ancora oggi possibile
ammirare la sua straordinaria produzione. Dopo essere
stato attivo anche a Prato (pala con l’Assunzione della
Vergine nel Conservatorio di San Niccolò), tornò a
Pontremoli per portare a termine le diverse opere
iniziate per i Dosi, tra cui una bella tela con le Virtù
26 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
teologali, per poi seguire la nobile famiglia a Piacenza
“per suo divertimento” (Idem, p. 404) . Nel 1700 o
1709 (cronologia che rimane incerta per problemi di
decifrazione della data; cfr. S. Meloni Trkulja, La pittura
a Firenze nel Seicento, in La pittura in Italia. Il Seicento,
Milano, 1989, II, p. 759). affrescò la Visione di San
Romualdo nella volta della chiesa camaldolese di S.
Maria degli Angioli a Firenze (oggi sconsacrata) e i due
riquadri sulle pareti laterali, raffiguranti La Carità e La
Fede con la Speranza, dando vita ad una delle più eleganti
decorazioni sacre del Settecento fiorentino. Nell’estate
del 1703 il cardinale Francesco Maria de’ Medici gli
commissionò la decorazione dell’alcova nella sua villa
di Lappeggi. Il carattere insofferente e la delusione del
non sentirsi sufficientemente apprezzato spinsero il
pittore a dichiarare di volersi trasferire in Inghilterra, e
forse vi andò davvero se si presta fede ad una annotazione
che appare nei registri delle tasse versate dagli artisti
all’Accademia. In seguito, trascorse a Livorno gran parte
degli ultimi anni, in attesa di essere chiamato alla corte di
Danimarca dal re Federico IV (Per questo viaggio cfr. S.
Meloni Trkulja, Alessandro Gherardini in Danimarca,
in “Antichità viva”, XXXIV 1995, 5-6, pp. 70-74.).
dove dipinse l’Annunciazione (già New York, Sotheby’s,
28 gennaio 1999, n. 303) oggi nella collezione Haukohl
a Houston in Texas.
In pittura il suo maggior merito fu quello di intuire prima
e meglio di chiunque altro la portata rivoluzionaria delle
opere eseguite da Luca Giordano a Firenze tra il 1680 e
il 1685, che ispirarono nel Granducato la rinascita della
grande decorazione religiosa e profana. Dopo l’iniziale
influenza giordanesca, Gherardini seppe comunque
trovare una sua personale cifra stilistica, luminosa
e originale, che esercitò un’influenza
profonda sulle nuove generazioni di artisti:
da Sebastiano Galeotti, suo allievo, al giovane
Gian Domenico Ferretti, a Giovanni Camillo
Sagrestani.
E’ alla fase giovanile, appena successiva al
suo soggiorno in Emilia (1682-1687), che
spetta verosimilmente il Sacrificio di Ifigenia
qui esposto, molto vicino stilisticamente alla
tela di Ester davanti ad Assuero (Fig. 1) oggi
alla Bayerische Staatsegaldesammlungen ad
Aschaffenburg, ma anche agli affreschi in
Palazzo Giugni (Fig. 2, 3, 4) a Firenze (1695
circa).
Francesca Baldassari
Fig. 2, 3, 4
27
giovanni
domenico
ferretti
Firenze, 1692
Firenze, 1768
Ritratto di gentiluomo
olio su tela, cm 210x174.
Provenienza:
Castello di Gramont, collezione Eugène Labat 1840
circa, e, di qui, ai discendenti;
Montecarlo di Monaco, Sotheby’s, 19 giugno 1994,
n. 467 (come Francesco Solimena);
Milano, Giorgio Baratti antiquario;
collezione privata.
Bibliografia:
D. Benati, Per Antonio Corbara: tre temi romagnoli
dal ‘500 al ‘700, in Atti del Convegno di Studio
in onore dello Storico e critico d’arte Dott. Antonio
Corbara, Faenza 1994, p. 145, nota 40, fig. 6;
M. Chiarini, Un ritratto inedito di Gian Domenico
Ferretti, in Hommage au dessins, mélanges offerts
à Roseline Bacou, Etudes réunies par Maria Teresa
Caracciolo, Galleria Editrice,
Rimini 1996, pp. 406-409;
B. Brejon de Lavergnée, Catalogue des dessins
italiens. Collections du Palais des Beaux-Arts de
Lille, Réunion Des Musées Nationaux,
Paris 1997, p. 90, n. 211;
F. Baldassari, Giovanni Domenico Ferretti, Federico
Motta Editore, Milano 2002, n. 217, pp. 208-209.
Opera in temporanea importazione artistica.
28 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
29
4.
Un gonfio tendaggio dalle tonalità argentate funge da quinta
architettonica e scopre la figura maestosa del gentiluomo
avvolto in un sontuoso abito di broccato d’oro a tramature
floreali. Il mantello blu svela la fodera interna dello
stesso colore freddo della tenda conferendo un ulteriore
tocco di raffinatezza e solennità alla rappresentazione. Il
protagonista siede su un trono nascosto da ampi panneggi
e, con gesto plateale, indica quattro figure sopra le quali
si apre una grande architettura classica. Tra queste si
riconosce, nell’uomo che ci guarda, l’autoritratto di
Giovanni Domenico Ferretti, simile a quello che compare
nella Cacciata dei mercanti dal tempio di collezione privata,
già pubblicato da chi scrive e passato di recente ad un’asta
Sotheby’s a New York (Fig. 1, 29 gennaio 2016, n. 504;
F. Baldassari, op. cit., pp. 177-178, n. 126).
Sopra l’architettura è dipinta una balaustra in cui sono
raffigurate altre due figure, rese in modo ancora più
abbozzato, analoghe a quelle che affollano anche tanti
affreschi del pittore, come quelli nella chiesa dei Santi
Filippo e Prospero a Pistoia o in Palazzo Roffia a Firenze.
Alla destra del gentiluomo compare in bella vista un tavolino,
anche questo semi-celato da un sontuoso e opulente manto
rosso, su cui poggia un vaso istoriato con putti, sostenuto
da una massiccia figura erculea, forgiata a telamone.
Il trattamento scultoreo delle pieghe morbide e materiche,
il rigonfiamento dei panneggi fluidi, il calibrato e
sapientissimo uso di luci e colori, nonché le fisionomie
caricate dei personaggi sullo sfondo sono elementi
fondamentali per riconoscere la mano del fiorentino
Giovanni Domenico Ferretti, pittore apprezzato e prolifico,
particolarmente dotato nel genere del ritratto, e autore, in
questa tela, di uno dei capi d’opera della ritrattistica italiana
settecentesca, come riconosciuto indipendentemente da
30 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
Daniele Benati (op. cit. 1994), da Marco Chiarini (op. cit.
1996) e dalla sottoscritta (op. cit. 2002).
A lato di un’attività più ufficiale che riscosse notevole
successo -da pale d’altare, a dipinti da cavalletto e affreschi
di edifici pubblici e privati- occorre ricordare la sua
originale produzione di caricature e arlecchinate, datate
tra il 1742 (quando Goldoni fu a Firenze) e il 1760,
quando furono incise da Francesco Bartolozzi. Una serie
è nel Ringling Museum a Sarasota in Florida, una nelle
collezioni della Fondazione della Cassa di Risparmio di
Firenze, mentre dipinti singoli o a coppia sono conservate
in altre significative raccolte pubbliche (Lawrence, Kansas)
e private.
Tenendo a mente la lezione della ritrattistica veneta, ma
anche la scultura tardo-barocca fiorentina, Ferretti ha
conferito al ritratto in esame il massimo della grazia e
della nobiltà, evidente nell’allungamento e nel gesto delle
mani affusolate e delle gambe distese del personaggio, di
cui è palese il tono regale ed ufficiale. Tipico del pittore
fiorentino è il gioco di contrapposizioni tra luci e ombre,
possanza volumetrica e fluidità longilinea, tonalità
sgargianti e bruni bituminosi che si traduce, in questo caso,
nella contrapposizione tra i colori accesi utilizzati per le
vesti del gentiluomo e per il drappo rosso in primo piano,
e l’insistita terrosità delle tinte del fondo e dei personaggi
ivi rappresentati, divisi da un cono d’ombra di materia
marmorea.
La paternità del maestro fiorentino è inconfutabile, anche
alla luce del disegno preparatorio conservato al Musée
des Beaux Arts di Lille (Fig. 2, inv. PL220; B. Brejon de
Lavergnée, op. cit.), nel quale il primo piano dell’angolo
a sinistra è riservato ad uno dei due cani che compaiono
composti nella versione dipinta a scapito del tavolino che
31
Fig. 1
Fig. 2
32 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
viene sbalzato fuori campo e di cui si percepisce solo
il sostegno. Nello schizzo grafico, inoltre, la scena
sullo sfondo è incora indefinita, non vi è alcun accenno
degli astanti, mentre le forme del personaggio sono
più allungate ed è evidente il pentimento nella resa del
ginocchio sinistro per la posa delle gambe incrociate.
Problematica è l’identificazione dell’effigiato, una volta
scartati i suggerimenti di Daniele Benati che ha proposto
interrogativamente di riconoscervi i tratti del Gran
Principe Ferdinando de’ Medici (1663-1713) e poi
quelli di Gian Gastone (1661-1737; F. Baldassari, op.
cit.). Innumerevoli elementi inducono a supporre che
non si tratti di un membro della famiglia Medici, ma forse
di un membro appartenente all’aristocrazia toscana.
La foggia dell’abito tipica del corredo imperiale
asburgico suggerirebbe l’identificazione del soggetto
con Francesco Stefano I di Lorena, così come i fedeli
cani da caccia dal pelo maculato, accucciati ai piedi dello
sguardo soddisfatto del padrone, ma troppo deboli sono
le somiglianze con i suoi ritratti noti, per proporne, come
piacerebbe, l’identificazione. Senza dubbio l’affascinante
protagonista di questa tela fu un amante della caccia, una
delle grandi passioni della nobiltà toscana e lorenese.
Nel 1840 la tela fece parte della collezione del
banchiere e collezionista Eugène Labat (1784-1858)
proprietario di tele, tra le altre, di Guido Reni, Paolo
Veronese e Rubens. Alla morte di Labat l’opera rimase
nelle proprietà di famiglia fino al 1994, anno in cui fu
posta in vendita ad un’asta Sotheby’s a Montecarlo
di Monaco con l’attribuzione errata al napoletano
Francesco Solimena.
Francesca Baldassari
33
lorenzo
bartolini
Savignano di Prato, 1777
Firenze, 1850
Testa ideale di Beatrice
(Ritratto di Juliette Récamier
come Beatrice)
(da Antonio Canova)
marmo, altezza cm 47.
Firmato lungo il bordo, sul lato a destra:
“L. BARTOLINI”
Provenienza:
collezione privata.
34 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
35
5.
Tra gli aspetti più interessanti dell’ attivita dello studio
di Lorenzo Bartolini è stata recentemente riconsiderata
(Si rimanda alle schede di Paride e di Jeanne-Françoise
Julie Adélaïde Bernard Récamier redatte da E. Spalletti
in Lorenzo Bartolini scultore del bello naturale, catalogo
della mostra di Firenze, Galleria dell’ Accademia, a cura
di F. Faletti, S. Bietoletti, A Caputo, Firenze, Giunti,
2011, pp. 190-193) la pratica, peraltro comune ad
altri atelier contemporanei, di realizzare copie perfette
di alcune opere particolarmente apprezzate di Antonio
Canova, ormai consacrato a modello così come lo
erano state e continuavano ad esserlo le sculture
antiche. Ma probabilmente c’era anche una richiesta
da parte dei collezionisti che non potendo aspirare
ad avere originali canoviani, esigevano almeno delle
riproduzioni d’ autore, di una qualità che si avvicinasse
quanto più possibile ai capolavori del maestro, come è
avvenuto nel caso della testa ideale di Beatrice, ma anche
di quella di un’ altra statua particolarmente apprezzata
quale il Paride anch’ essa replicata dallo scultore
toscano. Questo marmo appare del tutto simile, nelle
dimensioni e nella qualità a quello conservato in una
collezione privata fiorentina e presentato alla mostra
dedicata nel 2011 a Bartolini, con l’ unica differenza
che la scritta a lettere capitali “L. BARTOLINI” lì e
collocata sul retro e qui lungo il bordo sul lato destro
(Lorenzo Bartolini cit., pp. 192-193). La fedeltà di
queste versioni rispetto agli originali presuppone la
disponibilità da parte di Bartolini di calchi in gesso dei
modelli allora presenti nello studio del grande scultore
e ora nella Gipsoteca di Possagno, calchi eseguiti dagli
ottimi operatori di cui Canova disponeva proprio per
andare incontro alle frequenti richieste.
36 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
37
La testa di Beatrice era stata inizialmente concepita come
una sorta di ritratto idealizzato di Juliette Récamier (1777
– 1849), del quale nel 1813 aveva plasmato il modello in
gesso conservato appunto a Possagno. Fu in quell’ anno
che lo scultore aveva avuto l’ occasione di ritrarre ad
Albano, dove la donna esiliata dalla Francia napoleonica
risiedeva, la grande amica e corrispondente.
Ci volle però molto tempo perché dal gesso venisse
ricavata la versione in marmo che alla morte di Canova,
nel 1822, si trovava ancora nello studio di Roma e solo
successivamente sarà donata all’ effigiata dal fratellastro ed
erede dell’ artista Giambattista Sartori. Fu probabilmente
in quella circostanza che la statua, non ancora conclusa,
venne portata a termine dagli antichi collaboratori con l’
aggiunta di una corona d’ ulivo non presente nel modello.
Il Sartori accompagnò questo dono così speciale con i
celebri versi danteschi: “Sovra candido vel, cinta d’ oliva /
Donna m’ apparve” e l’ attestazione: “Ritratto di Giulietta
Récamier modellato da Canova nel 1813 e poi consecrato
in marmo col nome di Beatrice” (Si rimanda alle schede
aggiornate di F. Mazzocca, in Antonio Canova, catalogo
della mostra di Venezia, Museo Correr, e Possagno,
Gipsoteca, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 323-325 e S.
Picot- Bocquillon, in Juliette Récamier muse et mécène,
catalogo della mostra di Lyon, Musée des Beaux-Arts,
a cura di S. Paccoud e L. Widerkeher, Lyon, Hazan,
2009, pp. 83-85). In realtà da quel modello in gesso
erano già state ricavate le diverse versioni, a partire da
quella non ancora rintracciata realizzata nel 1817-1818
per Leopoldo Cicognara, della testa ideale di Beatrice
che si ricollegava a quella della petrarchesca Laura e alle
altre teste ideali concepite da Canova negli ultimi anni.
È significativo che, dopo la morte di Canova, Bartolini,
38 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
il quale ambiva a prendere il suo posto come maggiore
scultore italiano contemporaneo, eseguendo la copia
della Beatrice abbia guardato ad un nuovo aspetto della
poetica canoviana. Infatti con questa testa ideale, dedicata
alla musa ispiratrice di Dante, lo scultore aveva inteso
proporre un diverso tipo di bellezza che si distaccava dai
canoni classsici, dall’ antico per avvicinarsi alla sensibilità
moderna, una – come la definì - “bellezza italiana”,
ispirata ai sublimi versi di Dante, ai dipinti e alle sculture
dei cosiddetti Primitivi, dalle tavole dell’ Angelico e del
Perugino ai marmi di Donatello e di Ghiberti, diventati in
questi anni oggetto di studio e di confronto.
Ma soprattutto, come sottolineò Cicognara destinatario
della prima versione della Beatrice, l’ artista aveva inteso
esprimere un “quasi nuovo genere di imitazione del
naturale per cui” aveva “preso a consulta la bella, gentile
e semplice natura cogli accorgimenti del grande artista
che nasconde ogni artificio dell’ arte” (si vedano al
proposito le Lettere inedite di Leopoldo Cicognara ad
Antonio Canova, a cura di L. Rusconi, Padova 1839;
ampiamente citate da F. Mazzocca nella scheda ricordata
alla nota precedente). Tornando alla nostra scultura,
questa raffinata versione della testa ideale di Beatrice è
una testimonianza fondamentale per chiarire le fonti del
naturalismo di Bartolini, destinato a segnare una svolta
nel corso della scultura italiana. Mentre la straordinaria
qualità dell’ esecuzione conferma come il confronto
con Canova sia stato perseguito anche sul versante di
una tecnica impeccabile, tale da rendere, attraverso una
estrema rifinitura, viva e palpitante nella sua luminosa
trasparenza la superficie del marmo.
Fernando Mazzocca
39
francesco
hayez
Venezia, 1791
Milano, 1882
Maria Stuarda condotta al supplizio
1826-1827 circa
olio su tavola, cm 47x65,5.
Provenienza:
Milano, Finarte, Asta di dipinti del XIX secolo,
Asta 317, 19 giugno 1979, lotto n. 107;
Milano, Il Ponte Casa d’ Aste. Importanti dipinti del
XIX secolo, 1 dicembre 2001, lotto n. 56;
collezione privata.
Bibliografia:
Elenco ms. s.d., I, Quadri storici ed allegorici, n. 19;
F. Hayez, Le mie memorie, con appendice a cura di
G. Carotti e con discorso di E. Visconti Venosta,
Milano 1890, p. 275;
F. Mazzocca, Francesco Hayez. Catalogo ragionato,
Federico Motta Editore, Milano 1994,
n. 98, p. 176 (ill.);
F. Mazzocca (a cura di), Francesco Hayez,
Silvana Editoriale, Milano 2015, p. 140 (ill.).
40 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
41
6.
Francesco Hayez
Venezia, 1791
Milano, 1882
Maria Stuarda condotta
al supplizio,
1826-1827 circa
olio su tavola
cm 47x65,5
42 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
43
Passata due volte sul mercato antiquario, questa tavola
smagliante, perfetta nel suo stato di conservazione, è
da porre in relazione ad uno dei dipinti più importanti
di Hayez, un grande capolavoro del Romanticismo
europeo, la monumentale Maria Stuarda che sale al
patibolo (Fig. 1); olio su tela cm. 211 x 290 (Milano,
Collezione Banca Cesare Ponti. Sul dipinto e la sua
estesa bibliografia si rimanda a F. Mazzocca, Francesco
Hayez. Catalogo ragionato, Milano, Federico Motta
Editore, 1994, pp. 176-178 n. 99; E. Lissoni, in
Francesco Hayez, catalogo della mostra di Milano,
Gallerie d’ Italia, a cura di F. Mazzocca, Cinisello
Balsamo - Milano, Silvana Editoriale, 2015, pp. 140143 n. 30).
La grandiosa scena corale, dove i numerosi personaggi
sono quasi tutti ritratti di persone contemporanee,
entrava, dopo la trionfale presentazione all’ esposizione
di Brera del 1827, a far parte della prestigiosa
quadreria del barone tedesco Ludwig von Seufferheld,
presso palazzo già Passalaqua in contrada del Morone,
decorato da affreschi di Appiani. Della collezione
facevano parte altri quadri di Hayez, Palagi, Molteni e
d’ Azeglio che la renderanno, insieme a quella di un’
altra famiglia d’ origine tedesca i Mylius, una delle più
importanti della città.
Questa versione dello stesso soggetto, realizzata
su tavola, dovette precedere quella ad olio su tela
di tanto maggiori dimensioni e fu eseguita, stando
all’attendibile Elenco manoscritto delle opere di Hayez
(Elenco ms. s.d., Quadri storici e allegorici, n. 19,
Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Fondo Hayez.
La meno attendibile lista pubblicata da Giulio Carotti,
in appendice all’ edizione delle Memorie, riporta un’
indicazione errata del proprietario, cfr. F. Hayez, Le
44 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
mie memorie, con appendice a cura di G. Carotti e con
discorso di E. Visconti Venosta, Milano, Tipografia
Bernardoni, 1990, p. 275.), conservato adesso presso
il fondo di documenti dell’ artista acquistato dalla
Biblioteca Nazionale Braidense, per Antonio Chiesa
Molinari uno dei più appassionati collezionisti di
Hayez, del quale possedeva una decina di dipinti, tra
cui l’ Ila rapito dalle Ninfe del 1825 e il Bagno di Ninfe
del 1826, tutti non ancora rintracciati tranne questo.
Lo straordinario estro narrativo della versione grande è
felicemente anticipato in questo dipinto dove l’ artista
veneziano mostra di saper comporre, pur in dimensioni
ridotte, una magnifica e ben orchestrata scena corale.
Infatti, nonostante il gran numero dei personaggi,
riesce a rendere ciascuno con la propria individualità,
caratterizzandolo dal punto vista del costume, degli
atteggiamenti e della fisionomia. La composizione,
con la folla che sembra emergere lentamente dal fondo
entrando dall’ ampio arco gotico per occupare il primo
piano con un effetto quasi cinematografico, presenta
un’ impostazione molto simile nella suddivisione dei
vari gruppi e nella posizione delle figure principali,
anche se poi sono molte le differenze, soprattutto per
quanto riguardo le fisionomie ed i costumi, a partire
da quello della protagonista. Forse anche in questa
prima redazione il pittore ha dato ad alcuni personaggi
il volto di amici o di persone che frequentava e che
passarono dal suo studio. Ma la differenza sostanziale
è nella qualità della stesura pittorica, in entrambi i
dipinti eccezionale, dovuta al differente uso della tavola
in questa prima versione e della tela nella seconda.
Dipingere su quel primo tipo di supporto, ora meno in
uso e che rimandava agli antichi maestri, consentiva ad
Hayez – che tra gli anni venti e trenta utilizzava spesso la
tavola ed in particolare nei ritratti – di rendere i colori
smaglianti con un raffinato effetto quasi di smalto.
Nel repertorio del Romanticismo la vicenda dell’
infelice regina di Scozia è diventato uno dei soggetti
prediletti, sia sulle scene tra il dramma (Schiller) e l’
opera in musica (Mercadante, Donizetti), sia in pittura
dove Hayez, pur preceduto da una serie di pittori
francesi che non ha avuto occasione di conoscere,
diventa il maggiore interprete del tema da lui trattato
in diverse occasioni. Maria Stuarda veniva così
identificata nell’ immaginario collettivo come la martire
cattolica la cui iconografia finiva con sovrapporsi,
proprio nel momento in cui andava al patibolo, con
quella di Cristo che sale al Calvario. Anche se in
definitiva finiva per prevalere la forza di una pittura che
riusciva a confrontarsi con la letteratura e la musica
nel restituire le emozioni e il fascino di una vicenda
che aveva sostituito, nella sensibilità del pubblico
contemporaneo, a quella classica una nuova mitologia
moderna.
Fernando Mazzocca
Fig. 1
45
raimondo
trentanove
Faenza, 1792
Roma, 1832
Busto maschile, 1832
marmo, altezza cm 65.
Firmato e datato sul retro:
“R. Trentanove fece Roma 1832”
Provenienza:
collezione privata.
46 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
47
7.
Quest’ opera conferma con la sua qualità le doti di
ritrattista di Raimondo Trentanove, un artista di
sicuro talento e di grandi promesse, cui solo la morte
sopraggiunta ad appena quarant’ anni impedirà di
raggiungere la fama alla quale pareva destinato,
anche perché figlio d’ arte, nato in quella Faenza
che era stata una straordinaria officina dell’arte
neoclassica (L’età neoclassica a Faenza 17801820, catalogo della mostra di Faenza, Palazzo
Milzetti, a cura di A, Ottani Cavina et alii, Bologna,
Alfa, 1979, p. 223. In questa occasione sono stati
esposti il Busto di Napoleone, a lui tradizionalmente
attribuito del Museo del Risorgimento di Faenza e
il Busto del Cardinale Giambattista Zauli, firmato e
datato Roma 1818, che viene in realtà considerata
l’unica sua opera certa conservata nella città
d’origine). Il padre Antonio aveva infatti svolto
un ruolo di rilievo, come decoratore in stucco di
grande versatilità e raffinatezza, negli straordinari
cantieri dell’ architetto Giuseppe Pistocchi e di
Felice Giani, quei palazzi, come quello Milzetti, che
avevavo fatto di Faenza negli anni napoleonici la
piccola Atene della Romagna.
Raimondo, prima di trasferirsi a Roma, luogo di
elezione di chi voleva affermarsi in scultura, si
era formato, soprattutto dal punto di vista della
tecnica, in quella vera fucina di talenti che fu allora
l’ Accademia di Belle Arti di Carrara, protetta e
finanziata dalla sorella di Napoleone Elisa Baciocchi
granduchessa di Toscana. Qui era stato per lui
decisivo seguire le direttive di due maestri come
Giacomo De Maria e Lorenzo Bartolini.
Questa preparazione gli consentì di presentarsi a
48 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
Roma con le credenziali giuste per intraprendere una
carriera fortunata. Fu del resto favorito anche dal suo
fascino personale, come dalle sue riconosciute doti
di cantante, fornito di una straordinaria estensione
vocale che andava dal basso profondo a soprano, per
cui venne conteso dai migliori salotti romani.
Egli si era prefissato come primo traguardo, cui
non molti erano in grado di poter aspirare, quello
di entrare nello studio di Canova e le fonti lo
documentano come uno trai suoi più apprezzati
collaboratori. Venne impegnato su diversi fronti,
a partire dalla riproduzione delle sculture del
maestro, tra cui l’ Autoritratto (Milano, Galleria
d’ Arte Moderna), per poi affidargli anche opere
originali, come il busto del Perugino eseguito nel
1815 e quello di Cristoforo Colombo nel 1817,
entrambi destinati alla serie dei ritratti degli illustri
italiani voluta da Canova per essere collocata al
Pantheon e che troverà invece la sua sede definitiva,
quella attuale, nella Protomoteca Capitolina in
Campidoglio (V. Martinelli, C, Pietrangeli, La
Protomoteca Capitolina, Roma 1955, pp. 65, 77).
Questo stretto e fondamentale rapporto di
collaborazione con il maestro riguarda in particolare
una delle imprese canoviane più impegnative
degli ultimi anni, il perduto Monumento a George
Washington destinato al Campidoglio di Raleigh
nello stato del North Carolina dove andò distrutto
da un incendio a pochi anni dalla sua realizzazione
(G. Capitelli, Il monumento a George Washington
a Raleighi, North Carolina. Modalità di una
committenza d’oltreoceano in “Studi Neoclassici”,
I, 2013, pp. 181-190; G. Capitelli, Jefferson e la
49
prima stagione della statuaria pubblica negli Stati
Uniti, in Jefferson e Palladio. Come costruire un
mondo nuovo, catalogo della mostra di Vicenza
(Palladio Museum) a cura di G. Beltramini, F. Lenzo,
Milano-Vicenza 2015, pp. 116-121). A Raimondo
venne affidata l’ esecuzione dei bassorilievi, che
decoravano il piedistallo della statua canoviana,
relativi alle gesta del grande statista.
La fonte più diretta per ricostruire le vicende di
questa commissione sono le lettere tra Canova e il
bostoniano Thomas Appleton, amico del presidente
50 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
Thomas Jefferson che nel 1797 lo aveva nominato
console a Livorno, dove trascorrerà il resto della
sua vita. Fu lo stesso a volerlo da intermediario per
seguire il prestigioso incarico affidato dalla giovane
Repubblica americana allo scultore “considered
by all Europe as withouth a rival”. Venne in realtà
proprio da Appleton, con cui Canova intrattenne una
lunga corrispondenza, il suggerimento del nome di
Trentanove, per cui il 28 luglio 1817 aveva scritto
allo scultore, proponendogli per l’ esecuzione
del “piedistallo, e gli emblemi, che devono esere
scolpiti nelle quattro parti”, “un giovine, che ho
inteso essere sotto la sua direzione, e per il quale
ho mota stima, e amicizia”. Il giovane scultore
faentino, che probabilmente vista la vicinanza con
Livorno conosceva il console americano sin dagli
anni trascorsi a Carrara, doveva essere a quella data
già noto, stimato e richiesto nel giro di quella società
cosmopolita da cui tanto dipendevano ancora le
sorti dell’ arte italiana e della scultura in particolare.
Resta un fatto molto significativo che nel periodo, tra
il 1817 e il 1821, in cui venne eseguito il Monumento
a George Washington, sul quale Canova si impegnò
moltissimo e che verrà celebrato universalmente
come uno straordinario capolavoro, Trentanove
lavorasse nello studio del grande scultore in via San
Giacomo frequentato dai maggiori collezionisti del
mondo. Fu probabilmente in quegli anni che ebbe
occasione di venire in contatto con gli aristocratici
inglesi per cui realizzò busti e opere di carattere
mitologico, come la Vestale destinata al duca di
Devonshire che si trova ancora a Chatsworth (Per le
altre opere vedi G. Hubert, La sculpture dans l’ Italie
Napoléonienne, Paris, Éditions E. De Boccard,
1964, p. 175). Sempre tramite il grande scultore
dovette entrare nel giro della famiglia Bonaparte per
cui Canova aveva eseguito tanti capolavori. Datano
proprio al 1818 i due bellissimi busti in collezione
privata di Luciano Bonaparte, Principe di Canino,
fratello di Napoleone, e della moglie Alexandrine
Blechamp, che risentono ancora molto della
suggestione del maestro (F. Mazzocca, Roma 1818:
George Washinghton, il Bonaparte che rinunciò a
un regno e un giovane scultore virtuoso del canto
nell’ atelier di Canova, s.n.t, Orsini, Arte Antica
– Libri rari, s.d), come quello di Letizia Ramolino
Bonaparte, madre dell’ imperatore, acquisito nel
1982 dalla Galleria Nazionale di Parma, dove si
avverte invece la nuova suggestione del naturalismo
di Bartolini con cui si era formato a Carrara (Scheda
di G. Gasparotto, in Galleria Nazionale di Parma.
Catalogo delle opere. L’ Ottocento e il Novecento, a
cura di L. Fornari Schianchi, Milano, Franco Maria
Ricci, 2001, p. 11).
Appare affrancarsi ancora di più da Canova, per
accostarsi oltre che a Bartolini (Lorenzo Bartolini
scultore del bello naturale, catalogo della mostra
di Firenze, Galleria dell’ Accademia, a cura di
F. Faletti, S. Bietoletti, A. Caputo, Firenze,
Giunti, 2011) a Thorvaldsen (S. Grandesso,
Bertel Thorvaldsen, 1770 – 1844, Cinisello
Balsamo - Milano, Silvana Editoriale, 2010),
che iniziò a frequentare dopo la scomparsa nel
1822 del maestro, proprio in questo busto dove
risulta peraltro raggiungere una cifra molto
personale. L’ opera si può considerare come una
sorta di testamento artistico, in quanto realizzata
nel 1832, l’ anno della morte. Vi ritroviamo
quella sorvegliata idealizzazione tipica di certi
ritratti del grande scultore danese, da cui però si
discosta nell’ originale raggiungimento di una
forte caraterizzazione psicologica e nella qualità
della modellazione, straordinaria soprattutto nella
resa della folta capigliatura e del movimentato
panneggio all’ antica che nobilita l’ immagine.
Fernando Mazzocca
51
vincenzo
camuccini
Roma, 1771
Roma, 1844
La morte di Cesare
olio su tela, cm 38x70.
Provenienza:
Roma, Finarte, Arredi, Dipinti, Maioliche e
Porcellane da una villa lombarda
e altre provenienze, Asta 950,
25 ottobre 1995, lotto n. 306;
collezione privata.
52 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
53
8.
Vincenzo Camuccini
Roma, 1771
Roma, 1844
La morte di Cesare
olio su tela
cm 38x70
La paternità del dipinto, comparso a un’ asta
Finarte nel 1995 con l’ attribuzione a Pelagio Palagi
sulla base del confronto con un quadro molto simile,
ma di maggiori dimensioni (olio su tela, cm. 114 x
194) conservato alla Galleria d’ Arte Moderna di
Bologna, va restituita a Vincenzo Camuccini. Questa
conclusione si deve non solo ai caratteri formali e
alla qualità che rimandano al grande protagonista
del Neoclassicismo a Roma, ma anche al fatto che nel
frattempo il dipinto bolognese, che si considerava
54 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
una copia eseguita durante il suo soggiorno
romano da Palagi dal capolavoro di Camuccini (G.
Zucchini, Catalogo delle Collezioni comunali d’ arte
di Bologna, Bologna, Grafiche Nerozzi, 1938, p.
138; R. Grandi, Sull’ attivita bolognese e romana
di Pelagio Palagi, in “Musei ferraresi – Bollettino
annuale”, 4, 1974, p. 75; R. Grandi, in Pelagio
Palagi artista e collezionista, catalogo della mostra
di Bologna, Museo Civico, a cura di R. Grandi, C.
Morigi Govi e altri, Bologna, Grafis, 1976, pp.
58-59), è stato giustamente restituito da Claudio
Poppi allo stesso Camuccini, come del resto veniva
indicato nei documenti che ne attestavano la
provenienza dalla collezione di Giovanni Aldini e
non già dal fondo palagiano entrato nel 1861 nelle
civiche raccolte bolognesi (C. Poppi, in Pelagio
Palagi pittore. Dipinti dalle raccolte del comune di
Bologna, catalogo della mostra di Bologna, Museo
Civico Archeologico, a cura di C. Poppi, Milano,
Electa, 1996, pp. 192-194). Lo studioso ha
avanzato l’ ipotesi condivisibile che possa trattarsi
del modello, e in questo caso allora il nostro sarebbe
un bozzetto preliminare, della grande composizione
de La morte di Cesare, il monumentale dipinto
commissionato al giovane Camuccini nel 1793 da
Frederick August Hervey, quarto conte di Bristol
e vescovo di Derby, uno dei maggiori collezionisti
del suo tempo (J. Ingamells, A Dictionary of British
and Irish Travellers in Italy 1701 – 1800, New
Haven e London, Yale University Press, 1997,
55
pp. 126-130). Seguirà nel 1799 la richiesta di
un pendant con un altro soggetto sublime ispirato
sempre alla storia romana La morte di Virginia.
Quest’ ultimo quadro venne portato a conclusione
nel 1804, quando fu esposto con grande successo
nello studio dell’ artista, mentre La morte di Cesare,
già terminata e presentata al pubblico nel 1799, pur
avendo riscosso l’ ammirazione di Ennio Quirino
Visconti, Giovanni Gherardo De Rossi, Seroux d’
Agincourt e Canova (C. Falconieri, Vita di Vincenzo
Camuccini, Roma 1875, p. 41), venne distrutta dal
suo autore come segno di protesta verso le riserve
espresse dalla critica (Vincenzo Camuccini 1771 –
1844. Bozzetti dallo studio dell’ artista, catalogo
della mostra di Roma, Galleria Nazionale d’ Arte
Moderna, a cura di G. Piantoni, Roma, De Luca,
1978, p. 30). Essendo passata la commissione dei
due dipinti, dopo la morte di Lord Bristol nel 1803,
a Gioacchino Murat, La morte di Virginia arrivò
nel 1807 a Napoli, mentre La morte di Cesare, di
cui Camuccini realizzò una seconda versione, sarà
conclusa e giungerà a destinazione, il Palazzo Reale
partenopeo, solo nel 1818, acquisita quindi dal
restaurato Ferdinando I di Borbone (U. Hiesinger,
The Paintings of Vincenzo Camuccini 1771 – 1844,
in “The Art Bulletin”, 1978, pp. 299-300; E. di
Majo, in Civiltà dell’ Ottocento. Le arti a Napoli dai
Borbone ai Savoia, catalogo della mostra di Napoli,
Museo Nazionale di Capodimonte, a cura di N.
Spinosa, Napoli, Electa, 1997, p. 460).
Le due opere, ora unite a altri monumentali dipinti
di Pietro Benvenuti e di Francesco Hayez, si trovano
nel Museo Nazionale di Capodimonte.
56 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
Mentre il dipinto oggi conservato alla Galleria
Nazionale d’ Arte Moderna di Roma (Fig. 1; olio
su tela, cm. 112 x 195), che l’ha acquistato dagli
eredi Camuccini (F. Leone, scheda in Romantici e
Macchiaioli. Giuseppe Mazzini e la grande pittura
europea, catalo della mostra di Genova, Palazzo
Ducale, a cura di F. Mazzocca, Milano, Skira,
2005, pp. 229-230), è considerato il modello
“eseguito nel corso della stesura della grande tela
di Capodimonte e sempre rimasto nello studio del
pittore, verosimilmente come riferimento per la
realizzazione di altri dipinti dello stesso soggetto
che gli furono commissionati in seguito di diverse
dimensioni” (G. Piantoni, L’ opera della domenica:
Vincenzo Camuccini, Morte di Giulio Cesare,
Galleria Nazionale d’ Arte Moderna, 22 febbraio
1998), Roma 1998, p.2), la tela della Galleria d’
Arte Moderna di Bologna già attribuita a Palagi, che
ha praticamente le stesse dimensioni, doveva avere
una funzione analoga rispetto alla prima versione.
Mentre il nostro dipinto, che va posto in stretta
relazione, deve essere stata una redazione di piccolo
formato che, come sappiamo, Camuccini aveva
realizzato di un’ opera che esprimeva al meglio la
vocazione del suo classicismo eroico.
La vicenda, che in quel momento assumeva anche
un’ attualità politica dato che proprio nel 1799
il Giulio Cesare di Voltaire veniva rappresentato
al Teatro Apollo di Roma e aveva avuto grande
risonanza anche nella tragedia di Alfieri Bruto
secondo del 1785 (F. Mazzocca, I grandi temi
tragici, in Vittorio Alfieri aristocratico ribelle (17491803), catalogo della mostra di Torino, Archivio di
Stato, a cura di R. Maggio Serra, F. Mazzocca, C.
Sisi, C. Spantigati, Torino, Electa, 2003, p. 53),
era ispirata a Plutarco, una delle fonti privilegiate
dalla pittura neoclassica ed in particolare da David.
Camuccini
può considerarsi il corrispettivo
italiano del maggior interprete del Neoclassicismo
pittorico. Ha infatti dato in quest’ opera, che
rimane il risultato più alto della sua brillante vicenda
creativa, un’ interpretazione molto originale di
un linguaggio classicista, elaborato tra Roma e
Parigi in quegli anni, che riesce a rinnovare la
tradizione della grande maniera basata sui modelli
dell’ antico, di Raffaello e di Poussin. Nello spazio
architettonico semplice e solenne, nobilitato dalla
presenza delle sculture antiche, le figure, avvolte in
panneggi dalle linee dinamiche, restituiscono forza
e attualità a un evento straordinario depositato dagli
storici e dai drammaturghi, Plutarco, Shakespeare,
Voltaire, Alfieri, nell’ immaginario collettivo.
Camuccini rivela una nobiltà di stile che si rivela
particolarmente congeniale a rendere la “grandiosa
elementarità”, come ha sottolineato Mario Fubini,
dei versi alfierani che devono essere stati la sua guida
nella realizzazione dei due capolavori destinati al
grande collezionista irlandese e poi acquistati da
due discussi sovrani.
Fernando Mazzocca
Fig. 1
57
francesco
pozzi
Portoferraio (Livorno ), 1790
Firenze, 1844
Busto femminile, 1824
marmo, altezza cm 66.
Firmato e datato sul retro:
“F.co Pozzi F.e / In Roma 1824”
Provenienza:
collezione privata.
58 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
59
9.
Questo elegantissimo busto femminile è la rara
testimonianza di un artista molto dotato, ma ancora
poco noto, in particolare per quanto riguarda la
ritrattistica, Francesco Pozzi che, originario dell’
Isola d’ Elba, ha conosciuto una certa fama nell’
ambito della scultura di carattere monumentale
(F.M., Necrologia, in “Giornale del Commercio”,
24 prile 1844; G. E. Saltini, Le Belle Arti in Toscana
da mezzo il secolo XVIII ai di nostri, Firenze
1862, p. 31; Cultura neoclassica e romantica
nella Toscana granducale, catalogo della mostra di
Firenze, Galleria d’ Arte Moderna di Palazzo Pitti,
a cura di S. Pinto, Firenze, Centro Di, 1972, pp.
40-41, 63, 122, 218-219; V. Vicario, Gli scultori
italiani dal Neoclassicismo al Liberty, Lodi 1990,
pp. 503-504; A. Panzetta, Nuovo Dizionario
degli scultori italiani dell’ Ottocento e del primo
Novecento da Antonio Canova a Arturo Martini,
Torino, AdArte, 2003, p. 701). Si era formato all’
Accademia di Belle Arti di Firenze, vincendo nel
1812 il premio maggiore della scultura con una
statua di Dante che verrà esposta in permanenza
nella sala destinata alle opere premiate. Nel 1816
aveva vinto una borsa di studio a Roma, dove
seppe subito inserirsi ad alto livello, dato che
risultano le sue frequentazioni di Canova, Landi,
Camuccini, Stern e Thorvaldsen; mentre la sua
intraprendenza lo portò ad ottenere commissioni
da collezionisti e mecenati importanti. I suoi
progressi sono testimonaiti dalle opere inviate a
Firenze ed esposte in Accademia, come nel 1817
il gesso del Ciparisso e nel 1820 quello della
Baccante con piccolo fauno e pantera (entrambi
60 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
61
nella raccolta della Galleria d’ Arte Moderna di
Palazzo Pitti, come una Testa ideale in marmo di
impronta canoviana che aveva inviato nel 1819 in
omaggio al Granduca), opere che molto apprezzate
gli daranno notorietà e commissioni. Tra queste il
gruppo di una Danzatrice con Amore che la invita
alla danza eseguito in marmo per il Granduca e
destinato al Salone della Musica negli appartamenti
del secondo piano nobile di Palazzo Pitti; una
Carità per un monumento funerario dei Colonna a
Roma; un nuovo gruppo di Giove e Antiope.
Una svolta nella sua carriera è segnata dalla
nomina nel 1823 a professore di scultura presso l’
Accademia di Firenze, cui seguirà la realizzazioni
di opere significative, come la Sivia e Latona con
i figli, sempre improntate a una elegante cifra
neoclassica, e nuovi incarichi importanti, come
quelli per i Borbone di Lucca e soprattutto il
grandioso monumento al Granduca Ferdinando
III commissionatogli nel 1831 dal Comune di
Livorno per la piazza del Voltone (oggi piazza
della Repubblica) dove sarà inaugurato nel 1847
(G. Piombanti, Guida storica e artistica di Livorno,
Livorno 1903, p. 275). Nel frattempo continuò
a lavorare con grande fervore, eseguendo diverse
tombe in chiese fiorentine come Santa Croce,
(Santa Croce nell’ Ottocento, catalogo della
mostra di Firenze, Basilica di Santa Croce, a cura
di A. Calvani, M.G. Ciardi Duprè Dal Poggetto,
Firenze, Alinari, 1986) e San Marco, altre sculture
per il Granduca che ancora arredano gli ambienti
di Palazzo Pitti. Infine nel 1843 ebbe la prestigiosa
commissione della statua di Farinata degli Uberti
62 dipinti e sculture dal XVII al XIX secolo
per il Loggiato degli Uomini Illustri degli Uffizi,
opera che si accinse a “sculpire – come aveva
promesso – con tutta l’ attenzione e il maggior
impegno”. Ma tre mesi prima della scadenza,
prevista per il giungo del 1844, la morte gli impedì
di rifinire la statua che sarà condotta a termine
da Emilio Santarelli (S. Iacopozzi in Gli Uomini
Illustri del Loggiato degli Uffizi. Storia e restauro,
a cura di M. Scudieri, Firenze, Edifir, 2001, pp.
188-193).
Rarissimo esempio della sua ritrattistica, questo
busto, datato 1824, testimonia come, anche dopo
il suo ritorno nel 1823 a Firenze e l’ insegnamento
in Accademia, Pozzi avesse mantenuto i legami con
Roma dove si era formato e aveva avuto i primi
importanti clienti, quali i Colonna. Anche se non
è nota l’ identità dell’ effigiata, il suo aspetto ci
riporta ad un ambiente aristocratico confermato
dall’ eleganza dell’ abito e dell’ acconciatura,
elementi che assumono un assoluto rilievo, in
particolare i riccioli che ricadono ai due lati,
incorniciando l’ ovale perfetto del volto, mentre
il resto dei capelli è raccolto con complicate volute
sopra la nuca. Pozzi dimostra così la sua grande
perizia tecnica tale da sfiorare il virtuosismo,
unito ad un naturalismo, nella resa del ritratto, che
rimanda a Thorvaldsen e Bartolini, i due maggiori
scultori del tempo cui ha guardato come modelli.
Naturalismo che appare comunque mitigato da una
certa idealizzazione, retaggio della sua formazione
rigorosamente neoclassica.
Fernando Mazzocca
63
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