Alimentazione e abbigliamento nel mondo
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Alimentazione e abbigliamento nel mondo
1 2.- Alimentazione e abbigliamento di Mariano FRESTA L'aspetto su cui è opportuno insistere, quando si parla di alimentazione nel mondo mezzadrile da un punto di vista socio-antropologico, è quello dei rapporti necessariamente esistenti tra alimentazione e strutture economiche e sociali dominanti. Se si parlasse, infatti, solo di ricette culinarie, avremmo un panorama gastronomico non molto diverso da quello che si ottiene studiando altre comunità contadine non mezzadrili e non toscane; l'approccio socioantropologico, invece, ci consente di capire il perché di certi modi e di certe consuetudini alimentari. Abbiamo visto già nei capitoli relativi alla storia della mezzadria e al contratto colonico che l'unità poderale si caratterizzava per la sua economia chiusa ed autosufficiente, che impediva al mezzadro di modificare le sue condizioni materiali di vita, relegandolo in una situazione generale di povertà e soprattutto in una quasi totale assenza di circolazione di denaro, che rendeva quasi impossibile l'accesso a beni alimentari e di consumo che il podere non produceva. I pochi scambi con l'esterno, infatti, si limitavano solo all'acquisto del sale, dei fiammiferi, del petrolio e delle candele per l'illuminazione, del baccalà e delle aringhe, del refe per cucire, del tabacco. Ma oltre a questi condizionamenti di ordine economico e commerciale, bisognerà tenere conto, per parlare di alimentazione e vestiario nella società mezzadrile, di altri fattori che rendono difficile dare alla questione una valutazione e un giudizio generalizzati e generalizzanti. Come giustamente ha fatto osservare Pietro Clemente, «il primo grande problema che si presenta nella ricostruzione della condizione di vita contadina dei mezzadri è la estrema varietà, dentro schemi generali simili, delle realtà poderali e coloniche… Con le aree geografiche variano le colture, le dimensioni poderali, le risorse integrative…»1. Ma variano anche le dimensioni delle famiglie, variano i rapporti con i fattori ed i padroni (ci sono quelli buoni e quelli cattivi, quelli autoritari e quelli indulgenti); c'è la diversità fra i poderi di pianura e quelli di collina; varia la distanza tra poderi e centri abitati, ecc.; tutti questi elementi fanno sì che non si possa fare un discorso unico per tutte le situazioni, anche se è possibile tracciare una linea di tendenza generale, che sarà tanto più credibile quanto più si restringe l'area geografica di indagine. E c'è poi da aggiungere che, nonostante la molteplice varietà dei casi, la mezzadria appare comunque caratterizzata da una invarianza di fondo: parlando con mezzadri di varia provenienza geografica o confrontando le testimonianze degli ultimi mezzadri con quanto ci riporta la letteratura storica si ha l'impressione che, nonostante le distanze temporali e spaziali, tutto sia stato uguale dovunque e per sempre. Questo carattere di invarianza dipende senza dubbio dal fatto che l'istituto mezzadrile si è formato e consolidato in un tempo piuttosto lungo, mantenendo strutture e sovrastrutture (per usare termini marxiani) pressoché identiche dal XVII fino al XX secolo, non toccate quasi per niente dall'avvento e dalla forza d'urto della rivoluzione industriale, nonché dall'avvento del liberismo e del capitalismo. Sul vestiario, oltre alle condizioni materiali di vita e alla povertà delle materie prime, hanno influito anche le leggi suntuarie che fino al sec. XIX hanno dettato le norme per contenere ed impedire le spese di lusso e che alla lunga hanno contribuito a creare precise abitudini di abbigliamento scomparse solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Già nel 1587 una legge dello Stato di Firenze decretava che «alle contadine sia proibito di portar perle, 1 P. Clemente, I «selvaggi» della campagna toscana: note sulla identità mezzadrile nell'Ottocento e oltre, in Clemente et Alii, Mezzadri, letterati e padroni, Palermo, Sellerio 1980, p. 104. 2 né altre gioie né vere né false … né drappi di seta…»2. Anche Pietro Leopoldo, futuro Imperatore d'Austria, si lamentava, alla fine del Settecento, quando ancora era Granduca di Toscana, del «lusso eccessivo che si è introdotto da qualche tempo nel vestiario» dei contadini. Come in tutte le regioni italiane, anche in Toscana era in uso un costume particolare, ma questo scomparve già intorno alla metà del sec. XIX , sostituito da un abbigliamento meno rigoroso e più vicino alla moda che si andava affermando nel corso dell'Ottocento. L'abbigliamento delle donne comprendeva il vestito, composto da corpetto, gonna, sottana, busto e camicia; scialle, fazzolettone e grembiule; fazzoletto da testa, calze e calzature (scarpa per le occasioni festive, zoccoli per il lavoro, pianelle per casa). La gonna era ampia e lunga quasi fino a terra; il grembiule aveva larghe e comode tasche. Gli uomini, abbandonati verso la metà del sec. XIX i pantaloni corti, indossavano pantaloni lunghi, camicia di tela o di cotone, senza colletto, ed il panciotto; la giacca ed il cappello completavano il vestiario maschile. La quasi totale mancanza di denaro costringeva le famiglie mezzadrili alla produzione domestica delle stoffe necessarie alla messa in opera di tutto il vestiario. In molti poderi c'era un terreno dedicato alla coltivazione della canapa (e talora anche del lino) e tutte le famiglie mezzadrili avevano in casa (o meglio, nella stalla, dove d'inverno si stava al caldo) un rozzo telaio su cui le donne si esercitavano a tessere una ruvida stoffa, il mezzolano, che serviva sia per l'abbigliamento invernale sia per quello estivo. In Val d'Orcia, data la poca fertilità dei terreni, era d'uso allevare delle pecore che, oltre al formaggio, davano anche un po' di lana. Nelle serate invernali, quando la famiglia si riuniva a veglia, mentre gli uomini chiacchieravano o giocavano a carte, le donne erano intente a tessere, a cardare la lana e la canapa, e a filarle. Ecco dalla bocca di una ex-mezzadra la testimonianza relativa a questa faticosa attività: Il filà … il filo si faceva tutto di notte, dopo cena, con la canape della nostra; s'incigliava da noi, si filava, si faceva tutto da noi. Ed ho filato tanto ancora io! Dio 'un ne rimandi! 3. Ma oltre al filare ed al tessere, le donne cucivano, rammendavano, confezionavano le camicie, le gonne ed il resto del vestiario. Agli uomini spettava, invece, nelle giornate di pioggia e di cattivo tempo, la confezione degli zoccoli. Questi erano le calzature di uso comune, perché grazie alla suola di legno, sopportavano a lungo l'usura della vangatura. La base, o sotto, era ricavata dal legno di ontano o di acero silvestre (in dialetto locale, testucchio), sulla quale si inchiodava, con bullette apposite, una tomaia ricavata da un vecchio paio di scarpe. Il sotto era irrobustito da pezzi di gomma presi da copertoni usati, con strisce di latta o con semplici bullette; la parte superiore si rinforzava o con toppe di cuoio o con strisce di latta, specie in punta. Il legno durava da ottobre a marzo; poi, se la tomaia era ancora resistente, si rifaceva un altro sotto. Da aprile a settembre i contadini andavano scalzi (Di marzo ogni baco va scalzo, recitava un proverbio), o indossando sandali sempre costruiti in casa, oppure scarpe di stoffa. Ad ornamento della persona, le donne portavano qualche gioiello; anzi, nessuna ragazza avrebbe pensato di andare sposa senza l'anello e senza la collana (vezzo) di perle e gli orecchini. Si trattava di gioielli di non grande valore, che, come abbiamo già visto, erano censurati dalle leggi suntuarie antiche ma anche dalla mentalità borghese dell'Ottocento e del Novecento; i proprietari dei fondi, infatti, e i loro agenti avrebbero preferito che le povere somme messe da parte dai mezzadri fossero depositate in libretti di risparmio presso le banche, invece di essere spese per l'acquisto di questi beni di lusso. Ma le donne opposero una forte resistenza a questi 2 La citazione si trova in P. De Simonis, L'abbigliamento, in Cultura contadina in Toscana, Firenze 1983, vol. II, p. 187. 3 La citazione è tratta da M. Fresta, Il passato nella memoria contadina, in «Annali Cervi», n. 2, Bologna, IL Mulino 1980. 3 moralismi e andarono all'altare sempre ornate di collana, anello ed orecchini. Tra l'altro, essi non perdevano valore e potevano comunque essere venduti o portati al Monte di Pietà in caso di bisogno. Riguardo all'alimentazione, nel quadro generale della mezzadria toscana, è possibile individuare "un'ottica alimentare" che è il risultato di un modellamento, costituitosi lungo il corso dei secoli, dell'organizzazione dei processi produttivi e dei rapporti sociali nelle campagne che, oltre a determinare la peculiare morfologia degli aggregati familiari, ha anche influenzato le pratiche alimentari. Quest'ottica alimentare, secondo lo storico Pazzagli, ha caratterizzato la mezzadria fino alla sua estinzione ed ha determinato un indirizzo produttivo di tipo sussistenziale, che non ha permesso al sistema mezzadrile di partecipare alla rivoluzione agraria dell'800, essendo la produzione poderale interamente finalizzata a colture di autoconsumo, destinate al fabbisogno domestico4. Questa economia sussistenziale era particolarmente presente in Val d'Orcia, dove le peculiari condizioni del terreno non permettevano la coltivazione dell'olivo e della vite, né davano sufficiente quantità di grano. La letteratura agraria segnala per la Val d'Orcia, intorno alla metà dell'Ottocento, rispetto alla vicina e ricca Valdichiana, condizioni di estrema povertà: il vitto giornaliero era costituito da "pane di meschiglia" (la farina di grano era mescolata con altre farine più povere - orzo, fave -), in quantità insufficiente e senza companatico, e da una minestra di legumi; modestissimo era inoltre l'uso dell'olio e del vino e minimo quello della carne. Nel Novecento la situazione non cambiò; nonostante alcuni lavori di sbancamento e di spianamento, le condizioni pedoclimatiche del suolo davano sempre risultati modesti. Un fattore importante non tanto di reddito quanto di possibilità di sussistenza era costituito dall'allevamento delle pecore. Queste fornivano un po' di carne ed un po' di formaggio, mai comunque sufficiente ai bisogni alimentari delle famiglie contadine; spesso queste erano costrette a sotterfugi, a piccoli furti pur di avere qualcosa da mangiare. Uno di questi espedienti consisteva nel tenere nascosto al padrone o ai suoi agenti che una pecora era pregna; così appena questa partoriva, poteva essere macellato per la famiglia un agnello più grosso, senza che diminuisse il numero dei capi, che era sempre tenuto sotto stretto controllo. Un altro mezzo per acquisire un po' di vitto in più era quello di approntare delle forme di cacio più piccole da destinare al padrone: secondo il contratto, al proprietario del podere spettava metà del cacio prodotto, confezionato in forme da un Kg; bastava togliere 50/70 grammi di cacio per ogni forma da dare al padrone per avere nel giro di qualche giorno una forma tutta per sé. In un contesto siffatto, un'importante centralità alimentare aveva il maiale, anche se il consumo della sua carne era ben lontano da quello odierno. Quest'importanza era dovuta sia al basso costo del suo allevamento, sia, viceversa, al suo grande potenziale apporto nutrizionale, sia al fatto che la sua carne può essere conservata, con opportune tecniche, per lungo tempo. Il maiale ha la virtù di essere onnivoro, mangia di tutto: scarti alimentari, radici, tuberi, ghiande, frutta avariata, ecc., che trasforma in carne e grasso. La sua uccisione era una buona occasione per una buona mangiata, a base di costoleccio; il resto della carne era destinato tutto alla conservazione: salsicce, fegatelli, prosciutto, capocollo, rigatino, guanciale, lardo, buristo (un insaccato composto da sangue, lardo e aromi vari), e soppressata (insaccato composto da cotenne, orecchie, zampe; il tutto cotto e aromatizzato con succo di limone). Lardo, rigatino, guanciale, buristo e soppressata erano usati per consumo familiare; le parti più pregiate erano consumate in occasione dei grandi lavori agricoli (mietitura, trebbiatura), quando bisognava ricompensare, con un vitto sostanzioso, gli altri contadini che erano venuti ad aiutare; così quando si vangavano le viti si mangiavano le salsicce, i fegatelli si mangiavano quando si falciava il fieno, il prosciutto quando dal campo si trasportavano sull'aia le manne (fastelli) del grano. Generalmente in Val d'Orcia si ricorreva al prosciutto solo una volta a settimana e, spesso, le fette di prosciutto somministrate dalla massaia erano così sottili da essere trasparenti. 4 Pazzagli C., Economia rurale del Mugello fino all'Ottocento, Firenze 1983, p. 15. 4 Anche il sugo per i maccheroni o i pici, era fatto non con la carne tritata ma col battutino bugiardo, ovverosia con un po' di lardo tritato. Ma il maiale è stato al centro anche sul piano dei rapporti tra i mezzadri e i proprietari dei fondi. Abbiamo visto che il contratto colonico conteneva norme per l'allevamento degli animali di bassa corte, ma non parlava mai del maiale. L'allevamento di questo animale, dunque, e il modo in cui doveva essere ripartito una volta macellato erano contemplati da accordi diretti tra le due parti; così c'erano proprietari che prelevavano, per la propria parte, solo un prosciutto; altri volevano metà della carne; altri ancora volevano che il suino fosse pesato e pagato per intero, visto che si era nutrito con i prodotti e gli scarti del podere. Di conseguenza, quando nel secondo dopoguerra si aprirono le ostilità fra mezzadri e padroni per ridiscutere la ripartizione degli utili dell'annata agraria, la rivendicazione, da parte mezzadrile, del suino gratis divenne un fatto importante e di grande presa sui mezzadri. Molti ironizzarono su questa lotta sindacale svolta in nome del maiale, ma si trattava di un'ironia fuori luogo, visto che la carne di questo animale costituiva la parte più importante dell'alimentazione di un'intera annata di una famiglia mezzadrile. Si trattava, dunque, di un buon motivo su cui basare una rivendicazione sindacale. Altre proteine nobili venivano dagli animali da cortile, dei quali però si faceva un parsimonioso consumo, perché spesso i conigli ed i polli erano venduti dalla massaia per ricavare un po' di denaro per acquistare al mercato o alla fiera le stoviglie ed altri attrezzi utili per la casa, nonché alimenti non prodotti in proprio, come il pesce secco. E comunque bisogna ricordare che le porzioni non erano mai soddisfacenti: in qualche famiglia, da un pollo si ricavavano perfino dodici porzioni; così, talora, con un uovo dovevano mangiare due persone. Ma le uova, come ricordano i vecchi contadini, potevano essere arricchite, nella frittata, con verdure ed erbe varie (cipolle, ortiche, vitalbe). L'alimento che la fa da padrone nelle ricette contadine della Val d'Orcia, come del resto in tutto il mondo mezzadrile e contadino italiano, è il pane: cibo per antonomasia, il pane costituisce la parte più importante di ogni pietanza, perché se la porzione di pollo o di formaggio è misera, il pane deve riuscire a saziare i morsi della fame. Ed esso è così importante che può sostituirsi ad altri cibi e presentarsi come piatto unico, basta saperlo accompagnare con qualche odore o con qualche pomodoro, come nel "pan lavato" o nella "pappa", o nella "panzanella": un piatto che si continua a preparare anche oggi, ma con qualche difficoltà, perché occorre del pane secco di cinque o sei giorni. Il pane raffermo, dopo essere stato ammollato nell'acqua, viene sbriciolato e condito con verdure di stagione (sedano, pomodoro, cipolla) ed olio e aromatizzato con basilico. I primi piatti erano spesso formati da minestre a base di fagioli, verdure e pane; ogni tanto la massaia si dedicava a fare i "pici", una pasta fresca a base di farina ed acqua, o i maccheroni, cioè delle tagliatelle a base di farina, acqua e qualche uovo. Minima è anche la quantità di pietanze che chiamiamo genericamente "secondi piatti": solo qualche frittata, il collo ripieno dell'ocio (il maschio dell'oca), il coniglio fritto, il lesso rifatto (la carne lessata, ripassata in padella con aromi). Pranzi più ricchi si hanno solo in occasioni di feste come il Natale o la Pasqua. Poco più sopra, parlando del maiale, si è accennato al fatto che alcune parti conservate di esso erano destinate al tempo dei grandi lavori stagionali, come la vangatura delle viti e la mietitura e trebbiatura. Erano queste le occasioni in cui i beni alimentari diventavano una forma di pagamento del lavoro erogato. Questi grandi lavori avevano la necessità di essere svolti in tempo molto ridotto: occorreva dunque tanta manodopera disposta a lavorare fino a sedici, diciotto ore il giorno. Spesso, poiché le braccia presenti nella famiglia mezzadrile erano insufficienti, si ricorreva allo scambio d'opere, per il quale la famiglia si impegnava a preparare con molto anticipo e con grandi sforzi organizzativi un accumulo di riserve alimentari adeguato alla bisogna: oche, polli, carni conservate di maiale. Si mangiava fino a cinque volte il giorno, per compensare le energie profuse nella fatica e per il caldo; i cibi erano serviti direttamente sul 5 campo di lavoro, mentre la cena era allestita sull'aia. La qualità e la quantità delle portate, che comprendevano carni, dolci e vino, fa collocare questa cena nel quadro dei pranzi festivi e soprattutto dei banchetti di nozze, dove c'era una certa ostentazione alimentare. Per le nozze, infatti, i banchetti erano addirittura due, uno a casa dello sposo e il secondo, appena finito il primo, a casa della sposa. Il menu dei due pranzi era identico: crostini di milza per antipasto (una crema di milza, acciughe, capperi ed olio spalmata su fette di pane), stracciatella (brodo di carne in cui sono state cotte delle uova sbattute), maccheroni al sugo di carne, arrosto misto (pollame e conigli cotti nel forno a legna del podere) e contorno di verdure di stagione. Come dolce si serviva il ciambellone, ma non mancavano i baci (specie di schiumette a base di chiara d'uovo e zucchero) e soprattutto i ciabaldini (cialde di farina ed acqua, aromatizzate con semi di anice). Ancora più ricco era il banchetto cerimoniale relativo alle cosiddette nozze dei morti. Se, infatti, moriva un giovane o una giovane prima del matrimonio, in suo onore si celebravano delle nozze simboliche con un pranzo a base di maccheroni, carne e vino. C'erano altri momenti, poi, in cui il cibo assumeva un carattere simbolico e rituale, in quanto si integrava a cerimonie legate ai riti di passaggio, come la nascita e la morte, o lo stesso matrimonio. Non sempre i cibi cerimoniali erano particolari, spesso si trattava degli stessi cibi quotidiani che assumevano, però, in quelle circostanze una valenza diversa. Ad una puerpera, per esempio, si regalava una gallina, ritenendo che la novella mamma avesse bisogno, dopo il parto, di un buon brodo. Tale regalia si chiamava scapponata. Anche in occasione della morte, una volta, c'era la tradizione del banchetto funebre. Una delle ultime testimonianze riguarda proprio un mezzadro della fattoria della Foce, originario di Castiglioncello del Trinoro, un piccolissimo borgo medievale, a pochi chilometri dalla fattoria degli Origo. Questo banchetto prendeva il nome di sbaccalarata, perché la pietanza principale del pasto era costituita da baccalà con contorno di fagioli. Dopo aver mangiato, i parenti e gli amici si caricarono sulle spalle la bara per portare il morto al suo villaggio d'origine. Altri cibi rituali riguardavano la Pasqua, in occasione della quale si preparava la torta pasqualina, da mangiare dopo il Gloria che annunciava la resurrezione del Cristo, insieme con le uova sode che erano state portate in chiesa per essere benedette durante la messa pasquale. Ed in Val d'Orcia era ed è ancora in uso, per Pasqua, preparare un dolce a forme di serpente, che è un antico simbolo, insieme con l'uovo, di fecondità e fertilità. I banchetti nuziali, dunque, insieme con le occasioni legate al calendario agricolo (battitura del grano, uccisione del maiale, raccolta del fieno) restavano gli unici momenti in cui ci si poteva saziare. Dalla miseria di tutti i giorni si passava all'abbondanza, ma non si trattava di spreco, perché lo smodato consumo del cibo non era solo un rifarsi degli stenti patiti durante il resto dell'anno, bensì l'augurio di un'abbondanza futura e un modo per rafforzare i vincoli della parentela e della comunità. ---------------------------------Bibliografia AA.VV., Cultura contadina in Toscana, Firenze, Bonechi 1982, 2 voll. Clemente P. - Solinas P.G., Note sulla famiglia colonica, in Il mestiere del contadino. Materiali della settima mostra sulla condizione mezzadrile, Buonconvento 1979 Clemente, Coppi, Fresta, Pietrelli, Mezzadri, letterati e padroni, Palermo, Sellerio 1980 Giorgetti G. Contadini e proprietari nell'Italia moderna. Rapporti di produzione e contratti agrari dal sec. XVI a oggi, Torino, Einaudi 1974 6 Malenotti I., Il padron contadino, Firenze 1894 Mazzini C. M., La Toscana agricola. Sulle condizioni dell'agricoltura e degli agricoltori nelle province di Firenze, Arezzo, Siena, Lucca, Pisa e Livorno, Firenze 1884 Pazzagli C. Economia rurale del Mugello fino all'800, Firenze 1983 Scuola Media "G. Parini", L'agricoltura a Torrita, Montepulciano, Ed. del Grifo 1985 Somogyi S. L'alimentazione nell'Italia unita, in Storia d'Italia, vol. V, I documenti, Torino, Einaudi 1973, pp. 841-890 Valeri R. Alimentazione, in Enciclopedia Einaudi, Torino 1977, pp.344-361 (Tratto da La Val d’Orcia di Iris. Storia, vita e cultura dei mezzadri, a cura di M.Fresta), Ed. LeBalze, Montepulciano 2003)