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dei 67-115
vari tipi(2015)
di linguaggio con il sentimento di comunità: dalla savana (anzi dal fiume)
Riv. Psicol.L’intreccio
Indiv., n. 77:
allo studio dello psicoterapeuta
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L’intreccio dei vari tipi di linguaggio con il sentimento di
comunità: dalla savana (anzi dal fiume) allo studio dello
psicoterapeuta
SERGIO DE DIONIGI
Summary – LANGUAGE AND SOCIAL FEELING: FROM THE RIVER OF SAVANA TO THE STUDY
OF PSYCHOTHERAPY. Verbal language developed from the gestural language of anthropomorphic monckeys. This evolution was driven by the need to cope with emotions and attitudes, which led to an improvement of communication and to the birth of empathy. Nevertheless, the development of social feeling could
be impacted by the Dunbar's number, which can explain aggressivity and violence among groups. In this
respect, it is possible that the acquisition of verbal language is correlated to the rise of schizofrenia. Lastly
we will describe possible uses of language as encouragement for a fruitful cooperation in psychotherapy.
Keywords: LANGUAGE, EVOLUTIONIST PSYCHOLOGY, SOCIAL FEELING
I. Introduzione
Alfred Adler scrive che «La lotta più antica dell’umanità è quella volta a far sì che gli
uomini si associno, giacché è attraverso l’interesse per i nostri simili che sono stati
compiuti tutti i progressi della nostra razza... Le tribù primitive si tenevano unite attraverso simboli comuni, e lo scopo del simbolo era quello di unire gli uomini ai loro
simili nella cooperazione» (2, p. 200).
Affinché si realizzasse tale cooperazione, è stata necessaria l’elaborazione di un codice comune simbolico per poter comunicare: il linguaggio. Secondo Rovera e Gatti
[157] «Il linguaggio nel suo aspetto specifico è quello di essere un sistema di comunicazione inserito in una situazione sociale, quale strumento di legittimazione della
realtà esistente. Il linguaggio, specie simbolico/verbale è una peculiarità tipicamente
umana, per cui la vita quotidiana è soprattutto vita con e per mezzo del linguaggio, che
viene condivisa culturalmente con altri individui».
Per poter comunicare tra loro, gli individui di una comunità hanno percepito la necessità di un codice linguistico decodificabile da tutti. Tale codice, come fa notare
Wittgenstein [211], deve fondarsi su un’infrastruttura non linguistica di comprensione
intenzionale che si basi su un terreno concettuale comune. Vale a dire, come sottoli-
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nea Tomasello [188], che per elaborare un codice esplicito è necessaria una qualche
forma di comunicazione preesistente, ricca almeno quanto quel codice. In più, come
evidenzia Lewis [106], non è sufficiente che un elemento (nella fattispecie un codice
comunicativo) sia conosciuto da tutti per entrare a far parte della conoscenza comune
di un gruppo. Tutti devono conoscerlo (primo livello) e tutti devono sapere che tutti lo
conoscono (secondo livello) e così all’infinito. Affinché un comportamento assurga a
convenzione all’interno di una comunità deve arrivare ad autoimporsi con una forza
che coinvolga la conoscenza comune.
Secondo Tomasello e Corballis [41], tale codice si registrerebbe nel linguaggio gestuale.
II. Un pò di etologia: non indicare col dito, non è educato!
1. Arbib e Rizzolatti [5], notando che le azioni sono manuali e non vocali, sono arrivati a ipotizzare un’origine gestuale e non vocale del linguaggio, confermando la tesi di
Corballis [40], secondo la quale il linguaggio si è evoluto non dai richiami vocali dei
primati bensì dai loro gesti manuali e facciali. L’evoluzione ha determinato la comparsa di un’ulteriore differenziazione: nella maggior parte degli esseri umani l’area di
Broca è sita nell’emisfero sinistro, mentre nei macachi i neuroni specchio sono stati
evidenziati in entrambi gli emisferi. La lateralizzazione è avvenuta come conseguenza di una programmazione più complessa, forse per poter sviluppare la sintassi del
linguaggio.
Nishitani e Hari [131], tramite la magnetoencefalografia, hanno evidenziato che, allorché un individuo stende un braccio e con pollice e indice pizzica la sommità di
un oggetto, si registra un’attivazione dei neuroni dell’area di Broca a sinistra e della
corteccia motoria di entrambi gli emisferi. Le medesime aree vengono attivate osservando un’altra persona che effettua quel movimento. Tramite la MEG è possibile esaminare la sequenza di comparsa dell’attivazione: dapprima si attivava l’area di Broca,
quindi la corteccia motoria sinistra e infine quella destra.
Altri sperimentatori giapponesi [168] hanno studiato come le persone si adattano a
indossare lenti prismatiche che invertono la visione delle proprie mani, per cui se
toccano un oggetto con la sinistra hanno la sensazione che sia la destra. Sottoponendo
a fRMN gli esaminati che manipolano oggetti, mentre portano i prismi, hanno notato
che l’area di Broca si attiva qualunque sia la mano coinvolta, anche se sussiste un’incongruenza tra la mano che effettua il movimento e come viene percepita.
Questi studi di brain imaging mostrano come l’area di Broca svolga un ru
olo d’integrazione tra il movimento e la visione e non solo quindi una funzione relativa al linguaggio. Per cui, come sottolinea Corballis [41], anche i gesti effettuati
dai macachi potrebbero rappresentare una forma primitiva di comunicazione per cui
alle specifiche azioni di uno corrispondono le medesime azioni in un altro. In base
alla teoria motoria della percezione del linguaggio [107], le persone riconoscono i
suoni verbali non tanto per le proprietà acustiche quanto per come vengono prodotti.
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Corballis ne deduce che i neuroni specchio suggeriscono che l’origine del linguaggio
possa essere fatta risalire a decine di milioni di anni fa, a un comune progenitore primate, tramite un adattamento visivo-manuale più che uditivo-vocale.
2. Tra i trentacinque e i trentatré milioni di anni fa, un sub-ordine dei primati detto
delle grandi scimmie (apes) si è differenziato dalle scimmie (monkeys). Le grandi
scimmie moderne comprendono i gibboni, altresì definiti “grandi scimmie minori”
(lesser apes), e le grandi scimmie propriamente dette oranghi, gorilla, scimpanzé,
bonobo e umani.
Un gruppo di specie tutte discendenti da un antenato comune viene definito clade. La
cladistica è la disciplina che si occupa di raggruppare organismi in forma gerarchica
in base ai rapporti evolutivi. L’analisi genomica ha sostituito quella morfologica nelle
classificazioni cladistiche.
Se osserviamo le mani delle grandi scimmie, quelle più simili alle umane sono quelle
dei gorilla, ma sono gli scimpanzé e i bonobo ad aver sviluppato “culture degli utensili”. Ad esempio, diverse comunità di scimpanzé hanno elaborato indipendentemente
“culture degli utensili” differenziate, che comprendono strumenti per pescare termiti,
tirare su formiche strappare foglie, rompere noci di cocco [188].
Tomasello e altri [189], in uno studio effettuato sugli scimpanzé liberi di spostarsi
a loro piacimento nello Yerkes Regional Primate Center Field Station ad Atlanta in
Georgia, hanno osservato che essi erano in grado di sviluppare, almeno per quanto
osservabile dagli esseri umani, un repertorio di una trentina di gesti diadici, che implicano quindi un’interazione con un altro individuo, solitamente per stimolare una
risposta (ad es. succhiare il labbro dell’altro e poi ritrarsi; “annuire” col capo verso l’altro in posizione china; scappare guardando l’altro con la testa girata). I gesti
vengono effettuati più frequentemente mentre il ricevente guarda. Le vocalizzazioni
invece non sono dirette a uno specifico altro membro del gruppo, per cui gli Autori
concludono che la gestualità degli scimpanzé è più vicina al linguaggio che non le
loro vocalizzazioni.
3. Nell’ambito della gestualità una particolare rilevanza assume l’additamento. Fino a
quando i bambini non acquisiscono la parola additano gli oggetti e le persone. Anche
successivamente mantengono tale abitudine, ma solitamente la mamma dice loro la
frase: «Smettila di indicare, non è educato».
Le grandi scimmie, nostre cugine, sono sicuramente più educate di noi, ma purtroppo per loro sono estremamente sensibili alle cattive compagnie: infatti, in numerose
ricerche sono state addestrate dagli umani ad additare. I 115 scimpanzé dello Yerkes
Center vennero temporaneamente alloggiati in gabbie e al di fuori di esse, fuori della
loro portata, venne posta mezza banana. Ben 53 indicarono spontaneamente la banana, andando con lo sguardo da essa allo sperimentatore e viceversa. È comunque
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poco probabile che avessero imparato ad additare imitando gli umani, visto che solo
sei scimmie usarono il dito indice per additare mentre le altre utilizzarono il braccio
o l’intera mano.
Il modo più naturale di indicare per gli scimpanzé consiste invece nel direzionare lo
sguardo. Analogamente, se noi guardiamo qualcosa, chi ci è vicino è portato a dirigere
lo sguardo nella medesima direzione: basta mettersi per strada e guardare verso l’alto
che subito la gente guarderà verso l’alto.
Hare e Tomasello [88] hanno dimostrato che gli scimpanzé sono consapevoli di quello
che i loro simili possono vedere, modificando di conseguenza il proprio comportamento: uno scimpanzé può avvicinarsi a del cibo, se si accorge che un membro dominante del gruppo non se ne è accorto, mentre eviterebbe accuratamente di farlo se
vedesse che l’altro lo sta guardando.
4. Ritornando al tema della traduzione di un codice comunicativo di Wittgenstein
[211], i bambini possono acquisire un linguaggio verbale solo se posseggono già altri
strumenti di comunicazione con gli adulti, e ciò sarebbe costituito dal preesistente
linguaggio gestuale meno complesso. È tale complessità che fa sorgere dubbi sul fatto
che il codice linguistico non possa basarsi su una primaria infrastruttura non linguistica di comprensione intenzionale: sarebbe come se qualcuno “cercasse di tirarsi fuori
dalla palude tirandosi su per gli stivali”.
Se vogliamo rifarci a una nota citazione, ci troveremmo nella situazione dell’esploratore di Quine [149] che, visitando una società sconosciuta, sente un indigeno articolare la parola “gavagai” mentre sta passando un coniglio. Egli non disporrebbe
di informazioni specifiche per identificare quale aspetto specifico della situazione il
nativo intenda indicare: certo quest’ultimo potrebbe “mostrare” in qualche maniera
che cosa voglia dire.
Si tratta comunque di una forma di comunicazione non codificata, che presuppone una
“sintonizzazione mentale” tra i due. In base a ciò, Corballis e Tomasello ritengono
fondativa una comunicazione non convenzionalizzata e non codificata, come strumento di sintonizzazione mentale rappresentata dall’additare e dal mimare.
5. In fondo, già nel 1746, Etienne Bonnot abate De Condillac [38] formulò la teoria
che il linguaggio verbale derivasse dal linguaggio gestuale. Egli dovette inventarsi
una favola poiché in quell’epoca il linguaggio era considerato un dono di Dio, per cui
non poteva certo permettersi teorie eretiche nella sua posizione. Immaginò quindi due
bambini, un maschio e una femmina, che dopo il Diluvio Universale, non conoscendo
alcun linguaggio, avevano iniziato a utilizzare gesti e mimica per indicare oggetti e
stati d’animo.
Tale gestualità era accompagnata da vocalizzi, che gradualmente risultarono sempre
più specifici: inizialmente le due modalità di comunicazione convissero, ma in se-
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guito, dal momento che i suoni erano sempre più sofisticati, grazie all’evoluzione
dell’organo della voce, la verbalizzazione prevalse.
III. Come venne data una mano (e anche due) per il passaggio dalla foresta ai corsi d’acqua
1. L’andatura eretta o bipedismo, che contraddistingue gli umani e i loro progenitori
rispetto alle altre grandi scimmie (gorilla, oranghi, scimpanzé e bonobo), è la caratteristica che ha permesso alla famiglia degli ominimi di sviluppare l’uso delle mani.
A questo punto forse è necessario effettuare una precisazione: un tempo si usava il
termine ominidi, ma dal 1989 Groves [84] estese tale termine a gorilla, scimpanzé e
bonobo.
Non sappiamo se il primo ominimo fu Sahelantropus tchadensis, le cui ossa risalgono
a sei o forse sette milioni di anni fa, o il di poco più recente Orrorin tugensis, vissuto
circa 6 milioni di anni fa, altresì noto come Millenium Man poiché ritrovato nell’autunno dell’anno 2000, le cui ossa sembrano indicare un’andatura bipede con qualche
residua traccia di vita arboricola. Qualcuno tuttavia lo considera ancora una scimmia
e sposta più recentemente, a 4,4 milioni di anni fa, il probabile stretto cugino del progenitore di scimpanzé e ominimi, l’Ardipithecus ramidus.
Quasi tutti sembrano d’accordo sull’andatura bipede di Australopithecus anamensis,
risalente a 4,2 milioni di anni fa. Sicuramente bipede era Lucy della regione dell’Hadar in Africa orientale, altresì nota prima come Australopithecus afarensis e ora come
Preanthropus africanus, risalente a 3,2 milioni di anni fa. Certamente bipede era anche l’altrettanto celebre “ragazzo del Turkana” alias Kenianthropus platyops.
Il grande paleoantropologo Raymond Dart [46], nel suo famoso articolo del 1925 su
Nature, in cui introduce il termine di australopiteco, identifica nel passaggio dalla
foresta alla savana il passaggio dai primati non umani agli ominimi. Inizia così quella
che Yves Coppens [39] definisce la “East Side Story”. Infatti, con la graduale apertura
della Great Rift Valley in Africa si vengono a formare due diversi ecosistemi ad est
ed ovest, per cui gli ominimi rimangono intrappolati in un territorio con sempre più le
caratteristiche della savana, mentre le grandi scimmie continuano a vivere nei territori
boschivi occidentali.
2. Assumendo l’andatura eretta, gli ominimi sono in grado di dirigere lo sguardo su
ampi spazi, in modo da poter localizzare ad esempio le tigri dai denti a sciabola e
cercare cibo in spazi aperti. Il bipedismo è sicuramente più utile del knuckle walking
(l’andatura sulle nocche delle grandi scimmie).
Tale postura permette anche di utilizzare le mani per trasportare oggetti, neonati compresi, visto che i cuccioli di scimpanzé sono in grado di afferrarsi al corpo della madre
mentre quelli umani devono essere tenuti in braccio. Al proposito, Dean Falk [57] sviluppa un’interessante teoria in cui protagonisti assoluti sono le femmine degli ominimi
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e i loro cuccioli. Poiché questi ultimi non sono in grado di aggrapparsi alle madri, al
contrario di quanto avviene nelle scimmie antropoidi, esse per raccogliere le radici e
le erbe devono appoggiare i propri piccoli per terra, determinando così crisi di pianto.
Per tranquillizzarli hanno iniziato a utilizzare vocalizzi con rudimentali qualità melodiche, sviluppando un protolinguaggio che è giunto fino a noi sotto forma del maternese
universalmente utilizzato. In questo modo si spiega anche come si è sviluppato il canto
e, in seguito, la musica. Tale teoria è anche interessante poiché gli psicologi evoluzionistici da sempre si interessano ai vantaggi per la specie umana, rappresentati dalla
nascita e dallo sviluppo della musica.
3. Nel 1995, in una conferenza di fronte a un pubblico londinese, la “East Side Story” viene contestata dall’archeologo sudafricano Tobias [187], secondo il quale tutti
i fossili vegetali reperiti in prossimità dei resti di australopiteco depongono per una
vegetazione in prossimità di corsi d’acqua e non certo per la savana. Ulteriori studi
confermano il fatto che, in base ai fossili vegetali reperiti, gli australopitechi sono
vissuti in aree boschive in prossimità di laghi e fiumi: l’andatura bipede serve per raccogliere cibo nell’acqua o in prossimità di essa e gli alberi come rifugio dai carnivori
o come giaciglio per la notte.
Un ulteriore dato che inficia la teoria della savana viene rappresentato dal reperimento
di fossili di Australopithecus bahrelghazali, uno stretto parente di Lucy, risalenti a 3,5
milioni di anni fa in Ciad, a 2500 chilometri dalla Great Rift Valley, quindi un personaggio della West Side Story e non certo dell’East Side Story.
4. Attualmente le ricerche si focalizzano sugli scimpanzé e i bonobo delle regioni
boschive dell’Africa occidentale e centrale. Numerosi studiosi evidenziano che gli
scimpanzé dell’Africa occidentale mostrano comportamenti più simili agli umani rispetto agli scimpanzé che vivono nella savana. Boesch-Achermann e Boesch [22],
nella foresta pluviale equatoriale del Tai National Park in Costa d’Avorio, osservano
che gli scimpanzé usano pietre e utensili di legno per spaccare noci, essendo capaci
di scegliere attrezzi diversi prima dell’azione, di trasportarli per lunghe distanze, e
dimostrando una complessa conoscenza dello spazio.
Sempre nella foresta di Tai, gli scimpanzé mostrano una capacità di coordinazione
nella caccia che non è riscontrabile in altri gruppi della medesima specie in altre zone.
I maschi in piccoli gruppi danno la caccia ai colobi rossi (scimmie di taglia minore) per nutrirsene, ma come fanno notare Tomasello et al. [191] semplicemente uno
scimpanzé inizia a inseguire la scimmietta quando sa che gli altri sono nelle vicinanze
e tutti si dispongono nella posizione più opportuna per ottimizzare le possibilità di
successo, senza che sussista nessun piano organizzato.
Tornando al bipedismo, in prossimità di corsi d’acqua gli ominimi, oltre che nutrirsi di
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piante acquatiche sulle rive, grazie all’andatura eretta, riescono ad avanzare in acque
più profonde per nutrirsi di molluschi. Si è anche osservato che alcuni primati assumono la postura eretta quando entrano in acqua.
Il bipedismo, conseguito non solo per ragioni meccaniche, ma secondo Merleau-Ponty [119] perchè siamo «impegnati nel mondo», è il primo passo verso il linguaggio
anche se si porta dietro diversi correlati anatomofisiologici come vene varicose, emorroidi, artrosi ad anche e ginocchia e mal di schiena.
5. Calvin [31] afferma che per arrivare al linguaggio è prima necessario imparare a
lanciare. Come articolare le parole, lanciare oggetti richiede un tempismo accurato
con una buona coordinazione di diversi muscoli. Siccome in maggioranza utilizziamo
il braccio destro, e quindi i neuroni del giro precentrale sinistro, per coordinare tale
movimento l’Autore ipotizza che sia questa la ragione per cui il centro del linguaggio
è situato abitualmente nell’emisfero sinistro. Corballis osserva che tale teoria semmai
suffraga la correlazione tra il lanciare e il linguaggio gestuale, piuttosto che con il
linguaggio verbale.
Se non possiamo avere testimonianze fossili della comparsa del linguaggio gestuale
o verbale, possediamo un altro elemento che indica una caratteristica quasi esclusiva
del genere Homo: la costruzione di utensili. Abbiamo già visto che gli scimpanzé sono
in grado di costruirsi utensili e di trasportarli ai luoghi di raccolta di cibo, cosa che le
cappuccine non sono in grado di fare, mentre gli ominimi probabilmente si.
I primi rappresentanti del genere Homo sono Homo rudolfensis, comparso circa 2,5
milioni di anni fa, e il poco più tardo Homo habilis, anche se qualcuno li considera ancora appartenenti agli australopitecini. Arriviamo alla certezza con Homo ergaster ed
Homo erectus. Quest’ultimo, come fa notare Corballis, è più “peripatetico”, essendo
giunto in Asia dall’Africa; vi sono infatti dati (controversi), per cui 1,8 milioni di anni
fa sarebbe arrivato a Giava per estinguersi 27.000 anni fa. Qualora questi dati fossero
veritieri, ci dobbiamo chiedere se Homo sapiens sarà in grado di durare altrettanto.
Del resto, proprio l’incontro con quest’ultimo sarebbe stato il motivo più probabile
dell’estinzione di Homo erectus. Non necessariamente la causa che ci viene in mente
per prima, vale a dire un genocidio, è quella reale; può darsi che l’estinzione sia avvenuta a causa di microbi introdotti involontariamente da Homo sapiens, come è stato
con alcune tribù di nativi americani. Invece, fossili simili a quelli di Homo ergaster,
risalenti a 1,7 milioni di anni, sono stati reperiti in Georgia, dimostrando che anche
a lui piaceva spostarsi. Ma queste specie, oltre che a vagabondare, hanno iniziato a
costruire utensili fatti per durare.
I primi strumenti litici consistono in semplici schegge di pietra, reperite per la prima
volta nella gola di Olduvai in Tanzania, per cui si parla di manifattura oldovana. Ma
i più antichi reperti oldovani vengono scoperti a Gona in Etiopia e sono datati tra i
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2,6 e i 2,5 milioni di anni, per cui salta fuori nuovamente quell’Homo rudolfensis di
incerta collocazione tra il genere Homo e il genere Australopithecus. Anche un bonobo addestrato impara a costruire utensili litici di tipo oldovano, ma solo dopo che è
stato istruito e non sussistono prove che le grandi scimmie siano in grado di costruirli
spontaneamente [189].
In seguito, sempre in Africa, tra 1,7 e 1,5 milioni di anni fa, grazie ad Homo erectus, si
sviluppa la manifattura acheuliana, caratterizzata da attrezzi da taglio, picconi, mannaie e asce bipenni. Holloway [92] ipotizza che gli strumenti acheuliani presuppongano una certa forma di linguaggio e Sennet arriva a ritenere che per elaborare strumenti
così strutturati i primi ominimi dovevano essere in grado di “parlare a se stessi” con
almeno un protolinguaggio. Secondo Corballis [41], l’uso delle mani per la costruzione di utensili è in conflitto con il linguaggio gestuale dei primi ominimi, tanto che la
manifattura non ha una vera e propria esplosione se non 50000 anni fa, quando viene
acquisito un linguaggio verbale che lascia quindi libere le mani.
6. A proposito di manufatti, Tomasello [189] scrive che, insieme alle pratiche comportamentali umane, essi divengono sempre più complessi col progredire della storia
dell’uomo, determinando un’evoluzione culturale cumulativa. Fa l’esempio di un individuo che inventa uno strumento o un modo di fare le cose che si dimostra utile, per
cui gli altri (compresi i bambini) imparano da lui. Un altro individuo apporta delle
modifiche migliorative all’utensile o alla modalità di esecuzione. Gli altri, quindi,
(compresi i bambini) apprendono e applicano i cambiamenti. In questo modo, secondo Tomasello, si verifica un dente d’arresto (come avviene in una ruota dentata in cui
vi è un dispositivo che impedisce di tornare indietro), per indicare una pratica che
rimane nella cultura del gruppo e difficilmente viene desueta.
In ultimo citiamo l’interessante tesi di Richard Wrangham [214], secondo cui alcuni
esemplari di Homo habilis, dalla dentatura ben sviluppata, mettono per caso sotto
i denti della carne finita sul fuoco e scoprono così che la carne è più digeribile. Ne
consegue che l’apporto di proteine ha facilitato lo sviluppo della massa cerebrale, determinando la comparsa della società più evoluta dell’Homo erectus. Se così è stato,
non dobbiamo dunque cercare un uomo culturalmente avanzato che impara a cucinare
i cibi, bensì un ominimo che mettendo al fuoco la carne ha determinato il nostro sviluppo cerebrale e sociale.
7. Ma veniamo ora all’apparato fonatorio: se osserviamo l’anatomia del capo e del
collo di uno scimpanzé e di un uomo, notiamo che la laringe negli umani è posta
più in profondità e ha un andamento ad angolo retto; aggiungiamo la diversa conformazione degli altri componenti del tratto vocale, labbra, lingua e velo pendulo, e
abbiamo una più sofisticata articolazione del linguaggio. Ma tutto ciò è forse solo un
“pennacchio” evolutivo. Traduciamo: il bipedismo ha comportato un nuovo assetto
della colonna vertebrale che entra nel cranio attraverso il foramen magnum, che nei
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quadrupedi è posto posteriormente nel cranio mentre nell’uomo è sito inferiormente e
in avanti. Ciò porta a una mandibola più piccola, un allungamento del tratto vocale e
un abbassamento della laringe. Il risultato è una modifica biomeccanica e fisiologica
dovuta al bipedismo, che nulla inizialmente ha a che fare col linguaggio, ma che solo
secondariamente fornisce agli umani la possibilità di sviluppare il linguaggio verbale.
Nella teoria dell’evoluzione tale fenomeno viene descritto col termine di pennacchio,
introdotto da Gould e Lewontin [79], in relazione all’omonimo termine architettonico,
ovvero lo spazio tra due archi o tra una arco e la cornice rettangolare che lo delimita,
utilizzato secondariamente per decorazioni. A tale termine è collegato il concetto di
esaptazione, vale a dire il riutilizzo di una struttura esistente per una nuova funzione.
In tal senso il linguaggio può essere considerato un’esaptazione delle modifiche laringee determinate dal bipedismo.
Probabilmente il suddetto pennacchio si sviluppa nell’Homo ergaster o nell’Homo
erectus. Tuttavia per avere un’idea più precisa di come nasce il linguaggio verbale,
almeno come lo conosciamo oggi, dobbiamo seguire il decorso del canale del nervo
ipoglosso che determina la motilità dei muscoli linguali. Secondo Philip Liebermann
[110, 111], per poter sviluppare l’attuale capacità articolatoria, bisogna riferirsi agli
infanti umani, in cui l’abbassamento della laringe (che inizia a tre mesi e raggiunge
la posizione definitiva verso i tre-quattro anni) è concomitante all’appiattimento della
faccia per cui la bocca, più piccola rispetto a quella delle altre grandi scimmie, è quasi
completamente contenuta sul piano frontale del viso. In questo modo la lunghezza
della bocca e pressoché uguale a quella della laringe permettendo l’articolazione del
nostro linguaggio.
Nei crani neanderthaliani le bocche erano più protruse e quindi la faccia non era appiattita. Probabilmente i nostri cugini erano in grado di articolare una qualche forma
di linguaggio, ma non come quello di Homo sapiens (non abbiamo più diritto al doppio sapiens da quando Homo sapiens neanderthalensis è stato espunto dalla nostra
ascendenza). Il linguaggio più articolato, quindi, compare verosimilmente dopo la
separazione del ramo Homo sapiens dall’uomo di Neanderthal, circa tra i 200.000 e i
150.000 anni fa, costituendo un vero “evento di speciazione”.
Un ulteriore evento necessario per sviluppare il linguaggio verbale è la possibilità di
controllare meglio i muscoli respiratori. Ciò è correlato a una maggior ampiezza del
tratto toracico dei nervi spinali rispetto alle grandi scimmie. Tale caratteristica anatomica compare solo nell’uomo di Neanderthal, per cui si può datare la comparsa di un
linguaggio verbale intorno ai 500.000 anni fa.
8. Arriviamo quindi alle aree cerebrali deputate allo produzione del linguaggio verbale.
Collegandoci a quanto detto all’inizio, Rizzolatti dichiara che l’area di Broca ha rilevanza nello sviluppo del linguaggio non tanto per il suo coinvolgimento nei movimenti
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della bocca e delle guance, quanto per il fatto che mette in relazione i gesti compiuti da
altri individui con i movimenti delle mani dell’osservatore. Di Michele [50], partendo
da tali presupposti, osserva che il sistema dei neuroni a specchio che permette l’esecuzione di atti imitativi si sviluppa grazie all’incremento di volume delle aree frontoparieto-temporali nell’Homo habilis, e ancora di più nel posteriore Homo erectus in
grado di diffondersi ai territori europei e indo-asiatici.
Tomasello e collaboratori [193] evidenziano un’altra caratteristica anatomica umana
che sembra essere collegata alla cooperatività degli umani: la grandezza della sclera.
“Il bianco dell’occhio” è circa tre volte più grande rispetto agli altri primati, quindi per
gli altri è molto più facile seguire la direzione del nostro sguardo. Gli scimpanzé seguono lo sguardo del ricercatore anche se questi tiene gli occhi chiusi, ma muove la testa;
è quest’ultimo movimento che desta il loro interesse non quello degli occhi. Gli infanti
umani seguono invece lo sguardo del ricercatore anche se questi tiene la testa ferma.
9. Si può congetturare che le origini filogenetiche dell’attitudine alla cooperazione
possano costituire un precursore del sentimento sociale. Come sottolinea Rovera
[152], reperiamo nel modello adleriano i presupposti dell’evoluzionismo emergentista
[183], che evidenzia la struttura di un programma geneticamente determinato il quale
inserisce l’apprendimento nell’ambito di un’evoluzione culturale in continuo rapporto
dinamico con l’ambiente [3].
IV. Il linguaggio e il sentimento di comunità
1. Gli umani utilizzano due tipi di gesti per comunicare: i gesti deittici e i gesti iconici. I primi servono a far dirigere l’attenzione di un’altra persona su un determinato
oggetto, il classico esempio è appunto l’additare; i secondi servono invece a rappresentare un oggetto o un’azione, ad esempio portare alla bocca la mano nell’atto di
stringere qualcosa per invitare un amico ad andare a bere un caffè.
a. Tomasello [189] pone come pietra miliare nello sviluppo della specie umana, all’interno della filogenesi, la capacità di comprendere gli altri come agenti intenzionali,
lo sviluppo dell’attenzione congiunta. Mentre i bambini di sei mesi interagiscono in
modo diadico o con gli oggetti, afferrandoli e manipolandoli, oppure con le persone,
tra i nove e i dodici mesi si attua “una rivoluzione copernicana”: si arriva a un rapporto triadico, cioè lo sguardo e l’attenzione della madre e del bambino si coordinano su
un oggetto o un avvenimento. Vale a dire che il bambino è in grado di sintonizzarsi
sull’attenzione dell’adulto.
Egli sottolinea il fatto che la situazione è ben diversa quando madre e bambino guardano contemporaneamente verso qualcosa, ad esempio se viene percepito un rumore
improvviso (cosa che avviene ben prima dei nove mesi di vita). Infatti nell’attenzione
congiunta il bambino è cosciente del fatto che può interagire con l’attenzione della
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madre anche indicando col dito in una particolare direzione. In questo modo si sviluppa l’apprendimento imitativo che costituisce, per Tomasello, la prima forma di
apprendimento culturale. Il bambino vedendo utilizzare un attrezzo da parte di un
genitore apprenderà per imitazione l’uso di esso. Prima dei nove mesi la cognizione
sociale è simile a quella sviluppata dai primati, ma successivamente vengono gettate
le basi di quella cooperazione che distingue la specie umana.
L’additare di tipo “adulto” compare poco prima dei dodici mesi; presuppone pertanto
che il bambino sia cosciente dell’intenzionalità sia personale che condivisa, elementi
che, secondo Tomasello, costituiscono i presupposti del modello cooperativo della
comunicazione umana.
Che l’atto dell’additare sia espressione di un’intenzionalità condivisa è ulteriormente
suffragato dal fatto che bambini affetti da autismo additano in modo imperativo (fatto
che depone per la presenza dell’intenzionalità personale), ma non in modo dichiarativo [35]. Scarsa infatti è la capacità di mostrare attenzione congiunta [124].
b. Già Stern [176] descrive nel bambino di nove mesi una forma d’interazione con la
madre che definisce sintonizzazione degli affetti. Egli fa l’esempio di una bambina di
nove mesi che riesce a impadronirsi di un giocattolo e guardando la madre vocalizza;
la madre muove la parte superiore del corpo verso la figlia per tutto il tempo in cui
questa fa “aaah”. Il movimento della madre è isomorfico al vocalizzo, ma non è identico. Stern, osservando dieci madri con figli tra gli otto e i dodici mesi, nota che queste
alcune volte mettono in atto sintonizzazioni imperfette, definite “modulazioni”, il cui
scopo consiste nel tentativo di indurre un cambiamento - sia aumento che decremento
- del livello di attivazione del bambino.
Nel suo modello di sviluppo del Sé, è appunto tra i nove e i diciotto mesi che abbiamo
lo sviluppo del Sé soggettivo, di cui uno degli indicatori è, come si è detto, la capacità
di condividere consciamente con il caregiver l’attenzione.
c. Fonagy e Target [68] pongono in relazione lo sviluppo del Sé soggettivo con lo
sviluppo di mappe neurali di terzo ordine nella teoria della coscienza di Damasio [45].
Poco dopo lo sviluppo della gestualità deittica si sviluppa la gestualità iconica, che
tuttavia, più che mimare un’azione, è di tipo convenzionale, come scuotere la testa per
dire “no”, oppure con la mano fare “ciao, ciao”, oppure mostrare il palmo della mano
all’insù per dire “non c’è più”. Lo sviluppo di questo tipo di gestualità procede di pari
passo con lo sviluppo del linguaggio verbale, ma comunque questo tipo di gestualità
è minore rispetto a quella deittica [1, 32, 93].
I bambini acquisiscono la gestualità convenzionale contemporaneamente alle convenzioni linguistiche [1] e, mentre imparano nuovi gesti arbitrari per designare oggetti
contemporaneamente, acquisiscono nuove parole per designare oggetti [124, 203].
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Ciò avviene per tutto il secondo anno di vita, mentre al terzo imparano più prontamente nuove parole rispetto a gesti iconici o convenzionalizzati.
Non si assiste invece a un declino della gestualità deittica che viene integrata nel discorso. I gesti iconici vengono integrati nella funzione del gioco o “far finta”: il bambino può portare la mano alla bocca come se stringesse un bicchiere durante un gioco.
d. Tomasello rimarca il fatto che, se non si pone l’accento sull’intenzionalità condivisa come espressione della cooperatività umana che si sviluppa intorno ai dodici mesi,
non si può spiegare lo sviluppo del linguaggio verbale a tale età solamente associando
un suono a un’esperienza. Se fosse così, i bambini potrebbero iniziare già a parlare a
sei mesi, poiché a tale età sono in grado di effettuare associazioni simili [86]. Sempre
secondo l’Autore, le motivazioni fondamentali dell’intenzionalità condivisa sono rappresentate dall’aiutare e dal condividere. Tali motivazioni utilizzate nell’ambito della
comunicazione cooperativa umana generano le tre motivazioni fondamentali di essa:
richiedere, informare e condividere emozioni e atteggiamenti.
Al proposito, Grice [82] fa notare che gli atti umani comunicativi sussumono un’intenzionalità comunicativa. Se io indico un oggetto a qualcuno non voglio solo che gli
presti attenzione, ma che presti attenzione anche al fatto che io voglio che gli presti
attenzione. Egli sottolinea il fenomeno per cui comunicatori e riceventi si adoperano
affinché il messaggio “passi”, vale a dire che il ricevente decodifichi l’intenzione
sociale del comunicatore. In ciò il concetto unificante centrale è qualcosa di simile
alla lettura ricorsiva della mente [182], propria della Teoria della Mente [14, 72, 103].
Al proposito è utile ricordare che la Teoria della Mente fu elaborata da Premack e
Woodruff [147] nel 1978, per descrivere una gerarchia di ordini d’intenzionalità:
1) Io sono conscio dei miei pensieri: intenzionalità di prim’ordine.
2) Io ritengo di poter valutare il pensiero di un’altra persona in un contesto d’interazione: intenzionalità di second’ordine.
3) Io posso valutare il pensiero di quest’altra persona su di me (la sua valutazione
di second’ordine su di me): intenzionalità di terzo ordine.
4) Io posso valutare il pensiero di quest’altra persona su quello che io penso sul suo
pensiero: intenzionalità di quarto ordine.
Mentre vi è disaccordo sul fatto che gli scimpanzé, secondo Premack e Woodruff,
siano in grado di sviluppare un’intenzionalità di terzo ordine, i bambini sviluppano
un’intenzionalità di tale tipo verso i quattro-cinque anni; infatti prima non sono capaci
di mentire. Gli adulti solitamente sviluppano intenzionalità di quinto-sesto ordine.
Più l’intenzionalità è complessa più facili sono i fraintendimenti. Tutto ciò struttura
un’intenzionalità collettiva che Searle [165, 166, 167], a livello di società umane, ponendo l’accento su quello che potremmo definire un sentimento di comunità, definisce
intenzionalità del noi.
Egli fa notare che è grazie a questa intenzionalità condivisa che un pezzo di carta
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filigranata diviene una banconota oppure una persona diviene marito, moglie o Presidente. Egli parla di questo processo come della creazione di “funzioni di status”.
Sempre rifacendosi a una sua ben nota formula, possiamo asserire che formulare richieste a una persona riflette una “direzione di adattamento Tu-Io” (quando voglio
che sia l’altro a conformarsi a un mio desiderio), mentre dare informazioni va nella
“direzione di adattamento Io-Tu” (visto che sono io a volermi conformare ai desideri
ed agli interessi dell’altro).
V. Il linguaggio, il sentimento di comunità e il numero di Dunbar
1. Pinker [141, 142] ha sviluppato il concetto di nicchia cognitiva, secondo cui la
spinta evoluzionistica a costituire e mantenere gruppi in cui si attua la cooperazione
ha contribuito all’evoluzione umana tramite le due caratteristiche principali del genere homo, vale a dire il linguaggio e l’intelligenza sociale, che riconoscerebbero una
base biologica comune. L’acquisizione di un linguaggio che non si limita a trasferire
informazioni pragmatiche, ma anche la capacità di elaborare simboli e metafore, ha
consentito la comparsa del pensiero astratto. Ciò ha determinato la comparsa dell’intelligenza Machiavellica, utile a porre in atto comportamenti “fraudolenti” [42, 207].
2. Altri animali non umani mostrano forme di comportamento altruistico o cooperativo: ad esempio un suricato assume una posizione eretta di allerta per segnalare la
presenza di un uccello predatore al gruppo, anche se ciò implica un maggior rischio
di essere individuato e ucciso.
Dei babbuini maschi non imparentati possono formare coalizioni per proteggersi da
maschi più forti, oppure negli scimpanzè un individuo di basso rango può allearsi
a uno di secondo rango per rovesciare quello di rango massimo. Queste coalizioni
possono costituire il cosiddetto altruismo reciproco. Chi partecipa a esso percepisce
che se compie un certo atto verrà ricompensato: è il principio secondo cui “tu gratti
la schiena a me e poi io la gratto a te” (concetto che verrà ripreso successivamente).
Nell’ambito della biologia evoluzionistica, William Hamilton [87] ha sostenuto che
un animale può porre in essere un comportamento altruistico nei confronti di un altro
nel caso sia probabile che questi porti i suoi stessi geni.
La cosiddetta regola di Hamilton stabilisce che un gene che supporta un comportamento altruistico sarebbe sotto selezione positiva ogni volta che il beneficio per chi
riceve l’atto altruistico (in termini di prole generata) è maggiore del costo per l’individuo che conduce l’atto benefico.
Appare chiaro che ciò dipende dal grado di parentela: più è stretta quest’ultima, maggiore è il beneficio in termini di flusso genico potenziale. Infatti, le azioni altruistiche
tra gli animali sono tanto più possibili quanto è più stretta la parentela. Questo concetto di selezione parentale ha fornito una spiegazione allo sviluppo dell’eusocialità nelle
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specie d’insetti come le api da miele [75].
3. Pagani [136] si è chiesto se sarà mai possibile isolare il gene del sentimento di comunità nell’uomo. Simon Baron-Cohen, in un suo recente libro, La scienza del male
[13], prende in esame quei geni che possono essere collegati all’empatia, che sicuramente costituisce uno dei componenti del sentimento sociale. Egli elenca quattro geni.
Il primo è il gene per il trasportatore della serotonina (slc6a4), che induce una diversa
risposta nell’amigdala di soggetti che osservano espressioni facciali che esprimono
spavento, anche se non tutti gli studi sono concordi [89, 90]. Il secondo è costituito
dal gene che regola l’espressione dei recettori D e D2, che influenzano anch’essi la
risposta dell’amigdala ai volti che esprimono spavento [96, 171, 172].
Il terzo è il gene che codifica il recettore della vasopressina (avpr1a), associato all’autismo, che influenza a sua volta la risposta dell’amigdala ai volti che esprimono paura
o collera [120]. Il quarto è il gene 1 del recettore cannabinoide (cnr 1), particolarmente
espresso nel corpo striato, inserito nel sistema della ricompensa a livello cerebrale e
che si attiva di fronte a visi che esprimono felicità. Questi geni sono collegati al riconoscimento delle emozioni, ma Baron-Cohen ha anche elaborato un questionario per
valutare il Quoziente di Empatia (QE) [15]. Somministrando il questionario, è emerso
che il QE è costantemente in media più alto nel sesso femminile che non in quello
maschile e il risultato è costante in diverse culture [8, 200]. Baron-Cohen e Chakrabarti [37] hanno testato una serie di geni correlati al QE, evidenziandone quattro: il
CYP11B1, che è implicato nella sintesi degli ormoni sessuali steroidei; il WFS1, collegato all’espressione del comportamento socio-emozionale; il NTRK1 e il GABRB3,
che codificano fattori di crescita neuronale.
La capacità di provare empatia e lo sviluppo della Teoria della Mente contribuiscono
all’evoluzione della capacità di cooperazione e del sentimento di comunità.
4. Come si è detto prima, gli animali tendono a sviluppare un certo tipo di cooperazione, soprattutto tra consanguinei; tra i primati possono comparire coalizioni, anche
tra non parenti stretti, sebbene tali alleanze non siano certo stabili. Dunbar [75] ha
osservato che babbuini maschi non imparentati possono coalizzarsi per proteggersi
da maschi più forti, oppure uno scimpanzé di basso rango può allearsi a un maschio
di secondo rango per rovesciare il maschio alfa. Secondo Corballis, queste coalizioni
potrebbero costituire una forma di altruismo reciproco, secondo cui il comportamento
altruistico può essere ricambiato anche se, come si è detto in precedenza, tali coalizioni non sono stabili.
Tra gli umani, come nota sempre Corballis, tali intese possono essere sabotate da parassitismo, inganno, defezione, furto. Nonostante ciò, tra gli umani possono sussistere
coalizioni abbastanza stabili. Ma perché? Secondo Bingham [19], la ragione consiste
nel fatto che siamo l’unica specie in grado di uccidere da lontano. La capacità di
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scagliare proiettili, anche se forse primariamente utilizzata per cacciare, permette ai
membri del gruppo di eliminare senza eccessivi rischi da esso gli “scrocconi” o freereeder, vale a dire chi non si uniforma alle leggi dell’altruismo reciproco. Bingham
ragiona in termini di costi e dichiara che per i membri di una coalizione il costo per
espellere lo scroccone è notevolmente minore, se sono in grado di colpire o uccidere
da lontano. La storia dell’umanità è contraddistinta da una corsa agli armamenti.
Viguier (198, pag. 38), effettuando una lettura della storia dell’umanità in prospettiva
adleriana, dichiara che «La storia pone seri dubbi sulla capacità della persona umana
di vivere senza l’odio, la violenza e la morte».
Bingham ci fa riflettere su un altro spiacevole fatto: nel trascorso XX secolo, almeno
170 milioni di persone, ma potrebbe anche trattarsi di più del doppio, sono state uccise
su disposizione dei loro stessi governi; tuttavia il numero delle vittime di guerra sarebbe “solo” di 42 milioni. Pinker [144], nel suo Il declino della violenza, ci rassicura
attestando che in base a dati statistici lo scorso secolo è stato il meno violento se confrontato ai precedenti, in quanto è venuto meno il dominio dei nostri demoni interiori
(predazione, dominanza, vendetta, sadismo e ideologia), per lasciare il posto ai migliori angeli della nostra natura vale a dire empatia, autocontrollo, moralità e ragione.
Vi è qualche ragionevole dubbio che tale ideologia sia in declino e forse gli altri demoni si sono solo mimetizzati meglio.
Ma torniamo alla precedente riflessione sul fatto che, pur essendo nell’uomo sviluppati il sentimento di comunità e la capacità di empatia, i gruppi numerosi come i vari
popoli tendono a essere così crudeli proprio con i propri membri.
Il terzo presupposto fondamentale di Bion [20], secondo cui nel gruppo (particolarmente nel gruppo “lotta-fuga”) emerge il bisogno di combattere o sfuggire a qualcosa,
non è sufficiente a spiegare tali dinamiche.
È mia opinione che sia più utile il numero di Dunbar.
5. Questi [52] sostiene che lo spidocchiamento (“grooming”) presso i primati costituisce un precursore del linguaggio. Tale attività, molto gradita tra i primati, implica
una qualche capacità di cogliere la prospettiva mentale altrui e può costituire una
forma di altruismo reciproco (“tu gratti la schiena a me e io a te”). Come fa notare
Eibl-Eibesfeldt [56], sia i Papua che i Balinesi che gli Indi sudamericani praticano lo
spidocchiamento anche come preludio erotico nella coppia.
L’Autore osserva che in tutta Europa l’arruffare i capelli del partner assume un significato erotico e sulle rive del Mediterraneo le ragazze sovente spremono le pustolette
dell’innamorato.
Dunbar dichiara che il sostituto altrettanto piacevole del grooming presso gli umani è
il pettegolezzo, che costituisce una delle chiavi dello sviluppo del linguaggio, consentendo l’organizzazione di gruppi sociali stabili, oscillanti intorno ai 150 componenti.
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Ma perché tale numero? Lo studioso afferma che i primati tendono ad aggregarsi in
gruppo per motivazioni difensive (più siamo, più al sicuro stiamo), ma le dimensioni
di esso dipendono dal rapporto tra il volume della corteccia cerebrale ed il resto del
cervello, vale a dire il quoziente neocorticale. Le dimensioni del gruppo dei primati
sono direttamente proporzionali a questo valore.
Fa eccezione l’orango, che è un animale in linea di massima solitario. Byrne [29] però
osserva che il quoziente neocorticale è sicuramente correlato alla “capacità d’inganno
tattico”, uno degli indici della teoria della mente. Il quoziente neocorticale negli umani è di 4,1 mentre negli scimpanzé, i nostri parenti più stretti, è di 3,2.
In base all’equazione di Dunbar, che correla al quoziente neocorticale le dimensioni
del gruppo sociale del primate, il gruppo degli umani è di 148 con in più o in meno
circa 50 individui. Egli [75] cita un lungo elenco di comunità con i relativi membri:
villaggi neolitici del Medio-Oriente: 150-200; manipolo dell’esercito romano: 120130; dimensioni medie di un villaggio inglese dell’XI secolo: 150; dimensioni medie
di un villaggio inglese del XVIII secolo: 160; società di cacciatori-raccoglitori (su una
media di 213 clan): 165; comunità di utteriti canadesi (media di 51): 107; comunità di
Amish nel Nebraska (media di 8): 113; dimensioni di una compagnia militare (su una
media di dieci eserciti della II guerra mondiale): 180 (124-223); liste di distribuzione
cartoline di Natale (media di 43): 154. Sovente il gruppo era stabilmente legato al territorio: presso gli antichi Germani la parola “pace” significava «l’unione del singolo
alla sua Sippe e il legame di questa con ognuno» (98, pag. 722). La Sippe indicava un
territorio delimitato e all’interno di essa il legame era così stretto che l’assassinio non
era neanche contemplato.
Anche il dialetto, in quanto linguaggio locale nell’ambito di un gruppo ristretto e che
si sviluppa in poche generazioni o addirittura in pochi decenni, serve a identificare
“noi” rispetto agli “altri”. Nettle [130], attraverso un modello computerizzato di sviluppo del dialetto, ha mostrato che esso fornisce un ottimo esempio di appartenenza a
una comunità sociale proprio in quanto appreso in età giovanile, permanendo immutato almeno per qualche generazione. Tale modello farebbe emergere l’efficacia del suo
uso per selezionare coloro di cui fidarsi all’interno di relazioni di reciproco scambio.
Tornando a cercare di spiegare la così alta percentuale di omicidi perpetrati dai governanti di diverse nazioni a danno dei propri cittadini, potremmo ipotizzare che il sentimento di cooperazione sia solo limitato a più o meno 150 individui del proprio gruppo
(si può anche discutere a quale gruppo il singolo individuo si sente appartenente dal
punto di vista emotivo). In più, non deve essere trascurato il notevole collante di un
gruppo rappresentato dall’aggressività o addirittura dall’odio condiviso nei confronti
di un altro gruppo.
Pagani [135-137] si è più volte occupato dell’odio xenofobo; tuttavia le sue osservazioni sono valide anche se rapportate ai gruppi all’interno di una popolazione.
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Egli afferma (136, pag. 30): «La presenza incomoda di competitori sconcerta l’uomo
nell’ascesa verso la supremazia: la debolezza non gli consente di agire da solo, deve
aggregarsi, procurarsi alleati il più possibile conformi alle sue caratteristiche e con
loro mettersi “in gara” per l’affermazione e la conquista del mondo. Il buon esito
dell’operazione non è per nulla scontato: le frustrazioni che derivano dagli insuccessi
incrementano il sentimento d’inferiorità collettivo e concorrono all’erompere impetuoso di un’aggressività irrazionale e violenta».
Osservando che a volte l’espressione di un giudizio etico può costituire un’arma da
utilizzare contro un individuo o un gruppo, Pagani scrive (136, pag 31-32): «Bisogna
essere molto cauti nell’emettere giudizi di riprovazione o di condanna, perché è molto
facile che si concretizzi l’evangelico vedere la pagliuzza nell’occhio del vicino senza
tener conto della trave nel proprio. Nel momento in cui ci si autoelegge al compito di
giudici del comportamento altrui, non ci si affida certo al sentimento sociale, cardine
del nostro impianto teoretico, ma piuttosto, a un subdolo contenuto aggressivo, perché
il genuino senso sociale, che è poi, in fin dei conti, senso morale, non consentirebbe
mai una distinzione di tipo negativo fra noi e gli altri». In altro ambito (137, pag. 21)
cita la frase di Adler secondo cui la volontà di potenza «Non è la nostra follia: è la
follia che noi riscontriamo negli altri».
Se riflettiamo, molte associazioni benefiche, ad esempio, sono concepite “contro”
qualcosa: malattie, povertà, guerra, ingiustizie. Spesso però da questi concetti astratti
si passa a identificare persone o gruppi che costituirebbero un ostacolo in tale lotta;
ciò sovente funge da collante tra i membri dell’associazione e il linguaggio assume il
ruolo di demarcazione tra “noi” e gli “altri”.
Pagani, rifacendosi alla teoria del “gene egoista” di Richard Dawkins [48], secondo
cui i geni utilizzerebbero gli organismi viventi come veicolo per diffondersi e moltiplicarsi, si chiede se il sentimento comunitario non sia altro che uno strumento per alimentare la propria propagazione (136, pag. 29). Conclude infine che: «Forse durante
il processo di ominazione la diffusione dei geni ha permesso la sopravvivenza della
nostra specie, ma l’uomo d’oggi è altrettanto decisamente determinato a diffondere le
proprie idee, ad affermare le proprie convinzioni e i propri valori, a sostenere la propria religione, ad asserire i propri ideali, a portare avanti la propria cultura.
Sotto questo profilo ritengo che sarebbe giusto contrapporre o, almeno, affiancare
alla teoria del gene egoista, quella che intendo definire la teoria della cultura egoista»
(136, pag. 32). Terminando il suo articolo Pagani si chiede: «È possibile che nell’essere umano siano presenti più programmazioni psicologiche per quell’energia vitale
che noi definiamo pulsione aggressiva?».
A suffragio di tale affermazione cita un’intervista di Lorenz [136], nella quale asserisce di non aver sufficientemente articolato il suo concetto di aggressività, in quanto
gli schemi comportamentali di un singolo animale atti alla conservazione del proprio
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rango o alla conquista della femmina sono ben diversi da quelli di un gruppo che lotta
contro un altro gruppo.
6. Forse dobbiamo effettuare una precisazione. Gli Ansbacher [4] affermano che il
sentimento comunitario è innato come l’aspirazione alla superiorità. Tuttavia lo è solo
a livello di potenzialità, che deve poi essere sviluppata consciamente; pertanto l’ambiente assume un ruolo rilevante.
Gli Autori parlano inoltre dell’espressione del sentimento di comunità manifestato
attraverso l’empatia. Ora, l’ambiente può condizionare l’individuo a sviluppare l’empatia solo nei confronti dell’appartenente al gruppo; il sentimento di comunità invece
presuppone anche il senso di appartenenza al gruppo e, se questo si identifica attraverso contrapposizioni a qualcosa o qualcuno, l’empatia può essere limitata esclusivamente agli appartenenti a esso.
7. L’antropologo Telmo Pievani [140] si interroga sul paradosso dell’altruismo: nella specie umana l’empatia, il rifiuto per la sofferenza altrui e la reciprocità sociale
costituiscono vincoli ambigui, che producono sì cooperazione e altruismo all’interno
del gruppo, ma allo stesso tempo separazione aggressiva da altre aggregazioni. Van
Vugt [197] afferma che la nostra mente sociale ci ha predisposto a formare coalizioni,
soprattutto nei giovani maschi, per cui la nostra mente sociale è essenzialmente una
mente da coalizione o meglio un cervello tribale, come sostengono Kurzban e Leary
[98]. Secondo questi studi basterebbe l’appartenenza a un gruppo potenzialmente in
grado di cooperare per attivare le dinamiche del conflitto e dello sfruttamento di aggregazioni rivali.
Già nel 1978 Wilson [210] osserva che il nostro cervello sembra essere programmato
a suddividere il prossimo in amici ed estranei, tendendo a temere l’operato degli estranei e reagendo con l’aggressione. Egli cita il caso dei Semai, una popolazione della
Malesia, nota per la mansuetudine, tanto da non avere nella propria lingua la parola
“omicidio”.
Costoro vennero arruolati dal governo coloniale inglese per combattere i guerriglieri
comunisti. Chi li conosceva giudicò tale scelta poco oculata, ma quando i Semai incontrarono i guerriglieri, che avevano ucciso i loro parenti, mostrarono una straordinaria “capacità di ammazzare”.
8. Si deve inoltre riconoscere che gli scimpanzé non sono poi tanto da meno. Il 7
gennaio del 1974, nel parco naturale di Gombe in Tanzania, viene documentata per
la prima volta un’aggressione mortale: otto scimpanzé (6 adulti, un adolescente e
una femmina) guidati dal maschio alfa Figan uccidono Godi, uno scimpanzè giovane
adulto di una comunità confinante, rimasto isolato dal suo gruppo [209].
Da allora le segnalazioni di aggressioni mortali sono aumentate, con il 39% dei maschi e il 21% delle femmine scimpanzè che muoiono a seguito di ferite intenzional-
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mente inferte [209]. Gli aggressori sono in prevalenza maschi e le vittime sono maschi
adulti, anche giovani, e in minoranza femmine. Le aggressioni avvengono sempre in
aree di confine tra i diversi gruppi [204].
9. Secondo lo psicologo sociale Solomon Asch [6], l’appartenenza a un gruppo porta
a modificare il proprio comportamento, i propri giudizi e percezioni, per conformarsi
alle aspettative del gruppo.
Il suo esperimento prevede che otto persone, di cui sette complici dell’Autore, si incontrino in un laboratorio per un esercizio di discriminazione visiva: vengono presentati loro dei cartoncini con linee di lunghezza diversa e l’esaminatore chiede loro,
partendo sempre dai complici, di individuare le linee di lunghezza uguale; dopo le
prime risposte date correttamente, i complici iniziano a dare, volutamente e in modo
concorde, risposte sbagliate; ecco che il vero soggetto sperimentale, tenuto per ultimo
o penultimo, nella maggior parte dei casi risponde erroneamente, in modo conforme
alla risposta sbagliata data dalla maggioranza di persone che hanno risposto prima di
lui. Nello studio di Asch solo un quarto degli esaminati riesce sempre a dare la risposta giusta mantenendo, la propria autonomia di pensiero.
10. Altri due famosi esperimenti in cui si pone in risalto la sottomissione al potere
evidenziano altresì a cosa si possa arrivare pur di avere la sensazione di partecipare a un importante progetto e di appartenere a un gruppo: parliamo delle indagini
sull’“obbedienza cieca e totale” di Milgram [123] e dell’“esperimento carcerario di
Stanford” [217] di Zimbardo.
Milgram nel 1962, in un seminterrato dell’Università di Yale (che guarda caso era
stato attrezzato da Zimbardo per un precedente esperimento), idea uno studio secondo
cui gli “insegnanti”, vale a dire volontari pagati quattro dollari a prestazione, devono
valutare la memorizzazione di una serie di coppie di parole. Gli “allievi”, che sono
complici di Milgram, vengono collegati a un finto generatore di scosse elettriche di
voltaggio apparentemente sempre maggiore. Gli insegnanti devono somministrare tali
scosse (false) se l’allievo sbaglia, aumentando il voltaggio man mano che lo studio
procede. Gli allievi devono lanciare grida, mimare dolore, implorare di smettere, fino
a simulare di svenire quando si arriva a scariche di 300 volt.
Lo sperimentatore, però, ordina agli insegnanti di continuare, dichiarando che è molto
importante proseguire con lo studio. Benché protestino, essi vanno avanti a somministrare scosse (false): ben il 75% degli insegnanti continua a somministrare fino a
300 volt, vale a dire fino a quando gli allievi svengono, e ben il 65% va avanti fino ai
450 volt. Ciò ci deve far riflettere non solo sulla sottomissione all’autorità, ma anche
sul fatto che il senso di appartenenza a una comunità (nel caso specifico la comunità
scientifica di un’importante istituzione universitaria) e il perseguimento da parte di
questa di un elevato ideale (nel caso specifico l’ideale della conoscenza scientifica)
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possono attenuare il senso morale del singolo individuo.
Tuttavia l’esperimento di Milgram non è scevro di pesanti obiezioni. Gina Perry, psicologa australiana, riporta alcuni dati che inficiano l’obiettività scientifica dello studio
[139]. Prima di tutto non si è trattato di un unico test, bensì di 24 sperimentazioni condotte con procedure diverse; i risultati differiscono a seconda che il controllore e l’allievo si trovino nella medesima stanza oppure no, e ciò non viene segnalato; almeno il
40% dei volontari sarebbero stati al corrente che si trattava di una finzione e quasi solo
loro erano disposti ad arrivare a somministrare scariche considerate mortali; in tre sedute in cui il controllore ha mostrato l’intenzione di ritirarsi per non causare ulteriori
sofferenze all’allievo, il direttore della ricerca si è recato nella stanza dell’allievo e,
una volta uscito, ha rassicurato il controllore che l’allievo era disponibile a continuare
(fatto non segnalato alla pubblicazione dello studio).
Il 15 agosto 1971 inizia lo studio di Zimbardo, con il reclutamento di ventiquattro
persone, suddivise tramite estrazione a sorte in nove “guardie”, nove “prigionieri” più
sei riserve. I prigionieri nella “prigione” indossano camiciotti con un numero, sandali
di gomma, nessun indumento intimo e calze di nylon sulla testa per nascondere le
differenze di capigliatura. Le “guardie” vestono uniformi color cachi, con fischietto
da poliziotto al collo, occhiali a specchio per nascondere lo sguardo e sono dotate di
manganelli. L’esperimento ha una durata di due settimane. Già dal secondo giorno si
verificano imprevisti, tanto che Zimbardo deve sospendere l’esperimento poiché le
guardie si calano nel loro ruolo al punto da mettere in atto aggressioni sia fisiche che
psichiche nei confronti dei prigionieri. Anche in questo caso, il senso di appartenenza
a un gruppo detentore del potere contrapposto a un altro fa “miracoli”, modificando il
comportamento di individui giudicati “normali”.
Forse è anche importante il linguaggio del vestiario e come questo induca sentimenti
di appartenenza a un gruppo e di aggressività nei confronti di un altro diversamente
abbigliato. Per quanto concerne l’aggressività che compare in tali situazioni si rimanda anche a uno scritto di Rovera del 1979 [150].
11. Tania Singer [171], al proposito di empatia nei confronti delle altre persone, ha
condotto un interessante esperimento esaminando il cervello di volontari quando dovevano valutare il comportamento corretto di altre persone.
È bene specificare che in questo studio il termine empatia viene utilizzato secondo
l’accezione freudiana di capacità d’immedesimazione [71], piuttosto che nell’accezione jaspersiana di comprensione affettiva (ein fuhlendes) dei contenuti scaturiti da
stati d’animo, desideri e timori nell’individuo che parla [94].
Nello studio si evidenzia che sia le donne che gli uomini attivano la corteccia cingolata
anteriore e l’insula anteriore se vedono soffrire qualcuno che viene giudicato corretto e
simpatico. Tuttavia tale attivazione è notevolmente inferiore negli uomini se vedevano
soffrire qualcuno ritenuto scorretto o antipatico: addirittura in certi casi si attivavano
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aree cerebrali collegate al piacere.
L’empatia cala nei confronti di chi viene giudicato in modo negativo, poiché non corrisponde al nostro orientamento di valori. In questo caso possiamo dire che è stata reperita la base biologica dell'espressione tedesca Schadenfreude, indicante la sensazione
di piacere derivante dalle disgrazie altrui.
Circa le ulteriori elaborazioni teorico-pratiche del concetto di empatia si rinvia all’Editoriale di questo numero della rivista (Par. III).
12. Tutto ciò è comprensibile alla luce di quanto ha scritto Haidt [85] nel suo studio
“Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione”.
Egli dichiara che la selezione naturale, agendo in gran parte a livello individuale, ma
anche gruppale, ha portato gli esseri umani a possedere una duplice natura, per cui
siamo primati egoisti che desiderano far parte di qualcosa di più grande e nobile di
noi: siamo per il 90% scimpanzé e per il 10% api.
Siamo i discendenti di quei primati che grazie alle loro menti tribali sono stati in grado
di unirsi, cooperare e prevalere su altri gruppi; ciò non perché inclini a fare gioco di
squadra, ma perché selettivi. Vale a dire che si sono accorti che in certe condizioni il
motto “uno per tutti, tutti per uno” era vantaggioso sia per il singolo individuo che
per il singolo gruppo familiare.
Haidt si ricollega a Durkheim [54], che asserisce che l’homo sapiens è in realtà homo
duplex, poiché vive su due piani: quello individuale e quello sociale.
In base ai suoi studi sulle religioni conclude che le persone provano due tipi di sentimento sociale, uno per ciascun piano:
• Il primo tipo lega ogni individuo ai propri concittadini e si manifesta attraverso
il senso dell’onore, del rispetto, dell’affetto e della paura che possiamo provare
gli uni verso gli altri. Questo primo tipo è facilmente spiegato dalla selezione naturale che agisce a livello individuale, proprio come scriveva Darwin [47], secondo cui gli individui evitano i soggetti che non provano questi sentimenti.
• Il secondo tipo di sentimento sociale è invece quello che lega l’individuo all’en
tità sociale nel suo insieme. In base a questo sentimento sociale «(Io) sono sem
plicemente parte di un tutto, del quale seguo le azioni e subisco l’influenza » (47,
pag. 220).
Pagani [137] scrive che il compito cooperativo può essere genericamente identificato
col termine compartecipazione, intendendo l’assunzione di oneri e diritti da parte
dell’individuo da parte della società. In La Conoscenza dell’uomo del 1927 Adler parla di compartecipazione emotiva e, nell’ultimo capitolo, delle emozioni che tendono
a separare e delle emozioni che tendono ad unire [3].
Fra queste ultime parla della compassione, che vede come la più pura espressione del
sentimento sociale. Peraltro la compassione verso una vittima, presunta o vera che
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sia, può innescare un’emozione contemplata tra “quelle che dividono”: l’ira verso il
colpevole o il presunto tale e ciò viene amplificato se a provare ira è tutto un gruppo,
proprio perché, come dichiara Haidt, «La moralità unisce e acceca» (85, pag. 240).
Come si è visto l’intreccio tra sviluppo del linguaggio e sentimento di comunità, oltre che mettere in relazione gli individui e stimolare lo spirito di collaborazione e di
senso di coesione tra loro, può altresì essere al servizio dell’ostilità verso altri gruppi,
accentuandone lo spirito di appartenenza.
VI. La schizofrenia è il prezzo che dobbiamo pagare per aver imparato a parlare?
1. Tim Crow [17, 42, 43, 44] ha elaborato un modello successivamente sottoposto a
verifiche empiriche, secondo cui l’evoluzione del cervello umano, sia sul piano morfologico che su quello cognitivo, implica l’induzione di modificazioni tali da aumentare il rischio d’insorgenza di schizofrenia. Questa vulnerabilità costituirebbe il prezzo per aver acquisito il linguaggio verbale. L’Autore basa la sua tesi sull’assunto che
i sintomi nucleari della schizofrenia siano riconducibili a disturbi del linguaggio, in
particolare del loop fonologico e dei meccanismi di controllo e monitoraggio di esso.
Il delirio, ad esempio, viene interpretato sul piano linguistico come una alterazione
delle capacità simboliche e dei significati propri delle parole. Una totale perdita dei
significati simbolici spiegherebbe i sintomi negativi.
Secondo Crow la comparsa del genere homo è stata caratterizzata dalla specializzazione emisferica. La dimensione di questa asimmetria, in particolare del planum
temporale sinistro, è correlata allo sviluppo del linguaggio. L’asimmetria e la specializzazione cerebrali, maggiori negli umani rispetto alle scimmie antropomorfe, sarebbero legate a una modificazione genomica che codifica per la sintesi della proteina
Protocaderina XY (PCDHXY); quest’ultima svolge la sua azione nell’ambito del neurosviluppo, della plasticità neuronale dei processi di adesione cellulare e in senso lato
nella specializzazione emisferica.
2. Jonathan Burns [27, 28] ha integrato dati provenienti dalla paleoantropologia,
dalla psichiatria clinica e dalla psicologia evoluzionistica, al fine di avallare un’ipotesi secondo cui la schizofrenia sarebbe emersa come forma di bilanciamento dei due
aspetti principali del cervello sociale dell’homo sapiens.
Il primo bilanciamento è collegato all’acquisizione nell’evoluzione del cervello sociale umano di circuiti sempre più complessi per quanto concerne la connettività e la specializzazione necessari per acquisire le competenze in ambito di gruppi, le cui regole
di comportamento divengono sempre più sofisticate (per l’Autore la schizofrenia costituisce l’espressione di un’alterata connettività fronto-temporale e fronto-parietale).
Il secondo bilanciamento (avvenuto più recentemente) si evidenza quando compaiono delle modificazioni genetiche in alcuni individui, tali da indurre aberrazioni nella
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connettività di alcuni circuiti cerebrali.
Siccome il carico genetico può variare da individuo a individuo, l’espressione fenotipica di esso può variare anche in funzione degli stimoli ambientali.
Abbiamo pertanto uno “spettro fenotipico” in cui persone con forme lievi di psicosi
possono manifestare particolari capacità creative oppure idee rivoluzionarie, mentre
persone con disconnettività più marcata possono manifestare forme conclamate della
malattia.
3. I due modelli sarebbero criticabili [50], in quanto entrambi si basano su un meccanismo neurobiologico cognitivo univoco per spiegare la sintomatologia psicotica.
Tuttavia, per spiegare il ritiro sociale fino all’“autismo”, si rende necessaria l’integrazione dello sviluppo del linguaggio con lo sviluppo della cognizione sociale, in quanto lo sviluppo del primo si è accompagnato nell’homo sapiens al rapido e notevole
incremento della seconda, derivata da un’elevata pressione evolutiva indotta dalla
necessità di soddisfare le esigenze di un ambiente sociale complesso [53].
4. Pinker [141, 142, 143, 145] pone l’accento sulla spinta evoluzionistica a costituire
e mantenere dei gruppi cooperativi che si baserebbe sul linguaggio e sull’intelligenza
sociale, che devono avere una comune base biologica. Come già detto in precedenza,
secondo l’Autore, l’uomo moderno ha occupato quella che Tooby e De Vore [194]
hanno denominato nicchia cognitiva.
Costoro hanno messo a punto una teoria per spiegare l’ampia varietà di culture caratterizzate da diversità di habitat, diete, usanze, religioni e linguaggi. Tutto ciò, che è
riassumibile nel concetto di stile di vita dell’homo sapiens, è la conseguenza di una
specializzazione per affrontare l’ambiente ostile mediante il ragionamento di causa
ed effetto basato su teorie intuitive su vari domini del mondo, come luoghi, percorsi,
sostanze e, anche grazie alla teoria della mente, credenze e desideri di altri individui.
L’informazione catturata attraverso queste teorie intuitive venne trasmessa agli altri
membri del gruppo attraverso il linguaggio.
Per cui, secondo Pinker, linguaggio e cognizione sociale si sono co-evoluti per permettere l’adattamento alla nicchia evolutiva. Egli elenca una serie di requisisti necessari affinché avvenga lo sviluppo del linguaggio nella nicchia cognitiva:
I) il linguaggio deve trasmettere informazioni;
II) le informazioni devono avere la proprietà di una duplicazione senza perdita;
III) il linguaggio deve moltiplicare i vantaggi della conoscenza;
IV) il linguaggio richiede la cooperazione sociale;
V) il linguaggio facilita la cooperazione sociale;
VI) linguaggio e socialità sono il prodotto di una pressione evolutiva che ne ha
indotto il reciproco sviluppo.
Forse è necessario chiarire che cosa s’intende col secondo punto: se io do un pesce a
un altro uomo non avrò più un pesce, ma se fornisco l’informazione su come pescare
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non perdo la mia conoscenza per averla passata a un altro e possiamo trarne entrambi
vantaggi. Nell’ottica evoluzionistica si può obiettare che se l’altro pesca troppo nel
mio lago io non avrò più pesci da pescare, ma molto probabilmente io avrò passato
l’informazione ad un membro del mio gruppo con cui condivido un buon numero di
geni per cui la logica del numero di Dunbar si mantiene valida.
Lo sviluppo della schizofrenia, secondo Di Michele, sarebbe pertanto non solo correlato allo sviluppo del linguaggio, ma anche allo sviluppo delle capacità sociali ad esso
strettamente intrecciate.
Alla fine di questa lunga digressione sullo sviluppo del linguaggio strettamente legato
allo sviluppo della cooperazione umana, vediamo che cosa possiamo dire su quel particolare tipo di cooperazione che sorge tra due individui appartenenti a gruppi diversi
nella stanza di uno psicoterapeuta.
VII. Il linguaggio nella psicoterapia: alcune riflessioni
Questo paragrafo deve essere considerato quale ulteriore riflessione a quanto tra l’altro già riferito da Rovera e Ferrero [156], Rovera e Gatti [157], Gasparini e Gatti [74].
Al proposito, il commento di Frank e Frank (69, pag.166) riguardo alla psicoterapia è
che: «L’efficacia è innanzitutto una caratteristica del terapeuta, non di una determinata
tecnica». Potremmo definire ciò come stile terapeutico.
1. Fin dal primo colloquio, il linguaggio utilizzato dallo psicoterapeuta deve contribuire alla costituzione di un’alleanza terapeutica. Per una disamina di tale concetto
si rimanda a Rovera [155 e Par. III dell’Editoriale]. Persino Nussbaum (133, p.15),
nell’introduzione al suo testo sul colloquio clinico orientato secondo i criteri del tanto
contestato DSM-5, afferma che «L’alleanza terapeutica è il cuore di tutti i trattamenti
psichiatrici». Essa si attiva sempre in un determinato contesto, per cui si è fondamentale analizzare le caratteristiche nelle quali si sviluppa il dialogo psicoterapeutico.
De Michelis [49], rifacendosi a Gregory Bateson, formula alcune osservazioni sull’autoreferenzialità dell’osservazione degli aggregati sociali che possono essere applicabili alla relazione psicoterapeutica:
1) «L’osservatore di un aggregato sociale è osservatore di osservatori». Egli cita
Maturana e Varela, secondo cui «Tutto ciò che è detto è detto da un osservatore” e prosegue “Proprio nelle interazioni linguistiche, quelle che appaiono a prima vista come
le più chiaramente interpretabili in termini di intenzioni e di legami reciproci espliciti,
l’autoriflessione si chiude in sé: il parlante nell’atto di parlare da una parte istituisce una
relazione con l’ascoltatore, dall’altra osserva quella relazione. L’osservatore dell’aggregato sociale in cui quella interazione avviene sta quindi osservando un fenomeno
intrinsecamente complesso, le cui diverse dimensioni non sono riducibili l’una all’altra. È l’osservatore osservato che genera questo intreccio inesplicabile» (114, pag.53).
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2) «L’osservatore di un aggregato sociale è a sua volta osservato». Questo lo sappiamo benissimo tutti, a meno che non si stia alle spalle del lettino. Ma vengono anche
“osservate” le parole che usiamo e come le diciamo. Ogni spiegazione di un rapporto
psicoterapeutico è la spiegazione dell’osservazione e della descrizione di esso.
3) «L’osservazione di un aggregato sociale è una pratica linguistica che ha come
oggetto una pratica linguistica». De Michelis sottolinea che l’osservatore dice: non è
il fatto che osservi che lo qualifica come tale, bensì la sua attività linguistica; e ogni
interazione sociale è una pratica linguistica. L’informazione diviene tale non quando
viene verbalizzata, ma quando viene ascoltata. Ogni interazione fisica tra due persone
si linguisticizza nel momento in cui si percepiscono e interpretano gli atteggiamenti e
i movimenti corporei dell’altro.
4) «Nell’osservazione di una pratica sociale, è il contesto che le dà senso, cioè l’aggregato sociale in cui essa accade, che emerge in quanto suo spazio di possibilità».
De Michelis al proposito si pone le domande: Come può un osservatore osservare un
aggregato sociale, in quanto contesto delle pratiche sociali che in esso avvengono?
Come può un osservatore osservare il contesto delle sue osservazioni, se quel contesto
è parte delle sue osservazioni?.
Nella sua contingenza, un aggregato sociale non è spiegabile dal suo osservatore,
potendo solo intervenire in esso. Ma se il contesto è il luogo in cui le pratiche sociali
acquistano senso, esso può essere osservato al di là della contingenza, come spazio di
possibilità (di senso) delle pratiche sociali».
5) «Nell’osservazione di un aggregato sociale la molteplicità del sociale si scontra
con l’individualità dell’osservatore». A meno che si consideri un individuo solo come
un oggetto che ci elenca dei sintomi, dobbiamo tenere presente che questi, oltre al
ruolo di paziente in psicoterapia, svolge anche quello di coniuge, genitore, impiegato,
professionista, figlio, praticante di uno sport di squadra, amico, amante di una terza
persona forse.
Chi sta dall’altra parte formula fantasie o chiede informazioni su quali altri ruoli portiamo avanti nella vita e tutto ciò influisce sul rapporto; resta però il fatto che nell’ambito psicoterapeutico possiamo e dobbiamo recitare un solo ruolo.
6) «Ogni spiegazione del sociale richiede una spiegazione del linguaggio». Se
la socialità (almeno a livello umano) si sviluppa nella dimensione linguistica, ogni
pratica sociale acquista senso nel linguaggio che accomuna e caratterizza l’aggregato
sociale in cui essa si svolge.
De Michelis in questo si rifà al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche [211] e afferma
che per lui un aggregato sociale non è altro che una forma di vita caratterizzata da una
triade di giochi linguistici: pragmatico, in cui gli attori si rapportano l’uno all’altro
impegnandosi in azioni e possibilità future; semantico, in cui viene costruito quel
mondo in cui quegli impegni hanno senso; confidenziale, in cui si precisano i rappor-
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ti di con-fiducia tra gli attori rendendo quindi credibili quegli impegni assunti. Egli
sottolinea che i giochi linguistici sono autoriflessivi poiché, in quanto giochi, hanno
regole costitutive che in ogni istante stabiliscono le mosse (le azioni del linguaggio)
possibili per gli attori e poiché, in secondo luogo, ogni mossa fatta da un attore perturba il gioco stesso determinando un cambiamento delle regole.
2. Non si possono trascurare, seppur a livello di accenno, gli aspetti culturali poiché, come nota Rovera, una relazione interindividuale si basa sempre su un universo
pre-interpretato, in cui ciascuno degli attori è contraddistinto da una storia personale
inscritta nel proprio contesto culturale [155]; e ciò assume ulteriore rilevanza se i
gruppi di appartenenza del paziente e dello psicoterapeuta sono differenti. Gli universi culturali pre-interpretati sono impregnati dalle memorie e dalle rappresentazioni
proprie di quel popolo o di quella nazione di appartenenza [158].
A tale proposito Luc Michel [122] pone in risalto la dinamica metatransfert/metacontrotransfert a livello interculturale. Il significato di tale nozione riguarda non solo la
definizione dei rapporti tra gli attori della relazione psicoterapeutica, ma anche tra i
rispettivi gruppi di appartenenza. Il prefisso meta significa oltre le consuete dinamiche
relazionali.
3. Lo psichiatra e antropologo Arthur Kleinman [99] si è interrogato sul significato
dell’incontro tra persone di diverse culture quando il motivo di esso è causato dalla
malattia. Nei suoi studi evidenzia che i medici danno troppo per scontato il significato
della malattia anche per pazienti di culture diverse, per cui suggerisce un decalogo di
domande:
a) quale ritiene sia la causa della sua malattia?
b) perché è iniziata proprio in questo momento?
c) cosa ritiene che la sua malattia le causi?
d ) che cosa fa la malattia?
e) quanto è grave la malattia?
f) durerà poco o a lungo?
g) quale tipo di cura dovrebbe ricevere?
h) quali sono i risultati più importanti che la cura le dovrebbe indurre?
i) quali sono i problemi principali che la malattia le ha causato?
l) che cosa le fa più paura della sua malattia?
4. È evidente pertanto quanto sia importante il linguaggio anche nella clinica. Tuttavia, come sottolinea Bove [24], chi opera nel campo della salute mentale si trova
in una condizione particolare: mentre il chirurgo che deve operare conosce bene le
caratteristiche e le modalità di uso del bisturi, noi psicoterapeuti non conosciamo così
bene le caratteristiche del linguaggio che utilizziamo, anche se siamo abituati a usarlo
spontaneamente. Una cosa è una conversazione, un’altra un colloquio diagnostico o
psicoterapeutico, che presupporrebbe la conoscenza degli articoli citati all’inizio di
questo paragrafo.
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5. In psichiatria non esiste manuale che insegni come parlare ai depressi o agli schizofrenici o agli ossessivi, ma quanto gli è più vicino è rappresentato dalla trilogia della
Mc Williams [116-118], vera fonte di istruzioni pratiche e riflessioni.
In Psicoterapia psicoanalitica, l’Autrice scrive: «La psicoterapia è una conversazione, una collaborazione in cui l’ascolto e la parola si alternano tra i due poli del rapporto
terapeutico» (118, p.150), ma «Una normale conversazione si basa in buona parte su
presupposti che un terapeuta psicodinamico si sforza di non fare propri, per esempio
quello per cui chi parla è ben disposto verso chi ascolta» e, più in là, «In psicoterapia,
ascoltare è più importante che parlare. In realtà, gran parte di ciò che il terapeuta dice
nel corso della seduta è teso proprio a dimostrare che sta ascoltando» (118, p.151).
6. Secondo Bove [24] il linguaggio della clinica implica due prospettive: quella dello
specialista e quella del paziente. A seconda di quella che assumiamo ci focalizziamo
sulla comprensione di chi ci sta di fronte in base alle parole e alle inflessioni con cui
vengono pronunciate o sull’aspetto della cura alimentata dal nostro intervento.
Ciò implica, come dice Semi, una «buona consapevolezza del proprio stile comunicativo», con conseguente capacità di modulazione di esso a seconda delle situazioni,
non dimenticando quella che egli indica come regola fondamentale del linguaggio:
«in linea di massima il linguaggio che si usa durante il colloquio è quello del paziente» (169, p. 24).
Ciò deve essere fatto, a mio parere, perché con quel linguaggio il paziente ha strutturato la propria percezione ed esperienza del mondo. In questa ottica può anche essere
letto il concetto di equazione transculturale all’interno del setting [60], secondo cui i
due attori della relazione terapeutica scambiano nell’ambito della loro comunicazione
le rispettive sottoculture di appartenenza e i propri stili di vita in un circolo cognitivoaffettivo-cognitivo.
Al proposito Bove pone in risalto che l’uso del lessico del paziente da parte del terapeuta può influire favorevolmente nella relazione terapeutica per quattro ragioni:
a) Mi sento ascoltato: se il terapeuta usa le mie parole vuol dire che mi sta ascol
tando, che prova interesse per quello che dico. Per questo vale la pena di con-
tinuare a parlare.
b) Mi sento compreso: lo psicologo ha utilizzato proprio quei termini che mi
rievocano emozioni intense. Questo vuol dire che riesce a cogliere le cose che per me hanno valore, positive o negative che siano. Perciò sento che è in grado di comprendere il mio stato d’animo.
c) Mi sento accettato: attraverso l’uso di determinate espressioni, il terapeuta riconosce il mio modo di vedere le cose, aderisce alla mia concezione del mondo. Pertanto mi sento accettato e benvoluto.
d) Mi sento contenuto: so quello che dico, le mie esperienze angoscianti trovano un posto nel mio psicoterapeuta. Il discorso che sviluppo con lui fa da argine alla mia sofferenza e le impedisce di sopraffarmi.
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Per quanto concerne il primo punto la Programmazione Neurolinguistica [9] conferisce particolare importanza al rispecchiamento dei predicati utilizzati dal paziente,
vale a dire alle frasi che vengono usate per descrivere il modo in cui sono le cose.
Queste infatti ci forniscono informazioni su quale canale sensoriale viene utilizzato. I canali sensoriali sono tre: visivo, espresso da frasi tipo «Ora ci vedo chiaro»,
«Ho guardato dentro di me», etc.; uditivo, espresso da frasi tipo «Mi suona male»,
«Quando sto in ascolto di me stesso» etc.; cenestesico, espresso da frasi tipo «Ho un
peso sullo stomaco», «Cammino sulle uova» ecc. Nei nostri commenti sarebbe utile
privilegiare il canale utilizzato dal paziente. Ciò è sicuramente di ausilio nel processo
d’identificazione col paziente. Borgogno [23] distingue due aspetti dell'identificazione: uno attivo manifestato dall’espressione “mettersi nei panni”, fondato sul fare e capire, e l’altro passivo consistente nell’“indossare i panni altrui”, caratterizzato invece
dall’essere e dal sentire.
È altresì utile il vocabolario con cui il paziente esprime i predicati che contraddistinguono la propria esperienza.
A questo proposito può essere importante anche la riformulazione che ci permette di
ripetere ciò che ha detto il paziente, ma aggiungendoci qualcosa di nostro anche sotto
forma di restituzione alla fine dei colloqui. Come sottolinea Ferrigno [64], la stessa riformulazione può costituire una forma d’incoraggiamento per poter meglio affrontare
un nuovo “percorso conoscitivo”.
Riveste anche particolare importanza il tono che utilizziamo.
7. Nell’asse degli strumenti tecnici nell’ambito della Psicoterapia Psicodinamica
Adleriana (APP) e della Psicoterapia Breve Psicodinamica Adleriana (B-APP), Fassino e Ferrero [59, 61-63] utilizzano la sistematizzazione proposta dal Menninger
Clinic Treatment Intervention Project. Tra gli strumenti tecnici validanti annoverano
conferme e prescrizioni. Quando esse vengono formulate, può essere utile applicare
quanto indica Watzlawick [205], secondo cui è preferibile utilizzare un linguaggio
lento, chiaro, sovente ripetitivo. È meglio fare uso di frasi semplici e corte. Come osserva l’Autore, tendiamo a non ripetere osservazioni e indicazioni poiché temiamo di
trattare da stupidi i nostri pazienti, ma può capitare che ripetendo per l’ennesima volta
un’osservazione il paziente commenti: «Ha ragione non ci avevamo mai pensato».
Anche Ferrigno [64] consiglia:
1) periodi brevi e sintatticamente semplici;
2) ridondanze;
3) ripetizioni;
4) similitudini;
5) parole ad alto livello d’immagine.
8. A questo punto si dovrebbe parlare dell’importanza della metafora, ma si preferisce
rimandare ai testi di Cacciari [30], Gordon [78], Barker [12], Mills e Crowley [124]. In
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ambito adleriano, al proposito, Kopp [100] introduce la differenziazione tra metafora
(“mio marito è un treno”) dall’espressione metaforica (“mio marito è come se fosse
un treno”). Egli afferma che gli individui, le famiglie, i gruppi sociali e l’umanità
intera strutturano la realtà in modo metaforico.
A livello individuale la struttura metaforica della realtà si articola in sei substrutture
(metaforme), che rappresentano sé, gli altri, la vita e la relazione tra questi elementi: il
sé in rapporto al sé, il sé in rapporto agli altri e il sé in rapporto alla vita.
9. Tornando alla B-APP viene contemplato l’asse dell’incoraggiamento al fine di rispondere ai bisogni di cooperazione del paziente. Vengono distinti:
1) La posizione incoraggiante di ricerca che si articola in: a) assunzione di equidistanza tra le primitive e le nuove modalità che il paziente pone in atto col
terapeuta; b) sospensione di giudizio e di c) partecipazione affettiva sui compor
tamenti, desideri e sentimenti, che il paziente ha costituito come verità assolute
per poi arrivare a cercare di elaborare alternative ad esse.
2) La posizione incoraggiante di offerta che si articola in: a) una proposta di
modello identificatorio positivo, successiva alla comprensione della natura fin
zionale di precedenti prototipi del passato, per arrivare a fornire nell’hic et nunc
della seduta soluzioni ai problemi attuali attraverso; b) valutazioni esplicite;
c) partecipazione affettiva.
10 a. Rilevante è anche la prospettiva d’ascolto con cui ci si pone col paziente. Hedges [91] ne elenca quattro a seconda che il paziente presenti un’organizzazione di personalità nevrotica, narcisistica, borderline o «organizzante», intendendo con quest’ultimo termine pazienti psicotici con uno stile di attaccamento disorganizzato [109, 67].
Mc Williams [118] rifacendosi alla classificazione delle strutture di personalità di
Kernberg [97] dichiara che con i pazienti dell’area nevrotica possiamo porre problemi e stimolare l’esplorazione; con quelli dell’area borderline dobbiamo attenderci un
conflitto che ci richiede di essere attivi, fissare dei limiti, interpretare le dinamiche primitive e focalizzarci sull’hic et nunc; con quelli dell’area psicotica dobbiamo essere
attivi nell’educare, normalizzare e sostenere esplicitamente le capacità del paziente.
Pone altresì l’accento sul tono di voce da usare: fermo per una persona con tendenze
paranoidi, comprensivo e di conforto per il depresso indipendentemente dal livello di
organizzazione della personalità.
In precedenza Mc Williams [115] ha sostenuto che la dedizione e l’integrità, valori espressi rispettivamente dalle figure materna e paterna, devono essere entrambi
presenti nella psicoterapia, ricordando che la storia della psicoanalisi fin dall’inizio
è stata caratterizzata da contrapposizioni di questi due atteggiamenti: Freud era più
paterno come stile e tono di voce, Ferenczi manifestava una sensibilità più materna.
Successivamente approcci paternalisti si sono contrapposti ad atteggiamenti maternalistici, sovente in conflitto per ambire al primato di paradigma di riferimento: Fenichel
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versus Reik, Klein opposta ad Anna Freud, Brenner a Stone, Kernberg a Kohut, analisti classici contro relazionali.
La ricerca sugli stili di attaccamento evidenzia che i terapeuti si adattano ai particolari
stili di adattamento dei pazienti [36, 67]. Le persone con stili di attaccamento sicuro
rispondono bene alle interpretazioni concernenti i conflitti interni, mentre con un attaccamento ambivalente il terapeuta deve stimolare la tolleranza del continuo oscillare tra il timore di essere circondati e quello di essere abbandonati [109].
10 b. Per quanto riguarda le persone che hanno subito traumi psichici, Mundo [127]
raccomanda di modulare gli interventi evitando situazioni di eccessiva stimolazione, che potrebbero riattivare a livello dell’amigdala sensazioni di sensibilizzazione
(psychological kindling di Wilkinson) [208]: controllando il tono di voce, la velocità
e l’intensità degli interventi; attivando quel contatto reciproco tra le cortecce orbitofrontali destre del terapeuta e del paziente, che Schore [163, 164] descrive come una
riedizione del contatto tra i cervelli della madre e del bambino. Come dichiara Wilkinson «si devono utilizzare colori pastello e non colori primari » (208 p. 87).
Ricordiamoci che la corteccia orbito-frontale è centralmente implicata nell’integrazione, valutazione e assegnazione dei significati emotivo-motivazionali alle impressioni cognitive dando ad esse un significato personale [11, 95, 145, 152, 179].
Il sistema orbito-frontale si attiva anche durante le «rotture delle aspettative» [128],
vale a dire quando l’informazione è dissonante dagli schemi cognitivi pregressi. La
cosiddetta «rete limbica prefrontale anteriore» [34], che connette la corteccia prefrontale orbitale e mediale anteriore col polo temporale, giro cingolato e amigdala, è
legata all’elaborazione mnemonica d alla conservazione delle risposte affettive agli
eventi. In più svolge una funzione di adattamento del pensiero e del comportamento
alla realtà intercorrente [161].
11. Tornando a quanto Bove (24, p. 123) enuncia riguardo al linguaggio utilizzato
nell’ambito della psicoterapia, egli elenca cinque punti che si rifanno alle contestate
teorie strutturaliste statunitensi di Sapir e Whorf [159, 207]:
a) Il pensiero è strutturato dalla lingua di appartenenza.
b) Lingue diverse sostengono concezioni del mondo differenti.
c) Ogni codice linguistico possiede peculiarità culturalmente determinate
d) L’essere umano è un prodotto della cultura di cui fa parte.
e) Le capacità linguistiche dell’uomo - più che essere vincolate a un programma
di sviluppo definito in senso genetico - derivano dall’ambiente in cui vive.
Pinker [141] vede il linguaggio come un istinto specifico della specie umana, separato
e autonomo rispetto alle altre funzioni cognitive.
Dobbiamo essere in grado di comprendere la lingua dei nostri pazienti e per tali tematiche si rimanda all’articolo di Gasparini e Gatti [74].
Al proposito Semi e Bove prendono in esame la possibilità che il paziente si esprima in
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dialetto, ma è un’evenienza ormai eccezionale nel caso di pazienti motivati a intraprendere una psicoterapia. Comunque tale tematica rientra nel più ampio ambito relativo
alla sintonizzazione emotiva con persone appartenenti a culture diverse dalla nostra.
12. Sappiamo che l’uso delle parole in un dialogo presuppone un’intenzione comunicativa. Tuttavia può sussistere una differenza tra il significato letterale delle parole
che usiamo e il messaggio comunicativo che desideriamo inviare. Al proposito Grice
[82] differenzia il significato dell’espressione (il significato letterale della frase) dal
significato del parlante (ciò che il parlante vuol far capire all’interlocutore), condensando il tutto nell’espressione «implicatura conversazionale», così ben analizzata da
Pinker [143].
Ad esempio, se una paziente in lacrime chiede un fazzoletto e il terapeuta si limita a
rispondere sì senza però fare nulla, la signora penserà di aver di fronte un imbecille.
Vi possono anche essere comunicazioni inconsce che dobbiamo desumere. Se un genitore che ha perso un figlio si dilunga a parlare della disperazione per il lutto e poi afferma di pensare alla morte, dobbiamo chiederci se pensa ancora alla morte del figlio
o alla propria. Se un vedovo ci comunica che, nell’approssimarsi dell’anniversario
della morte dell’amata moglie da cui era psicologicamente dipendente, ha iniziato a
regalare gli oggetti cui è particolarmente affezionato alle persone care, non facciamo
certo una bella figura se chiediamo se costoro hanno gradito.
Dobbiamo tener presente che possiamo anche formulare delle implicature involontarie: possiamo far sedere un paziente che abbiamo già visto e chiedergli «Come si
sente?» oppure «Che disturbi ha avuto questa settimana?», ma la seconda formula
implica che abbia dovuto soffrire necessariamente di qualcosa di patologico, per cui
forse lo possiamo spingere a percepire come depressione quelli che sono solo momenti di tristezza.
Tornando al discorso delle implicature, la linguista Deborah Tannen nel suo libro Ma
perché non mi capisci? [181] ha posto in luce che uomini e donne sovente comunicano in modo diverso, non tanto a parole o sintassi, quanto a livello d’implicature.
Al fine di poter inferire l’intenzionalità comunicativa, ci dobbiamo rifare al concetto
di contesto comunicativo [16]. Siamo in grado di comprendere il significato di una
frase tenendo conto del contesto linguistico, vale a dire che il contenuto del discorso
che stiamo effettuando ci permette di riferire un determinato enunciato a un particolare ambito semantico. Ad esempio, se un paziente ci parla di una grave crisi d’ansia
con tachicardia e tremori, una cosa è se si tratta di un grave depresso che ci ha appena
detto che forse non vale più la pena di vivere, un’altra se, invece, si tratta di un paziente che ci comunica che sono in corso esami clinici per escludere un ipertiroidismo.
Non dobbiamo poi dimenticare mentre si procede a un colloquio clinico le motivazioni che hanno portato il nostro interlocutore da noi, poiché esse condizionano le sue
richieste e le sue aspettative consce ed inconsce.
Come ci ricorda Capello [33], nella richiesta di colloquio è sempre rintracciabile un
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certo grado di ambivalenza, visto che anche nella più spontanea delle richieste ci possono essere elementi di diffidenza e di chiusura.
Nell’ambito della comunicazione assumono importanza anche aspetti che si è scelto
di non trattare in questo articolo, quali gli elementi extra-linguistici (mimica postura)
e para-linguistici (prosodia, gesticolazione). Altro elemento da tenere presente è rappresentato dall’ambiente in cui vengono effettuate le comunicazioni. Ad esempio, fare
un colloquio in una stanza del DEA è diverso da farlo nel proprio studio.
Vi è anche la cosiddetta capacità intenzionale, vale a dire lo scarto che intercorre tra
ciò che il parlante vuole dire e ciò che effettivamente vuole esprimere. A volte in questi casi effettuare una parafrasi, riepilogando e premettendo la frase «Mi aiuti a capire
se ho capito bene...», può servire a chiarire e, in più, può dare al paziente la sensazione
di contribuire alla costruzione della psicoterapia.
Mc Williams [118] raccomanda di far notare con tatto ai pazienti i modi con cui cercano di prendere le distanze dal vivere pienamente le proprie esperienze. Difese comuni
in tal senso includono modalità come: il parlare in seconda persona («Come si sente?»
«Beh, stai male quando ti trattano così») o in forma impersonale («E come si può stare
in una situazione del genere?»); drammatizzare o enfatizzare affetti che possono semplicemente essere espressi «Sono taaanto arrabbiata» allargando le braccia e strabuzzando gli occhi); cercare di coinvolgere il terapeuta («Lei come si sarebbe comportato
con una così?»); evitare di esprimere emozioni utilizzando invece termini vaghi («Mi
sento un po’ strana, credo»).
Levenson [104] raccomanda di “ricercare il particolare”, addentrandosi nei particolari
quando il paziente tende invece a rimanere sulle generali («Che cosa intende esattamente quando dice “essere virile”?»).
Di fatto sinora abbiamo parlato di una delle tre branche in cui si divide la linguistica
secondo Morris [125]: la pragmatica, vale a dire lo studio del linguaggio in funzione
dell’utilizzo del parlante in situazioni concrete.
Secondo Bianchi [18] essa è essenzialmente interessata a due ambiti:
a) Fare parole con le cose: lo studio dell’influenza del contesto sulle parole.
Di ciò si è già detto.
b) Fare cose con le parole: lo studio dell’influenza della parola sul contesto. Fare
un discorso è un modo per influenzare le credenze e l'agire del nostro interlocu
tore, o per modulare la relazione che intratteniamo con lui.
A questo proposito Bove specifica:
a) Parlare significa agire: attraverso le parole facciamo cose (“Io ti lascio”) o ci
assumiamo impegni (“Prometto di non bere più”). Il proferimento linguistico è
coinciso con la messa in atto di un comportamento.
Si tratta degli atti linguistici [7], classificabili a tre livelli:
I) Livello locutivo o del parlare, che si articola a sua volta nell’emissione di suoni
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grammaticalmente previsti da una lingua e che siano dotati di significato.
II) Livello illocutivo, concernente ciò che si fa nel parlare: esprimere una deci
sione presa; esporre i propri sentimenti o le proprie idee.
III) Livello perlocutivo, vale a dire gli effetti che si conseguono parlando nel
senso che si può far divertire, tranquillizzare oppure indurre ansia.
A loro volta gli atti illocutivi in quanto azioni linguistiche fondamentali vengono distinti in cinque categorie:
1) verdettivi: esprimono un giudizio attraverso verbi tipo giudico, ritengo, stimo etc.
2) esercitivi: volti a prendere una decisione pro o contro, utilizzando verbi tipo
consiglio, ordino, supplico ecc.
3) commissivi: atti ad impegnare colui che parla in un’azione con verbi tipo pro
metto, mi impegno ecc.
4) espositivi: servono per esporre pensieri e argomentazioni con verbi tipo affer
mo, nego, osservo, credo, ammetto, rifiuto etc.
5) comparativi (o espressivi): esprimono reazioni a comportamenti di altri con
l’uso di formule verbali tipo ringrazio, mi scuso, benedico, maledico etc.
b) Parlare significa cambiare: gli atti linguistici hanno conseguenze sul compor
tamento, sulle emozioni, sulle relazioni di chi ascolta. Dobbiamo altresì notare
che oltre ad indurre cambiamenti nell’altro il parlare può indurre cambiamenti
in noi stessi. Quante volte un paziente dice: «Ma sa dottore che dopo che le ho
detto queste cose mi sono reso conto che posso vederle sotto un differente punto
di vista». Gadamer [73] ha affermato che chi si ascolta parlare, spesso è come se
venisse a conoscenza di cose nuove. Questo perché quando parla il soggetto reinventa la propria storia per renderla congrua al suo stile di vita. Qui si aprirebbe il
discorso sulla verità narrativa e sulla verità storica, che vede su fronti opposti
Spence [173] e Schafer [160], anche se alla fine entrambi concordano che le nar
razioni cliniche dei pazienti non possono necessariamente essere considerate
«Fatti storici».
13. Ci si domanda come possiamo comprendere il senso esclusivo che il paziente
annette alle proprie parole e la risposta consiste nel fatto che si rende necessaria l’assunzione di un atteggiamento fenomenologico [24]. Il terapeuta dovrebbe essere in
grado di liberare temporaneamente la propria mente da tutti i preconcetti in base cui
attribuiremmo un senso a quel che dice il nostro paziente [24].
Al proposito viene utilizzato il termine husserliano di epoché, che in clinica, secondo
Stanghellini [175], si costituisce in una temporanea sospensione di giudizio, tale da
rendere consapevoli i nostri pregiudizi, che possono infiltrare il senso delle parole
altrui [24]. Ciò si traduce anche soprattutto nei primi colloqui, nel fare al paziente
delle domande aperte, in modo da non indicare le strade da percorrere, influenzando
il soggetto con nostre idee preconcette. Questo è peraltro il medesimo atteggiamen-
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to che consiglia Bion [21], quando dice di predisporre l’ascolto del paziente «senza
memoria né desiderio». Si può anche dire che incoraggiare è saper conversare [64].
14. «Non c’è comunicazione senza silenzio» (10, p. 341).
Questo non significa che dobbiamo stare sempre zitti come la caricatura del classico psicoanalista. Come sottolineano Tesio, Cuniberti e Cigliuti [185], soprattutto
nell’ambito del primo colloquio, non rispondere alle domande viola le regole quotidiane della conversazione. Non si può pretendere che chi si rivolge a noi conosca lo
stile del dialogo psicodinamico adleriano [58, 61, 74, 138, 151, 153, 155].
Peraltro anche Thoma e Kachele (186, p. 322) ricordano una frase di Kohut «Rimanere in silenzio quando viene posta una domanda non è essere neutrali, ma maleducati».
«In effetti, il silenzio è una condizione essenziale nella relazione. Prima di tutto perché in determinate condizioni è l'unico modo che abbiamo per comunicare il nostro
rispetto» (24, p. 142).
15. Freud [70] dichiara che la causa più frequente di silenzio è la resistenza. Tuttavia,
come dice Levy [105], il paziente comunica nonostante la sua resistenza e Zeligs
[216] elenca tra gli indicatori di questa comunicazione postura, movimenti ed espressione facciale. In più, Greenson [81] puntualizza: «Tra il silenzio e la parola si estende
l’importante e negletto regno dei suoni. Le grandi emozioni sono senza parole, ma
non senza suoni». Egli dedica ben due articoli al suono “mm...” [80, 81]. Nota che il
suono “mm” è predominante nelle parole correlate al termine “madre”.
Collegandolo alla suzione e col fatto che è l’unico suono che si può emettere col capezzolo in bocca, ritiene che possa trasmettere il piacere per la sensazione di qualcosa
di buono. Mc Williams [118] commenta che forse con questo suono gli psicoterapeuti
segnalano al paziente che sono aperti alla loro “fame” e alla loro aggressività, come
una mamma col proprio bambino. Aggiunge inoltre «In passato sovente usavo questo
suono come approvazione, ma ora che ho i capelli grigi e le borse sotto gli occhi lo
evito perché i pazienti ripetono quanto detto pensando che non abbia udito».
A volte, ad esempio, spiegare che ognuno di noi può aver nutrito sentimenti aggressivi
nei confronti dei propri genitori può alleggerire notevolmente la situazione. Sempre la
Mc Williams raccomanda di non “ surclassare” i pazienti: l’atteggiamento “Così alla
fine hai capito quello che io sapevo già da un pezzo” può rovinare il rapporto.
16. In linguistica [74] si parla di cortesia riferendosi non ai dettami di Monsignor
Della Casa o di Donna Letizia, ma alle regole di conversazione per non complicare la
decodifica dei messaggi verbali che inviamo.
Gli antropologi Penelope Brown e Stephen Levinson [26], in un loro studio, hanno
evidenziato che le teorie di Grice [82, 83] vengono di fatto applicate in ogni parte del
mondo per “oliare” le relazioni sociali. Essi partono dal presupposto che quando gli
individui interagiscono tengono soprattutto a salvaguardare un qualcosa di non ben
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definito, ma tuttavia vitale, che Goffman [76, 77] ha definito “la faccia” e pare aver
a che fare con la adleriana Politica di Prestigio [154-157]. Brown e Levinson [26]
hanno distinto due tipi di faccia: quella positiva, cioè il desiderio di essere approvati
nel senso che gli altri vogliano per noi ciò che noi stessi vogliamo per noi, e una faccia
negativa, che consiste nel desiderio di essere autonomi e soprattutto non ostacolati.
In questa differenziazione riconosciamo solidarietà e status, intimità e potere, condivisione di beni comuni e gerarchia secondo autorità. Gli Autori concludono che il
principio di cortesia e cooperazione di Grice, oltre che alla comunicazione di dati,
viene applicato anche nella salvaguardia della “faccia”.
Nell’ambito degli scambi linguistici è infatti tipico che si effettui, almeno in un certo
grado, un lavoro in collaborazione: ciascun partecipante vi riconosce, in certa misura,
un orientamento mutuamente accettato.
Si può quindi dedurre un principio generale approssimativo secondo cui il contributo
alla conversazione deve essere tale a quello richiesto, allo stadio in cui avviene, regolato dallo scopo dello scambio linguistico in cui si è impegnati [83]. Tale principio
è definibile come principio di cooperazione, considerabile nell’area del sentimento
sociale adleriano.
Esso viene espresso da quattro regole:
1. quantità: “Sii informativo per quanto si richiede”; “Non essere più informativo
di quanto si richiede”;
2. qualità: “Dì solamente quello che ritieni vero” ;
3. relazione: “Sii pertinente”;
4. modalità: “Non essere ambiguo”; “Non essere oscuro”; “Sii conciso”.
Il linguista statunitense Lakoff [102], che si è occupato delle regole della competenza
pragmatica, ha descritto una Logica della cortesia che, a suo parere, comprende anche
le massime di Grice. Egli postula l’esistenza di regole della competenza pragmatica
sovente in conflitto: la regola della chiarezza e la regola della cortesia. «Sembra verificarsi che, quando la chiarezza entra in conflitto con la cortesia, nella maggioranza
dei casi (ma come vedremo, non in tutti) sia la cortesia ad avere la meglio: in una conversazione si considera più importante evitare di offendere che ottenere la chiarezza»
(102, p. 228). In effetti sembra che queste regole permettano di “salvare la faccia”.
Tre sono le regole della cortesia:
1) “Non t’imporre”.
2) “Offri delle alternative”.
3) “Metti il destinatario a suo agio”; “Sii amichevole”.
Appare opportuno che teniamo sempre presenti queste regole, anche se non ci possiamo permettere di “essere amichevoli” e dobbiamo “essere informativi” nella misura
in cui il paziente è in grado di comprendere e tollerare quanto gli viene comunicato.
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VIII. Considerazioni conclusive
1. Nell’ambito di una psicoterapia si rende necessaria una compartecipazione emotiva
[138] di cui il linguaggio è espressione. Al proposito, la comunicazione è un’attività
che presuppone in qualche modo un certo grado di cooperazione, altrimenti abbiamo
una semplice enunciazione di dati.
Il linguaggio dello psicoterapeuta non dovrebbe scoraggiare il self-righting del paziente. Con tale termine, mutuato da Waddington [199], Lichtenberg [107, 108] indica
la presenza in chi si rivolge allo psicoterapeuta di una tendenza naturale innata a ristabilire l’equilibrio psichico alterato, nonché al conseguimento del proprio sviluppo
ottimale correggendone le distorsioni. Tocca a noi decodificare questa tendenza al
self-healing, come lo definisce Bowlby [25]. Infatti, se l’atteggiamento di molti terapeuti è «Io lo so; io te lo dico», egli sostiene la posizione «Tu lo sai, dimmelo» (25,
p.112). Sempre secondo questa corrente di pensiero, Weiss e Sampson [206] sono
giunti alla conclusione che i pazienti, quando intraprendono una psicoterapia, hanno
già in mente in qualche misura “un piano terapeutico” da seguire e, nel primo colloquio, tendono a sottoporre ad alcuni test lo psicoterapeuta per capire se si atterrà a
tale piano. Secondo gli Autori sta a noi decodificare le caratteristiche di questo piano
e cercare di appoggiarlo.
Presupposto per un buon lavoro psicoterapico è quell’osservazione partecipe di cui
ha parlato per primo Sullivan: «Lo psichiatra è coinvolto inestricabilmente e inevitabilmente in tutto ciò che si svolge nel colloquio. E quanto meno si rende conto e non
ha coscienza della sua partecipazione al colloquio, tanto meno capirà che cosa sta
succedendo» (178, p.18).
Se poi vogliamo stimolare la cooperazione nell’ambito della psicoterapia dobbiamo
porre in atto quelle strategie d’incoraggiamento descritte da Rovera [151], che si rifanno al modello transmotivazionale. Al proposito, si segnala la necessità di comunicazioni corrette da parte del terapeuta, poiché il linguaggio utilizzato può favorire o
scoraggiare tale cooperazione. Esso non può essere un standard, nel senso di andare
bene per tutti, poiché si rende necessaria un’immedesimazione culturale dei referenti
antropologici del coraggio secondo i “riferimenti di status”, inerenti alla sottocultura
del paziente e alla cultura in cui egli vive.
Col processo d’incoraggiamento si sviluppa nel paziente l’aumento della fiducia,
dell’autostima e della creatività, tramite il passaggio da un livello motivazionale a
quello superiore e con l’integrazione di essi si ha un ulteriore sviluppo del Sé e si
stimola la progettualità.
2. Come ricorda Fassino [58], l’embodied simulation, attraverso i neuroni specchio,
determina in noi un’imitazione automatica, inconscia e non inferenziale nell’osservatore di azioni, emozioni e sensazioni poste in atto dall’osservato. Questa simulazione
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incorporata permette il sorgere di uno specifico stato fenomenologico di “sintonizzazione intenzionale” con l’Altro, che a sua volta induce un sentimento di familiarità
con le altre persone.
In ambito psicoterapico si verificano particolari “schemi di modalità” di “stare-conqualcuno”, che costituiscono improvvisi cambiamenti non lineari nell’ambito del processo psicoterapeutico, definiti da Stern now moments [177] e riconducibili anche
a quei momenti magici descritti da Mezzena [121]. Per arrivare a questi momenti è
necessario calibrare quel metronomo interno [65], che ci permette di armonizzare le
oscillazioni della nostra mente con quelle dei nostri pazienti. In questo modo potremo
arrivare alla cooperazione col nostro paziente, per poter mettere in atto quei venti
punti contemplati da Dreikurs e Cassel [51] per alimentare la spinta vitale volta a
superare lo scoraggiamento. Come dice Pagani [138], il coraggio riattiva la fiducia in
se stessi, permettendo di affrontare sia le situazioni contingenti che quelle al momento
imprevedibili.
Ma come ricorda Rovera [153], nella relazione psicoterapeutica ha più importanza un
atteggiamento (attitude) incoraggiante che un comportamento (behaviour); nell’ambito della relazione terapeutica adleriana il paziente può raggiungere un atteggiamento coraggioso solo attraverso il sentimento sociale e questo a sua volta implica uno
stile di vita coraggioso.
3a. Come si è visto, la comunicazione cooperativa umana emerge innanzitutto sul
piano filogenetico, come parte di un sentimento di cooperazione che contraddistingue
la specie umana. Ciò è stato possibile grazie al fatto che gli uomini hanno sviluppato
un’intenzionalità condivisa, le cui prime manifestazioni nel bambino sono rappresentate dai gesti deittici. Il linguaggio verbale si è sviluppato sulla base del linguaggio
gestuale (ma anche grazie al bipedismo), utilizzato anche dalle scimmie antropomorfe: è stata l’intenzionalità condivisa a rendere più sofisticato il linguaggio verbale.
Ciò ha permesso la condivisione con gli altri membri del gruppo di emozioni e atteggiamenti, stabilendo e consolidando quindi i rapporti sociali.
Tale fenomeno è legato alla selezione culturale di gruppo [188]. All’interno del gruppo si evidenziano atteggiamenti di competizione e di cooperazione.
b. In una recente disanima di tali concetti si è notato che le situazioni di competizione
possono svolgere una funzione “attrattiva”, potendo indurre un rafforzamento della
coesione fra gli individui appartenenti al gruppo; contemporaneamente però possono
far aumentare l’aggressività nei confronti dei “non-membri”, facendo notare che ciò
può anche dipendere dal contesto culturale, ma anche dalle variabili individuali dei
membri del gruppo oltre che dal sesso [154].
A tali variabili si può aggiungere il numero di Dunbar, come “attrattore” della coesione del gruppo e “attivatore” della competizione nei confronti degli altri gruppi.
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Si può obiettare che il nostro cervello grazie alla cultura e all’azione dell’ambiente a
livello epigenetico può essere modificato. Gli studi di Dmtri Belyaev, proseguiti dalla
genetista Lyudmila Trut [196], utilizzando la selezione di esemplari più mansueti, nel
giro di trenta generazioni, da volpi selvatiche ha ottenuto volpi domestiche. Il genetista William Muir [126], utilizzando la selezione di gruppo, nel giro di sei generazioni
è riuscito a far diminuire l’aggressività di un gruppo di galline aumentando quindi la
produzione di uova.
L’attuale teoria del connettoma [170, 174], che deriva il suo nome per analogia col
genoma, ha posto ulteriormente in risalto l’influenza del rapporto gene-ambiente, per
cui sono stati identificati i quattro tipi fondamentali di cambiamento: i neuroni adattano o ripesano le loro connessioni, rinforzandole o indebolendole; si riconnettono
formando o eliminando le sinapsi; riformano i circuiti (si ricablano), sviluppando o
ritraendo assoni e dendriti; con la rigenerazione nuovi neuroni vengono sviluppati e
altri eliminati.
Le quattro R (ripesatura, riconnessione, ricablaggio e rigenerazione) costituiscono
le quattro vie che il Progetto Connettoma Umano da 30 milioni di dollari, varato nel
2010 dal National Institute of Health, percorrerà per chiarire lo sviluppo ed il funzionamento del cervello umano.
Se ripensiamo però al numero di Dunbar, si constata che non è influenzato dal genoma
bensì dalle dimensioni del cervello, che è sempre quello di quasi 200.000 anni fa.
Possiamo concludere affermando che le ricerche neurobiologiche, antropologicoculturali e inerenti la teoria della mente, che hanno ricadute sulla psicoterapia psicodinamica, sono in continua evoluzione e si costituiscono come spinta critica non solo
verso una rilettura della teoria, ma anche della prassi adleriana.
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