La Lolita dei Gonzaga

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La Lolita dei Gonzaga
La Lolita dei Gonzaga
In memoria di Gabriele Boniforti,
ancora prima di un professore di filosofia
soprattutto un Magister Vitae.
Il giornale che stava leggendo aveva pubblicato una recensione entusiastica del film The
words che aveva visto qualche giorno prima al cinema. A lui non aveva fatto impazzare, in
fondo era la solita americanata, anche se fatta con più eleganza e gusto di altri simili
blockbuster. Però quella storia lo aveva fatto riflettere e più volte era tornato a chiedersi se
anche lui, tutto sommato, con i suoi sogni di scrittore incompreso, con le sue lettere senza
risposta agli editori, con i suoi romanzi incompiuti nel cassetto, in qualche modo non
assomigliasse al protagonista del film. Si era anche lasciato stuzzicare dall’idea di imitarlo, e
così aveva fantasticato di copiare qualche vecchio libro pubblicandolo a nome proprio, come
fa il protagonista. In fondo, come appassionato collezionista di libri antichi, aveva spulciato
gli antiquari di mezz’Europa e più volte gli erano capitate tra le mani opere di autori
sconosciuti. Libri perduti che, per un motivo o un altro, all’epoca in cui uscirono nessuno
notò né ne registrò l’esistenza tra le bibliografie. Il più delle volte erano semplicemente libri
brutti che già allora non interessavano nessuno e così venivano abbandonati al proprio
destino, gettati nell’oblio polveroso di quell’enorme dimenticatoio della carta stampata e mai
letta. Un calderone grandissimo di opere non volute il cui significato si era perso da tempo.
Eppure non una volta gli era capito di avere per le mani lavori dimenticati che attirarono la
sua attenzione. Romanzi magari incompresi dal pubblico dell’epoca ma che oggi potrebbero
riscuotere successo. Strane storie dove cupe trame drammatiche si mischiavano ai segreti
dell’alchimia, alla magia nera o a tormentati aneddoti impossibili di amanti pronti a morire
pur di vedere coronato il proprio sogno. Raccolte di racconti esoterici dove si descrivevano
strani rituali la cui comprensione era preclusa al normale lettore. Oppure cantici di preghiere
apocrife mai udite prima che l’autore voleva far risalire a Gesù Cristo stesso e che, se recitate
correttamente, avrebbero potuto salvare il mondo con poche parole o, se pronunciate
erroneamente, distruggerlo per sempre. Piccoli volumi dove si narravano le gesta di eroi
vissuti in epoche lontanissime, in terre a noi sconosciute ma di cui l’autore avrebbe avuto
testimonianza certa. Storie di strane creature capaci di accoppiarsi con gli esseri umani e dare
alla luce una progenie maledetta di meticci mostruosi. Insomma, tra quegli strani libri ignoti
e non voluto avrebbe certamente trovato materiale a sufficienza per scegliere.
Certo, esisteva sempre il rischio di venire scoperti da qualcuno, ma c’era anche la possibilità
di fare centro e di pubblicare un’opera di grande successo, proprio come accade al
protagonista del film. Naturalmente a prima vista sembra un plagio. Ma non era forse anche
quello un modo di salvare delle opere meritevoli ingiustamente dimenticate, perdute e
sepolte nelle scatole marce degli antiquari?
Mentre rincorreva questi pensieri dalla grande finestra al pian terreno che dava sul piccolo
cortile vide Valentino, il bel vecchio gattone nero della vicina del primo piano, acquattarsi a
terra dietro un piccolo cespuglio di alloro. Poco più avanti una piccola colombella bianca era
appena volata giù dal grande acero che dominava il cortiletto e stava becchettando qualcosa,
probabilmente le briciole della signora del secondo piano che, refrattaria a qualsiasi
lamentela dei condomini, con la puntualità di un orologio svizzero ogni giorno alle 14 con
gesto sovrano sbatteva la tovaglia rovesciando giù gli avanzi del pasto con grande gioia della
popolazione ornitologica dei dintorni. A Valentino non mancava certo il cibo visto che la sua
padrona era una gattara rinomata in tutto il quartiere, ma evidentemente la sazietà non aveva
assopito il suo istinto di predatore, quel bisogno di uccidere indipendentemente dal reale
bisogno di farlo. Il gatto si era appiattito e strisciava lentamente verso l’ignaro uccello che
rovistava tra le foglie secche facendole saltare qua e là. Si sedette su un vecchio scaleo di
legno che usava per prendere i libri in alto per godersi la scena come se stesse guardando un
film. Il gatto ora era scoperto ma la colomba gli dava le spalle, era incredibile quanto fossero
vicini, a occhio e croce non più di due metri. Gli sarebbe bastato bussare sul vetro della
finestra o aprirla di colpo per spaventare l’uccello e salvargli la vita, ma gli sembrò più giusto
che la natura facesse il suo corso, anche se, tutto sommato, quel gatto non aveva certo
penuria di cibo. Eppure era una scena affascinante, era come guardare un documentario
naturalistico dal vivo.
Con uno scatto improvviso Valentino balzò sull’uccello ma calibrò male i suoi movimenti e
mancò la preda. La colombella con un rapido fruscio d’ali si alzò in volo tra un turbinio di
foglie gialle e in un attimo volò via. La giustizia aviaria aveva trionfato a scapito di quella
felina. Povero Valentino, pensò, ormai non era più tanto giovane, come non lo era lui
d’altronde. Quell’episodio gli fece ricordare che l’anno prossimo avrebbe festeggiato
cinquant’anni. Mezzo secolo di vita. Solo il pensiero lo impauriva. In caso di caccia avrebbe
fallito anche lui. Improvvisamente questo pensiero lo fece sentire pesante e stanco,
profondamente stanco, come il gatto Valentino che aveva mancato il colpo. Quanti colpi
aveva già mancato lui?
Il campanello della porta suonò sottraendolo ai suoi pensieri tristi. Amava quel suono così
caratteristico: ogni volta che lo sentiva per lui era una conferma del fatto che la sua esistenza
in quella piccola libreria non fosse inutile. Era come se quel trillo lo confortasse dicendogli
che non era vero che aveva sprecato la sua vita rinunciando al sogno di fare lo scrittore. Si
alzò e andò incontro al nuovo arrivato. Quando vide la ragazza appena entrata per un attimo
gli mancò il fiato. Era Rebecca, la figlia del professor Boniforti, suo carissimo amico di
vecchia data ed ex collega al liceo prima che lui lasciasse l’insegnamento della letteratura per
rilevare quella piccola libreria. La ragazza era bellissima. Aveva capelli ricci color miele dai
riflessi biondi, lunghi fino alle scapole, i suoi occhi erano di un bel verde intenso, come un
prato fresco in primavera, aveva zigomi alti, come le belle ragazze slave dell’Est che lo
affascinavano tanto quando andava a Praga per acquistare libri antichi. Indossava un
giubbotto imbottito di pelle color marrone chiaro, lo teneva sbottonato, sotto si vedeva un
body nero attillato, la sua scollatura lasciava immaginare le forme di un seno perfetto.
Rebecca aveva appena 17 anni ma sembrava già una giovane donna. Da quando era cresciuta
così bella e attraente per lui era diventata un sogno proibito.
“Professore! Mi ha sentito?”
Tutti, anche gli studenti più giovani, ormai lo chiamavano così, anche se ormai non insegnava
più al liceo Giordano Bruno da diversi anni. Nel quartiere era rimasta questa abitudine.
“Sì?”, rispose insicuro. Si accorse che si era talmente perso nell’ammirazione della sua
bellezza da non aver nemmeno sentito cose gli aveva detto. Si sentì come un ragazzino.
“Le ho detto buongiorno, non mi ha sentita?”
“Certo, certo, scusami Rebecca, ero soprappensiero.”
Lei sorrise e sulle sue gote, costellate da adorevoli lentiggini, si formarono quelle fossette che
suo padre amava tanto e che la resero ancora più bella. Nei suoi occhi luccicò una
consapevolezza maliziosa tutta femminile, aveva percepito il suo imbarazzo provocato dalla
sua bellezza e ne era felice, anche se naturalmente faceva finta di non essersene accorta in
nome di un senso del decoro pudico assolutamente irresistibile. Lui la guardò e in quelle
fossette rivide la gioia della bambina di cinque anni che rideva davanti alla gabbia delle
scimmie allo zoo dove tanto tempo fa l’avevano portata insieme al padre. Pensò che certe cose
in una persona non cambiano mai, come per esempio il modo di sorridere. Nel suo c’era
ancora qualcosa di quella bambina, così come in quello della bambina di allora forse già c’era
qualcosa della futura ragazza e della bellissima donna che sarebbe diventata.
“Come posso esserti utile?”, le chiese ormai rappacificato con il proprio destino.
“Sono venuta per chiederle se sono arrivati i libri di chimica e di fisica che ho ordinato la
settimana scorsa.”
“Sì, certo. Sono arrivati proprio ieri, te li ho messi da parte”. Si girò verso la cassa da sotto la
quale tirò fuori due grossi tomi. La ragazza prese in mano il primo e cominciò a sfogliarlo
distrattamente, con un’espressione rabbuiata. Poi prese il secondo e lo esaminò sbuffando.
“Qualcosa che non va Rebecca?”, chiese lui incuriosito da quel suo modo ancora infantile di
dimostrare esageratamente il proprio disappunto.
“Non sopporto questa roba, la sola idea di dover studiare tutte queste formule mi fa star
male!”
“Ti capisco, sai. Anch’io alla tua età non andavo troppo d’accordo con le materie scientifiche,
però nella vita bisogna avere delle basi ben solide, sapere un po’ di tutto torna sempre
comodo,” disse lui con tono quasi paterno.
“Sì, ma lei poi ha studiato letteratura!” Gli ribatté lei quasi stizzita.
“Hai ragione, mi sono dato alla letteratura, era la mia grande passione. Pensa, quando ero
giovane gli ultimi due anni di liceo ebbi come insegnante di storia e filosofia un professore
che si chiamava proprio come tuo padre, Boniforti. Il suo nome era Gabriele. Era un vero
filosofo, ci insegnò l’amore per il sapere e, soprattutto, ci insegnò a non temere i nostri sogni.
Io mi feci contagiare, cambiai tantissimo grazie a lui. E così poi dallo scientifico scelsi di
andare a studiare letteratura.”
“Ecco vede?! Nemmeno lei se n’è fatto un granché di tutte queste formule assurde!” Rispose
lei stizzita.
“Hai ragione”, disse lui conciliante. “Sai, però,” continuò lui come se volesse scusarsi,” nel
mio caso capitò che lui un giorno ci interrogò tutti su quello che avremmo voluto fare da
grandi, io risposi che non lo sapevo e lui disse che io avrei fatto lo scrittore, e questo quando
avevo soli 17 anni. Forse con quella frase mi cambiò la vita!”
La pesantezza di quella frase provocò un silenzio interdetto sorvolato solo dal tempo che si
rifiutava di scorrere.
“Eppure,” proseguì lui dopo aver ripreso fiato, “queste formule che chiami assurde sono
molto utili, senza di esse non avremmo tutte quelle comodità che abbiamo. E ci sono anche
persone che in esse trovano una forma di bellezza.”
“Be’, io non sono certo una di queste”, rispose lei con sicurezza. “Anch’io voglio studiare
letteratura”, aggiunse guardandolo fisso negli occhi, come per vedere la sua reazione. Lei
sapeva bene che suo padre, nonostante insegnasse italiano e latino, desiderava che lei
studiasse le materie scientifiche. Aveva una visione molto pessimistica delle cose, era
convinto che nel mondo moderno non c’era più posto per gli umanisti e, quel che è peggio,
che non ci fosse alcuna via di uscita.
“Ti capisco Rebecca”, fece lui dopo qualche attimo “ma sai bene che cosa ne pensa tuo...”
“Mio padre?!”, non lo lasciò finire lei. “Me ne frego di cosa pensa mio padre. Anche lui ha
studiato letteratura come lei e ora mi viene a dire cosa dovrei studiare io?!”.
La ragazza non aveva torto, pensò lui. Sapeva che sarebbe stata un’ottima letterata, sin da
piccola era molto sensibile e aveva un profondo senso dell’intuizione.
“Voi avete avuto più fortuna”, riprese lei. “Siete nati in un’epoca in cui con una laurea in
lettere si poteva costruire un futuro. Oggi non è più così, lo so, ma io non mi arrendo.”
Anche su questo aveva ragione, pensò lui. D’altra parte sarebbe stato difficile convincerla a
fare una scelta diversa, era cresciuta respirando la letteratura in casa del padre. Era del tutto
naturale che si sentisse vicina al mondo delle lettere. Questo la rendeva ancora più
affascinante ai suoi occhi.
Vedendo che lui non rispondeva, la ragazza proseguì:
“Ad ogni modo c’è ancora tempo per decidere, ho appena cominciato il quarto anno.” Seguì
un istante di imbarazzo, come se quella menzione della sua giovane età in qualche modo
avesse urtato tra di loro una questione non detta sospesa nell’aria. Sì, pensò lui dentro se
stesso, è troppo giovane per me. Bellissima ma impossibile.
“Le volevo chiedere se ha Les fleurs du mal in francese”, chiese lei con un’ottima pronuncia.
Studiava francese da anni, aveva cominciato già alle elementari perché era una lingua che il
padre amava molto. Quelle poche parole dette in francese lo eccitarono e, per un attimo, nella
sua testa balenò l’immagine di un’altra dimensione, chissà dove nell’universo, dove lui e lei si
abbracciavano nudi su un grande letto a baldacchino bianco. Tra i suoi capelli sopra il suo
viso intravedeva attraverso la finestra la Tour Eiffel. Lei gli sussurrava parole dolci in
francese e il suo giovane corpo di alabastro era caldo al tatto...
“Certo, con il testo tradotto a fronte, vero?”
“No!” Rispose lei seccamente. Sembrava risentita del fatto che lui pensasse che aveva bisogno
della traduzione in italiano.
“Scusa, pensavo che... sai, Baudelaire è un autore difficile”, balbettò lui incerto.
“E poi”, proseguì la ragazza tornando a guardarlo intensamente negli occhi, “volevo anche un
altro libro...” Lasciò in sospeso la frase.
“Certo, dimmi”, la incitò lui.
“Ecco”, titubò la ragazza, “vorrei Lolita di Bulgakov.”
Il suo sguardo era fermo, sicuro, attraversato da una sfumatura dolce, profondamente
femminile. Lui si sentì il cuore balzare in gola. La guardò e dal modo in cui lei rispose al suo
sguardo capì di essere sbiancato. La fermezza degli splendidi occhi verdi della ragazza gli fece
capire anche che farlo sentire in imbarazzo era proprio quello che voleva. Dentro di sé doveva
gioirne come la cerbiatta che gioisce per esser riuscita a scappare senza aver perso di vista il
suo inseguitore. Perché aveva chiesto proprio quel libro? Perché quella pausa e quella finta
vergogna, come se stesse chiedendo un libro proibito? In fondo proibito non era, ma era
comunque un libro molto particolare che narrava la storia di una relazione tra un uomo
maturo e una ragazza molto più giovane di lui... Possibile che lei stesse provando a sedurlo?
Oppure voleva solo provocarlo un po’? O magari era invece solo una sua fantasia e il suo era
un interesse puramente letterario?
“Certo,” rispose lui con la gola secca. “Te lo vado subito a prendere”, e si allontanò rapido per
sottrarsi a quell’imbarazzo. La ragazza non si mosse ed attese tranquilla il suo ritorno.
Mentre stava cercando Bulgakov sentì la ragazza dire:
“Le dispiace se uso il bagno? Sono in giro da questa mattina e preferisco evitare i bagni
dell’università.”
“Naturalmente. Prosegui lungo il corridoio, il bagno è in fondo a destra.”
“Grazie”, rispose la ragazza e sparì nell’altra stanza lasciando dietro di sé una scia di un
ottimo profumo.
Prese in mano il libro dello scrittore russo quando improvvisamente si bloccò. Qualcosa lo
spinse a rimettere a posto quel libro. Rebecca non veniva spesso nella sua libreria, l’ultima
volta era stato due mesi prima e lui adesso sentiva più forte che mai il desiderio di rivederla.
Pensò che, negandogli quel libro, magari l’avrebbe potuta vedere ancora una volta a distanza
di pochi giorni.
Dopo poco lui tornò al bancone con in mano solo il libro di Baudelaire. Stava ancora
ripensando al modo seducente con cui gli aveva chiesto Lolita quando si accorse che sul
tavolo accanto alla cassa la ragazza aveva lasciato il suo diario e il cellulare. Il cuore cominciò
a battergli velocemente, il respirò accelerò e i suoi pensieri diventarono un vortice di
domande. L’aveva fatto apposta o era solo un caso? Mentre parlavano lei non aveva
nemmeno tirato fuori quegli oggetti, lo doveva aver fatto quando lui era andato a prendere i
libri, perché? Prima Lolita, poi questo. Nella sua mente si fece avanti l’idea che in questo
modo lei gli volesse dare il suo numero di cellulare. Ancora più eccitato da quel pensiero,
pensò che il modo più semplice era quello di chiamare con il suo telefono e poi cancellare
dalla cronologia la chiamata. Era rischioso perché la ragazza poteva tornare da un momento
all’altro. Prese in mano il telefonino ma non riuscì a sbloccarlo. Era uno di quei maledetti
aggeggi moderni con il touchscreen che lui non sapeva usare. Lo posò e in modo automatico
prese il diario, lo aprì alla prima pagina e trovò quello che cercava: In caso di smarrimento
chiamare il.... Eccolo! Ricopiò in fretta il numero sul retro di uno scontrino quando sentì
aprirsi la porta del bagno. La ragazza stava tornando. Riuscì a riporre velocemente il diario al
suo posto proprio mentre lei entrava nella stanza. Lei gli gettò un’occhiata penetrante. Si
sentì nudo, come se avesse capito tutto. Non riusciva a spiccicare parola. Lei godette per
qualche secondo di quello spettacolo, poi guardò la pila di libri sul tavolo e disse:
“E Bulgakov?”
“Mi dispiace, ma non abbiamo Lolita”, si affrettò a rispondere lui per distogliere l’attenzione
dalla sua espressione affannata.
“Mi ero dimenticato di dirti che lo abbiamo finito.”
“Oh, che peccato. Vorrà dire che proverò da un’altra parte.”
“No.” Rispose lui troppo in fretta per non accorgersi che lei lo aveva detto solo per
impaurirlo. La veemenza della sua risposta lo aveva tradito per l’ennesima volta. Nella sua
fantasia ormai lei aveva capito tutto. Ma era poi davvero così?
“Volevo dire che non importa perché l’avevo già ordinato. Domani o dopodomani ce lo avrò
di sicuro.”
“Perfetto!” Rispose lei con un sorrisino malizioso che esaltò ancora una volta le sue fossette.
“Se vuoi posso telefonarti quando sarà arrivato, così ti puoi fermare a prenderlo.” Ormai
stava sudando, si sentiva colare le gocce di sudore lungo la schiena. Lei lo guardò e sorrise.
“Va bene,” rispose. Poi abbassò lo sguardo e nei suoi occhi balenò qualcosa. Allora anche lui
abbassò lo sguardo e si accorse di aver invertito la posizione del diario e del telefonino. Si
ricordava perfettamente che aveva preso il cellulare con la sinistra, ora invece giaceva a
destra del libro. Sbiancò. Lei non alzò gli occhi ma sorrise leggermente.
Doveva tentare il tutto per tutto. Trovò dentro di sé il coraggio e cercando di far finta di
niente disse:
“Se mi dai il numero di cellulare ti richiamo non appena mi arriva il libro, così magari ti
risparmio un viaggio a vuoto.” La sua voce suonò debole e insicura.
“Perché il cellulare?” chiese lei guardando in modo espressivo il diario e il telefono. “Può
chiamare al telefono di casa, no?” Chiese lei con nonchalance passandosi una mano tra i
capelli.
“Certo”, balbettò lui incerto. “Era solo per non disturbare”.
La ragazza non rispose. Rimasero un attimo in silenzio, poi lei chiese:
“Che cosa le devo?”
I suoi pensieri erano completamente altrove.
“Niente, niente. Poi mi regolo io con tuo padre.”
“Grazie, molto gentile”, rispose lei allegra per aver risparmiato un bel po’ di soldi.
“Allora arrivederci,” gli disse guardandolo ancora una volta fisso negli occhi.
“Arrivederci Rebecca,” rispose lui con voce triste.
La ragazza mise i libri nella sua borsa, si voltò ed uscì dal negozio. Lui fece ancora in tempo
ad osservare le forme perfette dei suoi fianchi e delle sue gambe lunghe fasciate nei jeans
stretti.
Si sentiva esausto, aveva bisogno di riprendersi. Appese il cartello Torno subito all’uscio e
chiuse a chiave la porta. Tornò a sedersi sullo scaleo. Guardò nel cortile. Adesso Valentino se
ne stava tranquillamente sdraiato sul cofano di una macchina. Evidentemente qualcuno dei
condomini era appena arrivato perché prima non era parcheggiata lì, e il gatto aveva pensato
bene di godersi il calore del motore spento da poco.
Cercò di distrarsi ma non riusciva a fare a meno di pensare a Rebecca. Quando vedeva una
tale bellezza si chiedeva come fosse possibile che al mondo esistessero donne tanto belle e
donne tanto brutte. Gli sembrava che per una donna dovesse essere naturale sentirsi bella,
percepire il desiderio degli uomini, e aveva pietà di tutte quelle donne che avevano in sé
quell’istinto naturale di vanità ma non trovava risposta negli uomini. Pensò a quanto doveva
essere triste la vita di una donna brutta e, al contrario, di quanto dovesse essere fantastica
quella di una donna bella.
Rebecca era veramente una bellezza fuori dal comune, come lì a Mantova se ne vedevano
davvero di rado. E quando capitavano perlopiù erano straniere venute dall’Est. Gli ricordava
il quadro di una giovane contessa dei Gonzaga. Aveva visto un suo splendido ritratto durante
una mostra che ripercorreva la storia della famiglia mantovana attraverso i ritratti dei suoi
esponenti più celebri. Non si ricordava il nome, ma gli venne in mente che, nonostante morì
giovane durante il primo parto, era rimasta celebre proprio per la sua inusuale bellezza. Ed
assomigliava in tutto e per tutto a Rebecca. Rovistò nei libri di storia dell’arte e dopo un po’
trovò il catalogo della mostra. Eccola, era lei! Due gocce d’acqua. Si chiamava contessa Elena
Maria Giuditta dei Gonzaga. Era semplicemente bellissima. Il pittore, un fiammingo
particolarmente capace, era riuscito a cogliere la profondità di quello sguardo, gli occhi verdi
come smeraldi, non mancavano nemmeno i dettagli delle lentiggine. Se non fosse stato per i
capelli e la pelle più chiari e la corporatura leggermente più in carne sarebbe potuto essere
tranquillamente un ritratto di Rebecca.
Trascorse i due seguenti giorni tormentandosi con una domanda insistente: doveva
chiamarla sul telefono fisso o sul cellulare? Se la chiamava sul telefono di casa non rischiava
niente, non faceva niente di male. Poteva chiamare per parlare con suo padre, come faceva
spesso, e poi durante il discorso ricordargli di dire a Rebecca di venire a prendere il libro.
Oppure, se per caso rispondeva lei, dirlo direttamente alla ragazza. L’altra possibilità che lo
tormentava era di chiamare sul cellulare di Rebecca. In questo modo sarebbe stato come
ammettere apertamente di averle “rubato” il numero frugando tra le sue cose. Era molto
rischioso. Se tutto quello che si era immaginato era solo nella sua testa c’era il rischio che lei
si sarebbe anche potuta arrabbiare e magari ne avrebbe pure parlato con il padre. In quel
caso si sarebbe trovato in un bel guaio. Oppure le sue supposizioni erano vere e Rebecca
aveva volutamente lasciato il diario e il cellulare sul tavolo affinché lui trovasse il suo
numero. Ma anche in quel caso non era del tutto al sicuro. Poteva averlo fatto solo per
metterlo alla prova, magari stava giocando con lui. Era una ragazza molto intelligente e
sensibile, forse non lo voleva sedurre davvero e stava solo imparando a giocare con la propria
femminilità. Le belle ragazze adolescenti spesso non sono ancora pienamente consapevoli del
potere che hanno sugli uomini e sentono il bisogno di trovarne conferma.
Alla fine si decise. Aveva trascorso gran parte della propria vita tra i libri. Non aveva mai
avuto troppa fortuna con le donne. Non le capiva, o loro non capivano lui. O più
probabilmente entrambe le cose.
Fatto sta che aveva trascorso troppi anni facendo il bravo, senza mai osare. Adesso gli si
presentava un frutto proibito, tanto prelibato quanto vietato. L’attrazione che provava per
Rebecca non era dovuta solamente alla sua bellezza e ai pregi della giovinezza, ma c’era ben
altro. Si sentiva attratto soprattutto da quel suo sguardo a volte incerto, quella sua giovanile
insicurezza che la rendevano bisognosa di protezione e attenzione. Ed è questo bisogno, e il
bisogno di soddisfarlo, il segreto dell’amore. La sentiva bisognosa del suo amore, bisognosa
di lui, anche se lo mascherava con finta malizia femminile. Niente a che vedere con la sua
ultima compagna, molto più matura di Rebecca, che, per quanto ancora bella e piacente, alla
fine non faceva altro che mostrare al mondo degli uomini la sua maschera inacidita di donna
delusa dagli uomini che non fa altro che ricordarglielo. Perché stupirsi se poi l’uomo dà la
precedenza alla donna più giovane che sembra, quantomeno, di aver bisogno di lui. Tutti in
fondo vogliamo sentirci utili e importanti per qualcuno. Gli pareva che la generazione delle
donne moderne avesse dimenticato o perso questa arte tutta femminile: sedurre l’uomo non
solo con la bellezza, ma soprattutto con la propria fragilità e insicurezza. Proprio quelle
caratteristiche tipicamente femminili che risvegliano nell’uomo gli istinti più profondi di
protettore. Le donne di oggi si lamentano spesso che gli uomini non le sanno o vogliono più
proteggere, ma forse dovrebbero chiedersi se loro hanno davvero bisogno di essere protette.
Gli occhi di Rebecca erano occhi che dicevano: “Abbracciami, proteggimi”, gli altri erano
occhi recriminanti. Un giorno, pensò, avrebbe dovuto scrivere un libro su questo argomento.
Alla fine, per la prima volta in vita sua, decise di fregarsene di cosa avrebbero detto gli altri se
la cosa fosse venuta fuori. Decise deliberatamente di non preoccuparsi delle conseguenze e di
inseguire ciecamente e inconsciamente il proprio sogno, così come, tanti anni addietro, gli
aveva insegnato quel professore di filosofia che tanto aveva stimato.
Prese il telefono e lentamente, con mano tremante, digitò il numero di Rebecca. Anche quelle
cifre gli sembravano belle ed eleganti. Il cuore gli batteva forte, il respiro era affannoso. Le
avrebbe detto che il libro era arrivato e se lei gli avesse chiesto come avesse fatto ad avere il
suo numero, allora avrebbe buttato giù la maschera e le avrebbe detto che aveva bisogno di
rivederla, di sentire la sua voce, di inalare il suo profumo.
Uno squillo, due squilli, tre, quattro, cinque. Ormai aveva una vera e propria tachicardia e la
bocca arida come un deserto. Stava per mettere giù quando una voce profonda maschile
rispose:
“Pronto?”
La riconobbe subito, era il padre di Rebecca, il professor Boniforti. Rimase bloccato, come se
lo avessero trafitto.
“Pronto?” ripeté il professor Boniforti.
“Ciao Edoardo, sono io.”
“Ah, ciao! Ho visto il numero della libreria e mi sono permesso di rispondere. Rebecca è
uscita, ha lasciato il telefono a casa.”
Tra i due uomini, a distanza, calò come un sipario gelato di sospetto, vergogna e imbarazzo.
Visto che non otteneva risposta il padre di Rebecca proseguì:
“Avevi bisogno di qualcosa?” Lui sentì chiaramente la disfonia tra le parole articolate e la vera
domanda che voleva fare, come diavolo fai ad avere il numero di mia figlia?
“No, niente”, rispose lui ormai rassegnato al corso degli eventi. “Ieri l’altro Rebecca è venuta
in libreria e ha comprato dei libri, ne mancava uno, volevo solo dirle che è arrivato.”
“Capisco”, rispose sospettoso il padre. “E di che libro si tratta?”
“Non importa, lascia stare. Ciao.”
E riattaccò.
Andreas Aндолфов Pieralli