STUDI del CAR.TOPON.ST.

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STUDI del CAR.TOPON.ST.
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Università degli Studi di Salerno
Di Te S I
STUDI del CAR.TOPON.ST.
Laboratorio di Cartografia e Toponomastica Storica
fondato e diretto da Vincenzo Aversano
N. 1-2
(2005-2006)
Gutenberg Edizioni
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In copertina:
Mappamondo del ‘700 inciso da Giuliano Giampiccoli su disegno di Giovanbattista Piazzetta, con sovrapposta una foto da
satellite del nostro Mezzogiorno, a sua volta coperta da un tondo rappresentante il Solco Irno-Solofrana (F.°185 della
Carta d’Italia IGM, compilato nel 1928 dai rilievi del 1870-75), dentro il quale risaltano stralci sia della pianta ottocentesca
di Salerno del Malpica, sia di una foto satellitare del comune di Pellezzano, sia della sezione IV - Nocera Superiore (F.°467
della Carta d’Italia IGM del 1996), relativamente all’area dei poli scientifico e umanistico dell’Università degli Studi di
Salerno.
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Manifesto del
CAR. TOPON. ST.
(LABORATORIO DI RICERCA E DIDATTICA
DI «CARTOGRAFIA E TOPONOMASTICA STORICA»)
Le recenti esperienze di ricerca pura ed applicata sul territorio hanno fatto emergere sempre più
l’esigenza dell’utilizzo di fonti, come quelle cartografiche e toponimiche antiche, finora consultate
episodicamente e talora solo in chiave esornativa od erudita. Universale è infatti divenuta la consapevolezza che il territorio sia una realtà complessa, vero palinsesto di natura e di storia, frutto cioè di
stratificazioni occupative del suolo nel tempo. Per conoscere a fondo questa realtà, nei suoi aspetti
visivo-paesaggistici e nelle strutture profonde – socio-economico-culturali – che la sorreggono e giustificano, non si può più fare a meno di ricorrere ai reperti cartografici, di varia età, scala, contenuto e
stili costruttivi. Dalla loro analisi, infatti, si ricavano utili testimonianze di situazioni territoriali già
sotto il profilo sincronico o, per così dire, statico; se poi per uno stesso ambito più o meno vasto, si
riescono a reperire carte di diversa epoca, notevole sarà la luce che ne sortirà circa lo sviluppo della
realtà geografica nei secoli, ovvero sui mutamenti che il fluire della storia ha procurato sulla fisionomia di quell’ambito stesso. In senso più lato, inoltre, ragionando ancora in una prospettiva contenutistica,
il valore di una carta va molto al di là della documentazione del paesaggio geografico di un’area e
delle invisibili strutture sottostanti, ponendosi addirittura – nella sua comunicazionalità anche inconscia e simbolica – come indice, cartina di tornasole di una civiltà, all’interno di un determinato contesto politico-istituzionale e scientifico-culturale (molti esempi si potrebbero in proposito fare, dal «Mappamondo di Tolomeo» per l’Antichità allo «Atlante di Ortelio» di età moderna). Aggiungasi che, in
una prospettiva tecnico-formale, una carta d’epoca ha valore anche come parte della Storia della
Cartografia in senso ampio (comprendente cioè l’evoluzione di discipline e procedimenti tutti concorrenti alla formazione del prodotto-carta), ove si abbia riguardo soprattutto alle forme espressive, alle
tecniche d’esecuzione o di resa rappresentativa e ai materiali usati.
Se in questo consiste l’«utilità» in senso scientifico e didattico del reperto cartografico, che talora
per la sua unicità e nobiltà può anche assurgere alla qualifica di «cimelio geo-cartografico» (per usare
un’espressione di Osvaldo Baldacci), altrettanto si può dire dei toponimi, ossia dei nomi di luogo che,
oltre a figurare in molte e diverse fonti indicate più oltre, quasi mai mancano sulla superficie della
carta e con tutti gli altri simboli costituiscono un’organica intelaiatura eretta, nelle intenzioni dell’autore, per rappresentare il territorio. In generale parlando, infatti, le denominazioni toponimiche sono
innanzitutto dei documenti (e, quindi, degli «indicatori territoriali»), hanno spesso un enorme e
insostituibile valore identitario rispetto ai luoghi su cui insistono e che designano e, infine, possono
avere la caratura di «beni culturali» quando sono rara testimonianza di particolari “radici” del passato:
in tal caso, oltre ad essere registrati e decodificati come tutti, meritano anche di essere salvati e salvaguardati con la reimmissione in circolo.
La ricerca e la connessa didattica relativa alla toponomastica, come si è poc’anzi anticipato, non
potrà essere limitata alla “estrazione” dei singoli nomi delle rappresentazioni cartografiche, ma dovrà
procedere molto oltre, nel senso che sarà indispensabile in progresso di tempo sondare tutte le possibili fonti contenenti nomi di luogo: prima di tutto i catasti (da quelli cosiddetti «antichi» al Catasto
«Onciario», «Napoleonico» e finalmente «Italiano»), che sono la fonte più privilegiata e privilegiante
di toponimi, contenendoli “a tappeto”, standardizzati e coevi; quindi gli archivi notarili, i testi letterari
e quanto altro.
Tutto ciò premesso, il Laboratorio CAR.TOPON.ST., per la cui istituzione si inoltra istanza, una
volta che sia dotato degli indispensabili arredi e delle strumentazioni didattico-scientifiche ad hoc,
finalizzerà le sue attività, nello stesso tempo, alla raccolta, catalogazione, analisi scientifica e utilizza-
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zione, per la ricerca e l’insegnamento, di carte antiche e di toponomastica, relativamente al territorio
europeo e italiano, ma con particolare riguardo a quello meridionale. Per quanto riguarda il materiale
cartografico che s’intende acquisire nella istituenda struttura, vuoi sotto specie cartacea vuoi tramite
archiviazione computerizzata on-line ed altre possibili tecniche volte a formare banche-dati, l’attenzione sarà di massima focalizzata a tutte le carte generali e regionali “sciolte” (in originale e/o più
realisticamente in riproduzione al massimo fedele, il che ne faciliterà anche un “consumo” didattico),
a partire dall’Antichità, passando per l’Alto Medioevo e soffermandosi sul Basso Medioevo, con
particolare riguardo alle carte islamiche e alle carte nautiche note.
Avvicinandoci all’Età Moderna, saranno privilegiate le varie edizioni dei Tolomei, gli atlanti, atlantini
ed altre opere di A. Ortelio, G.A. Magini e G. Mercatore (tanto per accennare ai nomi dei più illustri
cartografi) e, per l’Italia meridionale, le carte aragonesi, quelle di P. Cartaro, G. Gastaldi ed E. Danti.
Quanto al Settecento e all’Ottocento, ci si concentrerà maggiormente sulla cartografia prodotta nel
Regno di Napoli – avendo a fulcro le carte e gli atlanti terrestri e marittimi di G.A. Rizzi Zannoni – che
vanta un’editoria varia e articolata (L. De Salvatori, A. Zenon, B. Marzolla, A. Bifezzi, ecc.) e (come
del resto la stessa Italia) una nutrita produzione cartografico-topografica locale (spesso a grandissima
scala, prossima ai livelli tecnici), custodita in archivi pubblici e privati. Sarà oggetto di reperimento e
acquisizione anche la cartografia del Regno d’Italia fino al secondo conflitto mondiale, ma non si
escluderà la produzione dell’I.G.M. (Ist. Geografico Militare di Firenze) fino agli anni Cinquanta del
Novecento, che rappresentano il terminus ad quem, valido anche per i materiali toponimici, delle cui
preferibili fonti si è già riferito.
Con questa dotazione di strutture, strumentazioni e reperti, nelle forme e con gli obiettivi prima
indicati, che implicano una tipologia di acquisizioni sempre e tendenzialmente “didattizzabili”, il
Laboratorio si propone e si pone come un’assoluta novità nel panorama degli enti e delle istituzioni
universitarie e consimili, nulla esistendo e operando finora in Italia, per quanto ci è dato di conoscere,
nella stessa combinazione di informazioni (materiali o immateriali) assemblate con la medesima ottica, contemporaneamente e indissolubilmente scientifica e didattica. Il proponente è difatti profondamente convinto che non si dà utile comunicazione didattica prescindendo da adeguati contenuti informativo-problematici e valoriali, come non si comunicano contenuti per l’apprendimento se non all’interno di una intenzionale strategia pedagogico-didattica.
Sulla base di tali motivazioni e intenti, si prevede che, nel medio tempo occorrente per un funzionamento ottimale, il Laboratorio, oltre a rimanere luogo di acquisizione di cartografia e toponomastica
in funzione rigorosamente scientifica ed esercitativo-didattica, maturerà anche la capacità di allestire
“prodotti” (pubblicazioni tradizionali, C.D., multimediali, ecc.) coerenti con le sue attività e destinabili
(si spera con successo) al mercato culturale in ambito universitario, scolastico ed extrascolastico, e in
grado altresì di soddisfare – per la parte di competenza – le richieste di lettura geografica “profonda”
e stratificata, provenienti da enti e istituzioni (pubbliche e private), interessate e/o coinvolte direttamente in progetti di pianificazione integrata e sostenibile dello sviluppo territoriale.
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Presentazione del Volume
Mi perdoni il lettore se, contravvenendo alle usualità, ho anteposto a questa premessa l’esibizione
del «Manifesto CAR.TOPON.ST.» nella versione originale, che è la declaratoria di intenti con cui
qualche anno fa avviai le procedure per la costituzione di un laboratorio di cartografia e toponomastica
storica che fosse congruentemente finanziato nelle sue attrezzature, come di fatto è avvenuto, grazie
alla sensibilità del magnifico rettore del nostro Ateneo, prof. Raimondo Pasquino, cui va in primis un
ringraziamento di cuore.
La scelta non è tanto illogica, del resto, in quanto questo numero è, per così dire, la prima robusta
“emanazione cartacea” delle finalità laboratoriali (già concretizzatesi, ma episodicamente, in altri
“prodotti”), la cui illustrazione meritava forse la precedenza. Più in generale, poi, ogni volume intitolato «Studi del Car.topon.st.» costituirà con appuntamento annuale – almeno si auspica – l’organo di
diffusione (non la rivista ufficiale!), in un raggio quanto più ampio possibile di interessi culturali
geografico-interdisciplinari, dei risultati delle attività scientifiche e didattiche condotte all’insegna del
laboratorio stesso. Esso pertanto resta aperto a tutti i contributi, interni ed esterni alla università di
Salerno, in materia cartografico-toponimica, sotto forma di saggi, note, recensioni, segnalazioni
bibliografiche e quanto altro, non esclusi più corposi Atti di convegni.
Questo primo numero degli «Studi» – non a caso doppio– è il risultato di un concorso di due
singolari circostanze: da un lato la ultimazione della ricerca, da parte del gruppo costituente l’Unità
Operativa locale dell’Università degli Studi di Salerno (di cui chi scrive è responsabile scientifico),
per il DISCI (Dizionario Storico dei Cartografi Italiani), coordinato a livello nazionale dalla prof.
Ilaria Caraci dell’Università degli Studi ROMA TRE, su finanziamento MIUR-Prin 2003; dall’altro, il
non più giustificabile ritardo – del quale ancora una volta chiedo scusa agli interessati pur non essendone minimamente responsabile – della stampa, nella collana ufficiale della nostra università, degli
Atti del Convegno Internazionale Toponimi e Antroponimi: Beni-Documento e Spie d’Identità per la
Lettura, la Didattica e il Governo del Territorio, che pur fu da me organizzato con riconosciuto successo, tra il 14 e il 16 novembre del 2002, all’Università degli Studi di Salerno e a Vietri sul Mare.
Ecco dunque perché mi è parso opportuno strutturare il volume in due sezioni, la prima intitolata
«Cartografia», la seconda presentata sotto la espressione «Toponimi, Antroponimi, Identità». Merita
un cenno esplicativo il loro rispettivo contenuto, onde comprendere la “logica” dell’assemblamento.
Nella parte cartografica iniziale figura non a caso il sottotitolo «Dalle biografie professionali alla
rappresentazione del territorio: casi esemplificativi resi al Dizionario Storico dei Cartografi Italiani
(DISCI)». Infatti, per un verso vi sono raccolte solo alcune «schede» biografico-professionali di operatori per lo più pubblici, incardinati con ruoli assai divaricati all’interno dell’Officio Topografico, del
Corpo di Ponti e Strade o di altri enti o istituzioni, per l’altro il contributo offerto dall’U.O. locale
salernitana spesso non si limita a una semplice ricostruzione del curricolo personale ma si allarga alla
interpretazione problematica di alcuni manufatti (talora pubblicazioni) di quegli operatori, che hanno
per contenuto rappresentativo soprattutto Salerno e la sua provincia. Il testo è volutamente scandito in
campi sequenziali, richiamati sempre da precise etichette, concordate a livello nazionale del DISCI e
ripetute anche se vuote di informazioni.
È evidente che si tratta di limitati “assaggi” che non rendono giustizia all’impegno globale profuso
dalla nostra unità di ricerca, un impegno rivelatosi assai difficile, improbo e dispendioso di tempo e di
costi economici, considerata la scarsa quantità di elementi relativi alla biografia professionale dei
cartografi (definiti nelle varie epoche come compassatori, architetti, tavolarij, agrimensori, ingegneri,
et similia), presenti nella bibliografia anche localissima e nei repertori biografici generali, regionali,
provinciali e comunali, e data invece la quantità e la novità degli elementi emersi dalla consultazione
dei materiali primari d’archivio (specie nella seconda fase dalla ricerca): spesso di un autore, di cui si
apprezzavano decine di carte (talora molte centinaia), si è riusciti ad appurare solo il titolo e la data
delle stesse, oltre alla possibilità di desumere da esse i caratteri tecnico-estetici e storico-sociali.
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È questo il motivo per cui, d’intesa con il coordinamento centrale, il responsabile della U.O. locale
ha deciso di limitare numericamente la schedatura dei cartografi maggiori già conosciuti (benché più
“comoda” in quanto compilativa), incrementando l’interesse per le figure poco note o totalmente
ignorate di «cartografi minori», nell’intento di aggiungere conoscenze nuove alla storia della cartografia
(valorizzando “manzonianamente” molti “carneadi” che meritano di appartenervi) e alla geografia
storica dei territori da essi riprodotti in vario modo e per differenti interessi. Entrambi questi risultati
(vita, curriculum professionale dei cartografi e restituzione dei paesaggi rurali e urbani – toponomastica
compresa – desumibili dalle loro opere, valutate anche per le tecniche rappresentative e il contesto
socio-culturale) sono stati raggiunti, anche se ciò non appare a pieno dalla selezione qui presentata
provvisoriamente: un avverbio quanto mai opportuno, che inquadra l’ottica con cui vanno riguardati i
presenti risultati scientifici, quella del work in progress, sotto il profilo documentario e metodologicocritico.
La seconda sezione nasce dalla esigenza di evitare la dispersione di alcuni contributi non accolti,
ma solo per motivi di spesa, dalla commissione-pubblicazioni del nostro Ateneo, per la stampa negli
Atti del summenzionato convegno del 2002, che peraltro mi è stato assicurato essere finalmente prossima alle prime bozze: sono ricerche di disuguale valore (non escluso quello semplicemente didattico,
quale testimonianza dell’apertura alla “umile Italia” costituita dagli studiosi operanti all’esterno dell’Università) pertinenti soprattutto al territorio campano, con particolare attenzione al Solco IrnoSolofrana, anche in previsione delle Giornate di Studio (Cartografia, Toponimi, Identità nella ricercadidattica e per il territorio), che saranno organizzate sotto l’egida della nostra università e del MIUR
per il 19-20 settembre 2006 nel Campus di Fisciano, allorquando questo volume sarà presentato e
distribuito agli illustri partecipanti.
Nel più dei casi e con diversi approcci, questi scritti mettono in relazione i toponimi-antroponimi
con l’identità territoriale a varie scale, offrendo dunque – non diversamente da quelli presenti nella
prima sezione – materia di dibattito ai lavori del convegno e oltre: la cartografia e la toponomastica
storica, infatti, sono fonti privilegiate dalle quali ricavare, con la opportuna “delicatezza protocollare”, i caratteri identitari di contesti, ossia l’accumulo non meramente sommatorio di “vocazioni” nella
successione temporale delle civilizzazioni. Ogni contributo è stilato secondo precisi criteri estrinseci
di scrittura, indicati a suo tempo per i convegnisti e qui ripetuti “pro memoria” in terza di copertina,
nella speranza che ogni collaboratore sappia in futuro cortesemente adeguarvisi con attenzione, senza
costringere i redattori a una faticosa e fastidiosa opera di omogeneizzazione “tipografica”. In calce è
previsto un riassunto trilingue (italiano, inglese, francese), a sottolineare la necessità di dialogare in
una dimensione internazionale, che vorrei presente in tutte le iniziative del laboratorio.
Nel consegnare al torchio questo frutto parziale di ricerche, sento il dovere di ringraziare, per il
contributo finanziario, le amministrazioni comunali di Pellezzano e di Mercato San Severino, nonché
la Cassa Rurale e Artigiana-BCC di Fisciano nella persona del suo Presidente, dott. Domenico Sessa.
Lo stesso valga per tutti gli enti patrocinanti. Per la collaborazione offerta alla U.O. locale nel lavoro
di indagine bibliografica e d’archivio come in altre incombenze logistico-amministrative e pratiche,
sono grato ai dott. Paola Dell’Anno, M. Giuseppa Vigorito, Giovanni Romano, Carmen Sferruzzi ed
Emilia Sarno. Per gli stessi motivi porgo infine un sincero grazie alle dott. Maria Rosaria De Vita e
Silvia Siniscalchi, che, oltre a coadiuvarmi pazientemente nel tempo di allestimento del presente volume, continuano a collaborare per l’organizzazione delle previste giornate di studio. A tutti spero di
aver comunicato semi produttivi per l’acquisizione di competenze nella ricerca-didattica, con l’augurio di saper ogni tanto spiccare autonomi “voli” in questo problematico cielo del sapere e del saper
comunicare contenuti e valori.
IL DIRETTORE DEL CAR.TOPON.ST.
dato nell’Aprile del 2006
Campus di Fisciano, Università di Salerno
Prof. Vincenzo Aversano
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SEZIONE PRIMA
- Cartografia -
Dalle biografie professionali alla rappresentazione del territorio:
casi esemplificativi resi al DISCI
(Dizionario Storico dei Cartografi Italiani)
Responsabile Scientifico U.O. locale
Prof. Vincenzo Aversano, Università degli Studi di Salerno
(MIUR, PRIN 2003)
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S a g g i d i S c h e d e*
*Principali abbreviazioni usate nel testo
ASN
ASS
ASBN
ASAV
ASF
ACS
AMC
AP
RSS
b.
c.
f.
f.lo
F.to
s. d.
s. l.
I.G.M.
(?)
Archivio di Stato di Napoli
Archivio di Stato di Salerno
Archivio di Stato di Benevento
Archivio di Stato di Avellino
Archivio di Stato di Foggia
Archivio Comunale di Salerno
Archivio Municipale di Cava dei Tirreni
Archivio Parrocchiale
Rassegna Storica Salernitana
Busta
Carta, pianta, disegno e simili
Foglio
Fascicolo
Firmato
Senza data
Senza luogo di pubblicazione
Istituto Geografico Militare
Lettura testuale e/o informazione dubbia
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FRANCESCO DE VITO PISCICELLI (a c. di V. Aversano)
Qualifiche
Colonnello Direttore Generale Ponti e Strade
Data e luogo di nascita e di morte e/o periodo di attività documentata
Nato a Reggio Calabria da nobile famiglia marchesale il 13 settembre 1766, muore a
Castellammare di Stabia il 9 marzo 1833 nel Quartiere S. Ferdinando (ASN, Fondo privato,
Archivio De Vito Piscicelli Taeggi, b. n. IV), dopo essere andato in pensione alla fine del 1824.
Relazioni di parentela rilevanti per la ricostruzione di eventuali dinastie professionali
----Formazione e accesso alla professione (con riferimenti a documenti originali o bibliografia)
Nel 1798 frequenta un corso di perfezionamento in Francia presso l’École des Ponts et
Chaussées. Tenente Colonnello del Genio nel 1810, poi Colonnello e Generale. Socio ordinario
della Reale Accademia delle Scienze dal 22 maggio 1808. Dal 1810 è membro del Consiglio dei
Lavori Pubblici del Corpo di Ponti e Strade. Nel 1817 diviene Direttore Generale dello stesso
corpo, che fu modificato in Direzione Generale con una serie di provvedimenti, quali l’abolizione della collegialità gerarchica, la riduzione del numero degli ingegneri, la scomparsa del Consiglio d’Arte e delle Ispezioni e la nascita delle Deputazioni alle opere pubbliche e provinciali e
quelle della non ancora ben definita figura dell’ingegnere provinciale (DI BIASIO, 1993, p. 52).
Attività e produzione al vaglio critico
Nel 1814 è membro di una Commissione che, su incarico del Murat, esamina il progetto del
Carpi su un lazzaretto a Miseno e uno a Nisida. Nel 1816 scrive un Rapporto / Sul progetto della
Batteria di Costa / di Agropoli / Del colonnello Piscicelli Ispett[ore] Ge[nera]le / del Genio /
Signor Presidente, riportato per la prima volta dal Caffaro (1989, pp. 8-16), nel quale dimostra
di conoscere il territorio e saperne valutare l’importanza ai fini strategico-militari, prospettando
«la stretta relazione esistente tra insediamenti difensivi e conformazione del territorio» (CAFFARO,
1989, p. 18). «Difficilmente [continua lo studioso], considerando le concezioni generali della
strategia del tempo, l’autore del Rapporto avrebbe potuto sviluppare il passaggio dal concetto di
una difesa attiva – incentrata sulla fortezza e perciò ancora globalmente statica – al concetto
innovatore di “difesa elastica”» (CAFFARO, 1989, p. 18). In occasione del ripristino della Scuola
di Applicazione (1818), ne compila il nuovo Statuto. Nello stesso anno, inserendosi nella
problematica dei cimiteri, nella quale Luigi Oberty svolse, sul piano architettonico, il ruolo che
il Pindemonte ebbe su quello letterario, su disposizione di Ferdinando I, redige un progetto di un
camposanto-tipo per comuni di 8000 abitanti, che è poi l’unico rimasto di 17 schemi simili, tutti
completi di stato estimativo, per comuni di diverso numero di abitanti (BUCCARO, 1992, p. 150 e
152 e fig. 126).
In grazia anche delle competenze acquisite frequentando, nel 1798, il già citato corso di
perfezionamento in Francia presso l’École des Ponts et Chaussées (GILLISPIE, 1983, p. 587), così
come era accaduto a Francesco Costanzo in precedenza, nel 1817 viene nominato direttore del
Corpo di Ponti e Strade, che poi – sotto i colpi delle critiche sul fallimentare andamento dei
lavori pubblici (in verità non imputabile alla persona, ma alla struttura, come onestamente riconoscerà lo stesso Afan de Rivera) – fu da lui abolito e modificato in Direzione Generale (sugli
ampi e delicati compiti del direttore, cfr. DI BIASIO, 1993, p. 232). Nella nuova veste, la scuola
avrà un corso biennale anziché triennale e sarà «più uno strumento informativo che formativo»
(DI BIASIO, 1993, p. 232). «Indipendentemente dall’impegno profuso nella realizzazione delle
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opere pubbliche [scrive ancora, forse troppo calcando i toni detrattivi, il DI BIASIO, 1993, p.
232], però, con Piscicelli si impone un generale ripensamento sulla funzione e sulla struttura del
Corpo […] che si traduce in un chiaro processo di involuzione». E a p. 52: «Da una parte
l’involuzione riguarda gli aspetti più propriamente tecnici, relativi alla progettazione, alla realizzazione ed alla gestione delle opere pubbliche, e dall’altra comporta una drastica riduzione
dell’organico degli ingegneri ed un sensibile rimaneggiamento delle loro funzioni». Continuando: «Non a caso alla soppressione del Corpo come istituzione collegiale organizzata gerarchicamente, alla forte riduzione dei suoi ingegneri ed alla conseguente scomparsa del Consiglio d’arte e delle Ispezioni rispondono la nascita delle Deputazioni alle opere pubbliche provinciali e
quella della non ancora ben definita figura dell’ingegnere provinciale». Nel 1819 firma il progetto della strada regia da Bari a Modugno. In funzione di incaricato del governo lo troviamo, ai
primi del 1819, insieme all’Intendente di Avellino e a due deputati alle opere provinciali, in una
commissione incaricata di trovare l’edificio o il sedime adatti ad accogliere il Real Collegio di
Avellino, voluto da Giuseppe Bonaparte (legge 30 marzo 1807) «per la educazione ed istruzione
della gioventù nella scienza e nelle arti» (MASSARO online, 2002, pp. 70-71). Lo troviamo ancora
impegnato ad approvare il modello di carcere panoptico presentato in progetto nel 1821, da lui
definito «utile alla morale e alla minorazione de’ delitti del Regno», sì da farlo ratificare da
Ferdinando I nel 1822 per il carcere di Avellino (BUCCARO, 1992, p. 112). In difficoltà per gli
scarsi finanziamenti erogati alle opere relative agli scali dell’Adriatico, cui sovrintende (BUCCARO,
1992, p. 84, nota 147), nella qualità di direttore si oppone, nel 1821, al progetto dell’ingegner de
Fazio sul molo isolato di Barletta, dove quegli intendeva aprire dei trafori, con l’appoggio dell’intendente di Bari (BUCCARO, 1992, p. 85, nota 148). Quindi, coi fatti, dimostra equanimità nel
sostenere la preminenza del fatto tecnico su quello politico, pur essendo un sostenitore del
decentramento. Tale atteggiamento lo tenne fuori dalle epurazioni seguite ai moti costituzionali
del 1820-21 (De NEGRI, 2003).
È colui che ha preceduto Afan de Rivera nella carica di Direttore della Scuola di Applicazione
(TORRACA e altri, 1924, p. 625). Condivise i valori e i fini della istituzione di cui fu direttore: «senza
emulazione e speranza di ascenso [scriverà in una lettera del 1823 al Ministro delle Finanze] non è
presumibile che si possa sostenere ne’ corpi scientifici l’amore del travaglio e il desiderio di distinguersi» (FOSCARI, 1995, p. 93). Ne conseguiva il principio che nessun dipendente fosse inamovibile,
anzi vigeva la regola dei trasferimenti, specie di coloro che ricoprivano qualifiche direttive: molto
rigore in questo dimostrò il Piscicelli (FOSCARI, 1995, pp. 102-103). Niente di diverso, dunque,
nemmeno da quanto sosterrà il suo più illustre successore, Carlo Afan de Rivera. Come Afan era
un versatile sperimentatore, con qualità di pianificatore, capace di illustrare le sue ricerche in dotte
e lucide relazioni. Occupandosi, ad esempio, del problema del reperimento di legname adatto ai
navigli borbonici, a seguito di esperimenti condotti tra il 1793 e il 1794 (DE VITO PISCICELLI, 1819),
appurò che «il legno stagionato nell’acqua minerale di Castellammare per sei od otto mesi, esposto
all’aria per altri due mesi in magazzini coperti, aveva acquistato un rilevante grado di asciuttezza,
senza che si avessero gli spacchi e le fenditure profonde reperibili quando si fosse lavorato appena
giunto dal bosco» (NATELLA, 1977, p. 580, nota 1).
Di tutti i tecnici coevi è forse quello che a maggior ragione può esser definito anche un
cartografo di professione, entro il vasto raggio di competenze che dimostra peraltro di possedere, nel settore civile e militare (strade, monumenti, cimiteri, carceri, piazzeforti, porti, bonifiche). Valga solo qualche esempio. Quando nel 1813, ossia durante il Decennio napoleonico,
«venne deciso di eseguire un ulteriore lavoro di ricognizione sulle comunicazioni esistenti o
progettate e sulle batterie stabilite lungo la costa per la loro difesa, la Carte Militaire che ne sortì
venne realizzata dall’ispezione del Genio, diretta appunto dal tenente colonnello Francesco De
Vito Piscicelli. La carta rimase manoscritta, in quanto strumento interno di lavoro, ma tale circostanza non impedì comunque agli autori, ingegneri del Genio, di curare con particolare attenzione la parte grafica dell’elaborato: cartigli, scala, legenda, orografia e scritture sono tutte realizzate con grande cura e chiarezza» (VALERIO, 1993, p. 215. Ibidem, in nota 30, ulteriori elementi
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di lettura tecnico-contenutistica sulla carta militare, conservata in BNN, Palatino LXII; alla p.
214 buona riproduzione di particolari della stessa carta).
Carte a stampa o manoscritte
- Pianta del tratto della strada di Melfi da Parolise a Malopasso all’imboccatura del Piano di
Volturara (1818).
ASAV, Fondo Intendenza Principato Ultra, b. 139.
- Pianta topografica acquerellata per la costruzione della strada dei due Principati […] che
da Mercato di Sanseverino giunge in fino al pié della Costa della Laura […] (Napoli, 28
ott. 1818).
ASS, Fondo Intendenza, b. 3067, f.lo 61.
- Pianta Topografica del tratto della Strada di Amalfi che unisce Majuri ed Atrani presso il
sito di Castiglione (13 marzo 1819).
ASN, Fondo Intendenza (Carte in corso di riordinamento).
- Piante Geometriche de’ tre Tempii famosi dell’antica Città rinomata di Pesto; Pianta dell’Anfiteatro Campano, e del Recinto che si progetta onde conservare i Ruderi esistenti (1819-20).
ASN, Fondo Ministero Pubblica Istruzione, Real Museo Borbonico e Sovrintendenza degli
scavi, b. 326, Fasc. 1.
- Stato dei lavori della strada delle Calabrie (31 ottobre 1823).
ASN, Archivio Borbone, 308/240.
- Progetto di Camposanto-tipo (figura 126 in BUCCARO, 1992).
- Progetto di strada regia da Bari a Modugno, 1819 (ivi).
- Progetto di Carcere Panoptico, 1821 (ivi).
- Stato dei lavori della strada delle Calabrie (31 ottobre 1823) (figura 111 in ALVINO, 2003).
ASN, Archivio Borbone, 308/240 (figura 111 in BUCCARO, 2003).
Altre opere di interesse cartografico e geografico a firma dell’autore
- DE VITO PISCICELLI F., “Memoria sulla conservazione del legname di quercia per Francesco
De Vito Piscicelli Colonnello del Real Corpo del Genio”, in Atti della Reale Accademia delle
Scienze di Napoli, Napoli, 1819, pp. 127-141.
- DE VITO PISCICELLI F., Memoria al Parlamento Nazionale sul progetto di legge per la direzione de’ lavori pubblici del regno delle Due Sicilie, Napoli (?), 1821.
Repertori carto-bibliografici e documenti d’archivio
- Scrutinio di Francesco de Vito Piscicelli, direttore generale di Ponti e strade, a seguito dei
moti costituzionali del 1820-1821 (18 maggio 1821).
ASN, Giunta di scrutinio, 10/1223.
- Certificato di liquidazione di pensione in favore di Francesco De Vito Piscicelli
Si certifica che al foglio 27 del Registro n. 144 degli Assienti della Tesoreria Generale di
Napoli risulta quanto segue:
D.r F. de Vito Piscicelli Direttore Generale dei Ponti e Strade col mensuale soldo di ducati
268 e grana 34 giusta i Regi Decreti 25-1-1817, 8 ott. 1818 e 18 novembre 1822.
Il suddetto con Regio Rescritto 18 ottobre 1824 ha ottenuto il ritiro della carica suddetta
dovendosi ritirare la pensione ai termini della legge 3 maggio 1816.
ASN, Sezione Amministrativa, Napoli 30 settembre 1940- XVIII
Edizione e/o schede delle carte
----Rimandi ad altre schede
Vedi Luigi Oberty
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GIUSEPPE LISTA (a c. di V. Aversano)
Qualifiche
Ingegnere Provinciale
Data e luogo di nascita e di morte e/o periodo di attività documentata
Nasce il 20 luglio 1775, è operativo fino al pensionamento (1852) e muore nella seconda
metà del XIX secolo.
Relazioni di parentela rilevanti per la ricostruzione di eventuali dinastie professionali
Probabile ascendente di Stanislao, pittore e scultore realista salernitano (Allgemeines
Künstlerlexikon, 2000, vol. 6, p. 288; BOLAFFI, 1974, sub voce; BIGNARDI, 1990, pp. 70-71).
Formazione e accesso alla professione (con riferimenti a documenti originali o bibliografia)
Accede al Corpo di Ponti e Strade come ingegnere di terza classe nel 1813 (Notamento
degli ingegneri del Corpo di Acque e Strade a tutto il 31 marzo 1852: DI BIASIO, 1993, p. 202).
Compare nel novero degli ingegneri addetti alle opere provinciali, che conducevano vita grama
per carico di lavoro, mortificazioni remunerative e pressioni dei potentati locali (FOSCARI,
1995, p. 133), col grado di seconda classe, nel 1818 (DI BIASIO, 1993, p. 47). Nel Piano
nominativo del Corpo Reale degli Ingegneri di Acque e Strade, varato dal Direttore Generale
il 24 gennaio 1826, in previsione del Decreto 25 febbraio 1826, al nominativo G. Lista figura
assegnata la qualifica di «Ingegnere di 2a classe, Nuova destinazione il Principato Cit.re, il
soldo attuale 50, nuovo soldo 40 e spese d’off. 8». Compare con la stessa qualifica nel 1829 e,
nel Quadro del Corpo degli Ingegneri di Acque e Strade (1834), sempre con la stessa qualifica (detta «grado»), è segnato al n. 17 dell’elenco, con soldo netto 34 e le seguenti Osservazioni: «Al seguito, stesso soldo» (DI BIASIO, 1993, p. 99, p. 144 e 146). Ancora ingegnere di
seconda classe nel Decreto del Ministro degli Interni del 30 agosto 1840 (DI BIASIO, 1993, pp.
171-172, nota 33).
Grazie forse alla sua operosità, fa poi qualche progresso di carriera, sicché tre anni dopo è
condirettore, col Petrilli, alle opere provinciali. Non diversamente da altri suoi colleghi si
giova, in qualche modo, della impossibilità, da parte del Governo, di effettuare il ricambio dei
tecnici più anziani, dato il lavoro immane che c’era da fare nelle opere pubbliche, soprattutto
se commisurato all’esiguità della pianta organica esistente (sulla Riforma del 1839-1841 si
veda DI BIASIO, 1993, cap. V, p. 156, nota 8): ancora nel 1845, infatti, prestano servizio nella
sezione provinciale ben 19 ingegneri «dell’antico Corpo» francese, tra cui appunto il Lista (DI
BIASIO, 1993, p. 187, nota 8).
Nel 1851, allorché si progetta di unificare i due rami del Corpo, nel Quadro indicante il
posto che prenderebbe ciascun ingegnere di Ponti e Strade nelle due Sezioni riunite secondo
la proposta che si vuole rassegnare a S.M. (D.G.), il Lista figura tra i 15 tecnici assegnati alla
prima classe, ma con questa pietosa e poco edificante annotazione: «Vecchio ottuagenario
inabile a qualunque servizio che si fa figurare nella Commissione di revisione». Difatti, l’anno seguente, finisce «ingloriosamente» la sua carriera, giacché viene «messo a ritiro», nella
sezione provinciale, con Decreto 18 marzo 1852, purtroppo ancora come Ingegnere di seconda classe (DI BIASIO, 1993, p. 193, nota 29). Eppure egli aveva acquisito il titolo di Direttore
del Corpo degli ingegneri delle regie strade, documentato in un progetto del 1847 (Perone,
2003, p. 37, n. 8), a meno che non si tratti dell’immediato discendente, autore della carta
segnalata in fondo all’elenco che segue.
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Attività e produzione al vaglio critico
Di lui non ci restano, per quanto è stato possibile finora accertare, pubblicazioni a stampa. Di
un ingegnere G. Lista, portante lo stesso nome di battesimo e probabile discendente diretto e
fratello di Stanislao, si ha notizia in quanto autore della Pianta geometrica dell’Agro Nocerino,
datata 1877 (AVERSANO, 1987a), nella quale permane lo stesso lucido «spirito geometrico e schizzante» delle due carte qui di seguito riprodotte (cfr. figg. 1 e 2), nonché dei progetti per la
costruzione di miniacquedotti e fontane a Salerno città, Saragnano e S. Cipriano. Di indirizzo
neoclassico è, invece, l’intervento di restauro del prospetto della Cattedrale di Cava dei Tirreni
(cfr. nella presente scheda elenco di questi progetti, custoditi nell’ASS e nell’AMC).
Per avere una sia pur sommaria idea del lavoro capillare che questo operoso tecnico ha svolto
in tutto il territorio provinciale, basterà riferirsi al «Fondo Intendenza-Strade» dell’ASS, nelle
cui buste sono documentati i suoi interventi in qualità di descrittore, estimatore e controllore di
lavori, pubblici e privati (se apportatori di danni al suolo pubblico), eseguiti nel decennio 183040 in varie località del Principato Citeriore (per zone della Costiera o di Coperchia di Pellezzano
si vedano, a sola esemplificazione, le buste 2926, 2929, 2939, 2940, 2949, 3001, 3104).
Il giudizio di sintesi non può essere che solidalmente estimativo per questo tecnico, uomo
delle istituzioni che, senza raggiungere alti vertici creativi, ha profuso una dura laboriosità per
circa mezzo secolo, vittima come tanti altri della «tortuosità di taluni meccanismi amministrativi» (FOSCARI, 1995, p.133) e perciò obbligato a condurre una vita quasi grama almeno sotto il
profilo delle soddisfazioni economiche.
Carte a stampa o manoscritte
- Pianta ostensiva della divisione e diramazione dell’acqua di S. Lorenzo in Salerno. Salerno,
12 luglio 1818. F.to: Ing. Prov. Giuseppe Lista.
ASS, Intendenza, b.1280, f.lo 1.
- Pianta della chiesa di S. Agostino in cui si osserva quanto in essa cerca farsi, 1819. F.to:
ingegnere Giuseppe Lista.
ASN, Ponti e Strade, f.lo 353, f. 772.
- Progetto per la sistemazione dell’ingresso del palazzo dell’Intendenza di Salerno, 1819. F.to:
ing. Giuseppe Lista.
ASN, Ponti e Strade, f.lo 353, f. 772.
- Pianta geometrica delle due stradette da ridursi, che cominciano da Amalfi, e conducono ad
Agerola, ed al Pontone di S. Elena. F.to: l’Ing.e Provinciale Giuseppe Lista. s.d. [ma 1820].
ASS, Intendenza, b.1124, f.lo 34.
- Pianta ostensiva di un pezzo del torrente di Tramonti in cui è progettato il ponte in AB,
segnato di rosso. Si osserva la nuova stradetta BC. F.to: Ingegnere Provinciale Giuseppe
Lista. s.d. [ma 1822].
ASS, Intendenza, b. 1339, f.lo 33.
- Pianta ostensiva di due fondi confinanti, 1823. F.to: Giuseppe Lista, Ing. Provinciale.
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Fondo Perizie, Vol. 896.
- Progetto della facciata della Cattedrale di Cava, 1823.
AMC, Vol. III, f. 51 sgg.
- Pianta ostensiva delle due strade in controversia, che si cercano di fare nello Stato di
Sanseverino (s.d., ma II decennio sec. XIX).
ASS, Fondo Intendenza, b. 3048, f.lo 3.
- Disegni di una fontana grande da costruire nella piazza di S. Cipriano e di una più piccola
da sistemare nel largo davanti alla Chiesa Madre addossata al muro di fronte all’ingresso
della chiesa. Salerno, 8 luglio 1836. F.to: Ing. Prov. Giuseppe Lista.
ASS, Intendenza, b.1308, f.lo 8.
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- Prospetto del nuovo fonte da costruire nel largo Pignatelli. Salerno, 2 agosto 1841. F.to: Ing.
Giuseppe Lista.
ASS, Intendenza, b.1143, f.lo 5.
- Piantina di largo Pignatelli in Saragnano dove s’intende costruire il nuovo fonte. Salerno, 20
agosto 1841. F.to: Ing. Giuseppe Lista.
ASS, Intendenza, b.1143, f.lo 5.
- Pianta geometrica dell’Agro Nocerino, 1877. F.to: Ing. G. Lista.
ASS, Genio Civile, b.1. Trattasi di un immediato discendente.
Altre opere di interesse cartografico e geografico a firma dell’autore
----Repertori carto-bibliografici e documenti d’archivio
----Edizione e/o schede delle carte
----Rimandi ad altre schede
----Commento alla Fig. 3.
Questa volta ci affidiamo alla relazione dello stesso Lista allegata al progetto: «Il suo prospetto è rustico di travertino
di Fiano, ossia tufo tornante che unisce due ordini di pilastri uno soprapposto all’altro del primo ordine corinto bastardo, i
di cui capitelli sono diversi, tra loro è poggiato un lungo cornicione, dal quale comincia il secondo ordine di grossi pilastri
anche dell’istesso stile con il rispettivo cornicione, ed indi il rimirato che non comunica con il medesimo. Le alette nel
primo ordine sono dell’istesso carattere, e nel secondo superiore alle suddette vi esiste un ventaglio a cartoccio dell’istessa
pietra che termina a fianco i capitelli del second’ordine. Gli ingressi alla chiesa sono tre, ornati, pesantemente con la istessa
pietra. I pezzi dell’indicata pietra che formano il descritto ornato sono tutti slegati, e hanno poca tenuta nella fabbrica, per
cui molti sono per cadere» (AMC, Vol. III, f. 51 sgg., in Peduto, 1982, pp. 82-83 e fig. 16).
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FRANCESCO SAVERIO MALPICA (a c. di V. Aversano)
Qualifiche
Architetto
Data e luogo di nascita e di morte e/o periodo di attività documentata
Nasce da famiglia calabrese (il padre è medico). Professionalmente attivo per un lungo periodo tra la prima e la seconda metà del XIX secolo.
Relazioni di parentela rilevanti per la ricostruzione di eventuali dinastie professionali
Fratello di Cesare Malpica, noto e discusso letterato romantico e liberale, la cui figura è
ricostruita in GENOINO, 1957 (cfr. anche CIONE, 1977, passim; AVERSANO, 2001, p. 75) e che fu un
po’ bistrattato dal De Sanctis (che gli diede del «letterato solo intenzionale»), un po’ meglio
giudicato dal Croce, che lo definì «il più sbrigliato dei romantici napoletani del suo tempo»,
lodato infine da P.C. Ulloa, che gli riconobbe «occhio da pittore»: evidente dote di famiglia, che
condivide col fratello Francesco Saverio, così come gli si accomuna nello stilare resoconti di
viaggio: Cesare in Puglia e altrove (GENOINO, 1957, p. 173), il nostro da Napoli a Pisa a Roma a
Firenze, descrizioni odeporiche all’interno di un buon testo di storia dell’arte (MALPICA, 1847).
Formazione e accesso alla professione (con riferimenti a documenti originali o bibliografia)
Il 18 dicembre 1840 presta giuramento di fedeltà e ubbidienza al re Ferdinando II di Borbone:
il testo della formula di rito, ricavato da un fondo dello A.S.N., viene riportato di seguito nell’apposita etichetta.
Attività e produzione al vaglio critico
Alle indiscusse doti personali e professionali di tecnico, F.S. Malpica aggiunge soprattutto
quelle di un intellettuale a tutto campo, che ha scritto tanti saggi sulle più svariate materie (la
teorica dei prezzi applicati agli usi pratici; sui monumenti di Napoli e sul Duomo di Salerno; un
manuale di storia dell’arte, che afferma di avere in corso di compilazione – MALPICA 1872a – e
di cui non sono in grado per ora di confermare l’esistenza o l’eventuale messa in stampa). Il
profilo emergente da tutte le opere (cartografiche e non) che mi è riuscito di rinvenire, è quello
di un gentiluomo d’altri tempi, forse anche un po’ bacchettone e perbenista, ma conscio della
intrinseca moralità dell’arte e della necessità che l’artista «eserciti un magistrato liberissimo,
indipendente da qualsiasi condannevole influenza» (MALPICA, 1872a, p. 9), per realizzare il fine
dell’arte, che è il «toccare il cuore e nutrir la mente». Dotato di una psicologia un po’ leopardiana
per certo suo pessimismo e, per la tenerezza umbratile, un po’ leonardesca, testimonia espressamente, proprio nel suo personale desiderio di ammirare e fare cose artistiche, la vita dura cui è
condannato l’architetto (MALPICA, 1872a, p. 8).
La sa lunga in materia di estetica: ad esempio, scrive pagine avvertite sul concetto di imitazione della natura, ben concedendo all’artista la capacità e necessità di ricrearla, per realizzare,
in una nuova composizione, il bello ideale, che non esiste in natura (MALPICA, 1872a, p. 6).
Romantico dunque, come suo fratello Cesare, ma legato anche al classicismo, nel convincimento che l’arte incarni un’idea. Discetta sugli aspetti tecnico-culturali e sociali delle arti figurative
e, sul piano critico, sostiene che l’arte non si possa comprendere se non la si aggancia alla storia,
se non la si contestualizza alla società: in Italia si è dovuto attendere il secondo dopoguerra
perché la critica si ispirasse ai dettami della storia sociale dell’arte... Dimostra un certo equilibrio critico laddove sostiene la popolarità (ma relativa) dell’arte: essa deve essere «intesa bene
dal dotto e dall’ignorante» e curare «un linguaggio né troppo rigoroso né trascurato del tutto»
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(MALPICA, 1847, p. 6). E così prosegue: «Nella invenzione – ecco precetto conosciuto da tutti gli
artisti – è indispensabile siavi varietà, concatenazione e semplicità – […] Perché l’artista deve
allettare; deve presentare un tutto conforme alle leggi naturali ed al carattere della verità»
(MALPICA, 1872a, p. 14). In definitiva, l’artista ideale, incarnato in Raffaello (ivi, p. 16), deve
essere – nel parere malpichiano – classico e realista insieme, senza però eccedere nello
psicologismo dei volti e nelle allegorie troppo astruse (ivi, p. 20).
Ha un alto concetto dell’architettura, che non considera un mestiere, ma un ideale, un insieme che abbraccia, come nella pittura, l’invenzione, l’ordine, la espressione (MALPICA, 1847, p.
4). Quello che lo rende più gradevole e consentaneo è la espressa stanchezza della frigidità
positivistica e il ripudio della eccessiva attenzione portata, nel suo secolo, alle opere pubbliche,
al commercio, a vie ferrate, piroscafi, banche, macchine, agronomia, asili infantili, monti
frumentari e a «quant’altro l’industria, le scienze e la pietà degli uomini han saputo inventare di
ingegnoso, di proficuo, di commedevole, di utile» (MALPICA, 1847, p. 3): un ripudio che fa in
nome delle utilissime belle arti, delle impressioni, del gusto, di cui è ricca, con primato, l’Italia.
Ciò non toglie che egli sia stato, con elevato spirito di equità, progettista e direttore di lavori,
in campo idraulico, ma soprattutto nella pianificazione urbana della Salerno postunitaria (PERONE,
2003, passim).
Insomma, sotto il tecnico si nasconde un uomo e un artista ricco di gusto, di sensibilità postvichiane e quasi anticipatrici degli spiriti neo-idealistici: una figura poliedrica, collocata esattamente sul versante opposto di un altro grande architetto salernitano (Giovanni Rosalba), un
intellettuale che credevamo irrecuperabile dopo l’esperienza illuministica settecentesca.
Carte a stampa o manoscritte
- Pianta geometrica topografica di un territorio con fabbricato in Montoro, 1827. F.to: F. S.
Malpica e Luigi Sorgente.
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Fondo Perizie, Vol. 898, c. 246.
- Pianta geometrica dimostrante le opere tutte eseguite dalle Parti nella montagna e Valle
Trapulogo (8 ottobre 1838).
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Perizie, vol. 905, c. 1455.
- Pianta della Valle Trapulogo Profilo della Stessa Pianta e Spaccato del Serbatoio del Comune (8 ottobre 1838).
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Perizie, vol. 905, c. 1456.
- Pianta di due piazzette in Amalfi e opere ivi costruite. Salerno, 16 agosto 1846. F.to: Francesco Saverio Malpica.
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Fondo Perizie, b. 913, c. 1161.
- Pianta geometrica delle Ische Giuliani, 1854. F.to: Francesco Saverio Malpica.
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Fondo Perizie, Vol. 921.
- Pianta del fondo Licine espropriato a danno di Matteo Cavallaio, Salerno, 12 agosto 1854.
F.to: Francesco Saverio Malpica.
ASS, Tribunale Civile, Fondo Perizie, b. 921.
- Pianta di una porzione della città di Salerno racchiusa tra le strade Due Principati,
Arcivescovado, Corso Garibaldi e Porta Nova, Salerno, 1862.
ASS, Fondo Prefettura, IIa serie.
- Pianta topografica di una parte orientale della città con lo schema della nuova strada dal
largo Portanova fino alla stazione della Ferrovia, 1866. F.to: ingegneri Francesco Saverio
Malpica, Lorenzo Casalbore.
ACS, Sezione Storica, cat.V, cl. I, Patrimonio varie.
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Altre opere di interesse geo-cartografico, giuridico-territoriale e/o artistico, a firma dell’autore
- MALPICA F. S., Famosi monumenti di Toscana e Roma. Descrizioni e osservazioni dell’architetto Francesco Saverio Malpica, Salerno, Stabilimento Tipografico di R. Migliaccio, 1847.
- MALPICA F. S., Sul dipinto del Teatro Municipale di Salerno. Due lettere dell’architetto Francesco Saverio Malpica ad un suo amico, Salerno, Stabilimento Tipografico Migliaccio, 1872.
- MALPICA F. S., Comento sulle servitù prediali giusta il nuovo Codice Civile del Regno d’Italia per l’architetto Francesco Saverio Malpica, Salerno, Stabilimento Tipografico Migliaccio,
1872.
- MALPICA F. S., Una festa costituzionale in Salerno, 18…(?).
Repertori carto-bibliografici e documenti d’archivio
Giuramento di fedeltà e ubbidienza dell’architetto Malpica al re Ferdinando II:
L’anno milleottocentoquaranta il giorno diciotto Dicembre in Napoli.
Innanzi a Noi Cavaliere Ferdinando Troja Vice Presidente della Corte Suprema di Giustizia, Presidente della G. Corte civile in Napoli, assistito da D. Luigi Lupani impiegato della Commessione per
l’albo degli architetti giudiziarj e dal Cancelliere, si è presentato D. Francesco Saverio Malpica, onde a
termini delle superiori disposizioni, prestare nelle nostre mani il giuramento, nella qualità di architetto
del sud. albo.
Dopo di che abbiamo ammesso il sud. D. Franc.° Saverio Malpica a prestare il giuramento, siccome
lo ha dato ad alta voce, e sopra i Santi Vangeli ne’ seguenti termini:
Io Francesco Saverio Malpica prometto e giuro fedeltà ed ubbidienza al Re Ferdinando II°; e pronta
ed esatta esecuzione degli ordini.
Prometto e giuro che nell’esercizio delle funzioni che mi sono state affidate, io mi adopererò col
maggiore zelo, colla maggiore probità ed onoratezza.
Prometto e giuro di osservare e di fare osservare le leggi i decreti ed i regolamenti, che per Sovrana
disposizione di S. M. si trovano in osservanza, e quelli che piacerà alla M. S. di pubblicare in avvenire.
Prometto e giuro di non appartenere a nessuna Società Segreta di qual-sivoglia titolo, oggetto e denominazione, e che non sarò per appartenere giammai.
Così Dio mi ajuti.
In fede di che se n’è redatto il presente processo verbale, che è stato sottoscritto dal nominato D. Francesco Saverio Malpica, da noi, dal sud.to impiegato della Commissione e dal Cancelliere.
Francesco Saverio Malpica / F. Troja V.ce / Luigi Lupani / altra firma illeggibile
N.° 618 / Registrato in Napoli li quindici Gennajo 1841 fol. 33
[seguono bollo e altre indicazioni, mal leggibili salvo i numeri arabi, su diritti di registrazione
pagati: n.d.r.].
ASN, Ministero di Grazia e Giustizia, fasc. 1584, inc. 781.
Edizione e/o schede delle carte
----Rimandi ad altre schede
Vedi Giovanni Rosalba, per un’antitetica concezione della figura e della funzione dell’architetto.
Commento alle figg. 4, 5 e foto 6, 7, 8.
Si nota immediatamente il gusto pittorico di questi tecnici-cartografi capitanati dall’architetto Francesco Saverio Malpica
che, cartografando un vallone lungo circa 2000 metri e largo 400, allungato in un’area bassocollinare (siamo in media sui
250 m s.l.m.), adoperano gradazioni di verdi trapassanti nel grigio, di azzurrini verso il turchese, rendendo con delle
barbette quotate quelle ondulazioni del terreno, morfologicamente assai mosso anche nei dettagli, che altrimenti si potevano rendere col classico tratteggio (fig. 4). Curioso il gusto di indicare il nord con una freccia infilzante una volpe, il che
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potrebbe essere anche (involontaria ?) indicazione di una diffusa presenza faunistica. Gli alberi sono resi con la consueta
macchia verde e l’ombra a terra (eredità di una consolidata visione prospettica che apparentemente discorda dagli aggiornati criteri scientifici della rappresentazione), con luce che proviene dall’alto a sinistra, con inclinazione di 45 gradi, alla
quale si connette lo sfumo. Qua e là appaiono ritagliati, specie sui pianori sommitali, piccoli brani di coltivazioni a terrazze, molto più diffusi e concentrati nella parte est (destra della carta), resi con geometriche e fittissime linee parallele,
chiuse ai margini superiore e inferiore da segmenti più marcati (le classiche «màcere» o «macerine», ovvero terrazzamenti
sostenuti da muretti a secco, cui di solito si appoggiavano i canali per l’irrigazione). Pochi i toponimi, richiamanti la
feudalità laica o ecclesiastica: Capitolo, Beneficenza, Mezzacapo; cognome, quest’ultimo, del casato locale più in vista,
che aveva pietrificato anche in un castello, ora scomparso, il suo status sociale (NASTRI, 1999; CERASUOLI, 1999). Lungo il
vallone, al centro della rappresentazione e in senso ovest-est, si snoda la linea rosso-granato di un acquedotto di circa un
miglio (quasi 2000 m), costruito dalla famiglia dei Cimino, proprietari della cartiera – sita all’estrema destra in alto –
visibile per una pianta approssimativa, anch’essa color granato. In basso a destra l’altra cartiera che un tal Confalone
(cognome legato anche ad altre importanti cartiere della costa) aveva preso in fitto dai Cimino. È proprio questo fittuario
l’attore di una vertenza giudiziaria che dà luogo a tutto l’incartamento conservato in archivio (un centinaio di pagine, con
allegate le carte: Tribunale Civile di Salerno, Perizie, vol. 905, 1838, cc. 1406-1453). Egli si lamentava del fatto che, dopo
aver costruito delle chiuse per creare un bacino di alimentazione della cartiera presa in fitto, si vedeva decurtato, nei
periodi di siccità, dell’acqua, a causa dei prelievi fatti dal Comune di Maiori, tramite una vasca appositamente costruita per
scopi potabili, a beneficio della popolazione.
Questa operazione “indiziata” viene riprodotta nella carta più piccola e di maggiore dettaglio (fig. 5), relativa al settore
est della prima carta, di cui è un ingrandimento. Oltre che della visione planimetrica, è possibile qui giovarsi anche di un
alzato, preteso dall’attore della causa, dove si nota benissimo come l’acquedotto corra alternativamente su ponticelli o su
un muraglione; stesso trattamento, planimetrico e in rilevato, viene riservato alla contestata vasca costruita dal Comune.
Pare che del complesso della situazione, venutasi a creare dopo tanti interventi, risentisse negativamente anche l’agricoltura, se qualche proprietario si lamentava di non poter adeguatamente irrigare le sue particelle di terreno. Si conclude che
le nostre due carte documentano egregiamente una classica conflittualità nell’uso delle acque fra tre attori sociali diversi
(Comune, proprietari o affittuari delle cartiere, proprietari dei giardini mediterranei), cioè tra l’uso potabile, industriale e
agricolo. La ricerca storiografica ha riconosciuto, peraltro, che la distrazione del prezioso liquido verso altre attività fu una
delle cause della crisi industriale, in particolare nel settore cartario, a partire già dalla fine del Settecento (ASSANTE, 1994,
p. 287).
I bravi tecnici-cartografi – per quel che si evince da una lettura del fascicolo d’archivio, senza la quale non si capirebbe
il perché di certe scelte rappresentative – raccontano di aver compiuto «geodetiche operazioni» per ben sette giorni,
inventariando e misurando tutto, perfino i volumi d’acqua provenienti dalle otto sorgive da essi localizzate, attraverso la
lettura diacronica dei dati della piovosità dal 1825 al 1838, attinti presso il Pluviometro di Salerno (ecco un piccolo
inatteso contributo sia alla inventariazione delle vecchie sorgenti, sia alla storia del clima in piccole aree). Calcolando, nel
loro monitoraggio a tappeto dell’esistente, anche la possibile evaporazione, gli interrimenti e tante altre variabili
microterritoriali, essi arrivano alle seguenti conclusioni: a) gli agricoltori non possono lamentarsi giacché per i loro
«poderetti» basta prelevare l’acqua dal fiume principale (il Regina Maior attuale), parallelo alla strada pubblica; b) il
Comune è tenuto a indennizzare il Confalone, dato che il prelievo liquido per uso potabile ha privato la cartiera di tutta
l’acqua o quanto meno della necessaria acqua limpida, arrecando gravissimi danni economici, vuoi per l’interruzione
forzata del lavoro, vuoi per la qualità pessima della carta prodotta con acqua torbida e la conseguente difficoltà di piazzarla
sul mercato a prezzi remunerativi; c) il valore calcolato per l’indennizzo ammonta a 80 ducati l’anno. La relazione termina
con una lunga nota-spese, per un totale generale di 687 ducati e 90 grani.
All’osservatore di oggi quel vallone, cosi gradevole nel paesaggio dell’Ottocento, appare degradatissimo (vedi figg. 6,
7 e 8), pieno di erbacce e di ogni genere di rifiuti, con capannoni florovivaistici – pare abusivi – costruiti e gestiti dai
discendenti della stessa famiglia Cimino di un secolo e mezzo fa, con vecchie briglie di contenimento e gradoni non riattati
e una generalizzata assenza di manutenzione delle vecchie opere di presidio idrogeologico: una complessiva rottura,
insomma, dell’equilibrio ecologico-economico. Le varie alluvioni susseguitesi negli anni hanno coperto il primo piano,
provvisto di arco, della ex cartiera Cimino, ora divenuta abitazione. Restando intatta parte della antica vegetazione boschiva
(castagno), quella arbustiva ha invaso quasi tutto l’habitat: si intuisce, dal fasciname sparso qua e là a terra, così come
dall’esistenza del cavo di acciaio dell’attuale «’nzarto» o «palorcio», la sopravvivenza della boschicoltura, cui fa da “supporto” una vasca da bagno trasformata in abbeveratoio per i muli, mentre da un serbatoio comunale costruito negli anni
Cinquanta (sul sito del vecchio) proviene l’acqua per i bisogni attuali dei cittadini. Le frane conseguenti ad eventi alluvionali hanno distrutto quasi tutto il contesto ottocentesco, anche i segni di una vecchia «calcara»; a parte gli imprenditori
Cimino, pochi contadini, probabilmente part time o pensionati, si arrabattano con tenacia a salvare le coltivazioni, sempre
nel rispetto del terrazzamento, avendo, come punto di appoggio e deposito di attrezzi agricoli, malandate casupole coperte
da lamiere: il mantello piroclastico della roccia calcarea di base assicura ancora oggi una fertilità naturale di tutto rispetto,
assecondata da condizioni climatiche complessivamente favorevoli (siamo a circa 2.200 metri dalla marina di Maiori).
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Commento alla fig. 9.
Questa pianta manoscritta di Salerno alla metà dell’Ottocento, quando non era stata ancora superata la soglia dei 25.000
abitanti, ha un particolare valore documentario, vuoi in generale – giacché è la prima planimetria della città, alla vigilia di
grandi mutazioni, divenute stravolgenti a partire dal secondo dopoguerra – vuoi in particolare, perché della città è rappresentata una zona divenuta ormai centrale, che di solito restava fuori dai correnti interessi iconografico-celebrativi, focalizzati
sulla marina e sul centro storico. Ci troviamo in un’area comprendente l’attuale Piazza XXIV Maggio (ex Piazza Malta), in
cui sorgerà nell’immediato secondo dopoguerra l’edificio dell’Istituto Parificato di Magistero, nucleo originario della futura
Università degli Studi di Salerno: è per questo che, come si è già ricordato, uno stralcio della nostra pianta figura nella
composizione della copertina del presente volume e nel manifesto delle Giornate di studio previste per settembre 2006.
All’osservatore non sfuggirà che nella buona metà centro-orientale e centro-settentrionale del campo di rappresentazione (a nord e a sud di via Vernieri come ad ovest e a sud di via dei Due Principati fin quasi a ridosso del mare) permane
ancora florida una discreta vegetazione, naturale e coltivata, che più precisamente coincide con l’«Orto agrario» (tra le
attuali via Vernieri e via Principessa Sichelgaita), col cimitero (poi delocalizzato a Brignano) tra il quartiere Carmine e
l’attuale direttrice via P. Volpe-via Nizza, e con la Villa comunale. Questa, dopo essere stata oggetto di molte attenzioni
estetiche e funzionali da parte dell’architetto Domenicantonio Napoli (suo è il progetto, del 1823) e successivamente
dell’appaltatore Michele Barba (NATELLA,1986, pp. 22-23), finirà per scomparire di fatto, in quanto le sue aree dismesse
furono «occupate dai palazzi privati di fronte alla Posta Centrale lungo corso Garibaldi e per la risalita dei Principati ma su,
a piazza Malta, il Municipio rispettò l’antica funzione comunitaria e al posto della Villa oggi c’è lo spazio libero e aperto
per parcheggi [che stanno diventando anche sotterranei… n.d.r.] e per il traffico imponente che risucchia persone e oggetti
dal mare ai monti» (ivi, p. 24). E, tuttavia, la sua esistenza resta ratificata nella memoria popolare, tanto che la più ufficiale
e blasonata denominazione di «via dei Due Principati» è sostituita ancora oggi con «‘A scesa d’‘a Villa». «Qualche piccolo
casolare – ricorda ancora il Natella (ivi, p. 22) – indica che l’agricoltura era forza trainante proprio a due passi dal Centro;
dopo c. trent’anni il predetto lato destro dei Principati sarà – dal mare fino a piazza Malta – occupato dal mercato degli
ortaggi» (per maggiori dettagli si veda NATELLA, 1983, pp. 59-67).
In qualche modo la nostra rappresentazione viene incontro ai desiderata del «Regolamento» borbonico del 15 maggio
1858, laddove si perorava la necessità di «delineare una pianta generale dell’attuale fabbricato di Salerno sulla quale il
Consiglio avrebbe dovuto basare le principali rettifiche, gli essenziali raddrizzamenti ed ampliazioni per eseguire man
mano e secondo le occorrenze le demolizioni, le nuove costruzioni, gli allargamenti e i raddrizzamenti che occorrono onde
tutta la città successivamente e senza incertezza venga ridotta alla più regolare e miglior forma che possa desiderarsi»
(NATELLA, 1983, p. 40). I primi effetti di questa progettazione è dato già osservare, ad appena cinque anni di distanza, nella
Planimetria, a scala 1:10000 (datata 1867), redatta dagli ingegneri Alfonso di Gilio e Carlo Pannaini, ma lo spazio urbano
cambierà di molto nei decenni successivi: «nuove strade provinciali, un progetto per una condotta d’acqua, opere complementari per un porto alquanto indifeso dal mare, difesa del litorale, ampliamento della città, nuove arterie urbane, il teatro
Verdi, la ferrovia, la strada litoranea, i giardini pubblici, una grande caserma nei pressi della stazione, condotte d’acqua,
luce, gas e fognature furono le opere più importanti e significative realizzate in quel periodo ad opera soprattutto del
sindaco Matteo Lucani» (GIANNATTASIO, 1983, p. 19).
A tali trasformazioni il nostro Malpica contribuì incisivamente, come ideatore e direttore dei lavori: si vedano soprattutto i progetti per la Via Fieravecchia e per il “rettifilo” da Portanova alla Stazione ferroviaria, che incontravano l’opposizione dei grandi proprietari cittadini ma davano occupazione alla povera gente (PERONE, 2003, pp. 52-58).
Seguirono, fra il 1900 e il 1940, il pastificio e il cementificio (fonte di disturbo ecologico e di intralcio per lo scorrimento dei veicoli fino a pochi anni fa), le maggiori realizzazioni civiche e sportive (comune, tribunale, stadio) e la colmata di
via Roma e Lungomare Trieste, arterie che esaltarono – con le strade di raccordo ad esse perpendicolari – lo schema
relativamente regolare delle strade principali della città, già presente ad ovest nella impostazione centuriata romana, da cui
la nota assunzione a “triangolo scaleno” del suo perimetro complessivo, riscontrabile per la sua parte centrale anche in
questa carta, salvo l’assenza dell’angolo ad est, in corrispondenza della stazione (MIN. BENI CULTURALI ED AMBIENTALI,
SOPRINT. B.A.A.A.S. DI SALERNO E AVELLINO, PROV. DI SALERNO, ASSESSOR. AI BENI CULTURALI, 1994; MONTI, 1979; IMBUCCI,
1978).
Considerata la ancora più rapida e incisiva espansione topografica, avvenuta per noti motivi nel secondo dopoguerra,
con tutti gli altrettanto noti problemi economici e paesaggistico-ecologici, persino la preconizzata geometria urbana del
primo periodo postunitario ne ha sofferto sotto i colpi di una dissennata speculazione edilizia: il che fa rimpiangere amaramente lo stato di fatto ottocentesco testimoniato dalla presente carta, disegnata da Francesco Saverio Malpica in linee
assai precise e con tonalità rosa-verdine teneramente delicate e romantiche…
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LUIGI OBERTY (a c. di S. Siniscalchi)
Qualifiche
Ingegnere del Corpo di Ponti e Strade per tutti i lunghi anni della sua attività.
Data e luogo di nascita e di morte e/o periodo di attività documentata
Nato il 4 luglio 1790 a Perinaldo, cittadina della Diocesi di Nizza, oggi comune ligure in provincia di Savona. Morto a Napoli il 22 aprile del 1875 (MASSARO, 2002, p. 90). All’atto del battesimo si riscontra la presenza – forse non irrilevante nella vita se non nella carriera del Nostro – di
uno zio arciprete, tal Marco Oberty «all’epoca officiante nella chiesa di Corchiano, in provincia di
Viterbo, e più precisamente nella diocesi di Civita Castellana» (MASSARO, 1994, p. 36).
Relazioni di parentela rilevanti per la ricostruzione di eventuali dinastie professionali
Coniugato dal 1819 con la palermitana Teresa Giampoldini, ha tre figli: Maria, Maria Antonietta
Virginia Felicia, Giovanni (nato il 30 maggio 1823), che continuerà la professione del padre
(MASSARO online).
Formazione e accesso alla professione (con riferimenti a documenti originali o bibliografia)
Ancora molto giovane diventa allievo della Scuola Ponti e Strade (MASSARO online). «Il 9
agosto 1809, a seguito di lettera del direttore generale di Ponti e Strade, entrò a far parte del
Corpo di ingegneri come aspirante sottoingegnere. Il 6 febbraio del 1811 gli furono concesse le
funzioni di ingegnere aggiunto. L’anno dopo, il 12 aprile 1812, fu promosso ingegnere di III
classe ed assegnato al dipartimento di Abruzzo Citeriore» (FOSCARI, 1995, p. 158). È forse in
funzione di tale promozione che «nell’anno 1812 egli sostenne, tra l’altro, un esame svolgendo
un compito di disegno che si può ancora oggi ammirare nel voluminoso carteggio dell’Archivio
di Stato di Napoli» (ASN, Ponti e Strade, 3° serie, b. 140: MASSARO, 1994, p. 35).
«Nel 1815 fu escluso dal corpo in quanto non napoletano, ma venne subito reintegrato in
servizio. Nel 1817 divenne ingegnere di II classe provinciale. Nel marzo del 1826 pervenne alla
qualifica di ing. di I classe» (FOSCARI, 1995, p. 158).
Da un punto di vista professionale, la formazione di Oberty avviene negli anni in cui si
diffondono a Napoli idee urbanistiche di stampo illuministico, affermatesi pienamente durante
il decennio francese (1806-1815), per espressa volontà dei napoleonidi. A questi ultimi, inoltre,
si devono la rivitalizzazione o la creazione di importanti istituzioni: nel 1806, infatti, Giuseppe
Bonaparte riforma l’Accademia di Belle Arti napoletana (fondata da Carlo di Borbone nel 1752),
«nella precisa volontà di trapiantare nell’ambiente partenopeo la tendenza architettonica maturata a Parigi» (BUCCARO, 1992, p. 22); nel 1808, per opera del successore Gioacchino Murat,
viene istituito il Corpo degli Ingegneri di Ponti e Strade (già esistente in Francia da oltre un
secolo), a cui avrebbe fatto seguito, nel 1811, l’istituzione della relativa Scuola di Applicazione.
Il Corpo e la Scuola napoletani, dopo l’iniziale spinta dei francesi, sarebbero divenuti ben presto
organismi scientifici e professionali tra i più aggiornati d’Europa nel campo della progettazione
urbanistica e della pianificazione territoriale, con un’impostazione metodologica e normativa
rigorosa, volta «alla sperimentazione di nuove tipologie strutturali e di “dispositivi” per la migliore organizzazione degli spazi architettonici e territoriali, ma anche all’apprendimento delle
scoperte e dei metodi adottati in campo scientifico e tecnologico dagli ingegneri degli altri stati
italiani, e da quelli francesi o inglesi […] Così, in breve, vennero sperimentati, diffusi e pubblicati i modelli predisposti per le diverse tipologie, rispettivamente mutuati dai moli romani, dall’antico emporio flegreo, dall’impianto panottico del Bentham e dagli scritti del Pindemonte o
del Patte» (BUCCARO, 1992, pp. 10-15).
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Attività e produzione al vaglio critico
«Nel 1839, quasi cinquantenne, arrivò al grado di ispettore di conto regio, per poi transitare,
l’anno seguente, nell’ambito provinciale con la medesima qualifica. Con risoluzione sovrana
presa nel Consiglio di Stato del 9 febbraio 1857 fu prescelto per andare in Sicilia come ispettore
generale. Dopo l’Unità divenne direttore generale di Ponti e Strade» (FOSCARI, 1995, p. 158).
È questo un periodo – ad unificazione avvenuta – in cui il Nostro assolve importanti incarichi
ministeriali (dal 17 gennaio 1861 ricopre la carica di Consigliere di Luogotenenza al Dicastero
dei Lavori Pubblici, grazie alla nomina del Principe Eugenio di Savoia-Carignano: MASSARO
online), occupandosi tra l’altro – quasi «Pindemonte dell’architettura» (AVERSANO, 2001, p. 74)
– della problematica della progettazione architettonica dei cimiteri. Successivamente lascia Napoli
e raggiunge Firenze. Nel 1868 è alle prese con il tracciato della strada ferrata che avrebbe fatto
sorgere la stazione ferroviaria nel luogo dove ancora oggi si trova (MASSARO online).
Molto apprezzate furono le opere concretizzate sui suoi numerosi progetti. Tra queste spiccano le realizzazioni che arricchiranno la città di Foggia (dove disegna il colonnato dorico della
villa comunale, il Teatro Ferdinando ed il non più esistente Orfanotrofio di Maria Cristina:
FOSCARI, 1995, p. 158) e l’isola d’Ischia: si ricorda, in proposito, la costruzione della Palazzina
Borbonica (FOSCARI, 1995, p. 158; per maggiori dettagli cfr., inoltre, MASSARO, 1994 e BUCCARO,
1992, passim). Non si contano, inoltre, i progetti ideati o avallati dopo sua verifica, tra Napoli,
Andria, Foggia, Lucera, Avellino e altri centri del Mezzogiorno. Tanto per citarne alcuni: il
carcere e il teatro di Foggia, il Pronao della villa comunale, il teatro, l’orfanotrofio Maria Cristina di Savoia e la Chiesa di San Francesco Saverio di Chieti; il palazzo al lato sinistro della
Piazza Vittorio Emanuele di Andria; vari cimiteri in provincia di Avellino e province limitrofe;
il ponte sulla ferriera di Avellino e quello di S. Michele di Serino; la traversa da Mirabella a
Frigento; la strada Avellino-Campobasso e un tratto di quella per Melfi; la casa della Segreteria
e dell’Intendenza, l’orfanotrofio, l’Orto Agrario, il Tribunale, il carcere centrale e femminile ad
Avellino (MASSARO, 1994, pp. 115-122 e passim).
Mette conto approfondire, tra tanta operosità, quella rivolta al settore carcerario e
cemeteriale. Nell’ambito delle iniziative volte a trasformare l’assetto urbanistico di Avellino
agli inizi del XIX secolo, conformemente ai mutamenti sociali determinati dalla sua elevazione
a capoluogo della Provincia di Principato Ultra (avvenuta nel 1806), Luigi Oberty fu chiamato
in causa come progettista di una nuova struttura carceraria, ivi resasi necessaria per il trasferimento, da Montefusco, ex capoluogo, della sede dei Tribunali per le Udienze Civili e Penali. Le
procedure per la costruzione del Nuovo Carcere Centrale sono avviate nel 1821 e il 4 agosto
viene trasmesso a Napoli appunto il progetto redatto dal nostro ingegnere per essere sottoposto
all’esame della Commissione Esaminatrice della Direzione Generale del Corpo Reale di Ingegneri di Ponti e Strade, della quale il 13 ottobre entra a far parte anche l’architetto Giuliano de
Fazio, Ispettore Generale di Acque e Strade del Regno (CATALDI online).
Per comprendere la filosofia di questo progetto, sarà utile ricordare che l’attività di Oberty si
sviluppa nel corso del XIX secolo, sulla scorta dei principali dibattiti europei della fine del
Settecento, a cui il nostro ingegnere prende parte con convinzione, aderendo inizialmente alla
tesi filantropico-illuminista sulla possibilità e indispensabilità di perseguire, per ragioni di ordine etico-politico, il recupero dei detenuti con metodi razionali (ancora più sentito dopo la pubblicazione del trattato State of prisons dello studioso inglese John Howard che denunciava le
deplorevoli condizioni delle prigioni europee e statunitensi nella seconda metà del XVIII secolo).
Sulla scorta etico-politica dell’opera Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1764) e su
quella ingegneristico-architettonico del panoptismo benthamiano, «modello geometrico per la
costruzione di una macchina per l’esercizio del potere […] volto ad eliminare e a prevenire i
difetti fisici e morali dell’individuo col semplice ausilio di un disegno architettonico» (BUCCARO,
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1992, p. 106), nasce in lui una visione dell’architettura «quale agente inerte attraverso il quale
provocare determinate reazioni umane e come progetto utile che giochi un ruolo morale attraverso il buon funzionamento delle sue parti» (BUCCARO, 1992, p. 105). Il panopticon, una «vera
e propria tecnologia politica», strutturata in modo che il carcerato non vedesse i carcerieri, quindi con lo scopo di deindividualizzare il potere, trova convinti sostenitori tra gli ingegneri del
Corpo di Ponti e Strade e sarà in parte collaudato nell’ambito delle iniziative edilizie sperimentate a partire dal decennio francese nel Regno delle due Sicilie.
La prima esplicita enunciazione dei principi dell’uso dell’impianto panottico in ambito
carcerario, risalente al 1821, viene formulata proprio dalla commissione incaricata di valutare il
progetto per il carcere di Avellino redatto da Luigi Oberty. A nulla valse la denunzia, fatta da
quest’ultimo nel 1818, sullo «stato di degrado in cui versava il vecchio carcere […]», degno di
popoli barbari (Buccaro 1992, p. 115), poiché il progetto di Oberty (un carcere per 800 detenuti,
a pianta rettangolare con al centro, ben visibile da tutti, la cappella), ispirato ai principi di Howard,
fu accantonato dalla commissione che, nel 1822, approvò il progetto “ideale” – formalmente
perfetto ma privo di considerazioni pratiche sulla realtà del sito su cui il carcere sarebbe sorto –
degli ingegneri Giuliano de Fazio, Luigi Malesci e Bartolomeo Grasso.
Come già detto, l’operato di Oberty si innesta altresì nel filone delle ricerche svolte in Europa, dalla metà del Settecento fino ai primi decenni del secolo successivo, in materia cemeteriale,
ricerche tese «più che alla definizione di una nuova tipologia, alla reinterpretazione, sotto l’aspetto
filosofico e funzionale, del concetto di cimitero» (BUCCARO, 1992, p. 135). Una esigenza nata,
com’è noto, da motivi di carattere igienico-sanitario ed estetico, che verrà ratificata nell’arcinoto
Editto di Saint Cloud (12 giugno 1804), portatore di «un certo equilibrio tra le diverse aspirazioni dei riformisti» (BUCCARO, 1992, p. 142). Tale decreto, esteso al Regno d’Italia il 5 settembre
1806, aveva originato nella penisola vivaci proteste, sulla base di presupposti di ordine politico
e culturale, nonché un dibattito tra architetti, destinato a durare oltre un trentennio e concretizzatosi
in molteplici proposte e altrettante realizzazioni.
Dopo la restaurazione borbonica, la legge dell’11 marzo 1817, emanata da Ferdinando I,
prescrisse la formazione di un camposanto in ogni comune della Sicilia Citeriore, per motivi
igienici, religiosi e onorifici, rinviando «ad un successivo regolamento la definizione dei requisiti progettuali e delle norme funzionali da adottare […] La risposta più sollecita al regolamento
ministeriale giunse dall’Oberty, allorché, sul volgere del 1817, fu incaricato dall’intendente Patroni di redigere i progetti dei campisanti di Avellino, Montesarchio, Vitulano, Montemiletto,
Serino ed Altavilla» (BUCCARO, 1992, p. 148). Essi furono concepiti secondo precisi principi e
scelte di valori, che si trovano sistematizzati in un rapporto, scritto appunto dall’Oberty, sui
camposanti (si rinvia al successivo commento).
Carte a stampa o manoscritte
- Pianta del tratto della strada di Melfi da Parolise a Malopasso all’imboccatura del Piano di
Volturara, 1818. F.to: Luigi Oberty.
ASAV, Fondo Intendenza, b. 139, c. 1.
- Pianta geometrica e profilo del tratto della strada di Melfi del luogo detto Malopasso ad
incontrare l’abitato di Montemarano, 1818. F.to: Luigi Oberty.
ASAV, Fondo Intendenza, b. 139, c. 2.
- Pianta topografica di una traversa rotabile da S. Martino Valle Caudina alla strada Regia di
Benevento presso Montesarchio (s.d.). F.to: Luigi Oberty.
ASAV, Fondo Intendenza, b. 863, fasc. 3236.
- Pianta e profilo di un tratto della strada di Melfi, dall’osteria di Bisaccia all’imboccatura
del Formicuso, 8 maggio 1820. F.to: Luigi Oberty e Giuseppe Maria Ricci.
ASAV, Fondo Intendenza, b. 142.
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Altre opere di interesse cartografico e geografico a firma dell’autore
- L. OBERTY, Cenno sui Campisanti e sulla loro influenza morale, e sulla Civilizzazione (opera
inedita del 1818 segnalata in Buccaro, 1992, p. 148).
- L. OBERTY, Sullo stabilimento del sistema penitenziario nelle Prigioni di Foggia (ASF, Atti
dell’Intendenza, b. 262).
Repertori carto-bibliografici e documenti d’archivio
«Aloysius Felix Antonius Oberty, così è registrato il 5 luglio 1790, nel libro dei battezzati della Parrocchia di S. Nicola da Bari dello stesso comune di Perinaldo, il futuro progettista di Avellino. L’atto di
battesimo, tradotto dal latino, recita come appresso:
il giorno 4 luglio
Luigi Felice Antonio nato il giorno 4 luglio dai signori Giovanni Battista Oberty (figlio) del Sig.
Giovanni Antonio di questo luogo, e Maria Pastoris del Sig. Antonio Felice da Mentoni, coniugi; fu
battezzato il giorno 5 dello stesso (anno) dal rev. don Alessandro Rondelli sacerdote di Rocchetta, su
mandato del reverendo sig. Preposito. Padrini furono il predetto sig. Giovanni Antonio Oberty come
procuratore del rev. don Marco Oberty arciprete di Corchiano, diocesi di Civita Castellana, suo figlio,
come appare dalla schedola ciò attestante datata 7 giugno del corrente anno, sottoscritta Marco arciprete
Oberty e la signora Crocefissa Pastoris (figlia) dello stesso Antonio Felice di Mentoni» (AP di S. Nicola
di Bari, Perinaldo, registro, dei battezzati, anno 1790, p. 143: MASSARO, 1994, p. 34).
Edizione e/o schede delle carte
----Rimandi ad altre schede
----Commento al rapporto sui camposanti sopra citato, sulla scorta di Buccaro (1992).
Lo scritto di Oberty, dieci anni dopo la presa di posizione del Foscolo e del Pindemonte contro l’eccessiva lontananza
e uniformità dei cimiteri concepiti dal decreto napoleonico, «rappresenta il primo esplicito esempio di uno schema tipologico
compilato secondo il modello letterario, autentica guida dell’ingegnere nella redazione del saggio, in cui esso interviene
per diretta citazione. Prescindendo dalle finalità igieniche di un camposanto, l’autore ne sottolinea la funzione morale e
civile; aborrendo le nozioni paleocristiana e medioevale di “memento mori” e di “mondo della morte”, egli giunge ad una
concezione ottimistica – pur sempre pervasa da un profondo sentimento religioso – ed è convinto dell’azione positiva delle
tombe sull’umana esistenza; sull’esempio di Le Camus, di Boullèe e di Fontaine, concepisce un sublime atto ad evocare
sentimenti che non siano più soltanto di gloria o di magnificenza civile» (BUCCARO, 1992, p. 149). Nel rispetto delle norme
ministeriali del ’17, Oberty punta al recupero del significato religioso, affettivo e civile dei campisanti, luoghi di incontro
e socializzazione: i suoi progetti privilegiano dunque la facile accessibilità, i motivi di decoro e abbellimento, nonché gli
elementi di caratterizzazione individuale delle sepolture, evitando ogni forma di freddo egualitarismo o differenziazione
classista. «Si riconosce nello scritto quella chiara visione positivistica cui si deve la nascita delle tipologie in esame: la
fiducia nell’uguaglianza e nel progresso sociale dà forma anche al camposanto, e il tipo definito dall’autore troverà per
questo la giusta diffusione nel Regno […] Oberty riveste, nell’ambito architettonico, il ruolo affidato a Pindemonte in
quello letterario; a lui il compito di riportare lo schema dell’impianto al giusto livello, lontano dal “mitismo” tradizionale
come dal radicalismo delle normative più recenti» (BUCCARO, 1992, p. 150). L’accostamento al Pindemonte è ulteriormente suffragato dalla presenza nello scritto di Oberty di frequenti citazioni del poeta a cui corrispondono precise proposte
compositive; queste ultime, tuttavia, almeno in un primo momento, non incontrano il favore di Ferdinando IV, che preferisce invece privilegiare l’aspetto funzionale ed economico della progettazione dei campisanti, incaricando il direttore
generale di Ponti e Strade, marchese Piscicelli, di fornire «agli intendenti il grafico e lo stato estimativo di una strutturatipo. Da servire come base sotto l’aspetto funzionale ed economico […] È probabile che l’esortazione del re ad una
maggiore sobrietà ed economia fosse in realtà un’immediata risposta non tanto al Cenno di Oberty, quanto al progetto, da
lui presentato qualche giorno prima del Rescritto, per il camposanto di Avellino» (BUCCARO, 1992, pp. 150-152). Oberty,
tuttavia, sostenitore dei più aggiornati canoni del neoclassicismo, non avrebbe cambiato idea: l’anno seguente avrebbe
infatti confermato le proprie scelte formali e stilistiche, ripresentando all’intendente del Regno lo stesso elaborato, mutando solo l’ubicazione dell’impianto.
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Commento alla relazione di Oberty sullo stabilimento del sistema penitenziario, sulla scorta del Massaro (1994).
«La relazione, scritta dall’Ingegnere Oberty, si presenta sotto forma di saggio o trattato sull’arte della costruzione delle
prigioni, sui fini e sistemi di gestione, nonché sugli obiettivi da raggiungere. Questi vasti orizzonti sono presenti anche nei
lavori di Oberty sui Cimiteri e sulle altre opere pubbliche. La preoccupazione di Oberty è di non tenere il prigioniero in
ozioso isolamento. Dirà in questa sua relazione che “il sistema di imprigionamento solitario suol essere una pena; ma nelle
circostanze ordinarie non suol essere che un mezzo temporaneo di disciplina”. Su questo principio i lavori da eseguirsi al
carcere di Foggia, “edifizio costruito su altre basi”, avrebbero di mira la loro adattabilità a luogo sì di espiazione, “ma
anche a luogo di educazione con l’abitudine al lavoro…che permette ricondursi sul buon sentiero”. Per quanto riguarda la
vigilanza dei detenuti, Oberty ritiene che questa debba essere sottratta a “mani mercenarie”. I custodi dovrebbero impedire
la sola evasione, mentre i carcerati dovrebbero essere sorvegliati da un collegio esterno» (ASF, Atti dell’Intendenza, b.
262: MASSARO, 1994, pp. 122-123).
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GIUSEPPE PALMIERI (a c. di V. Aversano)
Qualifiche
Da Ingegnere a Direttore per la Provincia di Calabria Ultra I, fino ad Assistente Ordinario per
la «Chimica Docimastica» alla Scuola d’Ingegneria di Napoli.
Data e luogo di nascita e di morte e/o periodo di attività documentata
Nato il 14 marzo 1806, professionalmente attivo ancora nel luglio 1859.
Relazioni di parentela rilevanti per la ricostruzione di eventuali dinastie professionali
----Formazione e accesso alla professione (con riferimenti a documenti originali o bibliografia)
Nel concorso di ammissione alla Scuola di Applicazione, svoltosi nel 1826, figura
all’undicesimo posto, con punti 34 su 27 concorrenti, dei quali sono ammessi solo 21 (RUSSO,
1967, p.102). Accede nel 1832, come ingegnere alunno, nel Corpo degli Ingegneri di acque e
strade, in seno al quale nel 1834 lo troviamo con tale qualifica al numero 68, ma da nominarsi
ingegnere aggiunto col soldo netto di diciotto ducati (DI BIASIO, 1993, p. 146). Alla stessa data
risulta menzionato insieme con altri 14 nominativi (RUSSO, 1967, p. 122).
Conclude la sua carriera con qualifica di Direttore Provinciale, come risulta da un suo progetto per il porto di Salerno, datato 1859 (COSIMATO, 1966, p. 52; PERONE, 2003, p. 45, n. 11).
Attività e produzione al vaglio critico
A dimostrazione di una dura trafila e di una macchinosa progressione di carriera, nel 1836,
nello Stato degli averi degli ispettori generali di Ponti e Strade e delle Acque e Foreste e della
Caccia, degli Ispettori e degli Ingegneri della varie classi, secondo l‘organizzazione provvisoria del 1836, G. Palmieri figura come «ingegnere aggiunto provvisorio, con soldi di 20 ducati e
spese d’officio, duc. 6». Con decreto dell’11 giugno 1838 è finalmente designato, tra altri, ingegnere aggiunto. Viene promosso ingegnere di terza classe nel 1840, con conferma del 1841 da
parte del Ministro delle Finanze. Nel 1843, in un documento del Consiglio di Acque e Strade –
nel Corpo degli Ingegneri – Sezione della Tesoreria generale, figura ancora tra gli ingegneri di
terza classe, dipendente quindi dalla sezione regia; un documento del 1845 conferma e precisa
che è stato assunto direttamente, una volta uscito dalla Scuola di Applicazione, nella sezione
regia. Proposto, nel Progetto di riunificazione del Corpo del 1851, tra i 16 candidati cui dovrebbe andare la qualifica di Ingegnere di 2a classe, tale grado gli viene assegnato il 31 marzo 1852.
Nel Ruolo degl’Ingegneri di P. e Str. formato dopo essersi proposti i passaggi nelle due regioni
regia e provinciale, giusta gli ordini di S.M. (18 marzo 1852), figura col grado di 2a classe, di
cui gode con decreto 3 ottobre 1845 (RUSSO, 1967, p. 141).
Nel 1855, nel quadro della Dir. Gen. de’ P. e Str., Acque e Foreste, e Caccia de’ reali domini
al di qua del Faro, al Quinto ripartimento (Provincie delle Tre Calabrie), Giuseppe Palmieri
figura come ingegnere direttore per la Provincia di Calabria Ulteriore I, sempre con la qualifica
di ingegnere di seconda classe: tale direttorato è confermato dalla firma apposta alla Pianta
Topografica…manoscritta, di cui infra.
Nel 1884 risulta Assistente Ordinario per la «Chimica Docimastica» nella Scuola d’Ingegneria, secondo la Relazione … di Mendia, che riporta la situazione del Corpo dei docenti «Ordinari
e Straordinari» (RUSSO, 1967, p.192). Il P. ha dunque all’attivo una dura carriera, che dà buoni
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frutti alla distanza, se procura l’accesso ad un insegnamento di alto profilo, benché in una posizione collaborativa e integrativa rispetto a un docente di grado superiore.
Carte a stampa o manoscritte
- Pianta Topografica dell’Alpestre Valle da Atrani, Ravello e Scala, con lo andamento della
novella strada cavalcabile comandata da S.M. il Re N.S.(d. g,). F.to: l’Ingegnere Filippo
Pinto-l’Ingegnere Direttore Giuseppe Palmieri. Salerno, li 10 ottobre 1857.
ASS, Prefettura, Prima Serie, Cat. 28, b. 2492.
Altre opere di interesse cartografico e geografico a firma dell’autore
----Repertori carto-bibliografici e documenti d’archivio
----Edizione e/o schede delle carte
----Rimandi ad altre schede
----Commento alla fig. 10.
Disegnata egregiamente dall’ingegnere Filippo Pinto e controfirmata dall’ingegnere direttore Giuseppe Palmieri, questa carta rappresenta una meravigliosa sintesi di raffinatezza tecnica e di disegno ornato, nella pianta rosso-granato dei tre
centri, nel verdi smeraldini e viola dei versanti dell’asperrimo torrente Dragone, ricoperto di alberelli, arbusti ed erbe di
una non precisata vegetazione mediterranea (fin dove il corso piega verso nord-ovest e assume il nome di Reginola), infine
nelle dolci sfumature di marroncino delle cento balze, costoncelli, burroni e spuntoni che movimentano i versanti
dell’«alpestre valle».
Pur apprezzando alcuni perfetti requisiti tecnici, come il «profilo trasversale» secondo la linea x-y o il tabellone denso
di 131 quote altimetriche riferite alle «diverse piazzette rapportate al punto di partenza sulla strada della Costiera» o la
soluzione «a serpente» scelta per la rampa iniziale, per ridurne la pendenza iniziale dal 10 all’8% (rivelatasi valida a
tutt’oggi), il geografo storico deve porre in maggiore risalto la testimonianza dell’impianto urbano e della distribuzione
puntiforme – col maggiore concentramento lungo il primo e l’ultimo tratto dell’asta torrentizia – di ben 8 mulini e 2
cartiere (queste ultime riconoscibili, oltre che per la lettera alfabetica di riferimento, per la pianta più corpulenta), dei cui
proprietari o gestori sono segnalati i cognomi: Prota, d’Amico, Manzi, Jovane, Gambardella.
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VINCENZO PARASCANDOLO (a c. di V. Aversano)
Qualifiche
Ingegnere di Ponti e Strade
Data e luogo di nascita e di morte e/o periodo di attività documentata
Nasce il 5 aprile 1809 e muore nella seconda metà dello stesso secolo, se ancora nel 1855 lo
ritroviamo attivo come ingegnere di dettaglio, con la qualifica di ingegnere aggiunto, nella provincia di Napoli Primo ripartimento d’Ispezione (DI BIASIO, 1993, p. 207).
Relazioni di parentela rilevanti per la ricostruzione di eventuali dinastie professionali
Indubbiamente è membro di un “clan” familiare legato a questa professione tecnica, ambitissima dalla borghesia ottocentesca di provincia, specie in campo civile. Infatti, un Francesco
Parascandolo, forse genitore di Vincenzo, figura nel 1810 come ingegnere aggiunto nel Corpo
Reale degli Ingegneri di Ponti e Strade; un Francesco Antonio, nel 1813, come ingegnere ordinario di terza classe nel Dipartimento di Napoli; un Antonio Parascandolo risulta ingegnere di
seconda classe addetto alle opere provinciali nel 1818.
Formazione e accesso alla professione (con riferimenti a documenti originali o bibliografia)
È uno dei beneficiari dei «sei posti di ingegnere alunno» nel 1839: trattasi di un ruolo non
previsto dalla pianta organica, escogitato dal De Rivera nel 1831 «per ovviare alla carenza di
personale tecnico» da parte della Direzione Generale, che per necessità utilizza a tempo pieno
gli alunni della Scuola di Applicazione, specialmente nelle «operazioni geodetiche, per la composizione dei disegni, per calcolare i progetti ed anche per aiutare gl’ingegneri nella condotta
materiale delle opere» (DI BIASIO, 1993, p. 169, nota 26).
Nell’esame di ammissione alla Scuola, svoltosi nel 1829, tra i 27 concorrenti, risulta ventesimo, con «gradi» 30 (cioè punteggio-somma dei voti riportati nelle diverse discipline: RUSSO,
1967, p. 104). Negli esami di passaggio dal primo al secondo biennio (novembre 1832),
Parascandolo ebbe il grado 49 (nel prospetto a p. 106 si leggono i voti riportati nelle varie prove
e si vede che il Parascandolo eccelle in Disegni di architettura, dove ottiene 16: RUSSO, 1967, p.
105). Fu tra gli ammessi nella travagliata vicenda degli esami di licenza svoltisi nel 1839 nella
Scuola.
Attività e produzione al vaglio critico
Nel 1839 il Ministro degli Interni, tra tanti altri, lo propone come ingegnere aggiunto. Figura
nell’organico con tale qualifica a partire dal Decreto 18 agosto 1840. In uno Stato degli averi
degli ispettori generali di Ponti e Strade e delle Acque e Foreste e della Caccia, degli Ispettori
e degli Ingegneri della varie classi, secondo l‘organizzazione provvisoria del 1836, Vincenzo
Parascandolo è in elenco sotto la finca Soldo duc. 15 e Spese d’officio duc.- (nessuno). Si sa che
passa alla sezione provinciale provenendo dalla sezione regia e che, in un momento di caos
riorganizzativo del Corpo, non diversamente dagli altri colleghi, inoltra un ricorso, messo a
stampa (cfr. DI BIASIO, 1993, rispettivamente, alla p. 187, nota 12 e alle pp. 189-190). Sempre
nel 1839 il Ministro degli Interni, fra tanti altri, propone V.P. come ingegnere aggiunto (DI
BIASIO, 1993, p. 173, nota 133).
Nel Ruolo degli Ingegneri… del 18 marzo 1852, figura nell’organico come «ingegnere aggiunto» a partire dal decreto 18 agosto 1840 (RUSSO, 1967, p. 142), ed è la qualifica con cui si
firma nella carta di cui infra, che lo abilitava ad aiutare l’ingegnere in capo nella progettazione
dei lavori e ad occuparsi della loro esecuzione. È ancora ingegnere aggiunto, al 43° posto della
lista, nel Notamento degli Ingegneri del Corpo di Acque e Strade a tutto il 31 Marzo 1852 e
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sarebbe dovuto diventare ingegnere di terza classe, con altri 18, nel progetto di riunificazione
dei rami. Ancora nel 1855, tuttavia, lo ritroviamo come ingegnere di dettaglio, con la qualifica
di ingegnere aggiunto, nella Provincia di Napoli, Primo ripartimento d’Ispezione (per le tre
informazioni cfr. DI BIASIO, 1993, rispettivamente, alle p. 202, 199 e 207). In definitiva, ci troviamo di fronte a una figura di medio livello, ma di indole battagliera.
Carte a stampa o manoscritte
- Pianta dimostrativa del raccordamento che dalla montagna si spiega nella spiaggia di Maiori.
5 ottobre 1850. F.to: Ingegnere Parascandolo.
ASS, Fondo Intendenza-Strade, b. 2932.
- Pianta dimostrativa del raccordamento dell’ultimo tratto nella marina di Majuri chiesto da
taluni abitanti all’Intendente della Provincia nell’accesso avvenuto a’ 9 ottobre 1850, firmato dall’Ingegnere aggiunto V. Parascandolo e controfirmato dall’ingegnere direttore M. Petrilli
(s.d., ma 1851).
ASS, Intendenza, b. 2932, F.lo 5.
Altre opere di interesse cartografico e geografico a firma dell’autore
----Repertori carto-bibliografici e documenti d’archivio
----Edizione e/o schede delle carte
----Rimandi ad altre schede
----Commento alla fig. 11.
Punctum dolens della Strada Ferdinandea della costiera di Amalfi, inaugurata nel 1853, era il raccordo col centro di
Maiori, sottoposto al piano di scorrimento della stessa, là dove vi giungeva da oriente. La soluzione ancora progettata nel
1850, quella di una «planata» su archi sorretti da pilastri (punto 2.2.2 della breve didascalia in carta), non sarà alla lunga
vincente: negli anni Settanta del Novecento si preferirà far rientrare il tracciato verso la parete rocciosa e il valloncello
retrostante, lasciando spazio tra l’altro, fra la strada e la spiaggia, a un lussuoso albergo (si veda l’alternativa, chiesta dagli
abitanti del centro, esemplata al punto 1.1.1 della didascalia in carta). In questa occasione lo scarno disegno geometrico,
firmato dall’Ingegnere aggiunto Vincenzo Parascandolo e controfirmato dall’ingegnere direttore Petrilli, viene ammorbidito dalla pregevolezza dell’ornato, riscaldato da colori oscillanti dal giallo al tenero verde pisello, entrambi contrastanti
con le linee rosse parallele della strada e col nero del ruvido puntinato del costone, del micropuntinato della spiaggia e del
tratteggiato geometrico degli edifici (meglio sarebbe dire «isolati») messi in pianta.
Una energica smentita, con giusta correzione, alla erronea denominazione di «Normanna», attribuita purtroppo ancora
oggi alla vicina torre quadrata viceregnale, è l’indicazione del nome del suo primo terriero («Caporà[le] Pantone»); si
notano i palazzi signorili ai lati del Corso Regina, «luogo dei commerci e della socializzazione, realizzato tra il 1837 e il
1847», a copertura del torrente (NASTRI, 1999, p. 131). Si osservano altresì le stesse particelle di terreno agricolo, investito
a vigna, agrumi e orti, ossia la fiorente immagine del giardino mediterraneo che caratterizzava Maiori, in termini quantitativi
e qualitativi, già dalla catastazione napoleonica.
Il quadro agrario-forestale del comune di Maiori si caratterizzava allora non solo per un’alta percentuale di boschi e di
pascoli, ma specialmente per il «vigneto con frutti», «giardino di frutti», «giardino agrumato», nonché per la persistenza
del «sciuscelleto» e del «celzeto» adacquatorio, cioè del gelso utile all’industria del baco da seta. Inoltre, è stupefacente
che ben il 69,24% degli «ortalizi» e degli «orti», insieme considerati, di tutta la Costiera fossero prodotti qui e vantassero
anche un primato di assoluta qualità (AVERSANO, 1987 b, pp. 127-141; ivi anche indicazioni per la decodifica delle
parametrazioni colturali coeve. Per l’elenco dei singoli prodotti agricoli, cfr. NASTRI, 1999, p. 134 ). Questi redditivi
appezzamenti agricoli si notano bene in due foto, del 1875 e del 1880, rispettivamente di Chauffourier e di Brogi (PROTO,
1992, p. 66 e 64); essi anzi si estendevano anche alla destra del fiume, il che si può verificare ancora in una foto del 1900,
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dell’Edizione Inalterabile (PROTO, 1992, p. 67). Ancora meglio si vedono i giardini e le poche case, con la Chiesa di S.
Maria a Mare, in una cartolina illustrata dell’Edizione F. Lauretano di Salerno, scattata «nella viaggiata 13/10/1901»
(APICELLA, 1997, p. 208).
Malauguratamente, la nota alluvione «dell’ottobre 1954 segnò in maniera irreversibile il destino di Maiori. Sotto la
spinta dell’emergenza, dopo quel tragico evento, si pose mano alla ricostruzione senza un’adeguata pianificazione, offrendo così campo libero alle colate di cemento. Sulla fascia litoranea, laddove prima erano agrumeti e orti, sorsero agglomerati di case popolari e mastodontici condomini. Il processo di urbanizzazione, allentatosi con l’entrata in vigore del Piano
urbanistico territoriale dell’area sorrentino-amalfitana (legge regionale n. 35 del 1987), non è legato a un altrettanto massiccio incremento della popolazione che registra, nel mese di ottobre 1999, 5.844 abitanti, contro i 4.850 del 1861» (NASTRI, 1999, p.131; sull’alluvione: AMAROTTA, 1994).
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CAMILLO ROSALBA (a c. di M.R. De Vita)
Qualifiche
Aspirante ingegnere e configuratore nell’Officio Topografico di Napoli. Ingegnere del Corpo
Reale del Genio Civile nel Regno d’Italia.
Data e luogo di nascita e di morte e/o periodo di attività documentata
Nasce a Salerno il 27 settembre 1825 e va in pensione nel 1858 per ignoti motivi (VALERIO,
1993, p. 621). Dopo l’Unità d’Italia è stato sicuramente riassunto come ingegnere nel Corpo
Reale del Genio Civile, anche se ci sfuggono i particolari della vicenda. Ciò non esclude che
abbia continuato la sua professione anche in privato, come parrebbe da una sua planimetria (cfr.
infra) del 1883.
Relazioni di parentela rilevanti per la ricostruzione di eventuali dinastie professionali
Figlio dell’architetto Giovanni e di Marianna Padovano, fratello maggiore di Federico, insieme al quale entra come aspirante ingegnere nell’Officio Topografico di Napoli.
Formazione e accesso alla professione (con riferimenti a documenti originali o bibliografia)
Entra nell’Officio Topografico di Napoli con la qualifica di aspirante ingegnere il 23 aprile
1851. Nello stesso anno viene inviato in Sicilia «ad ingrossare le fila degli ingegneri che lavoravano già dal 1849 al rilevamento della città di Palermo e dei suoi dintorni […] Il 16 dicembre
1854 ebbe […] la nomina ad ingegnere onorario. Le sue mansioni furono indirizzate alla geodesia
e, nella quarta sezione diretta dal capitano Francesco Verneau, fu sostanzialmente addetto alla
misurazione e al calcolo dei triangoli.
Si ignora il motivo per il quale fu dimissionato in data 8 novembre 1858, né sappiamo se ciò
avviene su sua richiesta o per ordine superiore» (ASN Ministero guerra, fs. 1510/1227: da VALERIO,
1993, pp. 621-622): quel che è certo è che rientrò nelle grazie del nuovo regime dopo il 1861.
Attività e produzione al vaglio critico
«Nell’anno del suo ingresso [nell’Officio Topografico di Napoli] eseguì il rilievo di Cittaducale
il cui disegno in scala 1:10.000 è conservato nell’Archivio dell’Istituto Geografico Militare
(Catalogo IGM 1934, II:434 n. 30). La pianta della città fu rilevata durante la campagna che lo
vide attivo nella sezione incaricata della carta della frontiera, per la quale realizzò anche rilevamenti in scala 1:20.000 nei comuni di Cittaducale e di Castel S. Angelo» (VALERIO, 1993, p.
621). Nel 1851, inviato in Sicilia, svolge in collaborazione vari lavori di rilevamento della città
di Palermo e dintorni e della carta del Regno. «Nel 1853 fece parte della squadra di ufficiali
topografi ed aspiranti ingegneri inviati a Tiriolo (CS) per la realizzazione di una pianta topografica
della città e del suo territorio» (VALERIO, 1993, p. 622).
In altra occasione meriterà maggiori approfondimenti l’attività svolta dopo l’Unità, ma essa
dovette essere intensa, prestigiosa e produttiva in grazia dell’inquadramento nel Corpo Reale
del Genio Civile. A parte la progettazione di opere pubbliche (risalgono a questo periodo i piani
regolatori di Campobasso e di Corato, dove concepì anche un estramurale decagonale), non si
spiegherebbe altrimenti perché mai nel 1868, in un concorso indetto dai consigli provinciali di
Bari e di Foggia per la costruzione di una acquedotto rispondente alle esigenze della “siticulosa
Apulia”, vinse il progetto da lui presentato. Esso proponeva un’idea originale e ambiziosa, quella di captare le acque del Sele – alle falde del Cervialto, dove la sorgente aveva il massimo di
deflusso proprio nella stagione estiva che vedeva la Puglia a secco – per dirottarle appunto in
questa regione. Era previsto un grande adduttore in galleria per superare la soglia spartiacque
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del Tirreno, nonché un canale lungo il corso dell’Ofanto verso Andria e, indi, Corato, Ruvo,
Bitonto e infine Brindisi.
Per quasi mezzo secolo, purtroppo, nulla si riuscì a realizzare, per le notevoli difficoltà tecniche della messa in opera, gli enormi costi previsti e l’ostracismo verso una società inglese che
voleva assumersi l’onere del finanziamento, a parte le guerre tra i professionisti che si volevano
accaparrare la stesura del progetto. Tuttavia, quelli del Rosalba (per le varie stesure progettuali,
più o meno sintetiche, vedi la bibliografia infra) erano gli unici veramente validi, come i fatti
dimostrarono: nel 1902 ci fu l’approvazione del Parlamento nazionale di un progetto che ricalcava quanto ideato dal nostro Rosalba, che può pertanto essere considerato il vero e indiscutibile
ispiratore-progenitore dell’Acquedotto Pugliese, la cui realizzazione completa si ebbe nel 1939
(MASELLA, 1995).
Escludendo le carte citate infra, di lui ci restano pochi disegni.
Carte a stampa o manoscritte
- Pianta di Città Ducale, in scala 1:10.000, 1851.
AIGM, cart. 81.
- Coautore alla stesura delle minute della Tavoletta 15 del foglio n. 56 della Carta del Regno.
- Idem per le Tavolette 5 e 14, come risulta da una Carta d’insieme delle levate di Palermo
conservata nell’Archivio dell’Istituto Geografico Militare.
AIGM, cart. 87.
- Pianta del centro urbano di Cosenza 1:2.000, 1853.
AIGM, cart. 81.
(N.B. Le informazioni di cui supra sono desunte da Valerio, op. cit.).
- Carta Idrografica Del territorio tra Foggia e le sorgenti del Sele e Profilo di massima secondo gli studii preliminari del Progetto Del Gran Canale d’Irrigazione nel Tavoliere di Puglia
proposto dall’Ing.re del Genio Civile Camillo Rosalba, 1868.
(Allegata al volume Canale d’irrigazione nel Tavoliere di Puglia…, cit. infra).
- Planimetria della vasca con il partitoio delle acque municipali sotto la strada di Santa Maria del Monte in Salerno, Salerno, 20 dicembre 1883. F.to: ing. Camillo Rosalba.
ASS, Tribunale Civile e Correzionale, anno 1883.
Altre opere di interesse cartografico e geografico a firma dell’autore
- ROSALBA C., Canale d’irrigazione nel Tavoliere di Puglia. Progetto dell’Ingegnere del Corpo Reale del Genio Civile, Foggia, Tipografia del Reale Orfanotrofio Provinciale Maria
Cristina di Savoia, 1868.
- ROSALBA C., Per le acque potabili della provincia di Bari. Cenno di Progetto dell’Ingegnere del Corpo reale del Genio Civile C. Rosalba, Trani, Tip. Fusco, 1868.
- ROSALBA C., Ossario di Custoza: progetto dell’ingegnere Camillo Rosalba,
Avellino,Tip.Migliaccio, 1877.
- ROSALBA C., Progetto di un piano regolatore per la città di Campobasso, Napoli, Stamperia governativa, 1880.
- ROSALBA C., “Sunto del progetto di un canale di irrigazione in Puglia”, in Atti della Giunta
per l’inchiesta agraria sulle condizioni delle classi agricole, vol. XII, Relazione per la Puglia,
Roma, 1884.
- ROSALBA C., “Gli acquedotti pugliesi”, in Annali della Società degli ingegneri e degli architetti italiani, VIII, fac. III (30 giugno 1893) [Roma, Centenari, 1893].
Repertori carto-bibliografici e documenti d’archivio
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Edizione e/o schede delle carte
VALERIO, 1993, p. 622; MIN. BENI CULTURALI
documenti riguardanti Salerno.
ED
AMBIENTALI-ASS, 1996, p. 16, n. 9 dell’elenco dei
Rimandi ad altre schede
Vedi qui scheda di Giovanni Rosalba. Per la biografia professionale di Federico Rosalba, cfr.
VALERIO, 1993, pp. 623-625.
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GIOVANNI ROSALBA (a c. di V. Aversano)
Qualifiche
Architetto privato (ASS, Tribunale Civile di Salerno, Fondo Perizie, voll. 898, c. 532 e c.
541); Ingegnere civile (ROSALBA, 1866).
Data e luogo di nascita e di morte e/o periodo di attività documentata
Operoso almeno tra il 1827 e il 1866, incrocia in parte l’attività con quella dei suoi due figli.
Se è autore di alcune opere critico-letterarie, di cui l’ultima è datata 1903 (cfr. infra), sempre che
non siano state pubblicate postume, potrebbe essere morto quasi centenario.
Relazioni di parentela rilevanti per la ricostruzione di eventuali dinastie professionali
Probabile capostipite di una “dinastia” di tecnici, tra i quali i figli Camillo e Federico.
Formazione e accesso alla professione
Giovanni Rosalba si laurea con diploma del dì 17 maggio 1834, registrato a Salerno il 24
maggio 1834 al numero 5083 (ASS, Tribunale Civile, Fondo Perizie, b. 910). Per poter essere
incluso nell’Albo degli Architetti, ai sensi delle coeve vigenti leggi, rende, in data 22 dicembre
1840, un “classico” giuramento di fedeltà, per il cui testo si veda infra.
Attività e produzione al vaglio critico
Siamo di fronte a un valido tecnico privato, a una figura di notevole spessore professionale e
culturale in senso lato, anche se caratterialmente «piuttosto boriosetto» (FIENGO, 1993, p. 89). È
sicuramente salernitano, opera già negli anni trenta dell’Ottocento (anche se, come si è visto,
viene iscritto all’Albo professionale degli architetti solo nel 1840), ma si muove con molta
disinvoltura nell’ambito del Regno di Napoli e altresì, per qualche decennio, nel succedaneo
Regno d’Italia, circondato da stima generalizzata, a giudicare dal fatto che viene chiamato, spesso e dovunque, a offrire le sue prestazioni professionali o a tenere discorsi.
La sua biografia è difficilmente ricostruibile, nonostante l’esistenza nell’Archivio di Stato di
Napoli di un fascicolo a lui intestato (Ministero di Grazia e Giustizia, fasc. 1584, incartamento
n. 779), ma la sua attività dové essere fervidissima nel pubblico e nel privato, a giudicare soprattutto da tre relazioni tecniche, tutte riportate a stampa, che egli stila su precisa committenza in
materia di utilizzazione delle acque (cfr., per le rispettive intitolazioni, ROSALBA, 1834, 1838 e
1866, e nel commento che segue la dettagliata analisi critica del loro contenuto), dimostrando
conoscenze a largo spettro, relativamente a note aree del salernitano, come il bacino del Tusciano
e del Picentino, o al bacino del Liri, rispetto al quale appalesa più francamente doti di maturo
pianificatore. È a tal proposito che dimostra conoscenza dal vivo della questione meridionale,
nel quadro dei problemi nazionali del periodo a ridosso dell’Unità. In particolare si schiera con
quella corrente di pensiero che auspica il potenziamento della vocazione agraria (attraverso
bonifiche e irrigazioni) e commerciale (lungo quella che oggi vien detta “Autostrada del mare”
ed è ancora poco utilizzata!) del Mezzogiorno e dell’Italia. Alla grande industria preferisce la
piccola, trasformatrice delle materie prime prodotte dall’agricoltura e dall’allevamento (con una
punta alta nel settore serico), anche per evitare gli abusi dei grossi industriali verso gli operai e
salvare i valori della civiltà contadina.
Più che alla stesura di mappe relative a circoscritti territori, originate da conflittualità private
(si veda qui di seguito il commento relativo a una micro-area della Costiera amalfitana), sembra
dedicarsi a perorazioni tecnico-giuridiche laddove sono in ballo più rilevanti interessi, anche
privati (la difesa dei Sig.ri Zottoli e Consiglio, possessori di una ferriera nel tenimento di Acerno:
cfr. ROSALBA, 1835) oppure ad attività di conferenziere su tematiche territoriali, registrata a
stampa in apprezzate riviste dell’epoca, come Il Picentino (cfr. ROSALBA,1845 e 1847).
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Il ristretto spazio di una scheda obbliga ad appuntare l’attenzione sulle tre principali relazioni
tecnico-idrauliche sopra richiamate, che rappresentano dei veri e propri saggi di lettura e pianificazione del territorio, come si intuisce già dal loro lungo titolo. Dalla relativa analisi si evince
una preparazione teorico-pratica a largo spettro da parte dell’estensore, che spazia dall’ambito
economico generale a quello economico-agrario e fino al diritto pubblico o privato (amministrativo, in particolare), con specializzazione in idraulica, agrimensura e boschicoltura, specie a
riguardo delle zone ricche di acque, di cui il Rosalba sa stimare il valore e le implicazioni anche
sociali, con al centro il complesso problema – attualissimo, tutt’altro che risolto e forse mai
completamente risolvibile – dei rapporti tra interesse privato e interessi generali della cittadinanza.
Si comprende quindi già da subito, e meglio ciò apparirà nel prosieguo del discorso, che non
si tratta solo di discorsi tecnici, ma più latamente politici e geografici. Del resto egli non esiterà,
nel ribollente clima a ridosso dell’unificazione nazionale, a far sentire la sua voce etico-politica
attraverso una “scrittura” a stampa (cfr. infra) inviata a deputati, senatori, costruttori, commercianti, naviganti e patrioti. Per essere più precisi, le loro pagine vanno molto oltre le valutazioni
e i computi idraulici e matematico-statistici, per allargarsi talora alla descrizione corografica
degli spazi considerati e a precise indicazioni prospettiche, in una prosa, inoltre, dal forte sapore
umanistico, assai lontana da quella schematica e impersonale degli analoghi prodotti di certi
tecnici dei nostri tempi.
Ma, per restare al contenuto delle relazioni, anche se in realtà le due prime opere riguardano
il contributo che il Rosalba offre per risolvere questioni di organizzazione ed equidistribuzione,
circa l’uso delle acque, nella zona di Destra Sele (i bacini dei fiumi Tusciano e Picentino sono
adiacenti), esse rappresentano tre fasi di un unico, ben finalizzato intervento sul territorio: quella del progetto di costruzione ex-novo di una rete idrica (Valle del Liri); quella della bozza di un
regolamento amministrativo, a impianto di canalizzazioni già realizzato (Picentino); quella della interpretazione di un regolamento già vigente, per dirimere con opportuni correttivi controversie ormai in atto (bacino del Tusciano).
La biografia professionale di questo personaggio merita maggiori approfondimenti anche
perché si possa con certezza attribuirgli alcuni saggi di critica letteraria e/o dantesca, citati in
prosieguo, riconosciutigli in parte dal noto Catalogo di Libri Italiani dell’Ottocento (CLIO).
Considerata la loro data di pubblicazione e sempre ammesso che non sia postuma e che non si
tratti di omonimo, Giovanni Rosalba dovrebbe aver vissuto fino alle soglie dei cent’anni; inoltre, il suo percorso umano e culturale – non insolito nel secolo XIX – si sarebbe concluso con
una vocazione umanistica che solo apparentemente contraddirebbe quella tecnico-scientifica
dei suoi migliori anni, che “in prima battuta” lo fa apparire come il pendant dell’architettoartista Francesco Saverio Malpica.
Carte manoscritte
- Pianta Topografica delle due contigue proprià appartenenti a’ frat:lli Gambardella, e Di
Pino rilevata d’officio per disposizione del Trib.le Civile di Salerno, prima di pronunziare
sulla quistione di confine suscitata per parte de’ fratelli Di Pino. Salerno 29 ottobre 1827.
F.to: Giovanni Rosalba, architetto, Raffaele Amato, Gaetano Longo.
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Perizie voll. 898, c. 541.
- Pianta del sito controverso portata a scala tripla della pianta generale per farne più agevolmente riconoscere i dettagli (16 aprile 1828). A firma di Bernardino Gaeta e Giovanni Rosalba.
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Fondo Perizie, b. 898, c. 870/C.
- Pianta della masseria Rapeciceri sita in tenimento di Monte Corvino ed appartenente alla
famiglia Di Iorio, Salerno 30 aprile 1828. F.to: Giovanni Rosalba, Antonio Di Gilio e Gaetano
Longo.
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Fondo Perizie, vol. 898, c. 532.
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- Profilo tagliato sulla Linea NN della Pianta del così detto Arco del Re per rendere ostensiva
la posizione delle fabbriche costitutive dell’Arco medesimo, paragonandola con quelle de’
Sig.ri Orilia, che vi sono disegnate di prospetto.
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Fondo Perizie, b. 898, c. 1155/B.
N.B. In questa stessa busta n. 898 (Tribunale Civile di Salerno-Fondo Perizie) ci sono parecchie perizie corredate da carte o schizzi di minor rilievo (ad es.: 2 piante al n. inv. 1223; 1
pianta al n. inv. 1235), di cui Giovanni Rosalba è autore o coautore.
- Pianta del pianterreno della nuova Cartiera dei fratelli D. Carmine, D. Giuseppe, e D.
Cristofaro Baccari, sita nel Comune di Tramonti al basso del villaggio Pucara, ed al di sotto
della Cartiera di D. Vincenzo Cimini per la distanza di circa mille palmi seguendo l’andamento dell’acquedotto (Salerno, 23 dicembre 1828). A firma di Gaetano Marano, Giovanni
Rosalba, Domenicantonio Napoli.
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Fondo Perizie, b. 898.
- Pianta del Casamento e Giardino de’ Sig.ri Landi, sito in Castagneto Villaggio del Comune di
Vietri; con le aggiacenti proprietà di Orilia, ed altri particolari: rilevata per servire nella
causa che si agita presso il Trib.le Civile di Salerno tra Essi Landi ed Orilia. (s.d., ma 1828).
A firma di Angiolantonio Giordano, Antonio Negri, Giovanni Rosalba, Arch.ti .
ASS, Tribunale Civile di Salerno, Fondo Perizie, b. 898, c. 1155/A.
- Carta topografica de’ terreni irrigabili dal fiume Picentino nella Piana di Salerno e
Montecorvino (1834).
ASS, Fondo Intendenza, b. 1456, f.lo 1.
- Pianta ostensiva del tronco dell’alveo che lambisce le proprietà dei signori Giuliani e Gorrasi,
site in tenimento di Roccadaspide, contrada Vallone della Fonte, e delle opere in esso fatte
da questi ultimi, per le quali è contesa presso il Tribunale Civile di Salerno. Salerno, 3 ottobre 1843. F.to: Giovanni Rosalba, Raffaele Pannisi (?), Luigi Abbondati.
ASS, Tribunale Civile, Fondo Perizie, b. 910.
- Pianta ostensiva del tronco di strada Regia per Oliveto ove s’innestano e fanno quadrivio, il
ramo comunale di Campagna ed il ramo vicinale delle inferiori difese (Salerno, 27 dicembre
1858).
ASS, Fondo Intendenza, Acque e strade, b. 1480, f.lo 2.
- Pianta a colori rappresentante il fiume Tenza nel Comune di Campagna (titolo dato
dall’archivista), senza data e senza firma, ma attribuibile a Giovanni Rosalba, in quanto inserita nell’incartamento relativo a un suo progetto.
ASS, Fondo Intendenza, Acque e strade, b. 1480, f.lo 1.
N.B. Quasi certamente, a corredo delle sue opere edite di pianificazione idraulico-territoriale, dovevano esserci delle carte a stampa, ma di esse non si è trovata traccia negli esemplari
delle pubblicazioni consultate; una carta manoscritta di grande formato, datata 1834, è quella
sopra citata in ASS, Fondo Intendenza, b. 1456, f.lo 1.
Altre opere di interesse cartografico e geografico a firma dell’autore
- ROSALBA G., Memoria legale-idraulica sulle acque del fiume Picentino compilata dall’Architetto Giovanni Rosalba per servire come progetto al Regolamento Amministrativo commessogli dal Signor Intendente del Principato Citeriore, nella circostanza di doversi le medesime ripartire equabilmente in tempo d’irrigazione per la piana di Salerno e Montecorvino,
Salerno, Tipografia dell’Intendenza, 1834.
- ROSALBA G., A pro de’ Sig.ri Zottoli e Consiglio nella causa contro D. Donato ed altri Criscuolo
per lo tentato innalzamento di una steccaja nel fiume Ajello nel Tenimento di Acerno, Memo- 39 -
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ria dell’Ingegnere Giovanni Rosalba, Napoli, Dalla Stamperia e cartiera del Fibreno, 1835.
ROSALBA G., Rapporto Analitico dell’Architetto presso la Commissione per lo Regolamento
Amministrativo delle acque del fiume Tusciano sulla materia de’ compensamenti dovuti ai proprietari dei fondi in prima e seconda linea, nella estensione irrigabile delle due sponde, diretto
ai Signori Deputati Componenti la Commissione suddetta, Napoli, Borel e Bompard, 1838.
ROSALBA G., “Sulle foreste. Memoria”, in Il Picentino, V. 1° (1845), pp. 65-70.
ROSALBA G., “Discorso del socio ordinario sig. Giovanni Rosalba letto nella medesima generale adunanza del 30 maggio 1847”, in Il Picentino, V. 3° (1847), n 7-8, pp. 100-108.
ROSALBA G., Grido di dolore […] alla vista della ruinosa opera […] del porto mercantile alla
Marinella. Agli onorevolissimi Signori Ministri Signori senatori e Deputati dell’Italico Regno ai Costruttori, ai Commercianti, ai Naviganti ed ai Patrioti, che questa scrittura leggeranno, Napoli, Stab. Tip. Del Servio Tullio, 1863.
ROSALBA G., Studi e ricerche sui materiali e sul lavoro dell’uomo, Napoli, Tip. Servio Tullio,
1863.
ROSALBA G., Relazione dell’ingegnere civile Giovanni Rosalba ai Signori Consiglieri Provinciali Componenti la Commissione per l’esame della convenienza ed entità del Progetto
dell’Ingegnere del Genio Civile Sig. Raffaele Padula sul Gran Canale da derivarsi dal Liri
per l’irrigazione delle pianure da Arce a Cassino, Caserta Stabilimento Tipografico del Comm.
G. Nobile e C., 1866.
SAGGI CRITICO-LETTERARI ATTRIBUIBILI A G. ROSALBA
• Gli ordini angelici nel Convivio e nel Paradiso. Nota dantesca, Venezia, Leo S. Olschki,
1891.
• Un poeta coniugale del secolo 16: Bernardino Rota, Torino, Ermanno Loescher, 1895.
• Un episodio nella vita di Vittoria Colonna, s.l., s.d. (ma dopo il 1889).
• Nuovi documenti sulla vita di Luigi Tansillo, Napoli, R. Tipografia Giannini e figli, 1903.
Repertori carto-bibliografici e documenti d’archivio
Testo del giuramento di fedeltà alla corona:
«L’anno milleottocentoquaranta il giorno 22 Dicembre a Napoli.
Innanzi a Noi Cav. Ferdinando Troja’ Vice Presidente della Corte Suprema di Giustizia, Presidente
della Gran Corte Civile in Napoli, assistito da D. Luigi Luposi Impiegato della Suprema giust. Albo degli
Architetti giudiziari e dal Cancelliere, si è presentato D. Giovanni Rosalba, onde, a’ termini delle Superiori Disposizioni, prestare nelle nostre mani il giuramento nella qualità di architetto del Sud.to Albo.
Dopo di che abbiamo ammesso il Sud.to D. Giovanni Rosalba a prestare il giuramento siccome lo ha
dato ad alta voce e sopra i Santi Vangeli, ne’ termini seguenti.
Io G. Rosalba prometto e giuro fedeltà ed ubbidienza al Re Ferdinando II; e pronta ed esatta esecuzione degli ordini suoi.
Prometto e giuro di osservare e di far osservare le leggi, i Decreti ed i regolamenti che per Sovrana
Disposizione dì Sua Maestà si trovano in osservanza e quelli che piacerà alla Maestà Sua di pubblicare in
avvenire.
Prometto e giuro di non appartenere a nessuna società Segreta di qualsivoglia titolo, oggetto e denominazione e che non sarò appartenervi giammai.
Cosi Dio mi aiuti.
In fede di che si è redatto il presente processo verbale che è stato sottoscritto dal Sud. D. G. Rosalba
da Noi, dall’Impiegato della com.e e dal cancelliere».
Ministero di Grazia e Giustizia, fasc. 1584, incartamento n. 779.
Edizione e/o schede delle carte
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Rimandi ad altre schede
Vedi Rosalba Camillo; per l’altro figlio, Rosalba Federico, cfr. VALERIO, 1993, pp. 623-625.
Commento alla fig. 12.
Una vertenza confinaria tra i fratelli Gambardella ed esponenti della famiglia Di Pino dà luogo, come classica occasione, a questa carta, fatta rilevare «d’officio» su disposizione del Tribunale Civile di Salerno all’architetto Giovanni Rosalba,
coadiuvato da Raffaele Amato e Gaetano Longo, probabili collaboratori del suo studio tecnico privato. La rappresentazione si rivela interessante in quanto offre un’idea precisa del paesaggio agrario dell’intera Costiera amalfitana, nelle fattezze
in cui è stato ormai trasformato dal lavorio dei secoli: un mantello agro-forestale non proprio ricco ed esuberante, dove la
trilogia mediterranea è monca del suo cardine (il grano), ma ha compensazioni nel bosco (un terzo, mediamente nel tempo
e nello spazio, della complessiva superficie catastale) e che si distingue per piante endemiche o colture quali viti, agrumi,
gelsi, più raramente olivi, castagni anche da frutto, carrubi, e così via (AVERSANO, 1987 b, pp. 127-141; AMOS e GAMBARDELLA,
1976).
Qui in particolare il bosco (parte alta e destra della carta) circonda alcune «Rivolte di antiche macerie», cioè i terrazzamenti
dell’habitat amalfitano, che hanno eroso il manto forestale a favore di alberi fruttiferi e agrumi, alternatisi a viti, e che in
qualche caso (si veda lo spezzone di disegno più piccolo sopra la «Cartiera controvertita») convivono anche con seminativi orticoli, incoraggiati dalla presenza del fiume, che serve fondamentalmente al funzionamento delle due cartiere. Di un
certo interesse, giacché pur sempre inerenti alle procedure di misurazione dello spazio, le croci «scolpite dai massi» e i
segnali di pietra, utilizzati come «segno di terminazione».
Commento alle tre principali relazioni scritte sopra citate, a firma del Rosalba.
La prima relazione è certamente molto corposa e interessante, perché il nostro architetto redige un vero e proprio
progetto, su richiesta del «Signor Intendente del Principato Citeriore» (mi permetto ricordare che l’Intendente era il capo
della provincia, in questo caso della futura provincia di Salerno), sulla base del quale poi dovrà essere formulato il regolamento amministrativo finalizzato alla equa ripartizione tra gli utenti delle acque del fiume Picentino. Un compito assai
arduo e importante, perché si trattava di mettere d’accordo gli interessi pubblici e privati, evitare gli abusi dei potentati e
nello stesso tempo fare in modo che non si verificassero impaludamenti. La palude e la malaria, infatti, erano di casa nella
piana del Sele, specie alla sinistra del fiume, ma per quanto riguarda il basso Picentino era stata eliminata da poco, dopo il
decennio napoleonico, specie alle porte di Salerno, dove esistevano le famose risaie (che ne costituivano la deprecata
causa prima, ma che erano ormai scomparse – soppiantate da ortofrutticoltura intensiva – al tempo in cui scrive il Rosalba).
Senza entrare nei dettagli tecnici della «Memoria legale idraulica», si può dire che, nella prima parte dell’opera (intitolata «Origini del fiume sudetto. Paese traversato dal suo corso. Uso che può farsi delle acque, e dritto che possono vantarvi
i proprietarj de’ differenti Comuni»), l’Autore dimostra una perfetta conoscenza geografica del bacino del fiume e della
storia territoriale (ricorda che il letto è incassato e le acque difficili da derivare; ricorda la storia del riso e gli abusi passati;
nota la vocazione cerealicola dì tutta la zona bassa), non senza riportare circolari relative all’amministrazione delle acque,
cui tutti si devono attenere.
Dopo aver preso atto della situazione e aver descritto il territorio fisico e umano, Egli procede alla «Misura delle acque,
estensione di terreno che potrebbe rimanere innaffiato; quantità che sin dal momento andrebbe soggetta a Regolamento
Amministrativo» (è il titolo del secondo paragrafo, fra le pp. 8-13). Nel fare queste operazioni, dimostra di conoscere i
principi della scienza idraulica e formule matematiche utili a misurare la portata del fiume in vari punti, di avere conoscenze bibliografiche aggiornate, da cui prende quello che è utile: infatti, in base alla sua conoscenza delle caratteristiche
locali, modifica gli schemi matematici di calcolo «dell’idraulico italiano Tadini» (p. 10).
Uno dei paragrafi più interessanti dal punto di vista geografico (governo delle acque e del territorio tout court) è il
terzo, intitolato «Canali di derivazione attualmente in uso sulle due sponde: modificazioni per renderli a più vasto e
regolato oggetto relativi. Partizione di tutta la regione irrigabile in altrettante contrade quanti sono i canali principali». Qui
il relatore dimostra conoscenza del territorio, citando fra l’altro le principali sorgenti (p. 16), regolando il suo intervento in
base al sistema di coltivazione biennale del granone (p. 22) e procedendo a una regionalizzazione del territorio in cinque
contrade: di Siglia e delle abolite risaje, sulla sponda dritta; di Sardone, di S. Giorgio e de’ Cannameli, sulla sponda sinistra
(p. 23). È un assetto del territorio che ha resistito fino alla seconda guerra mondiale, prima che l’aggressiva politica
urbanistica del dopoguerra ne sconvolgesse i connotati (NATELLA, 1994, pp. 32-33).
Anche il paragrafo quarto interessa moltissimo sotto il profilo geografico, perché da esso si può ricavare il paesaggio
agrario beneficiato dall’irrigazione, la toponomastica dell’epoca, i nomi dei proprietari e l’estensione delle loro particelle,
con i tipi di coltivazione prevalenti: campestre e arbosto, ossia cereali (grano e granone) e viti maritate ad alberi vivi, che
nel primo Ottocento erano una grande ricchezza. Comprendiamo qualcosa anche sui ritmi stagionali che regolavano la vita
dei contadini e dei proprietari dei fondi: «La stagione delle irrigazioni comincia nella piana di Salerno e di Montecorvino
alla metà di Maggio...e termina ai 15 di Settembre», ci informa il Rosalba a p. 39.
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Doti di pianificatore a sfondo sociale il Rosalba mostra infine di possedere anche nel paragrafo quinto («Precauzioni da
prendersi onde impedire le stagnazioni e le infezioni d’aria che ne sarebbero la conseguenza»). Le pagine successive sono
dedicate al calcolo dell’equa ripartizione delle acque tra i proprietari e ai compensi che «possono competere a taluni
proprietari» in soli 4 casi (p. 48). La relazione, che fa riferimento a una carta di dettaglio costruita dallo stesso Rosalba (che
non è allegata al volume, né sono riuscito a trovare, se mai esiste in qualche recesso d’archivio o di biblioteca, ma forse si
tratta di quella già citata in ASS, Fondo Intendenza, b. 1456, f.lo 1: ciò vale purtroppo, come si diceva, anche per le altre
relazioni), termina con un lucido riassunto di quanto dettagliatamente esposto nei paragrafi precedenti, al fine di facilitare
la stesura del regolamento amministrativo che gli è stato chiesto.
***
Di più modesto impegno è la seconda relazione, relativa solo ai compensi dovuti ai proprietari dei fondi posti nelle
vicinanze del fiume Tusciano. In questo caso la parte delle tabelle è molto curata (pp. 5-9), ma non mancano riferimenti
alla “filosofia” su cui si basano i calcoli, al fine di dirimere i conflitti tra detentori del sistema di irrigazione privata e quello
pubblico, per il quale si batte appunto il Rosalba. Egli infatti rappresenta, nel caso specifico, lo Stato, che deve essere, a
suo parere, il punto di equilibrio fra gli opposti interessi e distributore di «giustizia» ed «equità».
Nel compiere questa complessa e delicata opera, il nostro architetto salernitano si appella a principi generali enunciati
dai maggiori giuristi dell’epoca. Egli si richiama al «sommo Romagnosi» (in riferimento all’opera Della ragione civile
delle acque, Milano, 1829-1830, o forse a Della condotta delle acque, Milano, 1822-25), allorquando sostiene che le
servitù di passaggio devono prevedere una contropartita a favore dei proprietari sui cui fondi grava la servitù stessa. Infatti,
la specie particolare di servitù, «dovendosi esercitare su fondi contigui, e fra possessori collegati fra di loro con vincoli di
vicendevoli benefici e servigi, esige necessariamente un temperamento all’idea smodata di un astratto dominio nel quale si
prescinde dalla convivenza degli uomini, dalla contiguità di beni e dalla communicazione necessaria delle acque che la
natura comparte alla terra, ed ai viventi tutti nella medesima» (p. 11). E più oltre: «I regolamenti quindi e gli statuti
riguardanti la ragion direttiva delle acque nei rapporti della reciproca conservazione, tutela ed uso innocuo si debbono
considerare come altrettante parti integranti del dritto civile sulle acque: attesoché senza di ciò converrebbe eternamente
accapigliarsi co’ vicini, o eternamente molestare i tribunali a tener sempre in moto la forza armata per reprimere le risse, e
gli attentati particolari» (p. 15).
Questo richiamo a Giandomenico Romagnosi, grande storico del diritto, avvocato ed esperto di diritto pubblico e
diritto civile, sulla scia del Condillac e dei cosiddetti ideologi francesi, nonché esponente degli ideali politici del Risorgimento (per cui fu perseguitato e incarcerato), ci fa capire quale fosse la posizione dell’architetto Rosalba nella società
dell’epoca. Egli apparteneva alla borghesia colta e illuminata, apertamente o potenzialmente antiborbonica e “carbonara”,
che combatteva i residui dell’Ancien régime. Infatti, nel concreto, il Rosalba ha il coraggio di battersi contro i cosiddetti
«frontisti» (cioè i proprietari dei fondi a immediato contatto con il corso del fiume), che erano pronti a invocare i loro diritti
privati ma violavano il diritto pubblico, cioè i beni del demanio statale, provinciale e comunale.
Sarà utile a tal proposito riportare le righe conclusive della relazione, che ci mostrano un tecnico coscienzioso, testardo
e motivato contro le illecite occupazioni di suolo fatte da proprietari potenti, poco preoccupato di sbottare in una invettiva
che non trascura lo stile della scrittura (questa ricercatezza estetica l’avevo notata anche nella prima relazione, specialmente nell’uso di vocaboli eruditi, come ad esempio «frustaneo», a p. 6) e ricorre anche ad esempi della cultura classica per
sostenere la sua battaglia. Scrive dunque il Rosalba fra le pp. 15-16, lamentandosi che il suo amore per l’utile pubblico gli
aveva alienato le simpatie dei frontisti: «Ma ove mai tutto questo bonar per nulla si volesse, ed invulnerato tornar si facesse
dalla lotta il diritto illimitato della proprietà, negar poi non si potrebbe la inviolabilità del diritto medesimo a favor del
demanio dello stato, del demanio provinciale, e del demanio comunale: ed in conseguenza tutte le occupazioni di suolo che
i frontisti specialmente han fatto sulla consolare, sulla strada del vallo, e sulle strade comunali, traversandole in mille siti,
e servendosi de’ fossi come acquidotti; ed in molti casi anche allagandole ed intrafficabili rendendole, tutte queste occupazioni io dico ed usurpazioni sulla proprietà pubblica non saranno al certo sostenute dal codice civile, al quale si ha tanta
bramosia di ricorrere!
In nome dunque della pubblica amministrazione fo mie proteste circa le occupazioni medesime che si veggono fatte
sulla strada di Olevano; sulla strada del Vallo, sulla consolare della [sic!] Calabrie, sulla strada comunale di S. Mattia, su
quella delle murella, e sull’altra che da Battipaglia porta ai siti superiori di Montecorvino, le quali, una volta rivindicate,
farebbero cessare sul fatto il corso delle acque in tutti i canali, e con esso il sistema totale delle irrigazioni private.
Protesto in fine contro le inondazioni, gli allagamenti, e le ingenti dispersioni d’acqua dal sistema privato inseparabili;
e contro l’infezione d’aria che n’è la trista conseguenza.
Tali mie proteste avanzate [sic!] nella circostanza in cui furono d’ordine ministeriale chiamati i frontisti ad un bonario
accomodamento, produssero, com’è noto alle Signorie Loro, un’ allarme [sic!] ed un esasperamento contro la mia persona.
Le regole di condotta mi consigliavano a tacerle nel presente rincontro, ma le regole infallibili del proprio dovere mi hanno
imposto a produrle. Fui allora per dispetto attaccato di deferenza, come Ippolito di lascivia dalla seduttrice madrigna: lo
sarò di bel nuovo; ma rammenterò nella mia calma che il vituperio dell’impudica Fedra ricadde col tempo su di lei!
Attenderò questo tempo per me!».
Salerno li 20 ottobre 1838
L’Architetto
Giovanni Rosalba
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E vengo alla terza relazione, il cui contenuto è sinteticamente annunciato dal titolo stesso, che è appresso citato per
esteso. Una prima annotazione importante da farsi è che l’architetto Rosalba cambia qualifica dopo l’Unità (diventa ingegnere civile) perché si era andata precisando nel tempo la distinzione tra architetto e ingegnere, coi rispettivi ruoli e
competenze: non a caso era nata la Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri in Napoli (RUSSO, 1967). Una seconda
osservazione riguarda l’area di cui si occupa il R. (sulle cui caratteristiche geografiche coeve si rimanda alla carta di
Benedetto Marzolla, datata 1850, a scala 1:280000), corrispondente alla medio-bassa Valle del Liri, che – com’è noto – è
la più vasta pianura del Lazio interno, già lago pleistocenico, almeno tra Pontecorvo e Cassino, poi svuotatosi quando il
fiume si aprì un varco nella Stretta dì Suio attraverso i materiali eruttati dal Roccamonfina. Dal punto di vista geopoliticoamministrativo – e a questo si fa forse meno caso – ci troviamo ai confini tra Stato Pontificio ed ex Regno di Napoli
(Provincia di Terra di Lavoro, Distretto di Sora, Diocesi per lo più di Sora, Aquino e Pontecorvo e un po’ meno di
Montecassino, il cui centro a valle si chiamava S. Germano), ma siamo comunque in territorio borbonico che diverrà
Compartimento della Campania con l’Unità per poi confluire nel Lazio (provincia di Frosinone) a seguito della grande
riforma amministrativa di Mussolini nel 1927. Un altro particolare notevole: una bella fetta meridionale di questa valle
rientrava nell’enclave pontificia di Pontecorvo (vedasi nella citata carta del Marzolla la linea a crocette, indicante confine
di Stato), e questo forse spiega – ce lo racconta il Rosalba nell’esordio della relazione – la grande euforia con cui la gente
di tutte le classi sociali, che aveva espulso in malo modo i papalini al momento della formazione del Regno d’Italia,
accoglie il nostro ingegnere, visto come verificatore e quasi salvatore di un progetto di irrigazione già scritto e disegnato
dall’ingegnere del Genio Civile Raffaele Padula. Credo che lo stallo in cui erano rimaste le decennali promesse precedenti
di intervento, e di cui si lamenta la popolazione locale, dipendesse anche da questa particolare commistione di sovranità
politico-giurisdizionale, che rendeva i Borboni poco propensi a profondere in zona capitali, lavoro e “tecnologie”.
È questo un progetto di sfruttamento delle acque difficile da sintetizzare in poco spazio perché lungo circa 70 pagine e
ricchissimo di informazioni e di spunti di ogni tipo: c’è per esempio un bell’affresco stratigrafico-sociale dei poteri pubblici, tecnici ed economici, alla scala di nomi e cognomi estratti dal «fiore dei gentiluomini» e dai «più forti proprietari», in
testa i sindaci con relative giunte comunali e così via (il maggiore della Guardia Nazionale Sig. Giulio Scorti, gli onorevoli
Quattrucci, Lupio, Grossi, Calcagni, ecc.). Mi soffermerò ovviamente solo su quei passaggi del testo dai quali emerge di
più il rapporto tra pubblico e privato o tra privati e privati, magari di diverso peso politico.
All’inizio il Rosalba spiega il suo metodo dì ricerca: indagine bibliografica sui più accreditati autori delle varie materie
coinvolte; incontri-interviste con persone e responsabili della cosa pubblica; perlustrazioni di luoghi, attraverso tappe ben
precise che lui chiama «posate»: il tutto fatto «con interesse di scienza ed arte», dove arte sta per applicazioni costruttive
delle valutazioni scientifiche. Il punto chiave dell’intero progetto è «l’alto scanno di roccia, che fa la cascata dell’Anatrella»,
nell’attuale comune di Monte S. Giovanni campano (dove questa specificazione aggettivale la dice lunga sull’ex appartenenza amministrativa); una cascata, «che par proprio costruita per dar comodo ad un ingegnere di stabilire una presa
d’acqua» (p. 5). Tante sono le aspettative generali circa l’esecuzione dell’opera già progettata dall’ingegner Padula (con
sottoscrizioni indicanti il numero di ettari da irrigare), che tutti sono «ad offrir di soggiacere a qualunque tassa si dovesse
imporre per prezzo d’acqua!» (p. 4). E qui mi sembra si configuri un sano rapporto fra pubblico (cui incombe la spesa
iniziale) e privato (che si obbliga a pagare successivamente).
L’area da irrigare viene così descritta: « ...oltrepassata di qualche miglio la città di Cassino, su andando verso Arce,
quella regione presenta delle stupende pianure, sulla dritta e sulla sinistra della Consolare [la Casilina]: sulla dritta giungendo con una stretta zona, a pie delle colline su cui seggono: Piedimonte, Palazzolo, Caprile, Castello, Roccasecca, i
Quadri, Roccadarce, ed Arce: sulla sinistra poi le vaste pianure che fanno altra larghissima zona sin presso alla sponda
sinistra del Liri, nella quale si notano i comuni, di S. Angelo, di Pignataro, di Aquino, di Pontecorvo, ed Isoletta. La terra
vi è piana, e con dolce pendenza doppia; da Settentrione a Mezzogiorno, e da Ponente a Levante».
L’illustrazione prosegue sui fatti geografici (fisici e antropici) che possono ostacolare o favorire lo sviluppo della
canalizzazione, mostrando uno studioso dotato di buone e aggiornate conoscenze geologiche, pedologiche e agronomiche
(rotazioni agrarie praticate, perfino i generi di vita locali) e capace di denunciare errori nei sistemi di coltivazioni, con
relativi suggerimenti rettificatori.
Descrive quindi tutti i principali lavori da eseguire, realizzabili con poca spesa. La cascata dell’Anatrella viene definita
«la più bella, la più sicura, e la più stabile presa d’acqua, d’onde aver cominciamento una grande diversione del Liri»
(ponti, ponticelli, ponti-canale, sottopassi); dei canali adduttori definisce le pendenze minime e massime (riferimento al
Canale Cavour, al «gran canale aperto dal Larini nella campagna sabbiosa di Sotto Pavia, diretto dal rinomato ingegnere
Parca» (p. 18), e così via (cita studi sull’economia delle acque, ad es. una non precisata del Prof. Alfonso Spagna, Palermo,
1864). Definisce i costi degli interventi, compresi i compensi al direttore e al personale, nonché il preventivo di spesa della
manutenzione annuale.
Nella dialettica pubblico-privato – lo sa bene il Rosalba – l’impatto di un’opera tecnica significa scontrarsi sia con la
natura, sia con la proprietà dei cittadini: perciò chiede ripetute volte carte più dettagliate di quella (al 20000) esistente,
suggerendo una scala 1:2000 e altri rilevamenti (profili trasversali, piani quotati, ecc.), per ben valutare gli «accidenti
fisici» e i confini delle proprietà. In proposito, appare interessantissimo il paragrafo IV (Qual è la quantità di acqua che
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può derivarsi dal Liri nel tempo di scarsezza, cioè ne’ mesi estivi, tenuti presenti i dritti degli opificii idraulici che già se
ne servono; i dritti che su dette acque potrebbero avere e sperimentare i proprietarii della sponda dritta del Liri).
Qui vengono affrontate le questioni relative al conflitto, potenziale o reale, fra i possibili utilizzatori delle acque o fra
le varie attività economiche rispetto all’uso delle acque stesse, un conflitto che non emerge finché un artefatto tecnico non
le renda fruibili: il Rosalba infatti si può permettere il lusso di sollevare le preoccupazioni degli interessati sui diritti che in
futuro potrebbero accampare i proprietari della sponda destra del Liri, ricorrendo a precise argomentazioni («Ma non
essendovi contrade prossime alle sponde, né sulla dritta né sulla sinistra; ed il fiume correndo incassato tra le sponde
medesime, che sono alpestri e sassose, il pensiero di altre inferiori derivazioni svanisce; ed i dritti de’ proprietarii della
dritta sponda, riduconsi a zero – rimarranno dritti potenziali ma non esercibili non mai controvertibili: ecco tutto»), senza
considerare tuttavia che in futuro sarebbero stati inventati elevatori d’acqua assai più potenti di quelli a ruota idraulica
operanti all’epoca, ed il problema avrebbe potuto riproporsi...
Rimanendo sempre nella stessa fattispecie, l’ingegnere salernitano discute anche il problema che chiamerei del “lupo
e dell’agnello”, ossia del rapporto – quanto al prelievo del prezioso liquido – fra le comunità che stanno a monte e quelle
che stanno a valle. Fa quindi l’esempio delle popolazioni della conca del Fucino, allora ancora in parte lago non bonificato,
che a prosciugamento avvenuto avrebbero potuto far ricorso alle sorgenti per irrigare le loro terre e togliere alimento al
volume d’acqua che al momento veniva giù (il par. V suona: «Che assegnamento può farsi sulle acque delle sorgenti, che
ora formano il Fucino, considerato l’uso che potranno farne per l’irrigazione le terre di quell’ampio bacino, quando disseccate saranno messe a coltura»; altro esempio: le terre di Sora, Isola e Castelluccio, che in futuro potevano aprire nelle parti
superiori altri canali di irrigazione (p. 30).
Il Rosalba è ben lieto di affermare che i rischi di decurtazione d’acque a valle non sussistono, sostenendo la tesi che
soltanto lo Stato, attraverso gli organi provinciali, potrebbe concedere o revocare l’uso delle acque a monte, giacché
finalmente, dopo l’eversione della feudalità e l’emanazione del Codice Napoleonico, si è ritornati al diritto romano antico
e si è posto fine all’artificio dei giureconsulti “privatisti” che negavano alle acque non navigabili «il carattere di acque
demaniali pubbliche» e le tenevano «in conto di proprietà private» (p. 31).
Nel Paragrafo VIII risponde al quesito su «Che quantità di acqua si richiede per l’irrigazione di un ettera di terra, tenute
presenti le condizioni di composizione, giacitura e irregolarità di superficie delle terre da irrigare». Dopo aver citato le
“autorità” in merito (Tadini, tomo II della nuova raccolta degli Idraulici Italiani, p. 236; Pareto) ed alcune esperienze fatte
personalmente, egli conclude sulla impossibilità di un «calcolo verace», data la variabilità delle situazioni territoriali («...
imperocché in mezzo a tante varietà, per ragione della fisica natura del suolo; per il metodo delle irrigazioni; per la
diversità de’ prodotti che si coltivano; e per la diversità del clima, sarebbe impossibile una determinazione positiva delle
quantità varie dell’acqua, che alle molteplici combinazioni si potessero assegnare» (pp. 38-39). L’articolato discorso si
conclude con l’esibizione del «Quadro sinottico» del Berti-Pichat, intitolato «Della quantità d’acqua mezzanamente necessaria alla irrigazione di un ettara», al quale il Rosalba apporta delle opportune correzioni valutative.
Quel che più interessa qui non è la valutazione tecnica in sé, ma la scelta dell’Autore che fa testo, Carlo Berti-Pichat,
che era sì un teorico e pratico innovatore agronomico (scrisse fra l’altro le monumentali Istituzioni scientifiche e tecniche
ossia corso teorico e pratico di agricoltura, in 28 voll, 1851-1870), ma viene preferito anche perché rappresenta una figura
prestigiosa di patriota, figlio di un ufficiale napoleonico, un sicuro democratico, fondatore del giornale «L’Italiano» (1847),
Ministro dell’Interno della Repubblica Romana, deputato al Parlamento Italiano per tre legislature nel Gruppo della Sinistra, sindaco di Bologna (1872) e feroce oppositore della politica economica della Destra.
Una riprova, dunque, di quanto il fatto tecnico sia legato al politico e all’ideologico, che trova ulteriore e puntuale
conferma laddove il Rosalba calcola l’utile che deriverà alle terre dal passaggio dal regime seccagno alle irrigazioni (pp.
52sgg). Non a caso egli cita largamente Melchiorre Gioia della Filosofia della Statistica, nei passaggi in cui fa riferimento
a casi antichi e recenti, europei ed extraeuropei, di regioni irrigate (Bagdad, Aragona, Nuova Spagna, Piemonte, Sicilia:
Duca di Monteleone e Duca Gualtieri).
In buona sostanza il verificatore Rosalba condivide, salvo marginali rilievi, tutte le scelte fatte nel progetto del Padula.
Tuttavia, gli muove una sola, grande e fondamentale obiezione, assai interessante per il nostro discorso. Mentre il pur
valido collega prevedeva «rendita nuova» dalla costruzione di ben 40 opifici industriali (si ché, asseriva, «questa parte
della Provincia di Terra di Lavoro rivaleggerà co’ primi distretti manifatturieri della Francia e dell’Inghilterra...», il Rosalba
sostiene invece che il futuro è nei miglioramenti dell’agricoltura e della pastorizia (ad esempio, chiede che l’industria della
seta venga tolta ai «miseri coloni» e accentrata nelle mani dei «grandi proprietari», per realizzare quella che oggi chiamiamo un’economia di scala), nonché, nel commercio, considerato l’alto sviluppo lineare delle coste nazionali. Leggiamolo:
«Io non partecipo affatto, alle illusioni di cosi prosperevole avvenire, che star poteva alcun poco ne’decorsi tempi, del
così detto protezionismo: quel sistema artificiale di grandi industrie manifattrici col quale i stati diversi di Europa si
facevano asprissima guerra economica è passato, e non tornerà più presso noi; e non è neppur desiderabile che torni.
Imperocché, in un suolo ubertoso come il nostro, e sotto l’influenza di un bel sole, di un sole d’Italia, come disse la Sthael,
noi dobbiamo esser popolo agricoltore e popolo pastore – e per quanto riguardi commercio, atteso il giro delle nostre
estesissime coste, in mezzo al più bello de’mari interni, dobbiamo essere popolo commerciante, come altra volta lo fummo; ed emulare la gloria dell’antica Genova, dell’antica, ora sventurata Venezia; e dell’antica Costiera Amalfitana; chè il
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commercio nulla toglie allo slancio dell’agricoltura e della pastorizia, anzi l’accresce, col favorire l’esportazione delle
materie prime, inservienti alle manifatture straniere» (p. 56).
Nonostante tutto, e a parte le sue citazioni (Quesnay, Souilly), egli non vuol essere scambiato per un fisiocratico
“fondamentalista”, che suonerebbe peraltro un tradimento all’illustre conterraneo Antonio Genovesi. Qui dimostra un
certo opportunismo e comunque fa dubitare della sua totale buona fede, benché a scusante ci fosse l’aria che tirava all’epoca. Pur in presenza di un governo di destra, infatti, nei primi anni postunitari gli uomini politici italiani sia di destra che di
sinistra concordavano in una politica che valorizzasse l’agricoltura per creare capitali da investire in infrastrutture, il che
realmente avvenne (specie in campo viario-ferroviario), a scapito dell’industria nazionale, che accusò un gap tecnologico
in settori-chiave (siderurgico e meccanico), e a danno esiziale dell’industria meridionale, costretta spesso alla scomparsa,
con l’eccezione del ramo serico, nemmanco troppo modernizzato.
È interessante analizzare i motivi addotti dal Rosalba per la sua scelta pianificatoria: mancano i capitali per l’industria;
non c’è più protezione doganale (l’Italia aveva adottato il liberismo piemontese); nell’attività di fabbrica ci si aliena («un
lavoro che fa dell’uomo un automata») e nasce la lotta di classe (che comunque è giusta, giacché i «capi» delle Società
manifatturiere sono «ingiusti e crudeli per avarizia verso gli operai» (p. 60), mentre con l’affermazione di un’agricoltura
modernizzata «non tarderebbe a...raddoppiare una industre, comoda, mansueta e morale popolazione contadinesca» (p.
59), come accadeva in Lombardia, Piemonte e Toscana.
Queste le conclusioni: «Contentiamoci, come abbiamo detto poco avanti, di qualche piccolo profitto per opifici, che
potrebbero stabilirsi per eccezione, e di qualche macchina di agricoltura e nulla più: questo solo è serio! Curiamo tutto
l’utile che dovrà necessariamente provenire dall’aumento di rendita nei fondi per la irrigazione, come l’abbiamo calcolato...» (p. 60).
Nelle sue argomentazioni, il Rosalba non manca di lanciare degli strali ai Borboni (forse anche un po’ eccessivi e
ingenerosi) e alle precedenti dominazioni del Sud: la Campania Felice deve esser resa «più degna di quel suo nome, dal
quale ha dovuto scapitare per l’indolenza di governi che nulla han voluto fare per la protezione delle scienze agronomiche»
(p. 60). Ora, da sole queste popolazioni «non arriverebbero mai a crearsi per propria iniziativa quel sistema d’irrigazione
che tanto bramano....soggiaciute da tanti secoli al reggimento di governi dispotici...».
Come si vede, viene fuori una figura di “uomo di sinistra”, troppo ligio agli interessi dei grandi proprietari e certamente succube della temperie politico-economica. Quelle popolazioni – egli prosegue – «han perduto la coscienza della forza
collettiva [riappare il linguaggio di sinistra...], e la fiducia che dovrebbero avervi. Tutto per esse bisogna che accada per
fatto di Amministrazione: specialmente, per un gran sistema d’irrigazione, su del quale, l’Amministrazione deve necessariamente mettersi a capo, per tutelare la salute pubblica, e l’ordine pubblico: e poi ancora per proteggere e sussidiare
un’opera di tanta importanza con opportune anticipazioni, onde far fronte alle inevitabili spese, alle quali si va incontro
sulle prime. Ben inteso, che quelle anticipazioni dovrebbero essere dai proprietarii dei fondi rimborsate...» (pp. 68-69).
Tornano quanto mai illuminanti, a questo punto, per spiegare l’apparente contraddizione di questo tecnico-umanista, le
seguenti riflessioni di Giovanni Spadolini (1985) sulla situazione dell’Italia all’indomani dell’Unità: «...la Destra subordinò in ogni momento i problemi amministrativi agli imperativi morali...e guardò alle riforme come a uno strumento di
trasformazione etico-educativa molto prima che di stabilizzazione politico-economica. La...Sinistra, premuta dalle
rivendicazioni dei nuovi ceti che affioravano alla superficie, incalzata dall’attacco del protezionismo industriale congiunto
all’estensione dell’intervento dello Stato e della burocrazia, si trovò costretta a imboccare una strada diversa e talora
opposta, a dare la priorità al rafforzamento delle strutture giuridiche, rispetto a quello delle convinzioni ideali, a optare per
la creazione di un equilibrio sociale piuttosto che per la ricerca di una più elevata coscienza morale».
Ugualmente utile quanto si legge in un accreditato manuale di storia: «Le differenze tra i due schieramenti politici
erano di natura ideologica più che sociale: la Sinistra raccoglieva tutti coloro che volevano una più larga partecipazione
alla gestione del potere (da realizzare soprattutto attraverso l’ampliamento del corpo elettorale) oppure che, come i repubblicani, si erano opposti allo sbocco istituzionale che era stato dato al processo di unificazione.
La Sinistra aveva dato espressione politica al vasto malcontento provocato dalla politica di rigore della Destra, riunendo gruppi sociali eterogenei: in essa si erano infatti raccolti sia i rappresentanti della più avanzata borghesia settentrionale
che quelli della borghesia terriera meridionale, contrari alla politica di costruzione di infrastrutture necessarie a sostenere
lo sviluppo industriale del Nord, che era finanziata con maggiori imposizioni sulla proprietà terriera» (VILLANI, PETRACCONE,
GAETA, 1996, p. 46).
Allo stato attuale della mia indagine non so in particolare quanto di quello che possiamo chiamare il progetto PadulaRosalba sia rifluito nei successivi e tardivi interventi bonificatori dell’area in parola. Riassuntivamente sarà forse utile
richiamare quanto di recente scriveva Stefano Lepre: «Il territorio della Valle del Liri venne classificato comprensorio di
bonifica di prima categoria dopo il 1882, col r. d. 11 ottobre 1885, e nel corso del primo decennio del Novecento vennero
eseguiti anche alcuni lavori (tra i quali il prosciugamento di uno stagno a Cassino e la sistemazione idraulica e
l’imbrigliamento di diversi torrenti del bacino). Il Consorzio di Bonifica della Valle del Liri si è costituito abbastanza tardi,
nel 1950, e ha operato dal 1952: esso ha compiuto rilevanti interventi di bonifica idraulica e montana, nel settore della
viabilità e per l’elettrificazione rurale (LEPRE, 1998, p. 553).
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Marinella. Agli onorevolissimi Signori Ministri Signori senatori e Deputati dell’Italico Regno ai
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Stab. Tip. Del Servio Tullio, 1863.
ROSALBA G., Studi e ricerche sui materiali e sul lavoro dell’uomo, Napoli, Tip. Servio Tullio, 1863.
ROSALBA G., Relazione dell’ingegnere civile Giovanni Rosalba ai Signori Consiglieri Provinciali
Componenti la Commissione per l’esame della convenienza ed entità del Progetto dell’Ingegnere del
Genio Civile Sig. Raffaele Padula sul Gran Canale da derivarsi dal Liri per l’irrigazione delle pianure
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- 50 -
SEZIONE SECONDA
- Toponimi, Antroponimi, Identità -
[Contributi agli Atti del Convegno Internazionale Toponimi e
Antroponimi: Beni-Documento e Spie d’Identità per la Lettura, la
Didattica e il Governo del Territorio (Università degli Studi di
Salerno-Vietri sul Mare, 14/16 novembre 2002), a cura di Vincenzo
Aversano]
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Vincenzo Aversano
ALLA RICERCA DELL’IDENTITÀ: PERCORSI INTERDISCIPLINARI,
DIDATTICI E SCIENTIFICI, ATTRAVERSO LA TOPONOMASTICA
DI UN COMUNE SALERNITANO
Premessa
Benché nelle ricerche e nella vita abbia sempre privilegiato l’esprit de finesse rispetto a quello de
géométrie o de mathématique, da quando tuttavia ho preso a occuparmi di toponomastica mi ha accompagnato una idea fissa: allestire uno schema classificatorio del significato dei toponimi, ben
calibrato, flessibile, rispettoso del “mistero” che spesso si cela dietro di essi ma nel contempo tendenzialmente adatto a un trattamento informatico. Dopo vari passaggi, che non sto a ricordare nel dettaglio ma solo nel rimando bibliografico (Aversano, 1982; 1987a; 1987b; 1992a e b; 1996) e che in
qualche caso reputo “errori di gioventù” (studiosa) seppur forse utilmente creativi, sono di recente
pervenuto a uno schema classificatorio piuttosto ampio, cioè articolato in un centinaio di item, che nel
2002 ho voluto proporre alla comunità italiana degli insegnanti di Geografia nella loro rivista ufficiale
e, con ulteriori arricchimenti, in un mio volume (Aversano, 2006), convinto del suo valore altamente
didattico ma, altrettanto di sicuro, solo parzialmente scientifico o – se si vuole – pre-scientifico o
ancora non-scientifico.
Nella fase preparatoria di questo Convegno, avevo inviato agli amici geografi ed esperti toponomasti,
Laura Cassi e Leonardo Rombai, nonché al prof. Mastrelli, una copia di tale schema, nella primiera
veste ancora non informatizzata, con preghiera di sottoporlo a “feroce” critica, suggerire emendamenti ed integrare possibilmente i vuoti che essi ritenevano esistenti nei significati possibili che l’immensa mole dei toponimi italiani certamente conserva. Di fronte alla stessa richiesta tutti gli interpellati si
son ben guardati dal riscontrarmi, poiché avevo preteso che si immettessero “a freddo” in un “rompicapo” indistricabile: per questo non conservo “rancore”… anzi sono loro grato perché dal generalizzato silenzio ho compreso che una discussione su uno schema del genere va fatta vis a vis, punto per
punto, ma solo a seguito di continui e progressivi aggiustamenti e calibrature, escogitabili solo sulla
base della empirica esperienza di schedatura secondo i criteri prescelti e via via modificati – ripeto – di
migliaia di toponimi di realtà comunali geograficamente differenziate: comuni grandi, medi e piccoli,
per estensione o demografia; interni o marittimi; di pianura, collina o montagna; urbani o rurali; marginali o sviluppati; agricoli, industriali o terziari, con le connesse sottodistinzioni (agricoltura intensiva o estensiva, allevamento, vari rami e comparti del secondario, commerciali, turistici, ecc.).
Nel presente contributo continuerò a utilizzare lo schema in parola, modificato solo da qualche
ulteriore aggiunta di sub-item, ma con un’assoluta novità “tecnica”: la sua articolazione «ad albero»
(cfr., per i dettagli di tale scelta, la spiegazione che sarà data più oltre), che consente un facile trattamento informatico delle sigle nelle quali ogni toponimo viene ricondotto e “ingabbiato”, con la vantaggiosa possibilità di operare su una messe di toponimi praticamente “infinita”, con tutte le positive
ricadute scientifiche (sul versante comparativo per aree geografiche le più lontane e disparate) e ovviamente didattiche, dato per scontato che il computer è assai gradito, come strumento di apprendimento, alle giovani generazioni di studenti e docenti. Sarà un’occasione per saggiare, rispetto ai contenuti e prescindendo dalla informatizzazione, anche il tasso di validità scientifica dello schema, non
nutrendo dubbi di partenza sulla sua intrinseca validità didattica.
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Fonti toponimiche sondate, finalità-obiettivi didattico-scientifici perseguiti e classificazione geografica proposta
Sulla base dello schema informatizzato predisposto e della “filosofia” che lo sottende, sarà oggetto di
indagine, per una precisa scelta derivante innanzitutto dal fatto che siamo ancora in una fase sperimentale ed esemplificativa dell’approccio, soltanto un comune, situato nel Solco Irno-Solofrana a ridosso della
città di Salerno, quello di Pellezzano, dato che oltretutto ho del suo territorio una conoscenza diretta e
continuativa nel tempo. D’altra parte in questa sede non potevo oggettivamente estendere la visuale
anche ai comuni salernitani contermini, afferenti all’area surrichiamata (Bracigliano, Mercato San Severino,
Fisciano, Calvanico e Baronissi), poiché sarebbe mancato lo spazio per riportare già solo la classificazione-base e le connesse elaborazioni informatiche (decine di tabelle), senza contare l’interpretazione geografica, con orientamento identitario, da cui non avrei potuto esimermi: una doverosa intrapresa che mi
riservo di attuare in successive ricerche, con l’ambizione di prendere via via in considerazione tutti i
comuni della provincia di Salerno, estendendo l’area di indagine anche molto oltre.
Questa ricerca-didattica interdisciplinare (così è opportuno chiamarla) è finalizzata a scoprire del
territorio pellezzanese e delle sue parti (frazioni o luoghi specifici) alcuni caratteri originali, in altre
parole la personalità geografica se non proprio l’identità profonda, accertabile solo su una base più
completa di toponimi ricavati da tutte le fonti possibili. Di proposito non affronterò in questa sede, già
solo per motivi di spazio, i non semplici problemi relativi alla definizione dello sfuggente concetto di
identità e ai metodi (e fonti) da utilizzare per afferrarne la sostanza: del resto questo tema è stato già
abbastanza sviscerato – e da molteplici ottiche disciplinari – nella Tavola Rotonda del convegno di
Salerno. Mi limito solo a ricordare che un geografo non può che pensare all’identità riferita al territorio, inteso come palinsesto di natura e di storia, frutto dei rapporti cangianti nel tempo (costruiti e
talora destrutturati), di tipo verticale (tra collettività umane ed ambiente fisico) ed orizzontale (tra la
comunità insediata sul territorio considerato e le comunità più o meno vicine). Tale palinsesto oggi
appare di necessità la frammentaria sedimentazione di paesaggi rurali e urbani, generi e stili di vita,
ideali condivisi, strutture sociali ed economiche, in sintesi caratteri culturali che nella storia si sono
accavallati, fusi o sostituiti a seconda appunto dei rapporti dinamici tra società e contesto naturale
originario. La sommatoria dialettica (sistemicamente considerata in termini crono-spaziali) di tutti
questi elementi ed eventi ha a che fare appunto con l’identità di un contesto geografico.
Come ho anticipato, in questa fase preferisco – per cautela scientifica – parlare alla vecchia maniera di
«personalità geografica», accertata attraverso l’eco lasciata sui luoghi dai toponimi sopravvissuti, non
senza una incrociata comparazione coi risultati della ricerca “convenzionale”. Da nomi non si può non
ricavare ovviamente che una pre-identità (o personalità geografica) nominale, che però abbiamo visto
essere il riflesso dei fatti e dei segni, materiali e immateriali, incisi sulla superficie terrestre dai suoi
abitatori-frequentatori, senza dimenticare che il toponimo è esso stesso «segno», talora di prestigio.
Tornando al procedimento seguito, avverto che, poiché dallo schema classificatorio è esclusa la
considerazione della toponomastica intra-urbana (quella che comunemente è chiamata odonomastica),
non ho tenuto conto dei nomi attuali delle strade cittadine, rilevando e interpretando solo i 54 toponimi
presenti nella tavoletta I.G.M. «Salerno» (F° 185 II SO, rilievo fotogrammetrico del 1956), aggiungendo quelli ricavati dal Quadro d’Unione Catastale e non figuranti in tavoletta (in numero di 18). La
schedatura riguarda quindi solo 72 toponimi nel complesso, ma è evidente che, con la ricerca sul
terreno e il ricorso a tante altre fonti pertinenti, il loro numero – in una ripresa futura dello stesso
studio – lieviterà, offrendo quindi una più completa base di analisi interpretativa, rivolta al disvelamento
dell’identità territoriale.
Quello che tuttavia interessa in questa fase del mio studio – e anche per questo ne ho limitato la
portata a un solo comune e a poche fonti di base – è mettere alla prova la validità, quanto meno la
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plausibilità relativa dello schema classificatorio nel suo funzionamento informatico, ossia la sua congruenza rispetto al principale obiettivo perseguito: la captazione identitaria al massimo di luminescenza
che dai nomi di luogo può derivare.
Insisto in questa fase sull’aspetto didattico in quanto non ho dubbi sulla efficacia di un insegnamento
che parta dal rilevamento toponimico e pervenga alla lettura del territorio, coinvolgendo tutte le competenze (umanistiche, matematico-scientifiche, tecnico-cartografiche, artistiche, ecc.) presenti nel gruppo
docente di una classe di Istituto scolastico, quale che ne sia il livello, l’ordine e il grado (dal primario al
superiore), senza escludere la didattica universitaria. A palese comprova basterà rilevare che i toponimi
estrinsecano linguisticamente tutti gli oggetti e i fenomeni che si sono nel tempo localizzati sul territorio,
donde la ovvia conclusione che c’è bisogno di tutte le materie per analizzare variabili appartenenti alle
innumerevoli categorie di elementi, naturali ed umani, animati e inanimati, originari e trasformati, tradottisi nella forma toponomastica: una stretta e fluida interdisciplinarietà, insomma.
I vantaggi sono noti e in parte già ben illustrati dalle relazioni e contributi presenti negli Atti del
convegno di Salerno (in corso di stampa), per cui mi limito a ricordare – scusandomi per l’autocitazione
– che «fare toponomastica a scuola» e nell’università significa innanzitutto ricavare molte gratificazioni,
giacché il «docente ha l’opportunità di produrre un contributo scientifico di conoscenza relativo a un
certo territorio attraverso il comportamento dell’uomo che lo ha modellato e vi si è adattato nei secoli;
Il discente si approprierà di una serie di reali conoscenze critiche connesse al contesto socio-culturale e fisico-naturale (ossia complessivamente geografico) in cui è inserito, nonché dei linguaggi (verbali e non verbali) atti a descriverle ed interpretarle;
La Scuola si arricchirà e fregerà di un valido esempio di produzione culturale.
[…] Volendo specificare i diversi tipi di obiettivi didattici ed educativo-comportamentali, […]
distinguiamo schematicamente:
Obiettivi formativi: Gli alunni protagonisti attivi e non destinatari di passive nozioni mnemoniche
e preconfezionate; Sviluppo degli aspetti socializzanti, organizzativi e autoorganizzativi dei discenti;
Obiettivi operativi o del saper fare: Selezione e rielaborazione di dati e informazioni, acquisite con
interviste e questionari, servendosi anche di quadri statistici e didascalie di immagini; Utili comparazioni tra lemmi dialettali e in lingua o tra diversi termini che designano in tempi o spazi diversi lo
stesso oggetto o fenomeno; Acquisizione di una rigorosa metodologia di ricerca, teorica e operativa,
ovvero di un valido protocollo procedimentale.
Obiettivi cognitivi: Conoscenza del territorio nel quale i discenti vivono e sua collocazione nello
spazio più ampio del pianeta; trasformazioni dello stesso avvenute nel tempo; Capacità di lettura di
carte di varia scala e tipologia; Acquisizione, anche tramite recupero diretto, della conoscenza delle
tradizioni popolari e della cultura orale per adombrare negli alunni un’identità culturale spesso
smarrita e abituarli a storicizzare i fenomeni del passato; Acquisizione, da parte dell’alunno, della
consapevolezza che il toponimo è un bene culturale da conoscere, comprendere, recuperare, preservare e reimmettere in circolo; Saper descrivere infine appropriatamente luoghi, oggetti o situazioni,
associando ad essi – durante la fase operativa – sensazioni, emozioni, ricordi (inputs motivazionali,
questi ultimi, di straordinaria valenza); ne risultano così acquisiti i diversi registri della lingua italiana, usati in riferimento alla situazione, al destinatario e allo scopo (ad esempio, stilando istruzioni
per brevi percorsi turistici locali).
Gli obiettivi indicati nei programmi scolastici possono essere perseguiti, dunque, proprio utilizzando i metodi della ricerca toponomastica» (Aversano, 2006, pp. 161-162).
Sottolineando che si tratta di finalità e obiettivi di non poco conto, didattici prima che scientifici,
vengo alla classificazione geografica dei toponimi qui allestita, che – ripeto – è sostanzialmente la
stessa proposta nell’appena citato saggio (ivi, pp. 174-176), ma questa volta predisposta alla
informatizzazione attraverso uno schema ad albero, per cui ogni sigla derivata dallo stesso, anche
quelle coi simboli di dettaglio, deve riportare tutti gli altri elementi della serie. Questa opzione rispon-
- 55 -
de alla necessità di dare al computer la possibilità di elaborare i dati in tempo reale e rispondere a tutte
le query possibili, formulate sui database 1 .
Oltre che poter essere interrogato a distanza, questo database conserva tante altre “virtuose”
potenzialità, tra cui mi piace ricordare il fatto che esso può essere anche arricchito di toponimi con
contributi, sempre conferiti a distanza, tramite utilizzazione delle usuali tecnologie Internet. Ciò consentirà la progettazione di una ricerca toponimica dal respiro amplissimo (anche internazionale), una
volta che venga allestito da uno specialista informatico un Server contenente questo database e quindi
preparato il software che permette di interagire col server2 .
Risultati emergenti dalla classificazione di base dei toponimi
Vengo ora al commento delle tabelle allestite, chiedendo venia in anticipo dello schematismo delle
osservazioni, derivante appunto dalla “tabularità” delle elaborazioni. Nella Tab. I/A, che contiene la
classificazione in ordine alfabetico dei toponimi e l’indicazione della loro posizione assoluta entro i
quadrati chilometrici della Fig. 1, si è ritenuto opportuno – ripeto – distinguere i toponimi ricavati
dalla tavoletta IGM (in totale 54) da quelli (Tab I/B) estratti dal Quadro d’unione catastale (18 in
tutto), per un totale di 72 toponimi: la distinzione ha permesso intanto di rilevare che, rispetto ai
toponimi IGM, quelli catastali si riferiscono maggiormente a strade e costruzioni. È questa una tabella
di base in quanto riporta la siglatura del singolo toponimo, che è la parafrasi dei significati o attributi
insiti nello stesso, seguita dalla colonna esprimente la siglatura relativa ai caratteri geografici del sito
in cui il toponimo insiste (inquadramento geografico) e infine da quella riservata all’inquadramento
linguistico, ossia al meccanismo di designazione del toponimo (denotativo o connotativo) e alla sua
datazione (etimologica o, quando possibile, relativa all’epoca in cui il nome è stato apposto al sito).
Nella Tab. II (Ricorsività dei toponimi) è riportata in ordine decrescente, nei valori assoluti e percentuali, la frequenza dei 13 item principali in cui si articola lo schema-base. Essa offre già una prima
idea, generale o – se si vuole – generica, dell’identità nominale del comune o, quanto meno, la registrazione sintetica di quali oggetti o fenomeni, nei tempi storici della occupazione del suolo da parte di
comunità umane, abbiano prevalso nel determinare una designazione toponimica che ha avuto la fortuna di conservarsi finora ufficialmente3 .
1
Tale classificazione, così come è stata concepita ad albero, una volta inserita in un archivio informatico (un database appunto),
consente delle raffinate modalità di interrogazione della base di dati in parola. Ciò significa che chiunque può rivolgere una query, di
contenuto dal più semplice al più complesso, utilizzando un linguaggio standard SQL (Standard Query Language), rispetto alla quale
emergeranno in tempo reale le più svariate risposte. Ad esempio: «Quanti e quali toponimi sono di carattere antropico o naturale, rurale
o urbano?»; «Dove si situano?»; «Quanti e quali sono legati alle caratteristiche geoantropiche locali e quanti no?»; «Quanti e quali sono
nati da un meccanismo denotativo oppure connotativo?»; «Quanti e quali appartengono a questo o quel periodo storico?». E così via, per
tutte le possibili combinazioni…È superfluo annotare che dalla ricorsività, in tal modo accertabile, di alcuni tipi di nomi di luogo o di
particolari compresenze, sarà possibile ricavare gli elementi identitari, stratificati, di un contesto geografico.
2
Per riempire l’archivio informatico esiste da qualche anno una utilissima banca dei dati toponomastici, presenti nelle carte
topografiche, allestita dall’I.G.M. e di cui ci ha parlato nel convegno di Salerno il colonnello Gennaro Afeltra. Dopo averla “saggiata”
e apprezzata, non ho tuttavia ritenuto opportuno seguire il sistema di classificazione ivi adoperato, in quanto troppo “asettico” e poco
riconducibile, con le sue sigle lontane dalle iniziali del termine esprimente la categorizzazione, alla natura e al contesto storico-geografico del toponimo. Per analoghi motivi non era il caso di adottare le tipologie del SIT (Sistema Informativo Toponomastico), sulla cui
base è stato costruito il Dizionario Toponomastico della Calabria (Cfr. Gagliardo e Altri, 2003, pp. 2210-2219). Avrei altrimenti tradito
i principi del criterio che invece, anche per fini didattici, continuo a riproporre in questa sede, sia pur in veste informatizzata “ad albero”,
e che è quello di fare tutto il possibile per designare ogni tipo toponimico con la lettera iniziale del termine descrivente la categoria del
toponimo (ad esempio: t = forme e natura del terreno; l = litoraneo; a = agricoltura; e = extragricolo, ecc.: cfr, per maggiori dettagli,
Aversano, 2006, pp. 163-166). Devo ammettere con rammarico che l’ampia articolazione e complicazione tipologica dello schema,
nonché l’esigenza di scegliere lettere, combinazioni di lettere e altri simboli in modo che il computer potesse poi leggerle ben distinguendo, hanno rappresentato degli ostacoli oggettivi alla costante e diffusa applicazione di tale criterio; consiglio pertanto al classificatore,
che vorrà benevolmente incamminarsi lungo l’itinerario didattico-scientifico qui esemplificato, di tenere sempre presente alla vista lo
schema per scegliere bene (con la stessa attenzione e pazienza che è occorsa nella concezione) le lettere e gli altri simboli (puntini,
lineette, punti interrogativi, ecc.) che servono a costituire la sigla parafrasante il toponimo.
3
Si richiama l’attenzione sul fatto che, quando lo stesso oggetto o fenomeno risulta denominato più volte in forma complessa, il
relativo toponimo viene sempre e comunque conteggiato in aggiunta nella graduatoria (ad esempio: Pellezzano risulta presente tre volte
poiché attestato anche in Staz. di Pellezzano e Croce di Pellezzano). Non altrettanto avviene per i significati inseriti nella sigla tra
parentesi, in quanto inerenti alla semantica profonda dei toponimi.
- 56 -
Venendo al commento, si rileva immediatamente che per questo territorio comunale discosto dal
mare manca ovviamente l’item l (geomorfologia e altri aspetti antropofisici del litorale) mentre
nessun elemento o fenomeno meteorologico o astronomico (lettera m dello schema) ha dato luogo al
toponimo giunto fino a noi: un’assenza in verità piuttosto ricorrente, per quanto ci consta, anche in
molte altre realtà comunali. I toponimi caratterizzanti maggiormente il nostro comune sono, sostanzialmente a pari merito (26 e 24, quindi quasi il 70%, insieme, del totale toponimi), quelli esprimenti
fatti insediativi (s) e natura e forme (più fisiche che antropiche) del terreno (t): quasi a voler dimostrare, per un verso, come in generale la natura e la storia siano qui perfettamente bilanciate, per un altro
come in particolare, scarseggiando terreni piani, le movimentate forme collinari prevalenti, di solito
ben esposte, abbiano accolto più insediamenti che agricoltura.
Tale compresenza parallela del fisico e dell’antropico sembra essere confermata dalla quota toccante
sia agli antroponimi non prediali romani (legati spesso, come meglio si vedrà tra breve, a sedi di prestigio, ville-fabbriche prevalenti sul numero delle masserie agricole), sia agli idronimi (rispettivamente, h
e i), che seguono nella graduatoria con 11 attestazioni per parte (ciascuno con poco più del 15% del totale
toponimi), nonché dal “pari-merito” dei toponimi relativi alle attività extragricole o artigianali (e) e alla
vegetazione prevalentemente naturale (v), presenti infatti nella sequenza con 9 attestazioni ciascuno. Le
tipologie ancora relativamente caratterizzanti che seguono nella graduatoria (con 8 e 7 toponimi) hanno
natura esclusivamente antropica, riguardando fatti religiosi e trasportazionali, che dettaglierò nel prosieguo.
Il blocco toponimico meno caratterizzante (appena 6 unità in tutto) attiene alla presenza faunistica
e connesse attività venatorie, all’agricoltura genericamente attestata e alla posizione o esposizione
(tipi f, a e p).
Il quadro riassuntivo della personalità (vocabolo da preferire per ora, ripeto, ad identità) geografica
pellezzanese, risultante con un’analisi statica da questa sequenza decrescente di attestazioni toponimiche,
è già di per sé sufficientemente espressivo degli aspetti antropofisici del territorio, risultato delle
interazioni società/natura intessutesi in una lunga storia di popolamento, che mi accingo a riassumere
per grandi linee, prima di passare all’esame degli item più specifici.
Fisionomia geografico-storica del territorio indagato
Il comune di Pellezzano si caratterizza per essere al centro della Valle dell’Irno, intesa in senso
idrografico4 , amministrativamente incastrato tra il comune di Baronissi, a nord, quello di Salerno a
sud e a sud-est, quello di Cava a occidente, con due sole demarcazioni orografiche di rilievo: a nordovest quella di Diecimare (diramazione orientale dei Lattari, secondo alcuni studiosi), ad est quella
del Monte Stella (ultima propaggine dei Picentini salernitani), di cui solo un modesto spicchio di
bassa falda, non superiore ai 500 metri sul mare, va a formare la frazione Cologna, unica del comune
ad essere situata alla sinistra dell’Irno. Trattasi di un territorio prevalentemente collinare da un punto
di vista altimetrico (si sviluppa dai 200 ai 600 metri), con ridottissime aree di montagna a nord/nordovest, comunque mai esorbitanti i 759 metri sul mare (P.gio Cuculo) e modesti lembi pianeggianti di
fondovalle alla destra e alla sinistra dell’Irno, distendentisi tra i 100 e i 200 metri di altitudine.
4
Colgo l’occasione per fare questa indispensabile precisazione in quanto, pur originandosi l’Irno da vari rami sorgentiferi del
comune di Baronissi, è ormai invalso nella comune accezione (purtroppo anche di studiosi del territorio) che i comuni di Calvanico,
Fisciano e persino M.S.Severino facciano parte di questa valle. Essi invece rientrano nel bacino idrografico del Sarno, e per Fisciano e
M.S. Severino si dovrebbe parlare di conca, oltre che di valle (del Calvagnola e del Solofrana, rispettivamente, rientranti nel bacino del
Sarno appunto), per cui a torto si parla anche di Università della Valle dell’Irno (cfr. la Carta delle irrigazioni-Valle del fiume Sarno,
disegnata dall’Ing. P. Martinez y Cabrera, depositata nell’Archivio di Stato di Salerno, Piante sciolte, ora riprodotta in Aversano e
Ruggiero, a cura, 2000, pp. XX-XXI, Tav. IV). Come è noto, tuttavia, sotto il profilo storico-geografico esiste comunque una comunità
di rapporti e di destini, assicurati dalla strada dei due Principati e dalla ferrovia, che costituiscono un fattore unificante, insieme a tante
altre caratteristiche socio-antropologiche e fisico-naturali dei due bacini. Si può allora parlare con più esattezza di «Solco Irno-Solofrana»,
passaggio obbligato tra il Golfo di Salerno da un lato e, dall’altro, le Puglie, il Sannio e l’Irpinia (direttrice nord e nord-est) e il NolanoNapoletano (direttrice nord-ovest).
- 57 -
La estesa porzione collinare, se per un verso si presenta morfologicamente molto mossa, dall’altro
non è priva di ripiani e falsopiani relativamente estesi anche a quote prossime ai 300 metri, del tipo
terrazzo e/o conoide, risultato del ritaglio esercitato su questi morbidi terreni da parte di parecchi
valloni e valloncelli. Questi ultimi appartengono nella maggioranza alla destra idrografica dell’Irno,
la quale è molto meno declive dell’opposta (solcata da pochi, brevi e irruenti valloni), tanto che a una
visione dello “spaccato” vallivo si nota una forte asimmetria dei versanti: non a caso il toponimo
Coperchia, relativo al centro abitato della frazione storicamente più importante e in posizione
baricentrica, è formazione recente da cupercule, cioè piccole cupe (Aversano, 1992, pp. 35-41).
Questo fiume, breve ma ricco d’acque e a regime alquanto regolare grazie alle molte scaturigini
dirette e indirette da sorgenti, attraversa da nord a sud il territorio comunale nel suo lato quasi estremoorientale, reiterato nella stessa direzione dalla Statale 88 (Strada dei due Principati), dalla ferrovia
Salerno-Mercato S. Severino e dal noto raccordo autostradale Fratte-Mercato S. Severino, che si innesta nell’Autostrada per Caserta-Roma. Se ne deduce che il Comune di Pellezzano occupa sì la media
Valle dell’Irno, ma pressoché solo dalla sua destra idrografica, corrispondente al versante vallivo
occidentale (frazioni di Capriglia, Pellezzano, Coperchia, Capezzano, attestati col loro nucleo abitativo
originario proprio su quei terrazzi-conoide variamente ripianati). Per il resto, come già accennato, si
spinge soltanto con un piccolo “rettangolo” col lato corto ad oriente del fiume (frazione Cologna, con
l’abitato sito su un conoide molto scosceso). Significativo il fatto che, a parte recenti e patologici
espandimenti urbanistici, nessun centro abitato di rilievo sia ubicato nel fondovalle, storicamente a
rischio di alluvionamento, fatto riscontrato anche dalla toponomastica: cfr. il toponimo «‘O lago»,
riferito da Galdi, 1937, p. 83 (per una topografia più dettagliata del comune e la descrizione delle
singole frazioni negli anni Trenta del Novecento, cfr. ivi, rispettivamente, pp. 35-39 e p. 52 sgg.).
La natura dei terreni è prevalentemente carbonatica, ma sulle groppe collinari riposano residui di
materiali vulcanici vesuviani esaltanti la rigogliosità della copertura boschiva e la fertilità dei terreni
agrari, che risultano più argillosi sui versanti, più ricchi di humus e di piroclastico in basso. Non
mancano tuttavia formazioni conglomeratiche e, procedendo verso il fondovalle, banchi di tufo grigio
incoerente e sedimentazioni argillose e sabbioso-ghiaiose. La diffusa permeabilità di tali rocce spiega
la presenza di sorgenti per lo più perenni che alimentano il bacino imbrifero, sì che i corsi d’acqua – in
presenza di alcuni salti naturali – hanno potuto essere sfruttati, oltre che per il semplice lavaggiopanni, per produrre energia idraulica al servizio di mulini, gualchiere e altri opifici industriali del ramo
tessile, del cuoio, meccanico e dei laterizi, di cui si dirà.
La copertura vulcanica dell’osso calcareo, combinandosi con l’andamento principale – meridiano
– della valle, ha sempre favorito la crescita di un esuberante manto vegetale, naturale o artificiale
(specie castagno e quercia, ma altresì ontano e frassino: Galdi, 1937, p. 35), in entrambi i versanti
(data la rarità di una franca esposizione a mezzogiorno, soggetta a un soleggiamento “aridificante”),
quindi una relativa umidità; tuttavia, l’alternarsi di spezzoni stagionali non piovosi allorquando irrompono, trovando un naturale canale di scorrimento nella direzione dell’asse vallivo, i venti più freddi da
nord, comporta periodi secchi e relativamente freddi, pur nella mitezza generale delle condizioni climatiche. Tale alternanza, unitamente ai già richiamati fattori idro-morfologici e alle circostanze storiche appresso illustrate, ha avvantaggiato l’industria tessile, assicurando il trattamento ottimale della
fibra dei tessuti (specie di lana).
Il tufo e il calcare (come pietra e come calce, ricavata nelle note «carcare») rappresentano, in varia
mescolanza, le materie prime con cui le popolazioni locali hanno nel tempo costruito le loro abitazioni
(semplici o signorili) e i loro opifici più o meno complessi, con l’ausilio delle travi di sostegno provenienti dai boschi, dei lastroni naturali di calcare o soprattutto dagli embrici per i tetti, a loro volta
forniti – con i mattoni – dall’industria dei laterizi, il cui polo principale funzionava a pochissima
distanza (Rufoli, tra Brignano e Ogliara: Sinno, 1954, P. II, p. 115 sgg.).
La storia del popolamento ha visto succedersi, alternarsi o sovrapporsi componenti greche ed etrusco-campano-sannitiche (testimoniata dalla presenza dei ruderi della città di Irna e della sua necropoli:
- 58 -
Greco e Pontrandolfo, 1990), quindi romane e italo-greche, infine di tutte le dominazioni che hanno
interessato dalla caduta dell’Impero romano il Regno di Napoli, a partire dai Longobardi e fino ai
Borboni. Dagli scarsi studi condotti finora sull’area si può in larga sintesi indurre che la società locale,
nata nell’Alto Medio Evo ad opera di profughi risalenti dalla costa sotto l’imperversare delle invasioni
barbariche e delle crisi bellico-istituzionali, sociali ed economiche successive alla caduta dell’Impero,
abbia conservato un’impostazione più spiccatamente feudale sino all’avvento degli Aragonesi, con la
incidenza di tre poteri forti: quello – diretto e indiretto – della Badia di Cava, quello baronale (breve e
contrastato in epoca angioina) del casato dei Domnomusco, quello infine della Mensa Arcivescovile
di Salerno e di altri Signori feudali (il Principe d’Angri, ad esempio), protrattosi sino al Decennio
napoleonico.
In periodo aragonese esploderà la vitalità “borghese” di queste popolazioni, con la caratterizzazione
in senso paleo e protoindustriale (lanifici, industrie delle pelli, del cuoio e dei laterizi) e la instaurazione
di un più stretto rapporto, economico e giurisdizionale con la città (di cui i centri locali divengono
«casali»), il porto e la famosa «Fiera di S. Matteo» di Salerno. Se da un lato era questo il naturale sfocio
dei traffici provenienti dal Nord regnicolo (Napoli, Agro nocerino-sarnese) e dall’Irpinia, il Sannio e le
Puglie (prodotti agricoli, lana grezza della Dogana di Foggia), i quali trovavano una insostituibile cerniera nell’asse nord-sud della valle che incardina il comune di Pellezzano, dall’altro la risentita demanialità
di Salerno, a partire dal 1693, fece avvertire a questi casali congiunti i suoi effetti positivi e altrettanto
quelli negativi, benché questi ultimi fossero attenuati da una forte autonomia amministrativa5 .
Si potrebbe perfino affermare che, nell’osmotico rapporto città-campagna era quest’ultima, ossia la
borghesia “industriale”-agraria e intellettuale dei casali, in particolare quella del casale di Coperchia,
a dominare la stessa Salerno, le cui crisi economiche vennero spesso sostenute dal «commercio dei
prodotti inviati dall’hinterland»: basti ricordare i coperchiesi che, tra il XVI e XVII secolo, lavorarono
nelle residue manifatture salernitane o che gestirono fondachi di lana e merceria, inviavano architetti,
mastri di muro e di legno o erano «priori e rettori dello ‘studio’ salernitano di leggi e medicina o del
collegio medico»; per non parlare degli studenti e dei professori dello stesso casale (altissime le figure
di Gennaro Fiore e del suo più noto allievo Matteo Angelo Galdi), subentrati nelle scuole regie di
Salerno dopo la cacciata dei Gesuiti (1767) (citazioni tratte da Cosimato, 1992, pp. 65-66).
Tutto ciò a testimoniare l’esistenza di un pendolarismo continuo tra Salerno e suoi casali, la incidenza di fattori giurisdizionali e culturali che, unendosi a quelli fisico-naturali prima richiamati, produssero lo sviluppo delle industrie e dell’«arte della lana» in particolare, la presenza di mercanti forestieri (fiorentini, genovesi, ragusei, ebrei, ecc.) cui si ispirò – pur nei suoi limiti imprenditoriali legati
all’ancoraggio soprattutto terriero dei propri capitali – l’emergente borghesia locale6 , la mal sopporta-
5
Si tratta di una autonomia che mancherà assolutamente alle frazioni comunali che saranno create in età tardo-moderna, in quanto,
«…pur limitata e sottoposta alla tutela fiscale della regia Corte…era una prerogativa sancita dal diritto feudale, esercitata da un ‘parvum
regimentum’ o parlamento di dieci membri con un capodieci, eletti liberamente, senza l’ipoteca del barone», un regimentum dei Casali
demaniali che «aveva pertanto facoltà di gestire in proprio la gabella del forno» (Cosimato, 1992, p. 62). «Altro privilegio di questi Casali
– rincalza il Cosimato – era quello di mandare propri ‘consoli’ alla consorteria dei lanieri di Salerno per difendere gli interessi della
categoria; un privilegio che non godevano, ad esempio, gli altri Casali della Valle … dove pure l’arte della lana era sviluppata…, perché non
erano nella giurisdizione demaniale di Salerno, ma in quella feudale di Sanseverino» (ivi, pp. 63-64). «Fino al 1552, infatti, i casali della
Valle a nord del Vallone tra Capriglia e Saragnano, oggi detto delle ‘Vigne’, arrivando alla confluenza con l’Irno ad Acquamela, rientravano
nella pertinenza dello “stato” sanseverinese» (Cosimato, s.d., p. 49). Molti approfondimenti sulle problematiche finora enucleate si trovano
in questo volumetto, che costituisce a tutt’oggi l’unica ancor valida opera di sintesi sulla storia territoriale della valle.
6
In realtà l’area pellezzanese con la Valle dell’Irno costituiva uno dei tre poli dell’industria della lana del Salernitano, probabilmente
nata già agli inizi del secolo XIV (Sinno, 1954, P. II, p. 10). Gli altri due più rilevanti «centri di produzione e di commercio» furono l’alto
Picentino e l’Amalfitano (ivi, p. 33). Pur nel comune denominatore, questi poli avevano caratteri diversi tra loro per quanto riguarda le
specializzazioni (lungo il Picentino, ad esempio, erano più sviluppate ferriere, ramiere, seterie, creterie, lavorazioni di lino e canapa per
vele e cordami) e le aree di approvvigionamento (pare che all’industria picentina bastasse come materia prima la lana proveniente dalla
Piana del Sele e dalle sue stesse circostanti alture, mentre la Valle dell’Irno si rivolgeva come già detto verso le aree interne di nord-est
fino alle Puglie: entrambe si servivano della Costiera per lo smercio di parte dei propri prodotti). Per un quadro completo delle industrie
tessili e connesse istituzioni (maestranze, imprenditori, consoli, monti di pietà, confraternite, ecc.) nelle tre aree, cfr. ivi, pp. 7-54.
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ta annessione al circondario di Baronissi in età napoleonica, la formazione di un proletariato manifatturiero cosciente, combattivo e tradizionalmente “di sinistra”, il ritardo con cui il comune di Pellezzano
ottenne l’autonomia amministrativa (nel 1820, per l’ostacolo frapposto da Salerno cui tornava comoda l’unione…: cfr. Fumo, 1905), l’assenza di un casato dominante nella pletora delle famiglie di
prestigio, infine le più pesanti ripercussioni negative (chiusura di industrie, emigrazione, rottura della
coesione sociale e discrasia tra le frazioni di monte e di valle) avutesi a seguito delle politiche nazionali postunitarie.
Ecco perché questi casali del Comune di Pellezzano sono stati diversi, nella loro individualità
geografica, dalla media di quelli regnicoli, di pura tradizione contadino-pastorale, acquisendo una
fisionomia mista, industriale-primaria, e una propensione ai rapporti orizzontali con la civiltà
dell’entroterra non meno che con il contesto urbano-marinaro della costa7 .
Certo, gli effettivi umani insediati non hanno mai raggiunto una quota di rilievo con alte densità di
popolamento fino al Settecento (a solo titolo indicativo si ricorda che nel 1574 gli stati delle anime
riportano circa 1800 abitanti per i nostri casali pellezzanesi ma anche soli 3400 cittadini di Salerno,
cifre raddoppiate per i casali a fine Settecento e triplicate per Salerno: Volpe, 1992, pp. 80-81), ma
bisogna considerare tante cause affliggenti e costanti di impoverimento della vitalità demografica ed
economica, quali guerre, terremoti, pesti, carestie, fiscalismo dei regnanti, con una particolare
accentuazione durante la Guerra del Vespro, e via enumerando tra i noti problemi endemici del Meridione d’Italia.
Come si siano riflessi sul paesaggio geografico queste stratificazioni di popolamento è ancora tema
da indagare in profondità. Per quel poco che è emerso dagli archivi, si può tuttavia immaginarne un
profilo dinamico nelle grandi linee, partendo da un periodo antico che avrà visto il dominio di selve,
boschi, pascoli e acque selvagge con rarità di insediamenti stabili, consolidatisi in periodo romano
nelle ville rustiche, di cui restano testimonianze costruttive specie per la bassa sinistra-Irno fuori del
nostro comune, punteggiato tuttavia da qualche toponimo prediale (Chiuiano – non testimoniato nelle
fonti qui adoperate –, Gorgiano, Casignano e, nella destra, Saragnano e Pellezzano, quest’ultimo con
riserva, poiché potrebbe riferirsi anche a un tipo di pecore, dette pellitianae). Le sedi annucleate
stabili e, in progresso di tempo, anche parecchie isolate, cominciano a configurarsi nell’Alto Medio
Evo e dopo il Mille: fonti coeve della Badia di Cava lasciano intravedere chiese, mulini, casalini e
case rurali con scala esterna e tetto a scandole forse di pietra nei vari loci che dovevano già essere
formati da piccoli nuclei insediativi, poi trasformatisi in casali e infine in frazioni.
Dagli stessi documenti risalta la presenza massiccia della foresta a latifoglie (castagno e quercia),
trasformata talora in policoltura mediterranea terrazzata, nella quale la vite semplice o arbustata padroneggia, seguita da vari fruttiferi (pomacee, noci, nocelle ma soprattutto castagne, semplici e inne-
7
Tali caratteristiche territoriali appaiono già delineate e ben consolidate, in senso extragricolo al di là dell’immaginabile, a metà del
secolo XVIII, se una ricerca specialistica sulle strutture demo-professionali accerta che nei nostri casali (compreso Casabarone che
attualmente ricade nel comune di Baronissi) «si concentra…l’attività laniera…, variamente specializzata e gerarchizzata: a Pellezzano
si tratta del 73% dei fuochi, a Capriglia-Casabarone del 49%, a Coperchia del 37%; la proporzione degli agricoltori nei casali più
popolosi è bassa (a Pellezzano il 18%, a Capriglia il 9%), mentre più numerosi, proporzionalmente, sono gli artigiani, i negozianti e
qualche intellettuale» (Sofia, 1988, p. 48). Gli agricoltori, per giunta, sono censiti nei pochi fuochi forestieri, emblematicamente assenti,
invece, nella lana! Si tratta di un «tessuto fitto di relazioni con l’area napoletana, con Cava e la valle metelliana, con la costa d’Amalfi
e col Sanseverinese», relazioni che scarseggiano invece con l’area picentina e del Sele e si incentrano naturalmente soprattutto su
Salerno, definita «città-frontiera» o «città-cerniera» (ivi, pp. 59-61). In essa, ai primi dell’Ottocento, si era stabilizzato dunque un
«nucleo di mercanti ed operatori commerciali» del patriziato urbano e della borghesia anche dei nostri casali manifatturieri, che «controllavano la produzione e commercializzazione sia dei prodotti protoindustriali sia agricoli. Questa struttura economica venne travolta
nel Decennio, con l’abolizione delle risaie, la crisi della protoindustria, la decadenza e la definitiva chiusura della Scuola Medica
Salernitana», cui si aggiunse la «liberalizzazione di enormi comprensori immobiliari in genere di origine ecclesiastica» (Cirillo, 1994,
p. 120). Ne derivò la formazione di una nuova élite cittadina, la cosiddetta borghesia delle professioni, proveniente dalla provincia e
legata al nuovo stato burocratico borbonico, che si aggiunse ai vecchi benestanti e possidenti e contribuì a bloccare i processi di
modernizzazione (ivi, pp. 173-178).
- 60 -
state, conservate per seccagione) e coltivazione erbacee (grano e altri cereali più poveri, leguminacee,
ecc.), che divengono orticole nel fondovalle prossimo ai corsi d’acqua (emblematico del parcellare
piano è il toponimo «Pezze»). L’olivo non compare per il momento, forse a motivo degli alti costi di
investimento iniziale e dei maggiori tempi di attesa per i primi frutti, ma via via si affermerà, tanto che
lo troviamo in età moderna e contemporanea nelle aree meglio esposte (Pellezzano e Capriglia), ma
giammai in proporzioni esorbitanti. Se grande assente appare finora (dalle fonti emerse) il classico
contratto settennale ad pastinandum, gli sottentrano tipi simili alla mezzadria e a più lunga scadenza,
specie nelle zone basse, le prime ad essere dissodate e coltivate per il mercato, vuoi a motivo della
presenza di più estesi spazi piani, vuoi per la maggiore vicinanza di Salerno. Nelle future frazioni alte
del comune le fonti lasciano supporre più ristrette aree dissodate e molte invece destinate alla pastorizia e alla boschicoltura8 .
La nascita e lo sviluppo di attività industriali, artigianali e mercantili nel tardo Medio Evo dovette
trasformare progressivamente i caratteri del paesaggio naturale e agro-pastorale, prima sui terrazziconoide di media collina (opifici, canali, piscine per la raccolta d’acque al servizio delle ruote idrauliche, già azionate per i mulini, e nel ‘700 anche gualchiere), poi “più in grande” nel fondovalle. Lo
dimostra la vicenda della localizzazione industriale delle filande e poi fonderie svizzere dallo spirare
degli anni Trenta dell’Ottocento fino al primo conflitto mondiale, quando si trasformarono in Manifatture Cotoniere Meridionali: un successo che sfruttava i requisiti originari del sito (acque, salti naturali,
posizione geografica prossima al porto salernitano e lungo l’asse proiettato verso l’interno), ma non
meno i fattori antropici, come la incentivante politica industriale dei Borboni, il personale operaio, la
“mentalità” e le iniziative imprenditoriali preesistenti (mulini, ramiere e fonderie della Mensa Arcivescovile e del Principe D’Angri) (Aversano, 1987c, pp. 176-179).
L’accentuarsi della fisionomia extragricola e l’instaurazione della religiosità post-tridentina cambiarono per questa zona che, dal punto di vista della giurisdizione vescovile, rientrava – occorre ricordarlo – nella Foria di Salerno, anche i connotati della pratica religiosa e cultuale. A tutt’oggi infatti la
gerarchia dei Santi patroni, basata su S. Maria delle Grazie a Capriglia, S. Anna di Pellezzano, S.
Nicola di Coperchia, S. Bartolomeo di Capezzano e S. Maria della Neve a Cologna) ha obliterato
completamente la devozionalità medievale, fortemente bizantineggiante e fondata sulle chiese di S.
Cecilia (tra Capriglia e Pellezzano), S. Giovanni di Coperchia e S. Marco alle Pezze (nella parte bassa
di questo casale), infine S. Maria de (o ad) Columna (Aversano, 1992b, passim).
8
Vale la pena, anche a soddisfazione del lettore sensibile, accennare alle espressioni usate nelle fonti e da cui si ricavano le fattezze
del paesaggio agrario e di qualche aspetto del genere di vita nel Medioevo. Scelgo solo da alcuni documenti, più emblematici, contenuti
per lo più nel Codex Diplomaticus Cavensis (Morcaldi, Schiani, De Stephano, 1873-1893). Uno dei più antichi (n. CXCV, del 957,
C.D.C., Vol. I), parla di una «terra cum pastino in locum Capaczana, ubi Correianum dicitur», rincalzato da un altro (n. CCI, del 959,
C.D.C., Vol. I), in cui si legge che in un «locum correganum… (lo stesso luogo, altre volte, è anche designato con la variante «corsano»,
oggi «Corgiano» e «Gorgiano») seminationem sit terra ipsa triticum medium cupellum ad cupellum dmercatum venalicium iuxta rationem
seminatum». Informazioni davvero “strategiche”, che testimoniamo la messa a coltura già prima del Mille e perfino la produzione di
grano destinato al commercio, possibile attraverso una «via publica», probabilmente di fondovalle (C.D.C., doc. n. MXCIII del 1047,
Vol. VII). In altri documenti c’è riferimento ai «sidilia» (terrazzamenti), su cui sorgono case e palmenti, ai contratti agrari, che registrano forme quasi-mezzadrili, dodicennali e con corresponsioni in natura da parte del contadino, attorno al Mille (C.D.C., doc. n. DCCXX
del 1020, Vol. V), ma più tardi con canone in moneta e in natura fino al semplice fitto in danaro di un fondo, per 19 anni: Codice
diplomatico Salernitano, V. I, doc. XXVIII del 1217 (Carucci, 1934). Il pericolo della palude investe non soltanto il basso fondovalle, se
nel 1058 (C.D.C., doc. MCCLXIV, Vol. VIII) si nominano «rebus in locum Copercle ubi padule dicitur» e una «pecia de terra cum
arbustis et aliis arboribus», ma altrove anche le buone conoscenze tecnico-agronomiche degli ortolani che hanno ben ordinato e parcellizzato
il terreno: registrando una permuta di beni «in loco Lyrni» (il fiume con l’agglutinamento dell’articolo), un documento (n. CLXVI del
1260, in C.D.S., V. I) cita «pecie quindecim», coltivate e divise «secundum ortulanorum mores».
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Altri risultati emergenti dalla classificazione di dettaglio dei toponimi
L’interpretazione e classificazione toponimica, fatta con il supporto del computer, consente a questo punto ulteriori e utili approfondimenti quantitativi e qualitativi sugli aspetti identitari del
microterritorio esaminato: il che mi appresto a fare, anche per offrire un modello interpretativo –
scientifico e didattico insieme – che vada oltre il meccanicismo delle combinazioni di numeri e di
lettere siglanti i toponimi. Soccorre in proposito la Tab. III e la prima colonna della Tab. IV, la cui
analisi condurrà nel dettaglio degli item di successiva specificazione rispetto a quelli principali (i
“rami” e “rametti” dell’albero secondo cui è impostato lo schema qui proposto).
Orbene, la tipologia delle sedi umane, che contrassegnano con 26 toponimi il territorio, si esprime
innanzitutto con il sub-item s.aa, che richiama l’esistenza delle sedi accentrate, nel nostro caso corrispondenti alle note frazioni comunali, con in più un nucleo (Gorgiano) e la reiterazione del nome
comunale in toponimi composti, portatori di significati d’altro genere (Croce di Pellezzano, ecc.). Più
o meno sullo stesso piano quantitativo si pongono le sedi isolate e sparse per la campagna (s.ie),
risalenti già alla prima età moderna ma incrementatesi nell’Ottocento e ai primi del secolo scorso
(toponimi composti il cui primo termine è Casa, col secondo che è cognome di famiglie importanti,
quali Grillo, Rossi, Braca: cfr. oltre) o semplicemente ubicativi (della Montagna, Pariti), oppure fortificate (Torre), addette a funzioni di riscossione d’imposte (La Gabella) o infine esprimenti la predialità
romana (Casignano, ecc.). È questo, della presenza di sedi sparse oltre le accentrate, uno dei tratti
distintivi del territorio (tipico peraltro di uno sviluppo insolito, specie per l’Antico Regime), che tuttavia è venuto meno nel secondo dopoguerra per l’abbandono delle terre e la dissennata espansione
edilizia.
Queste stesse costruzioni sono legate a una funzione agricolo-pastorale, talvolta rimarcata dal termine Masseria (Galdi, Mandrizzo, Toriello), ma altrettanto e più sovente con incrociate funzioni produttive (le ville-fabbriche di cui ho trattato in precedenti ricerche: Aversano, 1987c) e residenziali
esaltate dal loro carattere artistico-monumentale: Villa Pastore, Casa Pastore, Casina Marzio. Una
quota minima riguarda edifici con funzioni civili ed economico-trasportazionali (Staz. di Pellezzano,
Scuola) oppure religiose (Spirito Santo): la linea ferroviaria Salerno-Mercato San Severino, ora rivitalizzata dopo essere stata per anni ramo secco, finisce per essere emblematica ancora una volta della
caratteristica funzione della Valle dell’Irno e del Comune di Pellezzano, quella di asse di collegamento nord-sud ed est-ovest, in rapporto privilegiato col porto di Salerno.
Fra i toponimi schedati con la lettera t una buona metà designa “banalmente” rilievi o loro vette o
ripiani (Acqua del Corvo9 , C. della Montagna, Cappella e Monte Taborre, Croce di Pellezzano, P.gio
Arenella, P.gio Cuculo) o più precisi caratteri morfologici o ubicativi (Le Creste, Monte del Cimitero);
i restanti richiamano altri aspetti della oromorfologia (t.al e t.vp), magari con aggettivazioni diminutive
“proporzionanti” (Costa Grande, Mass.a Toriello, Pendino, V.ne e V.co della Foce, Via Vic.le della
Piana), mentre solo uno (Grotta S. Bartolomeo) richiama il carsismo, che pure è abbastanza diffuso sul
territorio per la natura calcarea dei rilievi.
Passando all’idronimia di superficie e sotterranea, che ha avuto più “successo” nel meccanismo
designativo, data la preziosità del liquido per usi potabili, irrigatori e artigiano-industriali, si registra
che, su 11 unità di questo tipo, 9 sono a carattere naturale, di cui la maggior parte relativa a sorgenti
(i.sg = Acqua del Corvo e del Pioppo, Sorg.te Palombara e Travertino, V.ne Acquara e Renelle, giusta
la nota permeabilità della roccia locale) e solo 2 legate a un intervento umano semplice o
tecnologicamente complesso (Fontanelle, Acq.to dell’Ausino). Ci si sarebbe aspettato, è vero, un
maggior riferimento toponimico all’utilizzo industriale dell’acqua, ma non si può dire che l’abbondanza di questo elemento non sia stata registrata dai nomi di luogo.
9
In realtà è deformazione di Acqua del Corno, cioè acqua proveniente da un’altura che sovrasta la frazione Capezzano: mi permetto
certificarlo per essere testimone portatore della dizione popolare dialettale (Accucuorno).
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Anche l’antroponomastica è presente con 11 attestazioni, riferite in maggioranza a costruzioni più
o meno eleganti o proprietà di religiosi (Grillo, i Medici, Galdi, Melone, Prete Martorano, Pastore,
Rossi, Braca, Marzio e Provenza): una storia di queste famiglie non è stata ancora fatta ma alcune
risalgono sicuramente al Medio Evo. Il fatto che tanti casati attestati in fonti medioevali non siano
rimasti come toponimi dimostra il notevole cambiamento della classe dirigente a partire dall’età
aragonese10 e, quindi, una forte mobilità sociale nel tempo.
I toponimi contrassegnati dalla lettera v si riferiscono in 7 casi su 9 a vegetazione naturale (Ausino,
Pioppo, tre Pini, Foresta, Selva, Fratta e perfino Faeta)11 . La presenza di colture legnose collinari è
espressa solo da due toponimi: Vigna, ai confini settentrionali del comune con Baronissi, e Regoste,
che è italianizzazione deformante dell’espressione locale «‘A revusta», ossia arbustum, classico e
noto abbinamento di vite e albero (Aversano, 1992, p. 28 e 48); la scarsa incidenza di designazioni
agricole è confermata anche dagli appena 2 toponimi della categoria a, Jardino (richiamante il giardino mediterraneo e posto non a caso nel ristretto fondovalle) e S. Maria dei Mazzi, agionimo che ha
dato il nome anche alla strada ma in questo momento viene considerato in quanto espressivo di un tipo
di struttura fondiario-aziendale (sf) che almeno etimologicamente ha a che fare col noto termine maso,
presente in molte regioni nordorientali d’Italia, col significato di «casa con podere» o «villa vel locus
familiae», a seconda che lo si voglia far derivare da mansio-one o mansum (cfr., ad voces, Pellegrini,
1994): questa proprietà è situata infatti su uno dei terrazzi più larghi e più prossimi al fondovalle e più
dotati di acqua attingibile a falda freatica poco profonda, a parte l’immediata vicinanza di un valloneaffluente di destra dell’Irno.
Rappresentati allo stesso livello quantitativo della lettera v, i toponimi e sono relativi solo in tre casi
ad attività industriali di rilievo o tradizionale macinatura del grano (Fabbrica del P.te Fratta e Fabbrica
Nuova, Molino), per il resto a fatti comunicazionali: li ritroviamo quindi pari pari nelle 7 attestazioni
dell’item c.su, siglate come infrastrutture di uso pubblico (te e c, con la specificazione pu) interno,
ossia colleganti le zone basso-collinari all’alta collina, ma anche di contatto con comuni vicini come
Cava (Via Vic.le Foce), oltre naturalmente la già citata ferrovia Salerno-Mercato S. Severino.
Appuntando lo sguardo alla tipologia r, troviamo 8 toponimi, di cui uno in verità ripetuto in chiave
viaria (M. Taborre e Strada Vic.le Taborre, a richiamare il colle della trasfigurazione di Cristo), tre
relativi ai santi patroni di frazioni comunali (S. Anna per Pellezzano, S. Nicola per Coperchia e S.
Bartolomeo per Capezzano, benché questa volta il toponimo sia legato alla grotta altocollinare posta a
meno di 1 km a nord-ovest del centro di Pellezzano), uno dedicato al già citato eremo dello Spirito
Santo, forse d’origine medievale ma sicuramente appartenente ad un ordine diverso prima che passasse ai Padri Agostiniani di Colloreto e fosse infine soppresso nel 1653 in temperie post-tridentina
(Cosimato, s.d., pp. 91-93), l’altro alla Madonna di Costantinopoli, testimone del rito bizantino pretridentino e l’ultimo genericamente detto Prete Martorano, per indicare la proprietà di un religioso
certamente legato alla pratica liturgica della vicina chiesetta di Taborre.
Cuculo, Palombara e Tasso sono le uniche espressioni toponimiche relative ad animali riconoscibili (col dubbio che tasso sia la conifera omonima del mammifero appartenente alla famiglia delle martore), mentre Girasole, collinetta ritagliata dai due valloni dell’Acquara e della Foce (subaffluenti di
destra dell’Irno), si bea della sua felice – e non comune in zona – esposizione intorno-est, con
soleggiamento continuato per l’intero arco del nostro fulgente astro.
10
Mi riferisco a cognomi come Gaeta, Murino, Cibelli, Coppula, Furtino, Russo, Domnomusco (Aversano, 1992/b, p. 54). Se ne
possono aggiungere altri (D’Arco, Marchisano, Vigilante, Barone, De Stefano, ecc.), per cui rimando a una attestazione del Codice
Diplomatico Salernitano, veramente eccezionale come testimonianza topo-antroponomastica, relativamente al territorio pellezzanese
nell’ultimo periodo della Guerra del Vespro (doc. n. CCXVII, anno 1294, in Carucci, 1934).
11
Per essere a soli 629 m di altitudine, ai confini occidentali del comune, cioè tra Pellezzano e Cava de’ Tirreni, il toponimo Faeta ci
dice della presenza di una specie, il faggio, che dovrebbe allignare più in alto, al di sopra del castagno e della quercia: frutto dell’asprezza del clima in quel sito o relitto di un periodo a temperature più fredde?
- 63 -
Restano ora da commentare simultaneamente la 2ª e la 3ª colonna della tab. IV, devolute rispettivamente all’inquadramento geografico e linguistico-cronologico dei toponimi, con le previste specificazioni, oggettive e soggettive, pur eterogenee tra loro. Le combinazioni tra variabili che saranno rimarcate
sono solo un “assaggio” di quelle, più intricate e complesse, che il computer potrebbe elaborare (e che
in questa sede non sarebbe stato possibile proporre in tabelle e interpretare), consentendo di penetrare
così le intime maglie dell’identità territoriale. Ci si limiterà pertanto a segnalare delle combinazioni
che ci appaiono strutturalmente significative fra tutti gli “incroci” possibili e registrabili.
Intanto, per evitare un conteggio complessivo reiterato e sovrabbondante, ritorniamo innanzitutto
alla Tab. 1, avvalendocene per annotare che i toponimi semplici sono 29 (il 40% del totale), quelli
composti sono 43 (il 60%), a testimonianza di una protratta frequentazione stabile di comunità umane
che ha comportato una necessità specificativa ulteriore nell’espressione linguistica (rispetto ai toponimi
semplici) a seguito di mutamenti introdotti dalle attività materiali e spirituali delle stesse. Nel loro
insieme essi sono siti maggioritariamente in collina, che difatti è stata maggiormente plasmata dai
fattori umani (55, ossia il 77%), con una ridotta quota di pianura (11, pari al 15%) e minima in montagna (6, cioè l’8%) e partecipano in prevalenza (compresi i centri principali delle frazioni) dell’habitat
rurale-pastorale del passato (63), restando in contesto urbano solo 9 toponimi, vale a dire S. Anna,
Scuola, Staz. di Pellezzano, V.la Pastore, C.sa Pastore, Casa Braca, C.na Marzio, Fabbrica del P.te
Fratta, Fabbrica Nuova12 .
Il loro legame con i caratteri del territorio è quasi assoluto, con l’eccezione di Cappella e Monte
Taborre, che evoca la nota collinetta di Gerusalemme, e in tal senso si considera trasmigrato e non
“endogeno”, pur rispondendo a una religiosità cattolica e cristocentrica radicata in loco. Si tratta, poi,
sempre di oggetti concreti e visibili, tanto che solo 5 volte si è potuto siglare con la lettera F (=
fenomeni), intesa ad indicare il carattere giurisdizionale di strade vicinali piuttosto che la sua evidenza topografica.
Un po’ più sottile e da prendere cum grano salis è la distinzione fra toponimi di tipo naturale o
antropico, giacché la “conta” che se ne fa deriva spesso da formazioni composte, contenenti l’uno e
l’altro elemento: registriamo 65 designazioni di fatti umani e 52 riguardanti fatti della natura, con un
solo caso dubbio (Pariti). Considerato che la leggera prevalenza dei primi dipende anche dalla loro
maggiore incidenza nell’elenco derivato dal Catasto, si deduce anche per questa via un bilanciamento
– già peraltro emerso da diversi indizi – tra attività umane e dati dell’ambiente fisico.
L’esame della Tab. IV ci porta ad annotare delle correlazioni significative quantunque “scontate”.
Ad esempio, la scarsa toponomastica di montagna, quando non generica (Monte), non può che riferirsi
a forme del terreno legate spesso alla sua natura mineralogica oppure a vegetazione spontanea e presenze faunistiche (Le Creste, P.ggio Arenella e Cuculo, Varco Faeta, la Foresta), avere carattere non
urbano ed essere connessa a luoghi specifici, quindi conservare riferimento ad oggetti e non a fenomeni. Quella di pianura contiene il riferimento ad acque sorgive carsiche (Venelle), ad agricoltura specializzata (Jardino, Regoste, Vigna), alle sedi non collinari, a opifici industriali, attività terziarie pubbliche o vie di comunicazione viaria o ferroviaria (la Gabella, Staz. di Pellezzano, ecc.), tutte comunque
contrassegnate dalla lettera A. La fascia collinare tiene un po’ in sé quasi tutti gli oggetti e fenomeni
riscontrabili nell’intero territorio, vuoi a causa della sua maggiore estensione, vuoi per il suo carattere
di transizione “unificante”.
Quanto al meccanismo di designazione toponimico, le tipologie e le fasce altimetriche sembrano
poco incidere in un senso e nell’altro: la constatazione denotativa è generalizzata ma gli unici casi in
cui sia sottesa una “emozione” si riscontrano in collina, alta o bassa che sia. Mi riferisco a Cappella
12
Sarà bene ribadire che, per una precisa scelta metodologica, si è evitato di prendere in considerazione le recenti intitolazioni delle
strade urbane, che fanno parte di un capitolo odonomastico scarsamente indicativo, a mio parere, dell’identità stratificata, tanto più che
non sono in genere riportate nella topografia IGM e lo sono solo in parte nel Quadro d’Unione Catastale.
- 64 -
Taborre, Spirito Santo e C.le Pichiocca, il quale ultimo è forse l’unico toponimo da considerare bene
culturale per il suo etimo greco, antico o forse bizantino, che ha a che fare col toponimo Cilento
(Aversano, 1982).
La stratificazione cronologica ha la sua importanza per quanto attiene alla “profondità” dei caratteri originali del territorio. Nel nostro si registrano solo 3 toponimi prelatini, situati in collina: Ausino
(Acq.tto dell’), Pichiocca (C.lle) e Taborre (Cappella, Monte). Ne restano 8 latini (alcuni ripetuti più
volte, qualche altro dubbio): Corno (Acqua del), Cologna, Foce e Faeta (Varco della), Lamia (Vallone)
(?), a parte alcuni prediali romani (Casignano, Pellezzano, Gorgiano): sono ubicati tutti in collina con
l’eccezione di Gorgiano, sito in un falsopiano più prossimo al fondovalle e a Salernum, ma sempre
alla destra dell’Irno. Ad epoca medioevale appartengono Capriglia, Coperchia, Regoste, situati in
collina, e infine, con ubicazione di pianura, Mazzi (Strada Comunale S. Maria dei) e C. Grillo.
La maggioranza dunque (56 toponimi di cui 3 di dubbia cronologia) è ascrivibile al periodo successivo al Medio Evo fino ad oggi (Epme dello schema), con qualche possibilità che se ne specifichi l’età
moderna (Spirito Santo, P.te Fratta), contemporanea (Villa e Casa Pastore, Acq.tto dell’Ausino, con
riferimento al secondo termine del toponimo composto) e attuale (Fabbrica Nuova).
Quale identità? Prima, oltre ma sempre attraverso i toponimi
L’identità nominale (che, considerate le fonti, chiamerei anche ufficiale e residuale) proviene dunque al nostro comune da strati geolinguistici per larghissima parte antecedenti non solo il secondo
conflitto mondiale ma la stessa Unità d’Italia. Pur non mancando traccia memorica dell’occupazione
romana, che non dovette essere molto incisiva in collina, la maggiore conservatività riguarda dunque
i toponimi tardo e post-medioevali, a confermare che è proprio dal periodo aragonese che la Valle
dell’Irno e il Comune di Pellezzano in particolare inaugurano una stagione di proto-industrie, di attività artigianali e di commerci, avendo come punto di riferimento il vicinissimo porto di Salerno.
Dalla prevalente attività primaria dell’Alto Medio Evo, quando comunque si conserva la fondamentale funzione viaria del periodo antico, si passa dunque già forse dai primi del Trecento ma sicuramente in età aragonese a una specificazione secondario-residenziale (sedi accentrate e sparse) e
mercantile, con spiccate attitudini degli abitanti alle relazioni orizzontali esterne, il che rimarrà il
tratto distintivo di tutta la successiva storia, permanendo indelebile ancora oggi perfino nell’incompleto patrimonio toponomastico qui esaminato. Da esso non manca la testimonianza dell’abbondanza
dell’elemento idrico, di un certo ricambio della classe dirigente e della mobile stratificazione sociale,
come di tanti aspetti via via annotati nel commento.
Ho trovato incoraggiante il fatto che, nel caso del Comune di Pellezzano, la sua personalità geografica sia apparsa già abbastanza identificata alla lettura sincronica degli item delle 13 categorie-base,
quasi che la scure del tempo e delle circostanze (fra cui la selezione che per esigenze tecniche l’I.G.M.
fa dei toponimi nelle tavolette: Vecchio, 1983) abbia agito parallelamente e nella stessa misura a
tagliare rami e rametti, di talché quello che potremmo chiamare «indice di obliterazione» dei toponimi
abbia funzionato quasi equamente per tutti i tipi. Casualità, fortuna o «costante» statistica da attendersi ancora in altre future ricerche, impostate secondo lo stesso metodo e gli stessi procedimenti qui
adottati? Voglia il cielo che venga verificata quest’ultima ipotesi!
Certo i toponimi, anche se raccolti a tappeto, consultando tutti i documenti reperibili (indagine sul
terreno compresa), restano pur sempre una fonte tra le fonti. Non si può negare tuttavia, a mio modesto
avviso, la loro particolare valenza da nessun’altra documentazione posseduta: il fatto che nella loro
rete d’insieme, per quanto lacunosa in alcune maglie – e talora anche singolarmente considerati
(toponimi-spia) – essi danno la percezione spazio-temporale degli strati sedimentari accavallatisi nei
secoli e “presentizzano”, per così dire, le tracce delle molteplici attività economiche ed estrinsecazioni
socio-culturali degli uomini del passato.
- 65 -
Nel nostro caso la rete toponomastica è stata adoperata come “cannocchiale” per confermare
acquisizioni già emerse dalla “normale”, benché insufficiente ricerca in precedenza svolta su fonti
extratoponimiche: su questo versante anche l’obiettivo scientifico perseguito mi sembra soddisfacentemente raggiunto (a parte quello didattico su cui non c’è alcun dubbio), giacché lo schema interpretativoparafrasante ha funzionato nel suo complesso, anche se va ricalibrato in singoli punti. Un problema
abbastanza serio tuttavia permane ed ha l’aria di un apparente paradosso: lo schema è troppo macchinoso e a un tempo incompleto nella possibilità di classificare le tipologie (e le sfumature di significato) della sterminata massa dei toponimi potenzialmente reperibili. Va allora semplificato, lasciando
alla spiegazione discorsiva, di volta in volta, la risoluzione di questi casi “non ingabbiati” dalla classificazione? Oppure – coadiuvante il computer con le sue infinite possibilità elaborative – va integrato
e arricchito al massimo possibile? Per ora resto su questa seconda ipotesi, che intanto rinforza la
caratura didattica della proposta (il computer non si può più espungere dall’insegnamento), giacché
ritengo che valga la pena «distinguere» sempre più tipologicamente, sul versante scientifico, anche
per evitare il rischio delle sabbie tautologiche…
Tale rischio mi pare abbastanza scongiurato in partenza, a riflettere su quanto anche in questo
contributo è stato fatto. Esso dimostra che, se il punto di vista scelto sembra porre i toponimi come un
primum, diremmo cronologico, in realtà anche nella fase decodificatoria sono stato costretto a risalire
al “prima del prima”. Infatti, poiché parecchi toponimi ponevano dei problemi interpretativi, essi
hanno funzionato quasi come “avvocati del diavolo” contro un eventuale atteggiamento superficiale
di fronte a certe domande storico-geografiche poste ipso facto dagli stessi, che a nessuno è consentito
di bypassare. D’altro canto, nulla ha vietato di avvalermi delle conclusioni raggiunte attraverso l’analisi extratoponimica e toponimica, magari semplicemente linguistica, di altri: sotto questo profilo, il
mio approccio è stato un “dopo” e sicuramente un “durante”…
Cerco una prima conclusione: che si voglia o no condividere la bontà dell’approccio qui proposto,
l’importante è forse “passare” comunque «attraverso» questa fonte, ma obbligatoriamente, cioè con
seria aspettativa di conoscenza suo tramite. Essa ha dimostrato di costituire, innanzitutto, una ineludibile
«massa di manovra» per la ricerca storico-territoriale in ottica identitaria, poi di essere intrinsecamente vaccinante contro il settorialismo e la verticalizzazione della ricerca: la toponomastica, lungi dal
costituire fonte secondaria e oggetto di studio di un settore periferico e specialistico, o magari un
“lusso” di raffinati, obbliga a un approccio interdisciplinare e costringe a una visione sistemica del
territorio: non mi sembra poco, né scientificamente né didatticamente!
- 66 -
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- 68 -
Classificazione geografica dei toponimi,
mirata a definire l’identità di un contesto
(Schema sperimentale)
- 69 -
- 70 -
- 71 -
- 72 -
- 73 -
- 74 -
- 75 -
- 76 -
Inquadramento generale del toponimo
(ubicazione, natura, radici,
cronologia e meccanismo onomaturgico)
- 77 -
- 78 -
- 79 -
- 80 -
Tab. I/A - CLASSIFICAZIONE TOPONIMI COMUNE DI PELLEZZANO
(ricavati dalla tavoletta I.G.M.)
I.G.M.
Coord.
TOPONIMO
SIGLA
INQUADRAMENTO
GEOGRAFICO
INQUADRAMENTO
LINGUISTICO
2-3 C
3D
3A
4D
3-4 E
4-5 C
3E
4C
4D
3-4 A
4B
5C
3C
4D
4E
3A
2 BC
2-3 B
2B
4-5 D
1B
4-5 D
2D
3D
4A
3-4 D
3-4 C
3-4 C
1C
5C
1C
1B
1A
2-3 D
3B
4B
3D
3 BC
3B
3B
6B
3E
2-3 C
3B
4B
2-3 C
3C
3-4 A
1-2 B
2C
2C
1C
4E
3-4 A
Acq.to dell’Ausino
Acqua del Corvo
Acqua del Pioppo
Bosco tre Pini
C. della Montagna
C. Grillo
C. Pariti
C.lle Pichiocca
Cappella Taborre
Capriglia
Casignano
Cologna
Coperchia
Corgiano
Costa Grande
Croce di Pellezzano
Girasole
Grotta S.Bartolomeo
I Medici
Iardino
La Foresta
La Gabella
Le Creste
M.Taborre
M.te del Cimitero
Mass.a Galdi
Mass.a Mandrizzo
Mass.a Toriello
Melone
Montagnone
Monte
P.gio Arenella
P.gio Cuculo
Pagliarulo
Pellezzano
Pendino
Prete Martorano
Regoste
S.Anna
Scuola
Selva
Sorg.te Palombara
Sorg.te Travertino
Spirito Santo
Staz. Di Pellezzano
Tasso
Torre
V.la Pastore
V.ne Acquara
V.ne della Foce
Varco della Foce
Varco Faeta
Venelle
Vigna
i.an.ic+v.lg.nc
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i.sg+v.lg.nc
v.lg.nc+v.lg.nc
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C,R,L+L,O+O,N+N
C,R,L+L,O+O,N+N
M,R,L+L,O+O,N+N
P,R,L,O,N
P,RL,O,A
D+D,Eco+Epr
D+D,Epme(Ela)
D+D,Epme(?)
D+D,Epme(?)
D+D,Epme(?)
D+D,Eme
D+D,(?)
D+I,Epme+Epr,SI
D+I,Epme+Epr
D,Eme
D,Ela
D,Ela
D,Eme
D,Els
D,Epme
D+D,Epme+Eme
D,Epme
D+D,Epme
D,Epme
D,Epme
D,Epme
D,Epme
D,Epme
D+I,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
D,Epme
D,Epme
D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
D,Epme
D,Ela
D,Epme
D+D,Epme
D,Eme
D,Epme
D,Eat
D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
I,Epme.Emo
D+D,Epme.Ec+Ela
D,Epme
D,Epme
D+D,Epme.Eco
D+D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme(Ela)
D+D,Epme(Ela)
D,Epme
D,Epme
- 81 -
- 82 -
Acquara
C.sa Pastore
Casa Rossi
Casa Braca
C.na Marzio
Fabbrica del P.te Fratta
Fabbrica Nuova
Molino
S.Nicola
Strada Com.le S.Maria dei Mazzi
Strada Vicinale Fontanelle
Strada Vic.le Parito
Strada Vic.le Tobore
Vallone Acqua del Corvo
Vallone Lamia
Vallone Provenza
Via Vic.le della Piana
Via Vic.le Foce
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
TOPONIMO
c.su+e.te.pu+t.vp
c.su+e.te.pu+t.vp
t.al(i.fl)+h
(t.al)(i.fl)+i.fl
(t.al)(i.fl)+i.sg+t.ri
c.su+e.te.pu+r
c.su+e.te.pu+(?)
c.su+e.te.pu+i.an.is
c.su+e.te.pu+r.MN+a.sf
r.al
e.it.mu
e.it^
e.it+c.su+v
s.es.pc+h
s.ie.es.pc.+h
s.ie.es.pc+h
s.es.pc+h
i.fl
SIGLA
C,R,L+L+L,O+F+O
C,R,L+L+L,O+F+O,A+A+N
C,R,L+L,O+O,N+A
C,R,L+L,O+O,N+N
C,R,L+L+L,O+O+O,N+N+N
C,R,L+L+T,O+F+O,A+A+A
C,R,L+L+L,O+F+O,A+A+(?)
C,R,L+L+L,O+F+O,A+A+N
P,R,L+L+L+L,O+F+O+O,A+A+A+A
P,R,L,O,A
C,R,L,O,A
P,U,L,O,A
P,U,L+L+L,O+O+O,A+A+N
C,U,L+L,O+O,A+A
C,U,L+L,O+O,A+A
C,R,L+L,O+O,A+A
C,U,L+L,O+O,A+A
C,R,L,O,N
INQUADRAMENTO GEOGRAFICO
Tab. I/B - CLASSIFICAZIONE TOPONIMI COMUNE DI PELLEZZANO
(ricavati dal Quadro d’Unione catastale)
D+D+D,Epme(Ela)
D+D+D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme(Ela?)
D+D+D,Epme(Ela)
D+D+I,Epme.Eco+Epme
D+D+D,Epme.Eco+Epme
D+D+D,Epme.Eco+Epme
D+D+D+D,Epme.Eco+Eme
D,Epme
D,Epme
D,Epme.Eat
D,Epme.Emo
D,Epme
D,Epme
D,Epme
D,Epme.Eco
D,Epme
INQUADRAMENTO LINGUISTICO
- 83 -
Percentuale
36,11
33,33
15,28
15,28
12,5
12,5
11,11
9,72
4,17
2,78
1,39
Frequenza
26
24
11
11
9
9
8
7
3
2
1
72
@totale:=count(*)
p
a
f
c
r
v
e
i
h
t
s
Simbolo
POSIZIONE ED ESPOSIZIONE DEL LUOGO
AGRICOLTURA (settore primario salvo caccia e pesca)
FAUNA E/O ATTIVITA’ VENATORIE ESCLUSE LE SPECIE ALLEVATE DI ANIMALE DOMESTICI
COMUNICAZIONI - TRASPORTI
AGIONIMI E NOMI LEGATI ALLA SFERA ECCLESIASTICO-RELIGIOSA
VEGETAZIONE E COLTURE
ATTIVITA’ EXTRAGRICOLE E ARTIGIANALI
IDROGRAFIA
TOPONIMI (non prediali né direttamente rapportabili all’agricoltura) DA COGNOMI E NOMI PERSONALI
TERRENO (natura, forme ed altri aspetti visibili o sensibili del paesaggio geografico)
SEDI
Descrizione
Tab. II - RICORSIVITA’ DEI TOPONIMI DELLA CATEGORIA - BASE
Tab. III - SPECIFICAZIONI NELL’AMBITO DELLA CATEGORIA - BASE
@totale:=count(*)
26
frequenza
8
7
6
3
3
2
1
1
1
1
percentuale
30,77
26,92
23,08
11,54
11,54
7,69
3,85
3,85
3,85
3,85
simbolo
s.ie
s.aa
s.es
s.es.mc
s.es.pc
s.ex
s.es.al
s.kc
s.kc.kk
s.tm
descrizione
SPARSE (ISOLATE)
ACCENTRATE O ANNUCLEATE
EDIFICI DEL MONDO RURALE
MASSERIE O CASE A CORTE
VECCHI PODERI, CASCINE
ED. PUBBLICI CIVILI
ALTRO
COSTRUZ. DI CULTO
CHIESE, CAPPELLE, CIMITERI
TEMPORANEE
@totale:=count(*)
24
frequenza
13
5
5
1
percentuale
54,17
20,83
20,83
4,17
simbolo
t.ri
t.al
t.vp
t.do
descrizione
RILIEVI E/O LORO VETTE
ALTRI ASPETTI DELLA LORO OROMORFOLOGIA
VALLI, PIANURE, ALTIPIANI, SELLE, RIPIANI
DOLINE O ALTRE CAVITA’ CARSICHE
@totale:=count(*)
9
frequenza
6
6
3
1
percentuale
66,67
66,67
33,33
11,11
simbolo
e.te
e.te.pu
e.it
e.it.mu
descrizione
TERZIARIO
USO PUBBLICO
INDUSTRIE DI TRASFORMAZIONE
MULINI
@totale:=count(*)
9
frequenza
8
6
1
1
percentuale
88,89
66,67
11,11
11,11
simbolo
v.lg
v.lg.nc
v.lg.co
v.lg.co.vi
descrizione
LEGNOSA
LEG. NON COLTIVATA
LEG. COLTIVATA
VITE
@totale:=count(*)
11
frequenza
7
2
2
1
1
percentuale
63,64
18,18
18,18
9,09
9,09
simbolo
i.sg
i.an
i.fl
i.an.ic
i.an.is
descrizione
SORGENTIFERE
ANTROPICA
FLUVIALE
OP.IDR.COMPLESSE
OP.IDR.SEMPLICI
@totale:=count(*)
8
frequenza
3
1
percentuale simbolo
37,5 r.al
12,5 r.MN
descrizione
ALTRI NOMI DI SANTI
MARIA DI NAZARETH
@totale:=count(*)
7
frequenza
7
percentuale simbolo
100 c.su
descrizione
INFRASTRUTT. E SUPPORTI
- 84 -
Tab. IV - INQUADRAMENTO GENERALE DEI TOPONIMI
simbolo toponimo
p
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
t
i
i
i
i
i
i
i
i
i
i
i
v
v
v
v
v
v
v
v
v
f
f
f
a
a
s
s
s
s
Girasole
Acqua del Corvo
C. della Montagna
C.le Pichicca
Cappella Taborre
Costa Grande
Croce di Pellezzano
Grotta S.Bartolomeo
Le Creste
M.Taborre
M.te del Cimitero
Mass.a Toriello
Montagnone
Monte
P.gio Arenella
P.gio Cuculo
Pendino
Sorg.te Travertino
V.ne della Foce
Varco della Foce
Varco Faeta
Vallone Acqua del Corvo
Vallone Provenza
Via Vic.le della Piana
Via Vic.le Foce
Acq.to dell’Ausino
Acqua del Corvo
Acqua del Pioppo
Sorg.te Palombara
Sorg.te Travertino
V.ne Acquara
Venelle
Acquara
Strada Vicinale Fontanelle
Vallone Acqua del Corvo
Vallone Lamia
Acq.to dell’Ausino
Acqua del Pioppo
Bosco tre Pini
La Foresta
Regoste
Selva
Varco Faeta
Vigna
Fabbrica del P.te Fratta
P.gio Cuculo
Sorg.te Palombara
Tasso
Iardino
Strada Com.le S.Maria dei Mazzi
C. della Montagna
C. Grillo
C. Pariti
Cappella Taborre
sigla
geo
(ubicazione, natura, radici)
ling
(meccanismo onomaturgico
e cronologia)
p.ez
i.sg+t.ri
s.ie+t.ri
t.ri+t.al
s.kc.kk+t.ri
t.al^
t.ri(r)+s.aa(a.pd.ro)
t.do+r.al
t.ri
t.ri+r
t.ri+s.ke.kk
s.es.mc+t.al^
t.ri^
t.ri
t.ri+t.ge
t.ri+f.fr
t.al^
i.sg+t.ge
(t.al)(i.fl)+t.vp
t.vp+t.vp
t.vp+v.lg.nc
(t.al)(i.fl)+i.sg+t.ri
t.al(i.fl)+h
c.su+e.te.pu+t.vp
c.su+e.te.pu+t.vp
i.an.ic+v.lg.nc
i.sg+t.ri
i.sg+v.lg.nc
i.sg+f.fr
i.sg+t.ge
(t.al)(i.fl)+i.sg
i.sg^
i.fl
c.su+e.te.pu+i.an.is
(t.al)(i.fl)+i.sg+t.ri
(t.al)(i.fl)+i.fl
i.an.ic+v.lg.nc
i.sg+v.lg.nc
v.lg.nc+v.lg.nc
v.lg.nc
v.lg.co.vi.al
v.lg.nc
t.vp+v.lg.nc
v.lg.vi
e.it+c.su+v
t.ri+f.fr
i.sg+f.fr
f.fr
a(v.co)
c.su+e.te.pu+r.MN+a.sf
s.ie+t.ri
s.ie.es.pc+h
s.ie.es.pc+(?)
s.kc.kk+t.ri
C,R,L,O,N
C,R,L,O+O,N+N
C,R,L,O+O,A+N
C,R,L,O+O,N+N
C,R,T,O+O,A+N
C,R,L,O,N
C,R,L,O+O,N+A
C,R,L,O+O,N+A
M,R,L,O,N
C,R,L+T,O+O,N+A
C,R,L,O+O,N+A
C,R,L,O+O,A+N
C,R,L,O,N
M,R,L,O,N
M,R,L+L,O+O,N+N
M,R,L+L,O+O,N+N
C,R,L,O,N
C,R,L+L,O+O,N+N
C,R,L+L,O+O,N+N
C,R,L+L,O+O,N+N
M,R,L+L,O+O,N+N
C,R,L+L+L,O+O+O,N+N+N
C,R,L+L,O+O,N+A
C,R,L+L+L,O+F+O,A+A+N
C,R,L+L+L,O+F+O
C,R,L,O+O,A+N
C,R,L,O+O,N+N
C,R,L,O+O,N+N
C,R,L+L,O+O,N+N
C,R,L+L,O+O,N+N
C,R,L+L,O+O,N+N
P,R,L,O,N
C,R,L,O,N
C,R,L+L+L,O+F+O,A+A+N
C,R,L+L+L,O+O+O,N+N+N
C,R,L+L,O+O,N+N
C,R,L,O+O,A+N
C,R,L,O+O,N+N
C,R,L,O+O,N+N
M,R,L,O,N
C,R,L,O,A
C,R,L,O,N
M,R,L+L,O+O,N+N
P,RL,O,A
P,U,L+L+L,O+O+O,A+A+N
M,R,L+L,O+O,N+N
C,R,L+L,O+O,N+N
C,R,L,O,N
P,R,L,O,A
P,R,L+L+L+L,O+F+O+O,A+A+A+A
C,R,L,O+O,A+N
P,R,L,O+O,A+A
C,R,L,O+O,A+(?)
C,R,T,O+O,A+N
D,Epme
D+D,Epme(Ela)
D+D,Epme(?)
D+I,Epme+Epr
D+I,Epme+Epr
D,Epme
D+D,Epme+Eme
D+D,Epme
D,Epme
D+I,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
D,Epme
D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme(Ela)
D+D,Epme(Ela)
D+D+D,Epme(Ela)
D+D,Epme
D+D+D,Epme
D+D+D,Epme(Ela)
D+D,Eco+Epr
D+D,Epme(Ela)
D+D,Epme(?)
D+D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
D,Epme
D,Epme
D+D+D,Epme.Eco+Epme
D+D+D,Epme(Ela)
D+D,Epme(Ela?)
D+D,Eco+Epr
D+D,Epme(?)
D+D,Epme(?)
D,Epme
D,Eme
D,Epme
D+D,Epme(Ela)
D,Epme
D,Epme.Emo
D+D,Epme
D+D,Epme
D,Epme
D,Epme
D+D+D+D,Epme.Eco+Eme
D+D,Epme(?)
D+D,Eme
D+D,(?)
D+I,Epme+Epr
- 85 -
simbolo
toponimo
sCapriglia
s
Casignano
s
Cologna
s
Coperchia
s
Corgiano
s
Croce di Pellezzano
s
La Gabella
s
M.te del Cimitero
s
Mass.a Galdi
s
Mass.a Mandrizzo
s
Mass.a Toriello
s
Pagliarulo
s
Pellezzano
s
Scuola
s
Spirito Santo
s
Staz. Di Pellezzano
s
Torre
s
V.la Pastore
s
C.sa Pastore
s
Casa Rossi
s
Casa Braca
s
C.na Marzio
e
Fabbrica del P.te Fratta
e
Fabbrica Nuova
e
Molino
e
Strada Com.le S.Maria dei Mazzi
e
Strada Vicinale Fontanelle
e
Strada Vic.le Parito
e
Strada Vic.le Tobore
e
Via Vic.le della Piana
e
Via Vic.le Foce
c
Fabbrica del P.te Fratta
c
Strada Com.le S.Maria dei Mazzi
c
Strada Vicinale Fontanelle
c
Strada Vic.le Parito
c
Strada Vic.le Tobore
c
Via Vic.le della Piana
c
Via Vic.le Foce
r
Grotta S.Bartolomeo
r
M.Taborre
r
Prete Martorano
r
S.Anna
r
Spirito Santo
r
S.Nicola
r
Strada Com.le S.Maria dei Mazzi
r
Strada Vic.le Tobore
h
C. Grillo
h
I Medici
h
Mass.a Galdi
h
Melone
h
Prete Martorano
h
V.la Pastore
h
C.sa Pastore
h
Casa Rossi
h
Casa Braca
h
C.na Marzio
h
Vallone Provenza
sigla
geo
(ubicazione, natura, radici)
ling
(meccanismo onomaturgico
e cronologia)
s.aa(s.es.al)(a.av)
s.ie(a.pd.ro)
s.aa
s.aa(t.al)
s.aa(a.pd.ro)
t.ri(r)+s.aa(a.pd.ro)
s.ie(e)(c)
t.ri+s.ke.kk
s.es.mc+h
s.es.mc+s.es.al(av)
s.es.mc+t.al^
s.tm^
s.aa(a.pd.ro)
s.ex(e.te.pu)
r+s(s.kc.ab)
s.ex(c.su)+s.aa(a.pd.ro)
s.ie
s.es.pc+h
s.es.pc+h
s.ie.es.pc+h
s.ie.es.pc.+h
s.es.pc+h
e.it+c.su+v
e.it^
e.it.mu
c.su+e.te.pu+r.MN+a.sf
c.su+e.te.pu+i.an.is
c.su+e.te.pu+(?)
c.su+e.te.pu+r
c.su+e.te.pu+t.vp
c.su+e.te.pu+t.vp
e.it+c.su+v
c.su+e.te.pu+r.MN+a.sf
c.su+e.te.pu+i.an.is
c.su+e.te.pu+(?)
c.su+e.te.pu+r
c.su+e.te.pu+t.vp
c.su+e.te.pu+t.vp
t.do+r.al
t.ri+r
r+h
r.al(s.kc.kk)
r+s(s.kc.ab)
r.al
c.su+e.te.pu+r.MN+a.sf
c.su+e.te.pu+r
s.ie.es.pc+h
h
s.es.mc+h
h
r+h
s.es.pc+h
s.es.pc+h
s.ie.es.pc+h
s.ie.es.pc.+h
s.es.pc+h
t.al(i.fl)+h
C,U,L,O,A
C,R,L,O,A
C,R,L,O,A
C,R,L,O,N
P,R,L,O,A
C,R,L,O+O,N+A
P,R,L,O,A
C,R,L,O+O,N+A
C,R,L,O+O,A+A
C,R,L,O+O,A+A
C,R,L,O+O,A+N
C,R,L,O,A
C,R,L,O,A
C,U,L,O,A
C,R,T,O,A
P,U,L+L,O+O,A+A
C,R,L,O,A
C,U,L+L,O+O,A+A
C,U,L+L,O+O,A+A
C,R,L+L,O+O,A+A
C,U,L+L,O+O,A+A
C,U,L+L,O+O,A+A
P,U,L+L+L,O+O+O,A+A+N
P,U,L,O,A
C,R,L,O,A
P,R,L+L+L+L,O+F+O+O,A+A+A+A
C,R,L+L+L,O+F+O,A+A+N
C,R,L+L+L,O+F+O,A+A+(?)
C,R,L+L+T,O+F+O,A+A+A
C,R,L+L+L,O+F+O,A+A+N
C,R,L+L+L,O+F+O
P,U,L+L+L,O+O+O,A+A+N
P,R,L+L+L+L,O+F+O+O,A+A+A+A
C,R,L+L+L,O+F+O,A+A+N
C,R,L+L+L,O+F+O,A+A+(?)
C,R,L+L+T,O+F+O,A+A+A
C,R,L+L+L,O+F+O,A+A+N
C,R,L+L+L,O+F+O
C,R,L,O+O,N+A
C,R,L+T,O+O,N+A
C,R,L+L,O+O,A+A
C,U,L,O,A
C,R,T,O,A
P,R,L,O,A
P,R,L+L+L+L,O+F+O+O,A+A+A+A
C,R,L+L+T,O+F+O,A+A+A
P,R,L,O+O,A+A
C,R,L,O,A
C,R,L,O+O,A+A
C,R,L,O,A
C,R,L+L,O+O,A+A
C,U,L+L,O+O,A+A
C,U,L+L,O+O,A+A
C,R,L+L,O+O,A+A
C,U,L+L,O+O,A+A
C,U,L+L,O+O,A+A
C,R,L+L,O+O,N+A
D,Eme
D,Ela
D,Ela
D,Eme
D,Els
D+D,Epme+Eme
D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme
D,Epme
D,Ela
D,Eat
I,Epme.Emo
D+D,Epme.Ec+Ela
D,Epme
D+D,Epme.Eco
D,Epme.Eco
D,Epme
D,Epme
D,Epme
D,Epme.Emo
D,Epme.Eat
D,Epme
D+D+D+D,Epme.Eco+Eme
D+D+D,Epme.Eco+Epme
D+D+D,Epme.Eco+Epme
D+D+I,Epme.Eco+Epme
D+D+D,Epme
D+D+D,Epme(Ela)
D,Epme.Emo
D+D+D+D,Epme.Eco+Eme
D+D+D,Epme.Eco+Epme
D+D+D,Epme.Eco+Epme
D+D+I,Epme.Eco+Epme
D+D+D,Epme
D+D+D,Epme(Ela)
D+D,Epme
D+I,Epme
D+D,Epme
D,Epme
I,Epme.Emo
D,Epme
D+D+D+D,Epme.Eco+Eme
D+D+I,Epme.Eco+Epme
D+D,Eme
D,Epme
D+D,Epme
D,Epme
D+D,Epme
D+D,Epme.Eco
D,Epme.Eco
D,Epme
D,Epme
D,Epme
D+D,Epme
- 86 -
Riassunto
Il territorio oggetto della ricerca-didattica corrisponde al comune di Pellezzano, nella Valle dell’Irno. Rilevati i toponimi
dalle tavolette I.G.M. al 25.000 (ed. del 1956) e dai Quadri d’Unione catastali, si è proceduto alla loro interpretazione e
codificazione secondo uno schema classificatorio composto da un centinaio di items, già proposto sotto forma convenzionale in una precedente ricerca, ma qui riproposta con un’assoluta novità: la sua informatizzazione attraverso uno schema
ad albero. Proprio questa opzione, ancora sperimentale, ha suggerito di limitare a un solo comune la ricerca, che l’Autore
voleva inizialmente estendere all’insieme della Valle dell’Irno.
Ogni toponimo, semplice o composto, è stato così “parafrasato” mediante una serie di simboli, ai quali si è pervenuto
non solo con la basilare analisi linguistica ma anche attraverso un approccio geografico-interdisciplinare, teso ad approfondire tutti gli aspetti stratigrafici del territorio.
Le frequenze relative di ciascun simbolo (esprimente oggetti e fenomeni osservati sotto il profilo planimetrico e
altimetrico) e il loro incrocio statistico multivariato dovrebbe condurre – secondo l’ipotesi metodologica di fondo – ad
individuare le componenti fondamentali dell’identità territoriale. Nel caso esaminato, l’identità nominale proviene da
strati geolinguistici per larghissima parte antecedenti non solo il secondo conflitto mondiale ma la stessa Unità d’Italia. Pur
non mancando traccia memorica dell’occupazione romana, che non dovette essere molto incisiva in collina, la maggiore
conservatività riguarda dunque i toponimi tardo e post-medioevali, a confermare che è proprio dal periodo aragonese che
la Valle dell’Irno e il Comune di Pellezzano in particolare inaugurano una stagione di proto-industrie, di attività artigianali
e di commerci, avendo come punto di riferimento il vicinissimo porto di Salerno.
Dalla prevalente attività primaria dell’Alto Medio Evo, quando comunque si conserva la fondamentale funzione viaria
del periodo antico, si passa dunque in età aragonese a una specificazione secondario-residenziale, con spiccate attitudini
degli abitanti alle relazioni orizzontali esterne, il che rimarrà il tratto distintivo di tutta la successiva storia, permanendo
indelebile ancora oggi perfino nel residuale patrimonio toponomastico qui esaminato. In definitiva, alle stesse conclusioni
dettate dalla ricerca basata sulle fonti extratoponimiche si giunge anche attraverso i toponimi, il che non solo conferma
quanto siano legittime le aspettative di conoscenza loro tramite, ma dimostra che la toponomastica, lungi dal costituire una
fonte secondaria e oggetto di studio di un settore periferico e specialistico, obbliga a un approccio interdisciplinare e a una
visione sistemica del territorio: non è poco, né scientificamente né didatticamente.
Abstract
The municipal territory of Pellezzano is object of didactic research in the Irno Valley. Toponymies took from maps
I.G.M. (Geographic Military Institute) at 25.000 (edition 1956) and from Tables cadastral Union, the work has proceeded
to their interpretation and codification, to classifying scheme with a hundred of items, already proposed in a conventional
form in a previous research, but here reproposed with an absolute novelty: the computerization of classifying scheme is
done trough a tree scheme.This option still experimental suggered to limit the research to only municipal territory as the
author a first wanted to extend to whole Irno Valley.
Every simple or compound toponymies has been so “paraphrased” by a series of symbols to wich the author reached
trough linguistic analysis and an approach geographics-interdisciplinary. The goal of the whole work is to deepen all
stratigrafic aspects of territory.
The relative frequencies of each symbol (expressing objects and phenomenons observed from planimetral and altimetrical
profile) and their multivaried statistical crossing would have to lead, according to basical hypothesis, to individualize
justly components of territorial identity. In examinate case, the nominal identity comes from geolinguistic strates largely
before not only the second world war, but the same Italy Unity. Even if there is trace in the memory of Roman occupation,
that it shouldn’t have been very incisive in the hill, the most preservation considers late and post-medieval toponymies to
confirm that it is really from Aragonese period that Irno Valley and particulary the municipal territory of Pellezzano
inagurate the first form of industries handicraft and trady, having as reference- point the near port of Salerno.
From the prevalent primary activity of high Middle Age, when however is preserved the foundamental streets function
of ancient period, so we pass in Aragonese period to a secondary residential specification, with particular dispositions of
inhabitans to external horizontal relations. This remains distinct trait of the following history, persisting indelible still
today even in the residual toponymic patrimony here examinted. At all, the work arrives to same conlusions coming from
research based on the extra toponymy sources trough toponyms too: wich means it not only confirms what are legitimate
expectations to knowledge trough them, but it shows toponymy, far to constitute a secondary source and object of study
peripheral and specialistic sector, compels an interdisciplinary approach and a systemic vision of territory: it is not few,
neither scientificly nor didactly.
- 87 -
Résumé
L’object de la recherche-didactique est la municipalité de Pellezzano dans la Vallée de l’Irno. Ayant relevé les toponymes
des gravures I.G.M. éd. 1956 (1/25.000) et des Quadri d’Unione Catastali, on les a interpretés et codifiés à travers un
project de classification composé par une centaine d’ items, déjà proposés en forme conventionnelle par une recherche
précédente et reproposés avec une nouveauté: son informatisation par un schéma en arbre. Cette option, à présent sperimentale, a requis de limiter a une seule municipalité la recherche que l’auteur souhaitait élargir à toute la Vallée de l’Irno.
Le toponyme, simple ou composé, a été “paraphrasé” par une série de symboles auxquels on est parvenu non seulement
avec l’analyse linguistique fondamentale mais aussi au moyen de une approche géographique-interdisciplinaire visant à
approfondir tous le aspects stratigraphique du territoire.
Les fréquences relatives de chaque symbole (exprimant des objects et des phénomènes observés du point de vue
planimétrique et altimétrique) et leur croisement statistique multivarié devrait conduire – selon l’hypotèse méthodologique
de fond – à déterminer les composantes fondamentales de l’identité territoriale. Dans le cas examiné, l’identité nominale
provient de lits géolinguistiques en très large partie antécédents aussi bien à la deuxième guerre mondiale que à l’Unité
d’Italie. Bien qu’il ne manquent pas des traces de l’occupation romaine, qui ne dût pas être très incisive en colline, les
toponymes tardes et postmedievaux sont les mieux conservés, ce qui confirme que pendant la période aragonese, la Vallée
de l’Irno, et la Municipalité de Pellezzano en particulier, connaissent une saison de prote-industries, d’activités artisanales
et commerciales, qui avaient comme point de référence le port de Salerne.
On passe donc de l’activité primaire prédominante durant le haut moyen âge, lorsque de toute façon elle se conserve la
fondamentale viabilité de la période ancienne, à une spécification secondaire-résidentielle durant la période aragonaise,
avec des aptitudes des habitants aux relations horizontales extérieures, ce qui restera le trait distinctif de toute la histoire
suivante, demeurant indelebile aujourd’hui même dans le residual patrimoine ici examiné. Enfin, on arrive aux mêmes
conclusions issues de la recherche basée sur les sources pas toponymiques aussi bien par les toponymes, ce qui d’une part
confirme combien soient légitimes les attentes de connaissance grace à elles, de l’autre montre que la toponomastyque,
loin de constituer une source secondaire et un objet de recherche d’un secteur périphérique et spécialiste, conduit
nécessairement à une approche interdisciplinare et à une vision systemique du territoire, ce qui n’est pas rien, ni au point
de vue scientifique ni au point de vue didactique.
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Vincenzo M. Cestaro*
IL CARSISMO NEI TOPONIMI DEL COMUNE DI CASTELCIVITA:
PRIMI RISULTATI DI UNA RICERCA DIDATTICA DI GRUPPO
1.1. Premessa
Il Monte Alburno, porta del Cilento, imponente avamposto dell’Appennino, appare, al viaggiatore
che proviene dalla Valle del Sele, come un baluardo a prima vista insormontabile, caratterizzato da
bianche rupi verticali, che costituisce un unicum di notevole interesse naturalistico, geografico, antropologico.
L’approccio alla sua conoscenza, attraverso la ricerca e la decodifica dei toponimi che contribuiscono a caratterizzarlo, rivela aspetti estremamente interessanti della sua natura e della sua storia.
Tra le varie possibilità di “saggio” dello studio dei toponimi dell’intero comprensorio, che riteniamo necessariamente uno studio in progress ora in fase di avvio, allo scopo di puntualizzarne la
metodologia e il rapporto con le varie discipline, ci è parso opportuno considerare l’ambito territoriale
del Comune di Castelcivita in cui con maggiore evidenza si manifesta il carsismo in tutte le sue
forme1 .
La variabilità altimetrica del territorio, la diversità climatica, le differenti coltivazioni, attività e
stili di vita dei suoi abitanti, gli eventi storici, per certi aspetti singolari che lo hanno interessato, le
particolarità vegetazionali, idrografiche e geologiche dell’intero massiccio alburnino appaiono racchiuse in un ambito territoriale piuttosto limitato ma ampiamente rappresentativo dell’intero territorio, per cui la metodologia che qui viene applicata, a ragione potrebbe essere applicata, in uno studio
successivo, a tutto il comprensorio alburnino.
Conferme o smentite che ne verranno, certamente contribuiranno a comprendere meglio una realtà
socio-economica ancora fortemente legata al suo ambiente, ai suoi costumi, alle sue tradizioni.
1.2. Questa indagine, sviluppata in un contesto scolastico ad opera di alunni di varie classi accomunati dall’appartenenza allo stesso territorio, ha avuto tra i suoi primi obiettivi lo studio della metodologia
della ricerca attraverso un preliminare approccio all’analisi dei toponimi e del loro significato in campo naturalistico e antropologico, affrontando tematiche multidisciplinari nuove perché quasi sempre
trascurate nella scuola italiana.
Attraverso lo studio dei toponimi è stato possibile avere una nuova chiave di lettura delle caratteristiche dell’ambiente fisico ma anche della sua storia, con particolare riguardo ai comportamenti delle
popolazioni che nel corso dei secoli lo abitarono e lo modellarono secondo le loro esigenze di vita. Gli
studenti coinvolti nel progetto hanno imparato a organizzarsi e a svolgere in gruppo un appassionante
lavoro di ricerca bibliografica e sul territorio, “inventando” un efficace iter procedurale e impossessandosi di conoscenze altamente formative. Hanno imparato a considerare la toponomastica una «storia delle idee» poiché i nomi dei luoghi hanno una ragione precisa, fanno parte del territorio e della sua
storia. E hanno impedito che molti nomi di luoghi, patrimonio di anziani che fino a qualche tempo fa
vivevano di pastorizia e agricoltura, vadano perduti perché dimenticati o soggetti a trascrizioni errate.
Al di là di ogni altro possibile obiettivo raggiunto, questo sembra già soddisfare sufficientemente gli intenti che ci eravamo proposti.
* Per il Gruppo di Lavoro: Autonomia n. 54. Istituto di istruzione superiore «T.Confalonieri» a indirizzo linguistico e
sociopsicopedagogico di Campagna.
1
L’ambito territoriale del comune di Castelcivita non corrisponde per estensione al bacino carsico, dallo stesso nome, che è più
esteso verso SE. I confini territoriali vengono qui utilizzati soltanto per una migliore localizzazione dei toponimi.
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2.1. La metodologia
Il territorio è stato delimitato su tavolette I.G.M. (Foglio 198 IV SE Altavilla Silentina; I SO Sicignano
degli Alburni; II NO Castelcivita; III NE Roccadaspide) secondo i confini di ogni singolo comune;
successivamente è stato tracciato il reticolato chilometrico e i quadrati individuati con una sigla
alfanumerica secondo coordinate cartesiane. Nell’ambito di ogni quadrato sono stati individuati e
trascritti, ognuno con il proprio riferimento al quadrato chilometrico, i toponimi rilevati. Per ogni
toponimo è stata impiantata una scheda per poter raccogliere e ordinare tutte le informazioni raccolte.
Non sono stati aggiunti alla cartografia i nuovi toponimi rilevati durante le interviste effettuate sul
territorio, inseriti invece nell’elenco generale. Sono state individuate le curve di livello di 200, 400,
600 metri che hanno evidenziato un progressivo aumento delle quote dalla Piana del Sele all’altopiano
ampiamente carsificato che trova il suo culmine nelle cime che sovrastano, a NE, l’abitato di Sicignano.
Si rileva, a prima vista, lo sperone calcareo su cui sorge Catelcivita.
È stato di poco aiuto il ricorso ad altre cartografie e mappe catastali storiche, perché esse erano a
scala non congrua, sommarie e quindi avare nelle indicazioni dei toponimi. È stato di grande utilità,
invece, il ricorso a pubblicazioni specializzate nella decodifica dei toponimi, indicate nella bibliografia,
a pubblicazioni di storia locale e a glossari dei dialetti locali.
L’indagine sul territorio, l’intervista a pastori, contadini, boscaioli, persone residenti nei luoghi, in
cui ricorrono i toponimi sui quali viene svolta la decodifica, sono servite in molti casi a risolvere i
dubbi e ad arricchire il corredo di informazioni raccolte attraverso le pubblicazioni ufficiali. Ciò nonostante, diversi toponimi non trovano, per ora, alcuna plausibile interpretazione.
Le deformazioni linguistiche dovute al tempo, la cattiva o errata trascrizione di nomi registrati al
momento della prima levata topografica, le informazioni insufficienti raccolte durante le interviste
possono in qualche modo giustificare la mancata interpretazione di toponimi dubbi o sconosciuti.
L’elenco dei toponimi, riportato al completo in appendice, è stato suddiviso per aree tematiche:
a) Toponimi riferiti al carsismo;
b) Toponimi riferiti alla storia locale;
c) Toponimi riferiti alla civiltà contadina.
Si riportano in questa sezione i toponimi del primo gruppo:
2.2. Toponimi riferiti al carsismo
Capo le Scale
Grotta di Castelcivita
Grotta Gavio
Grotta Palombello
Iacolata
Manserracchio (quota 1166)
Termine riferibile alla parte terminale di una serie di gradoni scavati da antichi corsi d’acqua, come è possibile riscontrare sul terreno.
Il toponimo indica una imponente cavità che ricade in territorio di
Castelcivita, onde il nome attuale. Nell’antica toponomastica è nota
come grotta di Spartaco o anche come grotta Norce.
Il toponimo associato deriva dal latino cavus, cavo, che è tipico
delle cavità o grotte. Il toponimo originario era soltanto Gavio o
Cavio, non associato a «grotta».
Grotta dei piccoli colombi (dal lat. palumbus).
Struttura a forma di ginocchio, proprio di una piccola valle.
Luogo chiuso, a forma di imbuto, tipico di dolina sommitale. Il prefisso «man» di etimo incerto, potrebbe derivare dal dialettale
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Pozzi Cardone
Pozzi di S. Maria (quota 1172)
Pozzi Laogemini (quota 941)
Pozzi Mele
Pozzo Canale
Pozzo della Spina
Pozzo Sicchitiello
Valle Murata
«mancuso» = scuro, esposto a nord, coperto dalla vegetazione, che
è folta e costituita da altissimi faggi. Ciò trova riscontro nella realtà
del territorio. Grande dolina, con punto di massima depressione a
m.1166. Antica «neviera» o deposito naturale di neve utilizzata fino
ai primi decenni del secolo passato.
Nome di antica famiglia castelcivitese, che forse ne avevano la
proprietà, dato a una piccola depressione, caratterizzata da una
dolina inattiva in posizione quasi centrale.
Piccola depressione, dominata in posizione pressoché centrale da
una dolina attiva.
Serie di piccole depressioni, costituite da doline quasi sempre inattive.
Piccole depressioni, dominate in posizione pressoché centrale da
doline attive.
Depressione, dominata in posizione pressoché centrale da una
dolina attiva.
Piccola depressione, dominata in posizione pressoché centrale da
una dolina inattiva.
Depressione, piuttosto profonda, dominata in posizione pressoché
centrale da una dolina attiva. È una delle forme più rappresentative dei campi carsici di Castelcivita.
Depressione del suolo, delimitata da due pendii laterali montuosi
(graben), segnati dall’erosione di acque meteoriche; la valle è chiusa (murata) nella parte più bassa in quanto l’acqua che l’ha scavata si disperde in un inghiottitoio che ne occupa la parte terminale.
Dall’elencazione risultano frequenti i toponimi grotta, pozzo, valle, manserracchio o manserra,
valle murata. Essi, con precisione, indicano fenomeni legati all’erosione carsica in tutte le sue fasi
evolutive, che risulta molto evidente nelle pianure e nelle valli a monte di Castelcivita. La dolina,
costituita, nella sua più completa forma, da una depressione imbutiforme con inghiottitoio è individuata come pozzo; più doline collegate tra loro (polje) sono individuate come valle; ne sono esempio
i toponimi: valle murata; capo le scale.
Una neviera naturale è la grande forra del Manserracchio, a quota 1176m, piena di neve anche
d’estate, quando i pascoli della pianura sono già aridi.
Il territorio più intensamente carsificato si trova a NE di Castelcivita: è la zona dei pascoli più
ricchi utilizzati fin dai primi insediamenti umani rilevati in quella zona. Il fondo delle doline, divenuto
impermeabile per il deposito di argilla derivata dalla degradazione della roccia calcarea, assicura
l’accumulo e la conservazione di discrete quantità di acqua durante la stagione estiva, consentendo
l’utilizzazione dei pascoli anche nei periodi di maggiore siccità. La remota presenza dell’uomo su
quel territorio è documentata dai ritrovamenti di ossa e materiale fittile nelle cavità collegate alla
grotta di Castelcivita2 ; la grande scultura rupestre della Costa Palomba, poco distante dal territorio
considerato, ne è ulteriore conferma.
2
Trattasi della grotta dell’Ausino, posta ad un livello inferiore rispetto alla grotta di Castelcivita, riconosciuta e descritta come
insediamento di pastori del Paleolitico.
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2.3. I risultati
L’esame dei toponimi rivela una realtà socio-economica fortemente condizionata dalla natura di un
territorio estremamente variabile per la struttura geologica, il clima, l’accentuata biodiversità.
La forte variabilità altimetrica3 , un suolo in gran parte carsificato e utilizzato solo per pascoli
estivi, la presenza di boschi, l’esiguità del terreno coltivabile, che è anche arido e privo di reali possibilità di irrigazione, danno l’immagine di un’economia povera, fortemente legata alle tradizioni, statica,
che non conosce alternative all’agricoltura, alla pastorizia, al taglio dei boschi e al commercio del
legname, agli scambi commerciali locali limitati a beni di prima necessità, ai servizi essenziali. L’assenza di adeguate vie di comunicazione condiziona ulteriormente lo sviluppo economico di queste
popolazioni. L’inclusione di questo territorio nel «Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano»
non ha determinato, fino ad ora, alcun cambiamento sensibile.
È questa, in sintesi, l’immagine di buona parte del territorio alburnino. La storia, alla stregua degli
aspetti naturalistici, è narrata, spesso documentata, come vedremo, dai toponimi. Dagli antichissimi
insediamenti di popolazioni di pastori sulle pianure sommitali alla fuga degli abitanti dalla Piana del
Sele, un tempo malarica (Ponte Pestano, Torre di Costantino) alla vicenda di Spartaco (grotta di Spartaco,
varco dello Schiavo) alla rivoluzione del 1799 (Pié dell’Arma), ogni avvenimento ha lasciato le sue
tracce nei nomi dei luoghi e nei ricordi del passato4 .
Risaltano tra gli altri, tuttavia, per precisione naturalistica, interesse ed originalità i toponimi indicanti fenomeni naturali o forme del terreno o caratteri della vegetazione. Gli aspetti del carsismo sono
tutti rappresentati con toponimi esaustivi dal punto di vista del significato, anche se non corrispondono quasi mai agli equivalenti vocaboli in lingua italiana. Le derivazioni terminologiche dal latino o dal
greco sono rare o irriconoscibili e potrebbero costituire prova dell’isolamento di queste popolazioni,
notoriamente fiere e ostili a qualunque forma di potere (congiura dei Baroni, Rivoluzione Napoletana
del ‘99).
3
Basti osservare che, mentre nelle forre a quota superiore a 1550 metri si conserva ancora la neve caduta durante l’inverno, nella
vicina Piana, a pochi chilometri di distanza ma con forte differenza altimetrica, i terreni soffrono la siccità.
4
Tali tematiche saranno oggetto di approfondimento in future ricerche di gruppo.
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BIBLIOGRAFIA
AA.VV., Dizionario di toponomastica. Storia e significato dei nomi geografici italiani,Torino,
UTET 1990.
AA.VV., Monti Alburni, Avellino, De Angelis, 1995.
GRANATA L., Economia rustica per lo Regno di Napoli, Napoli, 1830.
MASONI U., “Il massiccio dell’Alburno”, in L’Universo, n. 3, 1967, pp. 431-447.
PELLEGRINI G. B., Toponomastica italiana. 10 000 nomi di città, paesi, frazioni, regioni, contrade,
fiumi, monti spiegati nella loro origine e storia, Milano, Hoepli, 1990.
SIRIBELLI D., Glossario lucano, Salerno, Palladio, 1989.
VOLPE P., Vocabolario napoletano-italiano, Bologna, Forni, 1970.
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Appendice
4) Elencazione alfabetica generale dei toponimi
Toponimo
Decodifica dei toponimi
Bosco Macchitello ....................................... Macchie (fitto aggruppamento di siepi, alberi e arbusti)
che costituiscono un bosco.
Bruscalina .................................................... Piccola zona boscosa, in cui la luce penetra poco, per inclinazione dei versanti oltre che per la densa vegetazione; “tra il lusco e il brusco”, come per significare l’albeggiare o l’ora del tramonto.
Campiglio .................................................... Campo di notevole estensione, destinato all’uso collettivo. La forma al maschile, tuttavia, potrebbe evocare un
piccolo campo (campiculus).
Canale .......................................................... Condotta artificiale di acqua.
Cannicelle .................................................... Canne piccole e sottili di zona umida, utilizzate in passato per realizzare contenitori per granaglie, canestri e grate per l’essiccazione di fichi, pomodori e peperoni.
Capo le Scale ............................................... Termine riferibile alla parte terminale di una serie di
gradoni scavati da antichi corsi d’acqua, come è possibile riscontrare sul terreno.
Cappellano ................................................... Sconosciuto.
Casa Cascio ................................................. Abitazione riferibile a possessi di antiche famiglie.
Casa del Ponte ............................................. Ubicazione – presso il ponte – di antica abitazione.
Casa Forlani ................................................. Abitazione riferibile a possessi di antiche famiglie.
Casa Juliani .................................................. Idem.
Casa Juliani .................................................. Idem.
Casa Lamanna.............................................. Idem.
Casa Madaio ................................................ Idem.
Casa Magliano ............................................. Idem.
Casa Ricco ................................................... Idem.
Casa Zonzi ................................................... Idem.
Casa Zonzo .................................................. Idem.
Case Doto .................................................... Idem.
Case Verzotto ............................................... Idem.
Casentini ...................................................... Indicazione di proprietà terriera riferibile a possessi di
antiche famiglie.
Castelcivita .................................................. Nome del capoluogo comunale: castello e civita sono fusi.
Antica denominazione del paese, aggrappato a un costone
dell’Alburno, che indica i vici o pagi di Paestum che ospitarono le popolazioni ritiratesi dalla Piana. Già
Castelluccia, poi Civita Alburna. La denominazione del
sec. XV era Civita Pantuliana.
Celadonna .................................................... Sconosciuto.
Cernivento ................................................... Particolare conformazione del territorio, quasi a gola, che
consente al vento di incanalarsi.
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Chiaimano .................................................... Anche (dai locali) ciainamano: parte del bosco di
Castelcivita pianeggiante ma non molto ampio “come il
palmo di una mano”.
Chiausa ........................................................ Anche: chiusa o «rufesa» (difesa). Zona recintata.
Colagrosso ................................................... Toponimo sconosciuto.
Colle Civita .................................................. Anche: Colle della Civita. Indica l’ubicazione dell’insediamento che dette vita all’attuale Castelcivita. I resti di
quest’antico insediamento sono ancora visibili.
Colle di Malacera......................................... Collina con associato il nome di uno dei proprietari.
Colle Medoro ............................................... Idem.
Columbri ...................................................... Sconosciuto.
Costa Carriera .............................................. Deformazione di «carrera», corsa, con significato indecifrabile.
Costa Mortellina .......................................... Costone ricco di piante di mirto.
Cupone ......................................................... Da « cupa». Luogo cavo, a forma di botte, piuttosto ampio.
Facolacqua ................................................... Da «Fago dell’acqua», ovvero faggio che sorge in prossimità di uno stagno.
Fiume Calore ............................................... Affluente di sinistra del Sele. L’etimologia non è chiarita
ma secondo Battisti deriverebbe dalla base «mediterranea» cala.
Fontana Chianiello ....................................... Nome di una fontana, forse attribuibile alla particolarità
del luogo che è effettivamente una piccola pianura
(chiana).
Fontana S. Filippo ....................................... Nome attribuito ad una fontana, già presente nell’antica
residenza dei Basiliani.
Grotta di Castelcivita ................................... Il toponimo indica una imponente cavità che ricade in
territorio di Castelcivita, onde il nome attuale. Nell’antica toponomastica è nota come grotta di Spartaco o anche
come grotta Norce.
Grotta Gavio ................................................ Il toponimo associato deriva dal latino cavus, cavo, che è
tipico delle cavità o grotte. Il toponimo originario era soltanto Gavio o Cavio, non associato a «grotta».
Grotta Palombello ........................................ Grotta dei piccoli colombi (dal lat. palumbus).
Iacolata......................................................... Struttura a forma di ginocchio, proprio di una piccola
valle.
Lingi ............................................................ Etimo incerto.
Macchione ................................................... Grande siepe. Località ricoperta da vegetazione molto fitta
con alberi, arbusti e siepi di rovo. Anche: roveto; ruvito.
Madonna delle Grazie (quota 501) .............. Il toponimo è riferito a ciò che rimane di un’antica cappella dedicata alla Madonna delle Grazie.
Madonna della Pezza ................................... Il toponimo è riferito ad un’antica cappella votiva, ora
diruta, dedicata alla Madonna della pezza (estensione di
terreno coltivato).
Manserracchio (quota 1166) ........................ Luogo chiuso, a forma di imbuto, tipico di dolina
sommitale. Il prefisso «man» di etimo incerto, potrebbe
derivare dal dialettale «mancuso» = scuro, esposto a nord,
coperto dalla vegetazione, che è folta e costituita da altissimi faggi. Ciò trova riscontro nella realtà del territorio
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(v. quadrato chilometrico). Grande dolina, con punto di
massima depressione a m.1166. Antica «neviera» o deposito naturale di neve utilizzata fino ai primi decenni
del secolo passato.
Mastarazio (quota 273) ............................... Sconosciuto.
Medoro alto ................................................. Toponimo attribuito a un colle.
Medoro basso ............................................... Idem.
Monte della Nuda ........................................ Nome di una delle cime del versante occidentale
dell’Alburno, così individuato perché privo di vegetazione.
Monte Pizzuto .............................................. Nome di una delle cime del versante occidentale
dell’Alburno, così individuato perché dominato da una
cima alquanto esile.
Monte Spina dell’Asino ............................... Monte a schiena (spina ovvero dorso, colonna vertebrale)
d’asino.
Monte Urto .................................................. Cima di quota m. 1661. Il toponimo di denominazione
del monte associato alla cima è sconosciuto.
Piano Manzerra ............................................ Piccola pianura di origine carsica, dominata in posizione
pressoché centrale da una dolina inattiva.
Piano S. Maria ............................................. Idem.
Piedelaluna .................................................. Toponimo di posizione.
Ponte Paestum ............................................. Anche: Ponte Pestano. Antico ponte di collegamento con
Paestum. Il nome ricorda, o potrebbe ricordare, la via seguita dagli abitanti di Paestum per raggiungere i monti,
al tempo in cui la malaria spopolava la piana di Paestum.
Pozzi Cardone .............................................. Nome di antica famiglia castelcivitese, che forse ne avevano la proprietà, dato a una piccola depressione di origine carsica, caratterizzata da una dolina inattiva in posizione quasi centrale.
Pozzi di S. Maria (quota 1172) .................... Piccola depressione, dominata in posizione pressoché
centrale da una dolina attiva.
Pozzi Laogemini (quota 941) ...................... Serie di piccole depressioni, costituite da doline quasi sempre inattive.
Pozzi Mele ................................................... Piccole depressioni, dominate in posizione pressoché centrale da doline attive.
Pozzo Canale ............................................... Depressione, dominata in posizione pressoché centrale
da una dolina attiva.
Pozzo della Spina ........................................ Piccola depressione, dominata in posizione pressoché centrale da una dolina inattiva.
Pozzo Sicchitiello ........................................ Depressione, piuttosto profonda, dominata in posizione
pressoché centrale da una dolina attiva. È una delle forme più rappresentative dei campi carsici di Castelcivita.
Renzolito ...................................................... Sconosciuto.
Rupe fernita ................................................. Rupe che limita un costone molto ripido del lato Nord
dell’Alburno.
Rupe Rossa .................................................. Rupe rossastra per la presenza di ossidi di ferro.
S. Elia .......................................................... Nome di località che fa riferimento al culto del santo.
Tale culto è spesso legato ad una grotta.
S. Francesco ................................................. Nome di località che fa riferimento al culto del santo.
S. Giovanni .................................................. Idem.
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S. Giovanni .................................................. Idem.
Savuco ......................................................... Da sambuco, pianta arbustiva appartenente alla famiglia
delle caprifogliacee, molto ben rappresentata nella località che ne porta il nome.
Sceprosit ...................................................... Sconosciuto.
Scruccoli ...................................................... Forse posto di vedetta (sculca) nella tecnica militare
germanica.
Serra Mastalbino (o di Mastalabino) ........... Luogo chiuso, circondato da rupi, in altura, riferibile alla
famiglia che ne aveva il possesso.
Tempa Cavallerizza ..................................... Anche timpa: costone alquanto ripido. La seconda parte
del toponimo composto è riferito forse a una proprietà o
particolarità del luogo.
Tempa Cavallo ............................................. Anche timpa. Anche tempa del cavallo, con riferimento
alla presenza di questi animali nella zona per allevamento in tempi non molto remoti.
Tempa dell’Anzo (quota 182) ...................... Anche timpa.
Timpa di don Vincenzo ................................ Il nome associato è riferibile ad una proprietà.
Timpa Palombella ........................................ Anche «timpa della palombella».
Timpa Pianella ............................................. Anche «timpa della pianella».
Tempa Renzolito .......................................... Colle di 404 m. Etimo sconosciuto per il secondo termine.
Timpa Sivero ............................................... Anche «timpa di Sivero»: nome di proprietà.
Timpa Tarrusiello (quota 982) ..................... Costone alquanto ripido caratterizzato dalla presenza del
tarruso (tarabuso), uccello migratore.
Timpa Zacchera ........................................... Costone alquanto ripido, fangoso alla base.
Timpone Basilio........................................... Costone alquanto ripido associato a nome di persona frequente sul territorio in quanto riferito ai monaci Basiliani.
Timpone Colagrosso .................................... Costone alquanto ripido, con riferimento a nome di persona.
Timpone Cuccesso (quota 1173) ................. Costone alquanto ripido con riferimento a un termine indecifrabile.
Timpone di Annina ...................................... Costone alquanto ripido associato a nome di persona.
Timpone Panariello ...................................... Costone alquanto ripido, concavo come un paniere.
Timpone Petrosa .......................................... Costone alquanto ripido con rocce affioranti.
Timpone S. Cono ......................................... Costone alquanto ripido, associato al nome del santo protettore della non lontana Teggiano.
Tirazecca ...................................................... Toponimo con chiaro riferimento alla zecca, l’acaro
(ixodes ricinus) che parassitizza pecore ed animali a pelo
lungo.
Torre di Costantino ...................................... Toponimo riferito ad una torre quadrata, antica proprietà
dei Costantino.
Valle Murata ................................................ Depressione del suolo, delimitata da due pendii laterali
montuosi (graben), segnati dall’erosione di acque
meteoriche; la valle è chiusa (murata) nella parte più bassa in quanto l’acqua che l’ha scavata si disperde in un
inghiottitoio che ne occupa la parte terminale.
Valle Sartorio ............................................... Il toponimo è riferito ad una depressione del suolo. Il cognome di persona (Sartorio) è identificativo.
Vallesanta ..................................................... Il toponimo è riferito ad una depressione del suolo e alla
presenza di un fatto religioso.
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Vallescura..................................................... Valle ombrosa. Il toponimo è riferito ad una depressione
del suolo molto incassata.
Vallone di Annina ........................................ Valle piuttosto profonda. Il toponimo è riferito ad una
depressione del suolo. Il nome di persona (Annina) è
identificativo.
Vallone Fossole ............................................ Valle piuttosto profonda. Il toponimo è riferito ad una
depressione del suolo. Il nome associato (fossole) è
riferibile a cavità carsiche (fosse, piccole doline) esistenti in alcune parti della valle.
Vallone Grande ............................................ Valle piuttosto profonda.
Vallone Pennino ........................................... Valle piuttosto profonda, in una zona inclinata.
Vallone Piedelalma ...................................... Vallone, corso d’acqua a regime torrentizio, scavato in
una valle piuttosto profonda. Piedelalma è cattiva trascrizione di pié dell’arma, località ai piedi della fortificazione
(arma) poco distante e a Nord di Castelcivita da cui il
corso d’acqua ha origine.
Vallone Zurpoli ............................................ Corso d’acqua non perenne il cui letto costituisce una valle
piuttosto profonda. Zurpoli è errata trascrizione di zirpoli,
nome frequente nel dialetto locale, frutti di lappa, arbusto che è ben rappresentato nel vallone. Si immette nel
Vallone Grande.
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Riassunto
La ricerca e la decodifica dei toponimi riferiti ai fenomeni carsici che si manifestano nell’ambito territoriale del comune di Castelcivita, condotta a fini eminentemente didattici, ha costituito una nuova chiave di lettura del territorio, nelle sue
implicazioni naturalistische, geologiche, storiche, antropologiche e un nuovo mezzo di indagine pluridisciplinare.
I risultati della ricerca consistono in una migliore conoscenza delle aree carsiche e delle loro più evidenti relazioni con
le attività umane. Tali risultati si associano al raggiungimento di obiettivi formativi, non secondari, quali l’acquisizione di
una valida metodologia di ricerca teorica e procedurale da parte di un gruppo di lavoro, capace di organizzarsi autonomamente, e la capacità di applicarla sul campo.
Abstract
The research and decoding of toponymies referred to karstic phenomena which appear in the territory of Castelcivita,
carried out for specific teaching purposes, has given a new understanding of the territory in its naturalistic, geological,
historical, anthropological aspects and a new tool for multidisciplinary research.
The results of this research consist of a better knowledge of karstic areas and their closer connections to human activities.
These results come together with achievement of important formative goals, like the acquisition of a strong methodology
for theoretical and procedural research, of a part of working group which autonomously organises itself and afterwards has
the capacity to implement it on this field.
Résumé
La recherche et la décodification des toponymes se référant aux phénomènes karstiques qui se manifestent dans l’aire
territoriale de la commune de Castelcivita, conduites à des fins purement didactiques, ont constitué une nouvelle façon
d’analyser le territoire dans ses implications naturelles, géologiques, historiques, anthropologiques ainsi qu’un nouveau
moyen d’étude pluridisciplinaire.
Les résultats de la recherche consistent en une meilleure connaissance des aires karstiques et de leurs plus claires
relations avec les activités humaines. Ces résultats visent à atteindre des objectifs de formation, non secondaires, tels que
l’acquisition d’une méthodologie adéquate de recherche théorique et de procédure de la part d’un groupe de travail capable
de s’organiser de façon autonome et la capacité de l’appliquer sur le terrain.
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A. D’Arminio, L. Scarpariello, R. Vassallo, C. Vasso
LA STRATIFICAZIONE DEI TOPONIMI NELLO
«STATO DI MONTECORVINO» TRA IL TARDO ANTICO E IL RINASCIMENTO
1. Cenni sulle caratteristiche del territorio
Il territorio preso in esame è posto a sud-est della città di Salerno nell’omonima provincia, compreso tra i fiumi Picentino e Tusciano e delimitato a Nord dal massiccio appenninico e ad ovest dal Golfo
di Salerno. Terra di mezzo dell’antica regione abitata dai Picentini, racchiusa sul mar Tirreno dai fiumi
Sarno e Sele e dalla parte montuosa dell’Irpinia e dell’antica Lucania.
Orograficamente è caratterizzato da una parte collinare ed una pianeggiante, attraversata da corsi
d’acqua di carattere torrentizio. Nella fascia collinare si possono individuare tre zone: la prima caratterizzata da piccoli rilievi, dal Faianese ad occidente al Monte Castello ad oriente, divide la Piana del
Sele dalla Vallata del Picentino; la seconda, compresa tra i sistemi idrici del Lama-Trauso, da una
parte, e Tusciano-Cornea-Tarazza dall’altra, presenta una configurazione pianeggiante che, salendo
dal mare, arriva fino al varco di Rovella: si tratta di un nodo geografico che raccorda la fascia collinare
(sistema Faianese-Monte Castello) con il retrostante massiccio appenninico, consentendo la comunicazione tra la Piana del Sele e la Vallata del Picentino; la terza, infine, è delimitata dai rilievi montuosi
di Circhio, Faragna e Monte Foresta e dai pianori di Migliaro, Faito e Circhio-Cerasuolo.
La geomorfologia del montecorvinese è caratterizzata dal banco calcareo-dolomico delle colline,
sovrastante il substrato argilloso e tale da consentire alle falde l’affioramento di numerose sorgenti. Le
condizioni climatiche sono tipiche della mediterraneità, a parte le zone d’altura. L’insieme delle condizioni descritte ha consentito fin dalla protostoria l’insediamento umano, registrando un articolato
susseguirsi di stagioni storiche, stratificando nel territorio numerose vestigia decodificate in questo
studio attraverso tracce archeologiche, urbanistiche e documenti cartacei dal leimotiv toponomastico.
2. Dal neolitico alla formazione dello «stato»: le tappe storiche salienti dell’occupazione umana
Le prime tracce umane nella zona presa in considerazione (testimoniate da diversi ritrovamenti) si
hanno con l’uomo neolitico, attestato sia nella parte interna che costiera. Dal materiale archeologico si
riscontrano, come asserisce Luigi Foglia, «contatti con la civiltà Egeo-Cretese attraverso scambi
commerciali che consentirono l’importazione di ceramiche e metalli» (Foglia, 1996, p. 21).
Sulla fascia costiera, all’inizio del IX sec. a.C., si ebbe ad opera di gruppi di popolazione etrusca la
formazione di un centro abitato che durò con alterne vicende fino al IV sec. a.C. Le capacità artigianali
e l’intraprendenza commerciale di queste popolazioni portarono il centro a raggiungere una notevole
ricchezza ed un alto grado di civiltà. Si formò un tessuto sociale molto compatto al proprio interno con
notevoli capacità di dialogo con le popolazioni indigene. Dal centro etrusco si ebbe la colonizzazione
verso l’interno e in particolare lungo la direttrice Pagliarone-S. Martino-Castello dove, nel periodo
Sannita, troviamo tracce di un villaggio a vocazione agricola (Cerchiai, 1992, pp. 810-813).
La romanizzazione del territorio portò, a cavallo tra il IV e III sec. a.C., alla decadenza del centro
etrusco e alla successiva immigrazione forzata della popolazione picentina, la quale costruì un centro
abitato denominato Picentia. La vita della città fu alquanto travagliata fino alla sua totale distruzione,
avvenuta nell’89 a.C., durante la guerra sociale.
- 101 -
La scomparsa del centro etrusco, prima, e la distruzione di Picentia, poi, portarono la città di Salerno
ad assumere un ruolo centrale, sia dal punto di vista economico che amministrativo, nella Piana del
Sele. Il territorio fino al Tusciano entrò a far parte dell’Ager Salernitanus (Bracco, 1974, p. 1) fino
all’arrivo dei Longobardi, quando la presenza delle fare portò nei primi decenni del VII secolo alla
rottura degli equilibri preesistenti. La parte limitrofa agli insediamenti Longobardi (Farinola-Farmano
e Faragna) entrò sotto il dominio del Duca di Benevento.
La conquista della città di Salerno da parte dei Longobardi riportò il territorio sotto l’egemonia
salernitana. Nel X secolo una parte del nostro territorio venne assegnato ai nascenti Comitati di Stricturie
e Tusciano. Del primo, corrispondente al Comitato Giffonense, fecero parte i casali di Gauro, Martorano
e Correiano. Al distretto del Tusciano appartenevano tutte le zone limitrofe al fiume omonimo e la
parte collinare contigua al casale Arpionano (Di Muro, 1995, pp. 60-107).
La conquista normanna determinò la creazione di un feudo, assegnato a un signore normanno
dimorante nel castello di Montecorvino. Nel 1122, infatti, Fulco, signore del castello e del feudo di
Montecorvino, fu assediato dal Duca Guglielmo che lo costrinse alla resa1 . Alcuni anni dopo,
Montecorvino e il suo signore furono nuovamente schierati con i ribelli guidati dal Conte Rainulfo e
da Papa Innocenzo II. Nella seconda metà di ottobre del 1137, Re Ruggiero con il suo esercito, dopo
aver occupato la città del Conte Riccardo, si diresse su Montecorvino, occupandolo. Furono quelle ore
terribili per il suo signore, il castello e la popolazione che, nonostante il tentativo di resistenza, furono
sopraffatti. Il castello e, probabilmente, una parte dell’abitato furono distrutti ed incendiati mentre
tutto ciò che rimase venne saccheggiato e rubato. Al riguardo Falcone Beneventano racconta: «Inde
Montem Corvinum capiens, in ore ignis, et gladii illud consumi praecipit, et spolia eius diripuit» (ivi,
p. 236). La ribellione a Re Ruggiero provocò lo smembramento del feudo e la divisione del territorio
in tanti piccoli feudi concessi a vari militi (Cuozzo, 1984, pp. 532-533).
Nell’agosto del 1167 Montecorvino fu concesso da Guglielmo II in feudo all’Arcivescovo di Salerno,
Romualdo Guarna (Paesano, 1846-1857, p.174). Fu grazie al prestigio goduto dal prelato alla corte
normanna nonché all’opera di consigliere e medico svolta in favore di Guglielmo I il Malo, che la
Mensa riuscì a costituire alle porte di Salerno un vasto feudo, consentendo ai suoi Arcivescovi di
svolgere in tranquillità e senza incombenza economica la missione pastorale (Del Grosso, 1996-98,
pp. 45-46). La Chiesa Salernitana detenne il feudo fino ai primi decenni del Cinquecento, consentendo
la costituzione di una precisa identità montecorvinese e la nascita di una nuova classe dirigente.
L’Università o Stato, intesa come unione di uomini dei vari casali di Montecorvino, è documentata
per la prima volta nel XIII secolo, quando venne tassata per 299 fuochi (Carucci, 1931, pp. 400-401).
Nel corso del Medioevo assunse una sempre maggiore responsabilità nella difesa del territorio e nella
riscossione delle gabelle. I suoi confini vennero descritti nel 1370 da alcuni «uomini particolari di
Montecorvino» 2 .
Le decisioni più importanti e delicate venivano prese nelle assemblee dei cittadini tenute generalmente nella località di Santa Croce. Nella assemblea del luglio 1424, svoltasi «nel luogo detto Santa
Croce, gli abitanti di Montecorvino, col consenso del Vicario dell’Arcivescovo e del Capitano, dichiarano di essere oppressi e gravati da molte tasse e tributi da parte di baroni e signori particolari. Per
porre fine a tale condizioni si affidano ai Sindacos Ambrosij De Ligorio, Fredelli Costancij, Jahannis
De Angerio et Riccardi De Giorgi dando loro la potestà e il potere di raccogliere denaro, frumento e
legumi dovuti per Jure Collectarum ac tassarum impositarum in dicta terra Montiscorbini» (Paesano,
1846-1857, pp. 407-413). La richiesta dell’Università venne accolta e rappresentò una tappa importante per la definitiva liberazione di Montecorvino dal giogo feudale.
1
«Quibus ita patratis Dux Ipse Montem Corvinum, Salerni Proxim, obsedit. Fulco itaque Dominus Castri illius, quia resistere non
poterat, castellum illud Ducis submisit Potestati» (Falconis Beneventani, «Chronicon», 1976, p. 187).
2
A.D.S., Reg. Mensa, n. 33.
- 102 -
3. Tracce toponomastiche
Il periodo storico preso in esame per lo studio dei toponimi è compreso tra il Tardo Antico e la fine
del Medioevo, allo scopo di registrare la variazione toponimica nel territorio avvenuta tra la fine
dell’Impero Romano, il periodo Longobardo e il Rinascimento. La variazione e/o addizione dei nomi
dei luoghi ci permette di cogliere la stratificazione delle civiltà e la dinamica antropica del territorio,
con le relative valenze sociali, economiche e politiche. Tale stratificazione può essere schematizzata
entro tre periodi storici, considerabili come vere e proprie fasi che non corrispondono alle periodizzazioni
ufficiali a tutti note.
Nella prima fase, compresa tra il Tardo Antico e il Periodo Latino Medievale, si ebbe in alcune zone
una iniziale forma di insediamento antropico, teso soprattutto all’attività agricola e pastorale. Non
conoscendo toponimi pregressi con cui confrontarci, dobbiamo ritenere che tale organizzazione sia
stata favorita dai caratteri geografici dei siti. Le zone più significative sono quelle di Gauro, Pugliano,
Occiano e San Martino, in cui troviamo prediali indicanti la presenza di «Fundus» e/o «Ville» romane
con i contigui «Aiello», «Pezzie» ed «Isca».
La seconda fase ebbe inizio con l’arrivo dei Longobardi e la successiva occupazione del territorio.
La penetrazione iniziale, con la costituzione delle fare di Farinola-Farmano e Faragna, nonché le
epidemie del VI secolo, non scompaginarono la struttura antropica ereditata dal Tardo Antico. In
questo periodo si assiste alla divisione tra le due etnie, quella germanica dei Longobardi e quella
italica.
I toponimi di Farinola-Farmano (Sabatini, 1963-64, pp.146-147; Natella, 1984, p.14), Faragna
(Bertolini, XV, pp. 508-512), delle Sale3 di Gauro e San Martino4 , Dominico e Vinea Dominica di
Occiano attestano nel VII e VIII secolo la presenza di signori longobardi proprietari di case, terreni
agricoli e boschi. Da questi nuclei si ebbe la longobardizzazione in direzione di Pugliano, Aiello e San
Vito con l’acquisizione di terreni e la costruzione di nuove Sale: Costa della Corte Grande5 , Sala
Betere6 e Casa Orsana7 .
La Sala Betere nei documenti del X secolo8 conserva ancora le tracce della Curtis, intesa come
grande possesso fondiario presente sul nostro territorio prima dell’insicurezza causata dalle incursioni
saraceniche e dall’impaludamento avvenuto nel secolo precedente. Tali condizioni sono documentate
da alcuni rogiti del Codex Diplomaticus Cavensis in cui troviamo paludi e laghi palustri formati dai
percorsi irregolari dei torrenti Lama e Rivo Alto. Infatti, la superficie del Lago Piccolo si estese per i
continui disboscamenti avvenuti nella parte alta del Rivo Alto. I due fenomeni, impaludamento e
disboscamento, sono documentati in due atti9 .
Il toponimo Curtis indica, nella nostra zona, una piccola proprietà agricola con l’abitazione dei
contadini o di un piccolo proprietario. Il primo caso é rappresentato dalla Curtis di San Biagio ove
sono terreni coltivati, le case dei concessionari e la chiesa; il secondo dalla Curtis di Martorano costituita dai terreni, dalle case dei contadini, dalla «Domus del Domino» e dalla chiesa10.
3
Nel Glossarium Cavense (C.D.C., III, p. 225), compilato intorno al Mille, Sala è spiegato come: domo in curte facta. Cfr. anche
Sabatini, 1963-64, pp. 153-155.
4
«1332: Concessione feudale al giudice Giuliano de Adiutoro di Castro Montecorvino». A.D.S., Reg. Mensa, n. 33.
5
«Ottobre 1437: Concessione feudale a Giovanni Borrealis di Napoli», ibidem.
6
«17 luglio 1579: Atto testimoniale di Venturino de Bulotta», ibidem.
7
C.D.C., I, pp. 223-224.
8
C.D.C., III, p.19.
9
Il primo descrive i confini di una proprietà appartenente a un certo Guglielmo nella parte alta del Ribus Altu alla fine del X secolo,
nella quale vengono citate le collinette di Casa Orsana e Monte Calbu (C.D.C., II, pp. 323-325). Nel secondo, invece, emergono con
tutta la loro drammaticità le pessime condizioni ambientali esistenti nella località Pino, posta fra il Tusciano, il litorale marino, il
vecchio corso del Lama, il nuovo corso del detto torrente e l’onnipresente Lago Piccolo (C.D.C., V, p. 9).
10
Si vedano, rispettivamente: C.D.C., VI, pp.127-131 e C.D.C. III, pp.76-77.
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Gli insediamenti umani si ebbero sia nei preesistenti siti che nelle nuove aree (Santa Tecla, Torello,
Montecorvino, Rovella e S. Eustachio), grazie anche alla crescita demografica dell’XI secolo. È interessante notare che quasi sempre nelle vicinanze delle Sale e delle Curtis troviamo il toponimo «Pastini»
che indicava chiaramente l’uso del contratto a pastinato nel nostro territorio. Tale forma di contratto,
come è noto, favorì la messa a coltura di terreni vergini e la nascita di nuovi insediamenti.
Nell’XI secolo, nella zona di S. Eustachio, abbiamo toponimi che indicano la presenza di famiglie
italo-greche quali «Li Greci» 11 e «Votraci». Attirati dai Signori Longobardi per le loro capacità nelle
attività agricole e artigiane, disboscarono e misero a coltura alcune terre contigue alla curti insegnando alle popolazioni locali l’uso del mulino ad acqua.
Il periodo terminale del regime Longobardo fu caratterizzato nella zona della piana dalla costituzione di una ampia proprietà, legata alla famiglia principesca di Salerno. Nel vasto possedimento,
posto su entrambe le sponde del fiume Tusciano, i Principi costruirono le chiese di S. Mattia e di S.
Vito12 per offrire ai coloni il servizio liturgico. Si trattava senza dubbio di vere e proprie «Eingenkirchen
Villane».
La terza fase, da noi individuata, iniziò con l’arrivo dei Normanni, i quali preferirono i luoghi
collinari in quanto ritenuti più idonei per il presidio del territorio. Si ebbe così la costruzione di case
fortificate, individuate dai toponimi «Rocca» e «Castello». In particolare nella zona di Rovella troviamo Rocca Salva13 , Rocca Solla14 , Castiuli e Rocca. La loro costruzione fu opera dei Militi, documentati nel XII secolo dal Catalogo dei Baroni, i quali con la loro presenza in loco favorirono, a nostro
parere, la nascita dell’identità territoriale di Montecorvino, sviluppando, ampliando ed organizzando
politicamente la struttura insediativa preesistente.
Emblematico è il caso del toponimo Montecorvino15 che da semplice «Locus» nel periodo
Longobardo, comprendente il Monte Castello e la zona sottostante, si estese nel periodo Normanno
all’intero territorio, grazie anche alla residenza del signore del feudo e al ruolo politico assurto dal
Castello. Nel XIII secolo, infatti, la zona originaria del Locus venne chiamata «Castro Montecorvino»
e «Villa Montecorvino»16 per differenziarsi dal resto del territorio17 .
La conferma dell’indicazione toponomastica ci è data da fonti scritte dove riscontriamo la presenza
di un abitato demico costituito da chiese (S. Marco, S. Giudico, San Bartolomeo, S. Matteo, Santa
Maria e Santa Croce), abitazioni sparse e terreni coltivati a vigna ed oliveti (Rationes Decimarum
Italiae, 1942, p. 399 e pp. 402-403).
Nella parte sottostante di Villa o Castro Montecorvino, all’inizio del XIV secolo, assistiamo alla
formazione ed estensione del nome «Mortellis» (ivi, pp. 399-403). Il toponimo è indicatore
dell’inselvatichimento e abbandono del territorio con la conseguente disgregazione del tessuto economico. Le cause di tale disgregazione sono da attribuire, senza dubbio, alla Guerra del Vespro che,
direttamente o indirettamente, provocò una serie di fenomeni distruttivi sull’intero territorio provinciale con conseguente abbandono dei centri abitati di più modesta dimensione demografica. I saccheggi, le carestie, il dilagante banditismo e le epidemie ebbero un’effetto devastante sull’abitato
castrense. L’abbandono momentaneo delle terre durante la guerra aggravò la gia precaria stabilità del
suolo che per la sua conformazione morfologica e geologica era soggetta più di altre zone a fenomeni
erosivi e franosi (Aversano, 1987).
11
«23 novembre 1573: una possessione do li Greci». A.S.S., notaio F. D’Alessio, fasc. 3255.
C.D.C., VII, pp. 100-101.
13
«9 aprile 1561: Una possessione posta nel loco detto Rocca Salva, vicino ille mura di Rocca Salva». A.S.S., notaio F. D’Alessio,
fasc. 3252.
14
«11 novembre 1555: Una vigna co alberi do Rocca Solla». A.S.S., notaio F. D’Alessio, fasc. 3250.
15
Il toponimo è documentato per la prima volta nel 976. C.D.C., VIII, pp. 52 a 54.
16
«Gennaio 1257: …ab orientis finis rerum ecclesie Sancte Marie que constructa est intra Castellum Montis Corbini». Nel novembre del 1260, nella descrizione della medesima proprietà, viene definita «que constructe est intro Villam Montis Corbini» (Mazzoleni e
Orefice, Amalfi 1988, pp. 615-616 e 634-635).
17
I termini «Castro» e «Villa» generalmente «indicano un insediamento aperto ma relativamente agglomerato, o comunque come
nucleo socio-insediativo di una certa consistenza ed identità». Cfr. Giorgi e Ginatempo, 1996, pp. 26-27.
12
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Questi eventi incisero profondamente sulla fertilità della parte bassa, costringendo i suoi abitanti ad
abbandonare le terre e le abitazioni e ad emigrare nei casali circostanti. Durante il XIV secolo, poi, le
continue crisi economiche, le disastrose epidemie di peste nera, il perdurante banditismo e, soprattutto, la decadenza socio-economica delle famiglie residenti provocarono l’abbandono definitivo di tutta
l’area. Alla fine del XV secolo quella che una volta era una delle zone più abitate di Montecorvino si
presentava completamente spopolata ed utilizzata per il pascolo, la raccolta delle mortelle e, nella
parte alta, per la coltivazione del grano e dell’ulivo.
Nella zona di Pugliano assistiamo, con molta probabilità dopo la Guerra del Vespro, alla formazione di insediamenti di pendio ubicati fra le Curti di San Matteo, quelle di San Michele e il Vallone
Trauso. A riscontro di ciò, infatti, vi sono Via Piana, Monte, Pendazzi e Condolizzoli. I toponimi sono
espressione, senza dubbio, dell’insicurezza delle popolazioni di fronte al dilagante banditismo.
In questi casali arroccati e fortificati, gravitanti intorno ad una piazza, si insediarono alcune famiglie legate da vincoli di vassallaggio nei confronti della Chiesa Salernitana. Gli arcivescovi favorirono
queste famiglie con vantaggiose concessioni feudali tali da farle diventare fra le maggiori dell’intera
Università. Al ceto appartenevano i De Logorio, Laudisi, Mastro Morretta18 , Santesi e Scalzi. Quest’ultime tre sono documentate dagli omonimi antroponimi che nel XVI secolo costituivano dei piccoli villaggi.
Questa rete molecolare ed intensa di piccoli abitati di pendio e di antroponimi indica chiaramente il
modificarsi delle forme socio-economiche e delle strutture di potere che caratterizzavano i siti.
Gli insediamenti di pendio riflettono un’organizzazione del territorio tesa alla sopravvivenza e alla
difesa della popolazione. La presenza degli antroponimi, invece, indicano il carattere fortemente individualista di questo nuovo ceto.
Nel Basso Medioevo, dalle fonti scritte si riscontrano nuovi toponimi quali Mulino, Macina, Casale
e Burgo, indicatori di una crescita socio-economica e demografica dell’Università di Montecorvino.
La fascia di territorio che si estende da S. Eustachio al Cimitero di S. Martino, lungo il fiume
Cornea, fu interessata fin dall’XI secolo dalla presenza di alcuni mulini. La costruzione di queste
opere idrauliche fu facilitata dalla orografia del luogo che permetteva la derivazione delle acque necessarie ad azionare le macchine dei mulini.
Un primo mulino venne costruito nella zona di S. Eustachio nell’XI secolo quando vi fu una lite di
giurisdizione fra Guglielmo di Principato e l’Arcivescovo di Salerno. Nel 1202, dopo una lite avuta tra
il nuovo proprietario di metà del mulino e la Mensa di Salerno, l’Arcivescovo Nicola concesse a
Matteo figlio di Oliviero e alla madre Graffia l’uso dell‘intero mulino per tutta la loro vita (Olivieri/
o?, 1968, pp. 193-194). Tra le clausole del documento veniva stabilito che alla morte di Matteo il
mulino ritornasse interamente in possesso della Mensa di Salerno.
Altri due mulini, documentati nel XIV secolo, vennero assegnati a due potenti vassalli della Chiesa
di Salerno: Enrico De Ligorio e Pietro Laudisi. A quest’ultimo, nella concessione del 1417, venne
assegnato un mulino diruto con i terreni circostanti, con l’obbligo di ricostruirlo e di impiantarvi una
«balcheria», «una macina olearia» e «una macina di mortelle».
Alcune conclusioni
L’analisi toponimica dell’antico Stato di Montecorvino, oggi ricadente nelle realtà amministrative
dei Comuni di Montecorvino Rovella, Montecorvino Pugliano, Bellizzi, Pontecagnano-Faiano e
18
Per le prime tre famiglie si vedano, rispettivamente, i seguenti documenti: «8 giugno 1385: Concessione feudale al notar Enrico
De Ligorio». A.D.S., Reg. Mensa n. 33. «20 luglio 1417: Concessione feudale al Magn. Pietro De Laudisio». A.D.S., Reg. Mensa, n. 33.
«5 gennaio 1373: Concessione feudale al Magistro e Giudice Benvenuto de Moretta». A.D.S., Reg. Mensa n. 33.
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Battipaglia, arricchisce fortemente la visione plurimillenaria della complessa realtà della dinamica
antropica di questo territorio. Essa ci ha permesso di leggere la stratificazione storica dell’occupazione umana, col supporto dell’analisi linguistica incrociata con quella storica e geografica.
Dal mondo romano, in cui vigeva una forma insediativa sparsa e disarticolata, gravitante intorno
alla città di Salerno, si passò a una struttura meglio organizzata e socialmente più elevata del periodo
longobardo. Le curtis, le sale, le chiese rurali, testimoniate dai toponimi medievali e rinascimentali,
sono la prova tangibile dell’esistenza di tale struttura sociale.
L’ubicazione di questi luoghi in zone periferiche o prevalentemente agricole rispetto ai nuovi abitati cinquecenteschi indica chiaramente la trasformazione avvenuta negli ultimi secoli del medioevo.
Assistiamo così a una serie di cambiamenti antropici sia nella forma insediativa che nella struttura
sociale. Infatti la nascita e la successiva scomparsa di insediamenti demici, lo spostamento di nuovi
abitati verso luoghi più riparati e difendibili, una diversa tipologia architettonica e soprattutto l’accentramento degli uomini e beni in pochi casali sono la conseguenza di avvenimenti tragici e disastrosi
avvenuti durante il XIV secolo.
Ancora una volta si dimostra, pur nella modestia del nostro contributo, che i toponimi sono diventati la memoria fisica dei luoghi, quali solchi mnemonici del tessuto cerebrale, quindi essenziali per
l’identità del territorio e della sua storia. E debbono, pena la perdita della memoria-identità, essere
acquisiti come patrimonio inalienabile della comunità.
- 106 -
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Riassunto
L’analisi toponimica dei documenti del Medioevo e del Rinascimento dell’antico stato di Montecorvino, oggi presenti
nella realtà amministrativa di Montecorvino Rovella, Montecorvino Pugliano, Pugliano, Bellizzi, Pontecagnano Faiano e
Battipaglia, fortemente arricchisce la visione millenaria della complessa realtà del dinamismo antropico di questo territorio. Dal mondo romano nel quale vige la forma dell’insediamento, sparso e disarticolato, che gravita intorno alla città di
Salerno, esso è diventato una struttura ben organizzata e socialmente in crescita nel periodo longobardo. La denominata
Curtis, le case, le chiese rurali, testimonate dai toponimi medievali e rinascimentali, sono la prova tangibile di una tale
struttura. La localizzazione di questi luoghi in aree periferiche e agricole chiaramente mostra la trasformazione nel tardo
Medioevo. Così abbiamo una serie di cambi antropici sia nell’insediamento sia nella struttura sociale.
Come in realtà la nascita e la successiva fine dell’insediamento sparso, così la nascita di nuovi centri verso luoghi
riparati e difesi, con una differente tipologia architettonica e specialmente la centralizzazione di uomini e beni in così
piccoli villaggi, sono la conseguenza dei tragici e rovinosi eventi durante il XIV secolo. Ciò che è diventato toponimo ora
è la memoria fisica essenziale per l’identità del territorio e la sua storia.
Abstract
The toponymic analysis of medieval and Renaissance documents of the old State of Montecorvino, today present in the
administrative reality of Montecorvino Rovella, Montecorvino Pugliano, Bellizzi, Pontecagnano Faiano and Battipaglia,
strongly enriches the multimillenial vision of the complex reality of the anthropic dynamic of this territory. From the
Roman world in which the form of the installation, scattered and dislocated, gravitated round the town of Salerno, it
becames a well organized structure and socially risen in the Longobard period. The so called «Curtis», the houses, the rural
churches, testified by medieval and Renaissance place-names, are the tangible proof of existence of a such social structure.
The location of these places in peripheral or agricultural areas, clearly shows the transformation happened in he last
centuries of Middle Ages. So we have a series of anthropic changes both in the form of installation and in the social
structure.
As a matter of fact the birth and the successful extinction of scattered settlements, the shifting of new inhabited centres
towards more sheltered and defensible places, a different architectonic typology and especially the centralization of men
and goods in so few hamlets, are the consequence of the tragic and ruinous events during the XIV century. That’s why
toponomy becames, today, the physical memory, so essential for the identity of the territory and its history.
Résumé
L’analyse toponymique des documents du Moyen-âge et de la renaissance de l’ancien État de Montecorvino, présenté
aujourd’hui dans la réalité administrative des communes de Montecorvino Rovella, Montecorvino Pugliano, Bellizzi,
Pontecagnano Faiano, Battipaglia, enrichit fortement la vision multimillénaire de la complète réalité de la dynamique
anthropique du territoire. D’une société romaine où était en vigueur une forme d’installation dispersée et désarticulée,
gravitant autour de la ville de Salerno, on passe à la structure mieux organisée et socialement plus élevée de la période des
Lombards. Les cortes, les salles, les églises rurales, témoignées par les toponymes médiévaux et de la renaissance, sont
l’épreuve éclatante de l’existence de cette structure sociale.
L’installation dans ces lieux en périphérie, surtout agricole avec de noveaux habitants du XVIe siècle, signifie clairement
la transformation atteinte dans les derniers siècles du Moyen-âge. On assiste ainsi à une série de changements anthropiques
soit sans forme d’installation que dans la structura sociale. En effet la naissance et la successive disparition de l’habitat et
déplacément des noveaux habitants vers les lieux plus sur, une differente typologie architetonique et surtout la centralisation
des hommes et des biens sont la consequènce des evènements tragique et désastreux arrivés pendant le XIVe siècle. La
toponomastìque est devenue la memoire physique des lieux, ce qui’est essentielle pour l’identité du territoire et de son
histoire.
- 108 -
Armando Finodi*
«LE PERAZZETA». I PODERI NEL COMUNE DI FORMELLO (RM):
L’IDENTITÀ TERRITORIALE DI UNA COMUNITÀ RURALE (1950-2000)
1. Il toponimo ufficiale e il toponimo d’uso
La località Le Perazzeta è un territorio rurale collinare di circa 170 ettari, situato nel lembo sudorientale del Comune di Formello (RM), tra il centro storico di Formello e la periferia a nord di Roma
(Prima Porta), tra la via Cassia e la via Flaminia. Latifondo ed in gran parte incolto fino agli Quaranta
del Novecento, è stato dissodato dalle famiglie assegnatarie dei poderi dell’Ente Maremma tra la metà
degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Al toponimo ufficiale Le Perazzeta, dalla fine degli anni
Cinquanta ai primi anni Novanta si è affiancato, nella percezione diffusa degli stessi agricoltori
assegnatari e in genere degli abitanti di Formello, un altro toponimo, quello de I Poderi: lontana dal
forte luogo identitario costituito dal centro storico di Formello, isolata in un territorio per lo più da
dissodare ma che l’insediamento agricolo avrebbe trasformato (negando il toponimo stesso), la comunità delle Perazzeta ha chiesto al toponimo non ufficiale I Poderi una decisiva funzione di matrice di
identità.
Nella sovrapposizione tra il toponimo ufficiale e quello più noto nella percezione diffusa1 c’è la
storia dell’identità territoriale di una generazione di agricoltori formellesi (da braccianti agricoli a
coltivatori diretti con possibilità di riscatto trentennale del podere) e di quello spazio rurale: l’assegnazione dei poderi e il dissodamento, la civiltà dei casali, la crisi dell’economia e della cultura rurale, il
rischio di una periferizzazione delle campagne romane e di un’ulteriore «perdita di leggibilità del
paesaggio italiano» (Turri, 1979, p. 3), la problematica politica protettiva da parte del Parco di Veio,
l’istituzione di un museo etnografico.
La vicenda delle Perazzeta mostra, dunque, alcuni motivi di fondo (e i repentini cambiamenti)
della storia e della geografia dell’agricoltura contemporanea.
2. I toponimi formellesi
Il toponimo Formello ha origini antiche, essendo infatti il diminutivo del latino forma-ae (Conti,
1984, p. 164), le condutture di costruzione etrusca scavate nel tufo per il drenaggio dell’acqua2 ; il
territorio era infatti sotto il controllo di Veio. Dopo il dominio romano e lo spopolamento dell’età
medievale, a partire dal X secolo d. C. si assiste, in tutto il territorio tra la via Cassia e la via Flaminia,
alla concentrazione delle popolazioni in altura, all’interno di villaggi fortificati. Formello infatti sorge
su uno sperone vulcanico: citato come castrum nel 1026, dal 1081 risulta possesso del Monastero di S.
* Università degli Studi «La Sapienza» di Roma - Dipartimento di Storia moderna e contemporanea.
1
Nella comunicazione a questo convegno, intitolata Didattica dell’onomastica: la ricerca delle proprie radici, E. Caffarelli ha
indicato nel rapporto tra nomi scritti e nomi orali una delle linee di ricerca della toponomastica contemporanea.
2
I derivati del termine forma sono capillarmente diffusi in tutto il territorio regionale. «Nella zona dei Castelli Romani la Forma
indica piccoli fossatelli che conducono fuori dai campi coltivati l’acqua piovana, mentre Formale è una canalizzazione costruita generalmente in età classica per lo scolo delle acque necessarie per la bonifica idraulica dei terreni. Nel sud del Lazio la Forma è una piccola
conduttura a muro per convogliare le acque, o anche uno stretto canale di mattoni a fior di terra, per raccogliere le acque delle sorgenti»
(Conti, 1984, p. 164).
- 109 -
Paolo fuori le mura, e nel corso del XIII secolo passa alla famiglia Orsini per concessione di Papa
Niccolò III. Nel 1661 il feudo di Formello viene venduto alla famiglia Chigi, che, tra rivendicazioni
delle comunità rurali e vendita ad altre famiglie di ampi appezzamenti, lo possederà fino alla seconda
guerra mondiale.
Derivanti per lo più dalla vegetazione prevalente, dalle condizioni del suolo, dalle coltivazioni, gli
attuali toponimi formellesi raccontano la progressiva colonizzazione agricola di territori rimasti incolti dal medioevo alle soglie dell’età contemporanea. Prevalgono i fitonimi: oltre alle Perazzeta, Selvotta,
Selviata, Ficoraccia, Olmetti, Bosseta, Le Rughe, Albereto, Valle Fiorenza, Prato La Corte, Prato
Roseto, Praticello, Castagneto, Grossara, Sorbo, Vigna Grande, Fossi Vecchi. Presenti anche toponimi
che si riferiscono alle condizioni dei suoli (come La Pietraia e Pantanicci), ai rilievi (come Monte
Aguzzo, Monte Madonna, Montecco, Monte Fiore, Monte Stallone, Monte Folco) o all’opera di
dissodamento (come Sodi e Le Sodera). Di carattere agrario sono anche i toponimi Mola Vecchia e Le
Macère (derivante, quest’ultimo, dal nome dei muretti di pietra a secco che separavano le proprietà
Chigi dai terreni di semina degli usi civici). La «Mola di Formello» compare già nel seicentesco
Catasto Alessandrino3 e nella Carta Topografica dell’Agro Romano di Giovanni Battista Cingolani
(1692), carta in cui compare, oltre alla «Mola», anche «Villa Versaglia», la villa che il cardinale Flavio
Chigi fece costruire nella seconda metà del XVII secolo. La mola e la villa4 , ovvero il centro dell’economia agricola e il simbolo del potere padronale. Nel Catasto Gregoriano, e poi nella cartografia
dell’IGM e nei catasti dello Stato unitario, i due toponimi Mola e Villa Versaglia diventano rispettivamente Mola Vecchia e La Villa.
3. «Le Perazzeta» e la Riforma agraria
Noi semo creature de la terra.
Edmondo Finocchi (agricoltore, classe 1912)
Il toponimo Le Perazzeta deriva dalla diffusa presenza dei perazzi, i peri selvatici, tra la vegetazione cespugliosa e arbustiva che ricopriva la zona prima della colonizzazione agricola degli anni Cinquanta. La zona non appare illustrata nel Catasto Alessandrino, in cui compaiono, in altre regioni dello
Stato Pontificio, i due toponimi Perazzeta e Perazzeto5 . La contrada Le Perazzeta appare invece nel
Catasto Gregoriano6 ; dal relativo Brogliardo7 si apprende che vi prevaleva il bosco («bosco», «bosco
forte» e «pascolo boscato»), ma era presente anche il «seminativo» e il «prato». La cartografia IGM8
e i catasti dello Stato unitario conservarono la toponomastica del Catasto Gregoriano.
3
Archivio di Stato di Roma, Catasto Alessandrino, Sviluppo della strada fuori di Porta del Popolo da Roma sino a Viterbo (per
Sutri e per Ronciglione), 433/V; e Casale del Bosco di Baccano, 433/5.
4
Ampia la diffusione dei due toponimi in tutta la regione (Conti, 1984, pp. 203-4 e 282). La mola, di proprietà privata, versa in un
grave stato di abbandono, come pure la Villa Versaglia, di proprietà dell’A.R.S.I.A.L. Sorte migliore ha avuto, ma soltanto di recente, il
Palazzo Chigi (il cui primo nucleo architettonico risale alla fine del XIII secolo) nel centro storico di Formello: attualmente è sede del
Museo dell’Agro Veientano (Della Ratta Rinaldi-Boanelli, 1998).
5
ASR, Catasto Alessandrino, risp. Villa del Sasso, nel territorio di Cerveteri (428/25), e Casale di Marco Simone (429/7).
6
ASR, Catasto Gregoriano, Comarca di Roma. Governo, e Comune di Formello. Mappa ridotta di Monte Aguzzo, sezione 2 (Comarca
60). Vi compaiono molti dei toponimi contemporanei: Mola Vecchia, Monte Aguzzo, Prato La Corte, Vigna Grande, Valle Fiorenza, La
Bandita, Bandinella, Grossara, Monte Stallone, La Villa, Prato Comune, Selva Piana, Fontanile di Acqua Palombina, Marvaiata, Valle
Rotonda, Valle Canepinara, Valle del Santissimo. Oggi in disuso Vigna del Duca e Vigna di Mancini.
7
ASR, Catasto Gregoriano, Brogliardo da Tavolo di Monte Aguzzo, sez. II di Formello (Comarca, 60). Gli appezzamenti appartenevano alle famiglie Chigi e Santi e a enti ecclesiastici locali (come l’Arcipretura della Chiesa di S. Lorenzo di Formello e la Cappella di
S. Antonio di Sacrofano).
8
F. 143 II SE, Formello. Il rilievo del 1879 e le ricognizioni del 1906, del 1914 e del 1925 indicano un Monte Perazzeta (alla
confluenza di Valle Canepinara e Valle del Santissimo), non rilevato nel 1950. In quest’ultimo rilievo, tra Le Perazzeta e Valle Canepinara
compare il nuovo toponimo «Santi Martiri». Davvero emblematica della fine degli usi civici la scomparsa del toponimo Prato Comune.
- 110 -
Com’è noto, nel corso degli anni Cinquanta, con l’approvazione della legge di Riforma Fondiaria,
l’Ente di Riforma – nel medio e alto Lazio fu l’Ente Maremma9 – procedette all’espropriazione di vasti
appezzamenti terrieri appartenenti a grandi proprietari (Simoncelli-Della Nesta, 1991). Al di là delle
interpretazioni storiografiche, la Riforma fu una grande stagione dell’agricoltura italiana contemporanea, una grande operazione territoriale che, a seconda dei casi, si adattò, sostituì o si sovrappose alla
toponomastica cartografata.
Il Comprensorio della Maremma Tosco-Laziale era esteso per 995.390 ha, e comprendeva 28 comuni della provincia di Grosseto, 28 della provincia di Roma, 24 della provincia di Viterbo, 10 della
provincia di Pisa, 3 della provincia di Livorno e 3 della provincia di Siena. Il regime fondiario del
Comprensorio era caratterizzato dalla grande proprietà: il 53% della superficie produttiva era di proprietà di aziende superiori ai 500 ha (ivi, p. 43).
L’Ente espropriò 178.871 ha e ne assegnò in totale 171.768, realizzando 7.983 poderi e 11.506
quote agricole; i poderi (dall’ampiezza media di 18 ha) occuparono il 75,3% della superficie assegnata, mentre le quote (dall’ampiezza media di 3,3 ha) ne occuparono il 22,3% (ivi, p. 101). Il Centro di
Colonizzazione di Prima Porta comprendeva territori nei Comuni di Roma, Formello, Castelnuovo di
Porto, Campagnano di R., Sacrofano, Riano, Fiano, Mazzano R., Nazzano, Capena, Morlupo, Rignano
F., Torrita T., espropriò 5.165 ha (ivi, p. 94).
Nel Comune di Formello furono espropriati possedimenti delle famiglie Chigi e Santi: l’Ente Maremma frazionò i terreni in appezzamenti di 3 ettari circa e in poderi di 11-12 ettari circa, li assegnò a
unità famigliari di agricoltori particolarmente numerose10 e costruì una casa colonica (il casale) in
ciascun podere di 12 ettari. I casali furono costruiti nelle località Perazzeta (12 casali), Montecco (3
casali) e La Villa (un casale), e in un secondo tempo anche nelle località Monte Folco (adiacente alle
Perazzeta, 3 casali), Prato La Corte, La Ficoraccia.
I casali (del tipo a scala esterna con abitazione sovrapposta al rustico) erano composti da stalla per
bovini, granaio e magazzino (al pianterreno), e abitazione (al primo piano) corredata da un elementare
arredamento (pavimentazione in mattonelle di graniglia, stufa-cucina, lavandino di granito, serbatoio
per l’acqua, water). Assieme al casale venivano consegnati anche il porcile (la porcareccia), il pollaio
(il gallinaro), entrambi in muratura, una struttura in muratura per il deposito del letame (la stabbiara),
una pompa per lo smaltimento dei liquami di stalla, e una coppia di vacche da lavoro (la vetta), un
carro agricolo (la barrozza) e un aratro agli assegnatari che ne erano sprovvisti. L’Ente Maremma
inoltre garantiva agli assegnatari l’assistenza agronomica e finanziaria, attraverso corsi di formazione,
la presenza di due funzionari e una cooperativa per i lavori agricoli più impegnativi.
9
L’Ente Maremma venne istituito con D.P.R. 7 febbraio 1951 n. 66. La denominazione originaria era «Ente per la Colonizzazione
della Maremma Tosco-Laziale e del Territorio del Fucino»; con la legge 9 agosto 1954 n. 639 venne creato un nuovo e distinto Ente di
Riforma nel Fucino. Oltre al Comprensorio della Maremma, la Riforma operava nel Compr. del Delta Padano, nel Compr. del Fucino,
nel Territorio del Garigliano e Volturno, nel Terr. del Sele, nel Compr. Apulo-lucano, nel Compr. della Sila, nel Compr. della Sicilia e nel
Compr. della Sardegna. La Riforma fu preparata e accompagnata da una vasta pubblicistica parlamentare, economica, sociale ed
agronomica. Gli stessi Enti promossero studi e pubblicazioni.
10
«I requisiti di legge per la scelta degli assegnatari erano la qualifica di lavoratore manuale della terra, da accertarsi dagli Ispettori
Agrari Provinciali competenti per territorio, nonché la mancanza o l’insufficienza proprietaria di beni rustici rispetto alla capacità
lavorativa della famiglia contadina. Nel quadro dei predetti requisiti, assunsero posizione preferenziale i contadini che, all’atto dell’entrata in vigore della legge sulla Riforma Fondiaria, avevano da tempo in corso, per lo stesso terreno da assegnare, contratti miglioratari
a lungo termine, con conseguente esecuzione di sostanziali e permanenti migliorie. Altri criteri di scelta furono legati a particolari
situazioni locali, quali il rapporto tra le varie categorie di lavoratori (mezzadri, affittuari, braccianti, ecc.), la composizione dei nuclei
familiari e, in generale, il rapporto tra numero di richiedenti in possesso dei requisiti e disponibilità dei terreni da assegnare. Le domande
furono 32.432. Le assegnazioni avvennero per sorteggio fra gli aventi diritto, mediante contratto di vendita con pagamento rateale del
prezzo in 30 anni al tasso dell’1% e con riservato dominio a favore dell’Ente fino all’integrale riscatto. Il prezzo fu fissato in 2/3
dell’indennità di espropriazione con l’aggiunta di non oltre il 44% del costo sostenuto dall’Ente per le opere di trasformazione eseguite
nel fondo assegnato, e cioè con la totale esclusione da ogni addebito per le opere di interesse collettivo. Dopo tre anni di prova il
contratto diveniva definitivo e non poteva perciò essere risolto se non per gravi inadempienze dell’assegnatario o per sua esplicita
richiesta. Con successiva legge, nel 1967, fu conseguito il riscatto anticipato del fondo. Rimasero fermi, tuttavia, per la durata del
trentennio, i vincoli di inalienabilità e di indisponibilità dei fondi assegnati» (Simoncelli-Della Nesta, 1991, p. 100).
- 111 -
L’architettura rurale dei casali dell’Ente Maremma finiva quindi per identificare la località Perazzeta,
in cui questi erano per la maggior parte dislocati, e indicati con la numerazione progressiva, da 305 a
316, dei poderi. Proprio nelle Perazzeta era prevista un’area con attività di servizi per gli agricoltori
(magazzini per l’approvvigionamento di mangimi, sementi, fertilizzanti; un ambulatorio veterinario,
un negozio di alimentari e probabilmente una scuola elementare e una chiesa), che fu poi realizzata in
località Borgo Pineto, nell’adiacente territorio sacrofanese. Per questo motivo le famiglie delle Perazzeta
hanno sempre chiamato quest’ultima località Il Centro, altro toponimo d’uso, che per molte esigenze
(acquisto di alimenti, sementi, concimi) aveva chiaramente sostituito Formello.
Dopo più di un sessantennio di occupazioni e lotte per l’uso delle terre padronali (Caracciolo,
1952; Ugolini, 1957, pp. 130-42; Bogliari, 1980; Nenci, 1991, pp. 167-251), l’assegnazione degli
appezzamenti e dei poderi dell’Ente Maremma rappresentò un momento fondamentale per la comunità rurale formellese. Le testimonianze raccolte nel corso della ricerca Radici e tradizioni contadine nel
Territorio di Formello tornano spesso sulla Riforma agraria. Come ricorda l’agricoltore Edmondo
Finocchi, quando l’Ente Maremma ci ha dato le terre è stato solo perché tutto il popolo aveva manifestato violentemente e la lotta era dura senza paura (AA.VV., 2002, p. 13).
Prima della costruzione dei casali, il paesaggio delle Perazzeta era costituito soprattutto da incolto
usato per il pascolo ovino, come nella pratica latifondista11. Com’è noto, nella regione collinare-montana a nord di Roma prevaleva nettamente l’insediamento accentrato (Prete-Fondi, 1957, p. 110). Nel
corso della prima metà del secolo i terreni più fertili, in genere prati vallivi, vennero concessi da uno
dei proprietari, Pietro Santi, ad agricoltori formellesi interessati per la coltivazione stagionale di cereali, in cambio della cosiddetta corrisposta (la quarta parte della produzione).
Con i casali e l’insediamento fisso degli agricoltori si assisteva ad un faticoso generale dissodamento
dei terreni e alla formazione del paesaggio rurale contemporaneo: il territorio delle Perazzeta si arricchiva infatti di colture regolari (cereali, ortaggi, vigneti, oliveti, frutteti, foraggio) per il fabbisogno
alimentare degli agricoltori e per l’allevamento bovino e la produzione del latte.
La colonizzazione agricola aveva dunque cancellato l’origine evidente del toponimo, allentandone
progressivamente la memoria. E, al contrario, quel toponimo d’uso, un toponimo non ufficiale mai
registrato sulle carte, I Poderi, rappresentava pienamente l’identità territoriale delle famiglie
assegnatarie, ricordava il loro ruolo svolto nel dissodamento e nella colonizzazione agricola. Lontana
dal forte luogo identitario costituito dal centro storico di Formello, isolata in un territorio per lo più da
dissodare ma che l’insediamento agricolo avrebbe trasformato, la comunità delle Perazzeta ha chiesto
al toponimo non ufficiale I Poderi una decisiva funzione di matrice di identità. Con l’appoderamento,
gli agricoltori assegnatari, come si è accennato, da braccianti agricoli divennero coltivatori diretti e,
attraverso il riscatto trentennale, proprietari.
È interessante notare come dalla ricerca Radici e tradizioni contadine nel Territorio di Formello
emerga che, nella percezione comune, le terre distribuite appartenessero tutte alla famiglie Chigi12; in
realtà i poderi delle Perazzeta e di Monte Folco (15 in tutto, la grande maggioranza) furono ricavati
11
La desolazione della campagna romana è ampiamente documentata dalla pittura paesaggistica romana e dall’iconografia e dalla
letteratura del Grand Tour fino a F. Gregorovius e alla «Società dei XXV della Campagna romana». Celebri due sonetti di V. Alfieri e G.
G. Belli. Uno studio su tredici piccole comunità rurali (tra cui Sacrofano, ma non Formello) del latifondo laziale nella zona tra la via
Flaminia e il Tevere, tra la fine del XVII e il 1870, è di De Clementi, 1989.
12
Tra le testimonianze, indicative quella di Germano Zavagnini («C’era fame di terra. Noi lavoravamo la terra, sapevamo fare solo
quello. E quindi j’avemo levato tutta la terra al principe e gli ulivi che c‘erano sopra; a me m’è toccata quella terra davanti alla villa») e
quella di Mario Rossetti («Con la riforma agraria l’Ente Maremma distribuì altre terre, cioè tutta la proprietà dei Chigi, principi di
Formello») (AA.VV., 2002, p. 106). Si allude evidentemente soltanto agli appezzamenti di tre ettari e alle quote di uliveto.
- 112 -
dalle proprietà dei Santi. Evidentemente era forte il senso di rivalsa nei confronti della famiglia nobiliare che aveva posseduto in origine tutti i terreni e che possedeva alla soglia della Riforma il Palazzo
e la Villa (i simboli del potere), e terreni nelle immediate vicinanze del centro storico (come Montecco
o Monte Stallone), terreni più ambiti, più vicini, in genere dissodati e coltivati, e ad ogni modo più
visibili. Nelle località vicine al centro storico prevalse nettamente, come si è detto, il frazionamento in
appezzamenti di 3 ettari e in quote di oliveto di terreni ancora appartenenti ai Chigi. I poderi de Le
Perazzeta, lontani, incolti e che riguardavano tutto sommato poche famiglie, nell’immaginario
formellese passarono in secondo piano. Gli stessi casali furono consegnati senza strade, acqua e corrente elettrica, condizioni ben più svantaggiose in poderi situati agli estremi confini del territorio
comunale. L’espressione formellese «giù a li poderi» testimonia ancora oggi questa distanza geografica e culturale. Ma ancora una volta, stavolta dalla prospettiva opposta, quella degli abitanti del centro
storico e non quella degli agricoltori assegnatari, il toponimo I Poderi prevaleva su quello ufficiale.
4. «Le Perazzeta». I Poderi nella «periferizzazione pluridirezionale»
L’espansione edilizia della periferia romana (Prima Porta), che pure giungeva nel corso degli anni
Ottanta a lambire il territorio dei casali, sembrava addirittura ignorare completamente Le Perazzeta /
I Poderi, considerati territori rurali da edificare senza una simbologia identitaria decisiva.
Rispetto a questa rurbanizzazione di fatto spesso incontrollata che uniforma tristemente identità e
paesaggi13, il patrimonio storico-architettonico della campagna romana settentrionale (casali di diverse epoche ed altre architetture rurali, appunto, ma anche siti archeologici considerati minori, torri)
«potrebbero costituire un momento fondamentale per imprimere forza e significatività alla qualificazione delle zone periferiche» (De Vecchis, 1989, p. 315), restituendo alle popolazioni locali senso di
identità, radicamento e rivalutazione delle origini, attivazione della memoria collettiva, appartenenza
ad una cultura e ad un paesaggio. In tal senso, l’architettura rurale è il «connettivo sociale e ambientale
del paesaggio agrario» (Agostini, 1999, p. 28), l’origine sia territoriale che simbolica del paesaggio
contemporaneo14, e per questo potrebbe acquistare il riconoscimento diffuso di bene culturale, attualmente non ancora riscontrabile. I rapidi mutamenti dell’agricoltura contemporanea rendono necessarie misure di valorizzazione o addirittura di recupero per architetture rurali, come i casali dell’Ente
Maremma, risalenti ad appena cinquant’anni fa. È infatti soprattutto negli hinterlands più o meno
vasti che si corre il rischio di assistere ad una ulteriore «perdita di leggibilità del paesaggio italiano»
(Turri, 1979, p. 3) dovuta ai modi repentini e non pianificati dello sviluppo. E il caso romano è davvero uno dei casi-limite: con l’aumento demografico del dopoguerra, già «tutta l’area comunale ha subito trasformazioni radicali e i paesaggi – considerati nel loro complesso – si sono sovrapposti in rapida
stratificazione» (Paratore, 1979, p. 14).
13
I. Insolera ha più volte denunciato la «periferizzazione pluridirezionale» che ha investito nel dopoguerra lo spazio rurale attorno
a Roma, derivante dall’espansione edilizia delle periferie della Capitale ma anche dei paesi limitrofi. Sull’urbanizzazione delle campagne romane nel corso del XX secolo, cfr. Bortolotti, 1988. Nel Comune di Formello la popolazione è passata dai 2810 abitanti del 1971
ai 9700 del 2000 (fonte: Comune di Formello).
14
V. Guarrasi ha rilevato che «I beni culturali non sono semplicemente collocati in un luogo, ma piuttosto generano il paesaggio, e
rendono riconoscibili i luoghi in cui sono situati. Funzionano come punti di origine dello spazio geografico e come marche d’identità
territoriale». (Guarrasi, 1994, p. 12). Come ha ricordato C. Caldo (Caldo, 1994, pp. 15-30), il cosiddetto “stress ambientale” dovuto alle
trasformazioni territoriali può indurre una collettività ad attribuire un determinato valore simbolico ad un “monumento”. La ricerca
coordinata da Caldo, che interpretava un bene culturale nel suo rapporto con lo spazio geografico e la percezione diffusa, comprendeva
del resto anche un caso di architettura rurale: si tratta delle cascine a corte della periferia torinese e del riuso di quella detta «Il Giajone»
(Imarisio, 1994, pp. 165-78).
- 113 -
Con la crisi dell’agricoltura italiana e laziale degli anni Novanta (dalla politica del set-aside alle
quote latte), assieme alla diminuzione della popolazione attiva nel settore primario15, si assisteva alla
fine di molte delle aziende agricole dei poderi delle Perazzeta e quindi al riuso e talvolta al degrado
delle architetture rurali, alla parcellizzazione dei terreni, alla diffusione anche in aree agricole di nuove costruzioni residenziali, a deprecabili casi di abusivismo edilizio.
Con le nuove generazioni, con la crisi dell’economia rurale della zona e con la denominazione di
Via delle Perazzeta nelle tabelle viarie (avvenuta però soltanto nei primi anni Novanta), il toponimo
originario sembra tornare a prevalere su quello de I Poderi, proprio quando si rendono necessarie
misure di valorizzazione di quella civiltà poderale dei casali che ha originato, come si è visto, il
paesaggio rurale contemporaneo.
5. Misure di valorizzazione della civiltà poderale dei casali delle Perazzeta: il Parco di Veio e un
Museo-Centro Studi della civiltà contadina
Quel toponimo d’uso è stato dunque uno dei caratteri di quella civiltà poderale di cui si stanno
allentando rapidamente i segni sul territorio, ed è una delle chiavi di lettura per la valorizzazione del
paesaggio e della cultura delle Perazzeta.
Dal 1997 il territorio delle Perazzeta, assieme a circa il 70% del Comune di Formello, è inserito nel
Parco Regionale di Veio16. Il Parco, alle soglie della conurbazione romana e anzi intrecciato alle sue
direzioni di sviluppo, rappresenta pienamente la nuova concezione di area protetta nata negli anni
Sessanta, una concezione che, com’è noto, include non solo paesaggi naturali (la natura vergine e
maestosa dei Parchi statunitensi, africani o australiani, praticamente impossibile da rintracciare nel
continente europeo), ma anche paesaggi rurali, centri minori e aree antropizzate (Pinna, 1995).
Tra le finalità del Parco c’è ovviamente la tutela, il recupero e la valorizzazione dei paesaggi (Ente
Regionale Parco di Veio, Statuto del Parco, art. 4 la), e l’incoraggiamento delle «attività agricole
come fattore di tutela ambientale» (Ib., art. 32, 2d); e ai Comuni è attribuita priorità nella concessione
di finanziamenti regionali, anche provenienti da fondi statali e comunitari, per progetti legati al «recupero
dei nuclei abitati rurali» (Ib., art. 30, 1b) e alle attività agrituristiche (Ib., art. 30, 1g)17. Ma la necessità
di armonizzare le misure di tutela dei paesaggi tradizionali con le richieste di sviluppo anche edilizio
delle amministrazioni locali ha fino ad oggi reso molto deboli le politiche di tutela, rendendo il Parco
addirittura inviso a larghi strati delle popolazioni, per i quali evidentemente il carattere vincolistico
dell’area protetta ha prevalso in questi cinque anni sulle opportunità di conservazione e di sviluppo
sostenibile. Così è avvenuto anche alle Perazzeta, in cui i paesaggi tradizionali da salvaguardare sarebbero proprio quelli originati dai poderi dell’Ente Maremma. Ma su richiesta degli attuali residenti,
ancora in gran parte agricoltori, il Consiglio comunale di Formello ha proposto all’Ente Parco una
nuova perimetrazione che esclude, assieme ad altre zone, anche Le Perazzeta (Comune di Formello,
2001, p. 48).
15
Nella provincia romana la percentuale di addetti all’agricoltura è scesa dal 4,5% al 3,3% della popolazione attiva nel decennio
1971-81, e infine ad una percentuale inferiore al 3% nel decennio successivo (Gallo, 1991, p. 26). Un’analisi sulle condizioni dell’agricoltura contemporanea nella provincia di Roma si ritrova in Moretti, 1999, pp. 91-132.
16
Il Parco si estende su una superficie di quasi 15 mila ettari, tra le vie consolari Cassia e Flaminia, dai Monti Sabatini fino ad
oltrepassare il Grande Raccordo Anulare. È compreso nei Comuni di Roma (per circa 7 mila ettari), Campagnano di Roma, Castelnuovo
di Porto, Formello, Magliano Romano, Mazzano Romano, Morlupo, Riano e Sacrofano.
17
Com’è noto, tra le finalità dell’agriturismo c’è «la salvaguardia del patrimonio rurale, naturale ed edilizio» (L. R. n. 36/1997,
Norme in materia di agriturismo, art. 1).
- 114 -
Sulla civiltà poderale dei casali si incentra invece dichiaratamente il costituendo «Museo-Centro
Studi della civiltà contadina di Formello Casolare 311». Il museo (denominato «Casolare 311», dal
numero poderale del casale e di proprietà di Domenico Finocchi, figlio di uno degli agricoltori
assegnatari) vuole ricostruire le attività, gli strumenti di lavoro e le culture della campagna romana a
nord di Roma attraverso la civiltà dei casali dell’Ente Maremma, dagli anni Trenta agli anni Ottanta
del Novecento, conservando tutti gli attrezzi di cui erano dotati i casali nel periodo 1955-1970 e
documentando il passaggio dalle tecniche tradizionali alla meccanizzazione degli anni Settanta18.
Esempio di riuso e valorizzazione del patrimonio architettonico rurale, il museo si propone inoltre
di promuovere studi sulla civiltà rurale del medio Lazio del Novecento (aspetti socio-economici, con
particolare riferimento alla Riforma dell’Ente Maremma, tradizioni e tecniche agricole), in collaborazione con il Dipartimento di Storia moderna e contemporanea dell’Università degli studi «La Sapienza» di Roma. Se nel Lazio i musei etnografici hanno avuto origine dalla consapevolezza del rapido
tramonto delle culture tradizionali19, è interessante sottolineare come il museo eviti una astorica
mitizzazione del mondo rurale, ma si proponga, al contrario, come occasione di studio dei rapporti tra
spazi agricoli e rurbanizzazione, tra l’origine dei poderi e le maglie incerte del loro futuro.
18
Nel pianterreno del casale si sono realizzate la stanza della produzione del latte, la stanza del vino e dell’olio, la stanza degli
attrezzi agricoli (ospitata nella stalla originaria), due interni (la cucina e la stanza da letto), gli spazi dedicati alla figura femminile, alla
religiosità popolare, ai giochi e alla festa. Si sta provvedendo inoltre al restauro del pollaio, del porcile, del fontanile e del deposito del
letame, che in origine delimitavano la caratteristica aia. L’area museale comprenderà anche un’area per incontri e dimostrazioni didattiche. L’iniziativa, privata, ha avuto il patrocinio del Comune di Formello e del Parco di Veio. Alcune testimonianze di agricoltori
anziani – le fonti orali di questa ricerca –, tra cui quella di E. Finocchi in epigrafe al § 3, sono state raccolte proprio tra gli attrezzi del
museo.
19
Cfr. Puccini, 2002, pp. 11-41. L’Autrice riprende il concetto di «coscienza del prezzo pagato» nel passaggio dal lavoro contadino
a quello industriale espresso da A. M. Cirese in Cirese, 1977, pp. 25-6. Sul rapporto tra trasformazioni territoriali e attribuzione ad un
monumento del valore di «bene culturale», cfr. supra, n. 14
- 115 -
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- 117 -
Riassunto
Dopo la Riforma agraria degli anni Cinquanta e l’assegnazione dei poderi e dei casali, al toponimo ufficiale della
località Le Perazzeta (nel Comune di Formello, RM) si è affiancato, nella percezione diffusa degli stessi agricoltori assegnatari
e in genere degli abitanti di Formello, un altro toponimo, quello de I Poderi: lontana dal forte luogo identitario costituito
dal centro storico di Formello, isolata in un territorio ostile ancora da dissodare ma che l’insediamento agricolo avrebbe
trasformato (negando il toponimo stesso), la comunità delle Perazzeta ha chiesto al toponimo non ufficiale I Poderi una
decisiva funzione di matrice di identità, attestando le trasformazioni territoriali dovute alla colonizzazione agricola e la
nuova identità sociale di coltivatori diretti con possibilità di riscatto trentennale dei terreni.
Abstract
After the agricultural Reform of the 1950s and the distributions of the farms, farmers and inhabitants of Formello
introduced the toponym «I Poderi» referring to «Le Perazzeta». Beeing isolated by untilled and hostile surroundings, the
rural community of Le Perazzeta is situated quite far from the historical centre of Formello. For the inhabitants of La
Perazzeta, the toponym «I Poderi» was of a significant importance regarding their matrix of identity. The toponym I
Poderi thus attested the territorial changes, due to the agricultural colonization, and the new social identity of the farmers,who
had been given the opportunity to ransom the farms after 30 years.
Résumé
Après la réforme agraire des années cinquante et l’attribution des domaines et des fermes, dans la perception diffusée
chez ces même agriculteurs rétribués et chez les habitants de Formello en général, s’est accolé au toponyme officiel de la
localité «Le Perazzeta» (de la commune de Formello, RM), un autre toponyme, celui de «Poderi». Eloignée du centre
historique de Formello, fort lieu identitaire, et isolée dans un territoire hostile encore à défricher – mais que l’établissement
agricole allait transformer niant le toponyme même – la communauté de La Perazzeta a demandé au toponyme non officiel
I Poderi de jouer le rôle décisif de matrice identitaire, attestant ainsi des transformations territoriales dues à la colonisation
agricole et de leur nouvelle identité sociale de cultivateurs directs avec possibilité de relâche des sols après 30 années.
- 118 -
Rubino Luongo
CAMPAGNA IN PROVINCIA DI SALERNO
Toponomastica e identità del territorio*
1.1. Le caratteristiche fisiche del territorio
Il territorio di Campagna occupa il versante meridionale dei monti Picentini e si estende in forma di
quadrilatero irregolare dal crinale di m. Polveracchio (m. 1790) fino al corso del Medio-Sele (m. 50
circa).
I confini della zona montuosa sono segnati a nord dal lungo crinale di m. Polveracchio (Comune di
Acerno), a nord-est dalla Caccia di Senerchia (anche confine provinciale), ad ovest dalla linea m.
Raione-m. Molaro-m. Sant’Eremo (Comuni di Olevano sul T. ed Eboli). Fuori dalla zona montuosa,
nella fascia collinare che recinge gli ultimi contrafforti collinari dei Picentini, i confini, con Eboli ad
ovest e con Oliveto Citra e Contursi ad est, non si appoggiano ad ostacoli naturali ben evidenti e
segnano una linea spezzata, che occasionalmente si appoggia a torrenti o a strade vicinali per congiungersi, infine, col Sele, che del territorio segna anche il confine più basso e meridionale.
All’interno del quadrilatero montuoso di confine si sviluppano in senso longitudinale altri due
complessi montuosi, allineati uno sulla direttrice m. Calvo (m. 1333)-m. Croce e l’altro sulla direttrice
m. Sillaro (m. 1104)-m. S. Salvatore (m. 1073)-Ripa della Guardia (m. 700 circa), così delimitando tre
profondi solchi vallivi percorsi ad est dal torrente Trigento, che confluisce direttamente nel Sele; al
centro dal fiume Tenza e ad ovest dal fiume Atri, che confluiscono in un unico corso d’acqua in
corrispondenza del triangolo vallivo dove si è sviluppato il centro urbano di Campagna; il quale sorge
proprio nel punto dove i monti orientati da nord a sud (m. Sant’Eremo, m. Croce, Ripa della Guardia)
quasi si chiudono ad anello e si incontrano a costituire i cateti di un triangolo naturale. Il quale costituirebbe un ambiente chiuso se il Tenza, erodendo i calcari di uno dei suoi vertici e scavando una
profondissima gola, non si fosse aperto il varco verso le terre di pianura.
La zona collinare di Campagna è parte di quel vasto arco di terreni sedimentari, che s’appoggia
sugli ultimi rilievi meridionali dei Picentini da Montecorvino R. fino ad Oliveto Citra e che va declinando più o meno lievemente verso il Sele e i terreni della Piana. Essa contiene le sue massime altezze
tra i 500 e i 250 metri, ma si presenta più bassa e con pendenze più lievi proprio in corrispondenza
della sponda destra del Tenza, in relazione con la maggiore degradazione erosiva favorita dal solco del
fiume.
La descrizione delle caratteristiche fisiche del territorio aiuta ora a comprendere quello che può
considerarsi il connotato costitutivo del centro urbano, posto alla confluenza di due valli fluviali con
alle spalle un complesso ecosistema montuoso; ma anche per vocazione paese di collina e di pianura,
cui storicamente la stretta gola del Tenza non impedì di farsi polo di riferimento nella rete dei rapporti
territoriali anche con le aree esterne alla cerchia montuosa. Paese ambivalente dunque, che della sua
condizione duplice fece anche il fattore fondante della sua identità culturale e la ragione stessa della
sua esistenza, maturata attraverso processi storici complessi, che ora la toponomastica può aiutare a
sciogliere nel solco di un discorso interdisciplinare.
*Segni utilizzati: *= voce ricostruita; <= derivato da…; >= portante a …; ë= e indistinta; ï ö ü= vocale muta (o debole); g= g fricativa
(occlusione molto debole). Cfr. luc. a gallina, a gatta, ecc.; _= s fricativa prepalatale sorda (Cfr. tosc. scena).
Abbreviazioni: cal.= calabrese; coll.= collettivo; cfr.= vedi; ctr.= contrada; dial.= dialettale; dim.= diminutivo; doc.= documento;
gr.= greco; indeu.= indeuropeo; lat.= latino; loc.= località; long.= longobardo; luc.= lucano; med.= latino medioevale; pers.= personale;
preind.= preindeuropeo; prob.= probabilmente; reg.= regesto; top.= toponimo.
- 119 -
1.2. L’ambiente montano
Nella zona montuosa del territorio di Campagna è rilevante la posizione di m. Polveracchio, che
con la sua lunga gobba chiude a sud i rilievi dell’Irpinia e segna le caratteristiche oro-idrografiche del
territorio. Porta verso l’Irpinia attraverso il Varco delle Crocelle, il Polveracchio fu anche luogo di
transito fin dall’antichità nei percorsi della transumanza1 e, in epoca longobarda, probabile percorso
alternativo nei collegamenti tra la regione del Sele e la valle del Calore beneventano2 .
Il top. Polveracchio (dial. Pruvëlacchiu/Pruvëracchiu) potrebbe connettersi con la voce lat.
Pulveracum «luogo polveroso» (Rohlfs, 1977, p. 557) con probabile riferimento alla natura geologica
della montagna, costituita da un calcare detritico che in alcuni punti è così frammentato da produrre un
ambiente particolarmente aspro e brullo. Derivazione, d’altra parte, confermata dalla convergenza
semantica del top. Deserto (dial. Rësiértö), riferito a una sezione dello stesso crinale montuoso situata
sul percorso dell’antica via dei pastori.
Ad un ambiente montano arido, provocato dalla natura calcarea del suolo, rimandano anche i topp.
m. Calvo e m. Calvello (dial. Calviéllö/-ddö) col significato di «spoglio, privo di vegetazione»; nonché Raia della Rosa e m. Raione, che si ricollegano all’oronimo raia (< radia «cespuglio spinoso,
smilace» (Cammarano, 1992, pp. 194-5), diffusissimo nell’Italia meridionale e, soprattutto, nei monti
Picentini (Raiamagra tra il valico delle Croci di Acerno e il Cervialto e m. Raia ad Oliveto C.), dove
assume il significato di «cresta montuosa coperta da arbusti spinosi».
I fenomeni franosi presenti nell’area di Polveracchio sono rappresentati da topp. come [rë] Rainósë
e [rë] Dërròtë, ambedue con valore aggettivale riferito ad un sostantivo «costa, fianco del monte». Il
primo, [rë] Rainósë, può dipendere dalle voci tardo-latine ruinosae (ruina) o da frajinosae (*fragina),
ambedue appartenenti alla stessa famiglia semantica col valore di «frana, terreno scosceso; il secondo,
[rë] Dërròtë, dal lat. tardo derrotae < diruptae, anch’esso col significato di «terreno dirupato» (Pellegrini, 1990, pp. 182 e 199). Diversamente il top. I Lagâriélli, località a nord-est di Polveracchio, è
associabile alla voce Lagarìa «terreno franoso, molle d’acqua», anch’essa di tarda latinità imprestata
dal gr. lagaròs «molle» e ampiamente diffusa in area meridionale (Rohlfs, 1974, p. 152).
Nonostante la grande asperità del territorio montuoso, si riscontrano tuttavia in esso alcune aree
pianeggianti (o in leggero declivio), talvolta abbastanza estese da costituire dei veri e propri altipiani.
Le relative designazioni toponimiche rimandano alla voce lat. planum, per cui Piano dei Serri, Piano
di Montenero, Piano dell’Abete e Pianello; oppure al lat. area, che (con le sue varianti med. aria, aira
ed aura), in ambiente meridionale è servita ad indicare il «luogo per trebbiare il grano, l’aia», ma
anche una superficie montana pianeggiante, spesso anche disboscata (Arena, 1979, p. 63). A questo
secondo significato rimandano l’antico top. Monteauro (il Raione-Sant’Eremo) e i topp. Auropiano
(formazione tautologica), Bosco dell’Aura e Tre Arie, riferiti appunto a località montane tutte caratterizzate da ampie superfici pianeggianti (altipiani).
Altri toponimi dell’area montuosa di m. Polveracchio ci riportano, invece, alle caratteristiche della
vegetazione spontanea. Sono i topp. Nocelleto; Lacërónë, Lacërèlla e Valliràcëra < acer «acero»;
Cerreta <cerretum (cerrus) «bosco di cerri»; Piano dell’Abete, Serra Castagnola <s. castaneola,
nonché Fago e Faìto (coll.), ambedue da lat. fagus «faggio». Essi identificano le principali specie
arboree che popolano le aree boschive nelle alture circostanti la lunga dorsale del monte. Già quasi nel
fondovalle e in prossimità del centro urbano si riscontra il top. Carrito<cardetum (lat. carduus) «luogo di cardi» (Pellegrini, 1990, p. 333); formazione analoga a Sangineto <sanguinetum «luogo di
cornioli sanguigni e di ligustri» (Rohlfs, 1974, p. 289).
1
Il recente rinvenimento di reperti archeologici attribuibili secondo una prima stima all’età del bronzo (XV sec. a.C) induce a
spostare molto all’indietro l’uso del valico nei percorsi della transumanza dalla Piana del Sele ai monti dell’Irpinia.
2
Il sospetto è indotto dalla stessa posizione eccentrica del «castello» di Campagna, che si giustifica anche per la necessità di
controllare una possibile via interna di penetrazione, che, passando per la Valle del Tenza, andava ad incrociare l’antica direttrice
Salerno-Montella-Benevento.
- 120 -
La nomenclatura degl’idronimi della zona montana comprende termini come «fontana», «rio»,
«acqua», «fosso», «vallone», in realtà soltanto varianti, di debole scarto semantico, per designare un
piccolo corso d’acqua alimentato da sorgiva o da acqua piovana3 . I maggiori corsi d’acqua del territorio sono il Tenza, il Trigento e l’Atri. Nascono, come si è detto, dalle pendici di m. Polveracchio e, data
la conformazione orografica del suolo, si muovono verso sud entro profondi solchi vallivi per confluire, infine, nel Sele.
L’Atri percorre la valle stretta tra m. Molaro (ad ovest) e la direttrice (ad est) Canalecchia-m.
Calvo-m. Croce con una gola molto infossata prima di confluire nel Tenza. Il nome (dial. Atri, Atro,
ma anche Atri più con riferimento al casale che vi si affaccia) con buona probabilità è da riferire al lat.
Ater «nero, scuro», non infrequente negl’idronimi (cfr. f. Aterno AQ) (Alessio-De Giovanni, 1983, pp.
37-38)4 .
Il torrente Trigento scorre invece ad est nel solco compreso tra il Piano di Montenero e la direttrice
m. Sillaro-m.S.Salvatore-Toppe. Il toponimo (dial. Trïjento) rientra nella famiglia idronimica, che fa
capo all’indo-europeo dreu-/dru- «correre, affrettarsi», con probabile valore participiale (dru-ent-os),
per cui è da interpretare come il f. «che corre, che s’affretta», con evidente richiamo al suo carattere
torrentizio e al profilo ripido del suo corso. Toponimo d’altra parte attestato in tutta l’area centromeridionale (cfr. il piceno Tronto <Truentus e il cal. Trionto < Traentos, l’antico Traeis che divideva
il territorio di Turio da quello di Crotone) (Rohlfs, 1974, p. 352; Pellegrini,1990, p. 369; Chiappinelli,
1989, p. 230).
Il solco vallivo mediano è percorso, invece, dal Tenza, che raccoglie, con quelle dell’Atri, quasi
tutte le acque del versante meridionale del Polveracchio e si rende tributario del Sele. Il toponimo è
attestato per la prima volta nell’anno 815 in un atto di donazione, col quale il nobile Alahis, figlio del
principe Arechi, offriva al monastero di S. Vincenzo al Volturno rem meam quam habeo non longe ab
ecclesia Sancti Medici, ubi Forano dicitur […] nec non molinum meum in Teonsa in integrum cum
oliveto, confermato qualche anno dopo (a. 819) da Ludovico il Pio in un’altra «carta», nella quale il
notaio, dovendo ubicare la chiesa di S. Vincenzo, la colloca «in fluvio Tensa» (Chronicon Vulturnense,
1925, p. 253 e p. 236, rispettivamente). Il toponimo può essere collegato con la voce tardo-antica
«tensa» (Cammarano, 1995, p. 49) «territorio riservato, sottratto agli usi civici», a favore della quale
non manca, come vedremo, qualche altro indizio concomitante, che ci riporta ad un discorso più
generale sul popolamento dello spazio vallivo in Alto-Medioevo.
1.3. Silvicoltura, pastorizia ed attività agricole nella zona montana
Protetta dalla impraticabilità dei suoi accessi montuosi, l’Alta Valle del Tenza rimase area marginale fino a tutto il Medioevo, sicché il paesaggio conservò intatti nei secoli i connotati di natura selvaggia e pressoché impenetrata5 , nella quale l’uomo non lasciava altri segni che non fossero i tratturi
(dial. «carrari») della transumanza.
Tuttavia non mancano testimonianze indirette di attività di deforestazione nell’area sin dall’età
tardo-antica, quando è attestata l’esistenza ad Eboli (Bracco, 1974, p. 4) di un collegium
dendrophororum, che si occupava della commercializzazione e della fornitura del legname per la
cantieristica navale (Giardina, 1981, pp. 87-113).
3
Vi si riscontrano gli idronimi Fontana della Lepre, Fontana dell’Orso; Acqua dell’Agrifoglio, Acqua delle Tavole, Acquasanta,
Acqua Rienza (dial. rë Rienzü «di Lorenzo), Acqua del Romito, Acqua Mënëcalë (lat. medicalis); Fussëtiéllö/ -ddö; Vallone Rivizzulo
<dim. ruviézzulu< ruviézzu< lat. rubeceus, per cui v. del pettirosso (Luongo, 2003, p. 34).
4
Il top. Atro è attestato per la prima volta nell’a. 1056: Archivio Cavense (A.C.), arca CXXIV, n. 3.
5
Pennacchini,1941, doc. n. 17, p. 108: «per semitam que ducit jntus furestam».
- 121 -
Più tardi, a partire dall’IX sec., l’area entrò indirettamente nell’economia di scambio con i ricchi
paesi del Nordafrica grazie all’intraprendenza degli Amalfitani, che sfruttavano la necessità di legname per la cantieristica da parte di quei paesi per estendere la propria rete commerciale. La politica
longobarda, consapevole che i paesi del Nordafrica alla fine costituivano il naturale mercato di sbocco
dei prodotti meridionali, finì per piegarsi alle ragioni dell’economia e sostenne con convinzione i
processi di commercializzazione, accordando peraltro protezione alle navi campano-bizantine che
attraccavano in partes Lucaniae6 . La via privilegiata di penetrazione verso le montagne degli Alburni
e dei Picentini fu evidentemente quella del Sele, che offriva peraltro le sue acque per la fluitazione dei
tronchi fino alla foce, dove gli Amalfitani avevano creato dei punti di stoccaggio7 ; ma non dovettero
essere trascurate neppure le vie terrestri, soprattutto in quelle aree più lontane dal bacino del fiume.
È il caso dell’area del Polveracchio, dove è conservato il top. Costa degli Amalfitani sul versante
settentrionale del monte, da dove il legname non poteva che transitare lungo l’antica via MontellaSalerno. Sul versante meridionale del monte si ritrovano tuttora i topp. Valle delle Tavole, Varo (<
lat.vadum «valico») delle Tavole e Acqua delle Tavole ad indicare non solo l’attività di deforestazione
ma anche della prima lavorazione in loco del legname, evidentemente anche al fine di alleviare i pesi
del trasporto, che doveva avvenire a dorso di mulo lungo la disagevole via del Tenza. Ed è appunto al
mulo, questo oscuro e tenace lavoratore della montagna, che fanno riferimento i topp. I Mulari (< loca
mularia «luoghi dei muli») e m. Molaro (<mons mularis «m. dei muli», a meno che non si richiami un
particolare tipo di arenaria, la molassa), appartenenti ad un’area che, per essere meno marginale e più
vicina alla Valle del Sele, dovette conoscere più per tempo, forse fin dall’età antica, il processo di
deforestazione.
Un toponimo di particolare interesse è, poi, Vecchia Matera, col quale viene tuttora indicato nell’uso popolare un tratto, in sinistra Tenza (Romandola-Piani di Puglietta-Difesa di Santo Spirito),
della «via antiqua» (Pennacchini, 1941, doc. n. 17 pp. 100-108), probabilmente un’arteria romana
che, distaccatasi dalla Popilia poco oltre il «castello» di Eboli, proseguiva verso l’Alto Sele e la Sella
di Conza. Esso è da collegare col termine latino materies-a «legno», per cui viene ad assumere il
significato di «(via) vecla (de) materia» «strada antica del legname»; significato confermato dal fatto
che sul percorso della stessa strada, in destra Tenza, era in epoca medioevale utilizzato il top. Troncato
< troncetum «luogo per lo stoccaggio dei tronchi d’albero», a segnalare che l’attività della silvicoltura
doveva alimentare movimenti economici e di mercato per il tempo affatto ragguardevoli8 .
Non minore importanza dovette rivestire soprattutto per la produzione della lana in epoca antica e
medioevale l’allevamento del bestiame, particolarmente quello ovino e caprino, che più era adattabile
ai pascoli della selva, utilizzati nel periodo estivo quando era effettuata la transumanza dalle zone di
pianura e di collina.
Ne sono testimonianza i topp. Carapiglia (con epentesi di -a-) < crapilia<caprilia «luoghi per le
capre», Comuniglie <(pascua) communia (uso civico del compascuo) (Serra, 1991, pp. 12-15). Invece
il top. Salèra, assai diffuso, si riferisce all’usanza dei pastori di spargere il sale su pietre piatte (le
«salère») come integratore alimentare per il bestiame (Arena, 1979, p. 125).
L’aumento della popolazione e lo stesso incremento della pastorizia provocarono negli ultimi secoli del Medioevo e, poi in età moderna anche nelle zone montane, il diffondersi di aree disboscate e
ridotte a seminativo, prevalentemente più pianeggianti e costituite da terreni più sciolti, da servire in
6
Il commercio del legno per l’epoca arechiana è attestato dal Pactum Sicardi, un documento giunto a noi mutilo ma fondamentale
per comprendere le attività di scambio nella Langobardia minor. Stipulato tra Sicardo e il duca bizantino di Napoli in rappresentanza dei
ducati costieri della Campania, stabiliva particolari garanzie di protezione per i navigli campano-bizantini negli approdi della Lucania.
(Di Muro, 2000, pp. 60-63; Filippone, 1993, pp. 56-58).
7
Al riguardo vale la testimonianza, per l’XI secolo, del geografo arabo Edrisi; ma cfr. anche Ebner, 1973; Citarella, 1977, p. 57 e
sgg.; Giardina,1981, p. 100.
8
Codex Diplomaticus Cavensis (C.D.C.), VI, pp. 145-146, a. 1041.
- 122 -
alcuni casi all’alimentazione degli animali. Sono i siérri (anche serroni, dial. sërruni) < prob. lat. med.
*sèrru < sero «semino», cui sono ascrivibili numerosissimi microtoponimi come Piano dei Serri,
Siérru rë Santu Vitu, Siérru rë Giuvanniellu, ecc. All’alimentazione del bestiame si riferisce più probabilmente anche il top. m. Sillàro, altura che divide il bacino del Tenza da quello del Trigento, il
quale è collegabile, più che al top. cal. Sila, alla voce prelatina sulla/sudda (erba foraggera), anch’essa
diffusa in area calabrese ma non ignota in area cilentana e campana (cfr. Silla, Sassano SA) (Chiappinelli,
2001, p. 162).
1.4. Primi insediamenti nella valle del Tenza
Il primo popolamento della Valle iniziò con buona probabilità verso il V-VI secolo d. C. nel contesto delle dinamiche territoriali successive al collasso delle strutture urbane esistenti (Eburum), al costituirsi del latifondo anche nell’area del Tenza (Arianum e Furanum) e all’assorbimento in esso della
piccola e media proprietà contadina; e fu conseguenza di una quotizzazione di «agro pubblico», con la
quale la classe dei lavoratori senza terra intese probabilmente fornire una risposta all’accentramento
della grande proprietà e aprire per sé, in controtendenza, nuovi spazi economici e produttivi in un’area
marginale come la Valle del Tenza, non occupata, fornita di abbondanza di acqua per le colture ortive
e di un ampio retroterra montuoso, che dava buone opportunità all’economia della selva e della pastorizia. Un evento cioè che, nel disfacimento del modello accentrato di insediamento, era anche la dimostrazione di come in quegli anni si andasse imponendo un diverso rapporto col territorio insieme con
nuove forme di aggregazione sociale, di produzione e di consumo, adeguate ai bisogni di una società
più povera e ruralizzata, ma decisa a recuperare gli spazi tuttora possibili di autonomia e di vivibilità9 .
L’istituto dell’agro pubblico non era nuovo nelle terre dell’Impero ed anche da noi aveva costituito
sin dall’epoca preromana un elemento importante del paesaggio agrario. Costituito da agri culti, silvae
et pascua, per antica consuetudine vi si esercitava una molteplicità di usi civici da parte delle «comunità di villaggio» (vicani < vicus) per cui le terre comuni erano definite «vicinia, communia, communalia,
vicaria, vicanalia, conciliaricia» (<conciliabulum «assemblea»)10 . Talvolta già in passato, in occasione di deduzione di colonie o di altre circostanze particolari, ne era stata fatta assegnazione ai privati
in forme diverse, comunque prevedendo di solito per l’acquirente non il diritto di proprietà ma un
semplice «possesso», perpetuo (ager occupatorius, ager quaestorius) ovvero temporaneo (ager
vectigalis), dietro corrispettivo di un «vectigal»11 .
Nella circostanza della crisi economica del Basso Impero le popolazioni riproponevano, quindi,
con la proposta di spartizione dell’agro pubblico, una questione non nuova, con la quale intendevano
farsi protagoniste nella gestione sociale del territorio e nei nuovi equilibri economici che su di esso
andavano a costituirsi. Con quale procedura si addiveniva alle quotizzazioni non è dato sempre sapere, perché le modalità dovettero variare caso per caso a seconda delle situazioni locali: solitamente era
l’assemblea dei «vicini» che, a seguito di una deliberazione della «civitas» o per autorizzazione dei
«procuratores» fiscali o per sua autonoma scelta, provvedeva, col sistema antico della «sortitio», a
dividere le communie in appezzamenti, che prendevano per questo il nome di «sortes, portiones,
9
Sulle dinamiche territoriali in età tardo-antica e Alto-Medioevo cfr. Delogu, 1990, pp.111-167, Peduto, 1990, p. 369 e, dello stesso
Autore, 1982, pp. 441-473.
10
Al riguardo cfr. la Tavola di Veleia e la Notitia Minuciorum, ma anche la letteratura dei Gromatici (Frontino, Igino Gromatico,
Agennio Urbico). Frontino (De controv. 15): «…propter quod ea compascua multis locis in Italia communia appellantur, quibusdam
provinciis pro indiviso» e ivi 48,21: «haec variis appellationibus per regiones nominantur: in Etruria communalia vocantur, communitas
[silvae vel nemorum], communantia» (Serra, 1991, p. 12).
11
Sull’argomento cfr. Bognetti, 1927; Cassandro, 1943; Serra, 1991, pp. 5-43; Cannata, 1957, pp. 325-330; L. Bussi, 1990, pp. 213243.
- 123 -
prehensae, prensiones, pettiae, ecc.») (Serra, 1991, p. 27). Le quote erano costituite al solito da un
appezzamento di ager cultus in grado di soddisfare i bisogni alimentari della famiglia contadina, che
su di esso si insediava (fundus, casalis), ma poteva prevedere anche una «servitù» su un terreno incultus,
per lo più pascolo o selva, non necessariamente vicino al luogo di insediamento, mantenuto in possesso collettivo della comunità (communalia) ovvero pertinente ai fondi assegnati individualmente, di
cui seguiva le sorti (Bussi, 1990, pp. 215-217). In questo modo si realizzava una sorta di sistema
integrato territoriale, che corrispondeva al bisogno di nuove terre da coltivare individualmente ma
anche di aree dove potessero essere esercitate le pratiche di «compascuo» e di «legnatico».
Indizi consistenti che l’attuale territorio di Campagna fu interessato dalla presenza di terre pubbliche affidate alle comunità dei «vicani» e che ad un certo punto una parte di esse, nella Valle del Tenza,
fu assegnata in «sortes» sono forniti da tracce toponomastiche, che convergono verso un unico scenario interpretativo. Il riferimento va innanzi tutto al top. Pedenzone (Carlone-Mottola, 1981, reg. n.
469, pp. 228-9, a. 1315), che la pronuncia dialettale «Përënsonë» associa direttamente alla voce
«prensiones» col significato di «lotti, terreni dati «in possessione»12 ; ma anche al top. le Comuniglie
sul Piano dei Serri, dove è trasparente la derivazione da «communilia», le terre di «compascuo» affidate alla comunità dei «vicani».
Avvenuta la suddivisione dell’agro pubblico, rimaneva l’interesse comune di provvedere alle misure di pulizia campestre, alla custodia del territorio, all’interdizione agli usi civici dei terreni lottizzati.
Questa pratica nella terminologia gromatica romana era chiamata «tensa» (Serra, 1991, p. 38), ma
anche defensa, fabula, jura, ed era esercitata su un terreno ben delimitato, che in qualche modo ne
poteva assumere anche il nome. Fu esattamente quel che avvenne nell’area quotizzata, che fu per tutti
l’area della «tensa» e il fiume della «tensa» fu quello che ne usciva per confluire con le sue acque nel
più grande Sele.
Rimane così da concludere che il primo insediamento di quella che sarà poi Campagna nacque da
una divisione di agro pubblico in un periodo di forti mutamenti dei modelli economici ed insediativi e
che la sua prima denominazione fu un nome comune (tensa) cristallizzatosi poi nella forma più
conservativa dell’idronimo.
1.5. La collina del Tenza in epoca antica e Alto Medioevo
Le indagini archeologiche effettuate nel territorio di Campagna non hanno mai dato luogo a scavi
sistematici in grado di fornire un quadro completo degl’insediamenti di epoca antica. Ma nel 1924, a
seguito di affioramenti occasionali, in località Sagginara, ad ovest della confluenza Sele-Tanagro,
vennero alla luce ritrovamenti di portata piuttosto rilevante: opere murarie talvolta anche con intonaci
dipinti, elementi architettonici lapidei, pavimenti musivi di impianti termali, condutture idriche fittili
ed in piombo, reperti di vetro e di rame, soprattutto tegole e mattoni (erratici o ancora collocati in
deposito) ad indicare che l’area fu interessata, tra il I e il II secolo d. C., da un’intensa attività protoindustriale che utilizzava le cave di argilla presenti sul posto (Della Corte 1924, pp. 87-8; Filomarino,
1924; Grisi, 1980, pp. 98-104; Filippone, 1993, pp. 21-28).
Anche ad ovest del Trigento ci sono state nei decenni passati occasionali scoperte archeologiche, la
più significativa delle quali portò, nel 1952, nei pressi di Serradarce, allo scavo di una necropoli, di IVIII sec. a. C. (Sestieri, 1952, pp. 47-49); a confermare l’esistenza nei pressi di un antico insediamento
12
Interpretazione cui potrebbe venire una qualche conferma da un documento già citato (Pennacchini, doc. n. 17, 1941, p. 105),
dove, descrivendosi nel 1164 i terreni dell’Episcopio salernitano «in loco ubi alu riu dicitur, in septentrionalj parte castelli ejusdem
terre Campanie (loc. Pedenzone), essi sono collocati lungo la «via que ducit ad possessionem et in eodem loco ubi possessione dicitur»;
segno che ancora a distanza di alcuni secoli la toponomastica, registrata dalla prassi notarile, conservava memoria della natura giuridica
di quei terreni, inizialmente demanio pubblico, poi assegnati «in possessione», infine proprietà privata per esercizio consolidato e
secolare di usucapione.
- 124 -
fortificato, la cui cortina muraria sarebbe servita nel XVI secolo per la costruzione del Duomo di
Campagna (Guerrieri, 1616; Rivelli, 1894-5, I, pp. 36-39). Esistenza, d’altra parte, confermata da
consistenti tracce nei topp. Oppidi < oppidum «insediamento fortificato», Serradarce (dial. Serra r(ë)
arcë «altura della rocca»), Pariti, per il quale è sostenibile una derivazione dal lat. paries-ete con
riferimento ai resti di antiche costruzioni (Carlone-Mottola, 1981, reg. n. 7, p. 6, a. 1142; Rohlfs,
1971, p. 229). In anni più recenti anche a destra del Tenza, in località Piantito, sono emerse tracce di
antichi insediamenti: una villa rustica di età repubblicana e una necropoli di IV sec. a.C.
In realtà si può ammettere che tutta l’area collinare del Tenza fu in epoca antica sede di insediamenti
stabili, collocati prevalentemente lungo il percorso della «via antiqua» o immediatamente a monte
della stesso fiume, che a quel tempo poteva essere risalito con piccole lintrae fino alla confluenza col
Tanagro e rappresentava una via relativamente comoda di penetrazione verso le vallate appenniniche
interne13 .
Per il periodo tardo-antico il panorama toponomastico locale fornisce un numero consistente di
prediali sia alla sinistra (Varano <Varius, Matiano <Matius o Mateius, Morignano < Morinius) che
alla destra del Tenza (Rufigliano < Rufilius, Stassano <Statius)14 a testimoniare per l’epoca l’esistenza di una rete di insediamenti abitativi particolarmente concentrati nelle aree collinari e pianeggianti a
più forte vocazione produttiva.
Una particolare attenzione va riservata ai topp. Ariano e Furano15 , coi quali nelle carte notarili fino
al tardo Medioevo si usò designare due «loca» collocati rispettivamente a sinistra e a destra del Tenza.
Più precisamente il «locus» Ariano comprendeva tutti i terreni dalla sponda sinistra del fiume (Pariti,
Palazza, Varano, Matiano, Morignano, Boforneta, ecc.) fino ai confini con il territorio di Contursi, ma
anche Visciglito che era collocato sulla sponda destra. Allo stesso modo il «locus» Furano comprendeva il «mons Furanus» (il Sant’Eremo), tutti i terreni a destra del Tenza (Galdo, Rofigliano, Rialto,
Odoroso, Sant’Angelo, S. Lucia, Pezzarotonda, Truncito, Piantito, Stassano, Mattinelle, ecc.) fino a
Calli ed Ausella ai confini con Eboli, ma nei suoi confini rientrava anche Martinisi, che si trovava
sulla sponda sinistra del fiume.
La conformazione confinaria dei due loca, che sembra conservare la memoria di particolari assetti
fondiari; il rapporto di stretta consequenzialità logica e temporale tra le nozioni di «fundus» e «locus»;
la indicazione di ordine linguistico (terminazione in –anum) costituiscono altrettanti indizi che ci
troviamo anche in questo caso di fronte a due «prediali» (Ariano< (fundus) arianus «fondo di Ario»,
Furano< (fundus) furianus «fondo di Furio») impostisi nel periodo del Tardo Impero per l’estendersi
sul territorio di grandi organismi curtensi a danno della media e piccola proprietà contadina.
Dalla ricostruzione toponomastica emergerebbe così per l’epoca, anche nei territori del Tenza, uno
scenario evolutivo ampiamente riscontrato in tutte le provincie imperiali: l’affermazione del latifondo
e il tracollo della piccola proprietà, messa in crisi da un fisco oppressivo, che costringeva i piccoli
proprietari a rifugiarsi nel patrocinio dei grandi signori. Le campagne ne furono spopolate e i «curiales»
e gli stessi «potentes» si videro finanche obbligati dal fisco, preoccupato per le entrate erariali, ad
acquisire il diritto di proprietà dei terreni abbandonati e dello stesso «ager publicus» dal quale lo
Stato, per mancanza di braccia, non era più in grado di ricavare alcun utile16 . Ne nacquero grandi
«fundi» territoriali, con una propria struttura amministrativa e norme interne di funzionamento (lex
13
In territorio di Campagna, sotto l’antico ponte della Popilia, sono tuttora visibili i resti di una banchina portuale di epoca romana
(Di Muro, 2000, pp. 20-25).
14
Le citazioni trovansi, nell’ordine, in: Carlone-Mottola, 1981, reg. n. 167, p. 80, a. 1202; reg. n. 77, p. 39, a. 1181; reg. n. 11, p. 8,
a. 1146; reg. n. 18, p. 11, a. 1155; reg. n. 69, p. 35, a.1180.
15
Per le cui attestazioni cfr., rispettivamente, Arch. Prov. Frati Minori di Salerno, perg. n. 2, a. 1063; ed. Mottola, 1984, pp. 38-39;
Chronicon Vulturnense, I, 1925, p. 253.
16
Si veda Tamassia, 1887, p. 25. Sulla situazione delle campagne italiane tra età tardo-antica ed Alto Medioevo cfr. anche Sereni,1985, I, pp. 146-163.
- 125 -
fundi). In essi i «potentes» assunsero addirittura funzioni pubbliche, amministrative e finanche
giurisdizionali17. Il «fundus» divenne così una realtà autonoma ed autosufficiente, con una sua rete
interna di relazioni sociali e con le funzioni produttive che venivano anch’esse ormai in larga parte
esercitate nel suo ambito. Per questa via fu anche un «locus», perché con i suoi confini costituiva uno
spazio ben individuato della geografia del territorio.
Fu questo il percorso che portò dai «fundi» Arianum e Furanum ai «loca» Ariano e Furano: col
tempo venne meno la struttura del latifondo, ma la memoria di esso rimase, cristallizzata nel dato
topografico e nel toponimo che lo esprimeva.
Quando intorno al 640 i Longobardi di Benevento occuparono le terre del Sele e, con esse, le fertili
pianure intorno al Tenza, vi trovarono un regime fondiario percorso da due tendenze apparentemente
contrapposte: da un lato l’accentramento della proprietà della terra nelle mani di un numero ristretto di
persone (fundus arianus, fundus furanus), dall’altra la spartizione del demanio pubblico (pettiae,
prensiones, ecc.) e la sua sottrazione al peso degli usi civici (tensa) nelle aree come la Valle del Tenza
che più potevano considerarsi marginali e di minor peso economico.
I Longobardi inizialmente operarono in una situazione di continuità con le strutture economiche e
produttive che vi trovarono, sostituendosi soltanto ai vecchi proprietari nel possesso delle «curtes» e
nell’organizzazione del regime fondiario. Trascurarono completamente la regione montuosa, dove
non si rinvengono tracce toponomastiche della loro presenza, e si concentrarono in gruppi sparsi nella
regione collinare, proprio nelle zone di Ariano e Furano. I due vecchi latifondi ne furono spezzettati
per le numerose assegnazioni effettuate a vantaggio di enti religiosi18, dell’aristocrazia longobarda
residente, ma anche di quella, di più alto rango, che risiedeva nei maggiori centri amministrativi del
Principato (Luongo, 2003, nota n. 156, pp. 64-5).
Al riguardo ricominciano a comparire le fonti documentarie e le tracce toponomastiche diventano
piuttosto consistenti. Così il top. Romandola (Carlone-Mottola, 1981, reg. n. 225, p. 105, a. 1225), da
connettere con la voce long. hari-mannu (lat. med. arimannus «uomo libero addetto alla milizia»)
(Finamore, 1992, p.166) restituisce l’immagine di un’area agricola assegnata all’aristocrazia militare
dei nuovi occupanti, che sul posto lasciarono memoria di sé anche nei topp. Palazza (<lat. palatium)
(Carlone-Mottola, 1981, reg. n. 37, p. 20, a. 1168), prefigurante un insediamento signorile in Alto
Medioevo, e Vallegrini (nelle fonti anche Valligrimi), nella cui formazione rientra con buona probabilità un personale longobardo (valli[s Role] grimi o [Rottel] grimi, ecc) (Mottola, 1984, doc. p. 36);
non diversamente da Truppaldisi (Pennacchini, 1941, p. 99, a. 1164), nella zona di Sant’Angelo, a
destra del Tenza, nel quale attraverso il suffisso di appartenenza si indovina il significato «terra di
Truppoaldo». Territorio anche questo privilegiato dalla presenza longobarda, che vi ha lasciato consistenti memorie di edilizia altomedioevale nei ruderi tuttora esistenti della chiesa di S. Michele (Di
Muro, 2000, pp. 36-40), del castello e delle case «de Alegjsio»; segno che qui dovette esserci una
«curtis» di una discreta estensione, che occupava buona parte dei terreni ai piedi del Sant’Eremo. Più
giù, vicino alla sponda del Tenza, c’era il «gualdo» longobardo (top. Galdo), il terreno boscoso ed
incolto che, diversamente dalla «terra [a]rimandola», non veniva assegnato ai «milites», ma era conservato nel demanio principesco (Martin, 1990, p. 272). Alla proprietà privata ci riportano, invece, i
topp. Madelmo e Pantone (Carlone-Mottola, 1981, reg. n. 299, p. 139, a. 1237 e reg. n. 69, p. 35, a.
1180), attestati negli atti notarili unitamente ai personali cui erano di riferimento, ad indicare una
presenza di «milites» stabile e radicata sul territorio.
La presenza dell’insediamento longobardo sul territorio in proporzioni così consistenti non pregiudicò l’habitat sparso nelle campagne, anzi l’esistenza di alcune strutture difensive19 funzionò sicura-
17
Sulla formazione del latifondo cfr. L. Bussi, 1990, pp. 222-233.
Il riferimento va alla donazione di Alahis (a. 815) al monastero di S. Vincenzo al Volturno (cfr. sopra).
19
Nel citato documento edito dal Pennacchini si fa menzione di due castelli: uno nella zona di S. Lucia («castellum dirutum quod de
Pancia dictum est», p. 95) e un altro nella contrada Troncito vicino alla chiesa di S. Angelo («castellum dirutum quod de Alegjsio
dicitur», p. 98).
18
- 126 -
mente come fattore di sicurezza, sicché non solo non mancano le attestazioni documentarie di residenti, ma ancora la densità delle chiese è indice certo di una popolazione contadina sparsa nei campi,
dedita a colture come quella dell’olivo e della vite e ad attività di trasformazione dei prodotti della
terra (mulini e frantoi) che non sarebbero stati possibili senza un buon livello di agrarizzazione del
territorio (Di Muro, 2000, pp. 71-74; Luongo, 2003, pp. 66-7).
1.6. «In locum Furano Campanie finibus»
La prima attestazione del top. Campania è contenuta in un documento dell’a. 963, nel quale
Truppoaldo, Iaquinto e Maione (gastaldo) cedevano al vescovo di Paestum «res suas quas habebant
[…] in Campania ubi Correianum20 dicitur et per alia loca de finibus Campanie»21 . Il testo rivela
l’esistenza, a metà del X sec., di un distretto territoriale denominato «Campania», ma non ne esplicita
abbastanza la localizzazione. Al riguardo ci soccorrono, però, altri documenti più tardi22 , nei quali il
nome «Campania» è associato spesso a quello di Furano («in locum Furano Campanie finibus») e una
volta alla «grotta dell’Angelo» di Olevano («ecclesia sancti Michaelis arcangeli, in monte aureo sito
in Campania»23 ). Inoltre nel 1080 è attestata l’esistenza in loco Tusciano di una «via antiqua que
dicitur Campanina» (C.D.C., X, 1990, pp. 334-5), il cui percorso si snodava con certezza attraverso i
terreni collinari ai piedi del Monteauro (Monticelli-Melito-Padula-S. Lucia-S. Angelo)24 . Le prove
documentarie sembrano, così, sufficienti ad accreditare il convincimento che effettivamente, nel X
secolo, esisteva un distretto territoriale denominato «Campania» nella fascia pedemontana del
Monteauro (dal Tusciano al Tenza), fiorente abbastanza per insediamenti e coltivazioni (Di Muro,
2000, p. 74) da giustificarne anche il nome25 .
Più difficile e complesso è il discorso se il territorio della «Campania» sia stato, nella seconda metà
del X sec., anche sede di un potere giurisdizionale autonomo («de finibus Campanie»). Al riguardo
non esistono prove documentarie, ma numerosi indizi (la creazione ai tempi di Gisulfo I sul territorio
del Principato di nuovi ambiti giurisdizionali diversi dagli antichi gastaldati; il fatto che a Furano fino
al 1041 venissero rogati atti notarili26 ; che la località fosse sede di un grande organismo curtense
ritenuto poi dalla tradizione storica locale il vero centro amministrativo del territorio in Alto Medioevo (Guerrieri, 1616; Rivelli, 1894, I, passim); infine il dato toponomastico, per il quale la trasmigrazione
del nome «Campania» nella valle interna del Tenza si giustifica soltanto col trasferimento di una sede
amministrativa dello stesso nome, già costituita) fanno considerare non irrealistica la ipotesi che effettivamente al tempo di Gisulfo I (946-977) possa essere stato costituito un organismo locale di governo
(actus, comitatus) sul territorio della «Campania» o di quella parte di essa che più gravitava verso la
regione del Tenza.
20
Un «locus Correianus» è attestato «in finibus Stricturiae» (Giffoni) nell’a. 998 (C.D.C., DXXII, p. 89).
Il doc., edito da S. M. De Blasi (Series principum qui Langobardorum aetate Salerni imperarunt, Napoli, 1785, App. doc. n. LVII,
ins. II, pp. CX-CXI) è stato ripubblicato in Mottola, 1984, pp. 35-36.
22
A.C., arca VI, n. 70 (a. 1016); A.C., Pergamene, VIII, n. 43 (a. 1037); A.C., Pergamene, VIII, n. 94 (a. 1041). Per i primi due cfr.
Galante, 1980, rispett. pp. 218-9 e 238-9; il terzo in C.D.C.,VI, pp. 144-6.
23
L’espressione è contenuta in un «Officium sacerdotale» (a. 1058), col quale papa Stefano IX confermava ad Alfano I i privilegi
della Chiesa salernitana (Pflugk-Harttung, 1884, pp. 82-4).
24
Il percorso può essere ricostruito sulla base della ricognizione dei beni della Chiesa salernitana effettuata nel 1164 (Pennacchini,
1941, doc. XVII, pp. 72-110).
25
Campania vale «campi aperti, coltivati».
26
Cfr. precedente nota 18.
21
- 127 -
1.7. L’incastellamento nella valle del Tenza e la trasmigrazione del toponimo «Campania»
Il suo assetto definitivo l’area collinare dei Picentini lo trovò, però, soltanto nella prima metà dell’XI
sec., quando, sotto Guaimario IV (1027-1052), fu costituito il «comitatus» di Eboli nel territorio compreso tra la signoria ecclesiastica di castrum Olibanum e le terre di Furano (Di Muro, 2000, pp. 7887). Nella stessa occasione o in quei medesimi anni27 un analogo provvedimento principesco dovette
accorpare, più ad est, i territori appartenenti ai «loca» di Ariano e Furano insieme con la zona montuosa, che alle loro spalle si inoltrava lungo la valle del Tenza, e costituirli tutti insieme in una nuova
entità territoriale sottoposta ad autorità comitale28 . Nell’un caso e nell’altro il provvedimento era
giustificato da una necessità di riordino amministrativo e di controllo del territorio, che riguardava nel
caso di Eboli l’accesso meridionale a Salerno e, nel caso della valle del Tenza, la via montuosa interna
che conduceva ai confini con l’Irpinia.
La nuova formazione ebbe la sua sede giurisdizionale non nel vecchio insediamento di Furano, che
evidentemente risultava ora eccentrico e scarsamente funzionale ai bisogni di controllo del territorio,
ma proprio nella valle interna dove in età tardo-antica un nucleo di agricoltori e di pastori aveva
stabilito la sua dimora sulle terre sottratte al demanio pubblico e dove, forse, a partire dal IX secolo,
nuovi gruppi si erano insediati in fuga dalle scorrerie saracene (topp. Pietra Saracena e Torre dei
Mori). Si trattò evidentemente di una formazione territoriale del tutto nuova; soltanto dal vecchio
actus di Furano dovette ereditare il nome («Campania»), che però risultò semanticamente del tutto
inappropriato al nuovo contesto, costituito da una angusta ed umida valle fluviale.
Scelto a centro amministrativo del distretto, il nuovo insediamento risultò sorprendentemente dinamico per l’accentramento che vi fece la piccola aristocrazia longobarda e per l’emergere di una nuova
classe di imprenditori, che investivano nell’acquisto di terre e nell’intrapresa di attività protoindustriali
(mulini e frantoi) (Luongo, 2003, nota n. 171, p. 69). L’insediamento si estese in diversi nuclei abitativi (Zappino, Girone, Giudecca, Pedenzone, Pianello) sullo sperone roccioso tra l’Atri e il Tenza, ma
a lungo mantenne ancora un profilo incerto, connotato dalle attività pastorali anche nelle sue strutture
urbane e dalla presenza di orti, di vigne, di platee, di aree alluvionali («iscla que vocatur Zappini») e
finanche paludose (p.ta Parula) (Luongo, 2003, pp. 50-1).
Ma l’intervento più incisivo indotto dalla nuova realtà territoriale fu certamente l’apertura di un
accesso alla valle meno aspro e disagevole mediante lo scavo dentro la parete rocciosa della gola del
Tenza di una strada, che operava finalmente il collegamento diretto dell’area montana con l’antica
«via campanina» e con i territori esterni della zona collinare.
La nascita a metà dell’XI secolo del «castello Campanie» in posizione baricentrica tra la montagna
e la pianura, l’apertura di un collegamento diretto tra alto e basso corso del Tenza, che qualificò il
fiume come fattore unificante, costituirono da subito gli elementi fondanti e decisivi di una nuova
identità territoriale; d’altra parte così durevole e radicata da rappresentare ancora oggi un dato culturale del quale non è possibile prescindere.
27
Dopo il 1041 non risultano più atti rogati a Furano.
La presenza di un’autorità comitale nel «castello Campanie» è attestata soltanto nell’a. 1081 con Gaitelgrima, figlia di Guaimario
(A.C., arca B, n. 24). La circostanza, insieme con il dato certo della esistenza del «castello» al 1056 (Mottola, 1984, pp. 36-7), induce il
sospetto che la contea possa essere stata istituita negli ultimi anni di vita di Guaimario.
28
- 128 -
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- 130 -
Riassunto
Il territorio oggetto della ricerca è quello del Comune di Campagna, in provincia di Salerno. Esso occupa il versante
meridionale dei m. Picentini, dal Polveracchio (m. 1790) al corso del Medio-Sele (m. 50 circa).
La ricerca, attraverso l’utilizzo della risorsa toponomastica (ma anche, quando è sembrato il caso, delle fonti documentarie disponibili) ha avuto l’obiettivo di tentare una ricostruzione dell’identità territoriale quale si è andata storicamente
determinando in età antica e nell’Alto Medioevo. Ne è emerso un quadro interdisciplinare, che ha assunto via via concretezza ricostruttiva dall’uso combinato del dato sincronico con quello diacronico.
Dopo una premessa descrittiva della topografia del territorio (che è premessa conoscitiva ma anche condizione necessaria per l’esatta collocazione spaziale dei toponimi), è stato adottato uno schema espositivo nel quale le categorie
toponomastiche (oronimi, idronimi, antroponimi, ecc.) sono state utilizzate non da sole ma all’interno di specifici ambiti
territoriali (montagna, collina, pianura) e in rapporto con gli eventuali aspetti diacronici (predialità, paesaggio agrario,
economia, insediamenti, ecc.).
Il quadro emerso è quello di una ricostruzione geo-storica, che ha arricchito la conoscenza del territorio utilizzando
appieno le risorse del dato toponomastico quale «bene-documento e spia di identità».
Abstract
The research concerns the territory of the Commune of Campagna, in the province of Salerno. It occupies the southern
slope of Picentini mountains, from mount Polveracchio (1790 m) to the flow of the Middle-Sele (about 50 m).
The research, making use of the toponymic resource (but also of the available documentary sources, when it was
opportune), had the aim of trying a reconstruction of the territorial identity how it has gone historically determining in the
old age and in the high Middle-Age. An interdisciplinary picture has come to the surface, it has gradually taken on
concreteness of the reconstruction reconciling the use of the synchronous datum with the diachronic one.
After a descriptive introduction of the topography of the territory (that is an introduction of knowing, but also a necessary
condition for the exact spatial position of the place names), it has been chosen an expositive scheme where the toponymic
parts (namesof mountain, hidronimies, antroponyms, etc.) havent’t been used by themselves but inside specific territorial
bounds (mountain, hill, plain) and in relation with the possible diachronic aspects (land tax, landscape, economy, settlements,
etc.).
The final result is that of a geographic-historical reconstruction, that has enriched the knowledge of the territory making
complete use of the resources of the toponymic datum as a good document and light of identity.
Résumé
Cette recherche a pour objet le territoire de la commune de Campagna en province de Salerne. Ce territoire occupe le
versant méridional des monts Picentini, du mont Polveracchio (m. 1790) à mi-cours du fleuve Sele (m. 50 environ).
La recherche, en utilisant la ressource toponomastique (mais aussi, selon le cas, les sources de documentation disponibles)
se propose comme objectif la reconstitution de l’identité territoriale telle qu’elle s’est déterminée du point de vue historique
anciennement et dans le haut Moyen-âge.
Le résultat du travail a des caractéristiques interdisciplinaires, objectif que nous avont atteint en unifiant les données
synchroniques et diachroniques. Après une introduction descriptive de la topographie du territoire (il s’agit d’un préliminare
non seulement cognitif mais aussi d’une condition indispensable pour le correct placement spatial des toponymes), on a
utilisé un schéma expositif où l’on a employé les catégories toponymiques (oronymes, hydronymes, anthroponymes, etc.)
pas toutes seules mais dans le domaine des territoires spécifiques (montagnes, collines, plaines) et par rapport à éventuels
aspects diachroniques (prédialité, paysage agricole, économie, habitat, etc.).
Le résult final du travail est la reconstitution géo-historique qui a enrichi la connaissance du territoire en utilisant
complètement les ressources de la donnée toponymique considérée comme un «bien-document et un indice d’identité».
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Alfonsina Medici*
PERSONAGGI E INTERPRETI
SULLA SCENA TOPONOMASTICA DI POLLA
Premessa
Viene qui proposto un lavoro di ricostruzione della microstoria del paese attraverso lo studio della
toponomastica, effettuato presso la Scuola Media di Polla nell’anno scolastico 1997/98 nella classe II
B, nelle ore del tempo prolungato.
La ricerca è nata dalla esigenza di familiarizzare ed interiorizzare i termini della toponomastica
urbana che, riformulata nel 1984 ad opera del professore Giovanni Bracco, su incarico dell’Amministrazione Comunale, presenta la particolarità di intitolare vie e piazze agli uomini più rappresentativi
del paese, dal I sec. d.C. ai giorni nostri.
Il progetto si è articolato in tre momenti. Lo slogan «Dimmi dove abiti e ti dirò… chi ero» ci ha
guidato nella prima fase, nella quale ciascun alunno ha provveduto al reperimento di fonti bibliografiche
e, dopo la raccolta delle informazioni, ha elaborato una scheda biografica del personaggio cui è intestata la strada, corredandola, ove possibile, di materiale iconografico di riferimento. In questa fase
ognuno ha usato uno schema espositivo e uno stile a piacimento e ciò spiega la presenza di alcune
schede in cui il personaggio si autopresenta.
Nella seconda fase, quella della produzione, le schede sono state socializzate, verificate e ordinate
cronologicamente in modo da fornire una microstoria del paese, raccontata attraverso le vicende biografiche dei protagonisti della vita locale nelle varie epoche storiche. Il lavoro, corredato di indice, è
stato quindi fascicolato e distribuito.
Nella terza ed ultima fase, che abbiamo denominato «In giro per il paese», abbiamo effettuato la
ricognizione sul territorio, per una concreta acquisizione spaziale degli antroponimi e toponimi studiati, oltre che per fissare e focalizzare luoghi ed eventi ad essi collegati e, quindi, familiarizzare col
centro storico.
Lungo tale percorso si sono realizzati i seguenti obiettivi cognitivi e formativi:
- Effettiva conoscenza dei fatti e personaggi storici del paese.
- Acquisizione della funzione storica dei toponimi.
- Sviluppo della capacità di “leggere” le componenti urbanistiche, architettoniche ed artistiche
del paese.
- Consolidamento dei legami di appartenenza.
- Acquisizione di una metodica di ricerca.
- Vivere la gratificazione di aver realizzato una produzione culturale.
Nella convinzione che la scuola è quella del sapere ma anche del saper fare, sono certa che questa
esperienza ha positivamente segnato i miei studenti.
* e gli studenti di II B della scuola media «E. De Amicis» di Polla, anno scolastico 1997/1998.
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(Via Annia) TITO ANNIO
pretore romano del II secolo a. C.
Di me, console Tito Annio del II secolo a.C., non si conserva la statua ma, fortunatamente, le parole
che feci incidere alla base del mio monumento che posi qui, dalle vostre parti, lungo la via CapuaReggio, costruita per facilitare le comunicazioni tra Roma e le zone del sud conquistate. Voi l’avete
chiamata «Elogium» perché avete scorto un tantino di orgoglio nell’elencazione dei miei meriti (fig. 3):
La via da Reggio a Capua ho costruito e vi ho posto tutti i ponti, i miliari e i tabellari
Da qui a Nocera sono miglia
51
Fino a Capua
84
Fino a Murano
74
Fino a Cosenza
123
Fino a Vibo Valentia
180
Fino allo stretto, alla statua
231
Fino a Reggio
236
Somma: da Capua a Reggio le miglia sono
321.
Ed io medesimo, da pretore in Sicilia, conquistai i fuggitivi italici e restituii 917 uomini. E fui
io che per primo feci in modo che dall’agro pubblico i pastori si allontanassero a vantaggio
degli aratori.
Qui ho costruito un Foro e gli edifici pubblici.
Quest’epigrafe è assai importante non tanto perché ricorda il mio operato (la costruzione della
strada, la politica di promozione agricola e quella della pubblica sicurezza), ma soprattutto per voi
perché l’ultimo rigo «Qui ho costruito un Foro e gli edifici pubblici» è praticamente l’atto di nascita
del vostro paese. Come tanti altri (Forlì, Fornovo, Forlimpopoli), esso ha origine da un foro romano,
cioè da un gruppo di edifici che sorgevano lungo le strade per offrire sosta e ristoro ai viaggiatori, più
o meno come i vostri autogrill. Solo voi, però, avete la fortuna di conservare il documento originario,
che tutto il mondo archeologico vi invidia.
Orbene, dite: non ho fatto bene a elencare tutte le opere?
E non siete d’accordo sul fatto che le parole volano mentre gli scritti restano? Meditate, meditate!
E, soprattutto, scrivete!
Così ho meritato la fama e l’intitolazione della strada che porta ancora il mio nome.
(Via) INSTEIA POLLA
sacerdotessa romana del I secolo d.C.
Di lei non ci è giunto alcun ritratto, ma è vivo il ricordo della sua generosità e del suo amore
coniugale. Era una sacerdotessa romana del I sec. d.C. che abitava il locale Forum Annii (il primo
nucleo del paese fondato dal console Tito Annio nel II sec. a.C.); all’età di sette anni fu adottata dal più
importante magistrato del posto, Gaio Uziano Rufo, che finì, più tardi, per sposarla. Nonostante la
differenza di età, il loro fu un matrimonio felice che durò ben 55 anni.
Alla morte di Gaio, la buona Insteia volle erigergli un grandioso monumento sepolcrale che ne
tramandasse ai posteri il ricordo. Invece il mausoleo diventò popolare col nome della costruttrice,
ossia mausoleo di Polla. Più tardi il nome «Polla» indicò il paese che nel frattempo si era organizzato
alle spalle del mausoleo. Il destino ha così reso immortale il ricordo di questa donna innamorata e io
sono fiera che all’origine del mio paese ci sia stata una storia d’amore.
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La voce di Insteia Polla è arrivata fino a noi da un lontano passato attraverso le iscrizioni di dedica
al mausoleo: «Insteia Polla sacerdotessa di Giulia a Gaio Uziano Rufo, per due volte magistrato, uomo
di grande qualità che l’aveva accolta in casa fanciulla di 7 anni e che poi l’ebbe in sposa con grande
amore per 55 anni…».
Il suo nome rivive in quello del paese e nella strada nei pressi del Mausoleo a lei dedicata.
(Piazzetta) ASCLETTINO
signore di Polla nel secolo XI
Già conte di Sicignano, si trovò ad essere signore di Polla perché tale feudo gli fu portato in dote
dalla moglie Sichelgaita, «figlia di Pandolfo e nipote di Guaimaro» (come precisa il documento di
donazione conservato nella Badia di Cava dei Tirreni), consanguinea, quindi, della più famosa
Sichelgaita, figlia di Guaimario e moglie di Roberto il Guiscardo.
Asclettino è passato alla storia per aver prodotto il primo documento medioevale del paese, nel
quale compare per la prima volta il nome di Polla. Esso risale al 1086 e sancisce la donazione sottoscritta da lui e da Sichelgaita «spinti da divina ispirazione» in favore della Badia di Cava del Casale di
San Pietro (con chiesa e monastero) e della chiesa di Santa Caterina, l’uno alla periferia l’altra entro
le mura del tenimento di Polla. La donazione, anche se porta il nome di Asclettino, siamo certi, fu
opera di Sichelgaita che, come la omonima zia, alla Badia di Cava doveva essere particolarmente
legata in quanto fondata da Alferio, frequentata da Alfano e diretta in quell’anno dall’abate Pietro, tutti
suoi parenti, come abbiamo appreso dal fumetto Salerno Normanna, della Gutenberg Edizioni.
Ci piace immaginare che la nostra Sichelgaita seguisse l’esempio della zia Sichelgaita, che aveva
già intrapreso da tempo questa politica di donazione in favore dell’Abbazia di Cava e che proprio
nello stesso anno (1086) spingeva anche il figlio Ruggero a fare altrettanto con un monastero di Bari.
Nient’altro sappiamo di Asclettino, ma non c’è dubbio che, per il tramite della moglie, fosse attratto nel clima di rinnovamento generale promosso a Salerno da Sichelgaita e Roberto, i cui effetti dovettero arrivare anche nel feudo di Polla. Per noi Asclettino rimane comunque un personaggio importante
perché ha consegnato per primo alla storia il nome di Polla.
A lui è intitolata la piazzetta antistante la chiesa di San Pietro Apostolo (fig. 4).
(Via) GIOVANNI VILLANO senior
marchese della Polla
La strada che porta al castello è intitolata a Giovanni Villano, che fu uno dei feudatari più importanti del paese. I Villano subentrarono ai Sanseverino quando, a seguito di una ennesima congiura
contro i reali, vennero privati del feudo, che fu smembrato e messo in vendita. Toccò ai Villano, una
nobile famiglia di Cava, trasferitasi poi a Napoli, allora capitale del Viceregno spagnolo, comprare la
signoria di Polla, che con loro divenne un marchesato.
L’acquisto avvenne nel 1553 e, tre anni dopo, Giovanni Villano venne a risiedere a Polla. Sposò nel
1571 una gentildonna napoletana, Eleonora di Costanzo, dalla quale ebbe sei figli che vissero tutti nel
castello del nostro paese.
I primi anni furono caratterizzati da controversie con l’Università, a causa dei servizi che pretendeva dai sudditi: gli uomini dovevano trasportare le vettovaglie su al castello e le donne dovevano fare
da nutrici ai suoi figli; inoltre imponeva tasse per ogni minima concessione e, soprattutto, vietava la
caccia nel Pantano, considerata riserva di caccia del signore. Col tempo, però, le cose cambiarono e i
rapporti si normalizzarono.
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Quando, poco dopo, il violento terremoto del 1561 si abbatté sul paese distruggendone le strutture,
egli non solo aiutò e sostenne la popolazione distribuendo ogni giorno viveri e pane fresco per tutti,
preparato nel forno del castello, ma rivelò doti di grande organizzatore, riuscendo in pochissimi anni
a concludere i lavori di ricostruzione e sistemazione del paese, dando dei numeri agli amministratori
di ora.
A ricordo dell’evento e con comprensibile orgoglio, il marchese fece murare accanto alla porta di
ingresso del castello una lapide sulla quale si legge che ha ricostruito vie, piazze, e conventi e che,
avendo ricevuto il titolo di marchese, ha adeguato l’aspetto della sua dimora alla nuova dignità. Da
questo momento la fortuna dei Villano crebbe, in quanto acquistarono anche il Casale di San Pietro,
poi quelli di Sant’Arsenio e, infine, di Diano, assicurandosi il dominio incontrastato del versante
occidentale del Vallo.
Una sua figlia, Beatrice, presi i voti col nome di suor Maria, nell’Ordine domenicano (nel quale
confluirono vari esponenti della famiglia), visse e morì in odore di santità (vedi scheda Suor Maria).
Giovanni morì nel 1613 lasciando il feudo al nipote omonimo, figlio di suo figlio Francesco Antonio, prematuramente scomparso. Particolare attenzione merita il suo testamento. Dopo avere elencato
i beni che lascia ai suoi eredi, egli raccomanda vivamente ai suoi figli di vivere in concordia, di amarsi
e rispettarsi; raccomanda, inoltre, di rispettare e onorare e soccorrere in ogni occasione la madre,
perché non avvertisse mai la mancanza di amore filiale.
Inoltre lascia ai poveri del suo paese un legato di 360 ducati e un altro, detto di maritaggio, di 30
ducati lo destina alle ragazze nullatenenti, perché convolino a decorose nozze. Come non riservare un
posto nel nostro cuore ad un uomo così straordinario?
(Piazza) SUOR MARIA VILLANO
mistica del Seicento
È una delle tante figure “pie” della famiglia dei Villano che, in qualità di marchesi, ressero le sorti
di Polla per quattro generazioni, dal 1553 al 1668. Beatrice, era questo il nome secolare di suor Maria,
era figlia di quel marchese, Giovanni Senior, che in tempo record curò la ricostruzione del paese dopo
il funesto terremoto del 1561; nipote di suor Dorotea, fondatrice a Napoli del convento domenicano di
S. Giovanni Battista; zia di quel Giovanni Junior che, in seguito a una crisi esistenziale, rinunciò al
marchesato e divenne monaco teatino.
Beatrice era nata nel 1584 e, già da adolescente, si faceva amare dai sudditi per le continue opere di
carità che dal castello spandeva nel paese; nel 1598, a soli 14 anni, vestì anche lei l’abito domenicano,
trasferendosi nel monastero napoletano di S. Giovanni, affettuosamente ribattezzato dai napoletani S.
Giovanni delle Monache.
Sull’esempio della zia, anche lei volle legare il suo nome ad un’opera duratura nella capitale vicereale.
Diede così vita, insieme ad altre venti suore uscite da S. Giovanni, ad un nuovo monastero, quello del
Divino Amore, tuttora operante in via S. Biagio dei Librai. Per la sua edificazione suor Maria utilizzò
il palazzo napoletano di famiglia, toccatole in eredità, nel quale ella stessa era nata, e ne affidò il
progetto di ristrutturazione al famoso architetto Francesco Picchiatti. A detta del Celano e degli altri
storici del tempo, questi costruì uno dei più deliziosi monasteri della città, apprezzabile per la ricchezza delle acque e per la felice posizione panoramica.
Qui suor Maria trascorse una santa vita, spesa in preghiere, meditazioni e opere di carità, che le
valsero, già in vita, fama di santità. Godeva di doni soprannaturali, come estasi, apparizioni, profezie;
in alcune solennità dell’anno, inoltre, era fatta partecipe della Passione del Signore con ferite al costato al punto tale che fu inclusa dal gesuita A.M. Bonucci tra i grandi santi stigmatizzati.
Subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1670 (a 96 anni), fu aperto il processo di beatificazione che
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si protrasse, fra varie interruzioni, fino alla fine del secolo; ripreso a fine Ottocento, superò la fase
istruttoria, ragion per cui suor Maria da Serva di Dio entrò nell’Olimpo minore dei Venerabili. Per
l’occasione, il ritratto della sua vera effigie fu trasfigurato in ritratto eroico con l’aggiunta degli attributi caratterizzanti: la suora è infatti raffigurata davanti a uno scaffale con le numerose opere in latino
e in italiano, di cui fu autrice. Il paese ha fissato per sempre il ricordo di questa santa e intraprendente
suora, intitolandole la strada che porta al Castello, una volta dimora dei Villano.
GIOVANNI VILLANO junior
frate teatino del Seicento e personaggio in cerca… della sua via
Mi inserisco in quest’elenco, dopo i due illustri membri della mia famiglia, perché trovo ingiusto
che i pollesi, da me tanto amati, mi abbiano dimenticato al punto di non intitolarmi né una strada, né
un vicolo. In attesa di miracoli vi fornisco mie notizie.
Sono fra Giovanni Villano, una volta marchese di Polla e signore di Diano. Porto il nome del mio
più famoso avo, Giovanni Senior, passato alla storia per aver fatto risorgere Polla dal tremendo terremoto del 1561 in un tempo record (cosa che non mi pare sia riuscita ai vostri attuali amministratori).
Anch’io naturalmente abitavo il castello di Polla, dove ero stato preparato al ruolo di marchese, che
mi toccava in quanto primogenito. Ero al massimo della felicità quando coronai il mio sogno d’amore
sposando la dolce Emilia Cardone, di provenienza siciliana. Ma tutto ciò si sciolse come neve al sole
quando, pochi giorni dopo il matrimonio, Emilia, colpita da una malattia fulminante, morì.
Fu per me un duro colpo e, a poco a poco, maturai l’idea di ritirarmi nel monastero teatino di San
Paolo Maggiore a Napoli. Prima, però, volli raccomandare a Dio il paese che lasciavo nelle mani di
mio fratello Francesco Antonio. Lo feci commissionando ad un artista napoletano, Michele Raglia, la
tela a voi nota col nome di Pala Villano, perché essa fosse una preghiera eterna elevata al cielo a
beneficio di Polla.
Il frate inginocchiato sono io, alle mie spalle mio fratello, la moglie e mia sorella Lucrezia. Ci
affidiamo tutti al beato Gaetano affinché interceda presso il Redentore per noi e per il nostro feudo di
Polla, raffigurato sullo sfondo, naturalmente in versione seicentesca. Altrettanto feci per la chiesa di
San Paolo che mi ospitava, nella quale tuttora potete vedere un’altra Pala Villano, simile in tutto a
quella di Polla, con la sola variante del panorama che raffigura la chiesa napoletana come si presentava ai miei tempi.
Sfortunatamente anche il mio noviziato, come il matrimonio, durò poco, perché dopo due anni
raggiunsi la mia Eleonora nella dimora celeste. Da qui continuo a vegliare sul mio paese e prego il
Signore che protegga i suoi abitanti.
(Via) Padre AMBROGIO PANTOLIANO
francescano del Seicento Custode di Terrasanta
Sono Padre Ambrogio Pantoliano e vi parlo dal ritratto esposto nella sacrestia del Santuario di
Sant’Antonio in Polla. Non date troppa importanza all’ondulato cartiglio che riporta in maniera altisonante tutte le mie cariche (Visitatore Generale delle province di Roma, Palermo e Milano; Definitore
Generale; Presidente Generale dell’Ordine; Lettore di Teologia in Cava; Commissario Generale in
Terrasanta; Sommo Custode di Terrasanta e Patriarca di Gerusalemme). Si tratta pur sempre di un
ritratto ufficiale e, come dite voi, di rappresentanza!
Voi, invece, cercate di capire lo spirito francescano che ha sempre ispirato la mia opera. Nacqui a
Polla nel 1585 e scoprii in tenera età, frequentando il convento, la mia vocazione francescana e affron-
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tai i miei studi teologici a Maiori, a Cava ed a Montoro, secondo le precise disposizioni dell’Ordine.
Il tempo in cui vissi non era certo dei più felici, sia per il clima di rigore stabilito dalla Controriforma,
sia per le azioni di disturbo portate dai Turchi all’Europa cristiana, senza contare, poi, le minacce di
scisma avanzate dai cristiani di Oriente.
Io, povero francescano, fidando sempre nell’aiuto di Dio, mi sforzavo di eseguire al meglio i compiti sempre più gravosi che l’Ordine mi assegnava. Dal convento di San Diego a Napoli, sede provinciale dell’Ordine, cercai di dare nuova dignità a tutti i conventi della provincia, ma devo confessare
che dedicai particolare cura a quello di Polla che, grazie a me, divenne un convento di prim’ordine, sia
sotto il profilo culturale che artistico. Vi inviai artisti famosi nell’ambiente napoletano, che dotarono
la chiesa di capolavori di arte e di devozione: il coro ligneo, il drammatico Crocifisso di frate Umile da
Petralia, la splendida quadreria del soffitto, di Michele Ragolia, formata da ben quaranta tele!
Dal convento Tiberino di Roma fui promotore, inoltre, di molti interventi finalizzati alla formazione di un clero capace di inculcare nel popolo le verità di fede con parole semplici ma efficaci, per
arginare l’avanzata protestante. Per questo percorsi non solo le province italiane ma anche estere,
affrontando interminabili viaggi a Londra e a Parigi. E, come se ciò non bastasse, fui spedito in Terrasanta
col doppio compito di difendere i luoghi Santi dai Turchi e di tentare l’unione dei Cristiani d’Oriente
con Roma. Compiti difficilissimi tutti e due che misero a dura prova per tre anni la mia invittissima
pazienza, specialmente quando divenivo oggetto di agguati e di scherno. Tuttavia, a poco a poco,
incominciai a far breccia nel cuore dei Greci e dei Turchi che, incredibile a dirsi, arrivavano a darmi
generose offerte per la chiesa del mio paese!
Sul più bello, però, fui richiamato a Roma perché mi occupassi degli affari interni dell’Ordine.
Dopo qualche anno ci fu un ripensamento e all’età di sessanta anni, mal portati, fui di nuovo spedito a
Gerusalemme come Custode di Terrasanta.
Purtroppo non mi fu concesso di rivedere la città santa, perché i miei occhi si chiusero per sempre
durante il viaggio, a Siracusa. L’ultimo mio pensiero volò alla chiesa del mio paese che doveva essere
diventata così bella, da avere i muri d’oro come una chiesa orientale e frati capaci.
Il mio ricordo fortunatamente rimane vivo nel cuore dei pollesi, che mi hanno intitolata la strada
che dalla mia proprietà porta all’amata chiesa di Sant’Antonio.
(Via) Frate ANDREA DELLA POLLA
francescano del Seicento
È un frate francescano vissuto nel Seicento ma vivo nella memoria dei pollesi, che gli hanno dedicato una via del paese, sulla costa alle spalle del Convento di Sant’Antonio. Egli, originario di Polla,
fece carriera nell’Ordine e, ben presto, si trasferì a Napoli nel Convento di San Diego, detto popolarmente
«l’Ospedaletto» perché dotato di una infermeria che curava i poveri.
Il Convento napoletano, dall’inizio del Seicento, era diventato sede ufficiale della Curia Provinciale e, quindi, era un centro importantissimo di guida e di formazione dell’Ordine. In esso frate Andrea
prestava con zelo la sua opera, senza tuttavia dimenticare il convento del suo paese. Egli commissionò
infatti lo splendido affresco della cupola, che possiamo tuttora ammirare, al pittore napoletano Domenico
Sorrentino, allievo di Luca Giordano. Questi, trasferitosi a Polla nel 1681, vi lavorò per un anno,
lasciandovi quel capolavoro d’arte che è la Gloria del Paradiso. Guardando in su sembra che sia
scomparso il muro ricurvo della cupola per lasciar posto a uno spazio celeste, affollato di Santi e di
Angeli che ruotano intorno al punto fermo centrale, costituito da Dio benedicente.
Inoltre, frate Andrea donò al “suo” convento due calici ed un ostensorio d’argento riccamente
cesellati, fece indorare due altari della chiesa ed infine, morendo, lasciò al convento tutti i suoi beni,
suggellando, con questo estremo atto, il legame con le sue radici.
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(Viale) MICHELE RAGOLIA
pittore siciliano del Seicento
Sono un personaggio di casa a Polla, anche se vengo da lontano. Le mie generalità le ho lasciate
nella tela del Redentore che apre il mio cielo pittorico nella Chiesa di Sant’Antonio. In essa sono
riportati nome, cognome, provenienza e anno di soggiorno a Polla: MICHAEL RAGOLIA SICULUS
PINGEBAT 1666 e perfino le mie fattezze nel volto del Creatore. Non è immodestia la mia, credetemi, ma piuttosto una consuetudine del tempo. E poi come mi avreste conosciuto, altrimenti? In questo
modo, da ben quattro secoli, continuo ad avere un rapporto confidenziale con tutti i fedeli che alzano
gli occhi in su durante le celebrazioni.
Quando fui chiamato a Polla, avevo già alle spalle una grossa popolarità a Napoli. Vi giunsi giovanissimo per imparare il mestiere presso Besilario Corinzio, un famoso pittore manierista, ma ben
presto mi allontanai dal maestro per inserirmi nel più moderno gruppo dei naturalisti napoletani che
seguivano il nuovo linguaggio del Caravaggio. Avevo lavorato nella capitale sia per i Domenicani
nella Chiesa di San Domenico Maggiore, sia per i Francescani nella Chiesa di San Diego l’Ospedaletto,
sia per le monache di clausura di Regina Coeli e perfino nella Certosa di San Martino. La mia fama era
giunta fino in periferia dove ho lasciato varie mie opere, come ad Agerola, a Solofra, ad Ogliastro
Cilento, a Cava dei Tirreni e infine nella vostra Certosa di Padula. Inoltre avevo anche un discreto
mercato laico che mi richiedeva tavole e tele per uso domestico.
Ma quando arrivai a Polla, capii subito che quella era l’occasione della mia vita, perché avevo a
disposizione un enorme soffitto nel quale potevo esprimere il mio capolavoro. Fu proprio così e, in un
solo anno di forsennato lavoro, il soffitto si trasformò in una pinacoteca sospesa che diede alla Chiesa
un tocco inconfondibile. Lungo tre assi di lunghezza, disposi ben quaranta tele diverse per forma e per
dimensioni che esaltano la figura dell’Immacolata nei suoi antefatti biblici, nel racconto della sua vita
terrena con Giuseppe e Gesù, e nella sua celeste assunzione. Le tele, rese più preziose dalle cornici
d’oro, si stagliano sul fondo azzurro in un suggestivo effetto di cielo.
Ebbene, da allora, la mia opera, una vera e propria Bibbia dei poveri, ha rafforzato la fede di tante
generazioni di pollesi che non sapevano leggere e continua ancora a parlare dei misteri divini a tutti
quelli che qui si fermano. Per questo credo di aver conquistato un posto privilegiato nel cuore dei
pollesi e di meritare la cittadinanza onoraria.
Me lo avete dimostrato intitolandomi il bel viale panoramico che porta alla Chiesa.
(Piazzetta) CARLO CURZIO
dottore fisico del Settecento
Sono il dottore o, come si diceva ai miei tempi, il dottor fisico Carlo Curzio. Sì, l’avrete capito dalla
mia parrucca settecentesca che sono un uomo d’altri tempi! Nacqui a Polla nel 1692 e da giovane mi
trasferii a Napoli, per proseguire gli studi superiori in ambiente colto e cittadino. Ben presto mi affermai nella cerchia accademica e, per esserne all’altezza, modificai il cognome Curcio in Curzio, che mi
sembrava più classico ed altisonante. Ebbi l’onore ed il piacere di essere amico del principe Raimondo
di San Severo, famoso scienziato ed inventore napoletano. Terminati gli studi, prestai servizio sempre
a Napoli nell’Ospedale degli Incurabili, dove arrivavano i malati più poveri altrimenti incurabili. Il
loro stato mi toccava profondamente e feci di tutto per alleviare le loro malattie. La sorte mi premiò,
facendomi salire alla ribalta della cronaca internazionale, per aver debellato la sclerodermia, una
malattia che rendeva la pelle dura come il legno e che inevitabilmente portava alla morte.
Il mio operato è ricordato, ancora oggi, da una iscrizione bene in vista accanto all’ingresso dell’ospedale. Il che non è poco se pensate che all’interno, sulla stessa parete, c’è una simile iscrizione
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che ricorda un altro medico, che qui lavorava all’inizio del secolo, da poco salito agli onori degli
altari: Giuseppe Moscati.
Tuttavia non dimenticai mai il mio paesello dove tornavo ogni volta che potevo. Ero molto legato
alla chiesa del mio quartiere, San Nicola dei Greci. Vi promossi il culto dell’Addolorata, donando alla
chiesa la tela della Pietà, che commissionai al bravo pittore pollese Nicola Peccheneda. Istituii anche
un Monte di Pietà che forniva la dote alle ragazze povere della parrocchia prossime alle nozze e che è
rimasto in vigore fino alla vigilia della prima grande guerra.
Il paese ha ricambiato il mio affetto, intitolandomi proprio la piazza davanti alla chiesa. Se volete
incontrarmi, recatevi nella Chiesa di Cristo Re e fermatevi davanti alla tela della Pietà: il personaggio
in basso a destra sono io.
(Via) GIANGIUSEPPE ORIGLIA
giurista del Settecento
Nacque a Polla nel 1717 da una aristocratica famiglia, che abitava in una splendida «casa palazziata»
ancora esistente. Studiò nel seminario di Marsico e poi si trasferì a Napoli per completare i suoi studi
giuridici in un ambiente d’avanguardia, dominato dalle personalità dell’abate Galiani e di Antonio
Genovesi.
Proprio per incitamento del Galiani egli scrisse la sua impegnativa Storia dello Studio di Napoli in
due volumi, che costituisce il primo studio preciso e documentato sulla Università di Napoli, dalla sua
fondazione fino al Settecento. L’opera gli fruttò fama e onori nonché importanti cariche di magistratura a Matera, a Capri ed in Calabria.
Napoli ha onorato questo dotto del Settecento proveniente dalla periferia, intitolandogli una strada
che sbocca in via Mezzocannone tra i due edifici universitari, il San Salvatore ed il vecchio Politecnico, di cui aveva narrato la storia.
Pur con colpevole ritardo, anche Polla ha fatto altrettanto, dedicandogli la via che portava al suo
palazzo, nei pressi del castello.
(Via) NICOLA PECCHENEDA
pittore e sindaco dell’Università di Polla nel Settecento
Fu un uomo molto popolare, amato e stimato dai suoi concittadini sia per la sua attività politica che
per la sua arte. Era nato a Polla nel 1725, figlio di un operoso costruttore, Carlo, che mantenne i suoi
due figli Francesco e Nicola a Napoli, l’uno a studiare giurisprudenza, l’altro a bottega presso Francesco Solimena, il pittore più famoso e affermato del tempo. Nicola fu un discepolo bravissimo e, a soli
diciotto anni, diventò anche lui un valente pittore che riceveva commissioni non solo dal Vallo di
Diano, ma anche dalla vicina Basilicata e dal Napoletano. Le sue composizioni, ariose, delicatamente
colorate e devote, come quelle del suo maestro, incontravano il favore generale.
Quando ritornò a Polla, si inserì attivamente nella vita politica del paese distinguendosi per importanti incarichi ricevuti dall’Università, che gli meritarono l’appellativo di Magnifico. Ricordiamo ad
esempio la sua abilità nella composizione dei dissidi territoriali fra il feudatario Capecelatro e l’Università; su sua proposta, inoltre, fu istituito un pubblico mercato da tenersi ogni sabato. La sua popolarità toccò il massimo quando, negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione napoletana del
1799, venne eletto sindaco in maniera ripetuta e plebiscitaria.
Lo immaginiamo portavoce da Napoli delle idee libertarie che là si respiravano, dal momento che
prese parte attiva alle manifestazioni repubblicane di Polla, dopo aver deposto la divisa reale. Proprio
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durante una manifestazione giacobina promossa dal figlio Francesco, egli chiuse per sempre i suoi
occhi nel 1799.
Fra le sue opere pittoriche in zona ricordiamo: il ciclo di Sant’Arsenio, di Atena, di Caggiano e di
Sala. A Polla, nella chiesa di Cristo Re, fa bella mostra di sé la tela della Pietà che gli fu commissionata dal dottor fisico Carlo Curzio.
A lui è intitolata una strada nei pressi della sua casa, strada che da via Villapiana porta alla via della
Tempa.
(Via) ANSELMO PALMIERI
pittore del Settecento
Fu un personaggio importante nell’ambiente pollese del primo Settecento, sia sotto il profilo ecclesiastico che artistico. Era prete capitolare nella chiesa di san Nicola dei Latini, e fu tra i primi ecclesiastici pollesi ad avere il titolo di abate. La sua fama, tuttavia, è legata maggiormente alla sua attività di
pittore, messa in luce negli ultimi tempi. Sappiamo dai documenti storici che dipinse alcuni affreschi
nella sua Chiesa di San Nicola dei Latini, e che operò anche a Padula, nella Chiesa di San Francesco e
a Sala, in quella di Santo Stefano, negli anni che vanno dal 1708 al 1725. Purtroppo buona parte della
sua produzione è andata perduta nel corso del terribile terremoto che si abbatté sul Vallo di Diano nel
1857. Rimangono invece in tutta la loro bellezza i ricchi affreschi delle pareti della Chiesa di Sant’Antonio in Polla; essi raffigurano episodi biblici racchiusi in elaborate cornici di stucco su cui fanno
capolino angeli e serafini.
L’opera è il risultato della felice collaborazione fra lui e un pittore di Buonabitacolo, Francesco De
Martino. Questi dipinse gli ornati, mentre il nostro Anselmo Palmieri fu autore delle figure, come
risulta chiaramente dalla iscrizione che ci viene mostrata dall’angelo all’inizio del ciclo e nella quale
viene riportato orgogliosamente il titolo di abate per il nostro Palmieri: Abbas Anselmus Palmieri,
Pollanus Imagines et Franciscus De Martino a Bonabitacolo ornamenta pinxerunt A. D. 1715.
A lui è intitolata la salita che porta al convento, in prossimità della sua casa.
(Via) CRISTOFORO CAPUTI
presidente della Repubblica del 1799
Pur non essendo nato a Polla, egli fu protagonista della vita politica del Settecento pollese. Dalla
nativa Rocca S. Felice, in provincia di Avellino, si trasferì a Polla quando sposò donna Luigia Pantuliano,
che portava in dote i beni ed il palazzo di famiglia, essendosi estinta la linea maschile.
Da quel momento fu pollese a tutti gli effetti: si inserì felicemente nell’ambiente sociale del paese,
facendosi portavoce delle idee rivoluzionarie francesi, sfociate a Napoli nella rivolta del 1799 e nella
proclamazione della Repubblica Napoletana. Anche a Polla attecchirono in nuovi fermenti e la popolazione, dopo aver piantato il rituale albero della libertà nella pubblica piazza, proclamò la Repubblica e ne acclamò presidente proprio il Caputi.
Egli fu effettivamente presidente solo per cinque mesi, tanto quanto durò la repubblica a Polla, ma
per i pollesi rimase sempre “il presidente” anche dopo la repressione borbonica. E come tale continuò
a partecipare agli avvenimenti politici durante il decennio francese che vide prima Giuseppe Bonaparte
e poi Gioacchino Murat sul trono di Napoli, fino a quando non chiuse gli occhi per sempre nel 1812.
Polla gli ha intitolato una via di recente formazione che, staccandosi da via Porta dei Cavalli,
prosegue a mezza costa alle spalle della Civita, dove sorgeva il palazzo Pantuliano.
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(Via) VINCENZO BUFANO
protomartire del Risorgimento
Un amaro destino fu quello del mugnaio Giuseppe Bufano, che possiamo considerare il primo
martire del Risorgimento pollese. Era uno dei sette figli di un certo Felice Padreterno, così
soprannominato per il suo aspetto atletico. Ardente e giovane carbonaro, aveva preso a cuore la resistenza cilentana, forse per via della moglie Domenica, che dal Cilento proveniva.
Egli, insieme con l’ingegnere Luigi Manzella (in seguito progettista della nuova stazione di Napoli
e deputato del Regno), aveva organizzato la partecipazione di buona parte del Vallo alla rivolta del
vicino Cilento, proclamata a Palinuro nel 1828.
La rivolta scoppiò, ma fu repressa nel sangue dal maresciallo Francesco Del Carretto; vi furono
inoltre 143 condanne, di cui 26 a morte. Manzella se la cavò con 19 anni di carcere, poi commutati a
12; il povero Bufano, invece, pagò per tutti. Fu l’unico, infatti, ad essere giustiziato nel Vallo e fu
fucilato proprio nel suo paese, nella centrale via del Ponte. Aveva solo 26 anni! Per di più, la sua testa
recisa venne esposta, per ordine borbonico, su una piramide innalzata sul luogo dell’esecuzione, perché fosse di ammonimento alla popolazione. Ma i fratelli di notte riuscirono ad impadronirsene, mettendo fine allo scempio.
Questa crudele vicenda segnò profondamente la popolazione e rafforzò gli ideali di libertà dei
pollesi.
La strada lungo la quale era situata la sua casa porta ora il suo nome. È quella che costeggia la
ferrovia dalla parte del fiume e che finisce di fronte all’edicola di Santa Barbara.
(Via) VINCENZO PARISI
carbonaro della Neosparta Febea
Vincenzo Parisi, giovane rampollo di una delle famiglie più aristocratiche di Polla, aderì giovanissimo alla Carboneria, dopo la restaurazione imposta dal Congresso di Vienna. Poco più che ventenne
fondò a Polla una società segreta, la Neosparta Febea, che, in pratica, era una sezione staccata della
Carboneria napoletana. Fu un vero e proprio leader che seppe coinvolgere nel suo programma aristocratici, intellettuali, borghesi e popolani. Attrasse alla causa perfino uno straniero, sposato e residente
a Polla, l’olandese Wan Koll, che mise a disposizione la sua casa in montagna per le adunanze segrete.
Parisi fu uno dei principali animatori, nel Vallo di Diano, dei moti carbonari del 1820. Egli, già
sindaco della Università di Polla, assunse il grado di generale e fu alla testa di tre battaglioni del Vallo
di Diano che mossero alla volta di Napoli, per unirsi al generale Pepe e indurre re Ferdinando a
concedere la costituzione. Ad Eboli, però, la loro marcia si interruppe, perché un messaggero portò
loro la notizia che la costituzione era stata concessa. Le file si ricostituirono poco dopo, a seguito del
tradimento del re che, nel Congresso di Lubiana, ben lungi dal difendere il suo governo costituzionale,
aveva chiesto e ottenuto l’intervento armato dell’Austria contro gli insorti.
Fu di nuovo Parisi ad organizzare la resistenza, che si concentrò sul ponte di Campestrino, per
impedire alle truppe borboniche l’accesso alla Calabria. Anche questa volta l’avanzata dei Carbonari
fu inutile, perché, nel frattempo, era stato firmato l’armistizio di Capua. Seguì, inevitabilmente, una
raffica di esili per i responsabili delle insurrezioni: Vincenzo Parisi fu condannato a morte, ma poi la
sentenza venne cambiata in ergastolo e, infine, nel 1832, in grazia. Finì i suoi giorni a Marsiglia, luogo
di accoglienza per gli esuli, lontano dalla patria nel 1837, a soli 47 anni di età. A lui va riconosciuto il
merito di aver tracciato il cammino della libertà che altri, sul suo esempio, avrebbero percorso.
Il paese ricorda questo suo eroe col nome di una via a lui intitolata: la strada interna che congiunge
via della Tempa con via della Grotta.
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(Via) LUIGI CURTO
fondatore dell’ospedale di Polla
«Uomo d’altri tempi era Luigi Curto, un sant’uomo!» – ripete spesso il mio bisnonno. Nato da una
modesta famiglia, emigrò dopo l’unità d’Italia, come tanti altri, in Argentina e lì, in 45 anni di duro
lavoro, come commerciante di cereali, accumulò una notevole fortuna; ma non dimenticò mai i motivi
che lo avevano spinto ad emigrare e cercò sempre di venire incontro ai bisogni dei poveri. Fu infatti
fra i principali finanziatori dell’ospedale italiano di Buenos Aires, che lo onorò con un busto di marmo
innalzato nell’ingresso.
Dopo mezzo secolo trascorso in Argentina, volle ritornare in patria e donare anche al suo paese un
ospedale. Avviò le trattative con il comune di Polla al quale inviò la somma di lire 25.000 (era il 1905)
e, l’anno dopo, tornò definitivamente in Italia. I lavori, però, richiedevano sempre più soldi, per cui il
benefattore diede fondo a tutti i suoi risparmi e finì i suoi giorni povero, ospite di amici. Fortunatamente ebbe la soddisfazione di vedere finita la sua opera, prima di chiudere per sempre gli occhi nel
1908.
«Eppure – continua sempre il nonno scandalizzato – dopo i primi entusiasmi questo benefattore fu
quasi completamente dimenticato!» Solo poco tempo fa, nel 1994, gli è stato reso finalmente onore,
quando un sensibile amministratore della locale USL 57, il dottor Francesco Maioli, gli ha fatto innalzare, nel giardinetto d’ingresso dell’ospedale, un busto bronzeo, opera dello scultore Francesco Scialpi di
Sala Consilina. Da lì Luigi Curto guarda ancora l’opera da lui voluta e si compiace della sua crescita.
Gli è stato intitolato non solo l’ospedale (fig. 5), ma anche la via rotabile che ad esso conduce.
(Via) ANTONIO ISOLDI
maestro e promotore del Parco della Rimembranza
È il maestro per eccellenza di Polla, amato dai suoi concittadini e tenuto in grande considerazione
dalle autorità. Egli insegnava regolarmente nelle scuole elementari, ma diede vita anche a una scuola
all’aperto, che fu tra le prime che si ebbero in provincia. Mise a disposizione la sua casa e il suo
giardino, che divennero un punto d’incontro e di riferimento dei giovani del paese. Fu, inoltre, promotore nel 1905 della prima Biblioteca Pubblica aperta a Polla, annessa alle scuole elementari, intitolata
al medico Guido Baccelli.
Nel 1927 il pensiero del figlio Virgilio, caduto nella Grande Guerra, lo spinse a creare in paese, in
collaborazione con l’amministrazione comunale, il Parco della Rimembranza, ossia un luogo sacro
che, con sepolture simboliche, ricordasse per sempre i nomi dei giovani che immolarono la loro vita
per la Patria. Polla fu uno dei primi e pochi paesi ad esserne dotato e per anni ha svolto la sua funzione.
Da qualche tempo questo sito si era trasformato in un luogo inaccessibile e abbandonato ma, su
ripetute sollecitazioni degli alunni delle scuole medie che l’hanno adottato, è stato dal Comune
recuperato dal suo degrado e riaperto al pubblico.
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PERSONAGGI
Tito Annio
Insteia Polla
Asclettino
Giovanni Villano Senior
Suor Maria Villano
Giovanni Villano Junior
P. Ambrogio Pantoliano
Fra Andrea della Polla
Michele Ragolia
Carlo Curzio
Gian Giuseppe Origlia
Nicola Peccheneda
Anselmo Palmieri
Cristoforo Caputi
Vincenzo Bufano
Vincenzo Parisi
Luigi Curto
Antonio Isoldi
INTERPRETI (alunni)
Eugenio Botta
Giuseppe Caggiano
Giovanna Curcio
Mariarita Cupersito
Federica De Paola
Luca Di Leo
Francesco Di Nicola
Alessandra Di Noia
Michele Di Sarli
Angelica Garone
Sabrina Iannone
Paolo Ippolito
M. Giovanna Lamberti
Antonella Lorusso
Fausto Medici
Silvio Medici
Doma Molinari
Clementina Morrone
Giuseppe Panza
Tiziana Priore
Graziano Sacco
Francesco Taddeo
Nicola Trafuoci
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BIBLIOGRAFIA
BRACCO G., Detta dai Greci Apollo. La nuova toponomastica, Salerno, Boccia, 1984.
BRACCO V., Polla. Linee di una storia, a cura del Comune, Salerno, Cantelmi, 1976.
D’AMICO G., Giovanni Florenzano, un protagonista dimenticato, Salerno, Carlone editore, 1996.
ID., Il coraggio di partire, Salerno, Carlone editore,1995.
DE MAIO R., Religiosità a Napoli, Napoli, E.S.I., 1996.
LANGONE D., P. Ambrogio Pantoliano da Polla Francescano, Castellammare di Stabia, Eidos, 1998.
MARCHESE D. M., Vita della Venerabile Serva di Dio Suor Maria Villani, Napoli, Novello de
Bonis stampatore, 1717.
MARCIGLIANO D., Sant’Antonio in Polla, il Santuario francescano, Salerno, Ed. Frati Minori,
Arti grafiche Boccia, 1993.
MEDICI A., Michele Raglia, pittore siciliano attivo a Napoli, Tesi di Laurea, 1970.
ID., Polla, quattro passi nella storia, a cura del Comune, Polla, 1998.
RESCIGNO G., PANNULLO A., Salerno normanna, Lancusi, Gutenberg Fumetti, 1996.
SCUOLA MEDIA STATALE «E. DE AMICIS», I Caduti di Polla, a cura del Comune di Polla e
della Regione Campania, Salerno, Arti grafiche Boccia, 1996.
ID., Le edicole private scaturite dalla pietà popolare, a cura della Comunità Montana del Vallo di
Diano, Salerno, Boccia, 1989.
SOPRINTENDENZA AI B.A.A.A.S. DI SALERNO, Il Vallo ritrovato, scoperte e restauri nel
Vallo di Diano, Napoli, Electa, 1989.
ID., Il Cilento ritrovato, la produzione artistica nell’antica diocesi di Capaccio, Napoli, Electa,
1990.
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Riassunto
Questo lavoro di ricostruzione storica, fatto attraverso lo studio della toponomastica urbana, è stato facilitato dal fatto
che Polla dal 1984 si avvale di una nuova toponomastica che ha sostituito quella tradizionale, intitolando vie e piazze a
personaggi locali.
È stato condotto dalla prof. Alfonsina Medici nella classe II B della scuola media «De Amicis» di Polla (anno scol.
1997/98) e si è articolato nelle seguenti fasi:
1. Dimmi dove abiti e ti dirò…chi ero: Reperimento fonti e raccolta dati; elaborazione scheda informativa per ciascun
personaggio.
2. Produzione: Socializzazione delle schede; disposizione delle stesse in ordine cronologico; fascicolazione.
3. In giro per il paese: Acquisizione spaziale di antroponimi e toponimi studiati; familiarizzazione col centro storico.
È stato così possibile a) intessere la microstoria del paese; b) acquisire la funzione storica dei toponimi; c) consolidare
i legami di appartenenza; d) acquisire una metodica di ricerca; e) vivere la gratificazione di aver realizzato un prodotto
culturale.
Nella convinzione che la scuola è quella del sapere ma anche del saper fare, si è certi che l’esperienza ha positivamente
segnato i miei alunni.
Abstract
It’s a work of historical reconstruction throughout the study about urban toponymy.
It’s been easy because of since 1984 Polla uses a new toponymy, that has substituted the traditional one: the streets and
squares name the main important local men.
It’s been led by the teacher Alfonsina Medici in her classroom II B of the Secondary School «E. De Amicis» in Polla.
(school year 1997/ 98). The work consists of the following phases:
1. Tell me where you live and I’ll tell you…who I was: Sources’ retrieval and gatherings’ information; realization of
informative report for every character.
2. Production: socialization of the reports; disposition of the same ones in chronological order; binding.
3. Walking around the village: special acquisition of studied antroponymies and toponymies; knowledge of the historical
centre.
Thus it was possible: a) to plot the microhistory of the village; b) to acquire the historical purpose of toponymies; c) to
consolidate the membership ties; d) to acquire a search technique; e) to live the satisfaction for realizing a cultural product.
I’m sure this experience has been positive for my students in the conviction that the main object of school is knowledge
as well as to apply one’s knowledge.
Résumé
C’est un travail de reconstruction historique à travers l’étude de la toponymie urbaine.
Depuis 1984 Polla a une nouvelle toponymie que a remplacé celle traditionelle, en donnat le nom des personalités
locales aux rues et aux places.
M.me Alfonsina Medici a conduit ce travail avec les élèves de la classe II B du collège (Scuola Media) «De Amicis»Polla (a.s.1997/ 98). Il est articulé dans les phases suivantes.
1. Dis-moi où tu habites …et je te dirai qui je étais: Découverte des sources et recueil; élaboration des fiches informatives
sur chaque personnage.
2. Production: Socialisation et disposition chronologique des fiches; dossier.
3. Pour le pays: aquisition des antroponymes et toponymes étudiés; familiarité avec le centre historique.
Il a été possible: a) chanter la micro-histoire du pays; b) acquérir la fonction historique des toponimes. c) consolider le
liens d’appartenence; d) acquérir une méthode de recherche; e) se gratifier d’avoir realisé un produit culturel.
Dans la convintion que l’école du savoir est aussi l’école du savoir-faire, je suis sûre que cette expérience a touché
positivement mes élèves.
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Giuseppina Valeria Quitadamo
LA TOPONOMASTICA DEL TERRITORIO DI MONTE S. ANGELO (FG)
Il fine del presente articolo vuol essere la ricostruzione del quadro toponomastico del territorio
di Monte Sant’Angelo1 , dalla metà del XVIII sec. fino ai nostri giorni, considerando l’importanza
che la toponomastica riveste per l’analisi e la comprensione delle caratteristiche del paesaggio, e il
«contributo che essa può dare alla conoscenza del territorio e alla storia dell’appropriazione dello
spazio da parte dei gruppi umani che vi sono succeduti» (Cassi, Marcaccini, 1998, p. 13).
Per raggiungere quest’obiettivo sono stati esaminati: i toponimi contenuti nel Catasto onciario
del 1753, nello Stato di sezione del Catasto francese del 1807, nelle Carte topografiche IGM del
1869, del 1909 e del 1957 e, infine, i toponimi conosciuti dalla popolazione locale.
Si è potuto così cogliere l’incremento, ed insieme la trasformazione e l’evoluzione, del patrimonio toponomastico nel corso degli anni.
1. L’ incremento del patrimonio toponomastico dal 1753 al 1957
Dal confronto tra i toponimi contenuti nel Catasto onciario e nello Stato di sezione del Catasto
francese, con quelli presenti nelle Carte topografiche IGM, emerge un evidente incremento numerico: nel Catasto onciario se ne trovano 180 e nello Stato di sezione del Catasto francese 111 (in
entrambi i casi sono compresi quelli che si riferiscono a sezioni che oggi non rientrano più nei
confini del territorio oggetto di studio), sulle Carte topografiche sono iscritti 375 toponimi (cfr. Tab.
I).
Sulle tavolette si ritrovano quei toponimi che nei catasti designano le località: Carbonara2 , Narcisi, Macchia, S. Simeone, Scannamugliera3 , ecc., ma se ne trovano anche dei nuovi che ad esse si
riferiscono ed altri che designano le case rurali, i pozzi, le piscine: Purgatorio, Parco S. Michele4 ,
Iazzo Trenta Carrini, Murge Lunghe5 , Valle delle Rose, Torre Varcaro.
Questo dato potrebbe essere interpretato come il segno di una maggiore antropizzazione dello
spazio avvenuta tra i due secoli che separano la prima e l’ultima fonte, e quindi della più incisiva
presenza dell’uomo, il quale ha cercato di ricavare dal territorio che lo circonda i mezzi necessari
per il proprio sostentamento.
L’uomo ha bonificato le aree paludose, ha messo a coltura territori un tempo destinati solo al
pascolo e coperti da bosco, ha estratto dalla roccia calcarea materiale da costruzione, ha costruito
vie di comunicazione, ha svolto attività artigianali legate alla trasformazione dei prodotti offerti
dalla natura.
In quest’evoluzione del patrimonio toponomastico è dunque possibile cogliere l’evoluzione del
rapporto uomo-ambiente.
1
La città di Monte Sant’Angelo, in provincia di Foggia, è situata nel versante meridionale del Promontorio del Gargano, a 800m sul
livello del mare.
2
Il toponimo Carbonara deriva dall’attività di trasformazione della legna in carbone.
3
Il toponimo Scannamugliera è la traduzione dal gotico di «Schanderh Mulelerh» che significa «forte e grande a salire». Questo
termine conserva nel suo significato la traccia del pellegrinaggio medioevale verso il Santuario di S. Michele Arcangelo, che diventò
nell’alto medioevo il “Santuario nazionale dei longobardi”.
4
Il toponimo Parco è utilizzato per designare sia i prati-pascoli sia i fondivalle coltivati.
5
Il toponimo Murgia indica campi carsici caratterizzati da una serie di ampie doline, un tempo coltivate, oggi ricoperte da felci e
rovi (La Marca, 1993, p. 88).
- 147 -
2. La toponomastica di Monte S. Angelo nella produzione cartografica IGM dal 1869 al 1957
L’evoluzione del patrimonio toponomastico si può rilevare anche dal confronto tra le carte
topografiche risalenti a periodi storici diversi: in particolare è stata confrontata l’edizione del 1957
con quella del 1909, la quale a sua volta è stata confrontata con quella del 18696 .
Da questo confronto emergono: la scomparsa, nelle nuove carte, di alcuni toponimi presenti nelle
vecchie edizioni; l’introduzione, sulle nuove carte, di nuovi toponimi relativi alle località e alle dimore rurali; le alterazioni e le modifiche subite dai singoli toponimi nel momento della trascrizione sulle
nuove carte (cfr. Tab. II).
2.1. I toponimi scomparsi
Una prima osservazione riguarda la scomparsa sulle tavolette del 1957 dell’abbreviazione «R.ne»,
che vuol dire Regione, posta davanti ai toponimi designanti le contrade (cfr. fig. 1); così, se sulla carta
del 1909 troveremo scritto «Regione S. Maria», su quella del 1957 sarà scritto solo «S. Maria» (F 156
II SE).
L’uso del termine regione davanti ai toponimi designanti le contrade può essere spiegato considerando che probabilmente, all’inizio del secolo, questo termine era usato non solo per indicare vaste
aree amministrative, come si tende a fare oggi, ma anche aree più piccole, aree di campagna caratterizzate da un’omogeneità ambientale, aree che si qualificano per un’identità interna.
Inoltre si assiste alla scomparsa di toponimi come Regione delle Tre Fornaci (F 156 II NE) e
Fornace (F 156 II SE), che indicavano lo svolgimento di attività artigianali, nonché di toponimi riferiti
alla viabilità, come le Strettole d’Umbra (F 157 III N O) il quale è comunque ancora vivo nel ricordo
della popolazione.
La scomparsa di questi toponimi fa perdere così ogni traccia del lavoro praticato un tempo in quei
luoghi, diventando segno dell’abbandono di queste attività artigianali e del rapporto diretto che l’uomo stabiliva con il territorio e con la natura.
2.2. Introduzione di nuovi toponimi
Per quanto riguarda l’introduzione di nuovi toponimi si può notare una maggiore diffusione sulle
tavolette del 1957 di toponimi relativi alle dimore rurali, alle località, alle piscine, ai pozzi, ai cutini7 ,
alle cisterne, come ad esempio: Piana Canale, Masseria Parco di Croce (F 157 III SO), Piscina Nuova,
Iazzo lo Stretto8, Masseria delle Fronde, Sferracavallo (F 157 III NO), Cima della Costa, Parco S.
Michele, Coppa Pinciara, Masseria Carpino (F 156 II SE). Si trovano nuovi toponimi che indicano la
proprietà agricola: Pezza dell’Abate (F 165 IV NO), Chiusa dei Santi (F 164 I NE); le cave: Cava di
Pietra (F 157 III NO), Tufara Rossa (F 157 III SO); le vie di comunicazione (cfr. fig. 7/B): la Stretta (F
156 II SE); le attività artigianali: Coppa Pinciara9 , Casa Pinciara (F 156 II SE).
6
Le tavolette esaminate sono state: F 157 III SO Monte S. Angelo; F 157 III NO Foresta Umbra; F 156 II NE Monte Spigno; F 156
II SE S. Salvatore; F 156 II SO S. Giovanni Rotondo; F 165 IV NO Torre Varcaro; F 164 I NE Manfredonia.
7
I cutini, originati dal fenomeno carsico, sono delle depressioni naturali, dei pozzi circolari adibiti un tempo al prelievo dell’acqua
(Piemontese, 1996, p. 21).
8
Il termine Iazzo si riferisce ai ricoveri all’aperto per le greggi.
9
Il termine Pinciara deriva dall’attività di produzione delle tegole, localmente dette «pinci».
- 148 -
La stessa situazione si trova sulle carte del 1909 dove, rispetto a quelle del 1869, diventano più
numerosi i toponimi relativi sia alle località (cfr. fig. 6/A e 6/B), come le Strettole d’Umbra (F 157 III
NO), Regione Santa Maria (F 156 II SE), sia alle cisterne, ai pozzi, alle case rurali: Casa Mantuano,
Masseria delli Bergolis (F 156 II SE).
Tutto questo potrebbe essere visto come il segno dei cambiamenti avvenuti con il passare degli
anni in questi luoghi, il segno di un diverso rapporto che l’uomo instaura con il suo territorio per
procurarsi ciò che è necessario per il suo sostentamento, costruendo pozzi per fornirsi d’acqua e strade
per rendere più agevoli gli spostamenti.
2.3. Alterazioni e modifiche dei toponimi
Dal confronto tra la vecchia e la nuova edizione delle carte topografiche è emerso che alcuni toponimi,
nel momento della trascrizione sulle nuove carte, hanno subito delle alterazioni, delle modifiche consistenti nella perdita di qualche vocale o di qualche consonante, nella sostituzione della versione dialettale
con quella italiana. Così il toponimo Piano della Gudine, scritto sul F 156 II SE del 1869, diventerà su
quello del 1909 Piano dell’Incudine; il toponimo Spianata Giovanni, scritto sul F 157 III SO del 1909,
diventerà su quello del 1957 Chiancata Giovanni; la versione dialettale del toponimo Valle Laria (del
1909) sarà sostituito sulla tavoletta del 1957 dall’italiano Valle Larga.
3. La toponomastica nella memoria collettiva
Altro dato utile per la ricostruzione del patrimonio toponomastico è quello derivante dalle inchieste
sul terreno, dalle domande che ho rivolte alla gente del posto, a chi un tempo lavorava nei boschi e nei
campi (gli intervistati sono stati soprattutto gli anziani).
Da queste interviste ho cercato di cogliere la rispondenza tra i nomi di luogo conosciuti dagli
intervistati e quelli scritti sulle carte topografiche; inoltre ho verificato se alcuni toponimi presenti nel
Catasto onciario e nello Stato di sezione del Catasto francese, e che non compaiono sulle tavolette
IGM, sono invece ancora vivi nella memoria collettiva.
Ne è risultato che molti toponimi scritti sulle carte sono conosciuti dalla gente del posto e sono
quelli relativi ai fondi coltivati, alle aree destinate al pascolo, alle zone boscose, ai rilievi, ai versanti
dei rilievi, alle dimore rurali, come ad esempio i toponimi Valle Carbonara, Valle di Macchia,
Scannamugliera (F 157 III SO), Piano della Castagna, Coppa Pinciara (F 156 II SE), Cutino Falascone,
Tavolone, Umbricchio (F 157 III NO), Bosco Quarto, Purgatorio, Parco S. Michele (F 156 II NE).
3.1. La toponomastica perduta
Dalle inchieste sul terreno è emerso, inoltre, che esistono toponimi ben conosciuti dalla popolazione, ma che non compaiono sulle carte topografiche esaminate. Ho verificato, in particolare, l’esistenza
nell’uso quotidiano dei termini «Inversa, Mersa, Mandra, Fonno, Pagliaro», dei quali non si trova
nessuna traccia nella cartografia.
I toponimi «Inversa» e «Mersa» (Inversa di Spigno, Inversa di Croce, Inversa dei Cerri, Mersa
Cerasa, Mersa della Costa, Mersa di Cerrosaldo), sono utilizzati dalla popolazione locale per designare i versanti dei rilievi, così come i termini «puntone, costa, ripa», i quali, a differenza degli altri, sono
passati nella cartografazione.
Un altro termine, vivo nella memoria della popolazione, è «Mandra», esemplificato nel toponimo
- 149 -
composto «Mandra del fico», il quale indica un vasto recinto quadrato di pietre destinato al ricovero
del bestiame. Purtroppo, di esso non esiste nessuna traccia nella toponomastica ufficiale, dove invece
compare il termine «iazzo», usato dalla popolazione locale per indicare i ricoveri all’aperto per le
greggi.
Anche il termine locale «Fonno», da cui derivano i toponimi Fonni di S. Maria e Fonni di Termiti,
che indica il punto più basso del bosco, dove questo è più fitto e più folto, non compare nella cartografia,
ma è invece presente nella memoria collettiva.
Inoltre, nella toponomastica iscritta sulle carte topografiche non compare nessun toponimo derivante dal «pagliaro», una dimora rurale costruita con il materiale ottenuto dallo spietramento dei
campi. Sarà, invece, la presenza dei resti di alcuni pagliari in un determinato luogo, ad alimentare la
toponomastica della popolazione locale, da essi deriva il toponimo «Pagliari Diroccati», localmente
detti «Pagghiére Scuffuléte».
Questo dipende dal fatto che in passato, in un contesto socio-economico profondamente diverso da
quello attuale, la gente del posto era solita attraversare a piedi il territorio, per raggiungere gli
appezzamenti di terreno e i prati-pascoli. Per orientarsi lungo il percorso fissava punti di riferimento
che coincidevano con qualsiasi oggetto incontrato durante il cammino: un addiaccio, una piscina, una
determinata specie arborea, una determinata caratteristica del terreno. A questi punti di riferimento
veniva attribuito un nome che li identificasse, e sono questi nomi a non comparire nella toponomastica
ufficiale, pur restando ben vivi nel ricordo della popolazione.
Fra questi quelli che derivano dalla diffusione delle «grave»10 : Grava Marianna, Grava Coppa di
Stelle, Grava di Monte Cerasa (situate nella zona della Foresta Umbra F 157 III NO); quelli che
derivano dalla presenza di una specie arborea: Inversa dei Cerri (nei pressi del Bosco Quarto F 156 II
SE), Mersa Cerasa, Mersa di Cerrosaldo, Cerrosaldo (nelle vicinanze del Bosco Spigno F 156 II NE),
Piscina della Selce (nelle vicinanze del Monte degli Angeli F 156 II NE), Valle del Gelso (nelle vicinanze del Vallone di Pulsano F 164 I NE).
Altre località sono individuate dalla gente del posto dal nome o dal soprannome del proprietario di
una masseria o di un addiaccio, situati in un determinato punto e avremo: Cascialone (località nelle
vicinanze di Piano della Castagna), Strafilarj (nei pressi del Bosco Quarto), Papanardo (località nelle
vicinanze di Sitizzo F 156 II SE).
Anche la presenza di una «piscina» o di un «pozzo» ha alimentato la toponomastica non ufficiale e
avremo toponimi come «Pozzo Sparpagghje» (il quale deriva dal soprannome del proprietario ed è
situato nei pressi del Bosco Quarto), «Pozzo S. Domenico» (nella Foresta Umbra), «Piscina Monsignore» (verso Spigno).
Essa è alimentata dalle caratteristiche delle vie di comunicazione, così da un tratto di strada molto
stretto è derivato il toponimo «La Stretta» (nella zona della Foresta Umbra); dalla presenza nel Bosco
Quarto di più strade che s’incrociano, è derivato il toponimo «Le Quattro Strade»; dalla presenza nel
bosco di un ampio spazio, in cui i camion carichi di legna possono girare, è derivato il toponimo «Il
Girone» (nei pressi del Purgatorio F 156 II SE).
Lo svolgimento di un’attività artigianale, in un determinato luogo, ha favorito l’identificazione di
quel luogo dall’attività che lì si svolgeva. È il caso del toponimo «Falcarone» (nelle vicinanze del
Bosco Quarto), il quale deriva dall’attività di preparazione della calce che, nonostante oggi non sia più
praticata, è ricordata proprio attraverso il toponimo che identifica la zona. Inoltre, questo toponimo
può essere individuato con il toponimo Regione delle Tre Fornaci presente sulla carta topografica del
1909 (F 156 II NE), ma che scompare su quella del 1957, e che persiste come Falcarone nel ricordo
della popolazione.
10
Il termine Grava indica quei fenomeni di carsismo superficiale, rappresentati da profondi solchi di incisione della roccia, molto
diffusi nel territorio delle Murge (La Marca, Saracino, Zanuttini, 1993, p.118).
- 150 -
È questo un tema soffocato, che non emerge dalla lettura delle carte topografiche, ma che è fortemente presente nella memoria collettiva, la quale «attribuisce i nomi ai luoghi in base al modo in cui
percepisce lo spazio che lo circonda, in base al proprio modo di vivere e vedere l’ambiente» (Pellegrini, 1981, p. 19).
3.2. Memoria collettiva e Catasto onciario e francese
È giusto chiedersi, a questo punto, se i toponimi vivi nella memoria della popolazione, e che non
compaiono sulle carte topografiche esaminate, sono invece iscritti nel Catasto onciario e nello Stato di
sezione del Catasto francese.
La risposta è positiva nel caso dei termini «Immersa e Mandra», che non compaiono nella cartografia,
ma sono invece presenti rispettivamente nello Stato di sezione del Catasto francese con il toponimo
«Immersa Confini», e nel Catasto onciario con il toponimo «Coppa Mandra Caruso».
Inoltre, è possibile trovare nel Catasto onciario anche altri esempi di toponimi conosciuti dalla
popolazione, e che invece non sono registrati sulle tavolette. Eccone un campionario: «Cerosaldo»
(nei pressi del Bosco Spigno), «la Stretta» (nella zona della Foresta Umbra), «Galluccio» (a Monte S.
Angelo), «Fontanella» (a Carbonara), «Monte di San Liù» (nelle vicinanze di Pulsano), «Pozzo Cimino»
(a Carbonara), «Grotte di Pandolfo» (nelle vicinanze del Bosco Spigno), «Sant’Altissimo» (a
Carbonara).
La stessa situazione si ritrova anche nello Stato di sezione del Catasto francese, con i toponimi
«Sedia della Regina» (nei pressi del Bosco Spigno), «Palombara» (a Macchia), «Valle Mione» (a
Carbonara).
Conclusioni
Da questo lavoro di ricerca è emerso, dunque, come con il passar degli anni si sia verificato «l’oblio
di molti nomi» (Falcioni, 2000, p. 231). Un oblio causato dall’abbandono delle aree rurali, verificatosi
tra il 1960 e il 1970, in seguito alla ricerca di un lavoro più remunerativo e insieme di condizioni di
vita migliori da parte della popolazione, portando così alla scomparsa di quella generazione di persone
che un tempo era completamente dedita al lavoro dei campi e che viveva in contatto diretto con il suo
territorio e con la natura.
- 151 -
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641-652.
- 153 -
Tab. I - Incremento del patrimonio toponomastico dal 1753 al 1957.
TOPONIMI ISCRITTI NEL CATASTO ONCIARIO DEL 1753
180
TOPONIMI ISCRITTI NELLO STATO DI SEZIONE
DEL CATASTO FRANCESE DEL 1807
110
TOPONIMI ISCRITTI SULLE CARTE TOPOGRAFICHE DEL 1957
375
Tab. II - Evoluzione del patrimonio toponomastico nella cartografia IGM dal 1869 al 1957.
TRASFORMAZIONI
1869-1909
1909-1957
1869-1957
MODIFICATI
12
18
30
SCOMPARSI
10
10
20
INTRODOTTI
25
160
185
ELENCO DEI TOPONIMI PRESENTI NEL CATASTO ONCIARIO
DELLA CITTÀ DI MONTE SANT’ANGELO DEL 1753
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
20.
21.
22.
Matinata
Valle Grande
Contrada la Coppa
Carbonaro
Asciola
Santa Maria
Marciso
Scanni
Lami
Stampa D’Orlando
Cassano
Difensa
Fontanella
Cavola
Castagnito
S. Chirico
Chiusuri
Pozza Piccola
Lami d’Angeli
Angioli
Monte S. Lionardo
Guarantana
23.
24.
25.
26.
27.
28.
29.
30.
31.
32.
33.
34.
35.
36.
37.
38.
39.
40.
41.
42.
43.
44.
Macchia
Monte di S. Liù
Maddalena
Vota
Scannamogliera
S. Matteo
Valle di Macchia
Ciliebro
S. Simeone
Casiglia
Ogni Santo
Valle della Portella
Valle di Tana
Speziana
Valle di Menica
Caramanico
Nerbaggio (?)
Tanoni
Ruggiano
Piano della Montagna
Pennixalli
Agnuli
- 154 -
45.
46.
47.
48.
49.
50.
51.
52.
53.
54.
55.
56.
57.
58.
59.
60.
61.
62.
63.
64.
65.
66.
Spadella
Pozzo Cimino
Tufara Rossa
Montagna
Vignantica
Pulsano
Passinicchia
Fondi di Matinata
Marcone
Terricola (?)
Maroccara
Sitizzo
Petrulo
Colantonio
Terrane
Cecinella
Piantata di Matinata
Macchione
Stregara
Stretto di Cassano
Croce
Forchia deli asino
67.
68.
69.
70.
71.
72.
73.
74.
75.
76.
77.
78.
79.
80.
81.
82.
83.
84.
85.
86.
87.
88.
89.
90.
91.
92.
93.
94.
95.
96.
97.
98.
99.
100.
101.
102.
103.
104.
S. Vincenzo
Mannaro
Monte Acuto
Galluccio
Cappella
Pingera
Iumitino
Calariria (?)
S. Anastasio
Coppa Piana
Scapola
Via Nova
Piano del Canale
Tagliato
Monte Ronino
Griselle
Chianca
Pantano di S. Giovanni
Penninelci
Pettinecchia
Saldataro
Parrella
Valle S. Angelo
S. Lucia
La Porta
S. Maria
Grotte di Pandolfo
Coppa lotro
Pericolo
Pozza grande
Gravaglione nuovo
Torre del Purgatorio
Piantata
Liberatore
Valle di S. Antonio
Stinco
Amendola nuova
Montilci
105.
106.
107.
108.
109.
110.
111.
112.
113.
114.
115.
116.
117.
118.
119.
120.
121.
122.
123.
124.
125.
126.
127.
128.
129.
130.
131.
132.
133.
134.
135.
136.
137.
138.
139.
140.
141.
142.
Lamo di Milo
Monte della Guardia
Scioppa Cerri
Piano di S. Vito
Piano di Iunno
Piscina Giovanna
Valle della Fratta
Pontone di Pistoja
Sitizzo
S. Altissimo
S. Bernabea
Lairo
Sostro
Cisterna nova
Valle di S. Martino
Tenico
Grasso
Piedimonte
Assanello
Petrera
Via di Cruci
Corniello
Marzullo
S. Simeone
Pantano
Caramanico
Alvaro
Montagna
Vriccito
S. Vincenzo
Valle di Pulsano
Cortisciano (?)
Piano delle Castagne
Pannicelli
Carmigliano
Cellaro
Tenicoro
Cavolecchia
- 155 -
143.
144.
145.
146.
147.
148.
149.
150.
151.
152.
153.
154.
155.
156.
157.
158.
159.
160.
161.
162.
163.
164.
165.
166.
167.
168.
169.
170.
171.
172.
173.
174.
175.
176.
177.
178.
179.
Vallone di Varcaro
Piscina Nuova
Piscina di S. Martino
Pozzo di Vignanocita
Mergoli
S. Giovanni
Mattinatella
Borgensatico
Piscina d’avanti
Piscina del Prete
Coppa della Pilla
Vallone di Vignanocita
Le Tufare di S. Oronzio
La petrara
Neviera
Difensa d’Umbra
Lo Stretto
La Castellana
Ruggianiello
Madonna della Luce
Ciminera
Monticello
Fontana della Fica
Scazzamoriello
Campolato
Cerosaldo
Copparado
Lame di Corvo
Delli Gatti
La Tavernola
Pezzata
Parini
Strada Reale
Palombara
Coppa di Mandra Caruso
Mignozza
Noce di S. Angelo
ELENCO DEI TOPONIMI PRESENTI NELLO STATO DI SEZIONE
DEL CATASTO FRANCESE DI MONTE SANT’ANGELO DEL 1807
A) SEZIONE DI MATTINATA
B) SEZIONE DI UMBRIA
C) SEZIONE DI
CARBONARA
D) SEZIONE DI CASIGLIA
E) SEZIONE DI COZZOLETI
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
20.
21.
22.
23.
24.
25.
26.
27.
28.
29.
30.
31.
32.
Mattinatella
Scappone
Via croce
Posticchia
Noceta
Meroli
Monte
Montelce
Tor di lupo
Crimienti (?)
Stingo
Sperlonga
Pietropertuso
Copparotonda
Piano cercole
Lamo di milo
Nocentilo
Avanti
Crinella
Monte Ricola
Cutino del cerro
S. Giovannaro
Monte Sacro
Morge palano
Camarelle
Cesare Tonno (?)
Cugno muzzo
Alvara
Carbonara
Coppa la monaca
Paratina
Chiancata di Piloni
33.
34.
35.
36.
37.
38.
39.
40.
41.
42.
43.
44.
45.
46.
47.
48.
49.
50.
51.
52.
53.
54.
55.
56.
57.
58.
59.
60.
61.
62.
63.
64.
65.
66.
67.
68.
69.
70.
71.
Mezzana
Bucecchia
Piediscanno
Quarantana
Manescia
Celonignano
Carmignano
Palandra
Arcione
Mattinata
Arquito
Chicco
Lama di corvo
Scarano
Valle tana
Vota
Marcisi
Macchia Ravaglione
Macchia
Parchistati
Parchitiello
S. Martino
Pozzo cacato
Procitto
Grautto
S. Vito
Piano canale
Scioppacerro
Piscina di Giovanni
Valle delle rose
Le Croci
Umbra
Piscina nuova
Buongiovanni
Gregone delle spine
Valle Mione
Gragno
Piano S. Vito
Croci
- 156 -
72.
73.
74.
75.
76.
77.
78.
79.
80.
81.
82.
83.
84.
85.
86.
87.
88.
89.
90.
91.
92.
93.
94.
95.
96.
97.
98.
99.
100.
101.
102.
103.
104.
105.
106.
107.
108.
109.
110.
Immersa confini
Sitizzo
Puccinino
Mignozza
S. Altissimo
Cassano
Caulecchia
Sedia della regina
Piano dell’incudine
Stretto Cassano
Cassano
S. Simeone
Campo d’uligine
Largo Peruzzo
Fondo delle monache
Valle dell’irmige
L’amo damorca
Pozzo piccolo
S. Lionardo
Corniello
Pozzo piciolo
Castagneto
Morge della gatta
Casiglia
Petrulo
Ruggiano
Conca delle rage
Coppa la pila
Scannamugliera
Valle di Pulsano
Palumbara
Spadella
Turmiti (?)
S. Giuliano
S. Errico
Spacca chiazza
S. Lucia
Sportella
Stampa di Orlando
Riassunto
L’esame dei toponimi contenuti nel Catasto onciario del 1753, nello Stato di sezione del Catasto francese del 1807 e
nelle Carte topografiche IGM del 1869, del 1909 e del 1957, ha permesso la ricostruzione del quadro toponomastico del
territorio di Monte S. Angelo (provincia di Foggia) dalla metà del XVIII sec. ad oggi. Il risultato finale di questa indagine
è stato il rilevamento dell’incremento ed insieme della trasformazione ed evoluzione del patrimonio toponomastico, avvenuti nel corso degli anni. In questa evoluzione è possibile cogliere l’evoluzione del rapporto uomo-ambiente. Inoltre, le
interviste rivolte alla gente del posto hanno contribuito a questa ricostruzione, ma hanno evidenziato soprattutto l’oblio di
molti nomi, verificatosi nel corso degli anni, e la scomparsa dalle carte topografiche esaminate di alcuni toponimi, che
sono invece ancora vivi nella memoria collettiva.
Abstract
The exam of the place-names kept in the onciario Cadastre of 1753, in the State of section of the french Cadastre of
1807 and in the topographic Maps IGM of 1869, of 1909 and of 1957, has permitted the reconstruction of the toponymistic
picture of the territory of Monte Sant’Angelo (province of Foggia), since the half of the XVIII century until today. The
final result of this research has been the survey of the development together with the transformation and evolution of the
toponymistic estate, happened during the years. In this evolution, it is possible to find the evolution of the relationship
between man and environment. Besides, the interwiews addressed to the people livining in these places, have helped this
reconstruction, but they have shown, above all, the forgetfulness of many names realized during the years and the
disappearing, from the considered topographic maps, of some place-names, that are still living in the collective memory.
Résumé
L’examen des toponymes contenus dans le Cadastre onciario du 1753, dans l’Etat de section du Cadastre français du
1807 et dans les Cartes topografiques IGM du 1869, du 1909 et du 1957, a permis la reconstruction du tableau toponymique
du territoire de Monte Sant’Angelo (province de Foggia) depuis la moitié du XVIII siècle à nos jours. Le résultat final de
cette recherche a été le relevé de l’accroissement et au même temps de la transformation et évolution du patrimoine
toponymique, produits au cours des années. Dans cette évolution est possible relever l’évolution du rapport homme-milieu
naturel. En autre, les interviewes posées aux gens de l’endroit ont contribué à cette reconstruction, et a mis ainsi en
évidence sourtout l’oubli de nombreaux noms et la disparition dans les cartes topographiques examinées de quelque
toponyme qui est, au contraire, encore en vie dans la mémoire collective.
- 157 -
- 158 -
Giuseppe Rescigno
TOPONIMI E PAESAGGIO URBANO: I QUARTIERI DI LIGNAGGIO*
1. Quartieri di lignaggio: origini e cause della dispersione
In una recente ricerca, limitata ad un preciso contesto urbano, ho avuto modo di approfondire
alcuni aspetti legati ai quartieri di lignaggio, cioè all’organizzazione di vasti gruppi familiari comprendenti spesso parecchie decine di ménages riuniti in uno spazio ben definito, un quartiere all’interno del villaggio, una organizzazione che nella regione di Salerno aveva un nome preciso: la ‘Casa’,
nel senso della grande famiglia o appunto della grande casa (Rescigno, 1999). Si tratta di una situazione diffusa nel Medioevo in tutta la penisola e che evolve rapidamente nell’Italia del Nord e del Centro,
a differenza del Mezzogiorno dove permane anche in età moderna1 .
Tale tendenza ha legato il nome di numerose famiglie al territorio generando una serie di toponimi
alcuni dei quali ancora oggi ricorrenti nei documenti catastali, nei libri parrocchiali, nei protocolli
notarili, nelle rappresentazioni cartografiche, nella tradizione orale.
È su tale tipologia di toponimi che si fonda il presente saggio, che ha lo scopo di descriverne
l’evoluzione, ma anche di affrontarne aspetti connessi, come ad esempio quello di riscoprirli e ricollocarli
nel paesaggio odierno. Il tema portante del presente studio concerne dunque il legame tra nomi di
persone e nomi di luoghi all’interno di un territorio che, in via esemplificativa, si estende tra Salerno
e l’area a nord della sua provincia.
Il fenomeno sembra già abbastanza radicato tra l’età del ferro e l’età imperiale romana. Infatti da
una ricerca di Giovanni Flechia sui nomi locali del napoletano aventi origine da gentilizi italici si
rileva che dei 37 segnalati nel Principato Citra ben 15 ricadono nell’area a nord di Salerno2 . Nomi che,
affiancati a toponimi amministrativi tardo-antichi (Villa, Vignadonica, Ortodoneca, ecc.), attestano la
presenza nei territori considerati di popolazioni italiche e possessores romani, alcuni dei quali (i vari
Acilius, Alfius, Antistius ecc.) hanno finito per connotare numerosi centri urbani.
Tuttavia l’origine del fenomeno delle Case si fa risalire all’invasione dei Longobardi. Al tempo di
Arechi I fondarono a nord di Salerno numerosi villaggi. Secondo Gérard Delille la corrispondenza
Casa-Casale evoca inequivocabilmente il sistema del manso medievale in cui ogni famiglia occupa un
territorio ben determinato che fa suo. Lo stesso studioso ipotizza che nel salernitano all’origine del
fenomeno delle Case vi fosse l’insediamento di fare, cioè di vasti gruppi familiari di origine longobarda
che si sarebbero impadroniti di estese proprietà dando vita appunto al sistema delle Case.
* Ricerca elaborata nell’ambito del censimento dei quartieri di lignaggio del comune di Mercato S. Severino. A cura del Laboratorio
di Educazione Ambientale (LEA).
1
Tra i documenti più idonei per lo studio del fenomeno delle Case si segnalano gli Stati d’anime, libri parrocchiali che riportano
anno dopo anno l’elenco dei fuochi divisi per parrocchie in un periodo che va del Concilio tridentino, che li istituisce, ai primi anni
dell’Ottocento. Il rilevamento dei fuochi veniva svolto dai parroci casa dopo casa. Pertanto gli Stati d’anime rappresentano un prezioso
supporto per lo studio della ripartizione geografica delle famiglie nel territorio. Il fuoco, che non corrisponde automaticamente alla
famiglia coniugale (fuochi di celibi, fuochi di genitori e figli che vivono insieme), designa l’insieme delle persone che vivono sotto lo
stesso tetto. Per uno studio organico sul fenomeno dei quartieri di lignaggio cfr. Rescigno, 1996.
2
Acigliano da Acilianum, Acilius; Alfano da Alfianum, Alfius; Antessano da Antistianum, Antistius; Aterrana da Aterianum, Aterius;
Banzano da Bantianum, Bantius; Bracigliano da Braccilianum, Braccilius; Brignano da Brinnianum, Brinnius; Caliano da Calijano,
Calidianum, Calidius o Caledius; Capezzano da Capitianum, Capitius; Fisciano da Fisianum, Fisius; Gaiano da Gavianum, Gavius;
Misciano da Mescidianum, Mescidius; Pellezzano da Pellitianum, Pellitius o Pelitius; Siano da Seianum, Seius; Spiano da Spedianum,
Spedius (Flechia, 1874, pp. 15-50)
- 159 -
L’affermazione di tale sistema dipende da precise e circostanziate condizioni: raggruppamento di
più famiglie tra loro imparentate e discendenti dallo stesso capostipite, residenza di tipo patri-virilocale
(i figli maschi succedono al padre nella casa di famiglia, le donne vanno a risiedere nella casa dello
sposo), economia prevalentemente rurale, caratterizzata da una forte presenza della piccola proprietà
contadina. Dei centri urbani dove tali condizioni sono manifeste lo stesso Delille ha redatto una
mappa (che personalmente ho contribuito ad integrare) dalla quale risulta che il sistema delle Case è
concentrato nella valle dell’Irno con episodiche presenze nel napoletano e nel casertano3 .
Una delle peculiarità dei centri abitati caratterizzati dalla presenza dei quartieri di lignaggio è
appunto la loro suddivisione in complessi abitativi (Case), che nella topografia urbana rappresentano
delle entità ben precise per nome e localizzazione; siamo al cospetto cioè di veri e propri toponimi.
Il numero dei quartieri di lignaggio di un determinato centro urbano dipende generalmente dalla
sua estensione. Nei più piccoli può essere addirittura una sola famiglia ad occupare un determinato
sito; in questi casi il nome del capo famiglia corrisponde a quello dell’abitato. Per esempio Capezzano
nella valle dell’Irno, ancora nel Catasto onciario e in numerosi protocolli notarili è noto anche col
nome di casale di Casa Galdo4 . La Casa, dunque, si confonde col Casale, una situazione che si ripresenta nello stessa zona, con i vari casal Napoli, casal Siniscalco, casal Barone, casal Mari lungo la
cosiddetta strada dei Casali, che da Baronissi conduce nei pressi del ponte di Fratte. Nel 1780 Casal
Napoli si chiama ancora Casa Napoli, come emerge da un processo concernente il diritto di patronato
sulla Capella di Sant’Antonio ivi situata. Dagli atti risulta che la Casa è abitata da 16 capi di famiglia
che portano il cognome Napoli.
L’evoluzione toponimica delle Case in Casali è semplice: «scomparse le antiche famiglie di origine
estinte o sostituite da altre, il carattere familiare delle Case è andato perduto e la tendenza contemporanea è piuttosto quella di sostituire il termine Casa con la denominazione più generale e globale di
Casale» (Delille, 1988, p. 91).
Ma non sempre è necessaria la presenza del termine ‘Casa’ affiancato al nome per identificare un
quartiere di lignaggio. Spesso è solo il personale a caratterizzare determinati siti. È il caso, per esempio, di Carratù, una frazione del comune di Mercato S. Severino, di Fimiani e Lanzara, casali dello
«stato» di S. Severino fino al 1° maggio 1816, oggi frazioni di Castel S. Giorgio5 , di Bottiglieri e
Rufoli, frazioni di Salerno, ecc. In altri casi il quartiere di lignaggio indica «tutti» i componenti della
famiglia come, per esempio, li Nicodemi a Penta, frazione di Fisciano6 , li Mogaveri7 e li Parisi a
Giovi8 , li Granati e li Quaranti ad Ogliara9 , alli Cimminoli e alli Mutarielli a Pastena, tutte frazioni di
Salerno,10 ecc.
La distribuzione delle famiglie nei centri urbani, oltre che per «domibus», si articola anche per
«cortigli»11 , «platee»12 , «familie»13 , «loci»14 e forme miste. Nei centri rurali, si presenta, invece, per
«horti», «ruris», «pomarii», «villae», «fundi», e simili.
3
La diffusione della piccola proprietà contadina consente al capofamiglia di monetizzare la dote degli eredi di sesso femminile, e far
sì che la proprietà immobiliare vada interamente ai figli maschi. Infatti tra XVI e XVII secolo non vi è un lignaggio che non abbia il suo
Monte di Famiglia, cioè una rendita costituita sui beni fondiari e immobiliari che serviva a pagare le doti delle ragazze che facevano
parte del lignaggio (Delille, 1988, pp. 83-124).
4
Archivio di Stato di Salerno (in seguito ASS), Catasto onciario di Salerno, b. 3695, f. 108.
5
Carratù nel 1592 contava 12 famiglie su 17; Fimiani, ancora nel 1762, 11 su 49; Lanzara nello stesso anno 14 su 68 (Rescigno,
1996, pp. 24, 35).
6
Archivio Diocesano di Salerno (in seguito ADS), Stati d’anime, 1646, V101
7
Ibid., 1690, V92.
8
Ibid., 1671, Y62.
9
Ibid., 1660, V11.
10
Ibid., 1663, U 109.
11
Ibid., Lancusi, 1644, Z93.
12
Ibid., S. Mango, 1687, V93.
13
Ibid., Pandola, 1753, Z57.
14
Ibid., Pastena, 1745, V95.
- 160 -
La ricerca dei siti divisi per quartieri di lignaggio ha riguardato in genere modesti casali, in rari casi
grossi abitati, ma mai una città. Pertanto abbiamo voluto verificare se il fenomeno delle Case fosse
presente in una estesa realtà urbana come Salerno.
Dall’esame degli Stati d’anime delle parrocchie in cui è divisa la città, tra Sei e Settecento, le
famiglie risultano in massima parte registrate per Case, ma la loro organizzazione territoriale non
corrisponde alla logica dei quartieri di lignaggio, benché sembra certo che il modello fosse attivo nei
secoli precedenti. In età moderna non si riscontra nelle Case quella concentrazione di più famiglie tra
loro imparentate e discendenti da un comune capostipite, che è uno dei fattori alla base del fenomeno.
Alla disgregazione dei quartieri originari ha contribuito quasi certamente una crescita demografica
ininterrotta della città (specialmente durante il Cinquecento) accentuata soprattutto dalla sua forza di
attrazione rispetto ad un ampio circondario. Tale spinta, esercitata su unità abitative costrette nei limiti
angusti della città medievale, ha prodotto nel tempo una costante dispersione dei lignaggi originari
impedendone appunto la crescita secondo il modello prefigurato da Delille.
Dagli Stati d’anime delle parrocchie di Salerno è possibile cogliere numerosi esempi di disgregazione del sistema delle Case e il conseguente fenomeno del rapido ricambio dei nomi dei titolari. Per
tutti si cita il caso dei Cicari, una antica famiglia che occupa un vasto isolato del territorio della
parrocchia di S. Lucia de Giudaica. Nel 1641 la famiglia si è già estinta; lo Stato d’anime ne riporta il
nome solo in quanto «luogo detto». Alli Cicari sono subentrate le Case Alfano, Giaquinto, Pastore,
Scattaretica, Robertello, Pinto, Sacco, Cascetta, Colesca, Campanile, Tesoriero, Cecere e Zico15 , destinate, in massima parte, a resistere pochi anni per essere poi a loro volta surrogate da nuove in un
processo di espansione demografica che subisce una accelerazione esponenziale a partire dagli ultimi
decenni del XVII secolo.
Dunque a Salerno nel Seicento la distribuzione delle famiglie secondo il modello dei quartieri di
lignaggio è una tendenza esaurita. Tuttavia l’ipotesi che in epoche precedenti il fenomeno fosse in atto
trova conferma nella diffusione nei documenti di età moderna di toponimi del tipo: «Vico volgarmente
detto casa Pepe», «Strada detta casa Avossa», «Strada anticamente detta casa Scapica», «Vico di casa
Cecere», «Vicolo detto di casa Rosa»16 , ecc. D’altronde tre degli undici quartieri in cui viene divisa la
città il 29 febbraio 1296 portano i nomi delle famiglie Mazza, Scillato e de Ruggiero (Natella, 1982, p.
113).
Quanto detto per Salerno vale anche per realtà urbane di modeste entità; solo che il processo di
disgregazione del sistema delle Case è più lento e legato a più di un fattore. Quando il numero delle
famiglie di una stessa Casa raggiunge nello stabile occupato il livello di saturazione nasce l’esigenza
per alcuni rappresentanti di trasferirsi altrove, dove fondare una nuova Casa. A Salerno tra Sei e
Settecento sono frequenti i casi di famiglie casate dello stesso ceppo registrate in più parrocchie; come
non mancano titolari di Case tra i cosiddetti «forestieri abitanti», che hanno esportato in città in una
nuova Casa il lignaggio di provenienza.
Il processo di disgregazione delle Case si può leggere negli stessi Stati d’anime seguendo nel tempo i movimenti dei componenti di sesso maschile delle famiglie casate. Processo che è più accentuato
nelle famiglie patrizie, dove nel sistema di successione vigono il fedecommesso e il maggiorasco, a
differenza di quelle borghesi, nelle quali il patrimonio immobiliare viene suddiviso tra tutti i figli
maschi.
La possibilità che per effetto della saturazione di una Casa se ne rifondino altre con lo stesso nome
si verifica anche nei piccoli centri, dove sono stati notati numerosi casi di omonimia. Nel Seicento a
Spiano, frazione di Mercato S. Severino, la forte espansione dei Romano favorisce la formazione di
15
Ivi., V3.
Si rimanda, rispettivamente e in successione, a: ASS, Protocolli notarili, b. 5224, a. 1758, f. 69; ivi, Catasto onciario di Salerno,
b. 3966, f. 802; ivi, Protocolli notarili, b. 5220, a. 1750, f. 59; ivi, a. 1756, f. 416; ivi, Catasto onciario di Salerno, b. 3966, f. 700.
16
- 161 -
altre Case omonime, che per distinguersi dalla Casa madre vengono chiamate Casa Romano di
Simonetto, Casa Romano di Prisco, Casa Romano allo Campanale e Casa Romano di Mimmo (ancora
oggi Rampa Mimmo, uno dei vicoli del casale, indica la residenza della famiglia) (Rescigno, 1996, p.
55).
Quanto alle cause della disgregazione dei quartieri di lignaggio, abbiamo già visto che a Salerno,
agli inizi del Seicento, il sistema è fortemente compromesso a causa della crescita demografica, ma
altri possono essere i motivi della dispersione.
In una indagine sul quartiere Mercato dello «stato» di S. Severino, tendente a misurare la variazione percentuale della consistenza dei principali lignaggi tra Sei e Settecento, relativamente ai 27 casali
esaminati, è emersa una situazione fortemente variegata: a casali con percentuali significative di
persistenza di famiglie casate alla fine del Settecento (Torello 83%, Spiano 80%, Acquarola 64%)
contrastano altri con percentuali nulle o risibili (Mercato e S. Vincenzo 0%, S. Eustachio 3%, Piro
5%). Tra le cause all’origine della dispersione sono state individuate la distanza dei casali dalle principali vie di traffico, la loro localizzazione tra pianura e collina, il tipo di economia prevalente, la
presenza di determinati fattori pertubanti. Tali cause, a volte anche concomitanti, hanno consentito di
stabilire nella realtà esaminata che la dispersione dei quartieri di lignaggio è più accentuata nei casali
in prossimità delle principali vie di comunicazione, in quelli ubicati in piano, in quelli in cui prevale il
commercio sull’agricoltura e l’artigianato, in quelli in prossimità di aree paludose17 .
Si è detto sinora che il sistema dei quartieri di lignaggio si esaurisce del tutto tra la fine del Settecento e gli inizi del secolo successivo; resta da stabilire che cosa rimane oggi di quel fenomeno. Come
abbiamo già visto, numerosi riferimenti si trovano nei nomi di agglomerati urbani (tra le frazioni di
Salerno si ricordano: Casa Concilio, Casa Gallo, Casa Manzo, Casa Polla, Casa Roma, Casa Vicinanza, Casa Volpe, Casa di Giacomo, Casa Martino, Casa Ripa, Altimari, Bottiglieri, Moscani, Pastorano,
Picariello, Sabatini e Rufoli)18 , mentre molti altri sono confluiti nell’odonomastica cittadina19 , senza
dimenticare i numerosissimi in uso nella tradizione orale.
Fin qui ci siamo occupati dei luoghi connotati dal nome degli uomini, tralasciando quelli dei luoghi
dai quali gli uomini hanno derivato il loro nome: argomento non secondario, che esula dalla presente
ricerca.
2. Quartieri di lignaggio e assetto urbano
La presenza o meno del sistema delle Case in un determinato contesto urbano può per certi aspetti
verificarsi dall’esame degli Stati d’anime. La loro compilazione veniva effettuata dal parroco mediante la registrazione ‘casa dopo casa’ (ostiatim) di tutte le famiglie appartenenti alla sua parrocchia.
Pertanto la presenza di una successione di famiglie con lo stesso cognome spesso identifica un quartiere di lignaggio. Tale situazione si riscontra in tutti gli Stati d’anime dei casali della valle dell’Irno.
17
Per un approfondimento dei fattori dell’evoluzione dei quartieri di lignaggio cfr. Rescigno, 1996.
ISTAT, IX Censimento generale della popolazione, 1951. Dati sommari per comune - Provincia di Salerno, Roma 1956, p. 27.
19
Famiglie casate di Mercato S. Severino assorbite nell’odonomastica del comune: discesa Campanile, rampa Mascio, rampa
Mimmo, rampa Risullo, vico Somma, vico Casa Cotini, via Casa Iannone, vico Casa Salvati (a Spiano), vico casa Crescenzo vico
Catalano, vico Frallicciardi (a Carifi), via Casa de Luca, rampa de Crescenzo, vico Tricinella (a Ciorani), via Casa Giordano, via Casa
Greco, vico Casa Coppola (a S. Angelo), vicinale Casavetere, vico Citro, vico Coppola (a Oscato), via Casa Leone, via Carratù, vico
Cerusi (a Curteri), sopportico Correale (a S. Felice), corte Ferraioli, vico Ferrara (a Piazza del Galdo), corte Pisani, corte Pergamo (a
Costa), vico d’Apice, largo Moscatello, rampa Terrone (ad Acquarola), salita Fiorillo (ad Acigliano), vicolo Giordano, vico Grimaldi,
vico Montefusco (a Torello), vicolo Mari, vicinale dell’Abbadessa, vicinale Casascio, corte delli Carraturi, vicinale Marotti, via Molino
Pagano, vicinale Prignano (strade extraurbane), sopportico Napoli, rampa Oricchio (a Mercato), via Priscoli (a Priscoli), rampa Zampoli
(a S. Vincenzo) (Rescigno, 1999).
18
- 162 -
E la continuità delle serie è tanto più omogenea quanto più remoto è l’anno della rilevazione. Infatti le
interruzioni delle serie, dovute all’inserimento di famiglie di altro lignaggio, aumentano negli Stati
d’anime più recenti.
A titolo di esempio si riportano le sequenze degli occupanti di Casa Galdo così come trascritte negli
Stati d’anime della parrocchia di S. Nicola di Coperchia, un casale laniero della foria di Salerno, degli
anni 1592, 1645, 1700, 1753.
1592 –
1645 –
1700 –
1753 –
1
2
3
4
5
6
7
8
9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
G
E
G
G
G
E
G
G
G
E
G G G G G G G G G G G G G G G G G G G G G G G G G
G G G E
G G G G E E E
E
G – Residenza patri-virilocale (capo famiglia Galdo)
G – Residenza uxorilocale (le donne ereditano e accolgono il marito di lignaggio diverso nella propria casa)
E – Lignaggio di altra famiglia che occupa una residenza di Casa Galdo.
Dallo schema sopra riportato emerge che nel 1592 Casa Galdo si compone di ben trentotto famiglie
di cui ventotto con capo famiglia Galdo (G) e dieci (G) con capo famiglia di altro lignaggio, ma con
consorte di cognome Galdo (residenza uxorilocale). Gli abitanti del casale sono novecentonovantuno.
Nel 1645 il numero delle famiglie occupanti la Casa è diminuito a diciassette, di cui sedici Galdo e
un lignaggio estraneo (E). Gli abitanti sono settecentoventinove. Nel 1700 il numero delle famiglie
occupanti la Casa è salito a venti, di cui sedici Galdo, una residenza uxorilocale e tre estranee. Gli
abitanti sono ottocentodiciannove. Nel 1753 il numero delle famiglie occupanti la Casa è diminuito a
quattordici, di cui nove Galdo, una residenza uxorilocale e tre estranee. Gli abitanti sono
novecentottantacinque.
La dispersione dei Galdo è comprovata anche dal loro inserimento in altre famiglie casate del
casale. Infatti, nel 1645 sei sono trasmigrati in Casa Sessa, tre in Casa Sessa juniore e cinque abitano
nel luogo detto piazza di S. Nicola. Nel 1753 il numero delle famiglie Galdo è salito a quarantotto, di
cui quaranta distribuite in altre Case o nei luoghi detti piazza di S. Nicola, le Pezze, la Calata e li
Mazzi20 .
L’esame della distribuzione dei nuclei di Casa Galdo è stato possibile perché sono stati prescelti
Stati d’anime in cui la suddivisione delle famiglie è esplicitata per Case, circostanza in genere poco
frequente. Infatti spesso i parroci si limitavano a registrare le famiglie così come le incrociavano sul
loro percorso senza alcun riferimento alle Case di appartenenza.
Tuttavia le sequenze dei nuclei casati degli Stati d’anime possono comunque identificarsi col concorso di altre fonti. In questa parte, oltre all’identificazione delle famiglie casate, ci siamo proposti di
localizzarne le residenze nell’impianto urbano, un recupero di toponimi la cui distribuzione è di fondamentale interesse nella formazione dei nuclei abitati.
A titolo esemplificativo, si fornisce il criterio seguito per la localizzazione delle Case di S. Angelo,
un casale dell’antico «stato» di S. Severino, oggi tra i più compromessi sotto il profilo urbano a causa
del forte incremento demografico degli ultimi decenni. I nomi delle Case di S. Angelo sono stati
desunti dal Catasto onciario, da alcun protocolli notarili e da altre fonti.
Dal Catasto onciario (pubblicato nel 1754) sono state rilevate: Casa Coppola, Casa d’Amato, Casa
Graziano, Casa de Vivo, Casa Giordano, Casa Greco, Casa Montefusco, Casa Fusco, Casa Napoli e
Casa Sclavo. Da altre fonti sono risultate anche Casa Moscatiello, Casa Forte, Casa Zampognaro,
Casa Tufano e Casa Fasano, riferite ad epoche precedenti alla pubblicazione del Catasto carolino.
20
ADS, Stati d’anime, V86.
- 163 -
Sempre dall’Onciario è stato possibile stabilire che buona parte dei nuclei censiti (67%) non occupa le Case corrispondenti al loro nome. Per esempio, a Casa Coppola risiedono titolari di altro lignaggio, mentre l’unica famiglia Coppola abita a Casa Sclavo, che non conta esponenti nel casale. Ancora,
solo alcuni rappresentanti delle famiglie d’Amato, Graziano, Greco e Giordano abitano nelle Case a
loro intitolate.
Per conoscere l’ordine di distribuzione delle Case nel casale sono stati messi a confronto i dati
dell’Onciario e quelli dello Stato d’anime dello stesso anno della sua pubblicazione (1754). L’operazione è consistita nel trascrivere in successione le famiglie dello Stato d’anime e di appuntare in loro
corrispondenza il nome della Casa occupata rilevandola questa volta dalle dichiarazioni dell’Onciario
esibite dalle stesse famiglie. Le sequenza emersa è la seguente: Casa Napoli, Casa Coppola, Casa de
Vivo, Casa Fusco, Casa Sclavo, Casa Graziano, Casa Montefusco, Casa d’Amato, Casa Greco e Casa
Giordano, che corrisponde ai punti di sosta del parroco responsabile della compilazione dello Stato
d’anime. Più o meno la stessa sequenza si riscontra negli Stati d’anime degli anni precedenti.
A titolo esemplificativo si propongono le sequenze delle famiglie casate degli anni 1592, 1647 e
1688. Nello schema, i numeri trascritti sotto i nomi dei lignaggi, ne indicano il posto occupato nello
Stato d’anime (nel 1592 i Fusco occupano i posti da 1 a 17), la seconda serie di numeri (sotto quelli
che definiscono la posizione) rappresenta la frequenza, cioè il numero di nuclei dello stesso lignaggio
(nel 1592 i nuclei Fusco sono 16; la sequenza è interrotta da un nucleo di altra famiglia).
Anno 1592
Fusco
(1-17)
16
Coppola
(18-21)
4
Sclavo
(22-26)
2
Anno 1647
Fusco
(1-15)
12
de Vivo
(16)
1
Sclavo
(19-21)
2
Coppola
(22)
1
Anno 1688
Fusco
(1-10)
6
de Vivo
(11-12)
2
Sclavo
(19-20)
2
Coppola
(27)
1
Graziano
(28-29)
2
Anno 1754
Napoli
(2)
1
Coppola
(4 -7)
-
de Vivo
(8)
-
Fusco
(11)
1
Sclavo
(18-20)
-
Moscatiello Montefuscolo
(38)
(42-44)
1
2
Amato
(48)
1
Montefusco d’Amato
(35-45)
(48-51)
10
3
Forte
(34-35)
2
Greco
(49-55)
7
Greco
(52-57)
6
Zampognaro Giordano
(56-58)
(59-71)
2
6
Giordano
(58-68)
11
Graziano
(69-71)
3
d’Amato Montefuscolo Greco
(36-37)
(38-41)
(42-52)
2
4
7
Graziano Montefusco d’Amato
(29-33)
(33-40)
(45-49)
3
8
2
Graziano
(73)
1
Greco
(53-67)
4
Giordano
(53-64)
8
Giordano
(69-83)
9
Delle 4 sequenze si segnala la forte dispersione dei nuclei casati nell’anno 1754 (la posizione delle
famiglie occupanti le varie Case è stata possibile solo grazie al confronto dei dati dell’Onciario con
quelli dello Stato d’anime).
Una volta fissata la sequenza delle Case si presenta il problema della loro identificazione nel casale;
una operazione non semplice, considerate le trasformazioni urbane intervenute dal 1754 ad oggi. Pertanto, in questi casi, un valido supporto rivestono eventuali mappe storiche, documentazioni di archivio e indagini sul campo. In tal senso, per il regno di Napoli, di grande utilità è l’Atlante geografico del
regno di Napoli del geografo padovano Rizzi Zannoni. Esso è costituito da una serie di tavole che
riproducono sezioni del territorio del regno in un periodo compreso tra la fine del Settecento e gli inizi
dell’Ottocento. La loro peculiarità scaturisce dal fatto che per la prima volta i vari agglomerati urbani
sono rappresentati in forma planimetrica. Nella figura 8 è riprodotta la pianta del casale di S. Angelo
dell’anno 1794. Ad essa è stata affiancata una pianta più recente del casale desunta dal rilevamento
geodetico del 1938 a completamento della documentazione del catasto particellare (figura 9).
Dal loro confronto emerge che, nonostante la differenza di circa 150 anni, l’impianto urbano è
- 164 -
sostanzialmente identico, benché meglio definito nella mappa catastale, dalla quale è possibile individuare una serie di palazzi a schiera lungo i lati della strada delle Cammarelle21 .
La pianta del 1938, nelle indicazioni odonomastiche, ci fornisce anche preziose informazioni per
localizzare alcune Case, e cioè i nomi di alcune strade interne: via Casa Giordano, via Casa Greco e
vico Casa Coppola. Casa Giordano e Casa Coppola possono addirittura essere paragonate a due casali
nel casale, tanto è vero che nello Stato d’anime del 1798 le famiglie sono distribuite tra Casa Giordano,
Casa Greco, S. Angiolo, li Carratù, Marcella e la Massaria Greco.
Casa Giordano e Casa Greco, ancora nella pianta del 1938 si possono identificare nella loro consistenza per essere singolarmente isolate rispetto al nucleo principale del casale. Casa Giordano è nota
anche col nome li Lambranti, riferibile probabilmente ad altro lignaggio più antico del quale non si
sono trovati riscontri.
Il fenomeno del mutamento di nome dei quartieri di lignaggio in età moderna è frequente sin dal
Cinquecento, ed è legato a numerosi fattori, prima fra tutti l’incremento demografico. A tal proposito
non si esclude che i nomi di alcune Case, desunti da fonti diverse dall’Onciario (Casa Moscatiello,
Casa Forte, Casa Zampognaro, Casa Tufano e Casa Fasano), siano stati soppiantati da nuovi di formazione più recente.
Oltre all’odonomastica, alcuni riferimenti alle Case possono ricavarsi anche da ispezioni sul campo. Per esempio, Casa de Vivo è stata individuata grazie ad una iscrizione riportata sul fronte di un
portale: «Ioachim de Vivo construendum fecit. A. D. 1777». Che si tratti della stessa Casa documentata nell’Onciario nel 1754 se ne ha conferma da un atto notarile del 1757 in cui sono costituiti il
magnifico Tommaso de Vivo e D. Antonio Romano, Cassiere e Governatore della Confraternita del
SS. Rosario. Nell’atto, Tommaso de Vivo dichiara «di possedere una pianta di orto murata accosto alla
strada, e propriamente quella dalla parte del campanile di detta Confraternita, sita e posta nel luogo
detto Casa de Vivo»22 . Il campanile, riferito nell’atto, è quello odierno annesso alla chiesa del SS.
Rosario.
A questo punto è già possibile fare un primo bilancio sulla localizzazione di alcune Case proprio
ripercorrendo il tragitto del parroco responsabile della compilazione dello Stato d’anime. Il rilevante
parte dalla casa parrocchiale, ancora oggi adiacente alla chiesa di S. Michele Arcangelo, e, secondo la
sequenza delle Case desunta dal confronto tra Stato d’anime ed Onciario, fa tappa a Casa Napoli. Si
tratta di una famiglia presente nel casale a partire dai primi decenni del Seicento. Nello Stato d’anime
del 1647 conta due presenze (di cui una uxorilocale) subito dopo quelle dei Fusco, baroni di Acquarola
con residenza a S. Angelo. Nello Stato d’anime del 1754 l’unico Napoli di S. Angelo è D. Francesco,
parroco della locale parrocchia. Dunque Casa Napoli, della quale non si hanno altre notizie, potrebbe
corrispondere proprio alla casa parrocchiale.
Casa Coppola, caratterizzata dal vico omonimo, tappa successiva della ricordata sequenza, è adiacente alla casa parrocchiale, mentre Casa de Vivo, terza tappa dell’itinerario, è sul lato opposto della
strada (via Torrente), di fronte a Casa Coppola. Ora, se si considera che Casa Greco e Casa Giordano,
localizzate sulla base delle strade omonime, chiudono la sequenza dell’itinerario, si ha la conferma
che il parroco procede appunto secondo la logica del ‘casa dopo casa’ (ostiatim). Tuttavia resta da
individuare la posizione delle Case intermedie a quelle già localizzate, delle quali siamo certi solo
dell’ordine di successione.
21
La strada subisce profonde modificazioni nei primi decenni dell’Ottocento. Infatti, dalla pianta di Rizzi Zannoni, che riproduce
l’antico percorso, si rileva che l’accesso lato Curteri nel casale è da nord, mentre in quella del 1938 è da est.
22
ASS, Protocolli notarili, b. 6104, f. 1.
- 165 -
Secondo il nostro itinerario, a Casa de Vivo segue Casa Fusco. Come si è visto, tale lignaggio, a
partire dal 1592, occupa sempre le prime posizioni negli Stati d’anime. Tale situazione riproduce un
vezzo dei parroci compilanti che, per deferenza, usavano assegnare negli elenchi di famiglie il primo
posto a quella più eminente del casale. Infatti i Fusco di S. Angelo rappresentano una famiglia patrizia
di Ravello, titolare della baronia di Acquarola. Nel 1737 il feudo viene venduto ai Mari forse a causa
del tracollo finanziario della casata, che in seguito conserva a S. Angelo ancora alcune proprietà23 .
Per stabilire in modo corretto la posizione di Casa Fusco nel casale ci aiutano due protocolli notarili.
Il primo, del 26 gennaio 1788, è un atto di vendita di una casa palazziata. L’acquirente è Benedetto
Esposito, il venditore è D. Diego Fusco. La casa confina a levante con un’altra abitazione di D. Diego
e a ponente con beni di Matteo Sclavo24 . Il secondo documento, del 6 ottobre 1784, è un capitolo
matrimoniale che ha per contraenti Matteo Perozziello, che interviene per la sorella Teresa, e Gaetano
Sclavo25 . Quest’ultimo dichiara di possedere «un pezzo d’orto a Casa Sclavo» confinante a levante
con beni di D. Francesco Fusco e a ponente con la casa palazziata del dott. D. Nicola Greco. La
sequenza Fusco-Greco è confermata dallo Stato d’anime del 1754. Ma occorre precisare che la casa
palazziata di D. Nicola Greco, menzionata anche nell’Onciario, risulta edificata nel cuore del casale
(dove tuttora esiste), distante dal nucleo originario di Casa Greco. Nel Settecento, i Greco, come i
Giordano, ritenendo più eminente sotto il profilo residenziale il corso del paese vi si trasferiscono
costruendo nuovi edifici o riattandone altri acquistati da terzi26 . Dunque Casa Fusco corrisponde con
buona approssimazione allo stabile oggi noto come palazzo Santangelo e al complesso successivo
verso ponente27 .
Gli Sclavo, come abbiamo visto, posseggono beni tra Casa Fusco e il palazzo di D. Nicola Greco.
Nella fattispecie si tratta di terreni poiché, come si può osservare dalla pianta del 1794, e più precisamente da quella del 1938, tra i due edifici mancano altre costruzioni. I terreni in questione risultano
ubicati nel luogo detto Casa Sclavo, il che vuol dire che col termine ‘Casa’ non necessariamente ci si
riferiva ad un complesso residenziale, ma spesso anche ad orti, giardini ed altre pertinenze della casa.
Infatti l’abitazione degli Sclavo è proprio nei pressi dei beni citati nei capitoli matrimoniali PerozielloSclavo, e precisamente sul versante opposto della Strada delle Cammarelle e a ponente di Casa de
Vivo. La posizione di Casa Sclavo risulta definita da un ulteriore atto notarile del 2 gennaio 1746 che
ne precisa i confinanti, che sono i medesimi indicati nella sequenza delle famiglie dello Stato d’anime
del 175428 .
Di Casa Graziano conosciamo la posizione da una dichiarazione di D. Francesco Graziano, che in
un pubblico atto dell’11 gennaio 1754 asserisce di possedere col fratello Marco «una camera costruita
sopra la cantina con casello e un’altra camera sopra detto casello, coverta a tetti, con entrata dal
portone della pubblica piazza […] nel luogo nominato Casa Graziano, giusta li beni di Donato Grazia-
23
Dal Catasto onciario dello «stato» di S. Severino risulta che D. Francesco Fusto, «vivente civilmente», ha impalmato D.na Anna
Cacciatore, rappresentante della nuova nobiltà locale. I due vivono in una casa palazziata di loro proprietà e dichiarano proprietà terriere
per una rendita di once 393.10 (Archivio storico del comune di Mercato S. Severino, Catasto onciario, f. 336).
24
ASS, Protocolli notarili, b. 6150, f. 8.
25
Ibid., b. 6149, f. 77.
26
Dall’Onciario dello «stato» di S. Severino (f. 338) risulta che il magnifico Gio. Camillo Giordano, «vivente del proprio», abita in
una casa palazziata nella piazza del casale a confine con la chiesa di S. Giovanni ed è proprietario di un’altra casa palazziata (ex Casa
Moscatiello) a confine con quella in cui risiede. I due palazzi sono ancora oggi identificabili all’angolo via Carmine Amato-vicolo
Fiume.
27
A. Sorrentino ipotizza che il palazzo dei Fusco fosse quello nei pressi di via Palazzo, circostanza più che probabile poiché la
famiglia nel 1592 risulta estesissima (17 nuclei) e difficile da allocare in un singolo stabile. Sorrentino, inoltre, segnala un ulteriore
palazzo Fusco a Casa Giordano (O. Caputo-A. Sorrentino, 1998, p. 89n.)
28
Nella relazione relativa alla stima di «una casa sottana per uso di stalla con casello dentro […] cortile ad uso d’orto», gravata da
servitù «per andare e ritornare al fiume», ubicata a Casa Sclavo, i confini sono: ad oriente beni di Carmine Siglioccolo, ad occidente beni
di Anastasia Silvestri, a settentrione e a mezzogiorno beni di Aniello Imperio (ASS, Protocolli notarili, b. 5944, f. 25).
- 166 -
no, Tommaso Basile e D. Nicola Greco»29 . Stando all’atto, Casa Graziano è posizionata ad oriente del
palazzo di D. Nicola Greco e ricadente nei pressi della chiesa di S. Giovanni. La circostanza è confermata dal parroco D. Carlo Siniscalco che, nel 1692, distribuiva le famiglie del casale tra i siti: «in capo
S. Angelo», «nella parte di menzo, dove si dice la Piazza e proprio avanti la Cappella dei Morti»
(chiesa di S. Giovanni), «in piedi S. Angelo» e a «li Lambranti». Nei pressi della «Piazza» segnala
Casa Graziano e Casa d’Amato (O. Caputo-A. Sorrentino, 1998, p. 154).
Di Casa Montefuscolo, oltre alla posizione nella successione delle Case (dopo Casa Graziano), non
possediamo altri elementi di identificazione. Considerato l’assetto delle Case nei pressi della chiesa di
S. Giovanni, si ipotizza che i Montefuscolo fossero concentrati nello stabile successivo a quello dei
Graziano.
La posizione di Casa d’Amato, infine, è ritenuta all’angolo di via Fiume. Agli inizi dell’Ottocento
viene acquistata dai Perozziello. Ciò che resta dell’antica dimora è l’ingresso murato e pochi ruderi
(ivi, p. 111).
Le localizzazioni delle varie Case di S. Angelo, così come prefigurate, sono state riprodotte nella
figura 10.
29
Ibid., b. 6104, f. 8.
- 167 -
BIBLIOGRAFIA
CAPUTO O., SORRENTINO A., Sant’Angelo “a macerata”, Lancusi, Gutenberg, 1998.
DELILLE G., Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli, Torino, Einaudi, 1988.
FLECHIA G., Nomi locali del napolitano derivati da gentilizi italici, Torino, Paravia, 1874.
NATELLA P., “Da Campo al Campo. Politica e amministrazione in Salerno medioevale e moderna”, in Campo 9/10, Rivista trimestrale di cultura del Mezzogiorno, Salerno, 3, 1982.
RESCIGNO G., La famiglia meridionale trasmissione parentale, società, lavoro nell’età moderna.
Il quartiere Mercato dello «stato» di S. Severino, Lancusi, Gutenberg, 1996.
ID., Storia di strade. Odonomastica del comune di Mercato S. Severino, Lancusi, Gutenberg, 1999.
- 168 -
Riassunto
Questo studio riguarda le discendenze, che sono l’organizzazione di larghi gruppi di famiglie che includono spesso
molti gruppi di famiglie uniti in uno spazio ben definito, in un quartiere, in un villaggio, una forma di organizzazione che
ha avuto un particolare nome in una regione di Salerno: la casa, nel senso della grande famiglia o grande casa. Questo è un
fenomeno diffuso in tutta Italia nel Medioevo, e nell’Italia meridionale, nell’età moderna. La prima parte del lavoro dà i
criteri di formazione delle case, la loro diffusione e le cause di dispersione e ciò che oggi rimane degli antichi quartieri, che
devono essere considerati come veri nomi di luogo. La seconda parte illustra, riferendosi ad una definita realtà urbana e a
un preciso periodo storico, strumenti e metodi per la ricostruzione dell’insediamento delle case.
Abstract
This essay concerns the «lineage quarters», that is the organization of large family groups which often include several
tens of ménages united in a well-defined space, a quarter inside the village, a kind of organization that had a particular
name in the region of Salerno: the «Casa» (house) in the sense of the big family or just the big house. This is a widespread
situation in the Middle Age in the whole Italy and it continues to be in Southern Italy also during the Modern Age. The first
part of the essay faces the formation criteria of Houses (Case), their proliferation and the causes of dispersion and what
today remains of ancient «quarters», which have to be considered as real place-names. The second part illustrates, referring
to a definite urban reality and a precise historical period, instruments and methods for the reconstruction of settlement of
«Houses».
Résumé
L’essai a pour objet les quartiers de lignage, c’est-à-dire l’organisation de vastes groupes familiaux qui comporte
souvent plusiers dizaines de ménages réunis en un espace bien défini, un quartier à l’intérieur du village, une organisation
qui dans la région de Salerne avait un nom précis: la «Maison», au sens de la grande famille ou de la grande maison, une
situation repandue au Moyen âge partout en Italie et qui demeure dans le Midi même à l’époque moderne. La première
partie de l’essai affronte les critères de formation des «Maisons», leur prolifération et les causes de la dispersion et ce qui
aujourd’hui reste des anciens quartiers, qui doivent être considerés des veritables toponymes. La deuxième partie illustre,
nous référant à une determinée réalité urbaine et à une époque précise, des outils et des méthodologies pour la reconstitution
de l’aménagement des «Maisons».
- 169 -
- 170 -
Domenico Ruocco
BREVI NOTE SULLA TOPONOMASTICA DI MASSA LUBRENSE
I nomi di luogo riflettono la storia della civiltà di una comunità umana, l’evoluzione della lingua, la
ricchezza di conoscenze del territorio acquisite nel tempo, l’eredità culturale trasmessa di generazione
in generazione arricchita da sempre nuovi apporti e dai valori che hanno dato vita o si sono aggiunti al
mito.
La toponomastica è materia affascinante e suscettibile di sempre nuove conquiste e più approfondite spiegazioni, perché anche nomi di luoghi apparentemente facili da spiegare richiedono attente riflessioni.
In questa sede mi limito ad esaminare l’estremo lembo della Penisola Sorrentina, dove il mito e la
leggenda si sono accompagnati al culto, e la storia civile e religiosa ha lasciato tracce significative che
si sono stratificate nel tempo e sono state ravvivate nella memoria.
Mi riferisco alle Sirene, splendide e perfide ammaliatrici del mare per la loro esuberante bellezza,
che secondo la leggenda hanno preso forma nei tre isolotti detti Li Galli, per la delusione patita dopo
che Ulisse resistette al loro canto e fascino. Il tratto estremo della Penisola è noto perciò come la terra
delle Sirene: siti incantevoli minori di alberghi e ristoranti hanno preso da esse il nome per evocare
suggestioni di luoghi o semplicemente il mistero dell’accoglienza o la bontà della loro cucina.
Non minore eco ha avuto Atena e Minerva, che pure qualifica la parte estrema della Penisola,
sovrapponendosi territorialmente al promontorio delle Sirene (Sirenusio = Ateneo), il territorio cioè
che rientrava nella sfera di pertinenza del famoso Tempio pagano, che sorgeva sulle sponde, anche
perché con la religione cristiana gli attributi più qualificanti della dea sono passati alla Vergine Maria,
il cui culto è praticato sotto varie forme nelle numerose chiese e cappelle che alla Madonna sono state
dedicate (Santa Maria, S. Maria della Lobra, delle Grazie, della Neve).
Il motivo religioso è predominante nella toponomastica lubrense (S. Maria della Lobra, S. Liberatore, Vescovado, S. Maria, S. Anna, S. Costanzo, Santa Maria della Neve, S. Agata, Deserto, S. Francesco, S. Antonio, S. Pietro, Annunziata, S. Aniello, S. Montano, Massa Lubrense, Arborella, Ieranto)
per indicare luoghi abitati, edifici religiosi e aree di loro pertinenza. La colonizzazione romana trova
un altrettanto numeroso gruppo di toponimi (Villazzano, Guarrazzano, Pipiano, Paterno, Marcigliano,
Marciano, Schiazzano, Titigliano, Metrano, Nerano, Mitigliano, Puolo), per lo più di origine predialica:
vari fondi hanno tratto il nome dal complesso religioso cui appartenevano (Gesù, Vescovado, S. Francesco, Capitolo). Il nome stesso del Comune di Massa Lubrense si ricollega a vicende della storia
civile e religiosa, alla ripartizione dell’Ager Publicus, mutato in Massa Publica e poi in Massa (de)
Lubrensis.
La presenza greca è testimoniata dal nome di alcuni elementi morfologici. La dorsale principale
reca il nome collettivo di Tore (i monti per eccellenza), mentre per indicare un singolo elemento
orografico si ricorre a Tuoro (= monte), Tuorevillo (ponticello), Toriello (piccolo monte), che trovano
i loro corrispondenti attuali in Monticiello, Monticchio. Vervece trarrebbe il nome dall’animale (montone nella versione greca) cui assomiglia. Legata alla Tore è anche Torca, una frazione montana del
comune.
Cesine, ngesine, olivata, pineta, selva (di castagno), cerchito (di quercia) sono toponimi dovuti a
forme di vegetazione; Aquara, Molini, Cerriglio, Pozzillo, Canale, Rivo a casa, Fontanella alla presenza dell’acqua e alla sua utilizzazione; Campo, Aragona, casa Murat a vicende storiche dalle quali
sono state interessate le varie località. Villarca (Via dell’arco), Capodarco, Rivo a casa sono già chiari
per se stessi, come Chiaia, petraia, petriere, petrera, petrillo, cemmentaro, punta, capo, pontescuro,
spargimento e forse anche Erca. Pochissimi i toponimi derivati da persone.
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I toponimi di Massa sono tutti chiarissimi e spiegabili sulla base delle successive vicende storiche,
salvo pochi (Reola, Recommone, Tachione, Fossa di Papa, Lagno, Vagno), mentre altri sono forse
suscettibili di spiegazioni da parte di specialisti non geografi.
Se di qualsiasi regione geografica, piccola o grande, si potessero elencare i toponimi di difficile
spiegazione, compararli e cercare di interpretarli in un’ottica interdisciplinare, si renderebbe un utile
servigio alla toponomastica e un contributo alla conoscenza geografica del territorio considerato.
- 172 -
Riassunto
Vengono esaminati i toponimi dell’estremo lembo della Penisola Sorrentina. Essi riflettono soprattutto il mito, le
leggende, i motivi religiosi, la predialità romana e gli elementi naturali. Solo pochi restano indecifrati, ma potrebbero
costituire utile materia di comparazione, in ottica interdisciplinare, con altrettali forme linguistiche riscontrabili in diverse
regioni geografiche.
Abstract
The aim of this work is to study the place-names of the ends of Penisola Sorrentina. As a matter of fact they can mirror
myth, legends, religion, roman rural “villae” and natural elements. Among them, only a few are still unknown, however,
from an interdisciplinary point of view, they could provide an useful comparative material with linguistic expressions that
may be found in several geographic areas.
Résumé
L’auteur examine les toponymes de l’extrême bord de la Péninsule de Sorrento. Ils réfléchissent surtout le mythe, les
légendes, les raisons religieuses, l’habitat rural romain et les éléments naturels. Parmi eux, seulement un petit nombre n’ a
pas été déchifré, cependant ils pourraient constituer une matière utile de comparaison, dans le cadre d’une approche
interdisciplinaire, avec des formes linguistiques similaires, rencontrées dans différentes régions géographiques.
- 173 -
- 174 -
Pasquale Gerardo Santella
‘E STUORTE NOMME
I soprannomi delle famiglie di Palma Campania (NA)
Introduzione
Gli antichi romani facevano seguire al praenomen (il nome vero e proprio) e al nomen (il nostro
cognome, comune a tutta la gens) il cognomen (un soprannome, aggiunto a designare un singolo
individuo, tratto spesso da caratteristiche somatiche; per esempio Nasica, che significa «dal naso sottile»; Barbatus, «barbuto»; Crassus, riferito alla mole corporea).
L’usanza del cognomen si è tramandata nei secoli e permane nei nostri paesi. Ancora negli anni ‘50
e ‘60 gli emigranti, quando inviavano una lettera alla famiglia, non mancavano mai di scrivere sotto il
nome e cognome del congiunto anche il soprannome, che talora sostituiva perfino l’indicazione della
via e il numero civico, che non sempre c’era. Ancora oggi, negli annunci funebri, capita spesso che
sotto il nome del defunto, si trovi scritto «detto …», seguito dal soprannome, per renderne più facile il
riconoscimento; o che persone anziane chiedano ad un giovane con cui abbiano un occasionale incontro, al fine di identificarlo, a quale razza appartenga, oppure quale sia «‘o stuorto nomme» della famiglia.
Siamo giunti così all’oggetto di questa ricerca: «‘e stuorte nomme», cioè i soprannomi con cui
vengono indicate le famiglie di Palma Campania, paese dell’entroterra vesuviano, ai confini delle
province di Napoli, Salerno ed Avellino.
Sull’argomento non esistono fonti scritte. Ho cominciato a raccogliere vari soprannomi partendo
da quelli che conoscevo direttamente, molti li ho ricavati dalla lettura dei “manifesti di morti”, ho
interpellato persone anziane, soprattutto vecchi contadini. Una prima pubblicazione dei soprannomi
raccolti sul quindicinale locale «Il Pappagallo» ha suscitato la curiosità dei lettori, parecchi dei quali
mi hanno contattato suggerendomi altri soprannomi e la spiegazione di alcuni di essi. Nella ricerca
non ho preso in considerazione i soprannomi riferiti ai singoli individui o di recente conio, ma solo
quelli che si riferissero a vaste famiglie e che fossero radicati su territorio prima degli anni Cinquanta
del Novecento.
Dopo una indagine accurata, ma certo non esaustiva, ne ho raccolto più di cinquecento, che possono essere classificati, in base all’origine dell’attribuzione, in sette sezioni (caratteri somatici; psichici
e comportamentali; relativi a mestieri e professioni; patrionimici; patronimici; incomprensibili e strani; curiosi). Di ognuna riporto un ampio numero di voci, delle quali dò una sintetica spiegazione.
1. Caratteristiche somatiche
Sono i soprannomi che si riferiscono ad una caratteristica fisica:
balena (detto ironicamente di un uomo minuto), bicchiriciello (piccolo bicchiere, persona piccola
e furba), bissinese (dalla pelle scura come un ascaro dell’Abissinia), cacaglio (balbuziente), camuso
(camuso), cinese (dal particolare taglio degli occhi), cirasiello (dal corpo piccolo e grassoccio, in
riferimento ai pomodorini tondi, detti cirasielli perché hanno la forma delle ciliege), culello
(dall’ancheggiamento sinuoso), lampione (testa di uomo pelato, lucida, che richiama l’immagine del
lampione illuminante), fusillo (alto e dinoccolato come la pasta alimentare a forma di nastro attorcigliato ad elica), mignone (dalla mano amputata, in cui rimaneva solo il dito mignolo), negus (dalla
pelle scura, in riferimento all’appellativo del noto monarca etiopico), palatone (alto come un filone di
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pane), pigliucchiello (vezzeggiativo di pigliocca = bastone, quindi piccolo e basso), quarticiello (diminuzione dell’italiano quarto, per la quantità nella vendita di prodotti, quindi detto di uomo piccolo,
basso), riccio (soprannome di un ramo della famiglia Nunziata, i cui componenti erano caratterizzati
dai capelli ricci ed arruffati, anche perché non si aveva certo in quei tempi l’abitudine di lavarli frequentemente), ricciulillo (dai capelli ricci), robbabbona (roba buona, ad indicare una donna dal seno
prosperoso), strizzichiello (sottile come uno strizzico, una minutissima goccia d’acqua).
2. Caratteristiche psichiche e comportamentali
Sono i soprannomi che si riferiscono ad un dato caratteriale, ad un modo di essere, di agire, di
comportarsi:
bello pulito (dall’aspetto sempre curato), capa vacanta (testa vuota, stupido), chiagnolente (che
piange sempre, portato a lamentarsi spesso), chiuvitiello (piccolo chiodo, quindi detto di uomo fastidioso, assillante), malapelle (indica il carattere aspro dei componenti della famiglia Varchetta),
menapalle (raccontatore di frottole), ‘mpizzo ‘mpizzo (soprannome dato a Saviano Biagio per l’abitudine di ‘mpizzarsi, cioè mettersi in mezzo ad ogni cosa), pacione (pacioccone, bonaccione),
paparacianno (nome dialettale del barbagianni. Simile alla sua testa, così si definisce, nel gergo più
triviale, un membro virile d’animalesche proporzioni e quindi «uomo stupido»), passannante (che
vuole stare sempre davanti, quindi mettersi in mostra), peccatore (peccatore, soprannome della famiglia Malinconico, derivato dall’abitudine di un suo avo a bestemmiare frequentemente o, più verosimilmente, ad un fatto di sangue in cui, alla fine dell’Ottocento, fu implicato un giovane della famiglia,
che uccise un rivale che aveva violentato la sua fidanzata e fuggì in America), pipparella (soprannome
della famiglia di Marciano Antonio, calzolaio proveniente da Striano, che aveva l’abitudine di avere
sempre la pipa in bocca), pisciaturo (orinale, ad indicare persona che era facile a versare lacrime
copiosamente quasi come a pisciare), pullicinella (dalla nota maschera napoletana, in senso dispregiativo
uomo poco serio, buffone), tavano (tafano, insetto simile ad una grossa mosca; ad indicare persona
importuna, insistente, noiosa), viento ‘e terra (metonimico, ad indicare un componente di un ramo
della famiglia Carrella che, con il suo comportamento, provocava continuamente danni, proprio come
il vento di terra, apportatore di cattivo tempo), zénzala (voce gergale per straccio, cencio, frammento
di vecchia stoffa e quindi donna ciarliera e perdigiorno), zingariello (dalla pelle scura come uno zingaro), zuccariello (zuccherino dolce, buono e disponibile).
Questi soprannomi sembrano ubbidire al detto latino omen-nomen, per cui in un particolare nome
(poniamo Fortunato, Gentile, Grazia, Felice, Generoso) sia già implicito il proprio destino o più semplicemente un dato caratteriale o comportamentale. Ma non sempre è così e può succedere (capriccio
del caso) che un Tommaso Santella, detto ‘o ncazzuso, sposi Felicetta, detta ‘a paciona. Ci si aspetterebbe che… ed invece Tommaso, tranquillo e bonario, accettava amorevolmente il comportamento
della moglie, facile ad arrabbiarsi alla minima occasione.
3. Mestieri e professioni
Sono i soprannomi che si riferiscono ai mestieri più che alle professioni. Cosa spiegabile, se consideriamo che nella società rurale che caratterizzava il nostro paese, fino agli anni Cinquanta, i dottori
erano pochissimi e c’era un gran numero di artigiani, spazzati via dallo sviluppo industriale ed
informatico.
Si rileva, tra l’altro, come i rari medici, ingegneri, avvocati, professori, appartenenti al ceto borghese, non erano indicati con un soprannome, ma con il titolo della loro professione. Un segno di rispetto,
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ma anche un segno di come l’indicazione di una persona con il soprannome abbia una leggera venatura dispregiativa, che non si applica alle persone di cultura, cui si riconosce prestigio sociale. E veniamo agli esempi:
Acquaiuolo (venditore di acque minerali e bibite), bazzicotto (da bazzicare, riferito ad un ramo
della famiglia Dello Iacono, un cui componente era informatore della polizia, e per la sua attività
frequentava luoghi e persone poco raccomandabili), cafittiere (l’attuale barista), cantiniere (oste),
capraro (capraio), carrittiere (carrettiere), càtaro (cataro, fabbricante di cati, secchie di legno a doghe,
con manico semi circolare incastrato), ceraiolo (ceraiolo, fabbricante di candele), copellaro (colui che
costruiva o riparava le copelle, che erano tinozze per il vino), cucchiere (conducente di cocchi. Si
ricordano negli anni Cinquanta i cocchieri Attilio Carrella e Gioacchino Prisco, che per molti anni
hanno svolto servizio di trasporto dal centro del paese alla locale stazione ferroviaria, distante circa
due chilometri, prima dell’avvento di un regolare servizio di pullman e poi delle automobili private),
ferracavallo (maniscalco), gelatiere (gelataio)1 , maccaronaro (produttore di maccheroni. Il soprannome si riferisce alle tre famiglie che nella prima metà del secolo gestivano i pastifici artigianali nel
paese), mangiammerda (colui che espurgava i cessi per cavarne concime per la terra), molafuorbice
(arrotino, dalla mola, utilizzata come strumento di lavoro), noleggio (noleggiatori di auto)2 , paratore
(arredatore; si riferisce a chi addobbava le chiese nelle cerimonie solenni), porcaro (allevatore e venditore di maiali), pullicinaro (pollicultore), pulizzascarpe (lustrascarpe. Si riferisce a chi andava in
giro per mercati con la cassetta degli strumenti del mestiere per lustrare scarpe e stivali), rammaro
(artigiano che produceva o riparava oggetti di rame), ricottaro (produttore e venditore di ricotte, che
girava per le strade del paese in giorni ed orari fissi, portando i suoi prodotti agli abituali acquirenti),
ritrattista (fotografo), scupastrada (spazzino), seggiariello (costruttore e venditore di sedie impagliate), sellaro (sellaio), serengara (colei che, senza essere infermiera, faceva iniezioni a domicilio), serparo
(catturatore di serpenti che danneggiavano i campi dei contadini), sfoglietella (il soprannome era
attribuito ad un pasticciere bravo nel fare quel particolare dolce che è la sfogliata), sonatore (musicista
che si esibiva in piazza o in occasione di qualche festa in case private), soreciaro (si riferisce al
mestiere di chi, chiamato dai contadini, si guadagnava da vivere preparando trappole per sorci e talpe
da mettere nei campi coltivati per evitare che il raccolto fosse danneggiato), sparabotte (venditore di
mortaretti e fuochi d’artificio), tautaro (fabbricante e venditore di casse da morto, dette in dialetto
taùti, dal lat. tabutum = bara di tavole), vaccariello (proprietario di vacche da latte), vammana (levatrice non specializzata che assisteva le partorienti a domicilio, quando i bambini nascevano nelle loro
case piuttosto che nelle sale ospedaliere), virdummaro (erbivendolo), zanzaro (sensale, mediatore nella compravendita di case e terreni, quando non erano ancora diffuse le agenzie immobiliari), zoccolaro
(fabbricante e venditore di zoccoli).
Si può facilmente rilevare come molti di questi mestieri non esistano più. Resiste solo qualche
artigiano altamente specializzato che fa prodotti personalizzati su richiesta e a misura del cliente.
4. Patrionimici
Sono i soprannomi che si riferiscono a persone stabilitesi nel nostro paese e provenienti da paesi
vicini e lontani, che sono indicati con il nome degli abitanti del luogo di origine, oppure ad emigranti
che sono ritornati dopo un lungo periodo vissuto all’estero e sono indicati con il nome degli abitanti
1
Negli anni precedenti la guerra i gelatai percorrevano le strade del paese con un carrettino spinto a mano, all’interno del quale erano
recipienti in legno riempiti di ghiaccio e sale con immerso al centro un cilindro di rame contenente il gelato di vari gusti.
2
Si riferisce alle famiglie di quelle tre o quattro persone che, ancora negli anni Cinquanta, quando pochissimi possedevano un’auto
privata, noleggiavano auto per viaggi soprattutto nel capoluogo oppure in occasione di qualche escursione o d’estate per i bagni nella
vicina Torre Annunziata.
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della nazione straniera da cui provengono. Calabrese (proveniente dalla Calabria), catalano (proveniente dalla Catalogna, regione della Spagna. È il soprannome della famiglia Fernandez, il cui capostipite
era un soldato spagnolo, che sposò nel Seicento una donna di Nola. Alcuni componenti si trasferirono
a Palma, da cui anche il soprannome nolano), cavaiuolo (proveniente da Cava dei Tirreni), leccese
(proveniente da Lecce), miricano (americano), milanese (milanese), palmese (proveniente da Palma)3 , pavanese (proveniente da Pagani), pugliese (proveniente dalla Puglia), quinniciaro (proveniente da Quindici), sarnese (proveniente da Sarno), siciliano (proveniente dalla Sicilia), strianese (proveniente da Striano), tedesco (tedesco), torrese (proveniente da Torre Annunziata oppure del Greco).
Sotto questa categoria si possono annoverare anche quei soprannomi dati in riferimento al quartiere
in cui si vive e che vengono attribuiti ad una persona che abbia un nome comune per distinguerla e
identificarla:
‘e ncoppa ‘o vascio (residenti nella zona dei bassi),4 ‘e ncoppa ‘e poteche (residente nella zona alta
del paese, dove un tempo erano concentrate le botteghe artigiane e commerciali), ‘e ncoppa ‘a parrocchia (residente nella parte alta del paese, dove sorge la parrocchia di San Michele Arcangelo), oppure
castellano (residente a Castello, frazione della città, così detta dai resti di un castello normanno dell’XI
secolo, abbattuto, a colpi di cannone, nel 1863, dal generale piemontese Pinelli, esasperato contro i
montanari, che davano ricovero ai briganti della banda di Crescenzo Gravino), pizzirummaro (residente a Pozzoromolo, una frazione della città)5 .
I patrionimici non sono molti e si riferiscono per lo più a paesi confinanti o vicini a Palma. Il che si
spiega con la scarsa mobilità degli abitanti di un paese dell’entroterra, prevalentemente agricolo, lontano dal capoluogo e non facilmente collegato con i paesi della provincia con servizi ferroviari e
autolinee. In una piccola comunità (nel censimento 2001 risultavano residenti 14.500 abitanti), dove
tutti conoscevano tutti, le persone provenienti da altri paesi erano facilmente riconoscibili ed
identificabili e, dato che avevano un cognome non comune, si finiva per identificarle con il nome degli
abitanti del paese di origine.
5. Patronimici
Sono i soprannomi che si riferiscono ad una persona, evidentemente tanto nota, che per tutti i
discendenti si è fatto riferimento ad essa come segno di riconoscimento della famiglia:
Betta (diminutivo di Elisabetta), Calvanese (in realtà è un cognome, divenuto un soprannome per
essere l’unico nel paese, dato che la famiglia proveniva da Poggiomarino), Chiarinona (Chiara Sodano,
sposa di Gaglione Antonio, così detta per la sua prestanza fisica), Ciccinella (diminutivo di Francesca), Ferrantiello (diminutivo di Ferdinando), Filippone (accrescitivo di Filippo), Firdinandello
(diminutivo di Ferdinando), Funzino (diminutivo-vezzeggiativo di Alfonso), Furturella (diminutivo
di Fortuna), Gisina (Giuseppina), Iàcone (accrescitivo di Giacomo), Mafalda, Masciaiuolo (appartenente alla famiglia Mascia, i cui componenti abitavano tutti nello stesso cortile nella frazione di
Pozzoromolo), Minella (diminutivo di Carmina), Minicone (accrescitivo di Domenico), Ntenesca
3
Non sembri strano: il soprannome era di Pietro Nunziata, chiamato così quando si trasferì a San Gennaro Vesuviano dagli abitanti
del luogo. Il figlio Francesco, ritornato a Palma, conservò il soprannome del padre.
4
‘O vascio è la zona dove vi erano case vecchie abitate a pian terreno, che affacciavano direttamente sulla strada, quindi basse, a
differenza dei palazzi, dove ci si serviva delle scale all’interno dei cortili, essendo il piano terra occupato da botteghe artigiane e negozi.
Curiosamente il quartiere detto ‘o vascio, è nella parte alta del paese.
5
Il nome deriva da un pozzo e dal greco rumma, mezzo per purificare. Il riferimento è ai pozzi, costruiti in epoca romana, comunicanti con i condotti dell’acqua, che avevano la funzione di aerare e purificare l’acqua corrente, per migliorarne il sapore e correggerne
la durezza.
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(Antinesca), Ramunno (Raimondo), Rasimiello (diminutivo di Erasmo), Tunnuccio (diminutivo di
Antonio).
Si noti come in una società ancora patriarcale, dove le donne erano “casa e chiesa”, il fatto che
spesso si faccia riferimento per il soprannome della famiglia alla donna piuttosto che all’uomo, sia
comunque segno del rispetto che aveva la moglie madre all’interno della casa e della comunità6 .
6. Incomprensibili e strani
Sono i soprannomi alla cui origine riesce difficile risalire perché si è persa memoria dell’occasione
da cui sono stati generati. Alcuni sono comprensibili e facilmente traducibili nell’equivalente in lingua, la maggior parte sembrano voci onomatopeiche o legate a particolari episodi, che neanche gli
anziani, componenti della gens che li portano, conoscono più:
Barabessa, barracane, bazzuolo, bebbello, buzzone, cacacarte, cacciafummo, cannato, cappella,
cecia, chicchiolone, cicchello, cicione, cimmiciamma, ciuppicciappa, cocchiolella, coppolacchiello,
coppone, cucuzziello, cuntino, fioravante, gaghetto, izzico, javajà, lepariello, lillero, macchiolella,
macchione, malapelle, mbombolimbò, monechetta, mpagliato, nciccaiuolo, ncoronato, ndindello,
nzerecatella, pacca pacca, pagnuotto, paparella, parrillo, passarella, picciccio, picciuotto, pipparella,
pirucchio, piscianzogna, pisiello, pizzachiena, pollanchella, poscia, purcimmo, quartarola, quatt’ a
piezzo, querola, ribiecchio, sarciniello, scapocchia, sciampagna, sciometto, sciosciondo, sguantiglia,
sperciasepe, tagliacuollo, tozzolella, vascuotto, vicchiullo, zobba, zurfo.
7. Curiosi
Diamo ora la spiegazione di alcuni soprannomi generati da una occasione curiosa. Comincio da
quello della mia gens (un po’ di autoironia in questo campo non guasta) e procedo in ordine alfabetico:
‘Ncazzuso:
Mi raccontava mio nonno Gerardo, nato nel 1882, che suo nonno Tommaso, nato nel 1806, negli
anni postunitari gestiva una cantina in via Ugo De Fazio, unitamente alla moglie Brigida Scarciello.
Questa, avendo a che fare con avventori che facilmente alzavano il gomito e scantonavano con parole
e fatti, ed essendo per di più di carattere irascibile, si stizziva continuamente e reagiva in malo modo
alle intemperanze dei clienti. Da ciò il soprannome di ‘ncazzosa che poi si trasferì al marito e da questi
ai discendenti.
Bello ‘e papà:
Soprannome di Giovanni Aschettino, gestore di un chioschetto di bibite e gelati in Piazza De Martino.
Molto prolifico, in pochi anni di matrimonio aveva generato numerosi figli, maschi e femmine, che
apostrofava affettuosamente con l’espressione «bello ‘e papà», ogni volta che si rivolgeva loro.
6
È «na femmenona» si diceva, della donna brava nei compiti propri del suo ruolo e della sua funzione: lavare, spazzare, cucinare,
accudire ai figli, saper rammendare gli abiti adattandoli dal figlio più grande a quelli più piccoli man mano che crescevano, saper
amministrare i soldi che si guadagnava il marito, provvedere alla dote delle figlie.
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Borbone:
A Francesco Nunziata, nato nel 1860, durante il breve periodo in cui era re di Napoli Franceschiello,
fu dato dalla famiglia non solo il nome di Francesco, in onore del giovane monarca, ma anche l’affettuoso nomignolo di burbunciello (piccolo borbone). E Borbone fu chiamato una volta fattosi grande.
Cacagnane:
Soprannome della famiglia De Luca. Si riferisce al fatto che, vivendo in campagna isolati alla
periferia del paese, quando le case non erano ancora dotate di gabinetti, erano soliti, come del resto era
pratica normale nell’anteguerra, fare i loro bisogni fisiologici in buche scavate nella terra.
Cavalera:
‘A Cavalera era Anna Peluso, nata nell’ottavo decennio del XIX secolo e morta alla metà degli anni
‘50. Poiché era l’unica donna tra otto figli, la madre era solita dire di lei: «Tengo ‘a Cavalera», «Chesta
è ‘a Cavalera mia». Da qui il soprannome che oltretutto le si addiceva per il suo carattere molto forte
e la generosità del comportamento.
Cazzelle:
Soprannome della famiglia Franzese, industriali conservieri. Tra l’Ottocento e il Novecento il nucleo originario viveva in una masseria, molto isolata, lontana dal centro abitato. Per sopravvivere
pensavano esclusivamente a lavorare e a farsi i propri fatti, dialettalmente ‘e cazze suoi. Da qui cominciarono a chiamare Cazzelle i componenti della famiglia.
Cazzone:
Michele Peluso, gestore di una cantina tra le due guerre, trovò nel locale e consegnò, ad un avventore ubriaco che lo aveva perso, un portafoglio con una grossa somma di denaro. Bel gesto, ma non
apprezzato, tanto che i clienti e perfino la moglie cominciarono a chiamarlo «cazzone» (sciocco, stupido) per non aver saputo approfittare dell’occasione.
Chianochiano:
Soprannome di donna Rosa Albano, che gestì per molti anni dal dopoguerra alla fine degli anni ‘70
una trattoria nella zona centrale del paese, dove cucinava cibi sani e genuini. Ma era così meticolosa
nella preparazione dei pasti che i clienti, stanchi di aspettare, reclamavano spesso di portare presto i
piatti ordinati. Al che era solita dire: «chiano chiano, ca po’ ve faccio alleccà ‘o musso» (piano piano,
che poi vi faccio leccare il muso).
Cravattella:
Soprannome della famiglia di Luigi Carbone, stimato civilista del foro napoletano, sindaco di Palma dal 1971 al 1974, per l’abitudine di sfoggiare sulla camicia, invece che una cravatta, un elegante
papillon.
Frascaiuole:
Soprannome di un ramo della famiglia Ferrara, derivato dal fatto che vivevano in campagna, in una
abitazione circondata da «frasche», in riferimento ai rami fronzuti degli alberi.
Frevaro:
Frevaro è il nome dialettale del mese di febbraio ed è il soprannome della famiglia Ferrara. Si
riferisce a due caratteristiche: l’essere di statura bassa (cioè corti come il mese) e l’essere di carattere
aspro, forte (dice un proverbio locale: «Frevaro, si ‘mpogna, te fa carè l’ogne»/«Febbraio se si irrigidisce ti fa cadere le unghie», ad indicare i malanni che può provocare il freddo intenso).
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Garibardo:
Soprannome di un ramo della famiglia Sorrentino, derivato dal fatto che uno dei suoi componenti
era solito portare un copricapo che per la foggia ricordava quello di Garibaldi nelle immagini e nei
monumenti dell’eroe.
Lamporio:
Salvatore Pandico, molto noto a Palma per essere stato, insieme a Paolo Simonetti, il primo
radiotecnico nonché il primo venditore di televisori alla fine degli anni Cinquanta, nel dopoguerra
gestiva a via Roma un negozio in cui vendeva articoli vari con sull’insegna la scritta «EMPORIO». Da
ciò, per identificarlo, Don Salvatore ‘e l’amporio, che poi è diventato il soprannome con cui ancora
vengono definiti figli e nipoti.
Maggese:
Soprannome derivato ad un ramo della famiglia Montanino da un loro avo, Gaetano Montanino,
nato nella seconda metà dell’Ottocento, che era solito vestire in modo elegante e passeggiare impettito
appoggiandosi ad un bastone, tanto che al suo passaggio si diceva: «Pare il re magio», con riferimento
ai re magi che portarono i doni a Gesù. Da «magio» per alterazione «maggio» e poi «maggese».
‘Nfinfero:
Francesco Pandico nel 1958, all’età di 16 anni, si classificò terzo a un concorso paesano di voci
nuove, cantando la canzone napoletana ‘O ‘nfinfero; da ciò il soprannome, tanto che anche i suoi figli
cominciarono ad essere chiamati «‘e ‘nfinfarielle».
Palommella:
Soprannome derivato alla famiglia Nunziata Rega dall’antenata di nome Colomba, che in dialetto
si dice «palomma», e, come diminutivo-vezzegiativo, «palommella». Essendo rimasta vedova dopo
pochi anni di matrimonio, i suoi figli cominciarono ad essere indicati con l’espressione: «chille ‘e
Palommella».
Papino:
Luigi Carrella, nonno di Don Peppino Carrella, attuale parroco della parrocchia di San Michele, era
un uomo molto religioso ed aveva grande desiderio di vedere il Papa a Roma. Quando, negli ultimi
anni del secolo scorso, ebbe la straordinaria occasione di partecipare ad un’udienza di Papa Leone
XII, al ritorno cominciò ad essere chiamato «papino».
Paravise:
Soprannome di un ramo della famiglia Simonetti, tra i cognomi più numerosi del paese, i cui componenti erano ritenuti dotati di buon gusto, eleganti nel vestire, ricercati nel mangiare, tanto che la
gente diceva che a casa loro si viveva «‘n paravise» (in paradiso).
Pettolone:
‘O pettolone era il camicione di tela ruvida che i contadini indossavano per il lavoro nei campi e
sotto il quale, in estate, causa il caldo, non indossavano neanche i pantaloni. Così si cominciò a chiamare Antonio Simonetti, nato nel 1831, per l’abitudine talora di rimanere con il pettolone addosso
anche quando aveva smesso il lavoro.
Pezze ‘e caso:
«Pezze di cacio». Soprannome di un ramo della famiglia Simonetti. Risale all’avo Michele, vissuto
nella seconda metà dell’Ottocento, che all’interno della sua abitazione aveva allestito un caseificio
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artigianale e stendeva le pezze di formaggio ad asciugare su una rastrelliera di legno al fuoco della
brace. La lavorazione era particolarmente intensa nel periodo natalizio e pasquale, quando c’era una
maggiore richiesta del prodotto. E fu proprio nelle feste di Natale che la rastrelliera, appesantita dall’eccessivo peso delle pezze stese, si spezzò e le pezze caddero sul fuoco sottostante. La notizia dell’incidente si diffuse rapidamente nel paese e la gente ne fu talmente impressionata da cominciare a
chiamare i componenti della famiglia Simonetti: «chille de ‘e pezze ‘e caso».
Priore:
Aniello Simonetti, nato alla fine dell’Ottocento, di statura bassa e rotonda, vestiva in modo elegante e passeggiava con un bastone, con portamento impettito ed un cappello tondo, tanto da richiamare
la figura di un priore di abbazia.
Scocchiesse:
Soprannome di un ramo della famiglia Sorrentino, da un suo componente, venditore di legna per
camini, così chiamato per gli schiocchi, gli scoppiettii dei tronchi che bruciavano al fuoco.
Scozzese:
Soprannome di Angelo Nunziata, vigile urbano, ultracinquantenne, datogli da bambino quando
frequentava le scuole elementari e indossava un completino di pantaloni lunghi fino al ginocchio e
giacchino a quadroni, che scherzosamente diceva di aver comprato in Scozia. Il soprannome ha finito
per essere esteso anche ai numerosi componenti della famiglia di età maggiore, tanto da soppiantare il
precedente soprannome di palmese (vedi).
Sergente, tenente, capitano, maggiore:
Hanno un’origine storica e si riferiscono al grado coperto da antenati nel corpo di guardia nazionale, che presidiava il paese, unitamente ad un battaglione di bersaglieri, acquartierato nell’antico palazzo della Falconeria e Cavallerizza a Piazza De Martino, quando le catene subappenniniche che circondano le nostre terre diventarono rifugio di briganti negli anni post-unitari.
Settecape:
Soprannome dato a Nicola Menna, nato alla fine dell’Ottocento, per la sua grossa testa, tanto che
riusciva a stento in inverno a coprire la testa con un cappello, pur indossando quello di misura più
grande in commercio. Ma c’è un’altra versione esplicativa del soprannome. Verso la fine dell’Ottocento un proprietario terriero di Domicella, detto il signorino Ferrante, doveva tracciare una strada
nella sua proprietà. Non riuscendo gli ingegneri a risolvere il problema, interpellò il suddetto Menna,
commerciante di legname, che diede le indicazioni giuste, tanto da meritarsi il soprannome settecape,
stavolta però in senso positivo, come persona dalla mente straordinariamente ingegnosa.
Stoppella:
Soprannome di un ramo della famiglia Nunziata, derivato dal fatto che un loro avo, agli inizi del
Novecento, era una specie di conciaossa, nel senso che era abile a curare slogature e contusioni di parti
del corpo, adoperando per la fasciatura stecchette di legno che legava con «stoppa».
Trentacinque:
trentacinque ‘a parrella è il nome volgare di un uccello, la parra, che nidifica nei muri ed è nota per
la sua prolificità (sette od otto uccellini ad ogni covata). Il soprannome fu dato, per aver generato molti
figli, ad Aniello Boccia, maestro di fuochi d’artificio, che per molti anni con i suoi spettacoli pirotecnici
ha allietato le feste patronali del paese.
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Conclusioni
La tendenza ad indicare una persona con «‘o stuorto nomme» va scomparendo. Certo permane
l’abitudine a denominare talora una persona con un nomignolo nell’ambito di un gruppo, ma questo è
un fatto isolato, non viene più esteso alla famiglia; non rimane legato ad una persona per tutta la vita,
si brucia presto allo stesso modo di uno slogan pubblicitario, appena la sua stranezza diventa normalità, perdendo efficacia. Come tutte le cose logorate dal troppo uso, anche i soprannomi col tempo si
svuotano della loro carica semantica per ridursi a significanti senza significato, flatus vocis, catena di
suoni cui non corrisponde alcuna immagine, ricordo, idea, fatto.
«‘E stuorte nomme» sono residui di un tessuto contadino completamente sfilacciato; sono il segno
di una storia passata, i cui ricordi tendono a diventare labili; scompariranno lentamente assieme agli
anziani che ancora ne fanno motivo di appartenenza ad una gens, ad una famiglia allargata, legata da
vincoli di sangue. L’evoluzione stessa della famiglia, con l’allentamento dei legami consanguinei, ha
portato i vari componenti a differenziarsi, ad affermare una propria personalità ed individualità ed a
rifiutare il soprannome, che anzi viene sopportato con fastidio dalle persone non anziane perché richiama un passato povero, mestieri umili, fatiche, sudori, stenti, povertà da cui ci si è emancipati e che
si vuole dimenticare.
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Riassunto
La ricerca riguarda i soprannomi delle famiglie di Palma Campania, paese dell’entroterra napoletano. Poiché non
esistono fonti scritte sull’argomento, essi sono stati raccolti dalla viva voce di anziani del luogo e dalla lettura degli
annunci funebri, nei quali è ancora diffusa l’abitudine di far seguire al nome e cognome del defunto l’espressione «detto...», seguita dal soprannome con cui è chiamato nella comunità. Sono stati individuati oltre 500 soprannomi, suddivisi, in
base all’origine dell’attribuzione, in cinque sezioni:
1) caratteristiche somatiche;
2) caratteristiche psichiche e comportamentali;
3) mestieri e professioni;
4) patronimici;
5) patrionimici.
Di tutti si dà una sintetica spiegazione, per alcuni si risale attraverso testimonianze dirette e indirette all’episodio che li
ha generati. Si è ritenuto opportuno, infine, riportare anche i soprannomi di cui non si è scoperto il significato.
Abstract
The search concerns the nicknames of the families of Palma Campania, country of the Neapolitan hinterland. Since
written sources don’t exist on the matter, they have been picked from the alive voice of elderly of the place and from the
reading of funeral announces, where widely-circulate the habit of making the name and surname of the dead follow by the
expression «known as...», and by the nickname they were called by in the community. We have individualized over 500
nicknames, divided in base to the origin of the attribution, in five sections:
1) somatic characteristics;
2) psychic and behavioral characteristics;
3) works and professions;
4) patronymics;
5) patrionymics.
A synthetic explanation is given out of all of them, to some it is gone back through direct and indirect testimonies to the
episode that has produced them. We think that is convenient, finally, to quote the nicknames of which the meaning is not
discovered yet.
Résumé
La recherche concerne les surnoms des familles de Palma Campania, pays de l’arrière-pays napolitain. Comme il n’y
a pas de preuves littérales sur le sujet, ils ont été recueillis par la vive voix d’âgés de l’endroit et par la lecture des
annonces funèbres où il y a l’habitude très repandue de faire suivre au nom et au nom de famille du défunt, l’expression
«dit...», suivi par le surnom avec lequel il a été appelé dans la communauté. Ils ont été déterminés au-delà de 500 surnoms,
répartis selon l’origine de l’attribution, en cinq sections:
1) caractéristiques somatiques;
2) caractéristiques psychiques et comportementales;
3) métiers et professions;
4) patronymes;
5) patrionymes.
De tous on a donné une explication synthétique, à quelques-uns on remonte à travers de témoignages directs et indirects
à l’épisode qui les ont engendrés. Il s’est considéré opportun, enfin, reporter aussi les surnoms dont il ne s’est pas découvert
le sens.
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Illustrazioni
Sezione prima
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Fig. 1 - Giuseppe Lista, Progetto di due «stradette» di collegamento Amalfi-Agerola (s.d., ma 1820).
Fig. 2 - Giuseppe Lista, Progettino di un ponte che
scavalca il torrente di Tramonti (s.d., ma 1822).
Fig. 3 - Giuseppe Lista, Facciata della Cattedrale di Cava
de’ Tirreni, realizzata secondo il progetto di questo ingegnere.
- 187 -
Fig. 4 - Francesco Saverio Malpica e collaboratori, Pianta geometrica della valle Trapulogo (1838).
Fig. 5 - Francesco Saverio Malpica e collaboratori, Profilo e pianta della valle Trapulogo (dettaglio della precedente: 1838).
- 188 -
Fig. 6 - Situazione attuale della valle Trapulogo allo
sbocco nel «Reginna Maior» (foto V. Aversano).
Fig. 7 - Il serbatoio dell’acqua nella valle Trapulogo
(foto V. Aversano).
Fig. 8 - Un esempio di coltivazioni terrazzate, localmente dette «macerie», nella
parte più svasata della valle Trapulogo (foto V. Aversano).
- 189 -
Fig. 9 - Francesco Saverio Malpica, Pianta di una porzione della città di Salerno racchiusa tra le strade Due Principati,
Arcivescovado, Corso Garibaldi e Porta Nova (1862).
- 190 -
Fig. 10 - Giuseppe Palmieri e Filippo Pinto, Pianta Topografica dell’alpestre valle da Atrani, Ravello e Scala…. (1857).
- 191 -
Fig. 11 - Vincenzo Parascandolo e M. Petrilli, Progetto di raccordo della Strada amalfitana con l’abitato di Maiori (s. d.,
ma 1851).
- 192 -
Fig. 12 - Giovanni Rosalba e collaboratori, Pianta Topografica di due contigue proprietà in Costiera… (1827).
- 193 -
- 194 -
Illustrazioni
Sezione seconda
- 195 -
- 196 -
Fig. 1 - Il Comune di Pellezzano (IGM, F° 185 II SO: rilievo fotogrammetrico del 1956).
- 197 -
Legenda
. . . . . . . . : Limiti amministrativi dei Comuni attuali
–––– . –––– : Limiti dello «Stato di Montecorvino» nel 1370
: Agglomerato urbano attuale
::
: Centri Antichi
+
: Chiese coeve
Comuni attuali
A: Montecorvino Rovella
B: Montecorvino Pugliano
C: Bellizzi
D: Pontecagnano-Faiano
E: Battipaglia (parte occidentale)
F:
G:
H:
I:
Olevano Sul Tusciano
Acerno
Giffoni Valle Piana
Salerno (parte orientale)
Toponimi non scritti nella carta (in grassetto quelli oggi scomparsi)
1 Mortellis
8 Occiano
2 S. Eustacchio
9 Donnico
3 Votraci
10 Torello
4 Donnico
11 S. Biase (cappella)
5 Martorano
12 Sala
6 Curtis
13 Arpignano
7 Maccarellum
14 S. Vito (cappella)
Fig. 2 - Lo «STATO DI MONTECORVINO» nel Medioevo e la distribuzione dei toponimi coevi (il numeretto in cerchio
indica quelli che non è possibile segnare per esteso: cfr. elenco).
- 198 -
Fig. 3 - Epigrafe di Tito Annio.
- 199 -
Fig. 4 - Piazza Asclettino e Chiesa di S. Pietro apostolo.
Fig. 5 - Ospedale Luigi Curto.
- 200 -
A) Stralcio del F° 156 II SE del 1909.
B) Stralcio del F° 156 II SE del 1957.
Fig. 6 - Scomparsa dell’abbreviazione «R. ne» davanti al toponimo S. Maria nell’edizione del 1957.
- 201 -
A) Stralcio del F° 156 II SE del 1909.
B) Stralcio del F° 156 II SE del 1957.
Fig. 7 - Introduzione del toponimo la Stretta nell’edizione del 1957.
- 202 -
Fig. 8 - Pianta del casale S. Angelo nell’anno 1794.
- 203 -
Fig. 9 - Pianta del casale S. Angelo nell’anno 1938 (dal rilevamento geodetico a supporto del catasto particellare).
Fig. 10 - Dettaglio del casale S. Angelo tra il XVIII e il XIX secolo (fonte: Atlante del Regno di Napoli di G. Antonio Rizzi
Zannoni).
- 204 -
INDICE GENERALE
Manifesto del CAR.TOPON.ST........................................................................................... pag.
5
Presentazione del volume ........................................................................................................ »
7
SEZIONE PRIMA - Cartografia. Dalle biografie professionali alla rappresentazione del territorio:
saggi esemplificativi resi al DISCI (Dizionario Storico dei Cartografi Italiani) ............................ »
9
Saggi di schede ......................................................................................................................... »
11
Francesco De Vito Piscicelli (a cura di V.A.) ............................................................................ »
13
Giuseppe Lista (a cura di V.A.) ................................................................................................. »
16
Francesco Saverio Malpica (a cura di V.A.) .............................................................................. »
19
Luigi Oberty (a cura di S. S.)..................................................................................................... »
24
Giuseppe Palmieri (a cura di V.A.) ............................................................................................ »
29
Vincenzo Parascandolo (a cura di V.A.) .................................................................................... »
31
Camillo Rosalba (a cura di M.R. D.V.) ..................................................................................... »
34
Giovanni Rosalba (a cura di V.A.) ............................................................................................. »
37
Riferimenti bibliografici generali .............................................................................................. »
46
SEZIONE SECONDA - Toponimi, Antroponimi, Identità [Contributi agli Atti del Convegno
Internazionale Toponimi e Antroponimi: Beni-Documento e Spie d’Identità per la Lettura, la Didattica
e il Governo del Territorio (Università degli Studi di Salerno-Vietri sul Mare, 14/16 novembre 2002),
a cura di Vincenzo Aversano] .................................................................................................... »
51
Vincenzo Aversano, Alla ricerca dell’identità: percorsi interdisciplinari,
didattici e scientifici, attraverso la toponomastica di un comune salernitano .......................... »
53
Vincenzo M. Cestaro, Il carsismo nei toponimi del comune di Castelcivita:
primi risultati di una ricerca didattica di gruppo ..................................................................... »
89
A. D’Arminio, L. Scarpariello, R. Vassallo, C. Vasso, La stratificazione dei toponimi
nello «Stato di Montecorvino» tra il tardo antico e il rinascimento ......................................... » 101
- 205 -
Armando Finodi, «Le Perazzeta». I Poderi nel Comune di Formello (Rm):
l’identità territoriale di una comunità rurale (1950-2000) .................................................... pag. 109
Rubino Luongo, Campagna in provincia di Salerno. Toponomastica e identità del territorio ...... »
119
Alfonsina Medici, Personaggi e interpreti sulla scena toponomastica di Polla...................... » 133
Giuseppina V. Quitadamo, La toponomastica del territorio di Monte S. Angelo (Fg) ........... » 147
Giuseppe Rescigno, Toponimi e paesaggio urbano: i quartieri di lignaggio .......................... » 159
Domenico Ruocco, Brevi note sulla toponomastica di Massa Lubrense ................................. » 171
Pasquale Gerardo Santella, ‘E stuorte nomme. I soprannomi delle famiglie
di Palma Campania (Na) .......................................................................................................... » 175
Illustrazioni Sezione prima ........................................................................................................ » 185
Illustrazioni Sezione seconda .................................................................................................... » 195
- 206 -
INDICE DELLE FIGURE
SEZIONE PRIMA
Fig. 1- Giuseppe Lista, Progetto di due «stradette» di collegamento Amalfi-Agerola (s.d., ma 1820).
Fig. 2 - Giuseppe Lista, Progettino di un ponte che scavalca il torrente di Tramonti (s.d., ma 1822).
Fig. 3 - Giuseppe Lista, Facciata della Cattedrale di Cava de’ Tirreni, realizzata secondo il progetto di
questo ingegnere (foto).
Fig. 4 - Francesco Saverio Malpica e collaboratori, Pianta geometrica della valle Trapulogo (1838).
Fig. 5 - Francesco Saverio Malpica e collaboratori, Profilo e pianta della valle Trapulogo (dettaglio
della precedente: 1838).
Fig. 6 - Situazione attuale della valle Trapulogo allo sbocco nel Reginna Maior (foto V. Aversano).
Fig. 7 - Il serbatoio dell’acqua nella valle Trapulogo (foto V. Aversano).
Fig. 8 - Un esempio di coltivazioni terrazzate, localmente dette «macerie», nella parte più svasata
della valle Trapulogo (foto V. Aversano).
Fig. 9 - Francesco Saverio Malpica, Pianta di una porzione della città di Salerno racchiusa tra le
strade Due Principati, Arcivescovado, Corso Garibaldi e Porta Nova (1862).
Fig. 10 - Giuseppe Palmieri e Filippo Pinto, Pianta Topografica dell’alpestre valle da Atrani, Ravello
e Scala…. (1857).
Fig. 11 - Vincenzo Parascandolo e M. Petrilli, Progetto di raccordo della Strada amalfitana con l’abitato
di Maiori (s. d., ma 1851).
Fig. 12 - Giovanni Rosalba e collaboratori, Pianta Topografica di due contigue proprietà in
Costiera….(1827).
SEZIONE SECONDA
Fig. 1 - Il Comune di Pellezzano (IGM, F° 185 II SO: rilievo fotogrammetrico del 1956).
Fig. 2 - I toponimi stratificati dello Stato di Montecorvino.
Fig. 3 - Epigrafe di Tito Annio.
Fig. 4 - Piazza Asclettino e Chiesa di S. Pietro apostolo.
Fig. 5 - Ospedale Luigi Curto.
Fig. 6 - Scomparsa dell’abbreviazione «R. ne» davanti al toponimo S. Maria nell’edizione del 1957.
Fig. 7 - Introduzione del toponimo «la Stretta» nell’edizione del 1957.
Fig. 8 - Pianta del casale S. Angelo nell’anno 1794.
Fig. 9 - Pianta del casale S. Angelo nell’anno 1938 (dal rilevamento geodetico a supporto del catasto
particellare).
Fig. 10 - Dettaglio del casale S. Angelo tra il XVIII e il XIX secolo (fonte: Atlante del Regno di Napoli
di G. Antonio Rizzi Zannoni).
- 207 -
- 208 -
Istruzioni per i collaboratori
1. Gli Autori sono pregati di inviare i loro contributi in dattiloscritto (in duplice copia) e di allegare anche il testo memorizzato su supporto elettronico (Floppy o CD ROM), purché scritto in programma Microsoft Word versione aggiornata
(per Windows o Apple Macintosh) e comunque in forma definitiva, accuratamente collazionati anche per le grafie
straniere e le citazioni bibliografiche.
2. Il Responsabile scientifico si riserva di richiedere riduzioni, ritocchi e modificazioni al testo e alle illustrazioni.
3. I saggi vanno suddivisi in paragrafi ed eventuali sotto-paragrafi titolati in corsivo ed eventualmente numerati
consequenzialmente. Es.:
• Fisionomia geografico-storica del territorio (il testo continua a capo con rientro, da usare sempre nelle successive
righe).
• Il periodo medioevale (il testo continua a capo con rientro, da usare sempre nelle successive righe).
4. Le note, se compaiono, sono destinate essenzialmente a fini esplicativi o all’illustrazione di particolari che non si
reputa necessario inserire nel testo; vanno inserite a piè di pagina, con rimando posto in esponente (sia nel testo che
nella nota stessa). Es.:
1
Nel periodo longobardo i costumi erano alquanto rudi ….
5. Le illustrazioni ed i grafici devono essere in forma definitiva e pervenire unitamente al testo, sia in formato cartaceo
che su supporto elettronico.
Tutte le figure vanno numerate consequenzialmente con cifra araba e devono riportare la didascalia e l’eventuale fonte
in fondo alla figura stessa. Es.: fig.1
6. Le tabelle, sempre in formato cartaceo ed elettronico (Microsoft Word) devono invece riportare il titolo prima della
tabella, in maiuscoletto e con cifra romana.
7. La funzione di riferimento bibliografico si realizza nei due modi seguenti:
• nel testo e nelle note, mediante indicazione sommaria (fatta tra parentesi) dell’Autore, della data di pubblicazione
ed eventualmente della pagina o delle pagine. Es.: (Rombai, 2001); (Manzi, 1997, p. 41); (ivi, pp. 15-23): per
indicare il riferimento immediatamente precedente con pagine diverse; (ibidem): per indicare il riferimento immediatamente precedente con la/e stessa/e pagina/e. Nel caso di citazione di risorse online, basterà indicare in parentesi il nome dell’autore.
• a fine di ogni contributo, con un elenco alfabetico in extenso di tutte le citazioni bibliografiche, inclusi in primo
luogo tutti i lavori citati sommariamente (come sopra) nel testo e nelle note. Per queste ultime indicazioni si useranno le norme seguenti, allineate alle consuetudini della letteratura scientifica internazionale. Es.:
- Citazione di volumi: ASSANTE F., Amalfi e la sua Costiera nel Settecento. Uomini e cose, Napoli, ESI, 1994.
- Citazione di articoli o contributi su riviste, atti, opere miscellanee: BUCCARO A., “La Scuola di applicazione di
Ponti e Strade. Formazione e ruolo degli ingegneri nello stato preunitario”, in Civiltà dell’Ottocento, 24, 2005,
n. 3, pp. 45-51 (ordinale dell’annata in cifre arabe, anno in cifre arabe, eventuale numero del fascicolo in cifre
arabe, e sempre con indicazione delle pagine).
- Citazione di risorse online: ANDREA MASSARO, in http://www.agendaonline.it (consultazione del 13/05/2006).
8. Le sigle vanno riportate in maiuscoletto con iniziale maiuscola (es.: DISCI); il corsivo va utilizzato esclusivamente per
i termini stranieri non entrati nell’uso corrente e per le lingue antiche; le citazioni e l’evidenziazione di parole o termini
vanno effettuate con l’uso delle virgolette «a sergente», o con eventuali interne “inglesi” (ad apice doppio); limitare
possibilmente l’uso del grassetto. Si raccomanda inoltre un impiego misurato ed uniforme delle maiuscole, da evitare
per termini comuni.
9. Gli Autori sono pregati di indicare in corsivo, in calce al loro scritto, il Dipartimento, il laboratorio, l’ente, ecc. presso
il quale è stato eventualmente eseguito il lavoro.
10. Ogni contributo deve essere corredato da un breve riassunto (circa dieci righe), in italiano, in inglese e in francese, che
sintetizzi soprattutto i risultati della ricerca. Se l’articolo è in lingua straniera, il sunto nella lingua di redazione andrà
sostituito con un sunto in italiano, che sarà premura dell’Autore fornire.
11. Gli estratti sono a pagamento ed esclusivamente su richiesta. Gli Autori devono indirizzare tali richieste direttamente
all’Editore.
12. I lavori, anche se non pubblicati, non si restituiscono se non dietro espressa richiesta degli Autori (le spese postali sono
a carico degli stessi). Il Responsabile scientifico si riserva di valutare su base scientifica l’ammissibilità o meno dei
contributi all’interno degli Atti.
- 209 -
- 210 -
Finito di stampare nel mese di maggio 2006
presso la Tipografia Gutenberg - Penta di Fisciano (SA)
Tel. 089.891385 - [email protected]
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- 212 -