Aprile-giugno 2012 - Link Campus University
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Aprile-giugno 2012 - Link Campus University
periodico di informazione della Link Campus University - aprile/giugno 2012 link journal Focus - ‘Giovani: un piano straordinario per la conquista della felicità’ A colloquio con Edgar Morin articoli di: M. Bucchi, N. Ferrigni, L.J. Garay, S. Lazzari Celli, G. Lo Russo, P. Madotto, M. Pistone, A. Suraci, F. Zille eurilink www.smassociati.it w ww.smasso ociati.it Preparing leaders ders ffor or evolving evolving worlds Test di ammissione am mmission ne individ individuale duale UNIVERSITÀ DEGLI STUDI LINK CAMPUS U Anno Ac Accademico cademico 2012 2 • 2013 Fissa il tuo o appuntamen appuntamento, to, ti aspettiam aspettiamo, mo, mettiti alla a prova! 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Andrea Altieri 61 Figli e figlie di una nuova patria Nicola Ferrigni 8 Liberalizzazioni e concorrenza nel sistema italiano Francesco Pastore europa 32 Competere nell’incertezza Habib Sedehi 4 I giovani, la politica, il nostro impegno Vanna Fadini italia 11 2020: la strategia dell’Europa per arginare il degrado ambientale Marco Iezzi 12 I nostri giovani: Edoardo Marconi 13 L’Europa delle culture: la sfida da cui partire Marco Emanuele internazionale 15 BRICS: un’opportunità da non perdere per le aziende italiane Giancarlo Ansalone 16 Africa: la Cina sfida l’Europa Alessandro Figus 18 Unione Europea e Mercosur: un bilancio e una prospettiva Luigi Maccotta 21 I nostri Giovani: Giulio Coppi cooperazione internazionale 22 Da Corleone ai Gorilla: quando l’Assemblea non è tutto Maurizio Zandri economia e diritto 24 Accordo faticoso: ma con buone prospettive per la stabilità Giorgio Benvenuto 26 Lo stato attuale della giustizia Daniela Noviello 27 Aspettando Godot... tra assenze e attese si consuma il vivere civile Giorgio Spangher 34 UK Corporate Governance Takes on an Italian Flavour Brian R. Cheffins 35 Riflessioni e paradossi in tema di crisi economica Pierluigi Matera 37 I nostri Giovani: Fabio Zampini intelligence e sicurezza 38 N.A.T.O. /Africa: une liaison dangereuse Alessandro Politi 39 Una nuova frontiera della guerra economica: lo spionaggio industriale nel cyberspazio Luigi Sergio Germani comunicazione 41 Comunicazione visiva: un’ipotesi sulla dislessia Leonardo Romei / Chiara Mancini 43 I nostri Giovani: Giulia Mizzoni protezione civile 44 Previsione e prevenzione: due aspetti fondamentali per la sicurezza Giuseppe Zamberletti università 46 La scommessa del futuro: un’Università che sappia interagire tra società e impresa Ortensio Zecchino 64 Sentimenti & Amore in un clic Francoise Zille 65 Artista d’Impresa e la forza delle idee Gearardo Lo Russo 67 È il momento di realizzare le promesse della democrazia Antonio Suraci 69 Lo sviluppo e il progresso nascono dalla nostra capacità di inventare Massimo Pistone 70 I nostri Giovani: B. Stender Link Campus University 72 iTest your University Choice 73 Il saluto del Presidente Prof. Vincenzo Scotti 74 I corsi di Laurea 75 I Master libri 76 Le pubblicazioni Eurilink Link Journal Periodico di informazione della Link Campus University Direttore responsabile: Antonio Suraci Comitato di redazione: Vanna Fadini, Stefania Lazzari Celli, Marco Emanuele, Gerardo Lo Russo, Tommaso Mattei, Massimo Pistone, Maurizio Zandri Segreteria di redazione: Titti Nicolellis Grafica e impaginazione: Eurilink Periodico a diffusione gratuita n. 2/12 in attesa di autorizzazione Tipografia: Empograph, Villa Adriana - Roma Edizioni Eurilink editoriale 4 link journal 2/2012 editoriale I giovani, la politica, il nostro impegno L e pagine dei giornali non fanno che sottolineare l’allarme per la crescente disaffezione della gente verso la politica. Casi di sospetta (o palese) corruzione; interessi privati in atti pubblici; comportamenti eticamente riprovevoli; utilizzo dei rimborsi elettorali in modo improprio: non c’è giorno che qualche sigla partitica non ne venga coinvolta (a torto o a ragione) e con ciò non riceva un colpo la credibilità della classe politica in generale e la voglia della gente di prendere parte alla cosa comune. Hai voglia a fare distinguo tra politici furbi o ladri e politici per bene; a fare richiami all’importanza della politica come servizio; al ruolo insostituibile dei Partiti per la democrazia. In questo momento è come se la politica fosse un bicchiere d’acqua: basta una piccola goccia d’inchiostro per sporcarla tutta. Forse stiamo giocando con il fuoco. Siamo su di un piano inclinato sempre più ripido. Toccare il fondo, a questo punto, è facile. Basta non andare a votare o accettare di votare per “castigatori” senza proposte e senza futuro. Basta non partecipare più alla tua associazione, al corteo, al dibattito sul tuo social-network. Basta ritirarsi schifati nel proprio privato (peraltro sempre più scomodo...). Basta innamorarsi di qualche uomo della provvidenza. Basta delegare, per stanchezza. E’ un attimo. Riarrampicarsi è, invece, complicato. In discesa fai metri ogni se- condo; in salita centimetri ogni ora. Eppure qualcuno continua a farlo ogni giorno. Senza prosopopea. Senza dire “ehi, guardate qua, come sono bravo”. Quasi per legge naturale. Sono i ragazzi. I nostri giovani. Certo non secondo i codici che la nostra generazione, quella dei loro genitori, conosce. Ed è per questo che qualche volta facciamo confusione e parliamo del loro disimpegno. Gli esempi di cosa sto dicendo sono davanti ai nostri occhi. Da Puerta del Sol a Madrid, fino a Tharir in Egitto, da Zuccotti Park a New York fino ad Avenue Burghiba, a Tunisi. I Giovani hanno rappresentato e rappresentano il cuore delle ribellioni della Primavera Araba. Sono i protagonisti del risveglio di una coscienza civile in molte capitali occidentali. Ma non chiedete loro se sono di destra o di sinistra. Non chiedete di che Partito sei. Non è che si arrabbierebbero. Non capirebbero. Leggevo qualche settimana fa i dati di una interessante inchiesta sui giovani e la loro propensione alla partecipazione, realizzata via web su di un campione di circa 1400 ragazzi, dai 17 ai 30 anni. Un campione rappresentativo di una certa area di giovani già “sensibilizzati” e contattati tramite una sorta di sistema di cerchi concentrici che partiva da una organizzazione giovanile notoriamente di sinistra. Insomma un campione già orien- tato. Ebbene il 34% degli intervistati non si riconosceva né nelle posizioni politiche della Sinistra, né in quelle della Destra, come noi siamo usi a definirle. Immaginiamo quale sarebbe la risposta nell’ambito di un campione rappresentativo dell’intera Società. Ma questo non va scambiato per disimpegno. In un’altra recente indagine tra i giovani delle Scuole superiori romane, che ha coinvolto più di mille studenti, il 72% del campione intervistato dice di non avere fiducia nella politica e nei Partiti. In generale, però, l'85% del campione pensa sia importante impegnarsi in politica in prima persona. Questo impegno politico non può però essere inteso come adesione ai partiti. Troppo spesso, nella semplificazione dei messaggi, costruiamo un cortocircuito partiti-politica che è improprio. La politica in prima persona è anche quella dell’impegno a scuola, negli organismi scolastici, come nelle assemblee informali. Sta nel fare girotondi di protesta, nello sfilare nei cortei magari con il viso dipinto di colori allegri. Sta nell’associazionismo, nel volontariato, nei circoli culturali, negli scout, nelle mille forme di assistenza e aiuto in cui i giovani sono massicciamente coinvolti. Sto allargando troppo il concetto di “politica”? Non credo. E comunque, sarei in ottima compagnia, perché ricordo che Don Milani in Lettera ad una Professoressa Vanna Fadini, Presidente della Società di Gestione della Link Campus University link journal 2/2012 scriveva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia” Spesso i giovani nelle loro espressioni di impegno sono troppo conflittuali? Forse. Però era già Sant’Agostino, come ricorda in “Noi crediamo” l’ex ministro Giorgia Meloni, ad affermare ”La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio… Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle”. E è ancora Don Milani a dire: “Io al mio popolo gli ho tolto la pace: non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione né riguardo né tatto. Mi sono attirato addosso un mucchio di odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti e di conversazione del mio popolo”. E’ il modello di appartenenza politico-partitica ad essere andato in crisi. La multi-appartenenza non è più un segno di immaturità, ma un nuovo codice comportamentale. Non fa scandalo. Se non tra i “sacerdoti” della vecchia politica. Non so se serva un linguaggio nuovo alla politica ufficiale odierna. Dipende. Per fare cosa? Per riuscire a farsi capire e votare dai giovani? Troppo poco e un po’ strumentale. Serve forse di più che tutti noi ascoltiamo con attenzione il linguaggio che viene dai giovani della Primavera Araba e dagli indignados; dalle scuole e Università, dall’associazionismo, e anche dai mille “muretti” d’Italia. Al nuovo “linguaggio” ci stanno già pensando loro. Ascoltarlo e capirlo non vuol dire, però, non aiu- editoriale tarlo a crescere. Accettarlo così com’è e abdicare ad avere un ruolo sarebbe inaccettabile ed esiziale anche per i nostri ragazzi. Senza paternalismi, ma anche senza eccessi di trasformismo in una spasmodica “captatio benevolentiae”. Ognuno, con onestà e impegno, con apertura mentale, flessibilità, ma anche professionalità e regole svolga il proprio ruolo. Noi ci siamo scelti quello di educatori, uno dei più rischiosi ed esposti alle… intemperie. Dobbiamo trasmettere conoscenza, formare, dare strumenti ai giovani. Nello stile di Link Campus non ci sono però i “pacchetti chiusi”. Non imponiamo verità. Mettiamo in mostra tutto quello che abbiamo e aiutiamo a scegliere quello che ogni singolo ragazzo ritiene più utile per il suo percorso. Dialoghiamo, ma non nascondiamo quello che pensiamo. Siamo una sponda, non una spugna. Per questo forse ci sentiamo pronti, più di altri, ad accompagnare, nel nostro piccolo, con i nostri iscritti sempre più numerosi, questo formidabile sforzo rifondativo della qualità della politica, di cui tutti sentiamo grande bisogno. 5 6 italia link journal 2/2012 Il Mezzogiorno, ponte strategico tra l’Europa e il Mediterraneo P ensando alle sfide che sono dinanzi al Mezzogiorno devo ammettere che c’è stato un punto debole, in questi ultimi anni, nei generosi tentativi delle minoranze attive di meridionalisti: quello della mancanza di una proposta efficace per lo sviluppo e la crescita del Paese che facesse perno su quella che, nei tempi presenti, potrebbe costituire non più il problema ma la sua risorsa principale: il Sud. Questa possibilità, oggi, potrebbe essere realistica se solo si riuscisse ad uscire dal “cortile” di casa nostra e si considerasse che l’Europa tutta, e non solo l’Italia, ha dinanzi a sé l’occasione per un’espansione fondata sulla sua integrazione con la grande area del Mediterraneo. Rispetto a questa sfida, il Mezzogiorno, anche per la sua collocazione geografica, diventerebbe, naturalmente, una risorsa da utilizzare, poiché in grado di attrarre capitali provenienti dai Paesi “emersi” dell’Estremo Oriente, in particolare da quelli coinvolti nelle nuove direttrici dei traffici con il “vecchio continente” attraverso il Mediterraneo. Non bisogna sottovalutare le “miniere” del sud: le sue risorse ambientali e umane; le eccellenze scientifiche presenti nelle sue Università e in alcune sue aziende; e, infine, il vasto patrimonio rappresentato dai giovani professionisti che oggi sono costretti a emigrare al nord e all’estero. In questa prospettiva, prende corpo per l’Italia l’utilità di creare, nel Mezzogiorno, un sistema d’infrastrutture di logistica, di trasporti, di comunicazione informatica e di produzione di energia, funzionali all’integrazione “fisica” dell’Italia e dell’Europa con il Mediterraneo allargato (il corridoio Mediterraneo-Berlino). Le sinergie nella ricerca e nell’alta formazione, tenendo conto delle eccellenze delle due sponde, possono indurre a lavorare su progetti comuni. Così come l’integrazione tra le risorse umane, di cui l’Europa ha avuto e avrà sempre più bisogno, può modificare radicalmente il futuro e le aspettative delle popolazioni delle due sponde. In questo contesto la realizzazione del Ponte sullo Stretto, destinato principalmente ai traffici ferroviari e delle merci in genere, potrebbe avere una sua strategica utilità soprattutto in relazione ad un suo inserimento nel piano di logistica MediVincenzo Scotti, Presidente Link Campus University terraneo-Berlino. In tal modo potrebbe veder coinvolti i capitali cinesi e la maggiore imprenditorialità europea. Nella prospettiva indicata, oggi più che in qualsiasi momento del passato, la trasformazione produttiva del Mezzogiorno si presenta come una delle risorse più importanti per il Paese. Per far questo la prima mossa è quella di superare le idee dello sviluppo locale viste come “monadi” chiuse, senza un progetto complessivo che dia senso alla valorizzazione delle risorse locali. L’Europa deve compiere una scelta strategica effettiva nella direzione di questo processo d’integrazione che va anche oltre la sponda sud del Mediterraneo e punta a coinvolgere l’intero continente africano. Se pure i grandi Paesi emergenti dell’Asia sono importanti per il commercio e per gli investimenti “in loco” da parte d’imprese italiane, per assicurarsi aree e quote importanti di mercato, tali possibilità sono strategicamente diverse da quelle che l’Europa ha con il Mediterraneo e con l’Africa. Per l’Europa, si tratta di passare da una rete di rapporti, spesso occasionali e legati ad antichi ricordi, ad un effettivo processo d’integrazione. L’efficienza sistemica richiede un intenso spostamento di risorse dai settori meno competitivi ad altri più competitivi, una profonda trasformazione dei settori e delle aree meno competitive e l’attuazione di diversificati e mirati interventi per migliorare l’efficienza generale. E a mano a mano che tali ristrutturazioni procederanno, sarà necessario un aumento della mobilità del lavoro; a regime, la mobilità tra le occupazioni che segneranno la vita individuale, risulterà più elevata che nei decenni passati. La polarizzazione che si creerà tra lavoratori nei settori di successo e quelli dei settori in declino, tra le occupazioni ad alto valore aggiunto e quelle non qualificate, tra chi potrà cambiare con successo molte posizioni di lavoro e chi sperimenterà lunghi periodi di disoccupazione, si trasformerà in una ‘polarizzazione sociale complessiva’. Anche se affrontato da questo punto di vista, lo sviluppo del Mezzogiorno è un obiettivo che interessa tutto il Paese. Sembra quasi un’affermazione retorica, ma non la è: o ce la facciamo tutti insieme o non c’è link journal 2/2012 salvezza per nessuno. L’indicazione strategica parte allora dalla ricomposizione concettuale e politica della ‘questione meridionale’, non come sommatoria di singole questioni locali, ma come problema unitario di una grande ‘regione’ del Mediterraneo che è parte di uno Stato nazionale. A questa premessa fanno seguito sei scelte strategiche. La prima è quella dell’iniziativa italiana per far avanzare il processo euro-mediterraneo in Europa, cercando le opportune alleanze non solo con gli Stati ‘mediterranei’ ma anche con la Germania, che mostra interesse crescente verso l’obiettivo mediterraneo.L’Unione Europea, dopo la caduta del muro di Berlino, ha accelerato il processo d’integrazione nella direzione dei Paesi dell’Europa orientale, destinando a questi fini notevoli risorse ma rallentando, se non bloccando, i progetti d’integrazione con i Paesi del Mediterraneo. Eppure, i traffici che oggi passano per il Mediterraneo a seguito dell’impetuoso sviluppo dell’estremo oriente, hanno aperto nuove prospettive economiche che vanno ben oltre i traffici marittimi. La seconda area strategica riguarda la dotazione infrastrutturale. Partiamo da una diffusa consapevolezza della necessità di un piano per la realizzazione di alcuni complessi di opere pubbliche, nei settori della logistica e dei trasporti, delle comunicazioni informatiche, dell’acqua e dell’energia. Per realizzare il corridoio dal Mediterraneo al centro dell’Europa ci vogliono opere che diano vita a un sistema intermodale di trasporti: porti, ferrovie, autostrade, strutture di servizio. Nel campo delle comunicazioni, lo sviluppo della banda larga di nuova generazione viene da tempo invocato come l’obiettivo di un progetto comune in grado di creare uno straordinario reciproco tra le due sponde del Mediterraneo e di costruire l’autostrada del futuro destinata a collegare l’Africa al nord dell’Europa. L’area strategica più difficile da affrontare resta la promozione di un moderno ‘sistema industriale’ (di una cultura industriale) in grado di costituire la leva per la crescita dell’economia e del benessere sociale nel Sud. L’impresa da portare a compimento, oggi, nel Sud è di passare dalla presenza di singole unità a una rete di ‘distretti’ industriali, inseriti in un ambiente dinamico sostenuto da una ricerca pubblica e privata di eccel- italia lenza, da un’alta formazione per tecnici e manager e da un’organizzazione finanziaria in grado di sostenere l’imprenditore innovatore. Per attrarre investimenti industriali, sia d’imprese estere sia locali, occorre mettere in campo tre strumenti che in questo momento potrebbero essere particolarmente efficaci: lo stimolo fiscale rappresentato dall’esenzione fiscale degli utili non distribuiti, anche se prodotti fuori dal Sud, purché investiti nel Mezzogiorno; il sostegno del sistema bancario in grado di assicurare una continuità d’intervento alle stesse condizioni offerte in altri contesti, nella fase di decollo del processo d’industrializzazione; una pubblica amministrazione efficiente, che sostenga invece di costituire un freno all’iniziativa imprenditoriale e che impedisca l’intromissione della criminalità organizzata. La quarta area strategica è data dalla “riforma” delle istituzioni economiche. Le istituzioni rappresentano un fattore fondamentale della crescita di lungo periodo e sono importanti perché influenzano la struttura degli incentivi economici, l’allocazione efficiente delle risorse, la distribuzione tra profitti, rendite e salari e l’accesso stesso alle risorse. Secondo questa chiave di analisi, l’economista Fadda sostiene che ‘le caratteristiche strutturali del sottosviluppo del Mezzogiorno sono spiegabili in termini di sottosviluppo istituzionale; e le politiche di sviluppo del Mezzogiorno, qualunque esse siano, non possono indurre un cambiamento dei processi e delle dinamiche economiche se non incorporano misure per il cambiamento istituzionale’. La penultima delle aree strategiche, sulla quale dovremmo concentrare la massima delle cure possibili, riguarda quella che gli anglosassoni chiamano ‘education’ e che non considera soltanto la scuola, l’università e la ricerca ma anche tutte quegli strumenti di “formazione continua” e di aggiornamento che consentono un livello di preparazione elevato e in grado di fronteggiare il cambiamento. L’ultima, ma non la minore, area strategica è rappresentata dalla questione urbana.. I fattori di successo che garantiscono la competitività di una città scaturiscono, non nell’antichità di fondazione (in questo la Magna Grecia si distingue brillantemente), ma nell’intensità della consapevolezza istituzionale maturata nel tempo. Laddove il ruolo della città è stato trainante e consapevole si è prodotta una cultura urbana che la colloca alla ribalta nello scenario internazionale. 7 Mezzogiorno Occorre riaprire la discussione, fare i conti con il passato, saper leggere gli eventi con lungimiranza per contribuire al cambiamento italia 8 Si tratta in questo caso di città che non appaiono addizioni di case e cose (troppe case, poche cose), ma luoghi di formazione di coscienza sociale che riescono a gestire la complessità e a governare il degrado che attanaglia, invece, le città del Mezzogiorno. Da tempo la questione meridionale è praticamente sparita dall’agenda politica nazionale e il Sud è privo di rappresentanza nei centri decisionali politici per sua stessa volontà. Da tempo l’Italia è diventata “più corta”. Occorre riaprire la discussione, fare i conti con il passato, saper leggere gli eventi e avere lungimiranza nel contribuire al cambiamento. Ritorna urgente il bisogno di unificare il Paese e offrire al Mezzogiorno il ruolo che gli compete: quello di costituire un “ponte” per l’integrazione dell’Europa nel Mediterraneo. Quello di diventare una grande piattaforma tecnologica e logistica, di ricerca e di innovazione. link journal 2/2012 Liberalizzazioni e concorrenza nel sistema italiano: uno sguardo allo stato delle imprese I l principio di perseguire migliori condizioni di competitività delle imprese a garanzia dei consumatori finali è indiscutibilmente un fatto su cui generalmente economisti e tecnici concordano. Occorre però delineare bene gli effetti possibili derivanti dall’applicazione di un principio e, soprattutto, cercare di contestualizzarlo nella realtà corrente al fine di evitare una probabile perdita di significato a fronte di un sicuro valore quale quello della libera concorrenza enunciato attraverso il tema delle liberalizzazioni. Recenti dati Istat in tema di crescita del Paese denunciano che il PIL nel 2011 è calato allo 0,4% rispetto all’1,8% del 2010. L’Italia è ancora nel tunnel della crisi e i dati macroeconomici non sembrano essere molto confortanti al momento. In proposito, è noto che le liberalizzazioni producano i loro effetti tipici quando l’economia va bene e non certo in fasi di congiuntura negativa. In altri termini, il rischio delle liberalizzazioni è di indurre a evidenti distorsioni nel breve termine. I principali effetti “distorsivi” sono rappresentati dalla disoccupazione e da una generale depressione dei consumi anche per effetto della pressione fiscale particolarmente accentuata in Italia. Il recente decreto sulle liberalizzazioni rappresenta certamente per il governo un mezzo per raggiungere un fine che è rappresentato in una presunta maggiore libertà degli operatori in determinati settori e, infine, garantire un ampliamento alle possibilità di scelta dei consumatori a prezzi o tariffe più basse in modo da favorire indirettamente i consumi. La teoria sembra giusta ma qual è la realtà? Secondo una recente indagine della CGIA di Mestre le liberalizzazioni “all’italiana” sono costate alle famiglie quasi 110 mld. di euro (precisamente 109,6 mld. di euro). L’apertura dei mercati delle assicurazioni sui mezzi di trasporto, dei carburanti, del gas, dei trasporti ferroviari ed urbani e dei servizi finanziari non avrebbe portato nessun vantaggio economico ai consumatori italiani. Solo l’apertura del merFrancesco Pastore, Link Campus University cato dell’energia elettrica ha dato risultati positivi. Purtroppo, le maggiori spese che le famiglie hanno subito sono di tutto rispetto: 286 euro l’anno che, moltiplicati per il numero degli anni trascorsi dall’avvio delle aperture dei mercati di ogni singolo settore sino al novembre 2011, hanno fatto salire l’ammontare complessivo a circa 4.576 euro. Se quest’ultimo importo viene moltiplicato per il numero totale delle famiglie italiane, l’aggravio economico complessivo si attesterebbe a circa 110 mld. di euro. “Da quest’ analisi – ha commentato il segretario della CGIA di Mestre – emerge in maniera molto evidente che in Italia le liberalizzazioni, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno funzionato. I prezzi o le tariffe sono cresciute con buona pace di chi sosteneva che un mercato più concorrenziale avrebbe favorito il consumatore finale.” Se allora questi sono i fatti qual è una possibile interpretazione del fenomeno? In sintesi, a sommessa opinione di chi scrive, affidarsi solo a un principio senza prevederne gli effetti conduce a un fenomeno di trasformazione e non di modifica della realtà che porterebbe da una situazione di monopolio pubblico a vere e proprie oligarchie controllate dai privati. E’ altrettanto vero che il percorso delle liberalizzazioni è stato intrapreso in un momento particolarmente complesso per l’Italia in cui il rispetto dei parametri di bilancio e il rilancio della credibilità nazionale in una situazione di pre-defalut del paese hanno avuto una priorità di base irrinunciabile per un governo “tecnico”. Tuttavia, considerati i risultati ed il contesto storico attuale, possiamo giungere a una prima ipotesi, circa la natura del fenomeno, tra l’altro formulata senza pretesa di offrire giudizi. Le liberalizzazioni rappresentano solo un potenziale enzima della crescita e non (soprattutto in fasi economiche recessive) un fattore autonomo di espansione economica. In altri termini, considerata l’ipotesi che ab- link journal 2/2012 biamo immaginato sopra, le liberalizzazioni, in una situazione di recessione come quella attuale, non potranno prescindere da misure urgenti di programmazione dello sviluppo economico, dove per programmazione s’intende un progetto strategico per il Paese e non l’apertura di qualche cantiere disseminato lungo la penisola. Logiche di programmazione e progettazione del futuro devono tornare al centro della riflessione e del dibattito politico, economico e sociale nel contesto di una cultura del “fare”. Il futuro avrà un connotato sempre maggiore di ritorno ai fondamentali secondo un modello di essenzialità e semplicità preferibilmente in un perimetro poco inflazionato da idee e parole sterili. Occorre poi perseguire senza sosta la definizione di un approccio evolutivo dalle interpretazioni ideologiche che condizionano da decenni la formazione di una nuova prospettiva economica sotto il profilo programmatico. In proposito, tutti rammentiamo che con l’ondata neoliberista si affermò anche l’idea di associare ad essa un dirigismo economico proprio del socialismo di Stato. In questa prospettiva, termini come programmare e pianificare rappresentavano un potenziale ostacolo alla crescita e al progresso: l’economia neo-liberista non aveva bisogno di strategie, così come avrebbe dimostrato nel tempo di voler fare a meno della politica, poiché il mercato da solo avrebbe indicato la strada e gli obiettivi. Per contro, la storia recente ci insegna che gli Stati hanno non solo il ruolo ma soprattutto il dovere di stabilire regole, orientare le scelte e indirizzare le risorse nelle direzioni più confacenti al bene comune. In questa direzione andrebbe la messa a punto di un processo di riallineamento degli investimenti con gli obiettivi che si intendono perseguire. L’approccio evolutivo - cui in precedenza si accennava - significa ritornare alla strategia, al progetto ed alla programmazione in modo laico rispetto a qualsiasi condizionamento ideologico nell’unica prospettiva del benessere comune. Credo valga ora la pena soffermarsi brevemente su una delle fondamentali determinanti del processo di liberalizzazione in Italia: il debito pubblico. La misura del debito ha infatti condizionato, a mio avviso impropriamente, l’immagine e le scelte successive. Concentrarsi, infatti, sul solo debito pubblico di un paese è considerato dagli economisti più accorti come un errore di metodo che crea panico e che nella sostanza non risolve i problemi. In italia proposito, sappiamo che il debito complessivo di un sistema è infatti il risultato dalla somma debito pubblico, debito privato, debito delle banche e debito delle imprese. Basandoci su questa considerazione, scopriamo che l’Italia è ai primi posti in Europa e non agli ultimi, come risulta analizzando il “solo” debito pubblico. Giova ora annotare qualche riflessione in proposito: • in Italia il rapporto debito pubblico/PIL è salito non tanto perché è aumentato il debito (che si è decrementato), bensì perché è calato il PIL; • il problema dell’Italia non sarebbe principalmente il debito in quanto tale, ma la crescita. Ciò a patto che sia una crescita reale, tangibile e non fittizia; • i punti di forza di questo Paese sono il risparmio privato e le piccole e medie imprese che reggono l’economia e creano posti di lavoro. Fatte le dovute premesse, va ravvisato che il decreto nel suo complesso mira ad accelerare le liberalizzazioni in diversi settori dell’economia, per troppi anni protetti da legislazioni che mettevano i produttori dei servizi al riparo dai rischi della pressione concorrenziale. Queste protezioni, avvantaggiando gli interessi di chi eroga i servizi rispetto a coloro che li utilizzano, hanno costituito un freno alla modernizzazione del Paese, accentuando un processo di cristallizzazione particolarmente evidente nel contesto internazionale. Se le premesse sono correte siamo però ancora lontani dalla formulazione di una precondizione essenziale della crescita per il paese che è rappresentata dall’individuazione dei veri fattori di crescita e non solo dalla battaglia su quelli che possono essere definiti solo enzimi (ma non determinanti) della crescita stessa. Il contesto recessivo si riflette sull’andamento dell’economia italiana la cui ossatura è costituita da piccole e medie imprese; i dati credo siano molto più rappresentativi di molti discorsi. Nel corso del 2011 si sono contati circa 31 fallimenti al giorno, dato ben peggiore del triennio 2007-2010. Nella sola Lombardia hanno chiuso 2.600 imprese sulle 11.600 nazionali. L’impatto occupazionale del fenomeno si attesterebbe a circa 50mila persone che hanno perso il proprio posto di lavoro. Il peso maggiore, come sempre, è stato sopportato dalle piccole imprese, quelle che dovrebbero rappresentare “il tessuto economico fon- 9 liberalizzazioni La storia recente ci insegna che gli Stati hanno non solo il ruolo ma soprattutto il dovere di stabilire regole 10 italia damentale della nostra economia”. L’infezione è causata da tre principali “virus” letali: la stretta creditizia, i ritardi nei pagamenti e il forte calo della domanda interna. Su quest’ultimo punto, non essendo stati individuati i veri fattori di crescita, ma sostituti di essi, non è difficile prevedere, anche per il breve termine, una fase di ulteriore depressione della domanda interna (calo dei consumi). Non essendo poi un cultore della statistica vorrei mettere in evidenza soprattutto il profilo “umano” di queste tragedie: la chiusura dell’azienda viene vissuta da molti, che hanno speso la propria vita nell’impresa, come un fallimento personale e che, in casi estremi, ha portato e porta tutt’ora decine e decine di piccoli imprenditori a togliersi la vita poiché essi (avendo chiaro il concetto di responsabilità) sentono sulle loro spalle anche il peso delle famiglie dei propri dipendenti. Ogni imprenditore che si toglie la vita sta firmando con il proprio sangue un appello che non dovrebbe conoscere soste lavorative da parte dei responsabili nel fornire immediatezza di risposte. Lo stato d’incertezza attuale e futura del nostro paese indotta dalla crisi internazionale sta comunque producendo diversi fenomeni che leggiamo quotidianamente sui giornali e che attendono di essere interpretati. In proposito, vorrei provare solo a mettere in relazione due di questi fenomeni: la fuga dei capitali all’estero ed il tema dell’usura. I due temi appaiono molto lontani tra di loro ma in realtà (è questa la provocazione) sembrano anche due lati della stessa medaglia: una generalizzata mancanza di coraggio. L’Associazione bancaria ticinese (1), “la più prossima all’Italia e quindi più attenta a queste evidenze, stima in 130 miliardi di euro i fondi neri depositati da soggetti italiani (persone fisiche o giuridiche) in Svizzera: 130 miliardi equivalgono a 8-10 manovre economiche. I forzieri della Confederazione contengono, in tutto, fondi equivalenti a 5.800 miliardi di euro, dei quali 2.800 appartengono a soggetti stranieri, e di questi almeno il 10% sono italiani. Le stime vengono riferite da Marco Jaeggi, coordinatore del dipartimento delle scienze economiche della Libera Università di Lugano, esperto sul tema delle relazioni bancarie internazionali della Svizzera. Il dato che più dovrebbe far riflettere (fenomeno anche nuovo nella sua tipicità) è che l’incertezza crea un’onda emozionale. Infatti, i contribuenti italiani, cercano apertamente misure difensive ma paradossalmente (qui sta il fatto nuovo), le stanno cercando più gli onesti dei disonesti, a costo di contravvenire ai propri principi: perché l’evasore, parziale o totale, non ha nulla da perdere, chi dichiara tutti i redditi oggi non si sente sicuro in Italia per la costante incertezza dello scenario futuro. Basta disporre un bonifico, del tutto legale, alla propria banca per prevenire il rischio di patrimoniali o prelievi forzosi in aggiunta alla sempre attuale preoccupazione di tenuta dell’euro(2). L’effetto dell’incertezza è comunque il drenaggio di risorse finanziare dal circuito economico nazionale: si preferisce stare alla finestra, attendere tempi migliori mentre l’economia rallenta e ha bisogno di ossigeno. link journal 2/2012 L’altra notizia deriva da una recente conferenza stampa del presidente del consiglio regionale del Lazio Mario Abbruzzese: “La regione Lazio ha un volume di affari per l’usura di tre miliardi e 300 milioni, 28 mila sono i commercianti coinvolti, il 35% degli esercenti attivi. Il Lazio guida, purtroppo, la classifica a livello nazionale, seguita da Campania e Sicilia. Il fenomeno incide sulla perdita dei posti di lavoro. La scarsità di risorse finanziarie e la depressione dei consumi amplificheranno sempre più il fenomeno dell’indebitamento a breve delle imprese e delle famiglie sia attraverso canali legali sia “illegali” andando ad incrementare il business dell’usura. In questo contesto è però complicato progettare “fondi antiusura” che si rilevano già oggi inadeguati rispetto all’entità del fenomeno. Ecco quindi, a parere di chi scrive, che drenaggio di risorse finanziarie all’estero e fenomeno del ricorso all’usura sono fatti tra di loro collegati, due facce della stessa medaglia del problema: il coraggio di scegliere. Trattenere risorse finanziare incentivandone l’ingresso nel circuito economico ed attrarre investimenti esteri potrebbe concorrere a creare le premesse per una futura crescita delle imprese. Che ruolo dovrebbe anzitutto avere lo Stato in questo contesto? Possiamo solo ipotizzare che non sarebbero necessari esclusivamente interventi quantitativi ma soprattutto qualitativi in modo da creare veri e propri fattori di crescita per il nostro paese. Non si tratta di astrazione teorica ma di cose che già avvengono in Italia come, ad esempio, nel comparto dell’industria cinematografica, dove la normativa di incentivazione degli investimenti privati (Tax Credit) ha avuto ampio successo come dichiarava il direttore generale cinema del Mibac, Nicola Borrelli(3) già a settembre 2010 nel corso di una presentazione ad un evento della Biennale: “Le cifre che riguardano questo periodo iniziale di applicazione della misura sono incoraggianti, il tax credit ha generato un credito per le imprese di 49 milioni di euro, a fronte di un investimento di 326 milioni di euro. Interessante il dato relativo alle richieste provenienti dall'estero: 7 imprese straniere hanno infatti deciso di girare i propri film in Italia beneficiando delle norme fiscali per un credito di circa 13 milioni di euro, generato da investimenti per circa 50 milioni. Il coraggio e l’impegno hanno tracciato in questo caso una strada che, ci auguriamo tutti, possa avere più corsie. Note (1) Articolo apparso su “Il Giornale” il 29 novembre 2011 a firma di Paolo Stefanato dal titolo: “Solo in Svizzera ci sarebbero 130 miliardi di depositi in nero. Ma aumenta anche la quota di risparmi esportati legalmente”. (2) Dichiarazioni del prof. Marco Jaeggi riportate nell’intervista richiamata nella precedente nota attraverso le quali si spiegano i motivi del deflusso di liquidità in Svizzera. (3) Notizia riportata nel sito ufficiale di Cinecittà: http://news.cinecitta.com/dossier/articolo.asp?id=7650 link journal 2/2012 europa 2020: la strategia dell’Europa per arginare il degrado ambientale J osè Barroso, presidente della Commissione Europea dal 2004, nel documento della Commissione “Europa 2020: Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” afferma che le realtà economiche si muovono più velocemente di quelle politiche, come dimostrano le ripercussioni mondiali della stessa crisi finanziaria. Il difficile momento che sta provocando milioni di disoccupati, inflazione crescente e un incremento dell’indebitamento che durerà per parecchi anni, deve farci riflettere sul fatto che la priorità a breve termine rimane quella di superare con successo la crisi. Barroso sottolinea che, per conseguire un futuro sostenibile, è necessario guardare, da subito, oltre il breve termine. Con questo animo è stata pensata la strategia di “Europa 2020: più posti di lavoro e una vita migliore” che avvalora le capacità dell’Europa di promuovere una crescita sostenibile ed inclusiva, senza tralasciare la ricerca di soluzioni che favoriscano la creazione di nuovi posti di lavoro offrendo, allo stesso tempo, un orientamento alle nostre società. E’ indubbio che l’Europa presenti numerosi punti di forza tra cui quello di poter contare su una forza lavoro capace e su una straordinaria base tecnologica e industriale. La Commissione propone, per il 2020, cinque obiettivi misurabili che guideranno il processo e verranno tradotti in obiettivi nazionali. Tali obiettivi, che riguardano l’occupazione, la ricerca e l’innovazione, il cambiamento climatico e l’energia, l’istruzione e la lotta contro la povertà, rappresentano la strada da intraprendere per una ripresa della crescita. L’obiettivo chiave per il 2020 è quello di porre fine, o almeno limitare fortemente, la perdita di biodiversità e degrado dei servizi Marco Iezzi, Link Campus University ecosistemici ripristinandoli nei limiti del possibile. Dunque in questo senso la crescita sostenibile può essere declinata nella costruzione di un’economia efficiente sotto il profilo delle risorse, sostenibile e competitiva. Utilizzare, quindi, il ruolo guida dell’Europa per sviluppare nuovi processi e tecnologie, comprese le tecnologie verdi, diventa un punto centrale per un corretto sviluppo futuro. E’ altresì importante fare in modo che si possano sfruttare le reti su scala europea aumentando i vantaggi competitivi delle nostre imprese, specie per quanto riguarda l’industria manifatturiera e le stesse imprese di piccole e medie dimensioni. In questo quadro diventa quindi prevalente, e non più differibile, la riduzione massiccia delle emissioni di carbonio nell’atmosfera evitando così il degrado ambientale, la perdita di biodiversità e l’uso non sostenibile delle risorse rafforzando allo stesso tempo la coesione economica, sociale e territoriale. Gli obiettivi europei, in questo ambito, sono riconducibili innanzitutto ad una ricerca di competitività che alcune volte manca nel confronto con gli altri paesi. In particolare le forti pressioni sui mercati di esportazione ci impongono di migliorare la nostra competitività verso i principali partner commerciali incrementando la produttività. L’Unione europea ha fatto da apripista per quanto riguarda le soluzioni verdi, ma la propria posizione di leader è minacciata da alcuni tra i principali concorrenti, ovvero Cina e America settentrionale. E’ necessario quindi che l’Ue conservi la propria posizione di leader sul mercato delle tecnologie verdi per garantire l’uso efficiente delle risorse rilanciando, allo stesso tempo, la competitività industriale. 11 12 europa I nostri giovani - Studi internazionali Edoardo Marconi Il mio impegno nella Commissione europea Edoardo Marconi si è laureato in Studi Internazionali (International Studies) a pieni voti. Ha lavorato per l'Union Mouvement Populaire (il partito di Sarkozy) come assistente al consigliere agli affari europei. Poi all'Institut des Hautes Studes de Defense Nationale ( IASD) nella sezione Unione Europea e successivamente per la Direction Generale de l'Armement (Ministero della difesa francese) nella direzione NATO - U.E. Oggi lavora presso il Parlamento Europeo per il Gruppo del Partito Popolare Europeo nella Commissione Affari esteri e sotto commissione Sicurezza e Difesa. link journal 2/2012 questi ultimi poi, almeno nel mio caso, è stata determinante sia nella redazione della mia tesi di Laurea che in seguito nella scelta vera e propria del mio cammino professionale. Se in questi due ultimi anni dalla laurea sono riuscito a fare delle ottime esperienze in campo internazionale, lo devo sicuramente anche alla Link Campus e ai suoi docenti. Ha avuto difficoltà nell’inserirsi nel mondo del lavoro? Faccio parte di quei laureati che si sono affacciati nel mondo del lavoro in piena crisi. Quindi devo dire che non è stato facile inserirsi nel mondo del lavoro e che per farlo ho dovuto seguire la via estera. Quello che posso dire però è che anche in momenti difficili come quello che stiamo vivendo, se ci dotiamo degli strumenti necessari e di una grande forza di volontà è possibile farcela! Perché, anche se a rilento, il mondo del lavoro continua a girare. Diciamo, quindi, che per riuscire e soprattutto rivalizzare con i nostri coetanei europei è importantissimo parlare più lingue in modo perfetto, sapersi aprire alle differenti culture, non esitare a spostarsi per trovare un impiego, capire in modo imperativo che il mondo è sempre più globalizzato e che non si può più pensare (salvo in alcuni casi) di rimanere statici, fermi nella propria città. L'importante è sapersi mettere in gioco e per fare questo una buona preparazione universitaria è ovviamente necessaria. Quali, secondo Lei, sono le difficoltà dell’Europa a trovare un percorso stabile e comune e quali le difficoltà che incontrano i giovani? Quale è stato il valore aggiunto della Link Campus University per la sua formazione? Parlando di valore aggiunto, devo dire che la Link Campus ha sicuramente contribuito in maniera determinante nel darmi una formazione più completa ed approfondita rispetto ad altre università. Il fatto di poter essere in classi con un numero ristretto di allievi mi ha permesso non solo di seguire con più facilità le lezioni ma soprattutto di approfondire le tematiche più difficili con più calma e concentrazione. Inoltre, questo ha permesso anche di avere un rapporto diretto con i docenti, cosa che rimane assai difficile anche in altre università private. L'ottima formazione di Le difficoltà dell’Europa sono imputabili prima di tutto alla politica che non riesce a prendere decisioni comuni. Molto probabilmente, come ha detto recentemente Romano Prodi, la crisi economica sarebbe stata facilmente tamponabile se ci fossimo mossi tutti prima. La crisi va vista oggi come un’opportunità. Dobbiamo approfittarne per completare un percorso che porterà all’unità politica di tutta l'Europa perché dobbiamo capire che questa è l'unica via ipotizzabile se vogliamo che il nostro continente continui a giocare un ruolo di primo piano nel mondo di domani. Per quanto riguarda i giovani, le difficoltà che si incontrano maggiormente sono legate al confronto con il livello di studi e di formazione dei giovani degli altri paesi. Penso in modo particolare ai tedeschi, agli inglesi, ai francesi... in ambito internazionale capita molto spesso di trovare ragazzi di ventiquattro anni laureati con un master e che parlano correntemente 4 lingue. Ecco questa è la sfida maggiore, alzare il livello dei nostri studi e soprattutto dotarsi di un sistema che impedisca in tutti i modi il fuori corso. Per un giovane di oggi che vuole aprirsi alle sfide del mondo il tempo gioca un ruolo fondamentale nella riuscita della sua carriera. europa link journal 2/2012 E’ necessario, inoltre, ridurre le emissioni molto più rapidamente nel prossimo decennio rispetto a quello passato utilizzando il potenziale delle nuove tecnologie, come la “cattura del carbonio”: cattura e sequestro del carbonio (CCS) saranno, infatti, uno strumento fondamentale per ridurre le emissioni di CO2 che acquisirà maggiore rilievo dal 2020 quando gli impegni di riduzione della CO2 diverranno più stringenti e sarà necessario ricorrere a tutte le tecnologie disponibili. Ad oggi la Ue ha finanziato in Europa 12 impianti dimostrativi (in Italia a Porto Tolle in provincia di Rovigo) che dovrebbero entrare in funzione entro il 2015. E’ convinzione diffusa che un uso più efficiente delle risorse contribuirebbe in misura considerevole a ridurre le emissioni, a far risparmiare denaro e a rilanciare la crescita economica. Questo vale per tutti i comparti dell’economia e non solo per quelli ad alta intensità di emissioni. Dobbiamo inoltre aumentare la resistenza delle nostre economie ai rischi climatici, così come la nostra capacità di prevenzione e risposta alle catastrofi. Se l’Unione europea sarà in grado di conseguire gli obiettivi in materia energetica, è stato stimato un risparmio pari a circa sessanta miliardi di euro di importazioni petrolifere e di gas fino al 2020. Non si tratta solo di un risparmio in termini finanziari, ma di un aspetto essenziale per la nostra sicurezza energetica. Secondo la Ue, la sola realizzazione del 20% di energia da fonti rinnovabili potrebbe creare oltre 600.000 posti di lavoro nell’Unione che potrebbero diventare un milione se si raggiungesse anche l’obiettivo del 20% per l’efficienza energetica. Dunque lavorare su queste priorità vuol dire rispettare gli impegni di riduzione delle emissioni in modo da massimizzare i benefici minimizzando i costi anche attraverso la diffusione di soluzioni tecnologiche innovative. E’ necessario quindi fare un passo in avanti verso la costruzione di un’economia europea più efficiente sotto il profilo delle risorse, in modo da trasferire all’Europa un vantaggio competitivo riducendo al tempo stesso la dipendenza dalle fonti estere di materie prime e prodotti di base. L’Italia sembra aver ben compreso l’importanza del momento e ad aprile di quest’anno sono stati varati gli schemi dei decreti ministeriali che introducono un nuovo regime di incentivazione per le energie rinnovabili e fissano l’obiettivo del 35% di produzione elettrica “verde” al 2020. L’idea di fondo, di queste recentissime misure, è quella di programmare una crescita dell’energia rinnovabile più equilibrata che, oltre a garantire il superamento degli obiettivi comunitari al 2020 (dal 26% a circa il 35% nel settore elettrico), consenta di stabilizzare l’incidenza degli incentivi sulla bolletta elettrica. 13 Europa 2020 Più posti di lavoro e una vita mgliore che avvalora le capacità dell’Europa di promuovere una crescita sostenibile Nel rispetto della diversità nazionale o regionale, per valorizzare il patrimonio culturale comune L’Europa delle culture: la sfida da cui partire L ’Europa rischia di somigliare sempre di più ad un gigante dai piedi d’argilla; troppo spesso, infatti, il vecchio continente si ritrova sospeso tra l’assenza di visioni politiche, la realtà di una mancata crescita e le sfide strategiche globali che, volenti o nolenti, condizionano pesantemente la presenza dell’Europa come “player” globale. Sembrano molto lontani i tempi in cui grandi statisti, e grandi intellettuali, dopo la seconda guerra mondiale pensarono l’Europa come una sfida storica, la immaginarono come un laboMarco Emanuele, Link Campus University ratorio di pace e di prosperità, lavorando insieme – pur provenendo da storie personali differenti – nella condivisione del bene comune come effettiva condizione per il progresso dei popoli e per la loro integrazione, non solo come retorica dichiarazione d’intenti. Ciò che vediamo oggi è lo sfaldarsi di 14 europa quelle idee ed affermo questo senza pessimismo ma con amaro realismo. Nel profondo dell’Europa maturano rassegnazione e incapacità di guardare oltre il presente, quasi che la pesantezza della cappa di vuoto strategico che attanaglia il nostro continente ne schiacci le prospettive, rendendolo privo di futuro; i populismi che percorrono buona parte delle società europee sono il segno che qualcosa si è spezzato, che l’Europa non è percepita al suo interno come una “casa comune” quanto, piuttosto, come un riferimento lontano, inadeguato a garantire stabilità ai popoli europei nei cambiamenti planetari. Un’Europa che guardi ai rivolgimenti in atto nel Mediterraneo soltanto in termini di “urgenza”, di fatto assente come continente nell’accompagnamento delle dinamiche e dei processi in atto, è un’Europa fragile, che naviga a vista, che subisce i processi globali anziché contribuire a determinarli; ciò che va recuperato, al di là di bilanciare equilibri continentali evidentemente sbilanciati (si pensi, solo ad esempio, al problema irrisolto di una “voce europea” in settori strategici tuttora lasciati alle determinazioni nazionali, al ruolo ancora troppo marginale del Parlamento Europeo come Istituzione eletta, alle debolezze dell’euro come moneta unica, alla Banca Centrale Europea che non ha il ruolo di prestatore di ultima istanza), è l’Europa come grande “laboratorio culturale”. Siamo depositari di importanti tradizioni che, nel corso dei secoli, hanno contribuito a formarci come soggetti “titolari” di identità differenti; l’urgenza, oggi, è di guardare oltre i nostri territori di appartenenza, “discutendo” il dato identitario in chiave dinamica ed aprendolo alla realtà viva del mondo. L’Europa di oggi è un continente multietnico ancora pesantemente caratterizzato da un forte provincialismo che quasi sembra negare la sua stessa evidenza. Cosa significa, oggi, essere europei? Essere europei, prima di tutto “sentendosi” tali, significa anzitutto mettersi “in dialogo” con le tradizioni “altre” ed a noi vicine, non averne paura e considerarle, al di là dei rapporti di forza che caratterizzano la politica internazionale, come parte di noi, da scoprire in continuo, con le quali comunicarsi, relazionarsi, integrarsi. L’Europa ha nel Mediterraneo il suo “cuore pulsante” e, per questo, è “missione europea” il ricongiungere le sponde del “Mare Nostrum”, prima di tutto culturalmente (nel dialogo interculturale ed interreligioso) e politicamente (attraverso la condivisione di un progetto euro-mediterraneo che, alla luce dei fatti e dopo il fallimento del processo di Barcellona e dell’Unione per il Mediterraneo, non può più attendere). “Europa delle culture” è qualcosa in più di un semplice slogan; è la sfida da cui partire, insieme, per giocare la partita della storia. Anziché link journal 2/2012 dividerci, come accade, sull’ingresso della Turchia in Europa dovremmo sforzarci, classi dirigenti in testa, di capovolgere l’approccio e di pensare all’Europa come “ponte” fra un Occidente in evidente crisi di convivenza ed un Oriente che, sul lungo termine, potrà garantirsi uno spazio strategico soltanto ripensandosi come “cooperante” e non come parte “dominante” del mondo. O ci salviamo tutti insieme o non si salva nessuno. La Turchia gioca un ruolo fondamentale, non solo geograficamente; è necessario, a questo punto, uno sforzo reciproco di volontà e di creatività per avvicinare davvero e profondamente mondi che faticano a considerarsi una cosa sola. Integrare nel dialogo tradizioni culturali e religiose differenti significa capire che la realtà è un “prisma complesso” e che ogni tradizione è un percorso necessario ma non sufficiente per leggerla, per interpretarla e, conseguentemente, per governarla. Quando parliamo di democrazia nel Mediterraneo e in Paesi come la Turchia, potenza in netta crescita, siamo tentati di portare la nostra idea che, spesso, non tiene conto di come la democrazia si ridefinisca nell’evolversi dei sistemi Paese e delle realtà regionali. Per fare democrazia, adeguandola progressivamente all’avanzamento delle dinamiche planetarie, siamo chiamati a ripensarci culturalmente, disponibili a farlo in funzione dell’ “altro”, parte di noi che ancora non conosciamo. Molta letteratura dimostra che la democrazia è fragile, mai “data” una volta per sempre. La democrazia è integrazione di processi che nascono e si consolidano operando progressivamente, con intelligenza e costanza, fra tradizione ed innovazione progettuale. Le sfide che caratterizzano la globalizzazione, che questa esalta, ci chiamano ad “allargare” lo sguardo sulla realtà, a comprendere che le nostre convinzioni e le nostre Istituzioni, per quanto importanti, rischiano di non rappresentare più la realtà per quella che è; basti pensare alle conseguenze che, prima di tutto sul piano culturale, sono portate dalle grandi migrazioni che rendono le società europee (e non solo) sempre più multietniche (basta guardare le nostre città per rendersene conto). Ciò che capita nel Mediterraneo, processo tutt’altro che concluso, porta con sé la necessità di superare approcci lineari, di predisporci alla complessità dei fenomeni senza l’ansia di determinarli dall’alto; i processi storici vanno partecipati e il più possibile condivisi e, per fare ciò, è necessario conoscerli. Il dialogo interculturale ed interreligioso è sempre profondo, mai superficiale o retorico; la vera crisi, dunque, guardando all’Europa e alle sue inadeguatezze, è in primo luogo culturale. Non conosciamo più le nostre tradizioni (l’Italia e la Grecia, internazionale link journal 2/2012 15 BRICS: un’opportunità da non perdere per le aziende italiane solo per fare due esempi, rappresentano molto di più di quanto viene “misurato” dai burocrati di Bruxelles e dalle agenzie di rating) e ci permettiamo di giudicare quelle altrui di cui, molto spesso, non abbiamo minimamente contezza. Credo che i giovani possano garantire all’ “Europa delle culture” un futuro positivo; al di là delle parole vuote, compito di una formazione “pertinente” (soprattutto, ma non esclusivamente, universitaria) è di instillare nelle giovani generazioni la voglia e la passione per la conoscenza, recuperando l’essenza di ciò che l’Europa (e in essa i Paesi che la costituiscono) ha generato culturalmente nei secoli passati e di ciò che potrà essere guardando oltre se stessa, oltre i confini degli Stati nazionali, nella verità della realtà planetaria, a cominciare da quel Mediterraneo che è parte integrante della sua (e della nostra) storia. A tre anni dalla prima riunione di Ekaterinburg, in Russia, i BRICS si sono nuovamente incontrati lo scorso 29 marzo, questa volta a Nuova Delhi. I pesi massimi dell’economia e della demografia mondiale hanno espresso il loro punto di vista sulle crisi politiche in atto (Siria, Iran e Afghanistan in particolare) ma, soprattutto, sul futuro dell’economia, dopo quattro anni di incessante e sfibrante crisi. La posizione dei nuovi cinque grandi è inequivocabile: l’Occidente deve fare di più per mettere in sicurezza la propria economia e risanare i debiti, per scongiurare una tempesta perfetta che avrebbe effetti negativi anche su quella crescita del PIL che serve ai governi dei BRICS per alimentare sviluppo interno e pace sociale. I numeri sono dalla loro parte e così aumenta anche il tono delle richieste, in particolare quella di veder soddisfatta l’ambizione a sedere ai tavoli che più contano. Presto, molto presto, potrebbe esserci una riconfigurazione dei pesi all’interno di organismi come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale. Ed è lì che i BRICS vogliono far sentire la loro capacità di influenza sugli affari globali. Si sa che parlare con un’unica voce serve a farsi ascoltare meglio; ed è questo lo spirito con cui Cina, India, Brasile, Russia e Sudafrica si incontrano periodicamente. Ma è altrettanto vero che non pochi e non di poco conto sono i motivi che dividono i contendenti e li mettono su un piano di competizione. Non fanno eccezione le regole del commercio internazionale, la grande arena nella quale si giocano i destini di molte economie, soprattutto di quelle emergenti. La crisi ha inferto un colpo a quelle speranze di “gioiosa mondializzazione” che hanno animato le prime sedute dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Ormai il pianeta si muove in ordine sparso, sulla base di meccanismi commerciali, tariffari e monetari che riportano l’orologio indietro nel tempo, a qualcosa di più vicino al protezionismo che a un libero scambio globale. Qualcuno profetizza perfino una “guerra di monete”, un conflitto asimmetrico su vasta scala combattuto a suon di denaro, tra creditori e debitori, e non di cannonate. A Pechino un tasso di cambio dello yuan decisamente sottovalutato e le pesanti sovvenzioni alle principali industrie di Stato sono servite a far crescere l’economia a ritmi frenetici, anche in piena crisi. Questo tipo di concorrenza non ha soltanto danneggiato le economie occidentali ma anche quelle dei paesi emergenti, a cominciare dal Brasile, ad esempio, che di recente ha risposto con aggiustamenti del tasso di cambio del real e con misure al limite del protezionismo. E’ un’arena caotica, quella delle regole del commercio globale, se la guardiamo nell’ottica della concorrenza tra Sistemi economici. La fortuna dell’uno è spesso sventura per l’altro, e questo stride sonoramente con il sogno di un grande mercato libero, aperto e diretto a ottenere maggiori benefici e vantaggi per tutti. Diversa è l’immagine se si guarda alle opportunità offerte dai mercati emergenti dei BRICS. Per le nostre aziende e per le capacità che abbiamo consolidato in Europa, e Gianluca Ansalone, Link Campus University 16 internazionale link journal 2/2012 L’Africa tra diplomazia militare e pragmatismo La Cina sfida l’Europa: una nuova forza contro l’egemonia neoliberista? Q non solo, è lì la nuova frontiera delle opportunità. Soltanto in Asia, di qui al 2020, ci sarà una classe media di quasi 800 milioni di persone, che avranno voglia di consumare e di mangiare “alla occidentale” e, se possibile, alla europea e all’italiana. Le due cose possono, anzi devono, andare assieme: cogliere l’opportunità dei nuovi mercati, quelli dei BRICS, ma anche riannodare i fili spezzati di una governance globale dell’economia e del commercio, riprendendo lo spirito di due momenti fondanti della vita del mondo contemporaneo. Bretton Woods e Marrakesh, da dove tutto ebbe inizio. Oggi più che mai appare evidente che o si cresce tutti assieme o la debolezza del sistema finisce per danneggiare tutti. Il commercio è l’ossatura principale di una nuova architettura di sicurezza economica che è urgente realizzare. Lo si deve fare consapevoli che lo scenario di riferimento si fa ogni giorno più complesso, soprattutto a causa della diffusione delle tecnologie informatiche e di comunicazione. Quando partirono i negoziati per il WTO i computer non governavano qualsiasi aspetto della nostra vita quotidiana. Oggi, parlare di tutela dei marchi, dei brevetti e della proprietà intellettuale significa fare i conti con l’immensa rete del cyberspazio, che non solo custodisce il patrimonio delle aziende e di intere economie ma che è essa stessa luogo virtuale nel quale si commercia. Su questi ed altri aspetti ci si attende uno scatto in avanti da parte dei governi. Anche di quelli dei BRICS, che hanno l’opportunità di dimostrare la volontà di essere attori protagonisti e responsabili di un sistema davvero globalizzato e aperto. E nel quale c’è spazio per una crescita condivisa. uando in Europa ci accingiamo a parlare di Africa partiamo sempre dal presupposto che contraddistinguiamo quel continente come terreno di conquista e di sfruttamento. La questione coloniale è una vena che resta aperta nelle nostre relazioni, infatti vi sono molte ragioni storiche che ci costringono a parlare, ancor oggi, di dominio europeo. Per prolungato tempo questo ha costretto le deboli economie africane in attività solo funzionali agli interessi europei, spesso utilizzando la forza sia per la conquista del territorio, sia per convincere gli indigeni al lavoro, fino ad arrivare a strutturare un sistema economico basato su una forte imposizione di tasse. Tali pratiche hanno avuto conseguenze distruttive sulle società africane, trasformando l’agricoltura verso produzioni indirizzate soprattutto ai mercati europei, di fatto non orientandosi verso l’attività industriale e condannando quindi le popolazioni ad una condizione di sottosviluppo. Nessuna azione compensativa da parte dei colonizzatori europei si è mai dimostrata sufficiente, anzi l’azione complessa ha portato nel tempo a spezzare l’equilibrio etnico-ambientale costruendo una economia artificiale ed impropria. Durante la decolonizzazione la mancanza di una società strutturata ha evidenziato i problemi. I dominatori europei avevano stravolto non solo Stati e istituzioni africane, ma purtroppo anche le identità culturali, impossibile ritornare indietro. Molti confini erano cambiati, se ne erano costruiti nuovi che non rispettavano le tribù, che in Africa costituiva, da sempre una unità sociale determinata, non conforme al confine territoriale e che antropologicamente di distingueva dal concetto di stato. Le rivalità etniche e tribali non furono mai totalmente comprese dagli europei. A tutto questo si aggiunse l’esplosione demografica, che con l’indebolimento del settore agricolo, condusse l’Africa all’impoverimento costante e all’instabilità politica. L’Europa, iniziò così a considerare l’Africa meno interessante, sia dal punto di vista politico che economico. L’opportunità si stava spesso trasformando in problema, eppure dai dati si poteva rilevare ad esempio che a metà degli anni 2000, l’Africa aveva avuto il livello di crescita più alto degli ultimi 30 anni, Alessandro Figus, Link Campus University link journal 2/2012 internazionale arrivando a sfiorare il 6%. Qualcosa stava cambiando ma non per merito degli europei o della discesa in campo dell’Unione europea, bensì per la politica di investimenti della Cina che dagli anni ’90 aveva deciso di intensificare la sua attività diplomatica agendo in Africa con una politica integrata e regionale, basata su una ricerca mirata sia dal punto di vista economico che da quello logistico e strategico. Nonostante che gli europei fossero presenti da molto tempo non erano riusciti a intendere ciò la Cina aveva compreso, cioè che anche in Africa era importante applicare una politica di neutralità assoluta e di non ingerenza, politica favorita da ragioni storiche che non l’avevano coinvolta nel processo di colonizzazione, anche se dal punto di vista commerciale l’Africa ha sempre costituito una attrazione per il mercato cinese, privilegiata anche dalla sua idea anti imperialista. Con la salita al potere di Mao si rafforzano infine anche i legami politici. Durante la fase di decolonizzazione invece la Cina approfitta della situazione ed invia aiuti militari e finanziari e si avvantaggia poi della guerra fredda che la vede in Africa una disputa con i russi. La decolonizzazione offre di colpo alla Cina opportunità politiche culturali ed economiche. Si arriva così agli anni ’80, anni in cui la Cina si concentra sul suo sviluppo. È a partire degli anni ’90 che si ritorna ad un investimento massiccio in Africa. La Cina costruisce in quegli anni il suo successo di oggi, elaborando strategie opposte a quelle europee e puntando cioè sulla non ingerenza interna, rispetto della sovranità e integrità territoriale e soprattutto ponendo alla base una coesistenza pacifica. In quegli anni la Cina crea i presupposti per una silenziosa conquista economica dell’Africa. Gli aiuti finanziari cinesi riscuotono successo, al contrario l’ingerenza europea continua. Ne è l’emblema uno dei membri fondatori dell’Unione europea, la Francia, che in molti paesi africani continua ad intervenire, anche militarmente, non ultima l’azione in Costa d’Avorio. L’Africa diventa per la Cina quello che era per l’Europa: una indispensabile area da sfruttare. La crescita demografica cinese, nonostante le nuove regolazioni delle nascite, stenta a fermarsi e la Cina continua il suo crescente sviluppo. L’Africa 17 può offrire energia e materie prime e ricevere contemporaneamente manufatti cinesi a buon mercato. Certo parliamo di Cina potenza economica, ma non dimentichiamo che il gioco diventa anche politico, vista la consistenza numerica dei paesi africani rappresentati all’ONU, e la Cina ha due questioni aperte: Tibet e Taiwan. In questo scenario è evidente che la Cina tende a sostituirsi all’azione politica e commerciale dell’Unione europea e dei suoi singoli membri. L’Unione europea si orienta sempre più verso l’Asia ed il sud est asiatico, non riuscendo ad agire con la stessa forza nei paesi colonizzati africani, trasformati in stati indipendenti. Il rapporto e le relazioni sono cambiate e l’Africa preferisce interagire con nuovi soggetti, più disponibili a immettere risorse finanziarie fresche per lo sviluppo delle infrastrutture, dell’educazione, del sistema sanitario, ecc. che permettano agli africani di lasciare alle spalle il vecchio modello assistenzialista europeo, sostituito da un modello basato sulla produzione competitiva e la libera concorrenza di mercato. In questo contesto diventa difficile credere che sia attuabile il partenariato trilaterale proposto nel 2008 tra l’Unione europea, l’Africa e la Cina che dovrebbe contribuire a far fronte alle sfide mondiali legate allo sviluppo e ad adattare meglio le strategie di cooperazione alle esigenze dell'Africa basandosi su obiettivi comuni, definiti in maniera progressiva e coerenti con le strategie di sviluppo nazionale e regionale. Alle parole la Cina, intanto risponde con i fatti, cioè con moneta sonante. Un regalo importante, quello che la Cina ha fatto quest’anno all'Unione africana, pagando la nuova sede che sorge ad Addis Abeba. Un imponente complesso di 30 piani, alto un centinaio di metri, costato più di 150 milioni di euro, completo addirittura dell'arredamento e che potrà ospitare 700 inviati dei 54 stati membri dell'organismo e un eliporto. Pechino non fa mancare proprio nulla ai suoi amici africani. La Cina sa di essere diventata per gli stati africani un partner globale ed equilibrato, ma soprattutto di essere l’alternativa all’Unione europea nel continente nero. All’Europa resterà il ruolo di spettatore? 18 internazionale link journal 2/2012 Unione Europea e Mercosur: un bilancio e una prospettiva N ell’esaminare i possibili sviluppi dei rapporti tra l’Unione Europea e il Mercosur (l’area di libero scambio che dal 1991 unisce Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) si rischia di dover coniugare i tempi al passato nella peggiore delle ipotesi e al condizionale nella migliore, alla luce della recente decisione della Presidente Kirchner di nazionalizzare la maggioranza del pacchetto delle azioni della società petrolifera argentina YPF in mano alla spagnola Repsol. Viene da temere che il lungo tempo trascorso dall’inizio del negoziato (1999), la prolungata battuta di arresto (2004-2010), la ripresa incagliatasi sui dettagli finali, possano aver fatto perdere il momentum e che si stia aprendo una fase di confronto piuttosto che di collaborazione. Eppure l’Europa, soprattutto in questo momento di modesta crescita e rigore fiscale, non può permettersi il rischio di perdere un Continente come l’America Latina al quale non solo è legata da vincoli storici, culturali e sociali ma che oggi sulla scena internazionale rappresenta una delle aree economiche e politiche più dinamiche e in maggiore crescita, seconda solamente all’Asia il cui accesso per l’Europa è peraltro meno agevole. Le premesse erano buone: nel 1995 entrava in vigore l’Accordo Quadro che lega l’Unione Europea al Mercosur e si nutriva l’ambizione di firmare un Accordo di Associazione. La scelta di avvicinare i due blocchi conserva tutta la sua validità: il Mercosur è dopotutto il quarto blocco economico su scala mondiale, dopo l’Unione Europea, la NAFTA e l’ASEN. Se associate, le due Regioni formerebbero un’area poderosa, unica al mondo, capace di coinvolgere 750 milioni di persone che già oggi scambiano merci e servizi per un valore complessivo di più di 100 miliardi di dollari all’anno. Allargando lo sguardo al resto del Sub Continente l'Unione Europea e l'America latina e i Caraibi rappresentano un insieme di oltre un miliardo di persone e un terzo degli Stati membri delle Nazioni Unite. Le basi sono solide e fondate: l'Unione Europea è stata il principale donatore di aiuti allo sviluppo, il principale investitore e il secondo partner commerciale in America Latina (il primo nel Mercosur e in Cile) e, dalla creazione del partenariato strategico biregionale, nel 1999, ha finanziato progetti e programmi per un totale pari a oltre 3 miliardi di euro. I negoziati UE-Mercosur I primi contatti tra l’UE e il Mercosur risalgono al 1992, data dell’Accordo interistituzionale il cui obiettivo era di trasmet tere al gruppo dei Paesi Latino Americani l’esperienza acquisita dall’UE. Successivamente, il 15 dicembre del 1995, è stato firmato l’Accordo-Quadro di cooperazione che si è posto come obiettivo finale la nascita, entro il 2005, di un Accordo di Associazione capace di creare un’area di libero scambio intercontinentale (la prima nel mondo) tra l’UE e il Mercosur. Le trattative per la nascita dell’Accordo di Associazione sono state avviate nel 2000 ma si sono interrotte nel 2004 per riprendere nel 2010.In ogni caso, l’Accordo di Associazione rimane ancora un obiettivo da raggiungere. L'Accordo Quadro si basa su tre aspetti concreti: 1) cooperazione politica avanzata tra le due organizzazioni su base consultiva; 2) progressiva e reciproca liberalizzazione del commercio; 3) rafforzamento della cooperazione in diversi settori economici, inclusa la promozione d’investimenti, che dovranno essere completati attraverso la stipulazione dell'Accordo di associazione. Per una decina d’anni gli incontri sono avvenuti ma in forma abbastanza sporadica fino ad arenarsi completamente dal 2004 fino al 2010. Infatti, solo il 4 maggio del 2010 (durante l’incontro tra le parti a Bruxelles) e il 17 maggio dello stesso anno a Madrid (in occasione del vertice tra l’UE e l’America Latina) la Commissione Europea ha espresso formalmente la volontà di riprendere i negoziati con l’obiettivo di raggiungere un accordo di libero commercio con il Mercosur. Le ragioni e le responsabilità dello stallo durato ben 6 anni possono essere equamente divise tra le parti: - l’aumento consistente delle pressioni delle lobbies degli agricoltori europei, preoccupati per un accordo che avrebbe facilitato l’ingresso a buon mercato in Europa dei prodotti agricoli latino americani; - il rafforzamento del ruolo del Parlamento Europeo rispetto a tutti gli accordi internazionali sottoscritti dalla Commissione Europea. Il Parlamento si è mostrato molto più vigile per quanto riguarda eventuali concessioni in materia commerciale; - la tendenza dell’Argentina a prendere misure unilaterali di protezionismo; - i cambiamenti d’umore degli industriali brasiliani verso l’abbassamento delle barriere tariffarie. Luigi Maccotta, Vice Direttore Generale e Direttore per i Paesi dell’America Latina del MAE link journal 2/2012 internazionale L’Accordo Mercosur-Ue presenta, in ogni caso, interessanti prospettive sul piano dei commerci internazionali in quanto i due blocchi potrebbero avvantaggiarsi dei molteplici accordi che hanno rispettivamente firmato con il resto del Mondo, con effetti moltiplicativi. Le finalità dell’Accordo di Associazione L'obiettivo ultimo del partenariato strategico biregionale UEAmerica latina avviato nel 1999 consiste nella creazione di un'area euro-latinoamericana di collaborazione intorno al 2015 in ambito politico, economico, commerciale, sociale e culturale, che garantisca uno sviluppo sostenibile per ambedue le Regioni, inserendovi una dimensione sociale che va aldilà dei suoi aspetti commerciali e che ha come obiettivo generale l’aumento della coesione sociale. Tale dimensione deve, in particolare, riguardare l’impatto dell’Accordo sull’occupazione, sulla tutela degli interessi delle popolazioni locali e sui gruppi maggiormente vulnerabili, sulla promozione, nonché sul rispetto dei diritti umani, sulla protezione ambientale e sui diritti degli immigrati e dei lavoratori in generale. L’idea di arrivare a un’Associazione Interregionale con due aree geografiche di due Continenti diversi rappresenta sicuramente una sfida molto complessa. Del resto si tratta di abbinare sviluppo commerciale ed economico alla cooperazione e al dialogo politico. Generalmente nei negoziati commerciali gli obiettivi finali sono chiari e facilmente identificabili mentre nei programmi di cooperazione i traguardi sono più generici in quanto debbono far convergere obiettivi economici con quelli sociali. Inoltre, come qualsiasi accordo Nord-Sud la componente del libero commercio rappresenta una priorità per i paesi del Mercosur, interessati soprattutto a eliminare le barriere che proteggono alcuni beni per i quali hanno dei vantaggi comparativi (agricoltura, tessile) mentre per i Paesi europei l’agenda politica e della cooperazione hanno la precedenza. Sul piano politico le parti hanno istituzionalizzato un dialogo periodico con riunioni tra i Ministri degli esteri dell’Unione, del Mercosur e del Cile allo scopo di consolidare un’associazione strategica. I temi centrali del dialogo sono la pace e la stabilità, la prevenzione di conflitti, la promozione e protezione dei diritti umani, la democrazia, lo stato di diritto, lo sviluppo sostenibile, la lotta al terrorismo, il riciclaggio di denaro, il traffico della droga. A livello parlamentare si è sviluppata l’istituzionalizzazione della collaborazione politica tra Unione, Mercosur e Cile. Sul piano della cooperazione è previsto il rafforzamento della cooperazione economica finanziaria e tecnica con il supporto di tre gruppi di lavoro. In particolare il gruppo finalizzato alla cooperazione tecnica ha importanza rilevante perché ha come obiettivo il consolidamento degli organismi istituzionali del Mercosur. Inoltre persegue il raf- 19 forzento della competitività internazionale, delle relazioni economiche e sociali tra le parti e lo sviluppo tecnologico e scientifico. Va detto, però, che in ambito UE per quanto riguarda il settore più controverso, quello agricolo, la Commissione Europea ha proposto di liberalizzare il 90% delle esportazioni agricole del Mercosur. Di questo 90% il 60% attualmente già entra liberamente nel mercato europeo. Dalla proposta europea sono stati esclusi i seguenti prodotti considerati sensibili (che per i Paesi del Mercosur vengono invece considerati indispensabili): cereali, riso, carne, pollame, frutta e verdura (corrispondono al 10% del commercio del settore agricolo). Una maggiore liberalizzazione di questi prodotti si potrebbe ottenere attraverso la concessione di quote tariffarie preferenziali. Inoltre l’UE preferisce che il tema dei sussidi e più complessivamente tutti gli aspetti attinenti alla PAC siano trattati in ambito OMC dato che una totale apertura dell’UE verso i prodotti agricoli del Mercosur potrebbe alimentare dei contrasti con altri Paesi, tra cui Stati Uniti, Messico e Australia. Per quanto riguarda, invece, il settore più controverso attinente al Mercosur, quello industriale, la proposta dei sudamericani è stata di una riduzione tariffaria del 33,1% sulle importazioni, considerata troppo modesta dall’UE. Dall’offerta è stato escluso il settore auto, considerato il più sensibile per il Mercosur mentre rappresenta una priorità per l’UE. Per quanto riguarda i servizi va ricordato che essi rappresentano il 20% del commercio tra i due blocchi. L’UE ha proposto di liberalizzare immediatamente tutti i settori (trasporto marittimo, finanziari e telecomunicazioni) eccetto gli audiovisivi, il cabotaggio marittimo e il trasporto aereo. Su questo terreno fortunatamente la proposta del Mercosur, che segue lo schema del Gats, ha molti punti di convergenza con quella dell’UE. Nel settore degli appalti pubblici la proposta dell’UE è di liberalizzare tutti i tipi di appalti, beni, servizi e opere. Al momento non esiste ancora sul tavolo delle negoziazioni l’offerta dei paesi del Mercosur. Si prevede tuttavia che su questo punto la trattativa dovrà trovare dei settori di compensazione, essendo i mercati del Mercosur più esposti alla concorrenza di quelli dell’UE. Nel corso degli anni sono stati comunque raggiunti alcuni risultati positivi per quanto riguarda i rapporti UE-Mercosur. Sul piano sociale, l’Accordo di Associazione offrirà indubbiamente un’ottima opportunità per mettere in pratica le disposizioni dell’Agenda Sociale europea, nella quale si raccomanda il rafforzamento della dimensione sociale delle relazioni esterne dell’UE. La partecipazione attiva delle diverse categorie della società civile, da entrambe le parti, diventa un elemento fondamentale perché la liberalizzazione del commercio e dell’apertura dei mercati possa portare a un incremento della coesione sociale. 20 internazionale Un contributo importante alla soluzione dei problemi è atteso dalle 11 Commissioni di lavoro che dovrebbero definire in termini giuridici le problematiche riguardanti: a) il libero accesso ai mercati; b) la regolamentazione dell’origine dei prodotti; c) la rimozione degli ostacoli tecnici e burocratici; d) le questioni sanitarie e fitosanitarie; e) i diritti di proprietà intellettuale; f) la risoluzione delle controversie; g) la concorrenza; h) le politiche commerciali; i) l’armonizzazione doganale; j) i servizi e gli investimenti; k) gli appalti pubblici. link journal 2/2012 ma non impossibile, la stessa dissoluzione del Mercosur nel caso l’Argentina non cambi rotta, il suo riassorbimento nell’UNASUR. Il Mercosur è, infatti, rimasto un’unione doganale imperfetta, sempre meno in grado di conciliare gli interessi divergenti di membri troppo eterogenei e con agende che si vanno distanziando. Lo pensano i paesi più piccoli, in primis gli uruguaiani, che si domandano se non sia in ultima analisi più conveniente riprendere la strada degli accordi bilaterali di libero scambio con UE, USA, Cina e Giappone. La posizione dell’Europa Un tentativo di recupero da parte europea, o anche solamente di conservazione delle proprie posizioni in America Latina, non sarà un`impresa semplice perché dovrà invertire il corso della storia dei rapporti tra i due Continenti e anche gli approcci economici e commerciali. Nel frattempo è in corso il piano 2007-2013 inserito nel Documento di strategia per l`America Latina (DSR). Questo piano ha come scopo principale quello di rafforzare l`Associazione tra le due aree dal punto di vista politico, economico e sociale. A tale scopo sono stati elaborati due Programmi Indicativi Regionali (Pir). Il primo riguardava gli anni 2007-2010 mentre il secondo si riferiva agli anni 2011-2013. Complessivamente sono stati stanziati 556 milioni di Euro così ripartiti: il 35% per la coesione sociale, il 25% per l`integrazione Regionale e il 40% per la formazione e le sfide Regionali. L`Unione Europea ha anche indicato due priorità assolute: la coesione sociale e gli investimenti nella formazione delle risorse umane e la comprensione reciproca. Opportunità per l’Italia L’Italia si è tradizionalmente attivamente spesa per la positiva conclusione dei negoziati UE-Mercosur e non solo per motivi sentimentali, in quanto nei quattro Paesi del Mercosur si calcola che vivano oltre trenta milioni d’italiani o oriundi italiani, (in Brasile (25 milioni d’italiani e oriundi), in Argentina (5 milioni), in Uruguay (350 mila) infine in Paraguay (300 mila), ma anche, più prosaicamente calcolando le ottime prospettive economico-commerciali offerte da una più stretta collaborazione tra le due aree. Tra i settori che maggiormente potrebbero interessare l’Italia, possiamo sicuramente collocare l’agro-industriale dato che Brasile e Argentina sono tra i più grandi produttori di grano nel mondo mentre l’Italia è uno dei paesi leader nel settore del macchinario agricolo, nonché sul piano della tecnologia per l’agro alimentazione e l’agroindustria. Quindi l’Italia potrebbe svolgere un ruolo di primo piano nell’ambito dell’intera catena produttiva alimentare, soprattutto con la creazione di società miste. Quest’aspetto, da solo, già rende bene l’idea di quanto l’Accordo di Associazione sia estremamente interessante per l’Italia. Lo stesso discorso vale per la biotecnologia nella quale l’Argentina è leader in tutto il Sud America, ma tutta la regione del Mercosur potrebbe diventare una grande piattaforma dedicata a trasformare l’acqua e l’ energia solare in diversi prodotti. In America Latina permangono, ad esempio, molte perplessità sulla politica dell'Unione Europea in materia d'immigrazione. Occorrerà, quindi, pervenire ad accordi che tengano conto degli interessi legittimi dei partner eurolatinoamericani in merito a un tema così sensibile. Dal canto suo, l’Europa denota una generalizzata ripresa d’interesse verso il Continente Latino Americano. Oltre che con il Mercosur sono stati rilanciati, ad esempio, i rapporti con altri Paesi e raggruppamenti dell’Area, tra cui il Patto Andino, e separatamente con la Colombia e il Perù (in forma congiunta), per non parlare del Messico, un Paese particolarmente attivo in questo momento sulla scena internazionale e l’America Centrale. Nessun esito è predeterminato e non si può, al momento, escludere nessun sviluppo, a partire ovviamente da un secondo congelamento dei negoziati, al loro perdurante stallo, oppure, ipotesi estrema L’Accordo di Associazione Mercosur-UE può quindi trasformarsi in una chiave determinante per aumentare sensibilmente il reciproco potenziamento industriale, lungo una originale filiera di cooperazione che coinvolga fattori quali l’innovazione e i trasferimenti di tecnologia, la conoscenza e l’aumento della competitività per superare logiche meramente mercantilistiche. Oggi molti analisti sono concordi nel sostenere che presto la tanto discussa e criticata economia finanziaria è destinata a cedere nuovamente il passo all’economia reale, alla produzione e alla lavorazione delle materie prima. Ancora esistono margini per la creazione di gruppi misti di piccole e medie aziende italo-latinoamericane con grandi possibilità di sviluppo. Ma sarebbe necessario che il mondo industriale italiano si muova velocemente e che a livello politico si arrivi quanto prima alla firma dell’Accordo di Associazione Mercosur-UE. link journal 1/2012 internazionale I nostri giovani - Giurisprudenza Giulio Coppi Sono sulle frontiere del mondo che cambia Giulio Coppi si è laureato in Giurisprudenza (International Ligal Affairs) a pieni voti. Attualmente lavora presso il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR). Le sue esperienze professionali sono state: Delegato alla Protezione presso ICRC, Consulente legale (consulente esterno pro bono, risorse umane e diritto internazionale umanitario) presso OCASA, Project Manager presso Social Opportunities Generating Network (RGOS), Project Assistant in the Regional Office for Central Asia. E’ stato Segretario generale della PRG Dinamica. 21 tarmi oltre la mera applicazione dello studio sui libri di testo. L'ambiente dinamico ed informale della Link Camèpus. mi ha permesso di mettere alla prova le mie capacità in attività sociali, manageriali e professionali che mi hanno aiutato a scegliere il mio cammino e bussare con consapevolezza e preparazione alle porte di chi sarebbe diventato poi mio collega o datore di lavoro. Quali, secondo Lei, le maggiori difficoltà per un giovane a trovare una soluzione lavorativa stabile e quali le caratteristiche richieste? Il problema principale è l'arretratezza del sistema-paese su quasi tutti i fronti. Un paese che è più impegnato a conservare ciò che ha piuttosto che investire per dare spazio a nuove energie e stimoli non ha nulla da offrire ai suoi giovani. Da che mondo è mondo i figli vogliono andare oltre il lavoro dei padri, ed i padri vogliono creare nuovi orizzonti per i figli. Negli ultimi decennio il meccanismo in Italia si è inceppato, il sistema si è concentrato nel dare di più a chi già aveva sacrificando così coloro che ancora dovevano costruire le basi del proprio avvenire. In un quadro simile, sfortunatamente le finestre di opportunità sono scarsissime e richiedono molta competitività ma soprattutto differenziazione. In un mondo di laureati, vince chi offre qualcosa in più del "pezzo di carta". Questo richiede dunque molto spirito di sacrificio, ma anche molta fantasia e coraggio. Come interpreta, dal suo osservatorio, l’evoluzione della crisi economica globale. Quali sono le caratteristiche del suo lavoro e quale ruolo svolge? Quale è stato il valore aggiunto della Link Campus University per la sua formazione? La Link Campus ha rappresentato la palestra ideale per esercitare la mente e lo spirito in attività che potessero por- Il mio osservatorio, un ufficio nel mezzo della selva colombiana, non è esattamente il posto migliore per lanciarsi in analisi economiche. Il mio lavoro si svolge piuttosto nel quadro delle crisi umanitarie, lavoro infatti con il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) che è da sempre il custode delle Convenzioni di Ginevra. Il mio ruolo è dirigere un ufficio al confine tra Colombia, Ecuador e Peru, in una zona di conflitto a bassa intensità tra moleplici attori: Esercito, Fronte Armato Rivoluzionario della Colombia Esercito del Popolo (FARC-EP) e nuovi gruppi emergenti. Le nostre attività si concentrano soprattutto nella protezione della popolazione civile, appoggio alla missione medica, e attenzione ai prigionieri/detenuti in relazione al conflitto armato. 22 cooperazione internazionale link journal 2/2012 Ancora qualche questione su movimenti e sviluppo sostenibile Da Corleone ai Gorilla: quando l’Assemblea non è tutto G ennaio 2001, Corleone, Sicilia. Per conto della Prefettura di Palermo sono impegnato in un progetto per il riutilizzo di 170 ettari di terreno confiscati al capo-mafia Totò Riina. La scelta è di passare dalla produzione estensiva di cereali, realizzata con poche persone, un grande trattore e fertilizzanti chimici vari, al rilancio di produzioni tipiche locali: dalle erbe officinali al vino tratto da un vigneto tradizionale fin lì lasciato in abbandono. Si intendono seguire criteri di agricoltura biologica, dando occupazione ad una cooperativa sociale di una ventina di giovani del luogo. I conti parlano chiaro. La redditività data a Riina dal vecchio uso dei terreni potrà essere raggiunta solo dopo ben 10 anni di lavoro basato sul ripristino e la vendita delle nuove produzioni, come prevede il Progetto. Solo dopo, la stima del nostro “business plan” indica una tendenza decisa all’incremento. Proviamo ora ad immaginare una assemblea di imprenditori chiamati a decidere sul modello di business da adottare in questo caso (dobbiamo assumere, ovviamente, che anche una assemblea di imprenditori sia legittimata ad esprimersi così come lo è una di giovani che intendono cambiare le leggi sulla scuola). Come pensate che voterebbe? Senza scomodare la teoria economica della “preferenza temporale”, lo stesso senso comune ci indica la risposta: penserebbe quasi all’unanimità che è meglio un ritorno dell’investimento il più “a breve” possibile. Meno rischi, più guadagni subito. Poi si vede. Chi dovrebbe introdurre elementi quali il valore economico, politico e sociale di immagine per Corleone nel dare occupazione a venti giovani invece di quattro? Chi stima il valore di attrazione di nuovi investimenti che l’azione intrapresa dalla Prefettura può determinare a Corleone, con questa classica azione di “marketing territoriale”? Chi “internalizza” nel conto economico i vantaggi differiti sull’ambiente di produzioni finalmente sostenibili? Difficile possa farlo l’Assemblea di imprenditori. Serve qualche organismo che guardi lontano e possa programmare lo sviluppo socio-economico di un area, non solo di una produzione (in questo caso la Commissione Europea e il Ministero dell’Interno con i loro Piani Operativi). Poi serve una schiera di “facilitatori”, come si sarebbe detto ai tempi dei Patti territoriali o dei Pit (i Progetti Integrati) che di questi problemi di indurre scelte virtuose che guardassero allo sviluppo e non al solo incremento del Pil a breve, ne avevano a decine. Serve qualcuno, anche, che per decisione assunta a livello politico e istituzionale da organismi appositamente delegati, non solo si Maurizio Zandri, SudgestAid, Link Campus University sforzi di chiarire la bontà dell’alternativa più a lungo termine, ma che alla bisogna ricordi come i finanziamenti di aiuto all’intervento siano disponibili soltanto seguendo il percorso indicato dalla normativa e non quello spontaneamente promosso, nell’immediato, da una maggioranza autoconvocata. Che insomma ricordi il valore delle regole, come risultato consolidato di un processo democratico. Febbraio 2004, sono in Rwanda, nel cuore dell’Africa, dove finalmente posso accingermi a vedere i gorilla di montagna, mia vecchia passione da bambino. Stanno nel Parco dei Virunga, una catena di alti vulcani coperti di foreste, nel Nord del Paese, al confine con il Congo. E’ la zona dove operò l’etologa Diane Fossey portata sullo schermo da Sigurney Weaver nell’indimenticabile “Gorilla nella Nebbia”. Mi preparo ad una lunga camminata per inoltrarmi, con le guide, nel loro habitat. Dopo un’ora cammino ancora in mezzo a campi coltivati. Per lo più a piretro una pianta molto richiesta dall’industria che produce insetticidi e antiparassitari. Mi dice la guida che solo un anno prima l’attraversamento di questa immensa distesa sarebbe durato mezz’ora di meno e saremmo già stati in mezzo alla foresta. I gorilla inseguiti dalle coltivazioni umane e dal bracconaggio diminuiscono velocemente di numero. Quando finalmente incontro la ancora numerosa famiglia di Gunonda, un imponente Silverback di 260 chili, di cui, pagando la bella cifra di 500 Dollari, ho “prenotato” la visita, penso: questa è forse l’ultima occasione che avrò nella vita.Ogni singolo gorilla di montagna vivente, stimano gli analisti, vale, ogni anno per l’economia ruandese, un milione di Dollari in biglietti per turisti e indotto (alberghi, guest house, ristoranti, trasporti locali, abbigliamento con tanto di “Rwanda, home of Mountain Gorilla”, ecc.). C’è poi il valore, per niente simbolico, del mantenimento della biodiversità, della specie (i gorilla di montagna) e della identità di un Paese che non a caso fa dei gorilla un emblema nazionale. Proviamo anche qui ad immaginare un’Assemblea di contadini della zona di Ruhengeri, la città capitale del Nord che è un po’ la base di partenza per i trekking nel Parco dei Vulcani. All’ordine del giorno: continuare ad estendere le coltivazioni o rispettare l’habitat dei gorilla? Cosa pensate che deciderebbero? Ho pudore nel suggerire la risposta, tanto è scontata. In questo caso, poi, con l’angosciosa contraddizione che essa, per quanto disastrosamente errata, verrebbe da gente che combatte contro la propria fame e vive di stenti. Anche qui serve qualcuno/qualcosa che abbia il coraggio della link journal 2/2012 cooperazione internazionale lungimiranza. Che si sottragga alla disperazione dell’oggi per decidere che non si può distruggere il cibo e un po’ di benessere di domani. Perché una industria turistica che si basi sul rispetto dell’habitat dei gorilla è una ricchezza certa per tutti, ma terribilmente a rischio e non riproducibile domani. In natura la progressione dei disastri è geometrica e non facilmente percepibile dalla gente. E’ famoso l’esempio di Lester Brown del World Watch Institute che da anni produce un rapporto sullo stato del Pianeta. Brown ha scritto un libro il cui titolo è “Il 29° giorno”. Dice la storiella da cui il titolo è tratto, che in un lago da cui i pescatori tirano su pesce in quantità, delle piante infestanti iniziano a riprodursi velocemente, raddoppiando ogni giorno. I pescatori non se ne curano perché il lago è grande e ancora occupato dalle piante per solo una piccola porzione. Dopo 29 giorni le piante hanno occupato metà lago. I pescatori non se ne curano, il pesce è sufficiente e c’è ancora metà lago in cui pescare. Il giorno dopo il lago è scomparso. Chi racconta questa storia ai contadini ruandesi? Anche qui, è la loro assemblea autoconvocata, il loro “Movimento” di giusta protesta contro gli stenti a cui sono costretti a decidere se estendere o meno le coltivazioni? C’è qualcuno, azzardo: un leader, un partito, che possa suggerire, se questa idea non nascesse spontaneamente dentro l’assemblea-movimento, che vale invece la pena di organizzarsi, lottare per una diversa ripartizioni dei proventi del turismo indotto dai gorilla? Che coltivazioni e gorilla possono trovare un equilibrio? Ed è giusto che qualche regola/legge internazionale, se tutto ciò non avvenisse, possa intervenire per impedire che il Pianeta sia privato definitivamente di gorilla? Qual è l’equilibrio consentito tra le ragioni del movimento dei contadini di Ruhengeri e quelle del movimento dei commercianti, guide, ristoratori che vivono dei flussi turistici in Rwanda? E, ancor più problematicamente, qual è l’equilibrio con le ragioni di qualche milione di partecipanti ai movimenti ambientalisti in giro per il mondo? Chi concilierà gli interessi diversi? Chi mitigherà i conflitti? Zuccotti Park e la Puerta del Sol sono lontane da Corleone e dai Virunga. E lo è anche il Cairo. Però le questioni poste in questi due esempi possono essere altrettanto pertinenti. Tali questioni riguardano, in sostanza: 1) il rapporto tra le soluzioni volute dai movimenti oggi e le soluzioni sedimentate in normative, come portato di una ca- 23 tena di decisioni delegate ma fortemente motivate dalla storia di altri movimenti e sistemi di interesse. Molti movimenti nascono per abolire normative ingiuste. Ma anche le normative giuste potrebbero essere eliminate al fine di ottenere il consenso di chi protesta. E’ possibile accettare organismi arbitrali? Istituzioni internazionali, Autorità formalmente imparziali possono intervenire? 2) il ruolo della programmazione dello sviluppo come esercizio che punta a contemperare più esigenze e ad indurre soluzioni per il medio-lungo termine. I tempi della politica (il ciclo elettorale di 4-5 anni) sono spesso adatti solo per tentare di rispondere agli interessi a breve. Fare un Piano, prevedere un programma per le generazioni future potrebbe entrare in conflitto con tali interessi. Chi se ne occuperà, allora? Chi rieleggerà uno “statista” che pensa al futuro e non alla sua rielezione? E’ accettabile, pur nello spesso giustificato furore contro i costi eccessivi della Pubblica Amministrazione, che sussistano tecnostrutture con un respiro più lungo dei tempi elettorali? 3) il ruolo della leadership, come funzione legata alla capacità di mediazione e alla conoscenza dei problemi e delle tecniche. E’ comprensibile la fobia per un leaderismo che nasce dall’ansia di riconoscimenti personali, dall’egocentrismo, dal narcisismo; che si cristallizza, passo dopo passo, in comportamenti altezzosi e sempre più distaccati; che consolida posizioni di privilegio e che spende per il proprio successo personale il patrimonio di un Movimento. Dovremmo, per non correre tale rischio, non utilizzare al meglio tutte le competenze? Che ruolo avrà colui al quale più si chiede o più dà? Sarà indifferente, nell’assumere decisioni, il ruolo della conoscenza? Mentre mi dilungavo nello scrivere queste domande, abbastanza convinto che stessi facendo un esercizio retorico, mi sono reso conto che invece esse sono, per lo più, domande aperte, a cui, a ben vedere, non sarei del tutto in grado di dare una risposta. Queste, invece, aggrappate all’ultimo bit, sono abbastanza retoriche: stiamo lavorando abbastanza sulle regole, i metodi che possano consentire di avere leadership controllabili, sostituibili, “sfruttabili”? E su modelli d’organizzazione e procedure di decisione capaci di intervenire pensando “lungo”? Stiamo lavorando abbastanza nel tradurre in modo condiviso sentimenti in regole? Qui la risposta, almeno per me, è scontata: no. Non ancora. 24 economia e diritto link journal 2/2012 RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO Accordo faticoso, ma con buone prospettive per la stabilità L a globalizzazione, la concorrenza dei paesi del terzo mondo, la mancanza di riforme, hanno aggravato la situazione economica e sociale del nostro paese. Abbiamo perso tempo prezioso. L’Italia è in condizioni di grande difficoltà. Dobbiamo fare i conti con un deficit mostruoso e con un tasso di crescita irrilevante. Il Governo Monti ha recuperato molto in termini di credibilità a livello internazionale e nel contesto più ampio delle economie in grande sviluppo (Cina, India, Brasile). Non è però ancora sufficiente. Le decisioni dell’Europa, egemonizzata da Angela Merkel e da Nicolas Sarkozy, sono sfavorevoli per l’Italia. L’Europa deve cambiare strategia e, soprattutto, deve riavviare lo sviluppo. Da tanto, troppo tempo, siamo bersagliati dall’Unione Europea con ingiunzioni, con adempimenti, con condizioni. Va sbloccata l’economia che, se prima si era attestata sulla crescita zero, ora sta precipitando nella recessione. Sono stati fatti errori. Siamo stati costretti, per il ricatto dei mercati, ad accettare una serie repentina e contraddittoria di decreti legge non sempre coordinati tra di loto. Si parla di equità, di sviluppo, di giovani. Affermazioni condivisibili in via di principio. Peccato che spesso rimangano a livello di enunciazione. Perché? E’ presto detto. Monti rifiuta il modello della concertazione; vuole limitare il rapporto con le forze sociali ad una semplice consultazione. Teme di finire nella palude del consociativismo; di essere obbligato a forme di indecisionismo; di essere condannato all’immobilismo. Le ripetute critiche di Monti alla concertazione sono state inaspettate. La concertazione ha in passato consentito di sconfiggere il terrorismo, di fare la riforma delle pensioni, di entrare in Europa. Scotti, Spadolini, Craxi affrontarono i pro- Giorgio Benvenuto, Presidente Fondazione Bruno Buozzi blemi della modifica delle relazioni industriali in un contesto di misure organiche a sostegno della contrattazione. Amato, Dini, Prodi, Ciampi l’hanno praticata con risultati positivi e decisivi per il paese. Ciampi ha sempre dato atto alle forze sociali di aver contribuito al superamento della crisi ed il ritorno del paese allo sviluppo ed alla crescita. Il Ministro del Lavoro, di cui nessuno sottovaluta la competenza, si muove in solitudine. Non tralascia occasione per mettere le dita negli occhi dei propri interlocutori. Non chiediamo autocritiche, ma domandiamo di non esagerare in autocelebrazioni. Sulla riforma delle pensioni non si è cercato l’accordo con i sindacati. Si è agito con l’accetta, senza guardare in faccia nessuno. Il risultato è controproducente: è esploso il caso di decine di migliaia di lavoratori (chiamati tecnicamente “esodati”) che sono rimasti senza lavoro e senza pensione. L’errore di valutazione è inconcepibile per un governo di tecnici. Non sono accettabili valutazioni fatte ricorrendo alla “nasometria”. I numeri sono numeri. Devono essere la base del confronto politico. Vanno analizzati, spiegati, utilizzati, per fare scelte utili, meditate, appropriate. Non è stato sempre così. Ci si è limitati a “dare numeri”. I problemi si sono aggravati con le norme sul mercato del lavoro. Senza che ce ne fosse bisogno si è aperto un confronto ideologico su un tema ritenuto non prioritario dai sindacati dei lavoratori e dalle organizzazioni degli imprenditori. E’ stata così definita una proposta di legge prolissa, confusa, equivoca. Si sono riesumate le acrobazie della vecchia politica. Nell’incapacità di trovare una soluzione, allora si ricorreva ad equivoche formulazioni che si potevano prestare a doppie interpretazioni. Il risultato era che si annullavano a vicenda. Ricordo ciò che avvenne all’epoca della riforma della scala link journal 2/2012 economia e diritto mobile, all’inizio degli anni ottanta. Si doveva modificare la struttura del salario, riducendo il peso automatico della scala mobile. Il Presidente del Consiglio dell’epoca Giovanni Spadolini inventò una formula apparentemente “geniale”: “le parti si impegnano a modificare la struttura del salario, ivi compresa la scala mobile”. Sembrava tutto risolto. Non era e non fu così. La UIL, la CISL, i socialisti della CGIL, il centrosinistra, la interpretarono come riequilibrio tra salario contrattato e salario automatico; la maggioranza della CGIL, del PCI, del MSI, la interpretarono nel senso che la scala mobile rimaneva così com’era. Tutti ricordiamo come quella ambiguità portò a concentrare tutta l’attenzione, per oltre dieci anni, su di un istituto inadeguato, dedicando scarsa attenzione ai primi effetti che la globalizzazione determinava in termini di competitività del nostro paese. Allora, è tutto compromesso? Direi di no. Siamo in tempo a correggere gli errori. Non ci sono altre alternative. Il vuoto politico non è facile da colmare. Il Parlamento, i partiti, gli enti decentrati sono in una fase di restauro. Ecco perché la concertazione con le forze sociali va ripresa senza timori di cadere nell’indecisionismo, nell’immobilismo, nel consociativismo. La concertazione riduce gli spazi all’antagonismo, alla conflittualità ideologica; valorizza il ruolo delle forze riformatrici e moderate che nel nostro paese sono in maggioranza. Come si può fare un accordo sul mercato del lavoro che è criticato da tutti indistintamente? Come si fa a parlare di “svolta storica” quando non c’è nulla di definito, di trasparente, di acquisito? Gianni Agnelli, imprenditore dotato di sottile ironia e caustica autoironia, a Luciano Lama che si ostinava a valorizzare l’accordo del 1975 sul punto unico della scala mobile, diceva: “si, caro Lama, ha ragione, è un accordo storico. Peccato che siamo, in Italia ed in Europa, solo noi due a pensarlo”. Nuove relazioni industriali possono essere costruite se si definisce un habitat virtuoso, se si allarga lo spazio contrattuale autonomo delle parti, se si riduce l’invadenza legislativa. Il mercato del lavoro è una materia che deve rimanere nella disponibilità delle parti, è una materia che appartiene alla contrattazione. Vanno individuate con l’accordo delle parti sociali, soluzioni coraggiose innovando sulla flessibilità in entrata e in uscita. La contrattazione va spostata a livello aziendale; il ruolo delle Confederazioni va ridotto all’essenziale. Lo Statuto dei lavoratori è invecchiato; non va gettato alle ortiche. Ha bisogno di una manutenzione che valorizzi il lavoro, la professionalità, l’impegno, la produttività. Nessuna 25 legge da sola, anche la più perfetta, è in grado di costruire certezze per i lavoratori e per le imprese. E’ importante che il dialogo tra le forze sociali sia sostenuto e non sostituito dalla legge. E’ finita l’epoca del conflitto di classe; l’antagonismo appartiene al passato. I rapporti tra lavoratori e impresa devono ricercare e sviluppare gli spazi non conflittuali. Si deve, anche se con ingiustificabile ritardo, approfondire il modello tedesco della concertazione, della cogestione, dei comitati di sorveglianza. Le nuove relazioni industriali debbono essere costruite sulla valorizzazione delle professionalità, sull’incremento della produttività, sulla partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa. Il mondo globalizzato impone il superamento delle vecchie tradizioni, ormai trasformate in cattive abitudini. La contrattazione deve essere il motore della crescita e dello sviluppo del paese con benefici per il lavoro e per l’impresa. Monti si accorgerà che l’accordo con le forze sociali è più faticoso ma alla fine più certo nei risultati. Quello con il Parlamento è fragile per la debolezza dei partiti. Infine due appelli. I sindacati che stanno ritrovando e praticando l’unità d’azione devono tornare ad essere creativi, estrosi, coraggiosi, innovatori. E i partiti? Sono fondamentali in una democrazia. Non è però pensabile che in Italia si continui a tagliare, a tassare, a chiedere sacrifici ai cittadini e alle imprese senza che la politica faccia scelte analoghe. I tagli sul finanziamento pubblico dei partiti, sul “poltronificio” delle municipalizzate, sull’assetto istituzionale, devono essere equivalenti a quelli chiesti al paese. Non possono solo scalfire, devono intaccare. Chiederlo non è né demagogia né qualunquismo. E’ invece la forza della democrazia. 26 economia e diritto link journal 2/2012 Lo stato attuale della giustizia civile e la sua incidenza su economia e società C ome è noto, da oramai oltre vent’anni la giustizia civile in Italia è interessata da continui interventi legislativi sul processo, attuati per lo più mediante la tecnica della c.d. novellazione del codice di procedura civile (realizzata a più riprese con interventi a volte circoscritti, a volte di carattere generale, come, ad esempio -in tempi diversi- nei casi dell’introduzione della disciplina uniforme dei procedimenti cautelari e della nuova disciplina dell’esecuzione); a volte mediante l’adozione di nuove leggi speciali (è tale, ad esempio, il caso del recente intervento legislativo in tema di mediazione, che ha introdotto, per una grande quantità di controversie, individuate col criterio della materia, una speciale condizione di procedibilità dell’azione, consistente nel previo esperimento del procedimento di mediazione), oppure mediante la modifica di leggi speciali preesistenti (è il caso della riforma della legge fallimentare del 2006, che ha radicalmente innovato le modalità di svolgimento di tutti i giudizi connessi alla procedura fallimentare). Agli interventi interni si aggiungono, inoltre, quelli del legislatore comunitario, che negli ultimi anni ha cominciato a produrre, nell’intento di uniformare le procedure giudiziarie nello spazio europeo, atti normativi recanti discipline processuali uniformi, di immediata applicazione nei singoli Stati (ci si riferisce, in particolare, ai regolamenti comunitari che hanno disciplinato il c.d. decreto ingiuntivo europeo ed il titolo esecutivo europeo, ma anche al regolamento che ha delineato una speciale procedura semplificata per le c.d. small claims transnazionali). La principale ragione che spinge il legislatore a tale incessante opera riformatrice è costituita dall’esigenza di ridurre i tempi necessari per la definizione dei giudizi civili. Esigenza sempre più avvertita (indipendentemente dalle pur significative condanne che l’Italia ha subìto per la ritenuta violazione dell’art. 6 CEDU) quanto più si diffonde la consapevolezza che una giustizia rapida ed efficiente rappresenti un elemento indispensabile per la competitività economica. Daniela Noviello, Link Campus University Sempre più frequentemente, gli analisti economici sottolineano come l’incertezza dei rapporti giuridici, dovuta all’eccessiva durata dei processi, finisca con lo scoraggiare investimenti economici in Italia. Invero, la certezza dei dati costituisce elemento indispensabile per ogni programmazione aziendale ed è di immediata evidenza che se, insorta controversia tra operatori economici in relazione al rapporto giuridico che li lega, la lite non sia definita in tempi rapidi, gli stessi operatori vengono a trovarsi nella condizione di non poter considerare, ai fini delle proprie attività imprenditoriali, le utilità che si attendevano dal rapporto controverso, per un tempo pari alla durata del giudizio. Così, per fare un esempio, se un’azienda attende il pagamento del prezzo della fornitura effettuata, e tale pagamento resta sospeso fino alla pronuncia della sentenza che ne accerti il relativo diritto, la stessa azienda non può disporre delle somme dovute per tutto il periodo intercorrente tra l’esecuzione della prestazione e la decisione del giudice (ovvero, fino all’effettiva esecuzione della decisione), con ovvie ripercussioni sulle attività e sull’equilibrio economico dell’impresa. Ripercussioni che possono persino portare al fallimento dell’iniziativa economica (quando l’impegno per l’esecuzione della prestazione sia stato importante e corrispondentemente elevato fosse il risultato economico atteso, ovvero, quando la prestazione inadempiuta dall’altra parte fosse indispensabile all’esercizio della propria attività). Ecco perché, il comune denominatore delle numerose riforme del processo civile susseguitesi negli ultimi decenni (comune anche alle ulteriori riforme annunciate in questi giorni) è rappresentato dall’obiettivo del contenimento e della ridu- link journal 2/2012 economia e diritto zione dei tempi della giustizia. Peraltro, non può non rilevarsi come, nonostante la quantità e l’entità degli interventi riformatori già effettuati sulle modalità di svolgimento dei giudizi civili, il problema non sia stato ancora risolto. E ci si chiede, allora, se davvero ci si possa attendere dall’ennesimo intervento sul processo civile una soluzione definitiva dello stesso. In effetti, perplessità di tal genere sono state già più volte segnalate nell’ambito della comunità scientifica, dove è stato indicato che, forse, più che seguire la strada della modifica degli iter giudiziari, sarebbe opportuno incidere su aspetti organizzativi degli uffici; e dove è stato evidenziato come la riduzione dei tempi della giustizia non sia “indolore”, nel senso che spesso ad essa si accompagna una riduzione delle garanzie processuali e, quindi, il rischio che il processo si concluda con una decisione non troppo “giusta” (ampio e tuttora non risolto è il dibattito scientifico su queste questioni, animatosi specialmente in relazione al sempre più ampio ricorso alla forma sommaria della cognizione nell’ambito delle ultime riforme processuali). D’altra parte, molte controversie (specialmente quelle di carattere essenzialmente economico e nelle quali non emergano questioni giuridiche particolarmente rilevanti) potrebbero essere efficacemente risolte anche fuori dal processo, secondo un criterio di composizione degli opposti interessi, piuttosto che in applicazione di una norma giuridica. In questo caso, sarebbero decise in giudizio solo le controversie più complicate o di carattere non esclusivamente economico e, con i ruoli meno intasati, i processi sarebbero più rapidi. Invero, se si guarda all’esperienza di Paesi nei quali i tempi della giustizia civile sono assai più contenuti che nel nostro (ad esempio, gli Stati Uniti o l’Inghilterra), si nota che la percentuale delle controversie civili che giungono in causa è estremamente inferiore alla nostra, e che la maggior parte delle controversie viene risolta mediante strumenti alternativi alla giurisdizione (c.d. ADR – Alternative Dispute Resolution). Allora, forse un tentativo davvero efficace per la riduzione dei tempi della giustizia è stato già effettuato dal legislatore italiano mediante la previsione della mediazione come condizione di procedibilità per numerosissime categorie di controversie. Peccato che tale riforma sia stata avversata (e lo sia tuttora) da grandissima parte dell’avvocatura, e che non sembri neppure molto gradita ai giudici. 27 Processo penale e le riforme possibili Aspettando Godot... tra assenze e attese si consuma il vivere civile N ell’attuale fase della legislatura il tema del processo penale e delle possibili riforme che dovrebbero riguardarlo non sembrano fra le priorità del Governo. Eppure le questioni non mancano. Tra le priorità da affrontare va sicuramente collocata la drammatica situazione carceraria resa drammatica dall’elevato numero dei suicidi che significativamente contrassegnano la vita dei nostri penitenziari. Il provvedimento degli scorsi mesi non ha modificato la situazione. E’ necessario intervenire con misure più incisive. Il riferimento si indirizza alla trasformazione delle misure alternative in pene principali non escluse le forme di controllo sui soggetti in tale stato di esecuzione della pena con modalità tecnologicamente avanzate. Considerato che è ormai sistemico il tema della durata irragionevole del processo non dovrebbe essere ormai impossibile non trovare le adeguate intese politiche per introdurre il proscioglimento per irrilevanza del fatto, l’estinzione del reato per effetto delle adeguate condotte riparatorie nonché la sospensione del processo con messa alla prova. Si tratta di istituti già presenti nella nostra legislazione la cui sperimentazione non ha avuto effetti negativi. Seppur circoscritti alle ipotesi che se non bagatellari non presentano un significativo allarme sociale potrebbero alleggerire un carico giudiziario che le difficoltà di avviare una significativa depenalizzazione rischia di collassare il sistema della giustizia penale. Dovrebbero potersi trovare le necessarie convergenze anche per la reintroduzione del concordato in appello. Si tratta di un istituto non premiale che consentirebbe sia di velocizzare il giudizio di appello sia di deflazionare il successivo ricorso per cassazione. Per ovviare ad eventuali Giorgio Spangher, Link Campus University 28 economia e diritto obbiezioni si potrebbe escluderne l’operatività per i procedimenti celebrati in primo grado con il rito abbreviato dove l’imputato condannato gode di un significativo sconto di pena. Alla logica di deflazione senza effettivi pregiudizi per la legalità e l’efficacia della risposta al crimine va ricondotta anche la possibilità di prevedere la sospensione del processo nei confronti dei soggetti irreperibili. La connessa sospensione del corso della prescrizione oltre alle altre previsioni di contorno sembrano suggerire il rimedio per processi che nella maggior parte dei casi si rivelano del tutto inutili. L’altro settore sul quale appare necessario intervenire è quello legato ad alcune distorsioni dei dati normativi come si sono venute evidenziando negli ultimi tempi con pregiudizio per le istanze difensive. Il dato di maggior pregiudizio è sicuramente quello legato ai ritardi nella iscrizione della notizia di reato e del soggetto al quale il reato è attribuito nel registro di cui all’art 335. Sono moltissime le ricadute di queste prassi distorte. E’ necessario fissare tempi certi e conseguenti sanzioni processuali incisive per questo tipo di patologie. Potrebbe non essere inoltre inopportuno che siano previsti tempi più serrati rispetto a quelli attuali per verificare se veramente si procede nei confronti di soggetti ignoti oppure se gli ipotizzabili autori dei reati non risultino gia individuati e possano esercitare i loro diritti processuali. Anche altri profili dell’esercizio del diritto di difesa sembrano richiede interventi correttivi stante le patologie che ultimamente sono emerse. In particolare appare necessario precisare il divieto di intercettazioni tra difensore ed imputato. La sola previsione ex post dell’inutilizzabilità del contenuto di quanto captato appare inadeguato se si consente di procedere ad attività limitative delle liberta sulla scorta di quanto deducibile dall’ascolto. Anche il tema della tutela del segreto professionale dell’avvocato sembra richiedere qualche correttivo. Non c’è alcuna ragione perchè non si rafforzino le tutele del legale secondo il modello operante per il giornalista. Entrambi svolgono funzioni coperte dalle garanzie costituzionali. Indubbiamente i problemi dell’economia e del lavoro nell’attuale contesto internazionale e nell’attuale fase di depressione finanziaria occupano un posto privilegiato nell’agenda governativa. Altri settori della vita sociale sono in decisa sofferenza. Tuttavia l’affermata non remota possibilità di larghe convergenze su alcuni obbiettivi di riforma dovrebbe suggerire di trovare uno spazio anche per il tema della giustizia, soprattutto di quella penale, considerando che si tratta di un servizio tra i più importanti per i cittadini. link journal 2/2012 Una riforma costituzionale per riformare la politica A ncora una volta la fuoriuscita dal vuoto di governo efficiente che affligge da tempo i partiti si cerca ricorrendo alle riforme istituzionali. È dal ’79 che Craxi ha lanciato l’idea di una grande riforma per acquistare centralità nel sistema politico, ma l’unica riforma che si è fatta, e di cui si è tornati a parlare in maniera predominante per disfarla, è quella elettorale, la sola del resto partorita accompagnando la crisi della prima repubblica. Una diversa legge elettorale dovrebbe perciò reiterare anche l’uscita dalla seconda repubblica restituendo - si dice - il potere all’elettore di scelta dei propri rappresentanti confiscata dal Porcellum, come è stato elegantemente ribattezzato dall’ammissione dei suoi autori, il sistema che ci regge. La periodica riorganizzazione delle infrastrutture del potere viene proposta come surrogato della aggressione dei nodi di fondo del sistema, come invece sta facendo lo spiazzante governo dei tecnici. Alcuni interventi di contorno dovrebbero poi conferire maggiore robustezza all’azione di riforma; ma si tratta di ipotesi incerte improntate ad un approccio minimalista, come quello della riduzione contenuta del numero dei parlamentari, che doveva essere stata fatta quarant’anni fa per compensare l’erompere dei consigli regionali, mentre oggi varrebbe come ammissione di ipertrofismo rappresentativo da temperare, per placare un’opinione pubblica imbestialita, ricorrendo ad argomenti da antipolitica. Né d’altro canto le idee appaiono più solide per quanto riguarda la riforma del bicameralismo. La proposta più inerziale resta la Camera delle Regioni, che non Piero Calandra, Link Campus University link journal 2/2012 economia e diritto tiene conto né degli sviluppi intergovernativi dei rapporti centro-periferia realizzatisi nella apposita “Conferenza”, né dei tormentati dibattiti ed adattamenti che questa soluzione ha determinato nella repubblica federale tedesca per la logica trasversale all’indirizzo di governo che una Camera territoriale proporrebbe. Così, in un momento di stanca del federalismo istituzionale, ma di rinnovato vigore dell’imposizione locale, si riaffaccia la scelta residuale di fare un bicameralismo “eventuale” con doppia lettura facoltativa, che comporta il pregio di velocizzare un processo legislativo la cui pesantezza non è estranea allo sviluppo abnorme del decreto legge nella versione con fiducia incorporata. E soprattutto non turba troppo i sonni del ceto politico centrale che, in aggiunta al taglio numerico, si troverebbe a gestire una confusa interferenza del ceto politico locale che aspirerebbe a collocarsi nel Senato riconfigurato. In ogni caso occorre evitare la frammentazione specie attraverso i finanziamenti alla stampa. Passi poi la revisione dell’età per l’elettorato attivo e passivo, che può spingere i giovani ad interessarsi di più di politica, il punto chiave resta l’abbandono della necessità di legarsi preventivamente in coalizione. L’elettore verrebbe così a votare non il blocco di governo ma il partito come squadra del cuore, cui affidare fideisticamente la scelta di allearsi, una volta conosciuti i risultati propri e degli altri. La critica demolitrice della prima repubblica viene così serenamente rimossa mettendo in conto che il livello di spoliticizzazione programmatica è talmente cresciuto che ciascun partito evita di impegnarsi in qualunque issue offrendosi più con operazioni di marketing che di sensibilizzazione tematica. Non è dato conoscere se le intese successive si costituirebbero rimuovendo campagne pesanti verso i competitors, tra i quali forse verrebbe risparmiata l’ala centrista che, a sua volta, dovrebbe esporsi solo su un piano di astratta governabilità senza impegnarsi troppo su quali problemi intende risolvere, mentre i competitors principali, ma più laterali, si sparerebbero an- 29 ch’essi a salve per non compromettere issues non gradite al centro, appetito da entrambi. In queste condizioni il futuro della politica intesa come capacità di progetto e di soluzione di problemi si presenta alquanto perplesso, con il rischio che elementi tecnici continuino ad essere evocati per scelte politiche o che la necessità di grandi coalizioni scolori sempre più i profili programmatici e le possibilità di scelta per l’elettore. Al riguardo una riflessione sul dato che nella seconda repubblica nessun governo, sia a maggioranza risicata che oceanica, abbia ottenuto la conferma a fine legislatura la dice lunga circa il terrore (incapacità?) dei partiti di affrontare i nodi del Paese. Una grande coalizione funzionerebbe così da contratto di assicurazione reciproca evitando che il peso di scelte innovative, e quindi impopolari, si concentri su una sola parte. L’idea di continuare a fare piccolo cabotaggio, in un Paese esposto ad una pesante competizione mondiale, che va ben oltre i vincoli di bilancio imposti dall’Europa, non appare infatti reiterabile e deve preoccupare fortemente ogni cittadino consapevole del passaggio forte che caratterizza la nostra epoca. Occorre quindi che anche movimenti dal basso si rendano maggiormente coscienti dei rischi che si corrono con un modo di fare politica solo in presenza di ingenti risorse a disposizione che consentano una indefinita evoluzione attraverso tecniche meramente redistributive. Vanno invece concentrati gli sforzi – come Paesi forti come la Germania fannosu pochi obiettivi strategici (si pensi al tempo irresponsabilmente perso per la banda larga) in grado di sostenere una modernizzazione a supporto della crescita. In quest’ottica di duro e prosaico sostanzialismo, anche la centralità del confronto tra proporzionale e difesa di un bipolarismo, speso sinora in contrapposizione propagandistica, deve cedere spazio ad impegni programmatici più espliciti che riqualifichino la politica con la P maiuscola giocando partite in campo aperto e rinunciando a meline che rischiano di far disputare ad un Paese che partecipava al G8 un irreversibile campionato di serie B. 30 economia e diritto link journal 2/2012 La BCE e il realismo di Draghi Il ruolo della banca centrale e la crisi di fiducia dei cittadini europei L e recenti vicende finanziarie che hanno interessato l’area dell’euro hanno radici molto lontane. La creazione di una area valutaria unica basata su realtà economiche nazionali indipendenti con parametri di finanza pubblica di partenza differenti è sempre stata al centro di discussioni nel mondo accademico e tra gli operatori finanziari. Spesso tali critiche sono state liquidate con sufficienza in quanto considerate strumentali ad un sostegno del potere del dollaro Usa, quale moneta di riserva internazionale. In un'altra visuale la moneta unica era definita il primo tassello, il primo grande passo verso l’unione economica e politica dell’Europa. La creazione di un area valutaria europea aveva ed ha alcuni indiscutibili vantaggi; a) l’eliminazione di un fattore di rischio e di concorrenza incontrollata negli scambi commerciali interni; b) l’eliminazione di un fattore di destabilizzazione rispetto ad un obiettivo comune di target di inflazione; c) la possibilita’ di molti Paesi periferici di finanziare il proprio debito pubblico a tassi più bassi. Viceversa abbiamo assistito negli ultimi 12 mesi al sostanziale fallimento (sia pur controllato) della Grecia, al permanere di forti tensioni in Portogallo ed Irlanda. Ad un premio di rendimento di oltre il 3% Italia e Spagna dopo aver superato il 5% rispetto ad analoghe emissioni tedesche. Un confronto internazionale ci apre ad alcune considerazioni sul ruolo della Banca centrale europea: perché Usa, Regno unito, Giappone pur avendo ratios di bilancio pubblico peggiori dell’area euro e per certi versi anche di Italia e Spagna pagano tassi più bassi sul loro debito pubblico? Qualche osservatore ha risposto semplicemente: perchè hanno una loro banca centrale nazionale. Il tema quindi si sposta sul ruolo che deve avere una banca centrale dinanzi alla crisi di fiducia verso il debito sovrano. Innanzitutto ricordiamo che lo statuto della Bce delinea un principale obiettivo per la banca centrale: il controllo dell’inflazione. In effetti le mosse della Bce dalla sua fondazione sono state guidate dalla necessità di stroncare sul nascere la crescita dei prezzi oltre il fatidico livello del 2%. Cio ha determinato anche alcuni eccessi: come non ricordare nel corso della gestione Trichet il rialzo dei tassi ufficiali nell’estate del 2008 guidato da una impennata speculativa (poi riassorbita) Paolo Balice, Presidente AIAF del prezzo del petrolio? L’ascesa di Mario Draghi abbinata alla necessità di interpretare questo ruolo statutario in termini più elastici ha portato secondo molti osservatori una ventata di sano realismo. Dobbiamo ricordare che dinanzi alle crisi finanziarie, come davanti ad un incendio, si possono avere due atteggiamenti: cercare i responsabili e condizionare per questo lo spegnimento dell’ incendio oppure spegnere prima l’incendio e poi pianificare le mosse successive affinchè il fenomeno non si ripeta incluse le “punizioni” per i responsabili. La crisi Greca scoppiata nel 2010 è stata trascinata per 24 mesi, ha portato il Paese in profonda recessione ed al sostanziale fallimento, ha favorito un effetto contagio che ha coinvolto altri paesi periferici ben più importanti, aprendo il fianco della costruzione europea allo “storico” scetticismo della finanza anglosassone ed al iperattivismo delle società di rating :un Paese che rappresenta una quota ridottissima del Pil di Eurolandia ha messo in crisi tutto un sistema. Nel 2008 gli Stati Uniti alle prese con una crisi finanziaria ben più profonda e strutturale non hanno condizionato il salvataggio del sistema ad un preventivo processo ai responsabili ma si sono adoperati per spegnere l’incendio subito. Era ben chiara l’analisi della crisi del ‘29 con i suoi enormi ritardi prima di individuare la cura keinesiana. È vero che gli Stati Uniti hanno avuto la loro Grecia cioè la Lehman ma si è trattato pur sempre di un emittente privato senza alcun danno alla credibilità del Debito Sovrano. Ovviamente qui si sta parlando della attività di pronto soccorso. Sulle terapie di medio termine da somministrate al malato il tema è completamente diverso e gli Stati Uniti devono fare molta strada per gestire i loro storici squilibri strutturali. Se da un lato alla banca centrale europea è stata sostanzialmente negata la prolungata e massiccia monetizzazione del debito cioè l’acquisto di titoli di Stato dall’altro la crisi di fiducia tra le banche europee legata anche alla presenza di titoli del debito sovrano in portafoglio ha fatto capire che una più sostanziale soluzione da pronto soccorso sarebbe arrivatadalla funzione di prestatore di ultima istanza della Bce al sistema bancario Si è quindi attivato un meccanismo indiretto di sostegno del debito sovrano periferico fornendo liquidita a medio termine alle banche. Cosa ha dimostrato tutto questo? Che da che mondo e mondo le crisi di fiducia nel sistema link journal 2/2012 economia e diritto non ammettono nel breve “burocratiche” gestioni legate a valutazioni di principio o qualitative (basta pensare all’iter per la creazione e l’ampliamento del fondo salva stati), ma devono essere risolte immediatamente. Il mercato “pesa” il tasso di convinzione delle autorià europee nello stroncare le crisi di fiducia. Poi si passerà alle cure ed alle misure per evitare che tali crisi si ripetano. Ma nonostante l’iniezione di liquidità della Bce la crisi non è finita perché è complesso aggiustare i conti pubblici con l’economia in recessione e l’Europa non ha ancora trovato la soluzione per evitare un avvitamento economico finanziario in alcuni Paesi tra cambio fisso, domanda interna indebolita dalla manovra fiscale e perdurante stretta creditizia. Si può e si deve agire sulla produttività del sistema (riforma del mercato del lavoro, liberalizzazioni, efficienza del settore pubblico, etc), ma il lavoro della Bce di Mario Draghi, coadiuvato e sostenuto dai politici europei più illuminati, non è ancora finito nel garantire nel frattempo la fiducia nel debito sovrano in attesa di numeri più rassicuranti sui tempi del pareggio di bilancio nonché nell’evitare il permanere della stretta creditizia. All’inizio di aprile la richiesta tedesca di una exit strategy dinanzi a rischi inflattivi è stata fermamente e cortesemente respinta da Draghi. Peraltro, il tempo a disposizione per il ritorno della fiducia non è infinito ed è una variabile fondamentale altrimenti sullo sfondo intravediamo anche il rischio della “giapponese” trappola della liquidità ma il Paese del sol levante può anche contare sulla “non globalizzazione” del suo enorme debito pubblico. Non vorremo mai dover dare “ex post” ragione alle società di rating ed ai loro ripetuti downgrading. Efficienza, competitività, merito: le nuove sfide della Pubblica Amministrzione per la crescita del Paese A ll’indomani della più grave crisi economica dal secondo dopoguerra, molteplici sono gli interventi ed i cambiamenti posti in essere dagli ordinamenti per fronteggiare l’emergenza internazionale, che sembra, attualmente, non avere ancora soluzione. L’incessante evoluzione normativa che di recente ha caratterizzato l’azione governativa, apportando modifiche a settori nevralgici del nostro Paese, evidenzia quanto urgente sia stata (ed è ancora) la necessità di intervenire nel tessuto economico Andrea Altieri, Link Campus University 31 e sociale, talvolta anche in maniera radicale, per tentare di mettere in salvo la traballante economia nazionale, minata dall’enorme debito pubblico e dai frequenti attacchi speculativi. In una logica di tagli ed ottimizzazione, l’intero apparato amministrativo non poteva risultare immune a questa ventata riformista; a ben vedere, già nel corso del 2009 i principi sanciti dalla c.d. Riforma Brunetta di cui al D.Lgs. n. 150/2009, hanno visto una prima presa d’atto da parte del legislatore nazionale rispetto all’immobilismo che da tempo aveva caratterizzato le vicende del pubblico impiego, elevando a principio ispiratore della riforma proprio quella trasparenza amministrativa, intesa come accessibilità totale a tutte le informazioni concernenti l’organizzazione della P.A., gli andamenti gestionali e, infine, l’utilizzo delle risorse pubbliche per il perseguimento delle funzioni istituzionali e dei risultati. Essa, però, poteva essere solo l’incipit di una più imponente riforma, proseguita, nel solco tracciato dall’Unione Europea, con la profonda rivisitazione dell’intero modello di gestione amministrativo, nel tentativo, da un lato, di razionalizzare una spesa pubblica apparentemente fuori controllo, da un altro, di favorire la progressiva crescita della nostra economia nazionale.Il pacchetto di interventi normativi che il nuovo Governo ha emanato con decretazione d’urgenza (si ricordano, in questa sede, a titolo esemplificativo, il D.L. n. 201/2011, c.d. “Decreto salva Italia”, il D.L. n. 1/2012, c.d. “Decreto liberalizzazioni”, il D.L. n. 5/2012, c.d. “Decreto semplificazioni”), il cui minimo comune denominatore è rappresentato dalla riduzione delle inefficienze e degli sprechi della macchina amministrativa, ne sono la testimonianza più rilevante. In tale ottica, ad esempio, considerato il ricorso con sempre maggior frequenza da parte della Pubblica Amministrazione a modelli negoziali tipici del diritto privato, rispetto a quelli propri del diritto pubblico, le nuove disposizioni in materia di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, seguite all’esito referendario del giugno 2011, sono state immaginate con l’obiettivo di conformare l’azione amministrativa ai principi di libertà individuale, economica e di concorrenza, sanciti dalla Costituzione e dal diritto dell’Unione Europea, attraverso l’adeguamento delle normative statali, regionali e locali (talvolta obsolete e frammentate, in grado di penalizzare le libertà individuali a scapito dell’interesse pubblico generale) alla scala di valori tutelati dalla Costituzione, nonché alle specifiche esigenze emerse in ambito economico e sociale. E’ evidente, in questo senso, anche a voler prescindere dal suo concreto raggiungimento, l’indirizzo (im)posto alla Pubblica Amministrazione dalla U.E., volto al superamento degli squilibri e delle molte contraddizioni ancora presenti all’interno del nostro Paese, con l’evidente obiettivo di salvare, anche per quanto di nostra competenza, la moneta comune europea e, con essa, l’economia nazionale. Non si può economia e diritto 32 prescindere, infatti, dal fatto che ciascuno Stato membro sia oggi parte di un sistema oramai globalizzato, sia a livello economico, sia giuridico; all’interno di tale evoluzione, il nostro Paese si trova collocato all’interno di un palcoscenico internazionale più ampio, nel quale opera, da un lato, in posizione paritetica con gli altri Stati membri, da un altro, di subordinazione rispetto all’ordinamento sovranazionale.Un simile modello di relazioni giuridiche, poste in essere da più soggetti (all’interno del quale ciascuno Stato è destinatario di competenze nazionali ed internazionali) evidenzia il rilievo e la funzione dei principi di reciprocità e di consensualità, con la conseguente minor valenza del potere di supremazia. Il Trattato di Lisbona ha svolto, al riguardo, un ruolo sicuramente determinante; con esso, infatti, hanno trovato definitiva affermazione, a livello comunitario, i principi d’indipendenza, trasparenza, efficacia e apertura alla partecipazione della società civile alla corretta gestione della cosa pubblica; essi appartengono ormai alla struttura del diritto amministrativo italiano e delle altre re- link journal 2/2012 altà appartenenti all’Unione. Al contempo, la nascita di nuovi organismi (interni e comunitari) capaci di coordinare le politiche nazionali e comunitarie necessita l’evoluzione dei predetti principi anche nei rapporti tra gli Stati membri, attraverso formule di coordinamento, progressivamente sempre più elaborate, garantendo l’efficacia e la correttezza dell’azione amministrativa all’interno di un contesto internazionale che vede protagoniste anche le nostre Istituzioni. In tal modo, solo attraverso la progressiva modernizzazione del nostro apparato amministrativo, in una logica di reale efficienza, competitività e merito, le previste (ed auspicate) riforme, qualora comprese e condivise anche dalle parti sociali, potranno trovare effettiva attuazione, fornendo, al contempo, sia la risposta più corretta alle osservazioni mosse in sede europea, sia, indirettamente, quella necessaria compatibilità tra più livelli ordinamentali, che si presenta oggi come elemento indispensabile per supportare l’azione dell’Unione Europea nei confronti della attuale crisi finanziaria. Competere nell’incertezza L ’approccio che viene oggi adottato per la gestione delle organizzazioni in cui abbiamo maturato la nostra professionalità, è orientato ancora alla proposizione di soluzioni volte alla semplificazione. Tutte le attività manageriali -tracciare le strategie, rivedere la struttura organizzativa, pianificare le attività, definire i budget, monitorare gli indicatori di successo e controllare gli andamenti dei parametri criticivengono affrontati con l’intento di limitare l’incertezza attraverso razionalità e riduzione che danno quindi l’illusione di semplificare i problemi. Ma lo scenario presente impone di affrontare i problemi con un paradigma diverso. D’altronde quasi un secolo fa, Albert Einstein aveva già intuito che: “ … the significant problems we face today cannot be solved at the same level of thinking at which they were created …”, cioè non si può risolvere i problemi sostanziali di oggi con lo stesso approccio con il quale tali problemi sono nati. Nel suo “Il Metodo”, Edgar Morin3 ha affermato che “l’unica Habib Sedehi, MBA Link Campus University conoscenza che vale è quella che si alimenta di incertezza e il solo pensiero che vive è quello che si mantiene alla temperatura della propria distruzione”. Infatti, molte caratteristiche del modo abituale di gestire le imprese sono il risultato di una attenta valutazione ma che oggi però non è più valida e conduce a comportamenti e decisioni rischiose (interne) per l’azienda e dannose (esterne) a livello economico-sociale. Le scoperte scientifiche degli ultimi 65 anni hanno messo in forte dubbio la soluzione dei problemi tramite l’approccio “riduzionista” facendo emergere il paradigma “sistemico”, in quanto dovendo risolvere non più problemi “complicati2”, piuttosto sistemi “complessi3”. E’ infatti emerso, in modo evidente, che la realtà è tutt’altro che lineare e non è più sufficiente dividere i problemi in sottoproblemi e analizzare nel dettaglio i dati passati per poter più facilmente proporre delle soluzioni future. In questo contesto diventa pertanto indispensabile capire sempre di più la struttura del problema, piuttosto che basarsi esclusivamente link journal 2/2012 economia e diritto sui pattern (andamenti acquisiti) e sperimentare quindi nuovi approcci per spiegare e meglio capire gli eventi, affinché sia possibile proporre delle soluzioni sempre più governabili . Mentre nelle discipline scientifiche è già maturata la consapevolezza dell’emergere della complessità e, quindi, è “quasi” consolidato il paradigma sistemico, la dottrina del management, che oltretutto è immerso continuamente nelle incertezze e i cambiamenti continui, è restia ad abbandonare le convinzioni consolidate, pur spesso consapevole delle soluzioni talvolta inefficienti. Quale è in effetti la finalità di un’organizzazione e quali sono gli obiettivi che si pone chi gestisce un’impresa? La risposta, statisticamente più scontata e maggiormente condivisa, è la massimizzazione del “valore” per coloro che hanno, in un modo o nell’altro, investito nell’impresa. Il “valore” potrebbe essere non esclusivamente un maggiore “guadagno” a livello economico-finanziario ma anche l’aumento di soddisfazione delle necessità e/o dei bisogni sociali. Quanto detto porta a considerare l’organizzazione, principalmente dal punto di vista esterno, mentre il “valore” maggiore risiede all’interno. In questa importante considerazione ci viene inoltre in aiuto l’etimologia latina del termine “valore” cioè valere “essere capace di”, che è un sinonimo di competitività. Quindi, in ultima battuta, come viene anche ben sottolineato da Vicari4 nel suo libro ‘L' impresa vivente. Itinerario in una diversa concezione’: “… la creazione di valore in un’impresa non dipende dall’output prodotto(dividendi, profitti o reddito) o che si prevede di produrre, ma dalle potenzialità accumulate …”. Quali sono quindi queste potenzialità che, giorno dopo giorno, nella vita di un organizzazione dovrebbero auspicabilmente incrementare? Il know-how e le competenze del personale, la reputazione e l’immagine sul mercato, il grado di soddisfare e quindi la fidelizzazione dei clienti, l’investimento nella ricerca e la capacità di innovazione …, infine, la cultura di vedere l’azienda come sistema. Quest’ultima caratteristica che va, in un certo senso, a confezionare il cosiddetto asset intangibile dell’impresa è, a parere di Senge5, la disciplina quale collante necessario per ribadire che non sarà efficace lo sviluppo delle potenzialità se i componenti dell’asset intangibili vengono incrementati separatamente. Ora che abbiamo identificato, tramite i componenti intangibili e l’approccio sistemico, l’abbinamento ideale per presentarsi nell’attuale incertezza dell’ambiente esterno all’organizzazione dove bisogna competere al meglio, il nostro manager deve scegliere la strategia più adatta o, per meglio dire, l’approccio strategico più consone al contesto complesso in cui si trova, per fronteggiare i problemi e quindi prendere delle decisioni. Grant6 ha definito la strategia come tutto ciò che si occupa del successo di un obiettivo; “ … guida le decisioni manageriali al 33 raggiungimento di risultati di eccellenza mediante la ricerca di un vantaggio competitivo”. Dopo anni di “confusione” e contraddizioni nella condivisione e classificazione dei vari pensatori in materia di strategia d’impresa, ci trova d’accordo la classificazione delle due scuole di pensiero effettuata da Mintzberg et al.7 e ben delineata nell’ottimo libro di Cravera8 • La scuola Prescrittiva (Design, Planning, Positioning): approcci strategici che identificano il modo migliore per le imprese di agire nel contesto competitivo. • La scuola Descrittiva (Entrepreneurial, Learning Organization, Cognitive, Power, Cultural, Configuration): descrizione del processo da cui scaturisce una determinata strategia. Mentre la “scuola” Prescrittiva, tramite quasi tutti i suoi maestri e maturati (compreso uno dei “presidi” di maggiore fama: Michael Porter9 ), proclama e propone un approccio deterministico e riduzionista, quella Descrittiva si avvicina maggiormente al pensiero sistemico, particolarmente nell’accezione di scuola di Learning Organization, dove le discipline da studiare, e quindi da praticare, tengono ben presente le variabili qualitative, la struttura dei processi dell’impresa e la continua ricerca di relazioni e feedback dei componenti umani e infrastrutturali. Predisporre innanzitutto la cultura e quindi anche la struttura di un’organizzazione, che continuamente “apprende” e autonomamente si rigenera, ci sembra l’approccio auspicabile per la gestione della competitività in un sistema complesso e pieno di incertezze, quale è l’attuale contesto mondiale, ricordando comunque che: “ … conoscere e pensare non è arrivare ad una verità assoluta, è dialogare con l’incertezza”, Edgar Morin. Note 1 Edgar Morin nato a Parigi nel 1921 è un filosofo e sociologo francese, noto per l'approccio transdisciplinare con il quale ha trattato un'ampia gamma di argomenti. 2 Un problema si definisce complicato quando, pur con possibili difficoltà estreme, ha comunque almeno una soluzione 3 Un sistema si definisce complesso quando contiene un grande numero di variabili che interagiscono fra di loro con un grande numero di relazioni. Tali sistemi non sempre prevedono una “soluzione”. 4 Salvatore Vicari, nato nel 1951, è docente di Economia e gestione delle imprese e Direttore del Dipartimento di Management alla Bocconi. 5 Peter Senge, nato nel 1947, è il direttore del “Center for Organizational Learning” alla MIT Sloan School of Management ed è autore del libro “La quinta disciplina”; The Fifth Discipline: The art and practice of the learning organization. 6 Robert Grant, nato nel 1948 è professore di Strategic management all’Università Bocconi ed è l’autore del libro “L’analisi Strategica per le decisioni aziendali”; Contemporary Strategy Analysis. 7 Mintzberg, Ahlstrand, Lampel; Strategy safari: A guided tour through the wilds of strategic management, 1998. 8 Alessandro Cravera; “Competere nella Complessità”, ETAS, 2008. 9 Michael Porter nato nel 1947, è professore alla Harvard Business School dove dirige l'Institute for Strategy and Competitiveness. 34 economia e diritto link journal 2/2012 UK Corporate Governance Takes on an Italian Flavour C orporate governance is concerned with the systems by which companies are directed and controlled. Corporate governance arrangements in Britain and Italy have traditionally differed considerably. Market trends, however, are giving U.K. corporate governance an Italian flavour in a way that has important implications for investors in companies listed on the London Stock Exchange. A hallmark of Italian corporate governance is that most of its publicly traded companies have a “blockholder” who owns a sufficiently sizeable proportion of the shares to have substantial influence on corporate affairs. According to 2007 data compiled by researchers from Banca d’Italia and Consob among Italian stock market companies the largest shareholder owned, on average, 45% of the shares. Blockholders of this sort have traditionally been the exception to the rule in the U.K., particularly among the elite companies that comprise the FTSE 100 stock market index. Due to a migration to the London Stock Exchange by major companies operating outside the U.K., primarily from the mining sector, matters have been changing in a way that creates corporate governance challenges for Britain. By way of background, Britain has what can be referred to as an “outsider/arm’s length” system of corporate ownership and control. The fact that most large U.K. stock market companies lack a dominant “insider” shareholder means the “outsider” label is apt. The term “arm’s-length” signifies that shareholders in publicly traded U.K. companies usually do not become actively involved in corporate affairs and instead give executives a free hand to manage. In a country with an outsider/arm’s-length system of ownership and control corporate governance is primarily about enhancing managerial accountability. When corporate executives lack a sizeable share ownership stake and correspondingly receive only a tiny fraction of the returns derived from the profit-enhancing activities they engage in on behalf of shareholders, they may be tempted to use their control over corporate assets in a self-interested way. To the extent they do so, managers impose what economists refer to as “agency costs” on shareholders, and keeping corporate executives in check necessarily becomes the pivotal corporate governance issue. With countries where blockholders are prevalent, such as Italy, the system of ownership and control can be termed “insider/control-oriented” because dominant shareholders will function as “insiders” who exercise close control over corpo- rate affairs. When corporate governance is insider/control-oriented managerial accountability is unlikely to be a source of serious concern because blockholders should have both the means and the motive to discipline wayward executives. There is a danger, however, that dominant shareholders, likely in collusion with management, will cheat outside investors and secure what are known as private benefits of control. Protection of minority shareholders correspondingly should be a higher corporate governance priority than reducing managerial agency costs. The treatment of corporate governance in Britain reflects the fact that its publicly traded companies typically lack a blockholder. The U.K. Corporate Governance Code, which is an appendix to the Listing Rules that govern companies listed on the London Stock Exchange, seeks to place checks on corporate executives by vesting independent directors with substantial influence and by encouraging “arm’s-length” shareholders to intervene in appropriate circumstances. Moreover, the U.K. Corporate Governance Code operates on a “comply or explain” basis rather than being mandatory in orientation, with the underlying logic being that investors who are properly informed about corporate governance arrangements in companies in which they own shares can appropriately decide for themselves what reforms should occur. The U.K. corporate governance regime is not particularly well-suited for companies where blockholders dominate. The effectiveness of independent directors in such a company is likely to be compromised due to concerns on their part that the blockholder will use its voting power to dismiss them if they get out of line. For instance, in 2011 the three founding shareholders of ENRC, a large Kazakhstan copper mining company and member of the FTSE 100, were displeased with the degree of independence being exercised by two of the company’s outside directors and used their collective 43% ownership stake to terminate the directors’ involvement with company. The efficacy of the “comply or explain” system that underpins U.K. corporate governance is also compromised when a Brian R. Cheffins, SJ Berwin Professor of Corporate Law, Cambridge University - Visiting Professor Link Campus University link journal 2/2012 economia e diritto 35 FIAT JUSTITIA, ET PEREAT MUNDUS company has a dominant blockholder. The system presupposes that dispersed shareholders informed of disclosures of non-compliance with the U.K. Corporate Governance Code can respond by lobbying for change in appropriate circumstances. The logic loses much of its force, however, when a company has a major blockholder. Thedominant shareholder will almost certainly be aware of the company’s corporate governance arrangements already and thus will not treat disclosures on this front as a departure point for corrective action. Given the U.K.’s outsider/arm’s-length system of ownership and control, the fact that Britain’s corporate governance regime is not particularly well equipped to cope when controversial behaviour comes from dominant shareholders has generally not been a source of serious concern. Market trends are changing the situation. During the mid2000s, a commodities boom brought to prominence mining companies operating in emerging markets. The London Stock Exchange was eager to have firms of this sort list their shares for trading and attracted a sufficient number to increase the weighting of the mining sector in the FTSE 100 from 3.7% in 2003 to 14% by 2011. Dominant shareholders are commonplace with these newcomers. ENRC is one example of such a company. Others include Evraz, a Russian steel producer in which “oligarch” Roman Abramovich owns a large stake, and Bumi, a coal mining company in which Indonesian tycoons own nearly half of the shares. The trend of blockholder-dominated companies listing on the London Stock Exchange appears to be spreading beyond the mining sector. For instance, Alico Dangote, Africa’s richest man, announced in April 2012 that Dangote Cement, an industrial conglomerate he controls, intends to list on the London Stock Exchange and sell a minority stake to public investors to finance expansion. It is unlikely that blockholders will ever become as prevalent on the London Stock Exchange as they are among Italian stock market companies. Nevertheless, with blockholding arrangements familiar to Italians becoming increasingly prevalent on the London Stock Exchange, protection of minority shareholders seems destined to become a high priority item on the U.K. corporate governance reform agenda in the not-too-distant future. Riflessioni e paradossi in tema di crisi economica “N el bene e nel male sono sempre le idee e non gli interessi consolidati a risultare pericolosi”: così Keynes chiudeva il suo capolavoro, General Theory of Employment, Interest and Money. Ed è sufficiente uno sguardo all’attuale situazione economica europea, per verificare come l’intuizione fosse corretta; ma anche come il richiamo possa disvelarsi latore di una concreta utilità e non sia destinato ad attestarsi sul piano d’una compiaciuta citazione. E sì, perché l’individuazione delle cause e l’analisi degli errori non costituiscono mero esercizio teorico o, se si preferisce, vuota e sadica pratica di chi è riuscito a prevedere una qualche catastrofe. Sono, invece, il presupposto per individuare soluzioni o quantomeno per evitare il ripetersi di tali errori. Le analisi più sensibili sulle radici della crisi finanziaria americana avevano già ripreso, peraltro, l’avvertimento keynesiano; e più in generale, una brillante ricerca dall’icastico quanto ironico titolo “This time is different: Eight Centuries of Financial Folly” aveva già dimostrato la regolare ciclicità delle crisi nell’economia capitalistica – crisi tanto ricorrenti quanto i segnali, ovviamente inascoltati, che le precedono. Eppure, a dispetto di tutto ciò, ma anche della stessa ragionevolezza e di un malcontento ormai diffuso, su di un’Eurozona in grave difficoltà si addensano le nubi di un duplice fraintendimento, forse frutto di un unico sovvertimento assiologico. Ma procediamo per ordine. Dopo anni di fideistico abbandono nelle sue braccia, dovrebbe oggi esser tramontata l’idea che il mercato sia in grado di autoregolamentarsi; dovrebbero ritenersi superate, quindi, quelle bieche volgarizzazioni del mito nietzschiano dell’irrazionale dionisiaco che hanno indotto taluni ad acclamare in materia la “forza creatrice del volere liberato dalla ragione”. D’altro canto, pure svanita l’illusione che l’economia finanziaria e quella reale possano procedere disgiunte – se è vero che il disastro dell'una si è immancabilmente riverberato sull'altra –, finanche le voci prima più restie hanno iniziato a discorrere di failure of capitalism; o almeno del modello come fino ad ora immaginato. Quanti, poi, con indagini accurate e storicamente documentate hanno messo in luce gli elementi premonitori di buona parte delle crisi, alcuni denominatori comuni pur li hanno rinvenuti. Orbene, tra questi fattori vi è l’assenza di regolamentazione nel settore che ha innescato il meccanismo, o quantomeno una tendenza alla deregulation come più in generale ad una riduzione nei vincoli e nel livello Pierluigi Matera, Link Campus University 36 economia e diritto di vigilanza; al pari di quanto direbbe Guido Rossi, “le grandi crisi sorgono quando il diritto fa vacanza. E non è un caso che di fronte alla globalizzazione economica, oltre a quella tecnologica, del crimine organizzato e del terrorismo, manchi ancora completamente una globalizzazione giuridica, quasi che il diritto non abbia né la forza, né gli strumenti per entrare nel giuoco”. Ed a ben vedere, non in altro modo se non in chiave di “vacanza del diritto” possono spiegarsi il moltiplicarsi di taluni strumenti finanziari di cartolarizzazione del debito – o piuttosto del rischio del credito –, cui ha fatto seguito evidentemente la trasmutazione dei mercati d’investimento in mercati d’azzardo. Soltanto, vale a dire, in un’ottica meramente speculativa può leggersi la possibilità che i nostri mercati offrono di scommettere finanche sull'insolvenza delle società come anche degli Stati. Tant’è che – paradosso d’un capitalismo senza pietà o pudori – quella che per decenni è stata la prima società al mondo, sia per fatturato, sia per utili, la General Motors, ha persino conosciuto l’umiliazione di vedere la gran parte dei titolari delle sue obbligazioni votare contro forme di ristrutturazione finalizzate a riportarla in bonis; d’altronde, avendo questi sottoscritto dei cds, non potevano che preferire al salvataggio il suo fallimento, giacché l'insolvenza li ripagava in toto dell’investimento attraverso la copertura assicurativa. Solo un esempio, a dire il vero, di quella che appare come una vera e propria pulsione di morte – freudianamente intesa – di un sistema che ha abolito regole salutari, omesso più o meno coscientemente di legiferare sui derivati ed allargato le maglie della normativa in maniera sempre più irragionevole; di guisa che, quali che siano le ricette per combattere la crisi, quali che siano gli spunti ritenuti più interessanti, quali che siano i laboratori dai quali le soluzioni provengono, alcuna strada è destinata al successo – o almeno ad un esito durevolmente positivo – se non si recupera al diritto un ruolo centrale. Sì, al diritto, ed alla sua capacità di contemperare, attraverso il processo democratico sotteso alla sua produzione, le ragioni del mercato ed il principio solidaristico. Certo, a complicare la proposta inversione metodologica nell’approccio alla problematica, subentra un’ulteriore riflessione: se la crisi ha dimensioni sovranazionali, le regole giuridiche per contrastarla e prevenire un suo riproporsi devono essere comuni, o quantomeno far riferimento ad un plafond di principi condivisi; ed il diritto, stretto tra tradizioni radicate, differenze sistematiche e sterili rigurgiti d’una malintesa sovranità, appare tutt’altro che pronto a ciò. Si dirà: l’Europa ha introdotto, non senza dolorosi strappi, il c.d. fiscal compact; e l’Italia non ha di sicuro lesinato interventi legislativi e manovre. È vero, come è vero che essi sono ben lontani dal sostituire al Rule of Economics il Rule of Law. Anzi, le reazioni fin qui poste in essere sembrano quasi inseguire le logiche degli investimenti speculativi, nell’impossibile link journal 2/2012 missione di rinvenire una razionalità nel puro azzardo o di rassicurare un mercato che non intende premiare il più virtuoso ma solo lucrare sul più debole – o su quello che si decide essere il più debole. E quel che è peggio è che tale inspiegabile obiettivo – vale a dire quello di placare con del buon senso da bottega l’irrazionale sete d’una speculazione senza confini – appare rientrare nella più generale e scelerata politica che ha visto tutti i governi, a partire da quello statunitense, intervenire a protezione dei principali responsabili di questa crisi, quasi premiandoli, al pari del peggiore dei genitori. Come dire, una serie di scelte così banali che a rimarcarne gli errori si finisce con l’assumere toni involontariamente demagogici; così insensate che in nome del mercato si è paradossalmente violata la sua regola più sacra: quella per cui gli attori economici che non riescono a stare sul mercato ne devono uscire. Ed allora a paradossi si sovrappongono paradossi: accade così che il Regno Unito prende decisioni giuste (la mancata adesione al fiscal compact) forse per motivi sbagliati; o che ci si trovi a sperare nell’elezione di un presidente i cui proclami, in tempi normali, probabilmente darebbero i brividi – e non di piacere. Se a tutto ciò si aggiunge l’oggettiva difficoltà di contrastare la speculazione, l’indubbia opacità delle decisioni dei Fondi sovrani ed infine l’inarrestabile attrazione verso i fenomeni dell’unincorporation – nuova zona franca dal diritto e dai suoi strumenti di controllo – il quadro si profila alquanto desolante. La natura stessa degli azionisti, infatti, è profondamente mutata; le strutture istituzionali sono così diverse rispetto a quelle tradizionali che esigerebbero l’abbandono dei vecchi principi e la formulazione di regole intrinsecamente innovative, in una sorta di rinnovato contratto sociale che l'economia globalizzata pretenderebbe – se si vuol riprendere le parole del già citato Rossi. Ed invece sono le suggestioni dei dati economici a dettare l’agenda ormai perennemente emergenziale delle sedi di un potere sempre più tecnico e sempre meno democratico, mentre sempre più flebile diviene la speranza di un ritorno al complesso e prismatico portato di un diritto che non conosce le sole ragioni dell’economia; di un ritorno, in altri termini, a regole improntate a logiche non meramente economiche – perché il giusto non è semplicemente ciò che è economicamente conveniente. Prevale, dunque, un capitalismo che preserva la propria supposta indipendenza anche nel momento dell’autodistruzione. Ma soprattutto prevalgono gli egoistici abbagli di uno Stato che sembra proseguire nei medesimi errori di cui fu per contro vittima all’indomani della prima guerra mondiale – e non è un caso che populismo e sentimenti, questa volta antitedeschi, già paiono diffondersi in un’Europa in preda a governi sempre più imbelli. link journal 2/2012 economia e diritto 37 Nel frattempo, non resta che tentare di sopravvivere al rigorismo di questo rinnovato Economia “fiat justitia, et pereat mundus”. Magra consolazione; è vero, ma si sa, sono tempi di crisi. I nostri giovani Fabio Zampini Uso la fiscalità internazionale per lo sviluppo delle Aziende una preparazione di carattere internazionale rappresenta indubbiamente un vantaggio competitivo nei confronti dei colleghi italiani ed anche stranieri. Ha avuto difficoltà nell’inserirsi nel mondo del lavoro? Fabio Zampini si è laureato in Economia (International Management) a pieni voti. Attualmente lavora in qualità di Tax Manager presso la Crowe Horwath International. Direi di no. Grazie ad un progetto in collaborazione tra la Link Campus University e una delle cd. Big4 (le 4 più grandi società di revisione contabile) a conclusione della laurea tri ennale mi è stata offerta la possibilità di uno ‘stage’ di 6 mesi. Ciò ha rappresentato un’ importante opportunità per entrare subito in contatto con il mondo del lavoro, iniziare a conoscerne le dinamiche ed a sviluppare contatti. A conclusione della laurea specialistica ho, infatti, iniziato l’attività di consulenza tributaria proprio con la stessa Big4. Come interpreta, dal suo osservatorio, l’evoluzione della crisi economica globale. Mi parli del suo lavoro e della posizione che occupa.? Sperimentando sul campo la formazione ricevuta dalla Link Campus, in che cosa ritiene sia originale? Diversamente da altre università la Link Campus University grazie ai suoi piani di studi, alla struttura organizzativa ed al carattere internazionale permette di completare il proprio ciclo di studi in modo proficuo e nei tempi prefissati. Approcciare il mercato del lavoro poco dopo i vent’anni e con La crisi di natura finanziaria scoppiata negli ultimi mesi del 2007, sfociata poi in crisi economica ed industriale, ha investito e continuerà inevitabilmente ad investire la vita di tutti: famiglie, lavoratori, imprese. I fatti di cronaca nera, il calo dei consumi, i crolli dei mercati finanziari, i fallimenti di numerose imprese ne sono gli effetti più evidenti, tanto più in un Italia che soffre già di per sé di ulteriori problematiche di carattere domestico. Per risolvere la crisi economica globale si rendono necessarie manovre strategiche e correttive a più livelli (locale, nazionale e sovrannazionale), in più ambiti (finanziario, economico, fiscale, etc.) e probabilmente, fiducia nella teoria dei “corsi e ricorsi”. In qualità di Tax Manager per Crowe Horwath International, società internazionale, presente con 650 uffici in 109 Paesi, specializzata in ambito tributario, diritto e consulenza del lavoro, legale e societario ed audit , mi occupo di fiscalità d’impresa prevalentemente per gruppi multinazionali italiani ed esteri. 38 intelligence e sicurezza link journal 2/2012 N.A.T.O. / Africa: une liaison dangereuse D opo il ritiro dall'Iraq e quello prossimo dall'Afghanistan, la “vittoria” in Libia sembra aprire nuovi promettenti teatri operativi per un'alleanza che è vicina ormai ai sessantacinque anni. Non è il caso d'insisterci troppo perché si è trattato di una prima poco brillante. Politicamente, i BRICS e la Germania si sono opposti con un'astensione all'operazione, troppi paesi africani sono stati molto reticenti e solo 9 paesi membri su 28 hanno attivamente partecipato (uno sotto banco per non irritare l'opinione pubblica), mentre in Afghanistan ci sono tutti. Militarmente, una volta preso atto che la vittoria c'è stata e che non vi sono stati morti, né prigionieri portati in parata, al prezzo di un solo un aereo abbattuto, è opportuno guardare ai problemi: 1. una campagna al risparmio, con alleati che si ritiravano man mano che il conto economico cresceva; 2. una mobilitazione di mezzi ridicolmente bassa per il compito (2 sortite d'attacco/ora su un territorio immenso come quello libico; la metà di quelle ritenute necessarie) e per le spese affrontate nei decenni. I due grandi paesi hanno partorito un topolino (55 aerei d'attacco) che è diventato un coniglio dal cilindro grazie alle fragilità del regime ed al lavoro di fiancheggiamento sui ribelli, che comunque hanno dimostrato coraggio. Secondo calcoli ufficiali ad agosto la Francia aveva generato il 33% delle sortite d'attacco, gli USA il 16%, ed il resto dei paesi resto 10% ciascuno (UK ed Italia incluse, tranne Danimarca 11%); 3. una costante dipendenza dal supporto pregiato USA. L'80% dei voli di sorveglianza e ricognizione ed il 75% dei rifornimenti in volo era a stelle e strisce, più un sostanzioso rifornimento di bombe intelligenti dopo che le scorte europee si erano esaurite. Dopo decenni di vanto per le loro superiori spese militari Londra e Parigi dovrebbero tacere e fare sul serio insieme agli altri europei; 4. scarsi risultati in termini di capacità acquisite dai paesi europei anche dopo il solenne vertice di Lisbona in cui si era adottato un concetto strategico e si erano indicate le 10 capacità essenziali per le quali colmare il divario; 5. il brutto vizio di aiutare forze jihadiste pur di vincere; 6. la destabilizzazione postbellica non solo in Libia, ma anche nel vicino Mali. Alessandro Politi, Link Campus University A questo va aggiunto un handicap costituito dalla tenace resistenza africana all'idea di ospitare nel continente l'ormai noto comando strategico statunitense AFRICOM, responsabile per tutta l'area tranne l'Egitto. Autorizzato nel 2006, attivato nel 2008 ed impiegato per l'operazione Unified Protector nel 2011, AFRICOM non è riuscito a tutt'oggi ad avere una sede in teatro. In una partita a scacchi dietro le quinte, ogni volta che venivano offerti incentivi ad un paese africano minore (Nigeria e Sud Africa si erano subito opposti), Mohammar Gheddafi offriva il doppio sino a quando l'Unione Africana (UA) non formalizzò il suo rifiuto nel 2008. Molto più concreto e di basso profilo è stato per diverso l'approccio NATO. Nel 2005 il suo primo impegno è stato d'assistere logisticamente la missione dell'UA in Sudan, una responsabilità che si è sviluppata ulteriormente in Darfur per due anni. Due anni dopo, su richiesta dell'UA in merito ad una cooperazione di lungo termine per la costruzione delle necessarie capacità di peacekeeping africane, l'Alleanza fornisce supporto logistico e mobilità aeronavale ad AMISOM (African Union Mission in Somalia). Sempre nel 2007 si comincia a studiare su come valutare e costruire la prontezza operativa delle brigate della costituenda ASF (African Standby Force). Purtroppo l'intervento in Libia ha congelato per il momento una serie di sviluppi che avrebbero permesso di cambiare la percezione negativa di molti ed importanti paesi rispetto alla cooperazione militare con gli Stati Uniti e con i partner atlantici. Per esempio un simposio organizzato proprio sul tema NATO e cooperazione africana lo scorso 1° marzo 2012 dalla NATO Defense College (NDC) Research Division e dal link journal 2/2012 intelligence e sicurezza sudafricano Institute for Security Studies, insieme all'ambasciata norvegese presso Addis Abeba (che è il punto di contatto NATO con l'UA), ha dovuto riscontrare la sistematica assenza di funzionari d'alto livello dell'Unione Africana. Evidentemente si tratta di una protesta diplomatica legata alla questione libica. Il problema è che, se non si riesce a trovare un giusto approccio ai temi ed ai problemi africani, evitando di essere percepiti come attori neocoloniali, la Cina sarà la grande potenza che per prima profitterà della situazione. I leader africani sanno molto bene, che, per quanto benvenuto, l'aiuto cinese non è risolutivo, ma è condizionante: intanto è stata la Cina a costruire il nuovo QG dell'Unione Africana e 39 questo lascia inevitabilmente una traccia più profonda di altre dichiarazioni ed azioni. Sulla scia di Pechino si muoveranno altre due capitali fortemente interessate a ritagliarsi spazi significativi: New Delhi e Brasilia. Quest'ultima sfrutta, esattamente come la Francia con la Francophonie, la comunità degli stati lusofoni per crearsi nuove opportunità, insieme all'organizzazione regionale IBSA (India, Brasile, Sud Africa), mentre Nuova Delhi sta cercando più presente là dove vi sono le comunità d'emigrati indiani più numerose e dove vi sono possibilità d'espandere il suo controllo dell'Oceano Indiano, per esempio con partnership sudafricane. Una nuova frontiera della guerra economica: lo spionaggio industriale nel cyberspazio L o spionaggio industriale e scientifico – ossia la ricerca informativa occulta tesa all’acquisizione di segreti industriali e proprietà intellettuale da imprese e centri di ricerca - é un fenomeno in forte espansione in tutto il mondo. Praticato sia da Stati che da attori non-statali, esso viene condotto sempre più di frequente nello spazio cibernetico e mediante le nuove tecniche di intrusione informatica (Computer Network Exploitation). Il fenomeno insidia in primo luogo la supremazia economica e tecnologica degli USA, ma costituisce un problema crescente per tutti i paesi occidentali, e anche per il nostro Paese. Esso va considerato una minaccia alla sicurezza economica e alla competitività del sistema-Italia sui mercati internazionali. Si tratta di un attacco all'economia italiana meno visibile e conosciuto rispetto alla speculazione finanziaria sui bond, ma altrettanto insidioso. Obiettivo privilegiato di attacchi spionistici in campo industriale sono le imprese che investono consistenti risorse in ricerca e sviluppo, soprattutto quelle operanti in settori strategici e high-tech, ma nessun tipo di azienda o settore economico é escluso. In tempi recenti ne sono state vittime anche colossi come General Motors, Lockheed Martin, Google, Intel, BAE Systems, Motorola, Northrop Grumman. Lo spionaggio industriale viene praticato da diversi tipi di attori: 1) imprese che prendono di mira i propri competitors, spesso avvalendosi di impiegati infedeli di questi ultimi; 2) strutture private d'intelligence dedite al commercio di inforLuigi Sergio Germani, Link Campus University mazioni segrete o "sensibili" di ogni specie; 3) servizi d'intelligence di determinati Stati, che mirano ad acquisire all’estero segreti industriali e scientifici da conferire alle proprie imprese nazionali al fine di potenziarne la competitività e risparmiare ingenti costi di ricerca e sviluppo; 4) organizzazioni criminali attive nel business della contraffazione; 5) criminali informatici che agiscono autonomamente o al servizio di uno o più degli attori sopramenzionati. I danni inflitti dallo spionaggio industriale alle imprese e alle economie nazionali sono molto consistenti: i Paesi colpiti subiscono un calo di competitività internazionale e spesso la perdita di un grande numero di posti di lavoro. Tuttavia, tali danni sono difficili da valutare e quantificare in maniera precisa: essi restano in gran parte “sommersi”. Ciò è dovuto a diversi fattori. Va sottolineato, in particolare, il fatto che le imprese vittime di un attacco spionistico (effettuato con strumenti d’intelligence tradizionali o cibernetici) spesso preferiscono non comunicare l’incidente avvenuto alle Forze dell’Ordine, perché temono ricadute negative sulla propria immagine e reputazione. Inoltre, molte aziende si accorgono di aver subito un furto di informazioni sensibili soltanto a distanza di anni. Diversi Stati ravvisano nello spionaggio industriale uno strumento indispensabile di tutela della propria sicurezza economica e di promozione dei propri interessi economici nazionali. Esso viene praticato, altresì, per acquisire tecnolo- 40 intelligence e sicurezza gie dual-use utili ai programmi di modernizzazione militare perseguiti da detti Stati (i confini fra spionaggio industriale e spionaggio militare spesso sono sfumati). Pertanto, non sorprende il fatto che nell’ultimo decennio determinati servizi d’intelligence stranieri abbiano notevolmente intensificato le proprie attività spionistiche tese all’appropriazione di segreti industriali e tecnologici. Per fare ciò, essi mettono in campo diverse metodologie operative, e in particolare la Humint (fonti umane occulte), la Sigint (intercettazione di comunicazioni) e, in misura crescente, le nuove tecniche di intrusione nelle reti informatiche (come, ad esempio, lo spear phishing, utilizzato unitamente alle tecniche di social engineering). Il cyberspazio rappresenta un nuovo ambiente operativo per le attività di intelligence. Esso facilita molto le operazioni di spionaggio industriale, militare e politico, ne moltiplica l’efficacia, ne abbassa i costi operativi, minimizzando altresì i rischi che gli autori e l’origine geografica di un attacco possano essere individuati. Secondo esperti di controintelligence, i servizi informativi delle potenze emergenti del mondo non-occidentale (Cina, Russia, India, Iran, e altri paesi) dedicano considerevoli sforzi all’infiltrazione di industrie e centri scientifici nei paesi occidentali. Ma anche alcuni Stati dell’area filo-occidentale pra no sistematicamente lo spionaggio industriale nei confronti di altri Paesi occidentali che sono i loro alleati militari. Vari analisti statunitensi affermano che i Servizi informativi francesi, israeliani e giapponesi da anni conducono programmi d’intelligence offensiva nei confronti delle corporations americane. Il concetto di “guerra economica”, proposto da alcuni studiosi per descrivere l’ipercompetizione geoeconomica che caratterizza la nostra epoca, è utile per comprendere la crescente rilevanza del fenomeno dello spionaggio industriale. La fine del mondo bipolare e il processo di globalizzazione hanno determinato una sempre più intensa competizione fra sistemi-paese per il controllo di tecnologie-chiave, per la conquista di mercati per i propri prodotti (specie quelli sensibili), e per il controllo di risorse energetiche e altre risorse naturali. link journal 2/2012 Non a caso, le comunità d’intelligence di quasi tutti i paesi del mondo hanno via via ampliato i propri compiti in materia economica. Determinati Stati, poi, hanno scelto di potenziare lo spionaggio industriale: la componente più offensiva dell’intelligence economica. I Servizi d’intelligence più agguerriti del mondo nel campo dello spionaggio industriale sono probabilmente quelli cinesi e russi. Entrambi stanno sviluppando forti capacità offensive nel campo del cyber-espionage. La Cina e la Russia, che si considerano concorrenti strategici degli Stati Uniti e dell’Occidente, puntano ad acquisire (tramite l’intelligence) le più innovative tecnologie occidentali allo scopo di modernizzare le proprie economie e apparati militari. Tra i target di maggiore interesse vanno menzionati i seguenti: information technologies, telecomunicazioni, nuove tecnologie in campo energetico, biotecnologie, ingegneria genetica, tecnologie nucleari, nanotecnologie, industria aerospaziale, tecnologie militari, elettronica. Di fronte al nuovo scenario di minacce sopradescritto si rende necessario per l’Italia rafforzare una serie di misure strategiche di contrasto, tra cui: 1) il potenziamento delle attività di controspionaggio, controingerenza e tutela della cyber-security nazionale affidate alla comunità d’intelligence italiana; 2) politiche tese a incentivare le imprese a modernizzare i propri sistemi di gestione della sicurezza delle informazioni; 3) lo sviluppo di una più stretta cooperazione tra apparati di sicurezza e settore privato. In conclusione, va sottolineato che per rilanciare la crescita dell’economia italiana occorrerà aumentare in misura consistente il livello d’investimento pubblico e privato in ricerca scientifica e tecnologica. Il nostro Paese dovrà essere sempre più in grado di rispondere alla domanda di prodotti high-tech nel mercato internazionale. Di conseguenza, nei prossimi anni è destinata ad assumere una rilevanza ancora maggiore la protezione del patrimonio scientifico, tecnologico e industriale nazionale nei confronti di attività ostili d’intelligence. link journal 2/2012 comunicazione 41 Comunicazione visiva: un'ipotesi sulla dislessia U na visione più ampia della scrittura e della lettura, unita all'esperienza del tutoraggio a studenti dislessici, fa emergere prospettive interessanti per l'insegnamento, l'apprendimento e la sua verifica. Il termine ‘dislessia’ deriva dal greco ed è composto dal prefisso ‘dys-’ – difficoltà – e dal lemma ‘λ ξις’– discorso, parola, vocabolo –. Denoterebbe, quindi, una difficoltà legata alle parole. Più precisamente, il gruppo di lavoro dell’International Dyslexia Association, nel 2000, ha definito questo disturbo evolutivo come «una disabilità specifica dell’apprendimento di natura neurobiologica, caratterizzata dalla difficoltà a effettuare una lettura accurata e/o fluente e da abilità scadenti nella scrittura e nella decodifica. Queste difficoltà derivano da un deficit nella componente fonologica del linguaggio che è spesso inattesa in rapporto alle abilità cognitive e alla garanzia di un’adeguata istruzione scolastica». La definizione rinvia, dunque, a una difficoltà di lettura e scrittura dei testi alfabetici e, in particolare, dei testi lineari. Ed è proprio sulla correlazione tra dislessia e linguaggio verbale che bisogna riflettere nella misura in cui questa non pregiudica in alcun modo l’efficacia di altre forme comunicative (la riflessione proposta nel presente articolo è pertinente anche rispetto alla discalculia, la disgrafia e la disortografia, altri disturbi che spesso si presentano in comorbidità con la dislessia evolutiva). La storia da un lato e la nostra esperienza quotidiana dall'altro mostrano che i modi con cui l'uomo utilizza uno spazio grafico non coincidono con la scrittura alfabetica lineare. La storia del pensiero è ricca di esempi – dal Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore, al Sidereus Nuncius di Galileo, agli scritti di Leonhard Euler, alla tavola periodica di Mendeleev, fino ai diagrammi del fisico Richard Feynman –, che indicano come l'utilizzo di forme non lineari sia stato praticato come strumento per elaborare e condividere argomentazioni. Nel corso della nostra vita incontriamo bollette, carte geografiche, libretti illustrativi, quotidiani, tavole periodiche degli elementi, mappe della metropolitana, diagrammi a barre, figure geometriche, sintesi visive di esperimenti scientifici, etc. Tutte forme in cui la scrittura è strutturata in modo non lineare e le parole e le immagini sono integrate senza possibilità di essere tradotte attraverso l’uso esclusivo di sequenze alfabetiche. Per questo tipo di scrittura, alcuni studiosi e progettisti (Antonio Perri, Giovanni Lussu, Luciano Perondi, Leonardo Romei) propongono di parlare di scrittura sinsemica. La dislessia emerge in relazione ad una specifica visione della scrittura e della lettura, che fa da presupposto ad alcune forme di insegnamento e di verifica del sapere: trasmissione di concetti attraverso le parole dette e le parole lette, verifica attraverso scrittura di parole nella struttura predefinita di un foglio a righe. Il legame privilegiato che intercorre tra alcune metodologie didattiche e il codice verbale ostacola il processo di apprendimento dei ragazzi dislessici perché lo vincola a un’attività di decodifica dell’informazione grafica, alla sua traduzione in un termine provvisto di una rappresentazione fonologica e di un’entrata lessicale e a una rapida comprensione della sintassi Leonardo Romei, Link Campus University / Chiara Mancini, A.M.P.I.A. 42 comunicazione logico-verbale. Al contrario, un’attività didattica caratterizzata dall’adozione di testi sinsemici permette di aumentare la qualità dell’apprendimento di studenti dislessici, che, sovente, hanno una fruttuosa confidenza con la sintassi visiva. A dimostrazione di ciò, l’esperienza del Centro Specialistico per l’Apprendimento A.M.P.I.A. – altri modi per insegnare e apprendere –. Il tutoraggio a studenti dislessici ha, infatti, comprovato l’efficacia, in termini di apprendimento e sviluppo armonico dell’intelligenza, di una didattica multisensoriale, incentrata sulle associazioni tra più canali (verbale-visivo, visivo-uditivo, etc.) e la conseguente integrazione tra comunicazione verbale e comunicazione visiva (schemi, mappe concettuali, linee del tempo, carte geografiche e immagini mentali). link journal 2/2012 Lo studio delle regioni italiane, ad esempio, può essere condotto attraverso l’elaborazione di un testo costituito dall’affiancamento della cartina fisica del territorio e di tante cartine tematiche quanti sono gli argomenti da trattare: demografia, clima, economia. Associando, inoltre, a ogni tema un colore specifico e collegando ogni area tematica con frecce veicolanti sia l’ordine espositivo, attraverso i numeri, che le connessioni logiche, attraverso l’uso dei connettivi, si aumenta sensibilmente la qualità della comprensione e si favoriscono, così, l’elaborazione e il processo di memorizzazione dei concetti. Ancora, una poesia da memorizzare può essere tradotta in una sequenza di immagini, eventualmente associate a lettere, e intervallate da alcune parole secondo il modello del rebus (ad es. la parola ‘colloquiali’ può essere tradotta figurativamente in un collo cinto dalla lettera ‘Q’ e racchiuso da un paio di ali). Infine, ogni argomento può essere concettualizzato sotto forma di mappa così da restituire i nessi logici fondamentali, spezzare la linearità del testo alfabetico e integrare in modo sinergico gli elementi verbali e quelli visivi (sotto tale rispetto risultano preziosi i software informatici). Se il ricorso alla comunicazione visiva nella fase dell'insegnamento è fondamentale, non si è ancora indagato proficuamente l'ambito della verifica degli apprendimenti per capire se il testo visivo, oltre a dover caratterizzare la struttura delle prove di verifica, possa arrivare a contraddistinguere le risposte formulate dagli studenti dislessici. La ricerca e l’individuazione di metodologie didattiche sinsemiche e polisensoriali sono, pertanto, opportune, posto che: - la dislessia, come tutti i disturbi specifici dell’apprendimento, è intrinseca all’individuo e, quindi, resta presente per l’intero corso della sua vita. È bene mirare, così, "all’eliminazione delle conseguenze negative del disturbo" attraverso forme testuali capaci di farlo (C. Cornoldi,1999, Le difficoltà di apprendimento a scuola, Bologna, Il Mulino); - i metodi usati per gli studenti dislessici risultano utili e familiari anche ai normolettori. Dunque, è tanto opportuno quanto strategico adottare una didattica unica e inclusiva per l’intero gruppo classe; - la sinergia tra forme comunicative restituisce la complessità del mondo esterno e delle competenze affinate dal genere umano. link journal 2/2012 comunicazione 43 I nostri giovani - Comunicazione Giulia Mizzoni Prima donna Link in Champions League Giulia Mizzoni laureanda in Comunicazione (Communication Managment), lavora come giornalista presso la redazione di Sky Sport24. Ritiene che gli studi effettuati presso la Link Campus l’abbiano agevolata nella sua professione? Sono diverse le peculiarità che distinguono la Link Campus dalle altre Università presenti in Italia. Innanzitutto lo studio della lingua straniera che, se non si ha la possibilità di andare all’estero, raramente è davvero utile, studiata alle medie o al liceo. Per quanto riguarda la mia personale esperienza, frequentando la Link ho avuto subito la netta sensazione che ciò che studiavo, si sarebbe rivelato prezioso una volta uscita da qui (aspetto, questo, che purtroppo manca quasi totalmente in altre università). Il valore professionale e umano dei nostri docenti, contribuisce a mantenere vivo l’interesse per ciò che si studia anche con esperimenti pratici, che vanno oltre il libro e gli appunti e, soprattutto, ove ci siano volontà e capacità da parte dello studente, si instaurano rapporti di reciproca stima che, a volte, possono aprire orizzonti molto interessanti anche in ambito professionale. A me è accaduto esattamente questo. Parlando e confrontandomi con alcuni docenti, ho visto in loro le persone adatte per accompagnarmi in un percorso che andasse anche oltre quello didattico, e probabilmente loro hanno scoperto di avere di fronte un’alunna che non voleva limitarsi a seguire la lezione, studiare e dare l’esame, ma che aveva interesse ad incarnare quello che dovrebbe essere il vero scopo dell’Università: prepararci a ciò che c’è fuori, in base alle inclinazioni, le passioni e le competenze che man mano ci accorgiamo di avere. Ha avuto difficoltà nell’inserirsi nel mondo del lavoro? Partendo dal presupposto che ad oggi, per la nostra generazione, aspirare al posto fisso o ad un contratto a tempo indeterminato è praticamente un'utopia, credo di potermi ritenere molto fortunata rispettto ai miei coetanei per essere riuscita ad intraprendere un percorso professionale che corrisponde esattamente agli obiettivi che mi ero prefissata. Va detto però, che per riuscirci ho sacrificato molto della mia vita privata, iniziando molto presto la mia sacrosanta gavetta (avevo 19 anni) insistendo fino ai 25 anni per raggiungere un posto di lavoro degno di questo nome. Dal suo osservatorio, come giudica il mondo dell'informazione. Descriva, se possibile, il suo ruolo e come ha raggiunto la posizione che occupa? Quello dell'informazione è un mondo variegato che nell'era dei nuovi media consente a tutti, ovunque e con qualsiasi mezzo di comunicazione, non solo di accedere ad una notizia, ma di divulgarla. Questo è forse il motivo della crisi che in Italia in particolare sta vicvendo la carta stampata, di pari passo con la diffusione a macchia d'olio dell'informazione on line (rapida e spesso gratuita) e radiotelevisiva. Da qui la mia scelta professionale, quella di proiettarmi verso radio e tv, mezzi d'informazione col dono dell'immediatezza, prerogativa fondamentale in un mondo che vive di news. Il nostro ruolo, quello di chi "produce" informazione e quindi notizie, non è più quello dei grandi giornalisti di un tempo, quelli dei grandi quotidiani, quelli che ognuno di noi ricorda con rispetto e riverenza. In radio, così come in tv (e forse è questa la vera differenza con la carta stampata), il rapporto con chi ascolta e guarda è inevitabilmente più diretto... si entra nelle case e nel quotidiano delle persone, nel tentativo di guadagnarsi il loro rispetto e, soprattutto, credibilità. Tutto, nel mondo dell'informazione attuale, vive su quel sottile legame che si instaura tra chi "fa" informazione e chi quell'informazione la riceve, e in quel momento fa poca differenza che l'oggetto sia la crisi finanziaria o i gol di Messi nella partita del Barcellona. Rompere quel filo, a mio avviso, significa defraudare il nostro ruolo di gran parte del proprio valore. Credo sia questo l'aspetto più affascinante e al contempo "rischioso" che ho scoperto nel corso della mia esperienza professionale. 44 ambiente Protezione civile Previsione e prevenzione: due aspetti fondamentali per la sicurezza A stimolare in modo definitivo il legislatore sulla necessità di dare al nostro Paese un servizio efficiente e moderno di protezione civile sono state soprattutto le grandi catastrofi che nel secondo dopoguerra: nell’ordine, Polesine, Vajont, Firenze, Belice, Friuli, Campania-Basilicata sono state le lezioni, durissime, che una nazione che voleva dirsi moderna dovette subire prima di poter ingaggiare una rinnovata responsabilità nei confronti del rischi, sia quelli di origine naturale, sia quelli in cui la mano dell’uomo ha fatto la sua parte. Trenta anni fa, nel 1982, nasceva dunque il Dipartimento della Protezione civile come articolazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri; dieci anni dopo veniva approvata la prima legge organica di protezione civile, la legge 24.2.1992 n. 225. A venti anni da quella legge, è in corso proprio in questo periodo una riflessione a carattere complessivo sul settore, anche a seguito delle modifiche costituzionali che all’inizio del terzo millennio hanno ampliato lo scenario dei protagonisti della protezione civile, coinvolgendo a tutto tondo le regioni e gli enti locali, e facendo tesoro del nuovo originalissimo contributo offerto dal diffuso fenomeno del volontariato di protezione civile. Il servizio nazionale della protezione civile è oggi un sistema complesso di attribuzioni e di funzioni e soggetti. Lo schema di articolazioni organizzative disegnato attualmente dalla norma, da un lato ha riguardo all'assetto istituzionale e politico amministrativo, nel suo comGiuseppe Zamberletti, Presidente ISPRO plesso, del nostro Paese; dall'altro alla normativa specifica di settore, e segnatamente quella inerente la funzione e il ruolo di ciascuno dei soggetti che costituiscono detto servizio. Sul piano istituzionale e delle attribuzioni, nell'attuale assetto organizzativo della P.C. le cosiddette competenze statali di coordinamento fanno oggi capo al Presidente del Consiglio, che può tuttavia delegarne la funzione a un Ministro, mentre al livello territoriale, non meno importante, il comune è il centro propulsore delle attività quotidiane, sotto la responsabilità del sindaco, il quale non può abdicare né politicamente né amministrativamente alla funzione di autorità locale di protezione civile quand'anche abbia delegato un assessore a svolgere per suo conto le pratiche amministrative necessarie. Con l'applicazione reale del principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione al nostro sistema Costituzionale, la protezione civile è oggi materia di legislazione concorrente. Ciò significa in pratica che in questo campo le regioni legiferano per competenza diretta, e una volta fissati da parte dello Stato alcuni principi di carattere generale validi per tutti, sono le regioni a tracciare la strada normativa dei vari settori. Sul piano operativo, il servizio nazionale si fonda su alcuni questi pilastri che rappresentano le diverse attività normalmente in gioco. Per quanto riguarda la gestione emergenziale strettamente intesa, dopo anni di rodaggio possiamo ritenere che l’Italia non abbia più molto da imparare, ma si tratti semmai di modulare e affinare i diversi protocolli di intervento per assicurare lo stesso livello di efficienza su ogni tipo di emergenza e as- link journal 2/2012 ambiente sicurarci una capacità di tenuta in efficienza sul piano qualiquantitativo delle risorse in campo, soprattutto da quando è venuto meno il contributo possente che fino a qualche anno ci veniva assicurato dalle Forze Armate che venivano aggregate alla catena di comando della protezione civile. Dove si può e si deve fare ancora molto è l’ambito della previsione e della prevenzione, due attività fondamentali che noi italiani siamo stati fra i primi a concepire normativamente come “connaturate” alla protezione civile, ma nelle quali, tuttavia, la differenziazione di competenze esistente soprattutto a livello regionale e locale, e il continuo progredire della ricerca, della tecnologia e delle comunicazioni possono ancora fare la differenza. Esistono rischi che possiamo definire “giovani”, che ancora non sono stati sufficientemente esplorati, soprattutto nel campo ambientale e dell’energia, ma non dobbiamo scordare che anche nell’ambito dei rischi maggiori e più conosciuti, come il sismico o l’idrogeologico, scienza e sistema di prevenzione devono il più possibile camminare di pari passo. Ad esempio, se nell’ambito del rischio sismico occorre riconoscere che negli ultimi anni si è spinto con una certa forza, anche normativamente, sul pedale della riduzione della vulnerabilità dell’edilizia, occorre riconoscere come necessaria una maggiore incisività nello studio e nell’analisi del fenomeno dei precursori sismici, sul quale lo stato dell’arte non ha registrato grandi passi avanti nell’ultimo periodo. Ma è sul piano dell’enorme progresso tecnologico e della comunicazione che in termini di prevenzione è possibile garantire un forte e rapido salto di qualità. Le potenzialità offerte oggi dalla rete e dal digitale in tutte le sue forme, ci garantiscono la possibilità di raggiungere quote sempre più ampie di popolazione non solo per informarla tempestivamente sui pericoli, ma anche per consentirne la partecipazione alle scelte di pianificazione locale ai fini del raggiungimento degli obiettivi di salvaguardia delle persone e dei beni. Sul piano operativo e realizzativo, non si possono tralasciare tuttavia i limiti che attualmente sono imposti ovunque dai 45 meccanismi della spesa pubblica. Ciò pone spesso le amministrazioni territoriali, alle quali è assegnata oggi la gran parte delle responsabilità di protezione dei cittadini, in condizioni operative oggettivamente difficili. La forza principale per favorire la migliore resilienza delle comunità a rischio, deve perciò essere espressa in massima parte dal territorio stesso, attraverso una sempre maggiore formazione degli amministratori locali sui temi della protezione civile, e un sempre maggior coinvolgimento di un volontariato di protezione civile locale, formato e appassionato. Ed è importantissimo che i volontari di oggi non siano concepiti solo come forza di intervento in emergenza: essi, anche alla luce degli sviluppi della situazione attuale del Paese, devono diventare i protagonisti della prevenzione territoriale in aiuto ai sindaci che sono le autorità comunali, quali a causa dei problemi della finanza pubblica vedono oggi fortemente limitata la propria capacità di intervento sul territorio. La presenza costante, assidua ed esperta di bravi e formati operatori professionali e volontari nei singoli comuni così come nelle diverse possibili forme di associazionismo tra enti, oltre ad esser di validissimo supporto ai sindaci, aiuta a diffondere quella cultura della prevenzione che dovrebbe essere propria di ogni stato moderno e avanzato, e consente di “leggere” quotidianamente il territorio, di segnalare le situazioni di potenziale pericolo per evitare conseguenze disastrose facendo la dovuta pressione ove necessario sulle autorità locali. In una parola, se il sindaco è riconosciuto oggi dalla legge come autorità di protezione civile, allora deve poter garantirsi e garantire, assieme ai collaboratori, agli operatori pubblici e privati e ai volontari, degli appropriati percorsi di formazione. Per questo appare utile implementare la presenza sul territorio di professionalità specifiche capaci di interpretare il settore della protezione civile con la giusta mentalità interdisciplinare, contribuendo alla crescita dei sistemi locali, per poter valorizzare al massimo livello le potenzialità della funzione di coordinamento, sulla quale si basa la filosofia della protezione civile italiana a tutti i livelli. università 46 link journal 2/2012 La scommessa del futuro: costruire un’Università che sappia interagire tra società e impresa Università Deve assolvere a compiti anche molto diversificati, con paradigmi scientifici molto meno unitari che in passato. L e strategie per l’Università di oggi e di domani debbono partire dalla consapevolezza di dover superare l’idea fondativa ricevuta dalla tradizione, quanto mai ricca e preziosa (basti pensare alla nascita medievale, tutta italiana, dell’ istituzione e al contributo dato al progredire della civiltà europea). Talvolta accade tuttavia che il modo migliore per conservare l’eredità di un passato glorioso consiste nell’aprirla al nuovo. L’Università della tradizione – soprattutto quella che vien detta “humboldtiana” – era, per così dire, mono-funzionale, assolveva cioè ad un unico compito: formare, sulla base di un modello fortemente unitario di sapere scientifico, un’ èlite ristretta e socialmente omogenea. Era un’Università che, nata dal basso, si era poi assestata nel segno della statualità, per quel rapporto di esclusività tra Stato e saperi che si è realizzato con la nascita stessa dello Stato moderno e che è venuto poi esaltandosi nella lunga stagione del dominio idealistico. L’Università che oggi i Paesi avanzati vanno costruendo è invece “polifunzionale”. Giocando con le parole, si è scritto che stiamo assistendo alla trasformazione dell’Università - il cui etimo, ad unum vertere, esprime l’antica aspirazione all’unitarietà del sapere - in Multiversità. Essa deve assolvere cioè a compiti anche molto diversificati, con paradigmi scientifici molto meno unitari che in passato. Deve continuare a formare èlite, produrre senza sosta nuova ricerca e nuove idee, ma deve anche formare milioni (sono questi i numeri) di operatori nei diversi rami della conoscenza, bisognosi di accedere a culture di tipo superiore per svolgere adeguatamente compiti vitali per la sopravvivenza delle società contemporanee: essi non sono propriamente èlite - il loro numero, a tacer d’altro, lo im- Ortensio Zecchino, Fondazione Link Campus University pedisce - ma hanno tuttavia bisogno di una formazione superiore che solo l’Università è in grado di assicurare. La prima conferenza mondiale dell’UNESCO sull’insegnamento superiore (Parigi, Ottobre 1998) ha fissato in proposito precisi obbiettivi: la società della conoscenza deve rendere obbligatoria la formazione di livello universitario, così come nella prima società industriale fu resa obbligatoria la scuola elementare e in quella postindustriale la scuola media. Da qui la scommessa per il futuro prossimo: costruire un’Università con moduli diversi e tra loro collegabili. Nell’accelerata dinamica della conoscenza, l’Università deve inoltre superare la logica della formazione concentrata una tantum in una ben definita fase della vita, per realizzare invece moduli capaci di assicurare una formazione continua lungo tutto l’arco della stessa. Spezzato ormai il rapporto di esclusività tra Stato e saperi, il nostro tempo rende destinataria primaria di questi ultimi la società. L’autonomia universitaria, sancita dalla nostra Costituzione come riconoscimento di un ordinamento originario, riceve così una potente spinta alla sua piena attuazione dalla forza del contesto storico. In particolare l’autonomia didattica, entro i limiti di una tenue cornice, diventa la condizione per raccordare flessibilmente l’Università alla società e al mondo produttivo. Da più parti si è levato l’invito all’abolizione del valore legale dei titoli di studio per costruire su questa tabula rasa il nuovo edificio. Su un tale intervento che, in tempi di deregulation, viene sempre più spesso invocato come risolutore dei mali del nostro sistema formativo, occorre qualche realistica considerazione. Porre il problema del valore legale del titolo in termini link journal 2/2012 università generali non aiuta molto e relega il dibattito in una sfera ideologica. Non si può infatti teorizzare che nessun titolo possa avere un qualche valore legale né, al contrario, che ogni attività formativa e professionale debba richiedere un titolo di studio. L’approccio al tema deve essere necessariamente empirico e specifico anche alla luce del dettato costituzionale (art. 33: “E’ prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuola o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”). Nel nostro ordinamento, non diversamente da quanto avviene in altri Paesi europei, al titolo di studio si connettono dunque taluni imprescindibili effetti specifici. Solo il di più dovrebbe essere oggetto di auspicabili interventi di liberalizzazione. Ma una spinta forte in questa direzione deve esser data dall’autonomia didattica che, consentendo alle Università di organizzare i corsi di studio con soluzioni e modalità anche molto diversificate, creerà di fatto le condizioni per una progressiva svalutazione dei titoli. Essi, infatti, non avranno un identico valore, perché a differenza del passato, non certificheranno più un percorso formativo uniforme. Tutto ciò è destinato a ridimensionare sempre più nei fatti il valore legale, dando invece peso crescente allo specifico curriculum personale. Non a caso nel quadro della nuova organizzazione degli studi nel nostro Paese le Università sono obbligate a rilasciare “come supplemento al diploma di ogni titolo di studio, un certificato che riporta, secondo modelli con- 47 formi a quelli adottati dai paesi europei le principali indicazioni relative al curriculum specifico seguito dallo studente per conseguire il titolo” (art. II, c.8,D.M.509/99). Il punto politicamente delicato è, non solo in Italia, quello di comporre in un ragionevole equilibrio le esigenze di “ controllo-qualità” con quella di autonomia dei processi formativi. LCU e Privilege: accordo per la promozione di atttività di ricerca e formazione manageriale A Civitavecchia l’eccellenza è di casa. Il Cantiere Privilege Yard, inaugurato nel 2008 e attivo nel porto locale, è in grande espansione: nella romana Centumcellae, porto di grandi marinai e della sambuca, si producono, ora, anche imbarcazioni da sogno! La Privilege è un’azienda italiana che ha optato per l’Italia e per gli italiani, invece di decentrare la produzione in Paesi con un più basso costo della manodopera. Scelta in controtendenza, giustificata dal fatto che, sulla qualità, non si fa economia a beneficio del Paese. Il Cantiere, totalmente privato e di proprietà dei manager, nonostante la fase di stagnazione dell’economia italiana, offre lavoro a molti tecnici, operai, artigiani e ingegneri, e può contare sull’espansione delle molteplici aziende partner. Questa iniziativa, per le caratteristiche imprenditoriali e per la prospettiva occupazionale, ha avuto il conforto del mondo istituzionale, sia locale che nazionale. Secondo il dott. Antonio Battista, responsabile amministrativo Privilege Yard S.p.A., e membro del Consiglio di La Privilege Yard ha avviato due iniziative di cooperazione con alcune Università italiane: La prima riguarda il reclutamento di giovani ingegneri navali, attraverso un accordo con le Università italiane di Genova, Napoli e Trieste dove è attivo un corsocorso di Ingegneria Navale. Il Cantiere accoglierà in stage operativi un certo numero di laureandi e i migliori, una volta laureati, potranno essere inseriti nell’organico del Cantiere. La seconda riguarda un accordo con Link Campus University, per la promozione di un attività di ricerca scientifica e di alta formazione internazionale (Master di primo e di secondo livello), nell’area degli studi gestionali applicati all’ “area” del trasporto marittimo e,, specificamente, dei porti. La stimolo da parte di Privilege alla creazione di un centro universitario per tutta l’area del Mediterraneo, a ciò dedicato, vuole contribuire all’impegno delle autorità pubbliche, nazionali e locali, per la crescita e il consolidamento di un “polo” marittimo mediterraneo. La Link Campus sta definendo, insieme ad altre Università, il progetto con l’obiettivo finale di una Laurea Magistrale, nelle diverse lingue dei Paesi del Sud del Mediterraneo. Amministrazione: “Se la politica si è interessata a noi, è proprio perché ha visto che questa operazione avrebbe potuto portare molta occupazione. Noi vogliamo (e lo stiamo già facendo) impiegare personale soprattutto locale, di Civitavecchia. Attualmente diamo lavoro a circa 500 persone. Quando raggiungeremo il pieno regime, anche con la costruzione della seconda nave, arriveremo ad almeno 800 unità; se, come riteniamo, andrà in ‘porto’ la costruzione di una terza nave, supereremo ampiamente le mille unità.”. “C’è una parola per descrivere la filosofia con cui Privilege progetta le sue imbarcazioni: l’eccellenza. La nostra fascia di mercato è, ovviamente, limitata, ma internazionalmente consolidata. In questo campo o sei il primo al mondo, oppure è inutile competere. Nel campo dell’eccellenza, il ‘made in Italy’ è l’unico modo per poter restare sul mercato. Da ciò proviene tutta una maniera di lavorare, basata sulla ricerca continua per migliorare, per essere sempre i primi nel settore, sia dal punto di vista estetico che tecnologico”. Indro Montanelli, decano del giornalismo italiano, sosteneva che noi del Belpaese saremmo sempre stati i migliori nei mestieri creativi; in quei mestieri dove fantasia e arte s’incontrano a formare un autentico capolavoro, sia esso una delicatezza culinaria, un capo d’alta moda o appunto, un sogno che galleggia. A dispetto della realtà economico-finanziaria nazionale e mondiale, il nostro talento, la nostra creatività e la nostra voglia di fare non conoscono crisi. Entro fine anno sarà completata la P430, uno yacht dalla meccanica superba, arredato da hotel extra-lusso e con la prerogativa di essere terzo al mondo per grandezza. Ma non per molto, a quanto pare. Il 26 maggio prossimo sarà infatti presentata, con tutta la cerimonia di benedizione della chiglia, laP450. Nei suoi 136 metri di lunghezza, contro i 127 della sorella minore, la P450 accoglierà 12 suite e veri appartamenti privati, da fare invidia ai più lussuosi hotel, un centro conferenze, una discoteca e l’immancabile centro benessere da oltre 500 mq. Sulle navi della flotta Privilege si mangia in sale da pranzo giroscopiche e panoramiche, si prende la tintarella su terrazze estraibili a picco sul mare. Chi vuole, può lasciarsi catturare dai misteri del mondo sommerso, comodamente dai sofà di un salotto con vista subacquea; per i più avventurosi ed esigenti è previsto un sottomarino incorporato. Insomma, non manca proprio nulla in queste meraviglie galleggianti, tutte italiane, gioielli tecnologici congegnati per navigare in totale sicurezza. Bellezza sì, ma senza trascurare la protezione dei viaggiatori: i sistemi tecnici su cui possono contare le navi Privilege, comprendono due sale per generare corrente elettrica, del tutto indipendenti e non allagabili. Oltre alla carena rompighiaccio, questi yacht possono contare sul sistema Safe return to port, che in caso di avaria conduce la nave al porto più vicino. Senza alcun intervento da parte dell’equipaggio. Lavoriamo per migliorare le capacità di governo, aumentare la sostenibilità ambientale delle scelte, il rispetto dei diritti e delle pari opportunità. Siamo nei molti “Mezzogiorni”, nelle aree di conflitto e in quelle di crisi ambientale, per riorganizzare la normalità del “giorno dopo”. Cerchiamo risposte insieme, aiutiamo a far da sé. Siamo “SHERPA”, accompagniamo lo sviluppo SudgestAid S.c.a.r.l. - Via Nomentana, 335 - 00162 Roma Tel. +39 06 982641 - Fax +39 06 98264150 Email: [email protected] -www.sudgestaid.it Focus Focus - ‘Giovani: un piano straordinario per la conquista della felicità’ A colloquio con Edgar Morin articoli di: M. Bucchi, N. Ferrigni, L.J. Garay, S. Lazzari Celli, G. Lo Russo, P. Madotto, M. Pistone, A. Suraci, F. Zille 52 giovani link journal 2/2012 studiato il “pensiero complesso”. La nostra chiacchierata, come da lui richiesto, spazia al di là dell’oggetto specifico. Introduco il nostro dialogo intorno ai giovani riflettendo sul tema della complessità che, a ben guardare, può fare paura. Morin sostiene che “la complessità fa paura perché le menti sono formate ad alcuni dogmi dell’educazione. Il sapere specialistico, ancora oggi, è il sapere pertinente. Si pensa che fuori dalla conoscenza specialistica vi siano solo parole vuote, come il peggiore giornalismo”, dice con seria ironia. Continua: “Si pensa che non ci sia nulla di pertinente al di fuori del sapere specialistico. Si devono cercare elementi del sapere complesso nei diversi campi specialistici, “Ci vuole molto tempo a diventare giovani, molto meno a diventare vecchi” I ncontro Edgar Morin, sabato 21 aprile, in un hotel del centro di Milano. Il sociologo e filosofo francese è in Italia per presentare il suo ultimo libro, “La via. Per l’avvenire dell’umanità” (Raffaello Cortina, 2012). Il giorno precedente, al Piccolo Teatro, l’ho ascoltato parlare del suo libro e l’ho visto incontrare persone che, dice, “mi hanno commosso”, per avere colto nelle sue parole una luce di speranza. Mi accoglie, novantuno anni portati alla grande, un sorriso sincero che esprime una profonda voglia di amicizia e di dialogo. Morin appare come un uomo modesto e di grandi passioni, prima di tutto per la condizione umana. Egli è soprattutto, com’è scritto nel suo libro, una delle figure più prestigiose della cultura contemporanea, un pensatore transdisciplinare e indisciplinato, universalmente conosciuto per avere introdotto e Marco Emanuele, Link Campus University Edgar Morin È un filosofo e sociologo francese che ha dedicato gran parte della sua opera ai problemi di una “riforma del pensiero” ponendo alla base delle sue riflessioni sull'umanità e sul mondo, la necessità di una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi e che sia capace di educare gli educatori ad un pensiero della complessità che sono chiusi. Una ulteriore difficoltà è che ci sono resistenze della mente al sapere complesso e la chiusura delle conoscenze specialistiche fortifica le resistenze della mente”. “Ma”, prosegue, “in tutte le società ci sono sia le convinzioni culturali generali, che sono le più diffuse e consolidate, e piccole minoranze che pensano che il sapere parcellizzato non conviene; queste minoranze hanno aspirazioni profonde. Incontro persone che sono commosse per le mie idee perché, avendo delle aspirazioni più o meno coscienti, attraverso le mie idee riescono a tirarle fuori; questa è la mia esperienza personale”. Morin ricorda: “Quando ero giovane, autori come Dostoevskij o Tolstoj mi hanno rivelato la mia verità, che era oscura ed incosciente e che, attraverso di loro, è diventata cosciente”. Qui, mi permetto l’inciso, c’è il primo grande messaggio per i giovani: cercate i Maestri, per link journal 2/2012 giovani scoprire la vostra verità profonda, per fare quella che Morin chiama “rivelazione”; i grandi cambiamenti della storia, dice Morin, sono sempre partiti da minoranze. Ancora Morin: “Oggi dobbiamo prendere coscienza della complessità della globalizzazione della natura umana, dell’essere umano; nessun insegnamento nelle università va in questa direzione, questo è disperso. Dobbiamo introdurre questo tema nell’educazione; nel mio libro “I sette saperi necessari all’educazione del futuro” cerco di dire questo. Non basta dire che dobbiamo fare la connessione fra i saperi, pur credendo nell’approccio dialogico; dobbiamo rompere con il pensiero lineare, ci vuole una educazione pertinente”. Con realismo, Morin dice: “Le persone sono condannate a idee generali, le più vuote; ogni persona ha opinioni su tutti i grandi problemi della vita ma queste opinioni rischiano di essere vuote perché il sapere è parcellizzato. Questa è la situazione”. Ricordo a Morin che, durante la presentazione del libro, egli ha sostenuto con forza che occorre coniugare ragione e passione; gli dico che questo può essere un altro straordinario messaggio per i giovani, per tendere alla felicità, per non farsi vincere dalle paure che percorrono il mondo. Replica Morin: “La situazione dei giovani non è unicamente di paura ma di visione immediata della vita perché, ad esempio, essi fanno gli studi pensando unicamente al successo nel lavoro. La realtà del destino personale spesso impedisce di vedere le cose nella loro profondità ed importanza. Ma nella vita succedono cose inattese”, continua schioccando le dita, “un evento piccolo che fa da detonatore come nel maggio ’68 in Francia. Questo sveglia le aspirazioni”. “L’adolescenza”, dice, “non è unicamente una nozione biologico ma bio-sociologica. Nell’adolescenza la persona non vive più nel mondo della protezione familiare e non è ancora integrata nella vita civile della società; in quella età si sviluppano la coscienza e la volontà di capire, maturando le aspirazioni fondamentali della vita, contemporaneamente a più comunità e a più autonomia; ciò, pur apparendo contraddittorio, viaggia insieme”. Ed ancora: “Tutte le aspirazioni si manifestano. In passato c’erano 53 piccoli gruppi rivoluzionari, comunisti, trozkisti, maoisti, anarchici che dicevano ai giovani, “noi siamo in grado di realizzare concretamente le tue aspirazioni”. Queste idee, per un adolescente, rappresentavano la soluzione, la salvezza. Oggi tutto questo non c’è più e il problema-pericolo, ad esempio in Francia, lo vediamo anche nel fatto che molte famiglie operaie di tradizione di sinistra si affidano politicamente a Marine Le Pen perché quel movimento dice ai francesi che loro avranno, e non gli stranieri, la possibilità di guadagnarsi la vita. La questione è dire ai giovani che le loro aspirazioni sono giuste e che vanno perseguite. Oggi, invece, passa il messaggio che l’utopia è accettare la rassegnazione alla vita burocratizzata e asservita. Bisogna riconoscere la validità di queste aspirazioni. Bisogna dimostrare che nei giovani c’è una energia e una forza grandissima che è emersa, ad esempio nelle primavere arabe; sono i giovani che avviato quelle profonde trasformazioni”. Morin ancora ricorda: “Posso dire che la resistenza partigiana in Francia è stata fatta dai giovani. Io avevo venti anni e i miei capi ventisei o ventisette anni. Nell’Ottocento, il Risorgimento italiano ebbe come motore i giovani”. Continua: “Questo non basta: in passato i trozkisti, i maoisti dicevano ai giovani: “noi abbiamo la via”; oggi non c’è più quella via. Il problema è la ricostruzione della possibilità di una via e questa è una grande difficoltà. Oggi l’idea di metamorfosi è l’idea pertinente per l’alternativa alla rivoluzione. La rivoluzione, infatti, o è impossibile o, come quella bolscevica, è sbagliata. L’idea di eliminare il passato è sbagliata, abbiamo bisogno del passato; abbiamo bisogno di ritrovare sia i grandi pensatori del passato che le buone pratiche, ad esempio, della società contadina. In questo momento c’è la possibilità di resuscitare la speranza. Non possiamo rassegnarci”. In tutto questo, chiedo a Morin, quale strada deve intraprendere l’università e, più in generale, la formazione? “E’ necessaria una metamorfosi dell’università. Essa, per missione, deve riprendere tutte le acquisizioni culturali del passato, integrarle nel presente per tracciare le linee del futuro. L’università ha un ruolo di continuità trans-storica. Oggi l’università deve porsi sul piano della meta-disciplinarietà, con l’introduzione di temi fondamentali come la complessità dell’essere umano, la conoscenza della 54 giovani conoscenza, l’incertezza della vita; elementi fondamentali per il “nuovo insegnamento”, che permettono di integrare le peculiarità di tutte le discipline e di continuare l’approfondimento delle discipline particolari. Bisogna superare l’approccio tradizionale che, ad esempio in molte tesi di laurea, parte da un oggetto e ne fa un’analisi limitata e chiusa. L’oggetto, in realtà, supera l’oggetto stesso perché è in connessione con l’ambiente e lo si può capire unicamente con il contesto. Non importa quale sia l’oggetto della tesi, la questione è aprire l’oggetto per capire l’oggetto stesso. Questo cambiamento di mentalità è importantissimo”. E conclude: “La metamorfosi della formazione è una necessità profonda, non solo per l’università. Questo processo è più semplice nella scuola primaria, dove il maestro è poli-competente; i professori delle scuole secondarie e dell’università hanno maggiori difficoltà, laddove hanno paura di perdere la sovranità sul loro insegnamento specialistico”. La vita di Edgar Morin è continua testimonianza e anche questo breve documento lo dimostra. Uomo che non si stanca di ricordarci l’importanza di essere cittadini planetari, ancora combatte. C’è un passaggio cruciale, nel suo ultimo libro, che riassume il suo impegno di oggi: “La gigantesca crisi planetaria è la crisi dell’umanità che non giunge ad accedere all’umanità”. Ci lasciamo e Morin vuole regalarmi una massima a lui cara: “Ricorda”, mi dice, “ci vuole molto tempo a diventare giovani, molto meno a diventare vecchi”. Opera di Josef Alberts - Omaggio a Edgar Morin Un particolare ringraziamento al caro amico Mauro Ceruti link journal 2/2012 R esuscitiamo la speranza! Questo è il passaggio decisivo del giovane-vecchio Edgar Morin alla presentazione della sua ultima fatica a Milano, venerdì 20 aprile. Trovare una via per l’avvenire dell’umanità è questione necessaria, oltre che urgente. Una breve cronaca di quel pomeriggio: più di cento persone rapite dalle parole di un uomo che porta soltanto la forza delle sue idee, che ha visto i drammi e le straordinarie evoluzioni del Novecento, che ha combattuto per la libertà e che, da molti decenni, è impegnato in una difficile quanto sfidante ricerca all’interno della condizione umana. Morin non esprime vezzi intellettuali, non ha bisogno di piacere al pubblico; egli propone, provocato dalle considerazioni-domande di Mauro Ceruti (professore ordinario di filosofia della scienza, suo allievo ed amico), un giro d’orizzonte su quella che considera la sfida per il terzo millennio: ritrovare una via, costruire il futuro, non rassegnarsi all’immanenza. Morin percorre le crisi, si diverte, gesticola, approfondisce: dice che quando tutto è separato muore la speranza, prima di tutto quella di capire la verità della realtà, invita i presenti a coniugare ragione e passione, elogia le minoranze e – attraverso uno sguardo veloce sul mondo – richiama le alternative che, nel mondo, stanno costruendo (ricostruendola) la speranza. Morin propone una metamorfosi di ciascuno per cambiare la realtà, burocratizzata ed opprimente, lega ogni atto ad un contesto, spiega che nulla si può capire se non nella interrelazione di ogni cosa nel tutto; complesso, dice, significa interrelato. Il vecchio Maestro predica la cittadinanza planetaria, dice che ogni piccola cosa che capita nei nostri territori ha il respiro del mondo e non possiamo prescinderne. Non è nostalgico ma, con convinzione, dice che bisogna recuperare le bellezze del passato nel presente per costruire il futuro. Nel suo libro parla dei grandi intellettuali che hanno segnato il secolo passato e ricorda Raimon Panikkar, scomparso nel 2010; non ne parla nel corso dell’incontro ma ci piace ricordarlo come riferimento ad una persona che, come Morin, ha guardato nel profondo della realtà e della condizione umana per guardare oltre. L’oltre di Morin è in ogni altro e in ogni esperienza. È un uomo sereno, gioioso, giocoso, umile. link journal 2/2012 U giovani 55 L'eclissi di futuro e gioventù na possibile chiave di comprensione per la rapida trasformazione della cultura popolare ad esempio in ambiti come il consumo di pop music - è nel declino di due ‘invenzioni’ culturali molto potenti che nel secolo scorso hanno accompagnato e sostenuto la crescita e l’ ‘immaginazione’ della cultura pop. La prima invenzione è un concetto di futuro come frontiera o perfino come “terra promessa”. E’ questo, come noto, un topos cardine della produzione culturale, soprattutto americana, dello scorso secolo – uno dei crogiuoli in cui il fenomeno pop si forgia. E’ il domani e il traguardo a portata di mano, è la luce verde che abbaglia il Grande Gatsby, è la Thunder Road che porta Springsteen dritto fuori dalla città dei perdenti. Da questa materia simbolica l’epoca aurea del pop ha attinto a piene mani, declinandola nelle forme più varie: spettacolari, intime, arrivistiche, politiche. Gli stessi successi personali dei suoi protagonisti ne costituivano una luccicante metafora. La seconda invenzione è il concetto di gioventù. La nozione di un’età distinta dall’infanzia e dall’età adulta è relativamente recente, e si caratterizza anch’essa nel corso del Novecento in coincidenza con una serie di mutamenti economici, sociali e demografici. Questi due concetti sono la benzina culturale e simbolica che accende l’esplosione del pop nella seconda metà del secolo scorso. Essi si si nutrono l’un altro e l’iconografia pop ne documenta l’intreccio nei modi più pittoreschi, fin da quando il bacino di Elvis abbagliò l’America dagli schermi dell’Ed Sullivan Show nel 1956. Prima ancora che nella sostanza, il pop divenne nella forma identitaria la ‘musica dei giovani’. Il pop erano i giovani e i giovani erano il futuro, e il futuro aveva i contorni simbolici della geografia americana. “Nell’immaginario di tutti l’America era il grande paese della giovinezza. In America c’erano i teenager, altrove solo la gente qualsiasi” spiegò John Lennon nel 1966. Numerose riflessioni, oggi, mettono in luce come il futuro stia perdendo rilevanza a fronte di una “ideologia del presente” in cui ci troviamo sempre più immersi. La si ricollega tra l’altro ai processi di globalizzazione; all’affermazione di una società in cui l’uso pervasivo e quotidiano della tecnologia ha ridefinito la stessa dimensione spaziale e temporale – si pensi alle stesse tecnologie della comunicazione – appiattendo passato e futuro in un presente esteso e ossessivamente simultaneo. Non è un caso che a risultarne spiazzati siano anche quei generi letterari – come la fantascienza – cui in passato si delegava il compito di immaginare limiti e frontiere della Massimo Bucchi, per gentile concessione del Sole 24Ore scienza nella società del futuro. Per dirla con James Ballard, “il futuro sta cessando di esistere, divorato dall’onnivoro presente. Questo futuro noi l’abbiamo annesso al nostro presente, facendone una delle molteplici alternative a noi offerte (…) viviamo in un mondo quasi infantile, nel quale può trovare istantanea soddisfazione ogni domanda, ogni possibilità, si tratti di stili di vita, di viaggi, o di ruoli e identità sessuali”. Così, gli stessi processi sin qui descritti non sono estranei alla crescente evanescenza della nozione di condizione giovanile. Se media come la carta stampata, il cinema, il disco si prestavano idealmente alla segregazione dei pubblici – c’erano libri e riviste per adulti, per giovani e per bambini, c’erano film per ragazzi e altri vietati ai minori – la televisione prima e soprattutto i media digitali poi, fondono in modo caratteristico le soglie tra le diverse fasi di socializzazione. La ‘miniaturizzazione’ e la diminuzione di costo delle tecnologie, la ‘privatizzazione’ di forme di consumo mediale le svincolano dal contesto familiare e dal controllo degli adulti. L’unico apparecchio radio, l’unica televisione, il telefono in corridoio si moltiplicano e si spostano nelle camere e negli spazi individuali trasformando radicalmente il senso della propria fruizione. Così, il rapporto con la tecnologia è divenuto, da fatto pubblico celebrato nelle grandi esposizioni universali tra fine Ottocento e primo Novecento, elemento di condivisione e simbolo di status familiare (si pensi ai primi televisori o frigoriferi) e infine fatto totalmente privato e individuale (si pensi alle trasformazioni del telefono dall’epoca del fisso a quella del mobile, o ai cambiamenti nel consumo di musica dall’era del juke box a quella dell’Ipod). Questi e altri mutamenti di portata più profonda erodono la specificità di un’età giovanile. Da un lato, anticipando sempre più precocemente comportamenti tipici dell’età adulta, dall’altro esportandone i modelli in età adulta per non dire avanzata: la tendenza a differire l’uscita dalla famiglia d’origine in una sorta di prolungata fase giovanile, la mimesi giovanilistica, attraverso l’abbigliamento e la cura del corpo, ormai diffusa oltre la soglia dei cinquant’anni. Uno sfrangiamento che è simmetrico rispetto a quello del futuro: nel momento in cui diviene generalizzata l’immersione in una perenne condizione giovanile in cui ogni desiderio è a portata di mano, ogni decisione reversibile come in un gioco virtuale, ogni assunzione di responsabilità (individuale o collettiva) differibile, la stessa nozione di età giovanile cessa di esistere in quanto tale come entità distinta e discreta. 56 giovani link journal 2/2012 La generazione che prende in prestito i sogni I valori, etici e morali, rappresentano il legame spirituale tra le vecchie e le giovani generazioni. Dovrebbero costituire il “testimone” che, arricchito e reso più prezioso da nuovi e condivisi saperi, le generazioni si passano l’un l’altra per rendere più vivibile il pianeta e più felice l’umanità. In questo, come dice Edgar Morin nel colloquio pubblicato in questo numero, le università hanno un fondamentale “ruolo di continuità trans-storica”. La caduta degli ideali e, con essa, la crisi dei valori che ha contagiato la nostra società e il mondo occidentale in genere, rischia di generare smarrimento e senso di solitudine nei giovani i quali avvertono la necessità, più di ogni altro, di avere riferimenti e posizioni ideali certe su cui poter contare, degli esempi capaci di trasmettere loro le ragioni di vita e i motivi di speranza in un futuro migliore e meno precario. E così, come è emerso da un’inchiesta della Commissione Europea su più di quattromila giovani europei, questa è una generazione costretta a “prendere a prestito i sogni di altri”, una generazione che si nutre di miti, di icone, di modelli culturali che non gli appartengono. Forse, come hanno osservato i curatori dell’inchiesta, essi non riescono a coglierne nel profondo i messaggi, ma è pur vero che li cercano e se ne appropriano. Non tutti i giovani, per fortuna, si fermano: di fronte all’affievolirsi della tensione ideale degli adulti, all’individualismo imperante, al continuo patteggiamento tra interessi contrastanti… molti di loro reagiscono e si spendono per risvegliare l’opinione pubblica e il potere politico sui grandi problemi che rischiano di compromettere per sempre il loro futuro. Giovani impegnati che, pur con pochi strumenti, tentano di riempire il vuoto della politica e delle istituzioni e si mobilitano per promuovere incontri, organizzare proteste, raccogliere firme, combattere per le riforme, condannare la violazione dei diritti umani. Pensando a questa generazione di giovani volenterosi viene spontaneo il desiderio di offrire anche a loro la possibilità di affidare i propri sogni al pensiero e alla testimonianza di altri giovani che, pur nella loro breve esistenza, sono stati veri maestri di vita. Perché è proprio nei periodi di crisi e di disorientamento che i loro messaggi possono far rinascere gli ideali e la forza per essere protagonisti del proprio futuro. Farò qui riferimento a due figure che sembrano, più di tante altre, adatte a prefigurare una via d’uscita dalla crisi delle ideologie e dallo scadimento della politica e che, con il loro impegno e la loro tenacia, hanno scritto pagine di storia degne di essere lette e assimilate. Due maestri dimenticati, nel corso degli anni, e non solo dalle pagine dei giornali ma anche dal dibattito politico. Il primo Don Lorenzo Milani, un insegnante, un prete, un uomo che spese la sua vita per educare, per far prendere coscienza ai giovani sulla necessità di essere se stessi e di non fare compromessi con i propri ideali, rifuggendo da schieramenti preconcetti, ma distinguendo sempre il vero dal falso. Per Don Milani, infatti, l’educazione rappresentava non solo il mezzo per affrancare gli emarginati, ma per far sì che tutti i ragazzi fossero liberi, per far loro acquisire una coscienza civile e una responsabilità sociale, per renderli padroni del proprio destino, per insegnargli a rifuggire dalla mediocrità e a non svendere la propria vita, per prendere a cuore i bisogni degli altri: I care, perché nella scuola, nell’università, sul lavoro è necessario appassionarsi, interessarsi, spendersi. “Bisogna sporcarsi le mani e affrontare la politica”, diceva, sapendo dis- Stefania Lazzari Celli, Segretario Generale Fondazione Link Campus University link journal 2/2012 giovani tinguere il bene dal male ma senza fuggire dalle responsabilità di denunciarne le incongruenze. Un grande messaggio politico frutto di un’ispirazione religiosa, esposto senza ambiguità e in nome della giustizia: “quanto alla loro vita di giovani sovrani di domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siamo cambiate”. Prima di Don Milani, un altro giovane visse intensamente la sua breve vita: Sergio Paronetto, ideatore ed estensore, primus inter pares, del Codice di Camaldoli del 1943, “una nuova costituzione etica, politica ed economica per il Paese”. Penso sia giusto fare riferimento a lui perché il pensiero e l’azione di Paronetto possono aiutare le nuove generazioni a ritrovare la strada di una ricomposizione dell’essere e del sapere dell’uomo, dopo la tragica fine delle ideologie totalitarie degli ultimi due secoli. Grazie alla sua iniziativa, un gruppo di cattolici si incontrò a Camaldoli per stabilire le linee dello sviluppo italiano una volta che la guerra fosse finita e per contrastare la convinzione che l’unica via per la liberazione dell’uomo dallo sfruttamento capitalistico fosse affidata alla ideologia marxista, così come 57 incarnata nelle forme del totalitarismo socialista. Paronetto fu, in un certo modo, il precursore della principio che vuole l’etica come filo conduttore di ogni relazione sociale sia essa economica, giuridica o, ancora, politica. Egli riflettette a lungo sulle conseguenze della separazione della tecnica dalla morale, dalla politica e dall’economia; economista attento e rigoroso, colse l’avvento della società manageriale e si appassionò alla nascente scienza del management; sottolineando, però, la necessità che chi fosse chiamato a “fare”, sia nelle imprese che nelle istituzioni, fosse dotato di competenza e di responsabilità. Quello che oggi chiameremmo “management etico” . Ed è proprio la mancanza di regole e di etica che ha generato la crisi che stiamo vivendo e sulla quale abbiamo riempito pagine di giornali e impegnato milioni di ore a dissertare sulle sue origini e sulle conseguenze per il nostro e per il futuro dei nostri giovani ai quali, però, non viene data la parola. Ma, come ci ricorda una celebre frase di J.F. Kennedy “scritta in cinese, la parola crisi, è composta da due caratteri: uno rappresenta il pericolo, l'altro l'opportunità”. Credo che se vogliamo scongiurare il pericolo dobbiamo tutti cercare di dare l’opportunità ai giovani di far emergere la loro inventiva, la loro capacità di sognare e di mobilitare le risorse umane di cui sono ricchi, consentendo, così, alla società, di rinnovarsi. giovani 58 link journal 2/2012 Un futuro da costrire in un mondo da ricostruire Paul Valery ...il futuro non è più quello di una volta... S tiamo assistendo alla più grande crisi dal 1929. Una crisi che sicuramente è economica ma nasconde un senso più profondo di smarrimento della società. I limiti di una scuola economica fatta ideologia, il neoliberismo, sono emersi prepotentemente ponendo la questione, ancor prima che della validità della teoria di cui è portatrice, del fine di un approccio che diventa dogma. E si sa che ogni volta che l’umanità ha abbracciato una teoria per farne una ideologia indiscutibile e dogmatica ha finito per pagarne un caro prezzo. Ci troviamo nella necessità di trovare altri fini nell’immaginare il futuro. Ci troviamo in un’epoca “quotidianista” che si è divorata lo stesso concetto di futuro, per dirla alla Paul Valéry “il futuro non è più quello di una volta”. L’economia ragiona a trimestri, è scadenzata dalle transazioni della Borsa, lo “spread” detta la politica economica e sociale, il solo profitto è l’indice di una azienda in salute. Adriano Olivetti, nel discorso del 1955 in occasione dell’inaugurazione della fabbrica di Pozzuoli, diceva «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?». Olivetti solleva un tema che oggi è diventato molto attuale. La finanza può essere completamente staccata dalla sua utilità sociale, concentrata nei mutui subprime, nel costruire profitti e stock option per azionisti e manager perdendo completamente di vista la sua missione? Un libera economia può avere una missione sociale? Eppure, in questo mondo così in crisi, c’è uno spiraglio, le aziende che stanno emergendo sono quelle che hanno una loro etica, che rispettano i lavoratori1, che hanno una loro “anima” verde o “solidale”2, che riescono a coniugare profitto con persona (i paesi scandinavi sono quelli che hanno un welfare più forte e, contemporaneamente, sono ai primi posti per competitività internazionale). La Corporate Social Responsability si sta sempre più imponendo come una pratica di gestione dell’impresa e come un valore differenziante di competitività anche alla luce di casi come Enron, Parmalat e Lehman Brothers. Adriano Olivetti torna dunque attuale con il suo essere eretico sia rispetto alle famiglie imprenditoriali della sua epoca (1908-1960), sia rispetto ai movi- Paolino Madotto, Link Campus University menti socialisti (di cui in certa misura faceva parte). Figlio di una madre ebrea e di un padre agnostico e socialista, aveva abbracciato il cattolicesimo per convinzione razionale (come amava dire lui). Adriano Olivetti mette al centro della sua opera e del suo pensiero la persona. Non è un intellettuale, egli è anzitutto un ingegnere imprenditore che fa crescere la sua impresa e la trasforma in pochi anni da media industria del canavese nella prima multinazionale italiana, in grado di essere la prima impresa estera che acquisisce una azienda negli Stati Uniti (la stessa azienda da cui suo padre aveva colto ispirazione per cominciare a costruire macchine da scrivere). Nella società della conoscenza il fattore competitivo sono i talenti. L’economia, le esigenze produttive, il profitto possono essere migliori se gli uomini vengono messi al centro del sistema. Olivetti lo aveva capito e ne aveva fatto il principale obiettivo della sua vita. Come aveva compreso che “il bello” e l’arte potevano aiutare i lavoratori a migliorarsi, migliorando la produzione sia in termini qualitativi che quantitativi. La cultura non è vista con gli occhi del mecenate ma con lo sguardo del leader, in grado di trasformarla in opportunità e progresso. E’ stato l’ideatore di molti piani urbanistici e turistici. Il sistema di welfare della Olivetti supera ogni immaginazione, dagli asili nido ai permessi per maternità, dalla biblioteca al sistema di trasporto. Questo aveva permesso alla Olivetti di raggiungere una produttività e una qualità altissima nel lavoro. Oggi recenti indagini internazionali ci confermano che i talenti migliori preferiscono un sistema di welfare aziendale ad uno stipendio più elevato. Ricostruire significa cambiare paradigma, guardare il futuro con altri occhi, nel nostro caso ripensare la società mettendo al centro la persona, un nuovo umanesimo. Un tema caro anche nell’enciclica di Benedetto XVI “Caritas in veritate”. Adriano Olivetti ci spinge a guardare al futuro, ad investire sull’innovazione, sulla conoscenza, sul talento delle persone e su un modello sociale in grado di rendere sostenibile e duratura la crescita economica. Adriano Olivetti è un imprenditore che investe gran parte di ciò che guadagna nella sua opera, che ci sprona a riprendere il coraggio di fare impresa recuperando la cultura industriale che è stata forza del link journal 2/2012 giovani nostro Paese. «Nel lavoro intelligente e scrupoloso dei nostri ottocento operai, nello studio metodico e incessante dei nostri quindici ingegneri, c'è la certezza di progresso che ci anima. La lealtà dei nostri lavoratori è il nostro attivo più alto. » non è forse un messaggio attuale? E’ proprio la “certezza di progresso” quella che abbiamo smarrito, l’umanità ha perso il senso di essere parte di una storia. Ricostruire il futuro significa spronarci in prima persona ad uscire dal presente pos- 59 sibile. Adriano Olivetti ha dimostrato che si può fare se abbiamo coraggio. Note (1) è recente la marcia indietro di Apple che ha dovuto imporre ai suoi fornitori di ipad e iphone migliori condizioni per chi lavora (2) ad esempio IKEA o il commercio equo e solidale. Ilegalidad, Juventud y Esperanzas Robadas A mplios sectores de la población joven en América Latina se enfrentan actualmente a exclusión social, inequidad y pobreza que conducen, en la práctica, a obstáculos para acceder a educación de calidad y a trabajo bien remunerado. Aunque en algunos países se registra aumento en la cobertura de la educación primaria y básica, la educación superior aún no cuenta con facilidades de acceso. Es cada vez más común que unos pocos privilegiados económicamente puedan acceder a educación superior y especializada de calidad y, posteriormente, a trabajos bien remunerados y socialmente productivos. Esta situación tiene implicaciones estructurales en el largo plazo, porque, cuando los jóvenes no pueden acceder a oportunidades equitativas para poder iniciar proyectos de vida privada y socialmente beneficiosos, no cuentan con razones suficientes para valorar debidamente la preponderancia de la Ley en la decisión por optar proyectos alternativos así riñan con el bienestar colectivo. En aquellos Estados en los que el acceso a oportunidades es profundamente inequitativo y gravemente condicionado, se tienden a crear condiciones propicias para que grupos poblacionales como jóvenes vulnerables solo puedan percibir como quizás su única “opción” la de optar a modos de vida al amparo de la ilegalidad. Esto no quiere decir que existe una relación entre pobreza y adopción de conductas criminales, pues histórica y estadísticamente se ha mostrado que en sociedades muy pobres no necesariamente se desarrolla un elevado nivel criminal. Sin embargo, cuando la educación y el trabajo legales no ofrecen réditos similares a los que ofrecen los medios ilegales, o cuando ni siquiera están disponibles, la ilegalidad se convierte en una opción “real” para desarrollar proyectos de vida. Es así como en países con intensos procesos de crimen sistémico y amplios mercados ilegales, la posibilidad de ascenso social y económico ofrecidas por redes criminales ponen en riesgo la consolidación del Estados de Derecho. En estos casos, las redes criminales encuentran una atractiva fuente de mano de obra en la generación juvenil ni-ni, que ni estudia ni trabaja por falta de oportunidades. Con el agravante de que esta generación, que habría de ser la base para las transformaciones sociales, económicas y culturales, puede llegar a convertirse entonces en uno de los principales obstáculos presentes y futuros para la consolidación y desarrollo de Estados Sociales de Derecho en muy diversos países. Sólo será posible recuperar amplios sectores de las futuras generaciones de ciudadanos en tales países, sobre la base de una justicia distributiva que garantice reciprocidad económica y retribución proporcional a los esfuerzos sociales. Esta justicia distributiva, definida y adoptada por decisión política, sólo puede estar fundamentada en aquello que los ciudadanos deliberantes y reflexivos –bajo una concepción no exclusivamente egoísta – reconoce como “justo” en términos distributivos. Según esta justicia, a cada uno se le garantiza lo que le deba corresponder según su esfuerzo y aporte social. La aplicación de esta justicia es, en última instancia, ámbito de la autoridad pública, del Estado. Esta justicia motiva a los ciudadanos a consolidar un sentido de pertenencia e identifi- Luis Jorge Garay Salamanca1 & Eduardo Salcedo-Albarán2 60 giovani cación con la comunidad, a cumplir con el deber de la vida civil, y a encontrar armonía entre la vida privada y la vida pública, entre los beneficios individuales y los sociales. En últimas, la justicia distributiva contribuye a privilegiar proyectos de vida fundamentados en el desarrollo de valores sociales que, aunque tengan una base liberal – de competencia racional e individual–, sean armónicos con el bien común y los intereses colectivos. Al contrario, en ausencia de esta justicia, se tienden a reproducir en algunos ámbitos intereses y proyectos de vida estrictamente egoístas que progresivamente se fortalecen a partir del imaginario social de éxito de aquellos que triunfan sin importar el medio para lograrlo, ni el costo que implica a los demás. Luego, en etapas avanzadas de deterioro social, bajo el predominio de intereses excluyentes, las restricciones morales, individuales y sociales, se distorsionan casi por completo, al punto de que se impone la idea del todo vale en sentido estricto: Incluso matar o morir se convierten en opciones para lograr el éxito socioeconómico. Se configura, entonces, un escenario de competencia social entre aquellos que respetan las leyes, incluso sin contar con condiciones de partida necesarias para desenvolverse en una competencia justa y equitativa, y casi sólo en virtud de un optimismo moral acompañado de una baja probabilidad de lograr el proyecto de vida ideado, y aquellos que no respetan las leyes ni las reglas del juego y que, por lo tanto, adoptan proyectos de vida que sin ser necesariamente más fáciles, al estar fundamentados en atajos sociales, morales y legales, conllevan una rápida rentabilidad económica y posiblemente social. El resultado es que los segundos tienden a obtener mayor rentabilidad económica en el corto plazo y, en algunos contextos, mejores posiciones sociales. Por el contrario, los primeros son asociados, en el imaginario social y en la práctica, a proyectos de vida de menor rentabilidad económica y, en algunos contextos, a peores posiciones sociales. Este es el caso de sectores de países como algunos latinoamericanos en los que se admira y privilegia al joven que pertenece a una pandilla o a una red de narcotráfico y gana rápidamente mucho dinero, pero se “menoesprecia” a aquel que dedica link journal 2/2012 su vida al estudio y al trabajo honrado. Cuando cierta apreciación social en ámbitos cada vez más amplios queda anclada a la violencia, a la trampa y a la ilegalidad, las reglas del juego social se convierten en otras; el ideario moral, individual y social se invierte en comparación a aquellos deseables en un Estado de Derecho consolidado. La violencia y la ilegalidad son casi los únicos métodos disponibles para lograr unos nuevos objetivos, a saber: la riqueza de corto plazo y el poder por cualquier medio. Progresivamente, surgen así nuevas generaciones que quedan insertadas en instituciones ilegítimas, informales y coyunturales, instauradas por el procedimiento ilegal de turno o, si se quiere, por el “capo” de turno. Por lo anterior, es indispensable para esas sociedades afectadas invertir la imagen descrita en el párrafo anterior. Sólo cuando sus nuevas generaciones puedan lograr sus proyectos de vida en el marco de la legalidad, con ventajas comparativas reales frente a los tramposos, aceptarán el contrato social que, en teoría, ha heredado la modernidad; sólo en ese momento valorarán debidamente aquellas instituciones formales permanentes y armónicas entre el bien individual y el bien común. Así podrán consolidarse las sociedades afectadas como una sociedad moderna: tolerante, deliberante y legalmente creativa, organizada bajo un régimen democrático incluyente y justo, en lo económico, político, cultural y social. Para ello se ha de afrontar de manera integral –en términos de la relación entre lo privado, lo colectivo y lo público– un proceso de transición hacia la construcción de una nueva sociedad: una nueva realidad que por ser utopía realista no contradice las posibilidades del espíritu humano. Note (1) Director Académico, Fundación Vortex – [email protected] (2) Director, Fundación Vortex – [email protected] twitter.com /@esalbaran link journal 2/2012 giovani 61 Figli e figlie di una nuova patria Un diverso umanesimo per vivere l’umanità E vocare una nuova patria per i cittadini della contemporaneità equivale a ricercare un centro ideale in cui trovino spazio e dignità le riflessioni esistenziali che si accompagnano ad un mondo che si va sempre più complessivizzando. E la trama si è ormai fatta così complessa che l’interdipendenza e l’interconnessione degli accadimenti sociali sono la vera sfida culturale che porterà a disegnare “i luoghi” del futuro prossimo dell’umanità. Le stesse analisi micro e macro sociali lasciano sempre più spazio a valutazioni figlie della trasversalità, questione questa che in qualche misura dovrà portarci a riflettere profondamente sulle analisi guida che ci hanno lasciato in eredità i due unanimemente riconosciuti come maggiori esponenti dell’analisi sociale: Emile Durkheim e Max Weber. Ci dovremmo, insomma, porre la questione del come si può andare oltre l’agire sociale dotato di senso, che pone alla base della riflessione la spiegazione delle azioni individuali razionali (M. Weber, Il metodo delle scienze storico sociali), e oltre i fatti sociali, cioè di tutti quegli accadimenti che coerciscono e si impongono alla volontà dell’individuo (E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico); peraltro, tutte le teorie micro-sociali che guardano alla scelta razionale finiscono con l’avere un respiro limitato perché terminano con l’infrangersi contro desideri e opportunità del singolo individuo, questione questa che troppo spesso viene ridotta con il semplicistico e canonico in quella data situazione, è stato tenuto quel dato comportamento, perché era la cosa migliore che si potesse fare. Nella sostanza, figli e figlie si trovano a vivere un contesto diverso dai precedenti, come del resto è accaduto alle generazioni che li hanno preceduti; un consesso, il loro, che si caratterizza per alcune specifiche peculiarità, quali l’affannosa ricerca di un punto di osservazione che gli consenta di scorgere all’orizzonte una prospettiva di futuro, in cui a dominare è l’incertezza dell’approdo ad una nuova patria, di cui più avanti si tenterà di definirne i confini etico-estetici. Una prima e più immediata riflessione ci porta a convenire almeno su di una specifica circostanza: figli e figlie vivono una contemporaneità che si contraddistingue per una serie di ec- Nicola Ferrigni, Link Campus University cessi, tra questi i principali possono essere ricondotti, a parere di chi scrive, all’eccesso di accadimenti e di tempo a disposizione e, non di rado, si stenta a dare un senso allo schema intellettuale e a quanto possa costituire un problema di comprensione per il singolo individuo. Condizione questa che trova un suo aggravamento quando la società nel suo insieme si trova a ragionare di fenomeni il cui manifestarsi è sfuggito anche allo sguardo vigile di chi per vocazione è deputato a disvelare la realtà sociale. Una realtà sociale che è difficile inquadrare in confini predeterminati, perché è ormai ampiamente condivisa la tesi secondo cui i fenomeni di sistema, di volta in volta indagati, sono spesso collegati ad una serie di fattori che condizionano fortemente gli impianti teorici esplicativi; è, insomma, sempre più complesso definire compiutamente lo spazio sociale che ci ha fatto porre dei quesiti e di cui si ricercano le ipotesi di risposta. In particolare, ad intralciare la definizione di un quadro unitario di riferimento concorrono, in modo preponderante, la globalizzazione e la onnipresente presenza dei mezzi di comunicazione di massa. Ed è ormai riflessione comune il fatto che figli e figlie, ma non certo soltanto loro, non riescono più a rapportarsi consapevolmente con tutte quelle strutture istituzionali che sempre più cambiano il nostro mondo di vita, a prescindere dalla loro collocazione spaziale. Si è, insomma, in presenza di eventi che non risentono più delle differenze e delle distanze latolongitudinali, ma anzi si contaminano e si condizionano trasformando il nostro pianeta in una palla magmatico-finanziaria che toglie ogni giorno di più solidità strutturale e prospettive di vita. Quando ci si riferisce alle strutture istituzionali e al mondo di vita, si vuole sottolineare come precisi fenomeni non riescano 62 giovani più a spiegare compiutamente la vita sociale: non si tratta solo dei media ma anche del lavoro, sia esso svolto in modo subordinato o proprietario, dello spettacolo nelle sue varie forme internazionalizzate, dello sport con interessi economici che travalicano oceani e continenti, e di tutte quelle attività che in tali grandi filoni di vita sociale vengono, con qualche forzatura, ricomprese; è ad esempio il caso dei tornei di poker che rimandano ad una attività sportiva. Sbaglieremmo, quindi, la nostra analisi se dovessimo trarre insegnamento dalla sola Europa, in quanto l’attore principale è la contemporaneità, intesa nel senso voluto da Bauman di vita liquida; dobbiamo cioè abituarci a pensare la vita sociale e i suoi aspetti, anche quelli che sembrano negare un futuro all’umanità, come mobili e continuamente plasmantisi. Insomma siamo in piena plasticità sociale anche se non ne siamo adeguatamente consci. Al riguardo và detto che il problema del sociologo-ricercatore non è quello di trovare una risposta ad un quesito, in quanto con i dovuti aggiustamenti e correzioni di peso ci si arriva, ma quello di essere consapevoli che le attuali forme di contemporaneità includono aspetti del nostro mondo di vita che vanno costantemente ritarati e resi idonei a spiegare la nuova patria di figlie e figlie. Ecco così che, nel contesto del bulimico susseguirsi e accavallarsi degli accadimenti, se gli economisti non prevedono per tempo una crisi recessiva, o se gli storici non legano e non spiegano in maniera convincente e con immediatezza un inaspettato avvenimento rivoluzionario, o se ancora i sociologi non intercettano i malesseri che contribuiscono a rinsaldare le abitudini che vogliono costruzioni sociali sempre più prive di senso, la nuova patria di figli e figlie rischia già in nuce di divenire una sorta di non luogo antropologico dove a prevalere sono tutte le forme di eccesso. C’è, infatti, una parte del mondo sociale di figli e figlie che si presenta alla nostra analisi come una protesi tecnologica che taglia trasversalmente, e spesso aliena, i rapporti che si trasformano in telé-relazioni; non ci si riferisce ovviamente alle forme tecnologiche ad uso personale, di cui non sempre se ne apprezza consapevolmente il senso, o come direbbe link journal 2/2012 qualche illuminato il non senso, ma piuttosto ad un modo di vita che rende stolide e sfuggenti anche le strutture considerate più stabili e tranquillizzanti. Quasi superfluo aggiungere che figli e figlie si trovano a fare i conti con una nuova patria dove a farla da padrone sono sempre più i luoghi dei passi perduti, per convenzione antropologica i non luoghi: figli e figlie fanno il carburante al self service, si riforniscono di contante al bancomat, attraversano il casello autostradale utilizzando il telepass, incrociano negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie moltitudini di persone con le quali scambiano al più qualche sguardo, pagano il parcheggio ad una cassa che abilita alla sosta e poi all’uscita, acquistano al super e iper-mercato utilizzando la speciale pistola che aggiorna costantemente il conto da pagare, che poi regolarmente saldano con le proprie credenziali in plastica nel canonico formato 5,4 x 8,6; operazioni, queste, che insieme ad altre sono divenute ormai una costante e che sempre più contraddistinguono una nuova patria sempre più invasa di totem luminosi e cartelli che guidano molte delle azioni sociali. Mi verrebbe da pensare che la nuova patria è pronta a concedere molto all’effimero e a tutte quelle forme di commercio che potremmo definire mute. Il quadro poi si complica ancor di più se il sociologo, nell’andare oltre il senso comune, relativizza e associa alla propria analisi un contesto sociale in continua trasformazione e che vede in uno l’allungarsi dell’aspettativa di vita e la contemporanea presenza di quattro generazioni. Insomma, siamo in presenza di una generazione in più che dispone di una grande quantità di tempo in eccesso rispetto al passato e che per questo vive con più continuità che in passato i c.d. luoghi della memoria, la non mai dimenticata vecchia patria. Per cui nella contemporaneità figli e figlie si trovano a dover convivere con i luoghi della memoria, o vecchia patria (tanto cari alla prima generazione), con la patria delle seconde generazioni (i cui punti di riferimento sono oggi fortemente messi in discussione) e con la nuova patria costituita, oltre che da patria e vecchia patria, anche e soprattutto dai non luoghi link journal 2/2012 giovani e da tempo e spazio indefinibili. In particolare figli e figlie si trovano davanti due generazioni che, rispetto a tempi a noi non lontani, consapevolmente o inconsapevolmente, devono ancora invecchiare, ma il loro passato è già stampato sui libri di storia. Un rivoluzionario francese al più era cosciente di alzare e difendere le barricate per conquistarsi un po’ di nutrimento, e solo pochi illuminati sapevano di combattere per conquistare la charte. Serve quindi un diverso umanesimo che ci faccia cogliere simbolicamente cosa rappresentano un esclusivo campo vacanze piuttosto che un campo profughi, oppure un rinomato complesso di abitazioni esclusive rispetto ad una degenerata bidonville. È vero che si tratta pur sempre di spazi, ma occorre aiutare figli e figlie a comprendere il significato ultimo dei singoli spazi, rielaborando le conoscenze e mettendole al servizio di una crescita culturale dell’umanità. Di certo quegli uomini non avevano consapevolezza di scrivere una importante pagina di storia lasciata a futura memoria. La nostra prima generazione, quella dei giovani euro-bisnonni, ha vissuto, ad esempio, direttamente la caduta del Muro di Berlino o il Desert Storm, e già ritrova tali fatti epocali sui libri su cui studiano i figli dei propri figli e qualche pronipote. Stesso dicasi per la seconda generazione, che già può leggere sugli stessi libri di storia contemporanea gli eventi inerenti la polveriera mediorientale o la fine delle Torri Gemelle, tanto per fare un esempio. Siamo anche in questo caso davanti ad un eccesso: è l’eccesso di tempo a disposizione che ci coglie impreparati, in costanza poi di una iperabbondanza di accadimenti, di cui della maggioranza degli stessi ne disconosciamo l’esistenza. A parere di chi scrive, questo è uno dei motivi da inserire tra quelli che spingono l’essere umano a cercare consapevolezza del presente per rispondere ad una duplice e collegata questione: dare un senso al futuro essendo consapevoli di un passato che è più prossimo di quanto non si creda. Si tratta di convincere figli e figlie che possono ancora essere artefici del proprio destino; si tratta di convincere figli e figlie che possono recuperare ed esaltare la loro dignità di uomini e di donne; si tratta di convincere figli e figlie che dispongono delle necessarie capacità creative utili a ritessere la trama di una umanità che sempre più si va sfilacciando. Insomma, per dirla con Protagora, si tratta di convincere figlie e figlie che di tutte le cose misura è l’uomo. Si tratta quindi di convincere figli e figlie che un diverso umanesimo per vivere l’umanità non è solo fondare le proprie ragioni sui buoni propositi, sulla solidarietà e sul rispetto dei diritti umani. Un nuovo umanesimo per vivere l’umanità è anche questo, ma non solo questo. Ovviamente è in tale cornice che ritroviamo la nostra concezione di progresso sociale ed anche tutte le delusioni che via via abbiamo registrato, né è un esempio recente in Italia la putrefazione delle speranze collegate alla vita democratica dei partiti. Non si tratta solo di superamento del post socialismo, comunismo o liberalismo, ma di una crisi di valori che ci porterà inevitabilmente a riflettere intorno alla necessità di un nuovo umanesimo, pena lasciare l’individuo fermo alla considerazione che rappresenti un mondo per sé, o meglio un mondo in sé, con il rischio evidente che lo si lasci praticare come meglio crede, senza vincolo di religione. L’umanesimo come pensiero per migliorare l’umanità è anche essere consapevoli che esistono differenziazioni e discriminazioni, privilegi e prerogative. Si potrà ottenere una forma di umanesimo che migliora l’umanità solo se, e quando, i figli e le figlie si doteranno di una cultura alta che li renderà capaci di svolgere una severa ma costruttiva critica indirizzata a favorire nuove forme di progresso economico, culturale e sociale. Per acquisire cognizione di ciò occorre che le istituzioni preposte, in primis le Università, sappiano infondere nelle terze generazioni la consapevolezza che si migliora nel sacrificio, che per crescere l’umanità deve tenere nel giusto conto il merito e il bisogno, collocando entrambi in una specifica scala di valori. Solo così, e se veramente lo si vuole, l’umanità potrà essere valutata per ciò che sa fare e per l’impegno costante che mette nelle cose che si fanno. 63 figlie e figli Dobbiamo porre la questione del come si può andare oltre l’agire sociale dotato di senso giovani 64 link journal 2/2012 SENTIMENTO & AMORE IN UN CLIC La Valorialità Sistemica leonardiana alle frontiere delle Nuove Generazioni e dell’Identità Mutante sentimento Vecchie & Nuove Generazioni pagano oggi il prezzo inestetico e insostenibile dello stato di avanzata liquefazione della Modernità François Zille(1) S entimento & Amore sono, all’origine, purissima e potentissima Energia Informata. Che si trasmuta in Materia tangibile allorché riesce a genera Valori e Sistemi di Valori. I quali hanno la mission di vibrare armoniosamente nella dimensione spazio-temporale e durare nel tempo. Stimolando perennemente l’espressione del triumvirato “ingredienziale” fondante di Autenticità, Unicità e Eccellenza. E di irradiarne virtuosamente “l’Energia Aumentata”. Di generazione in generazione. Negli ultimi decenni, pressoché ovunque in Occidente, il tasso di trasmissione di valori tra le generazioni si è drammaticamente abbassato. E Vecchie & Nuove Generazioni pagano oggi il prezzo inestetico e insostenibile dello stato di avanzata liquefazione della Modernità. Il quale fu profeticamente anticipato da Marx, nella sua miglior accezione di illuminato Psico-Filosofo e Sociologo. E poi teorizzato da Bauman, in modo assai rigoroso e, putroppo, non meno deprimente. E mai con spirito “solare”, termodinamicamente pro-attivo e “problem-solving”. La dolorosa assenza di una Sociologia contemporanea davvero libera e indipendente e finalmente affrancata dagli innumerevoli abbagli, auto-inganni, fantasmi e mostri del XX secolo, contribuisce a generare uno scenario estremamente poco “appealing, exciting & sexy”. Pur tuttavia, grazie da un lato al costante progresso morale dell’Umanità, ampiamente teorizzato da Guitton, e dall’altro, al fulmineo progresso delle nuove tecnologie di communicazione, questo background epocale si sta avverando essere l’habitat ideale per la genesi di una magnifica “rivoluzione evoluzionaria in the making”. Che origina dall’Approccio Sistemico delineato da Leonardo da Vinci 500 anni fa. E tutt’ora snobbisticamente ignorato e inesplorato. Perché ci ri-connette magnificamente a Gaia, la nostra Madre Terra Vivente. Cosa che il misero profilo antropocentrico e ipoprogettuale di questa attuale civiltà umana liquefatta non riesce a sopportare. Poiché il “potere laterale” legato alla Terza Rivoluzione Industriale (TRI), lucidamente e efficacemente teorizzato da Jeremy Rifkin nel suo omonimo libro(2), unito alla “cultura laterale” che la biodiversità marcatamente “digital” delle Nuove Generazioni stanno rapidamente sviluppando, hanno finalmente determinato,500 anni dopo il Rinascimento, lo sbocciare e il fiorire dell’Approccio Sistemico che costituisce il più importante legato all’umanità da parte del genio universale Leonardo da Vinci. E che, per dirlo con le parole che Fritjof Capra utilizza nel suo magnifico libro “La Scienza Universale - Arte e Natura nel genio di Leonardo”,(3) “ …è un tipo di Pensiero e di Scienza di cui abbiamo urgentemente bisogno”. E tutto ciò può avvenire, e sta di fatto avvenendo a passo veloce, perché la “lateralità” e la “a-centralità” di Internet e della cultura “digital” segnano gradualmente la ineludibilissima fine della nozione stessa e di ogni tipologia di “intermediari”. Così’ come l’estinzione naturale di tutti i cosiddetti “media”, nella loro configurazione attuale. E anche e soprattutto perché, se c’è una cosa che il sentimento e l’amore non possono affatto tollerare, è proprio la presenza tendenzialmente voyeuristica, invasiva e “totalitaria”, appunto, di qualsivoglia “intermediario”. Oso dunque prevedere che, con l’aiuto strategicoprogettuale-creativo e pragmatico-operativo di Nonno Leonardo e di Mamma Internet a 360°, le Nuove Generazioni si apprestano a ridare al sentimento e all’amore tutta la Verità, la Dignità e la Sacralità nonché il ruolo essenzialmente e fondamentalmente onni-fecondante che venne loro attribuito da Dio nei big-banghiani giorni della genesi. E che sappiano stimolare altresì una riflessione quanticamente ri-fondante. E rivolgere a tutti i loro Interlocutori un giocoso “appello all’azione”. link journal 2/2012 giovani 65 Riflessioni sull'artista contemporaneo E inventare innumerevoli, efficacissimi e gioiosi riti propiziatori. E determinare la urgente genesi di una luminosa “dirompenza” nei processi & percorsi progettuali & creativi del XXI secolo. I quali richiedono una nuova “Antropologia dei valori”. Che solo un ineludibile, selvaggio, iper-potente e nuovo fiammante spirito etico-morale-spirituale e etico-esteticopoetico può generare. Note (1) François Zille, Senior Digital Strategist, Analyst & Planner, Ermeneuta & Psico-Filosofo, Antropologo visivo & Ingegnere del Linguaggio, Ricercatore indipendente & Docente esterno presso Master Politecnico Milano e Accademia di Brera (2) Jeremy Rifkin, “La terza rivoluzione industriale”, Mondadori 2011 (3) Fritjof Capra: “La scienza universale”, Rizzoli 2007 L’Artista d’Impresa e la forza delle idee L ’artista che opera per se stesso può creare opere geniali, ma se non interagisce con il resto del mondo, è come se producesse diamanti sepolti tra le montagne. Ragionando in questo modo, va da sé che ogni produzione che nasce da un processo intellettuale necessita di essere supportata da un progetto di tipo economico e manageriale per interagire meglio. Allo stesso modo si può comprendere perché l’originalità del design necessiti di altrettanta creatività di marketing. L'artista di oggi non è più solamente l'operatore che trasforma la materia grezza in materia levigata. Non basta manipolare un pezzo di argilla e farla diventare un busto, o manipolare pennelli e colori e pitturare una tela. Finché "fare arte" è ricerca, è sempre arte, qualsiasi sia il tipo di manipolazione, fosse anche solo di tipo intellettuale o manageriale. Difatti, oggi si può fare arte in modo immateriale. Si può sviluppare un progetto, un evento, una performance, una installazione, senza lasciare alcun oggetto materico a dimostrazione del nostro atto creativo. Il mondo della comunicazione è pieno di interventi in tal senso soprattutto con l'uso delle nuove tecnologie. Aggiungo che l'artista oggi può spaziare a tutto campo grazie alla possibilità di acquisire saperi che non sono solo di tipo estetico, o filosofico, o artigianale, ma spaziano nel campo della scienza, del marketing e delle più svariate modalità espressive. Questo è il motivo per cui invito a pensare alla figura dell'Artista di Impresa, ovvero a colui che è in grado di intraprendere la realizzazione di un progetto e portarlo a termine fino a raggiungere l'obiettivo prefissatosi, a prescindere dai modi e dai mezzi. Accadeva nel Rinascimento passando tra corti, mecenati e conventi. Oggi ci si relaziona con altre entità. Nell'essenza cambia poco. Sia ieri che oggi l'artista sa che il maggior impresario del suo progetto è egli stesso. Per questo motivo il processo per la realizzazione del progetto è spesso più interessante dell’oggetto stesso. Veniamo alla crisi attuale: per rilanciare l’economia c’è bisogno della forza delle idee. Perciò, è auspicabile che l’artista superi i pregiudizi nei confronti del management e contribuisca ad immaginare nuovi scenari socioeconomici. Allo stesso tempo, il mondo della finanza e della politica dovrebbero dedicare più attenzione a quello creativo. La cultura può essere il legame che aiuta a mettere in- Gerardo Lo Russo, Direttore Accademia Belle Arti di Roma 66 giovani sieme le risorse dei diversi settori. Artista d'Impresa - Italia: da Nord a Sud il 70% dei Beni Artistici nel mondo. Castelli, chiese, musei, ville, abbazie, giardini e fontane incastonate tra mari e monti sono il gioiello del pianeta Terra. L’Italia nella sua interezza è una sorta di sito Patrimonio dell'Umanità. L’Artista di Impresa può lanciare l'Economia del Bello, attraverso la valorizzazione dei saperi dell’arte. Sarebbe l’esperto giusto per esporre le primizie del nostro paese sul mercato delle offerte migliori. E noi sappiamo che l’arte è il nostro oro, il nostro petrolio, la nostra banca. Un esempio storico può venirci in aiuto: solo due secoli addietro resti di antiche sculture emergevano dai campi di Roma, finché Canova con pochi altri decise di valorizzarle, avviando un processo di sviluppo culturale ed economico, che ha portato alla conseguente apertura di musei e collezioni in Italia e nel mondo. Ma in Italia non ci sono solo i Beni Culturali o i paesaggi turistici. Ci sono istituzioni professionali ed universitarie di grande prestigio. Oltre alla fruizione materiale esiste quella immateriale dei saperi e dei processi che vengono a monte e prima di qualsiasi produzione di oggetti. Per esempio, la didattica: abbiamo accademie, facoltà universitarie, conservatori e scuole di specializzazione in sovrabbondanza. Abbiamo pure docenze che in alcuni casi rischiano di andare in sovrannumero. Allo stesso tempo, molti immobili come ex caserme, ex ospedali, ex conventi ed anche borghi medievali sono abbandonati. Comunque, la giriamo la situazione è abbastanza chiara: siamo un paese che ha tanto, però non ce la fa a tenerlo in piedi. Basti pensare a Roma: ogni angolo, ogni pezzo di strada ha bisogno di cure continue al fine di essere preservato nella sua caratteristica estetica e storica. Ma se non troviamo le risorse adeguate è proprio difficile conservare il Bello che abbiamo. Ora, guardiamo ai cosiddetti paesi emergenti, quelli in continua crescita economica. Appare evidente come, a fronte della quantità demografica ed economica, siano carenti di strutture per l’apprendimento dei saperi. Di converso, le istituzioni italiane sono tante, godono di prestigio internazionale e potrebbero ospitare milioni di studenti stranieri. Ma il processo di scambio culturale ha bisogno di idee innovative, affinché diventi un vero e proprio progetto di sviluppo socioeconomico. Si registrano, infatti, difficoltà da superare se si vuole che lo scambio diventi sistematico e vantaggioso per entrambi le parti. Per esempio, se si applica link journal 2/2012 il calcolo dei contributi studenteschi secondo le nostre fasce reddituali, quasi sempre lo studente straniero paga poco o toglie le borse di studio ai nostri studenti. Inoltre, il costo universitario da loro è maggiore. Secondo me, bisogna intervenire per trovare una soluzione vantaggiosa per entrambi attraverso delle apposite convenzioni. Per esempio, si potrebbe concedere in uso ad enti, istituti ed università straniere immobili abbandonati per un periodo di tempo rapportato al loro investimento, al fine di ospitare in campus i loro studenti. Allo stesso tempo, le convenzioni possono prevedere costi di iscrizione equi rispetto a quelli degli studenti italiani. In questo modo si potrebbero ristrutturare immobili abbandonati, rivitalizzare settori urbanistici e sociali e procurarsi le risorse per ottimizzare i servizi universitari. Ora, facciamo un rapido calcolo: tre studenti stranieri tra vitto alloggio e tasse universitarie spendono tanto quanto basta per dare lavoro ad un nostro giovane. Se immaginiamo di ospitarne milioni, è facile pronosticare che potremmo offrire in proporzione milioni di posti di lavoro ai nostri. E superare la crisi attuale rilanciando un tipo di economia a carattere prevalentemente culturale. Il Bel Paese potrebbe fungere da sede di offerta formativa a livello globale. Ricordiamolo ancora una volta: il nostro è baciato da Dio: acque di qua e di là, con al centro monti e paesaggi insediati da castelli, templi, giardini e monasteri millenari. Per altre terre si viaggia lungamente incrociando boschi e boschi, deserti e deserti, o selve di grattacieli. Qui da noi, ad ogni svolta c'è un manufatto che racconta la straordinaria evoluzione dell'essere umano. E noi siamo coscienti che il patrimonio più tangibile dell'umanità è la ricchezza di conoscenza. Cosa c’entra l’Artista di Impresa? Questa proposta, se fosse attuata avrebbe bisogno di operatori, professori, scienziati, manager, professionisti e cultori di qualsiasi settore. Ovvero: creativi flessibili e pronti ad intervenire con i segni giusti al punto giusto. I politici sanno che l’avvenire dell’umanità, dipende in larga misura dallo sviluppo delle arti, delle lettere, delle scienze. La cultura italiana accrescerebbe rapidamente perché sarebbe diffuso dagli stessi studenti ospitati. Né si deve aver paura di contaminazioni culturali, o di perdita di posti di lavoro. Al contrario, gli studenti stranieri porterebbero nuovi entusiasmi e un po’ più di gioventù. L’arte non è solo ricerca, è anche un’impresa. link journal 2/2012 giovani 67 I have a dream È il momento di realizzare le promesse della democrazia “… Non possiamo misurare lo spirito nazionale basandoci sul Dow Jones, né i risultati della nazione basandoci sul Prodotto interno lordo… Il Prodotto interno lordo non misura né la nostra intelligenza né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra erudizione, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto insomma tranne ciò che dà valore alla vita, e può dirci tutto sull’America, tranne se siamo fieri di essere americani”. (1967) Robert Kennedy, dopo la morte del fratello John, rappresentò la voce della nuova America, quella che aveva ritrovato un sentimento e il coraggio di dire no alla guerra del Vietnam. Non solo. Sapeva parlare non con la mente ma con il sentimento alla giovane generazione americana mettendola in guardia contro la sfrenata corsa verso l’opulenza, causa principale dello sfaldamento sociale e della preminenza dell’economia sulle attività umane. Non molti anni prima Herbert Marcuse scriveva ne L’uomo ad una dimensione: “La società moderna, ossia quella in cui l’industrializzazione è avanzata, differisce dalle precedenti epoche poiché riesce a domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato modello di vita”. (1955) Monito e preveggenza. Per Marcuse la tecnologia è lo strumento più potente ed efficace da utilizzare per estendere il controllo sulla società, manipolando le coscienze, inducendole al consumo smodato al fine di incrementare l’opulenza delle classi dominanti. Paolo VI, nella Populorum Progressio, ammoniva: “ L’aspirazione degli uomini è essere affrancati dalla miseria, trovare con più sicurezza la loro sussistenza, la salute, una occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini; godere di una maggiore istruzione; in una parola, fare, conoscere, e valere di più, per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi…”. (1967) Altro Pontefice, Giovanni Paolo II, circa due decenni dopo, precisava nella Centesimus Annus: “…la Società e lo Stato devono assicurare livelli salariali adeguati al mantenimento del lavoratore e della sua famiglia… ciò richiede sforzi per dare ai lavoratori cognizioni e attitudini sempre migliori e tali da rendere il loro lavoro più qualificato e produttivo… è da richiamare il ruolo dei sindacati non solo come strumento della contrattazione, ma anche come “luoghi” di espressione della Antonio Suraci, Direttore Link Journal personalità dei lavoratori; essi servono allo sviluppo di un’autentica cultura del lavoro ed aiutano i lavoratori a partecipare in modo pienamente umano alla vita dell’azienda. Al conseguimento di questi fini lo Stato deve concorrere sia direttamente che indirettamente. Indirettamente secondo il principio della sussidiarietà , creando le condizioni favorevoli al libero esercizio dell’attività economica, che porti ad una offerta abbondante di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza. Direttamente e secondo il principio della solidarietà, ponendo a difesa del più debole alcuni limiti all’autonomia delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed assicurando in ogni caso un minimo vitale al lavoratore disoccupato”. (1995) Quarant’anni separano Herbert Marcuse da Giovanni paolo II, due mondi che, pur tra loro opposti, hanno in comune l’aver esaminato un universo che andava evolvendosi offrendo, ciascuno nell’ambito della propria attività, un’alternativa all’Apocalisse imminente. In questo arco di tempo, generazioni intere hanno lottato perché quegli ideali formassero una diga contro l’avanzata di un sistema che oggi, senza prova di smentita, ha raggiunto l’obiettivo di condizionare, globalmente, la vita e il futuro di altre generazioni. Quei valori, quegli ammonimenti non hanno saputo fermare il vorticoso movimento dei capitali, rapidi nel soppiantare una visione politica non in grado di offrire le soluzioni auspicate dai più. I quasi vent’anni che ci separano dai suggerimenti di Giovanni Paolo II hanno visto, nella maggior parte delle nazioni, ma in Italia in particolar modo, il declino delle istituzioni e con esse di quei valori sui quali si fondava la speranza delle generazioni passate e di quella futura. Possono oggi i giovani - dopo aver attraversato la delusione della flessibilità nel mondo del lavoro, la precarietà nel mondo della ricerca, l’impossibilità di vivere una vita familiare credere ancora a quei nobili pensatori, a quanto ci hanno trasmesso per illuminarci su ciò che sarebbe accaduto nel volgere di pochi decenni, se non di pochi anni? La risposta è no. I giovani non possono credere in un mondo ideale, pur giusto ed eticamente valido, se coloro che sono chiamati ad occuparsi di dare un senso al genere umano sono anch’essi portatori di una visione economicista che rifugge la ricerca di un punto di incontro con una visione di un umanesimo rinnovabile. 68 giovani Non è giusto, neppure, che l’indignazione prenda il sopravvento e si materializzi attraverso un lento, quanto inesorabile, allontanamento dai problemi che tutti siamo chiamati a vivere. Uno dei punti sensibili affinché le giovani generazioni possano tentare di riappropriarsi del proprio futuro è la riforma dei mezzi di comunicazione, o meglio della qualità di chi esercita tale professione, come ricorda Stéphane Hessel “… occorre invocare una vera e propria insurrezione pacifica contro i mass media, che ai nostri giovani come unico orizzonte propongono il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti.” Parole che, forse vanno oltre le righe, ma nel prendere in esame il complesso dei media in rapporto con i sistemi in cui abitualmente agiscono, possono essere prese come monito e stimolo, più che come denigrazione, affinché la bandiera della libertà sventoli alta su ciascun pennone. Il problema è globale, e non solo per quanto riguarda l’economia; ma, proprio per quest’ultima, prioritaria è la riformulazione dei sistemi istituzionali in cui deve crescere, e per crescere necessita di terreni sufficientemente fertili dove ‘creare non sia sinonimo di resistenza’ ma unicamente di profitto. La delusione dei giovani non è solo verso il mondo scritto con la M maiuscola, ma anche verso il micro-mondo degli adulti incapaci di condividere quella rivolta pacifica necessaria a ridare la speranza e a riformulare un sogno. Cosa pensano i giovani degli adulti? Siamo abituati a filtrare il loro pensiero attraverso una lettura familistica o sociologicizzante, quando basterebbe ascoltarli e mettersi dalla loro parte per meglio comprendere il mondo degli adulti di cui facciamo parte. Una ragazza in internet, giovane, ma chiara e lucida: “Per capire che idea hanno gli adulti di noi giovani basta semplicemente accendere il televisore o sintonizzare la radio su una qualche frequenza. Pioveranno notizie inerenti ad adolescenti bruciati da alcol e droga, a ragazzi che si picchiano in classe o si accendono uno spinello nell’ora di matematica. Dato che questo è l’unico aspetto adolescenziale noto a chi non è un adolescente, lo stereotipo del quindicenne è diventato quello del ragazzo che non ha rispetto per nessuno, e come fanno vedere spesso alla tv, che non rispetta nemmeno la legge. Ci sono invece altri ragazzi, che non sono dei santi però nemmeno dei teppisti, che non vengono mostrati in televisione. Io mi ritengo uno di quei ragazzi che, semplicemente, si possono definire “normali”. Capisco che questo termine ormai lo si senta dire poco quando si parla di adolescenti, però ogni tanto farebbe piacere sentirlo dire. Il ragazzo che fuma in classe finisce al telegiornale, mentre mai una volta che si sentano delle notizie sui ragazzi che fanno volontariato o che magari fanno gli animatori nella propria parrocchia. A causa di ciò gli adulti sono spinti a pensare che tutti i ragazzi sono uguali, facendo delle assurde generalizzazioni. Perciò questa immagine del ragazzo quindicenne non mi sembra veritiera né tantomeno adeguata. Il link journal 2/2012 mio parere è che ogni ragazzo è diverso, e che quindi prima di fare delle generalizzazioni, sarebbe più appropriato pensarci un po’ su”. E ancora: “Io non mi pongo la domanda: "cosa farò nella vita". Piuttosto mi domando: "cosa se ne farà la vita di me?" La vita è un treno, il destino è il binario che percorre, ma non ci sono soste, non ci sono deviazioni, va dritta, giunge al capolinea e tutto finisce. La vita è un viaggio e ha come destinazione la morte, ma siamo noi che guidiamo questo treno, e non possiamo, anzi non dobbiamo permettere che deragli. Questo è ciò che penso io, L… G…, quindici anni tra dubbi, domande senza risposta, solitudine interiore... tra essere me stesso ed essere me stesso nel mondo. Quindi mi domando: "cosa ne farò della mia vita?" Vivo e vivrò, poi cosa ne sarà di me? Cosa ne sarà di ciò che ho fatto, di quello che ho vissuto, quello che ho amato, desiderato, odiato, rifiutato? Tutto si perde nella polvere? Forse è così, forse per ognuno di noi c'è un mondo a parte, una realtà diversa per ogni individuo dove sei solo tu che vivi, gli altri non sono altro che manichini, fantocci senz'anima posti attorno per caratterizzare la tua vita, per distruggerla a me e renderla migliore ad un altro. Morto io quindi muore tutto. L'universo collassa su se stesso; gli uomini, gli animali, le piante, i microrganismi, tutto cessa di vivere. Nella realtà di L… G… Gesù Cristo è Dio personificato e le persone respirano con la bocca e il naso. Nella realtà di un altro individuo Dio non esiste e gli uomini non respirano. In altre realtà ancora non esistono realtà e il tutto è niente. Quindi, posso io lasciare le mie orme in questo mondo, se quando morirò spariranno insieme a me? Tutto si perde nella polvere”. Giovani che ci trasmettono una sensazione di impotenza, quasi di dolore. Possono i tanti giovani che vivono una vita non piena appellarsi a noi affinché anche noi ci si trovi pronti ad una rivolta culturale per affermare quei valori o progetti che nell’introduzione di questo scritto sono stati fissati? Quando Albert Camus pone, nell’incipit del suo L’uomo in rivolta, la domanda: “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no” e conclude: “In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. E’ un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo”, ci offre una risposta e nel contempo una strada. È evidente che lo stimolo da raccogliere non è quello di una rivolta caratterizzata da una intollerante contrapposizione, ma di una rivolta di pensiero, culturale, di cui si sente fortemente il bisogno. Riappropriarsi della libertà di costruire un sogno è, oggi, per tutti, ma soprattutto per le giovani generazioni, il fine cui tendere per sentirsi ‘vivi’ e parte operante in una so- link journal 2/2012 giovani cietà che chiede a ciascuno un pizzico di originalità per formulare un sogno collettivo. Non saranno l’economia o la politica a realizzare questo sogno, ma gli uomini che non avranno più timore di dire quel no, consapevoli che un sì, nella logica globale odierna, non cambierebbe loro alcunché. 69 “I have a dream”, è il testamento che ci ha lasciato Martin Luther King (1963), quel sogno deve ancora compiersi e va oggi raccolto perché: “Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia… della giustizia… della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio”. Lo sviluppo e il progresso nascono dalla nostra capacità di inventare I n Italia, così la chiamavano i Greci, tra il V ed il III secolo Queste ipotesi, da me formulate, da dove vengono? Prima non ac, vivevano gli intelletti più alti del mondo, filosofi, politici, esistevano. Nessuno me le ha suggerite scienziati, e, non credo per caso, il livello di vita delle loro Invento. comunità era enormemente più elevato, rispetto a quello degli Procedo insomma con un balzo a scoprire cose ignote. Così altri popoli. Lo sviluppo economico segue quello intellettuale. posso ipotizzare, assiomatizzare, per poi dedurre i teoremi, con Mi sembra che così sia sempre stato. opportune regole di derivazione. Questa capacità è stata chiaNon sarebbe spiegabile altrimenti come mai l’Italia, senza ap- mata anche abduzione. Quando invento, invento. Finora nesprezzabili giacimenti di materie prime e, così ci descrivono, preda suno ha formulato ipotesi credibili, non contraddittorie o non del disordine, sia oggi uno dei paesi più ricchi, civili e sviluppati assurde, su questa attività umana. del mondo. Forse in questo territorio con tanti E la qualità più mirabile di ogni essere umano è popoli, si sono trasmesse attitudini antiche al penproprio la capacità di inventare. sviluppo siero critico, libero, che ci consentono di inventare. Forse è l’attività che meglio si potrebbe scegliere, Ma anche dell’Europa dovremmo dare una dese qualcuno sentisse la necessità di distinguere il scrizione più corrispondente alla realtà. genere umano dal genere scimpanzé, o dal genere La qualità L’Europa ha la prima economia del mondo, un Pil calcolatori elettronici. più mirabile superiore a quello Usa, ed è anche il vero faro della Si tratta di un mistero insoluto. Il nostro pensiero civiltà, ha la democrazia, non ha la pena di morte può immaginare, inventare. E anzi ogni progresso, di ogni ed è attenta anche ai più deboli, con lo stato sociale. anche piccolo, viene da lì. essere Dove lo stato sociale non c’è, riescono a spendere E non riguarda solo le attività “alte”, la scienza o umano molto di più, solo per l’immensa popolazione la nascita di teorie. Ogni attività umana si sviluppa, è la capacità se c’è un individuo che inventa. carceraria. Non mi sembrano furbi. Il pensiero occidentale non è un richiamo culturale lontano, noi Protagora, il fondatore della sofistica, faceva il di inventare non siamo gli eredi di quel pensiero, noi siamo facchino. Un giorno stava caricando un asino e quel pensiero, noi siamo quelli che hanno pensato metteva su i pesi con un certo sistema, detto la democrazia, la civiltà dei diritti individuali, che cercine. Democrito, già affermato maestro del hanno distinto le cose dalle parole, che hanno penpensiero e politico importante della città, chiede a sato la logica, la scienza e via e via. Protagora: “Dove hai imparato questo modo di caricare?”, Io, qui da noi, sono un individuo, libero di esprimere il mio risposta:“Lo ho pensato io” e Democrito: “Allora smetti di fare il pensiero. Dico ciò che ritengo ed invento, con assoluta libertà, facchino e vieni ad occuparti di filosofia e della città”. pensieri nuovi e diversi. .Il genio siede ovunque, non solo nei centri di ricerca. Alcuni Ma come invento? hanno sostenuto che questa attività, tipicamente umana, deriva Possiamo partire così: mi trovo davanti un problema, diciamo dalla osservazione dei fenomeni. Ma non credo che sia così. I un fatto, che mi appare come un problema. fenomeni, i fatti del mondo, gli oggetti, neppure posso disPer cercare il modo migliore di superarlo, formulo una ipotesi, tinguerli, né dare loro un nome, se non ho una teoria, un punto o alcune ipotesi coerenti, dico che può darsi che quel problema di vista. sia fatto così e così e che per risolverlo si possa fare così e così. Un’automobile è composta da 100 parti. Massimo Pistone, Link Campus University 70 giovani link journal 2/2012 I nostri giovani - LinkAcademy/DAMS Dunque l’automobile dove si trova? In ogni singola parte o soltanto se tutte le parti sono unite in un certo modo? O anche posso chiamarla automobile se alcune delle parti ci sono e altre no? E se fossero messe assieme in un altro modo, sarebbe sempre un’automobile? Forse mi cavo d’impaccio se dico che l’automobile è un concetto del mio intelletto, è una parola del mio linguaggio. Non mi soffermo molto su questo punto. Cito soltanto la frase di un antico filosofo, Eraclito: “Il sole ha la grandezza di un piede umano”. Se mi siedo per terra e alzo un piede a coprire il sole, e ripeto questa operazione, starei facendo ripetute osservazioni sperimentali del fenomeno, su cui poi applico l’induzione. Quindi concludo, con certezza sperimentale scientifica, che “Il sole ha la grandezza di un piede umano”. Non se ne esce, per questa via si arrivano a dire solo assurdità. Ho il sospetto che qualcuno creda gli esseri umani delle specie di robot. Neanche per idea. Noi siamo un’altra cosa, assai misteriosa, dotata di ragione critica e di fantasia. E’ proprio l’attività dell’ inventare ipotesi, che rende affascinante ed emozionante l’avventura della scienza e della conoscenza. Non c’è nulla di scontato, sono io che invento. Poi dovremo sottoporre quella ipotesi ad esami duri, rigorosi, per vedere se funziona. Saremo disposti, ben disposti, anche ad abbandonare l’ipotesi, riconoscendo l’errore. L’errore ci fa fare un passo avanti. Non è una sconfitta della conoscenza, è conoscenza. Tutti commettono errori ed anzi proprio così possiamo procedere. Forse una cosa sarebbe necessaria. Che ci allenassimo a riconoscere e valorizzare quando una persona dice qualcosa di innovativo e non cercassimo di rubargliela. O forse che lui imparasse a difenderla, con le unghie e con i denti. Non si può, dunque, spiegare né insegnare la invenzione. Nè De Bono, ma neppure il grande Guilford, ci sono riusciti, enunciando le loro teorie sul pensiero laterale o divergente. Perfino Poincaré ne ha solo descritto la natura, definendola come la capacità di ordinare, in modo nuovo e utile, elementi esistenti. Ma forse possiamo fornire, nel nostro sistema educativo, molte occasioni di allenamento al pensiero astratto. Un esempio può essere Euclide, che nel III secolo a.C. sapeva che i triangoli e le rette non erano oggetti reali. Erano invenzioni astratte, vive solo dentro il suo sistema di pensiero, inventato da lui anche quello.Le geometrie non euclidee, senza il quinto postulato sulle parallele, nascono quando un gesuita, Giovanni Girolamo Saccheri, comincia a capire come ragionava Euclide, dopo 2000 anni. Quanto tempo perso. Il nostro futuro, quello che noi costruiamo, penso che abbia le sue basi qui, in questi concetti, e lo sviluppo, forse anche il progresso se ce lo meritiamo, nasce nello stesso modo. Benjamin Stender Il mio “sogno italiano” tra aula e palcoscenico Benjamin Stender è uno dei giovani attori della Link Academy (www.linkacademy.it) che compone il cast del Cyrano de Bergerac di Alessandro Preziosi, prodotto da Khora.teatro con il Teatro Stabile d’Abruzzo e attualmente in tournée nei teatri di tutta Italia. Lo spettacolo, basato sulla celebre commedia teatrale di Edmond Rostand, si avvale della regia dello stesso Preziosi e delle importanti collaborazioni artistiche di Andrea Taddei (scene), Alessandro Lai (costumi), Andrea Farri (musiche), Valerio Tiberi (luci) e Nikolaj Karpov (movimenti scenici) nonchè della partecipazione di nove attori della Link Academy. Danese, 24 anni, non ancora diplomato, Benjamin è stato scelto da Alessandro Preziosi per il ruolo di Cristiano de Neuvillette, rispecchiando così l’intento del direttore artistico dell’Accademia di formare figure professionali internazionali che vivano, in maniera concreta e diretta, il delicato passaggio dall’aula al palcoscenico. Tra una tappa e l’altra della tournée, Benjamin ci racconta la sua esperienza. Come sei arrivato a interpretare Cristiano nel Cyrano? Alessandro mi ha visto al lavoro durante gli anni di studio all’Accademia, e mi ha scelto dopo la rappresentazione di noi studenti alla fine del II anno. Sono iscritto al III anno del Corso di Recitazione, appena terminerà la tournée del Cyrano tornerò a studiare con i miei compagni. L’altra sera li ho visti in scena al Teatro Vascello con un bel lavoro sul Musical Theatre. Non sei spaventato da un impatto così forte e immediato col mondo del lavoro? Tutto ciò che sto vivendo è incredibile, penso spesso che sto vivendo il sogno italiano ma sto facendo anche grossi sacrifici per seguire la mia passione, non ultimo cambiare paese, vivere lontano dalla mia famiglia... Hai scelto di lasciare il tuo paese per la recitazione. Intervista a cura di Francesca Di Giovanni link journal 2/2012 giovani 71 Che rapporto hai con gli altri attori e con i tuoi compagni di Accademia? Gli attori più grandi li ascolto e li osservo molto per apprendere il più possibile dalla loro esperienza. Tra noi ragazzi c’è dialogo e confronto: parliamo molto per risolvere ogni questione, per affrontare i problemi insieme e trovare uno stile che ci rispecchi e ci accomuni sul palcoscenico. Il tutto ovviamente seguito dal regista, che ci guida e ci dà indicazioni specifiche in base alle esigenze dello spettacolo. Com’è lavorare con Alessandro Preziosi? Alessandro mi affascina come persona e come attore. Ha una forte energia e riesce a riempire il teatro con tutto se stesso e a colorare l’aria. Soprattutto mi piace il suo essere umano fino al midollo. E’ stato difficile inserirsi nel contesto artistico e di studio del nostro paese, con una lingua che non è la tua? Il mondo della recitazione italiana è focalizzato sulla lingua e sulla voce. L’italiano è una delle lingue più belle e difficili del mondo. Sto studiando tanto per questo e mi piace molto perché, a differenza del danese che è piuttosto rigido, voi avete la possibilità di colorare ogni cosa con le parole. L’obiettivo di Alessandro Preziosi come Direttore Artistico dell’Accademia è di dare agli studenti l’occasione immediata di confrontarsi con il pubblico. Dalle tue parole sembra ci sia riuscito... Il Cyrano è il primo progetto davvero grande e importante a cui partecipo, prima di esso avevo vissuto molto poco del mondo dello spettacolo. Per me, questo mondo è come una montagna: va scalata piano piano, un passo dopo l’altro per arrivare sulla vetta. Non dev’essere facile perseguire i propri sogni e, al contempo, riuscire a garantirsi autonomia e indipendenza... Ci riesci con questo lavoro? Sì, ci riesco senza alcun aiuto. Mia madre non lavora e mio padre è pastore protestante, e da dove vengo io è uno dei lavori con lo stipendio più basso. Fortunatamente, riesco a pensare a me stesso e a non gravare su di loro. La preparazione artistica del Cyrano è stata seguita anche dal maestro Nikolaj Karpov, che insegna all’Accademia. Cosa ha significato, per te, lavorare con lui? Karpov è un uomo che ha vissuto due vite, ha una consapevolezza della vita a dir poco incredibile. Riesce a riempire ogni parola, al cui interno ci mette delle vite e crea dei romanzi tutt’intorno. A me, che non sono italiano, è stato molto d’aiuto per entrare nella parte, mi ha accompagnato nella creazione della vita dentro il personaggio tanto da con sentirmi di interpretarlo al meglio. Che cosa ti lascerà quest’esperienza? E’ il mio ingresso nel mondo del lavoro e, nonostante un po’ di paura, tutto ciò non ha fatto altro che aumentare la mia passione per il teatro, e confermarla come obiettivo per il mio futuro. iTest your University Choice: l’app per orientarsi nell’Università Link Campus University lancia l’applicazione per iPhone, iPad e dispositivi Android: iTest your University Choice. Si tratta di uno strumento-gioco nuovo, efficace e semplice da usare, destinato a quanti si trovano alle prese con la scelta della facoltà universitaria a cui iscriversi. Grazie a questa nuova app, gli studenti potranno facilmente orientarsi nel mondo universitario e scoprire il percorso di studi più adatto a loro. Rispondendo ad una serie di domande, che permettono di evidenziare le abilità trasversali, gli interessi e gli hobby, iTest your University Choice sarà in grado di valutare le risposte e consigliare il corso più in linea con la personalità, i punti di forza e le capacità dello studente. L’app è un prodotto originale Link Campus University e offre un valido supporto nella scelta della facoltà più coerente con le attitudini e le aspirazioni professionali dei ragazzi. Semplicissimo da usare: inserendo i propri dati si accede al Test. Rispondendo a otto blocchi di domande (gate), vengono analizzate inclinazioni e potenzialità dell’utente, che ottiene una prima indicazione di orientamento universitario. Inoltre, inserendo il proprio numero di cellulare, l’utente riceve via SMS un profilo personalizzato. L’app è già disponibile sull’Android Market e lo trovi anche su iTunes Store. Trovi ulteriori informazioni e istruzioni per l’uso su universitychoice.net, orientamentouniversitario.net. La scelta del tuo futuro è una conquista importante. Orientati con noi! link journal 2/2012 Link Campus University Link Campus University Cari amici, Link Campus, fin dai primi anni della sua presenza in Italia, ha lavorato per realizzare una didattica, sulla frontiera più avanzata della ricerca e del rapporto tra studio e lavoro nonché sull’utilizzo delle lingue straniere nello studio delle discipline professionali. Il che significa che non è sufficiente far crescere il proprio bagaglio di conoscenze: è fondamentale saperle utilizzare per la “soluzione dei problemi” con ampia visione di sistema e interdisciplinarità. Alla Link Campus la formazione è il risultato di un dialogo quotidiano tra docente e studente. Prima che delle conoscenze agli studenti viene inse-gnato un metodo di studio e di lavoro, integrando il sapere e il fare. Sono i due cicli di studi, laurea triennale e laurea magistrale, che consentono di raggiungere una professionalità adeguata alle responsabilità richieste a un dirigente-imprenditore. Il primo ciclo serve a dare i fondamentali delle conoscenze e il metodo di studio. Nel secondo ciclo si porta a compimento la formazione che rende capaci di mettere insieme i saperi scientifici differenti per risolvere i problemi del fare, nelle aree delle professioni economiche, giuridiche, politiche, della conoscenza. Lo studio comparatistico consente di avere una formazione necessaria a lavorare tra economie, culture e società diverse. La Link Campus attua il suo progetto formativo in collaborazione con altre eccellenti Università internazionali puntando alla mobilità degli studenti e dei docenti e al conseguimento di un doppio titolo accademico. Link Campus è una Università pubblica, non statale, legalmente riconosciuta, che fa parte dell’offerta complessiva del sistema universitario italiano. Certamente non esiste differenza in ordine al valore legale del titolo che si consegue in tutte le Università italiane, statali e non statali. Tuttavia, con il progredire rapido della competizione globale, sia gli studenti che le loro famiglie sono divenuti più attenti ai contenuti e alle modalità con cui le Università provvedono ad organizzare le attività accademiche. A livello mondiale, si compilano graduatorie delle Università sulla base di parametri obiettivi di valutazione delle attività di ricerca, di didattica, di intermediazione, di rapporto con le imprese e dei tempi intercorrenti tra la laurea e l’impiego, la padronanza di più lingue straniere. Con il passare degli anni ciascuno di voi valuterà la scelta operata, a seconda che l’Università lo abbia, o meno, aiutato a realizzare il proprio “sogno”. 73 Preparing Pr eparing leaders le eaders for for evolving evo olving worlds w SCUOLA GRADUATE Corsi di Laurea Economia Aziendale Internazionale Corsi di Laurea Interclasse Comunicazione e DAMS Discipline delle arti figurative, della musica, dello spettacolo e della moda Scienze della Comunicazione Scienze della Politica e dei Rapporti Internazionali Scienze dell’Amministrazione e dell’Organizzazione Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico di 5 anni Giurisprudenza Corsi di Laurea Magistrale Tecnologie, Linguaggi e Diritto della Comunicazione Gestione Aziendale Corso di Laurea Magistrale Interclasse Studi Strategici e Scienze Diplomatiche Relazioni Internazionali Scienze della Politica Per Informazioni ed iscrizioni Ufficio orientamento Via Nomentana, 335 - 00162 Roma Numero Verde: 800226633 E-mail: [email protected] - www.unilink.it Master MBA in Family Business and Entrepreneurship MBA in Diritto e Management dello Sport MBA in Energy and Sustainable Development Master in Intelligence and Security MPA in Gestione delle Organizzazioni Pubbliche Complesse Master in Innovation, Development and International Economic Cooperation Master in Economia dello Sviluppo e Cooperazione Internazionale Master in Diritto Penale Internazionale Master in Gestione dei Beni e delle Aziende Sequestrate alla Criminalità Organizzata Master in Direttore degli Eventi dello Spettacolo dal Vivo Master in Regia e Scrittura Creativa Per Informazioni ed iscrizioni Ufficio orientamento Via Nomentana, 335 - 00162 Roma Numero Verde: 800226633 E-mail: [email protected] - www.unilink.it Preparing Pr Prep eparing leaders le eaders for for evolving evo olving worlds w SCUOLA POSTGRADUATE EURILINK EDIZIONI 76 link journal 2/2012 F in dall’Unificazione le strategie dello Stato Italiano per com- Vincenzo Scotti battere la mafia hanno oscillato tra il “convivere” e la messa in campo di “azioni di guerra”, mirate a combattere Cosa Nostra Collana: Tempi Moderni e a estirpare la cultura mafiosa diffusa in vaste aree del Mezzo- Edizione: aprile 2012 giorno d’Italia. Al di là delle due condizioni estreme, si è deter- Pagine: 332 minata, spesso, una zona grigia nella quale si esprimeva l’intensità Formato: 14 x 21 dello “scambio” tra mafia, società e politica. Oggi si parla sempre Prezzo euro 20,00 ISBN:978-88-95151-57-1 più insistentemente della possibilità che, agli inizi degli anni novanta e nel pieno di una “guerra” contro la mafia, vi sarebbero stati tentativi di una vera e propria “trattativa” tra rappresentanti dello Stato e la mafia. E il tema dei rapporti tra Stato e mafia è diventato, alla luce delle inchieste della Magistratura, di nuova stringente attualità. Con il suo libro, Vincenzo Scotti, che è stato uno dei protagonisti della politica italiana nella stagione segnata dalle stragi di mafia, cerca di far comprendere quello che ha conosciuto e ha fatto nell’esercizio delle proprie responsabilità, interpretando, in modo rigoroso, i fatti accaduti attraverso documenti, analisi e valutazioni riferite a quel preciso periodo. L a presenza della mafia è ancora forte, i condizionamenti della vita civile e politica sono sempre più evidenti, il territorio di molte aree del Mezzogiorno resta sotto il controllo sovrano delle cosche. Nella nuova dimensione del mondo questa forma di criminalità organizzata è riuscita anche a sviluppare i suoi collegamenti con altre mafie che sono venute mutuando comportamenti e strumenti d’azione sempre più conformi a quelli della mafia siciliana. Le diverse attività criminali si intreccianocon le attività terroristiche, con il traffico delle armi, con il narcotraffico... Vincenzo Scotti L ’oggetto di analisi di questo libro sono le Reti Sociali, da qui il nome di Analisi delle Reti Sociali (SNA). Questa metodologia permette di delineare le caratteristiche e la struttura delle relazioni che caratterizzano i fenomeni sociali in questione. In base alla metodologia adottata l’analisi dei casi specifici é stata sviluppata in fase di elaborazione delle informazioni giudiziarie e amministrative in possesso delle autorità competenti dei paesi in questione. L’analisi di questi casi permette non solo di accertare l’identità, il ruolo e la collaborazione funzionale-organizzativa e funzionale-istituzionale degli attori sociali, ma anche di determinare la natura delle relazioni all’interno di ogni Rete Sociale... Luis Jorge Garay-Salamanca Luis Jorge Garay-Salamanca Eduardo Salcedo-Albarán Collana: Tempi Moderni Edizione: maggio 2012 Pagine: 220 Formato: 14 x 21 Prezzo euro 18,00 ISBN: 978-88-95151-69-4 S i pensa che criminalità e Stati siano due realtà contrapposte. Questa convinzione vede nello Stato un’entità omogenea che agisce allo scopo di far rispettare la legge e nel crimine organizzato - come ad esempio il narcotraffico - un soggetto che agisce secondo modalità che infrangono la legge. Per il raggiungimento di questi due obiettivi lo Stato ricorre alla coercizione mentre il crimine organizzato alla corruzione, al sequestro, all’omicidio o al terrorismo. Gli studi più recenti dimostrano anche che il rapporto tra Stato e crimine organizzato non sempre è basato solo sullo scontro.Infatti, in alcuni casi, il crimine organizzato è riuscito ad infiltrarsi e a corrompere alcune istituzioni dello stato per raggiungere obiettivi ovviamente illegali.