La comunità s-velata di J.-L. Nancy

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La comunità s-velata di J.-L. Nancy
La comunità
s-velata
di J.-L. Nancy
di Carmelo Meazza
(Brani tratti dal volume di prossima pubblicazione La comunità
s-velata. Questioni per J. L. Nancy, Guida, Napoli, 2010)
(...) L’apertura di Nancy cerca un’esposizione senza eccesso e senza difetto;
né l’eccesso del volto di Levinas ma neppure un ritrarsi che lascerebbe la
coda di una cometa nell’inevitabile latitudine di una certa profondità. In
questa esposizione c’è il punto di sfida di Nancy a Derrida.
(...) La comunità di Nancy non sarebbe possibile se la spaziatura o l’apertura
del Mit-sein non fosse nella tangenza della mortalità. Se la mortalità non
fosse il limite permanente di una unità disgiuntiva di un contatto che tocca e
non tocca l’intoccabile. La finitezza di cui egli parla frequentemente ripete la
lezione di Heidegger sottraendo al morire però la figura esistenziale dell’angoscia. L’io di Nancy nasce infatti come già sempre finito, finito in quanto
infinitamente rapportato e alterato alla sua fine e dalla sua fine. Finito infinitamente perché aperto nella scena inappropriabile di una nascita e di una
morte che inscrivono l’alterità nel cuore stesso dell’identità. Dove l’alterità
stessa si altera per l’imminenza stessa di questa fine che spartisce il tempo
impedendogli ogni chiusura e immanenza su di sé. Dove soprattutto la mortalità finita diventa il comune inappropriabile in cui tutti sono accomunati da
ciò che si condivide solo in quanto si spartisce senza appropriazione e senza
memoria. Lo spaziamento accade infatti nella spartizione della mortalità che
tocca ognuno come ciascuno. Questo spaziamento, che finisce infinitamente
nel limite in cui la morte tocca il tempo, rende la comunità di Nancy inoperabile dalla logica di un progetto, il suo accadere è già sempre avvenuto e si
può solo esercitarla come la provenienza di un dono assoluto (...).
(...) Nancy scrive in questo modo: «Cum è un esponente: ci mette gli uni
davanti agli altri, ci consegna a nient’altro che all’esperienza di ciò che è». In
questo momento delicato Derrida passa in un altro modo rispetto a Nancy.
Egli scrive: «Ciò che orienterebbe, qui, “in” questo deserto senza rotta e
senza interno, sarebbe ancora la possibilità di una religio e di un relegare,
certo, ma prima del “legame” del religare, etimologia problematica e senza
dubbio ricostruita, prima del legame degli uomini come tali o tra l’uomo e
la divinità del dio».
Lasciamo in sospeso per ora la difficilissima questione di quel “prima” (lasciato stranamente libero dalla forza performativa di una virgoletta...) e fissiamo il senza contorno di quel deserto senza rotta. Nancy potrebbe ripeterlo, alla lettera, nella formula di una spaziatura di una singolare pluralità.
Entrambi, infatti, condividono il medesimo passo per il quale, prima di ogni
legame, una fidatezza elementare apre lo spazio dell’uno e dell’altro. Mentre per Nancy però la cellula elementare di questa spaziatura fidata ha la
stabile solidità di un orientamento ontologico, per Derrida, invece, si evoca
un luogo che dobbiamo subito sottrarre all’ingenuità della filosofia o al calcolo metafisico in tutte le forme in cui può presentarsi. Inoltre, ogni volta
che, in questo luogo, evocato come luogo mancante di ogni luogo, accade un
orientamento, quindi quando l’alterità attraversa o curva l’orizzonte, la fidatezza elementare si sta già mutando in un’ellissi, il cui doppio fuoco edifica il
santuario di una religione. Per Derrida non c’è indirizzarsi all’altro che non
si apra in una fidatezza incalcolabile e, per ciò stesso, non comporti un certo
atto di fede. Se per Nancy è in questa confidenza che il senso scorre spartendosi pluralmente, per Derrida l’aperto incalcolabile promosso nella venuta dell’altro si piega subito per una inevitabile fatalità nell’atto di fede per
un’alterità che salva in quanto pura e intoccabile nella sua indennità. Come
se la fidatezza non resistesse neppure un istante prima di diventare atto di
fede e di credenza. In meno di un istante si affida a un appello performativo
la cui formula richiama sempre la suprema garanzia di un testimone assoluto
(in questo senso la formula “ti prometto”, per Derrida, è già una macchina teologica). L’incalcolabile è, dunque, attraversato dal performativo di un
gesto che chiama sempre la testimonianza di un Dio. Mentre per Nancy il
performativo di una promessa si radicherebbe nella stabilità di un orientamento, per Derrida, al contrario, è l’instabilità incalcolabile della cellula elementare di una prima fidatezza a generare per una necessità quasi
trascendentale come lui dice in più occasioni, la testimonianza di un terzo
come Dio. Come se Dio fosse da sempre il nome per un’occupazione del
luogo aperto del messianico che per Derrida prima ancora che l’attesa di un
Messia è come la cellula elementare dell’attesa in quanto tale, di un’attesa in
cui è il possibile stesso a configurarsi. La fidatezza è a quel punto orientata
in un giuramento che chiama un dio come testimone, un dio che assume
tutto il credito; al quale si fa un credito totale. Un dio che assume su di sé
l’incalcolabile. (…)
C’è sempre continuità tra l’esperienza di un incalcolabile creduto e fidato
e un sapere come previsione e calcolo. Nelle coerenze di Derrida questa
implicazione sta nella stessa matrice di un’alleanza sempre imminente nel
momento in cui l’alterità dell’altro si presenta nella vertigine di un imperscrutabile. L’alleanza è già infatti una forma di garanzia nei confronti del
rischio assoluto della fidatezza. Ecco perché, secondo Derrida, è sempre
un errore separare l’evento e la potenza tecnico-scientifica dall’ellissi del
religioso. In quella doppia fonte, in realtà, si realizza, nella logica di una
qualche necessità, il dispositivo di una tecnoscienza.
(…)
Per Derrida non c’è comunità che non ripeta questa legge di cui il religioso
è sempre l’esemplare. Allo stesso modo non c’è comunità che non attraversi la fidatezza elementare e da essa in qualche modo si protegga nell’integrità di un qualche legame. Non c’è legame che non si valorizzi nella logica
di un’indennità che si santifica e non c’è niente di tutto questo senza prove
sacrificali, tradimenti, fedeltà, quindi logiche d’immunità e poi di autoimmunità. In breve e rapidamente, la spaziatura elementare di una fidatezza
può solo garantire il disincanto di una dissociazione di ciò che si raccoglie in
una comunità ma non può accadere mai come comune. Ciò che per Nancy
già sempre accade come confidenza di uno stare insieme, per Derrida può
promettere solo la pratica di un arguto disincanto per una dissociazione che
non apre verso una comunità altra, ma si delimita, al limite, in un’etica della
vigilanza continua per sabotare tutto ciò che fatalmente si raccoglie nella
proprietà di alcuni confini. Per coloro che seguono l’intenzione di fondo di
Nancy, la comunità, come già sempre perduta di Derrida, ci lascia impotenti nell’azione stessa del pensiero. Per coloro che invece seguono la lezione
di Derrida, Nancy sarebbe costretto a nominare la spaziatura con un’ontologia alla fine ingenua e tutt’altro che estranea a una lunga tradizione.
Mentre per Nancy la comunità è già sempre accaduta, poiché l’essere già
immediatamente spartisce il suo ritiro, per Derrida, invece, la comunità è
già sempre mancata nella sua possibile impossibilità. Mentre Derrida sta
sempre sul lato di chi ha in sospetto ciò che accomuna, Nancy ritiene invece
che la comunità sia il destino stesso dell’essere, originariamente, deve però
dire, con una frequenza che lo espone all’insidia di Derrida. (...)
Ci chiederemo se l’imperativo ontologico che Nancy rilancia sovrapponendo il Dasein e l’imperativo categorico non sia più coerente con una logica di
esposizione senza veli, in particolare se essa viene interrogata a partire dalla
soglia d’esposizione in cui si decide un’opera dell’arte. Vedremo anche se,
per questa via, una certa fidatezza non debba essere sottratta, poiché si sottrae per conto proprio, senza residui da ciò che invece Derrida fa accadere
fatalmente nel deserto senza rotta della chora e cioè, una chiamata elettiva,
una preghiera, un sacrificio, ibridatura di communitas ed immunitas e poi
autoimmunitas. A quel punto seppure brevemente e di passaggio sarà quasi
necessario chiedersi se un certo dio che capitola nel pulchrum abbia qualcosa da dire su un comune di tutti e di ciascuno, se esso sia ancora il dio di
Abramo, se possa essere un dio, se Nancy nella sua decostruzione del Cristianesimo non passi troppo rapidamente su una certa teoanarchia implicata
in questa antica vicenda dell’immaginario speculativo dell’Occidente.
Se si mostrasse che l’evento dell’opera dell’arte può orientare verso il comune come il luogo di tutti e di ciascuno forse è perché la sua soglia di
esposizione non è né un volto né un semplice orizzonte (ma si trattererebbe
a questo punto di capire in che modo tutto ciò possa riguardare l’aperto
della domanda filosofica). Forse l’evento dell’opera dell’arte respinge da sé
sia il sacro che il santo, e poiché nell’uno si patisce una totalità e nell’altro
l’esclusività di un certo riguardo, l’emozione del comune, come di tutti e di
ciascuno, non si patisce e in questo senso si denuda di ogni velo.