L`ultima battaglia di re Gioacchi no Murat al Pizzo di Calabria 8

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L`ultima battaglia di re Gioacchi no Murat al Pizzo di Calabria 8
L’ultima
battaglia
di re
Gioacchi
no Murat
al Pizzo
di
Calabria
8 -13
Ottobre
1815
Associazione Culturale Gioacchino MURAT Onlus di
Pizzo
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*********
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A cura di Giuseppe Pagnotta
Presidente dell’Associazione culturale
Gioacchino MURAT ONLUS di Pizzo
Piazza Generale Malta n. 4 89812 PIZZO
Telefono 0963 532218
Email [email protected]
Sito Web: www.murat.it
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V
enivo dunque a raccogliere, se posso dirlo, ad una
ad una, le ultime ore d’una delle più crudeli agonie
di cui i fasti della storia abbiano conservato il
ricordo.
Avevo preso tutte le mie precauzioni in anticipo. A
Vulcano, come si sa, i figli del generale Nunziante
m’avevano dato una lettera di raccomandazione per il
cavaliere Alcalà. Il generale Alcalà, generale del principe
dell’Infantado, nel 1815 stava a Pizzo, dove abita ancora e
aveva reso al prigioniero tutti i servigi che aveva potuto
rendergli. Durante tutti i giorni della sua prigionia era
andato a trovarlo ed aveva preso congedo da lui, con un
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ultimo addio, qualche istante prima della morte.
Figura 1 - Pizzo Calabro ai tempi odierni
Avevo appena consegnato al signor Alcalà la lettera di
raccomandazione di cui ero latore ch’egli capì subito
l’interesse che nutrivo per i più piccoli particolari della
catastrofe di cui volevo diventare lo storico. Mise quindi
tutti i suoi ricordi a mia disposizione.
Dapprima cominciammo col visitare Pizzo.
Pizzo è una piccola città di 1500-1800 anime, costruita
sul prolungamento d’uno dei contrafforti della grande
catena di montagne che parte dagli Appennini, un po’ più
su di Potenza e giunge sino a Reggio dividendo tutta la
Calabria. Così come a Scilla, questo contrafforte si
protende nel mare con un lungo crinale di rocce sull’ultima
delle quali è costruita la cittadella.
Pizzo domina dunque la spiaggia dai due lati, da
un’altezza d’un centinaio di piedi. Alla sua destra è il golfo
di Sant’Eufemia, alla sua sinistra è la costa che si estende
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sino a capo Lambroni.
AI centro di Pizzo c’è una grande piazza pressappoco
quadrata, mal costruita, in cui sboccano tre o quattro vie
tortuose. Nella parte meridionale, questa grande piazza è
abbellita dalla statua di re Ferdinando, padre della regina
Amelia e nonno dell’attuale re di Napoli.
Per andare al mare bisogna scendere dai due lati della
piazza. Da destra si scende da un pendio dolce e sabbioso,
da sinistra da una scala ciclopica formata come quella di
Capteo da larghe lastre di granito.
Scesi da questa scala ci si ritrova su una spiaggia cosparsa
di casette all’ombra di alcuni olivi. A sessanta passi del
mare manca ogni vegetazione e non c’è altro che un lungo
manto sabbioso nel quale si sprofonda sino alle ginocchia.
Fu da questa piccola spiaggia che, l’8 ottobre 1815, tre o
quattro pescatori che avevano steso le loro reti che non pensavano di utilizzare più nella giornata, anche perché quell’8
ottobre era una domenica, scorsero una piccola flottiglia
composta di tre navi che dopo aver avuto un attimo di
indecisione sulla rotta da seguire si diressero
improvvisamente verso Pizzo. A circa cinquanta passi dalla
riva, le tre navi misero in panna ed una scialuppa fu buttata
in mare: 31 persone vi si sistemarono ed essa avanzò verso
la costa. Tre uomini stavano in piedi sulla prua: il primo
dei tre era Murat, il secondo il generale Franceschetti ed il
terzo l’aiuto di campo Campana. Le altre persone che si
trovavano nella barca erano 25 soldati e tre domestici.
Quanto alla flottiglia, in cui era il resto della truppa e il
tesoro di Murat, era rimasta sotto il comando d’un certo
Barbara, maltese di nascita, che Murat aveva colmato di
onori e che aveva nominato ammiraglio.
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Arrivando vicino alla riva il generale Franceschetti stava
per saltare a terra, ma Murat lo fermò mettendogli una
mano sulla testa e dicendogli:
— Scusate generale, tocca a me scendere per primo.
E dette queste parole si lanciò sulla spiaggia.
Figura 2 - Gioacchino Murat
Il generale Franceschetti saltò dopo Murat e Campana dopo Franceschetti. In seguito sbarcarono i soldati e poi i
domestici.
Murat indossava un abito blu, ricamato d’oro al collo, al
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petto e alle tasche; portava dei pantaloni di cachemire
bianco, stivali da cavallerizzo, una cintura e a quella
attaccate due pistole, un cappello ricamato come il vestito,
ornato di piume e il cui cordoncino era formato da
quattordici diamanti che potevano valere pressappoco mille
scudi ciascuno; inoltre sotto il suo braccio sinistro portava
arrotolata la sua antica bandiera reale, sotto la quale
pensava di radunare i suoi nuovi partigiani.
Alla vista di quella piccola truppa i pescatori s’erano
ritirati. Murat trovò dunque la spiaggia deserta. Ma non
c’era da ingannarsi: dal luogo dov’era sbarcato vedeva
perfettamente la scala gigantesca che porta alla piazza;
diede l’esempio alla sua piccola truppa mettendosi in testa e
marciando dritto verso la città.
A metà circa della scala si girò per dare uno sguardo alla
flottiglia; vide che la scialuppa si ricongiungeva alla nave;
credette che ritornasse per caricare altri soldati e continuò a
salire. Quando arrivò alla piazza suonavano le dieci. La
piazza era colma di gente: era l’ora in cui stava per
cominciare la messa.
Lo stupore fu grande quando si vide arrivare la piccola
truppa guidata da un uomo così riccamente vestito, da un
generale e da un aiuto da campo. Murat s’inoltrò verso il
centro della piazza senza che nessuno lo riconoscesse, tanto
era lontano il pensiero di rivederlo ancora. Eppure Murat
era venuto a Pizzo cinque anni prima, nell’epoca in cui era
re.
Ma se nessuno lo riconobbe fu lui a riconoscere, tra i
contadini, un ex-sergente che aveva servito nella sua
guardia a Napoli. Murat come la maggioranza dei sovrani
aveva la memoria dei nomi. Andò dritto verso l’ex9
sergente, gli mise le mani sulle spalle e gli disse: — Tu ti
chiami Tavella?
— Sì, disse quello. Che volete da me?
— Tavella, non mi riconosci? continuò Murat.
Tavella guardò Murat, ma non rispose.
— Tavella, sono Joachim Murat, disse il re. A te l’onore
di gridare per primo: viva Joachim!
La piccola truppa di Murat gridò subito: viva Joachim!
Ma il calabrese restò immobile e silenzioso e non uno dei
presenti rispose con un sol grido alle acclamazioni a cui lo
stesso ex-re aveva dato inizio. Anzi, un brusio strano
cominciò a serpeggia-re tra la folla. Murat avvertì ch’era un
brusio di tempesta e rivolgendosi di nuovo al sergente:
— Tavella, gli disse, va’ a cercarmi un cavallo e da
sergente qual eri, farò di te un capitano.
Tavella senza rispondere s’infilò in una delle vie tortuose
che sboccano nella piazza, rientrò a casa e vi si chiuse.
Durante quel tempo Murat era rimasto nella piazza dove
la folla diventava sempre più numerosa. Allora il generale
Franceschetti accortosi che nessun gesto amichevole
accoglieva il re e che, al contrario, il viso degli astanti
diventava, da un minuto all’altro, sempre più scuro, no il
pensiero di rivederlo ancora. Eppure Murat era venuto a
Pizzo cinque anni prima, nell’epoca in cui era re.
Ma se nessuno lo riconobbe fu lui a riconoscere, tra i
contadini, un ex-sergente che aveva servito nella sua
guardia a Napoli. Murat come la maggioranza dei sovrani
aveva la memoria dei nomi. Andò dritto verso l’exsergente, gli mise le mani sulle spalle e gli disse: — Tu ti
chiami Tavella?
— Sì, disse quello. Che volete da me?
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— Tavella, non mi riconosci? continuò Murat.
Tavella guardò Murat, ma non rispose.
— Tavella, sono Joachim Murat, disse il re. A te l’onore
di gridare per primo: viva Joachim!
Figura 3 - La Battaglia
La piccola truppa di Murat gridò subito: viva Joachim!
Ma il calabrese restò immobile e silenzioso e non uno dei
presenti rispose con un sol grido alle acclamazioni a cui lo
stesso ex-re aveva dato inizio. Anzi, un brusio strano
cominciò a serpeggiare tra la folla. Murat avvertì ch’era un
brusio di tempesta e rivolgendosi di nuovo al sergente:
— Tavella, gli disse, va’ a cercarmi un cavallo e da
sergente qual eri, farò di te un capitano.
Tavella senza rispondere s’infilò in una delle vie tortuose
che sboccano nella piazza, rientrò a casa e vi si chiuse.
Durante quel tempo Murat era rimasto nella piazza dove
la folla diventava sempre più numerosa. Allora il generale
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Franceschetti accortosi che nessun gesto amichevole
accoglieva il re e che, al contrario, il viso degli astanti
diventava, da un minuto all’altro, sempre più scuro,
s’avvicinò al re:
— Sire, disse, che bisogna fare?
— Pensi che quell’uomo mi porterà un cavallo?
— Non lo credo affatto, disse Franceschetti.
— Allora, andiamo a piedi a Monteleone.
— Sire, sarebbe più prudente rientrare a bordo.
— E tardi ormai. I dadi sono tratti. Che il mio destino si
compia a Monteleone. A Monteleone!
— A Monteleone! ripetè tutta la truppa e seguì il re che,
mostrandole il cammino, marciava alla sua testa.
Il re, per andare a Monteleone, prese la stessa strada che noi
avevamo fatto per venire da questa città a Pizzo, ma ormai
e in tale circostanza suprema s’era perso troppo tempo. Nel
momento stesso in cui Tavella era andato via, tre o quattro
uomini se l’erano svignata, non per chiudersi come aveva
fatto l’ex— sergente della guardia, nelle loro case, ma per
andare a prendere fucili e giberne, eterni compagni dei
calabresi. Uno di loro, chiamato Giorgio Pellegrino, dopo
essersi armato, era corso da un capitano dei gendarmi
chiamato Trenta Capelli, i cui soldati erano a Cosenza, ma
che si trovava momentaneamente presso la sua famiglia a
Pizzo. Gli raccontò ciò che era appena successo,
proponendogli & mettersi alla testa della popolazione e di.
arrestare Murat Trenta Capelli capì subito i vantaggi che
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Figura 4 - Murat tenta di recuperare la via del mare.
potevano derivargli da un simile servizio reso al governo.
Era in uniforme, pronto ad andare a messa. Uscì
velocemente da casa sua seguito da Pellegrino, si avviò
verso la piazza e propose alla popolazione già
rumoreggiante di mettersi alla caccia di Murat. Il grido alle
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Figura 5 - Lo stemma degli Aragonesi
Armi!
Risuonò subito; ognuno si precipitò nella propria casa per
uscire con un fucile e, guidata da Trenta Capelli e Giorgio
Pellegrino, tutta la folla si lanciò verso la strada di
Monteleone, tagliando a Murat e alla sua truppa la ritirata.
Murat aveva raggiunto il ponte che si trova a circa
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trecento passi prima di Pizzo quando sentì dietro di lui le
grida di tutta la muta che abbaiava sulla sua via; si girò e
poiché non sapeva scappare, aspettò.
Trentacapilli marciava in testa; quando vide Murat
fermarsi, non volle perdere l’occasione di farlo prigioniero
con le sue mani; fece un cenno alla popolazione perché
restasse ferma là dove si trovava e s’avvicinò da solo verso
Murat che a sua volta venne da solo verso di lui.
— Come vedete la ritirata vi è tagliata, gli disse. Vedete
anche che siamo trenta contro uno e pertanto non avete
possibilità di resisterci. Consegnatevi e risparmierete uno
spargimento di sangue.
— Ho qualcosa di meglio da offrire, disse a sua volta
Murat. Seguitemi; unitevi a noi con tutta la truppa e ci
saranno le spalline di generale per voi e cinquanta luigi
d’oro per ogni vostro uomo.
— Ciò che mi proponete è impossibile, disse
Trentacapilli, siamo tutti devoti a re Ferdinando per la vita e
per la morte.
Non potete metterlo in dubbio. Nessuno ha risposto al
vostro grido «Viva Joachim ! » Non è vero? Ascoltate.
E Trentacapilli alzando in aria la sua spada gridò:
— Viva Ferdinando!
— Viva Ferdinando! rispose all’unisono tutta la
popolazione alla quale cominciavano a riunirsi donne e
bambini che accorrevano e si ammucchiavano nella
retroguardia.
— Sarà dunque ciò che Dio vorrà, disse Gioacchino, ma
non mi consegnerò.
— Allora, disse Trentacapilli, il sangue ricada su coloro
che lo faranno scorrere.
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— Spostatevi capitano, disse Murat, impedite a
quest’uomo di prendere la mira. E gli mostrò col dito
Giorgio Pellegrino che mirava su di lui.
Figura 6 - Capitano Trentacapilli
Trentacapilli si gettò da un lato, il colpo partì, ma Murat
non fu colpito.
Ma allora Murat capì che se un solo colpo di fucile fosse
partito dalla loro parte ci sarebbe stata una carneficina e lui
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e i suoi uomini sarebbero stati fatti a pezzi; capì che s’era
sbagliato sullo spirito dei calabresi. Non gli restava che una
risorsa: rientrare alla flottiglia. Fece un cenno a
Franceschetti e Campana e lanciandosi dal ponte sulla
spiaggia, cioè da un’altezza di trenta-trentacinque piedi,
ricadde, senza farsi male, sulla sabbia, Campana e
Franceschetti saltarono dopo di lui e furono altrettanto
fortunati. Tutti e tre si misero poi a correre verso la riva, in
mezzo alle grida di tutta la plebaglia che, non osando
seguirlo per la stessa via, ridiscese urlando verso Pizzo per
raggiungere la larga scala di cui abbiamo parlato e che
portava alla spiaggia. Murat credette d’essere salvo perché
pensava di ritrovare la scialuppa sulla riva e la flottiglia là
dove l’aveva lasciata, ma alzando gli occhi verso il mare
s’accorse che la flottiglia lo abbandonava e riprendeva il
largo trainando la scialuppa, legata alla prua della nave
dove si trovava Barbara. Quel miserabile tradiva il suo capo
per impadronirsi dei tre milioni che, come sapeva, si
trovavano nella stanza del re.
Murat non poté credere a un tradimento simile; mise la
bandiera in punta alla sua spada e fece dei segnali, che però
restarono senza risposta. Nel frattempo le pallottole di
quelli che erano rimasti sul ponte piovevano intorno a lui,
mentre dalla parte della piazza si vedeva già venir fuori la
testa della colonna che s’era messa alla caccia dei fuggitivi;
non c’era tempo da perdere; restava una sola possibilità di
salvezza: spingere in mare una barca che si trovava a venti
passi e dirigersi forzando sui remi verso la flottiglia che
certamente sarebbe accorsa in aiuto del re. Murat e i suoi
compagni si misero quindi a spingere la barca con la forza
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della disperazione; la barca scivolò sulla sabbia e raggiunse
l’acqua. In quel momento partì una scarica e Campana
cadde morto. Trentacapilli, Pellegrino e tutto il loro seguito
erano ormai a cinquanta passi dalla barca; Franceschetti
saltò dentro e con la spinta che le diede l’allontanò di due o
tre passi dalla riva. Murat stava per saltare a sua volta, ma
per una di quelle fatalità che distruggono le grandi fortune,
gli speroni dei suoi stivali da cavallerizzo restarono
attaccati ad una rete ch’era distesa sulla spiaggia. Bloccato
nel suo slancio, Murat non riuscì a raggiungere la barca e
cadde con il viso nell’acqua. Nello stesso momento e prima
che si potesse rialzare la folla fu su di lui: in un attimo le
sue spalline furono staccate; il suo abito ridotto a brandelli
e il suo viso a sangue. Il pasto reale sarebbe stato consumato e ognuno avrebbe portato spietatamente via il suo
pezzo se Trentacapilli e Giorgio Pellegrino non fossero
intervenuti a proteggerlo con i loro corpi. Si risalì
tumultuosamente la scala che portava in città.
Passando accanto alla statua di re Ferdinando, le grida
raddoppiarono. Trentacapilli e Pellegrino capirono che
Murat sarebbe stato massacrato se non l’avessero tolto, al
più presto, dalle mani di quella plebaglia; lo portarono
verso il castello; vi entrarono con lui, si fecero aprire la
porta della prima prigione che trovarono, lo spinsero dentro
e la richiusero dietro di lui. Murat, completamente stordito,
rotolò sul pavimento; si alzò e guardò intorno a lui: si
trovava in mezzo ad una ventina di uomini, prigionieri
come lui, ma per furti ed assassini. L’ex gran duca di Berg,
l’ex re di Napoli, il cognato di Napoleone era in una cella di
condannati correzionali.
Un momento dopo il governatore del castello entrò. Si
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chiamava Mattei e siccome era in uniforme, Murat lo
riconobbe per quello che era.
— Comandante, esclamò Murat, alzandosi dal banco in
cui era seduto e andando dritto verso il governatore, dite,
dite, è questa una prigione dove mettere un re?
Figura 7- Murat durante la prigionia
A tali parole, e mentre il governatore balbettava qualche
scusa, furono i condannati che s’alzarono, a loro volta,
pieni di stupore. Avevano scambiato Murat per un
compagno di furti e brigantaggio ed ora lo riconoscevano
per il loro ex-re.
— Sire — disse Mattei, dando nel suo imbarazzo al
prigioniero il titolo che la legge proibiva di dare, sire, se
volete seguirmi vi porterò in una camera privata.
— Il re Gioacchino! Il re Gioacchino! mormorarono i
condannati.
— Sì, disse loro Murat, alzandosi in tutta la sua altezza, sì
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il re Gioacchino che, benché prigioniero e senza corona,
non uscirà di qui senza lasciare ai suoi compagni di
prigionia, chiunque essi siano, una traccia del suo
passaggio.
Ciò detto, mise la mano nel suo borsello e ne tirò fuori
una manciata d’oro che fece cadere sul pavimento; poi
senza aspettare i ringraziamenti dei miserabili di cui era
stato compagno per qualche istante, fece cenno al
comandante ch’era pronto a seguirlo.
Il comandante s’avviò per primo, gli fece attraversare un
piccolo cortile e lo condusse in una stanza le cui due
finestre s’affacciavano l’una sul mare e l’altra sulla
spiaggia dov’era stato arrestato. Appena giunto gli chiese se
desiderasse qualcosa.
— Vorrei un bagno profumato e dei sarti per rifarmi gli
abiti.
— L’uno e l’altro, generale, saranno abbastanza difficili
da ottenere, riprese Mattei dandogli questa volta il titolo
ufficiale che si era stabilito di dargli.
— E perché? chiese Murat
— Perché non so dove trovare delle essenze e perché
l’unica cosa che i sarti di Pizzo riuscirebbero a farvi è un
costume del paese.
— Comprate tutta l’acqua di Colonia che trovate e fate
venire dei sarti da Monteleone. Voglio un bagno profumato,
pagherò cinquanta ducati. Si trovi il modo di farmene fare
uno. Quanto agli abiti, fate venire i sarti e spiegherò loro
che cosa desidero.
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Figura 8 - Il Generale Vito Nunziante
Il comandante uscì dicendo che avrebbe cercato di
eseguire gli ordini appena ricevuti.
Un momento dopo dei domestici in livrea entrarono portando tende di damasco da mettere alle finestre, sedie e
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poltrone dello stesso tipo ed infine materassi, coperte e
lenzuola per il letto. La stanza in cui si trovava Murat era
quella del custode e quasi tutte queste cose vi mancavano
oppure erano in così cattivo stato che solo gente di bassa
condizione poteva servirsene. Murat chiese da parte di chi
gli veniva tale attenzione; gli risposero ch’era da parte del
cavaliere Alcalà.
Ben presto si portò a Murat il bagno che aveva chiesto.
Era ancora nella vasca quando gli annunziarono il generale
Nunziante. Si trattava di una vecchia conoscenza del
prigioniero che lo ricevette da amico, ma la posizione del
generale Nunziante era falsa e Murat s’accorse subito del
suo imbarazzo. Il generale avvertito a Tropea di ciò ch’era
successo a Pizzo, veniva per compiere il suo dovere
d’interrogare il prigioniero e, pur scusandosi col re dei
rigori che per la sua posizione era costretto ad imporgli,
cominciò un interrogatorio. Allora Murat s’accontentò di
rispondere:
— Volete sapere da dove vengo e dove vado, vero
generale? Ebbene vengo dalla Corsica e vado a Trieste. La
tempesta m’ha spinto sulle coste della Calabria. La
mancanza di viveri m’ha obbligato a venire a Pizzo. Questo
è tutto. Adesso volete rendermi un servizio? mandatemi
degli abiti per farmi uscire dal bagno.
Il generale capì che se fosse rimasto più a lungo avrebbe
corso il rischio di cedere ai convenevoli e di venir meno al
suo dovere, anche se forse un po’ rigoroso; preferì quindi
ritirarsi per attendere gli ordini da Napoli e inviò a Murat
ciò che domandava.
Era una uniforme completa da ufficiale napoletano. Murat
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la indossò, sorridendo suo malgrado nel vedersi vestito con
i colori di re Ferdinando, poi chiese una penna, inchiostro e
carta e scrisse all’ambasciata d’Inghilterra, al comandante
delle truppe austriache e alla regina, sua moglie. Aveva
appena terminato di scrivere quei dispacci che si
presentarono i sarti che aveva fatto venire da Monteleone.
Subito Murat, con la frivolezza di spirito che lo
caratterizzava, passò dai problemi di vita e di morte che
aveva appena trattato ad ordinare non due uniformi, ma due
vestiti completi:spiegò nei più piccoli dettagli il taglio che
desiderava per il vestito, il colore dei pantaloni, i ricami per
il tutto, poi, sicuro ch’essi avessero perfettamente capito le
sue istruzioni, diede loro alcuni luigi d’anticipo e li
congedò dopo essersi fatto promettere che i suoi vestiti
sarebbero stati pronti per la domenica seguente.
Usciti i sarti, Murat s’avvicinò ad una finestra: quella che
s’affacciava sulla spiaggia dov’era stato arrestato. Una folla
numerosa era riunita intorno ad un fortino che è possibile
vedere ancor oggi a fior di terra. Murat cercò vanamente di
indovinare che cosa facesse lì intorno quella folla di curiosi.
Proprio in quel momento il custode entrò per chiedere al
prigioniero se volesse cenare. Murat gli chiese la causa di
quell’assembramento.
— Oh! non è niente, rispose il custode.
— Come niente! Qualcosa faranno, continuò Murat.
— Bah! rispose il custode, guardano scavare una fossa.
Murat allora si ricordò che in mezzo ai disordini provocati
dalla sua cattura aveva visto cadere vicino a lui uno dei suoi
uomini
e
che
si
trattava
di
Campana.
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Figura 9 - Murat nella cella del Coccodrillo.
Tutto però era avvenuto in modo così rapido e imprevisto
che aveva avuto appena il tempo di notare le circostanze
più importanti che avevano preceduto e seguito
immediatamente il suo arresto. Sperava dunque ancora di
essersi sbagliato quando vide due uomini fendere il gruppo,
entrare nel fortino ed uscirne cinque minuti dopo portando
il cadavere insanguinato d’un giovane completamente privo
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di vestiti: era quello di Campana. Murat cadde su una sedia
e mise la testa tra le mani: quell’uomo di bronzo che aveva
caracollato su tanti campi di battaglia senza mai una ferita,
pur sempre in mezzo al fuoco e senza un attimo di
cedimento, si sentì distrutto alla vista improvvisa di quel
bel giovane che la famiglia gli aveva affidato, che era caduto per lui in una scaramuccia senza gloria e che uomini
indifferenti seppellivano come un cane senza neanche
chiedere il suo nome.
Dopo un quarto d’ora Murat si alzò e si avvicinò di nuovo
alla finestra. Quella volta la spiaggia, tranne alcuni curiosi
che si erano attardati, era pressappoco deserta; soltanto nel
luogo dove prima c’era stato l’assembramento che aveva
attirato l’attenzione del prigioniero, c’era una leggera
sopraelevazione che si faceva notare dal colore diverso che
aveva la terra appena rivoltata ed indicava il luogo dove era
stato seppellito Campana.
Due grosse lacrime silenziose scesero dagli occhi di Murat.
Era talmente commosso che non vide il custode che, entrato
da alcuni minuti, non osava rivolgergli la parola. Infine ad
un movimento che il buonuomo fece per farsi notare Murat
si girò.
— Eccellenza, disse, la cena è pronta.
— Bene, disse Murat muovendo la testa come per far
cadere l’ultima lacrima che tremava sulle sue palpebre;
bene! Eccomi.
— Sua Eccellenza il generale Nunziante chiede se gli è
permesso di cenare con Vostra Eccellenza.
— Certo, disse Murat. Comunicaglielo e ritorna fra
cinque minuti.
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Murat impiegò i cinque minuti per cancellare dal suo viso
ogni traccia di emozione, cosicché quando il generale
Nunziante entrò lui stesso al posto del custode, lo ricevette
con un viso così sorridente come se non fosse successo
niente di straordinario.
La cena era preparata nella stanza vicina, ma la
tranquillità di Murat era solo apparente; il suo cuore era a
pezzi e, inutilmente, cercò di prendere qualcosa. Solo il
generale Nunziante mangiò e, prevedendo che il prigioniero
potesse aver bisogno di mangiare qualcosa durante la notte,
fece portare un pollo freddo, pane e vino nella sua stanza.
Dopo essere rimasto a tavola all’incirca un quarto d’ora,
Murat, non potendo più sopportare la tensione che provava,
manifestò il desiderio di ritirarsi nella sua stanza e di
restarvi solo e tranquillo sino all’indomani. Il generale
Nunziante s’inchinò in segno di consenso e riaccompagnò il
prigioniero nella sua stanza. Sulla soglia Murat si girò e gli
diede la mano, poi rientrò e la porta si richiuse dietro di lui.
Il giorno dopo alle nove del mattino, arrivò un dispaccio
in risposta a quello che aveva comunicato il tentativo di
sbarco e l’arresto di Murat. Il dispaccio ordinava la
convocazione immediata del Consiglio di guerra. Murat
doveva essere giudicato militarmente, con tutto il rigore
della legge che aveva emanato lui stesso nel 1810 contro
qualsiasi bandito trovato nei suoi stati in possesso di armi.
Tale provvedimento però al generale Nunziante sembrava
così rigoroso che, sospettando che potesse esserci qualche
errore nell’interpretazione dei caratteri telegrafici, preferì
aspettare un altro dispaccio scritto. Così il prigioniero ebbe
un rinvio di tre giorni e ciò gli diede nuove speranze
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Figura 10 - Vista dalla cella murattiana.
sul modo in cui sarebbe stato trattato. Ma il mattino del 12
maggio il dispaccio scritto arrivò; era breve e preciso. Non
c’era possibilità di eluderlo.
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«Napoli, 9 ottobre 1815
Ferdinando per grazia di Dio etc.
Abbiamo decretato e decretiamo quanto
segue:
Art. 1: Il generale Murat sarà giudicato da
una commissione militare i cui membri
saranno nominati dal nostro ministro di
guerra.
Art. 2: Al condannato, per ricevere
l’assistenza religiosa, sarà concessa solo
mezz’ora».
Come si vede erano tanto sicuri della condanna che
avevano già stabilito il tempo che doveva intercorrere tra la
condanna e la morte.
Un secondo decreto era allegato al primo. Conteneva i
nomi dei membri scelti per la composizione del consiglio di
guerra.
Tutta la giornata passò senza che il generale Nunziante
avesse il coraggio di avvertire Murat delle notizie che aveva
ricevuto. Nella notte tra il 12 e il 13, la commissione si
riunì. Infine, poiché era necessario che Murat comparisse
davanti ai giudici, non ci fu mezzo di nascondergli più a
lungo la situazione in cui si trovava; e il 13, alle sei del
mattino, il decreto di avvio di procedimento gli fu
notificato; gli venne anche comunicata la lista dei giudici.
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Figura 11- Ricostruzione della cella di Murat
Fu il capitano Strati che gli fece la doppia comunicazione
che Murat, benché non se l’aspettasse, ricevette come se vi
fosse stato preparato e col sorriso sprezzante sulle labbra.
Ma appena la lettura fu conclusa, Murat dichiarò di non
riconoscere un tribunale composto da semplici
ufficiali; che, se lo si trattava da re, per
giudicarlo era necessario un tribunale di re; se
lo si trattava da maresciallo di Francia, la
sentenza poteva essere pronunciata solo da
una commissione di marescialli ed infine se lo
si trattava da generale, il meno che si potesse
fare per lui, era di riunire una giuria di
generali.
La missione del capitano Strati non era di rispondere alle
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richieste del prigioniero: così si limitò a rispondere che il
suo dovere era di fare ciò che aveva appena fatto e pregò il
prigioniero che meglio di tutti conosceva i rigorosi obblighi
della disciplina, di volerlo scusare.
— Bene, disse Murat, d’altronde non è su di voi che
ricade la colpa di questa odiosa decisione, ma su
Ferdinando che tratta uno dei suoi fratelli reali come un
brigante. Andate e dite alla commissione che può procedere
senza di me. Io non mi recherò al tribunale e anche se mi ci
si porta con la forza nessuna potenza terrena avrà il potere
di farmi rompere il silenzio.
Strati s’inchinò ed uscì. Murat che era ancora a letto si
alzò e si vestì velocemente. Non si illudeva sulla sua
situazione, sapeva che era stato condannato prima del
tempo e aveva visto che tra la condanna e l’esecuzione gli
era stata concessa solo mezz’ora. Passeggiava a lunghi
passi nella sua stanza quando si presentò Francesco Froya,
relatore della commissione. Veniva a pregare Murat a nome
dei suoi colleghi di presentarsi davanti al tribunale, almeno
per un istante, ma Murat rinnovò il suo rifiuto. Allora
Francesco Froya gli chiese quali erano il suo nome, la sua
età e il suo luogo di nascita.
A tale domanda Murat si girò e con una espressione di
alterigia, difficile da descrivere:
— Sono, disse, Joachim Murat re delle Due-Sicilie, nato a
La Bastide-Fortunière e la storia aggiungerà: assassinato a
Pizzo. Adesso che sapete ciò che volevate sapere vi ordino
di uscire —.
Il relatore ubbidì.
Cinque minuti dopo entrò il generale Nunziante; veniva, a
sua volta, a supplicare Murat di comparire davanti alla
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commissione, ma quello fu irremovibile. Passarono
Figura 12 - Il re Gioacchino Murat
cinque ore, durante le quali Murat restò chiuso da solo,
senza che nessuno venisse da lui, poi la porta si riaprì e il
procuratore reale La Camera entrò nella sua stanza, tenendo
in una mano la sentenza della commissione e nell’altra la
legge che lo stesso Murat aveva promulgato contro i banditi
e in virtù della quale era stato condannato. Murat era
seduto. Capì che gli venivano a comunicare la sua
condanna. Si alzò e rivolgendosi con voce sicura al
procuratore reale: leggete, signore, gli disse, vi ascolto.
Il procuratore reale lesse la sentenza: Murat era
condannato all’unanimità con un solo voto contrario.
Terminata la lettura: — Generale, gli disse il procuratore
reale, spero che morirete senza alcun sentimento di odio nei
nostri confronti. E contro voi stesso che dovete avercela per
31
Figura 13 - Copia originale della sentenza di morte
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la legge che avete fatto.
— Signore, rispose Murat, avevo fatto questa legge per i
briganti non per le teste coronate.
— La legge è uguale per tutti, rispose il procuratore
reale.
— Ciò è possibile, disse Murat, quando è utile a certa
gente, ma chiunque è stato re porta con sé una sacralità che,
prima di trattarlo come un comune mortale, sarebbe
opportuno rifletterci due volte. Io facevo l’onore a re
Ferdinando di credere che non m’avrebbe fatto fucilare
come un criminale; m’ingannavo. Tanto peggio per lui.
Non ne parliamo più. Ho partecipato a trenta battaglie; ho
visto cento volte la morte in faccia. Ci conosciamo da
troppo tempo per non avere una certa familiarità l’uno con
l’altro. Significa, signore, che quando sarete pronto, lo sarò
anch’io e non vi farò aspettare. Quanto ad avercela con voi,
non ce l’ho più che con un soldato che in una mischia,
avendo ricevuto dal suo capo l’ordine di sparare, m’avesse
tirato contro una, pallottola. Andate, signori, capite che
poiché il decreto del re non mi concede che una sola
mezz’ora, non ho tempo da perdere per dire addio a mia
moglie ed ai miei figli. Andate, signori e, sorridendo come
quando era re, aggiunse:
— Dio vi abbia nella sua santa e degna protezione.
Rimasto solo, Murat si sedette di fronte alla finestra che
s’affaccia sul mare e scrisse a sua moglie la lettera seguente
di cui posso garantire l’autenticità, avendola trascritta dalla
copia stessa dell’originale che aveva conservato il cavaliere
Alcalà.
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Figura 14 - Copia originale dell'ultima lettera di Murat alla moglie Carolina Bonaparte.
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Figura 15 - La famiglia di Re Gioacchino MURAT
35
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Figura 16 - Vista del luogo dove Murat sbarcò l'8 ottobre 1815.
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Nel momento in cui terminava la lettera, la porta s’aprì.
Murat si girò e riconobbe il generale Nunziante.
Figura 17 - Il luogo dello sbarco di Re Gioacchino MURAT
— Generale, gli disse Murat, sareste così gentile da
procurarmi un paio di forbici? Se le chiedessi io
probabilmente me le rifiuterebbero.
Il generale uscì e rientrò qualche secondo dopo con l’ogget40
to richiesto. Murat lo ringraziò con un cenno della testa, gli
prese le forbici dalle mani, tagliò una ciocca dei suoi capelli
e la mise nella lettera; poi presentandola al generale:
— Generale, gli disse, mi date la vostra parola che questa
lettera sarà consegnata alla mia Carolina?
— Ve lo giuro sulle mie spalline, rispose il generale.
E si girò per nascondere la sua emozione.
— Su, dunque! generale, disse Murat, battendogli sulla
spalla, che cosa significa ciò? Diavolo! siamo tutti e due
soldati: abbiamo visto la morte in faccia. Ebbene, vuol dire
che la rivedrò e sarò io questa volta a farla venire ad un mio
ordine, ciò che abitualmente non fa, perché spero che mi
lascerete ordinare il fuoco, è vero?
<< Il generale annuì con la testa.
Adesso generale, ditemi, qual è l’ora fissata per la mia
esecuzione?
— Stabilitelo voi stesso, rispose il generale.
— Vuoi dire che volete ch’io non vi faccia attendere?
— Spero che non crediate che sia questo il motivo!
— Andiamo, generale. Sto solo scherzando. Ecco
tutto.
Murat prese l’orologio dal taschino. Era un orologio
ricco di diamanti nel quale c’era il ritratto della regina.
Il caso volle che gli si presentasse davanti.
Murat lo guardò per un momento con un’espressione di
dolore indefinibile, poi con un sospiro:
— Guardate — disse, come la regina è rassomigliante.
Poi stava per rimettere l’orologio nella tasca quando
d’un tratto si ricordò il motivo per cui l’aveva preso.
— Oh, scusate generale, disse, dimenticavo la cosa
principale. Vediamo, sono le tre passate, sarà per le
—
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quattro, se volete. Cinquantacinque minuti, è troppo?
— Va bene generale, disse Nunziante e fece un
movimento per uscire, accorgendosi che stava per
soffocare.
— Non vi rivedrò più? disse Murat fermandolo.
— Le mie istruzioni dicono che assisterò alla vostra
esecuzione, ma voi me ne dispenserete. Non è vero,
generale? non ne avrò la forza!
— Bene! Bene! Che bambino siete! mi darete la mano
passando e sarà tutto.
Il generale Nunziante si precipitò verso la porta. Sentiva
che stava per scoppiare in singhiozzi. Dall’altra parte
della soglia c’erano due preti.
— Che cosa vogliono quest’uomini, domandò Murat;
pensano forse ch’io abbia bisogno delle loro esortazioni
e che non sappia morire?
— Chiedono di entrare, sire, disse il generale dando per la
prima volta, nel suo turbamento, al prigioniero il titolo
riservato ai reali.
— Entrino, entrino, disse Murat.
I due preti entrarono. Uno di loro si chiamava Francesco
Pellegrino ed era lo zio di quel Giorgio Pellegrino che era
causa della morte di Murat; l’altro si chiamava Antonio
Masdea. — Adesso, signori, disse Murat facendo un passo
verso di loro, che volete? ditelo presto, mi fucileranno tra
tre quarti d’ora e non ho tempo da perdere.
— Generale, disse Pellegrino, veniamo a chiedervi se
volete morire da cristiano.
— Morirò da soldato, disse Murat. Andate.
A questa prima sgarberia Pellegrino si ritirò, ma invece
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Antonio Masdea restò. Era un bel vecchio, dalla figura
imponente, dal procedere grave e dalle maniere semplici.
Figura 18 - L'ingresso del Castello di Pizzo.
Murat vedendo che non seguiva il suo compagno ebbe
dapprima un momento d’impazienza, ma notando l’aria di
profondo dolore che traspariva dai suo viso, si trattenne.
— Ebbene, reverendo, non m’avete sentito?
— Non è così che m’avete ricevuto la prima volta che vi
ho visto, sire! E vero che allora eravate re ed io venivo a
chiedervi una grazia.
— Infatti, disse Murat, il vostro viso non mi è nuovo:
dove vi ho visto? Aiutatemi a ricordare.
— Proprio qui, sire: quando passaste da Pizzo nei 1810,
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venni per chiedervi un aiuto per terminare la nostra chiesa:
sollecitavo 25.000 franchi e me ne deste 40.000.
— Perché prevedevo che vi sarei stato seppellito, rispose
sorridendo Murat.
— Ebbene! Sire, rifiutereste ad un vecchio l’ultima grazia
che vi chiede?
— Quale?
— Quella di morire da cristiano.
— Volete che mi confessi? Ebbene ascoltate: quand’ero
ragazzo ho disubbidito ai miei genitori che non volevano
ch’io diventassi soldato: questa è l’unica cosa di cui debbo
pentirmi.
— Sire, volete darmi un attestato che monte da cattolico?
— Oh, senza difficoltà, disse Murat e andando a sedersi al
tavolo dove aveva già scritto, redasse il seguente biglietto:
«Io, Joachim Murat, muoio da cristiano, credendo
nella santa chiesa cattolica, apostolica e romana.
Joachim Murat»
E consegnò il biglietto al prete. Il prete s’allontanò.
— Reverendo, disse Murat, la vostra benedizione.
— Non osavo offrirveia apertamente, ma ve la davo col
cuore, rispose il prete.
E pose le mani su quella testa che aveva portato il
diadema. Murat s’inchinò e disse a bassa voce alcune
parole che sembravano una preghiera, poi fece cenno a don
Masdeo di lasciarlo solo. Questa volta il prete obbedì.
Il tempo fissato tra la partenza del prete e l’ora dell’esecuzione passò senza che si potesse dire ciò che fece Murat
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durante quella mezz’ora. Probabilmente rivide tutta la sua
Figura 19 - Canonico MASDEA
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Figura 20 - Le grate della cella del Coccodrillo.
vita che dall’oscuro paese natio, dopo aver brillato come
una meteora reale, ritornava a spegnersi in un paese
sconosciuto. Tutto ciò che si può dire è che una parte dei
suo tempo lo impiegò a fare toilette, perché quando ritornò
il generale Nunziante lo trovò pronto come se dovesse
partire per una parata: i suoi capelli erano regolarmente
separati sulla fronte ed inquadravano il suo viso maschio e
tranquillo; teneva una mano sullo schienale d’una sedia e
stava in posizione d’attesa.
- Siete cinque minuti in ritardo, disse, tutto è pronto?
Il generale Nunziante era tanto commosso che non poté rispondergli. Murat s’accorse però chiaramente ch’era atteso
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nel cortile. D’altronde proprio in quel momento il rumore
dei calci di parecchi fucili risuonò sul pavimento.
— Addio, generale, addio, disse Murat vi raccomando la
mia lettera alla mia cara Carolina.
Poi, vedendo che il generale nascondeva la testa tra le
mani, uscì dalla stanza ed entrò nel cortile.
— Amici, disse ai soldati che l’aspettavano, voi sapete
che sarò io ad ordinare il fuoco; il cortile è troppo stretto
perché possiate mirare giusto: mirate al cuore, salvate i
viso.
E andò a mettersi a sei passi dai soldati, quasi addossato a
un muro e salì un po’ più in alto su uno scalino.
Ci fu un attimo di tumulto nel momento in cui stava per
ordinare il fuoco: erano i prigionieri correzionali che,
avendo una sola finestra con la grata che s’affacciava sul
cortile, si ammassavano per poter guardare.
L’ufficiale che comandava il picchetto impose loro il
silenzio ed essi tacquero. Allora Murat comandò la carica,
freddamente, tranquillamente; senza fretta, senza ritardi,
come se fosse stato un semplice esercizio. Alla parola
Fuoco, solo tre colpi partirono, Murat restò in piedi. Tra i
soldati intimoriti, sei non avevano sparato, tre avevano
sparato sopra la sua testa.
Fu allora che quel cuore di leone che faceva di Murat un
semidio nelle battaglie, si mostrò in tutta la sua terribile
energia. Non un muscolo del suo viso si mosse. Non un
solo movimento indicò il timore. Ogni uomo può avere il
coraggio per morire una sola volta; lui, Murat ne aveva per
morire due volte.
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Figura 21 - Il luogo della fucilazione
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— Grazie, amici miei, disse, grazie per il sentimento per
cui m’avete risparmiato. Ma poiché bisognerà sempre finire
là dove avete cominciato, ricominciamo e questa volta
nessuna grazia, vi prego.
E ricominciò ad ordinare la carica con la stessa voce
calma e sonora, guardando ad ogni ordine il ritratto della
regina; infine la parola fuoco si fece sentire seguita da una
detonazione e Murat cadde colpito da tre pallottole.
Fu ucciso sul colpo. Una pallottola aveva trafitto il cuore.
Lo sollevarono e trovarono nella sua mano l’orologio che
non aveva abbandonato e nel quale c’era il ritratto. Ho visto
quell’orologio a Firenze nelle mani di madame Murat che
l’aveva riscattato per 2400 franchi.
Si portò il corpo sul letto e dopo aver redatto il verbale
dell’esecuzione si richiuse la porta.
Durante la notte il cadavere fu portato in chiesa da quattro
soldati; fu buttato nella fossa comune e poi su di lui
gettarono dei sacchi di calce. Infine si richiuse la fossa e si
sigillò la pietra che d’allora non è stata più riaperta.
Una strana voce si sparse. Si disse che il cadavere era
stato portato in chiesa decapitato; se bisogna credere a certe
leggende orali la testa fu portata a Napoli e consegnata a
Ferdinando. Fu poi conservata in un boccale d’acquavite
perché se qualche avventuriero avesse voluto approfittare
della sua fine isolata e oscura per tentare di prendere il
nome di Gioacchino gli si potesse rispondere subito
mostrandogli la testa di Murat.
La testa era custodita in un armadio posto alla testata del
letto di Ferdinando e di cui solo lui teneva le chiavi,
cosicché fu soltanto dopo la morte del vecchio re che suo
figlio Francesco, spinto dalla curiosità, apri l’armadio e
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scoprì il segreto paterno.
Figura 22 - Stampa dell'epoca che ricorda la fucilazione del Re.
Così morì Murat all’età di quarantasette anni, perso
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dall’esempio che gli aveva dato sei mesi prima Napoleone
rientrando dall’Isola d’Elba.
Quanto a Barbarà che aveva tradito il suo re e che s’era
pagato da solo il tradimento impadronendosi dei tre milioni
depositati nella sua nave, attualmente vive chiedendo
l’elemosina nei caffè di Malta.
Dopo aver ricevuto dalla stessa bocca di testimoni oculari
tutti i particolari relativi a questo triste argomento
cominciammo la visita delle località che vi sono segnalate.
La nostra prima visita fu per la spiaggia dove ebbe luogo lo
sbarco. Ci mostrarono in riva al mare, là dove la
custodiscono come oggetto di curiosità, la vecchia
scialuppa che Murat cercava di spingere verso il mare quando fu preso e la cui carcassa è ancora forata da due
pallottole.
Davanti al fortino ci facemmo mostrare il luogo dove è seppellito Campana: non c’è nulla che lo indichi alla curiosità
dei viaggiatori ed è coperto di sabbia come tutta la spiaggia.
Dalla tomba di Campana ci avviammo a misurare la roccia
dalla cui cima il re ed i suoi due compagni erano saltati. E
alta all’incirca 35 piedi.
Di là ritornammo al castello: è una piccola fortezza senza
grande importanza militare dove si arriva da una scala
stretta tra due muri; due porte la chiudono durante la salita.
Arrivati all’ultimo gradino, alla destra c’è la prigione dei
condannati correzionali, alla sinistra l’entrata della stanza
che occupò Murat e dietro, in una rientranza della scala, il
luogo dove fu fucilato. Il muro che si eleva dietro lo scalino
sul quale Murat era salito porta ancora le tracce di sei
pallottole: tre di esse hanno attraversato il corpo del
condannato.
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Entrammo nella stanza. Come tutte le stanze dei poveri in
Italia è composta di quattro pareti nude, imbiancate con
calce e coperte d’una moltitudine d’immagini di madonne e
santi; di fronte alla porta era il letto dove il re sudò la sua
agonia di soldato. Vedemmo due o tre bambini coricati
disordinatamente su quel letto. Una vecchia donna
accovacciata e che aveva paura del colera recitava i rosario
in un angolo; nella stanza vicina dei soldati cantavano a
squarciagola.
L’uomo che ci fece l’onore di farci visitare la triste
abitazione era i figlio del vecchio custode: era un uomo di
trenta-trentasei anni. Aveva visto Murat durante i cinque
giorni della sua detenzione e si ricordava a meraviglia
perché a quell’epoca poteva avere quindici-sedici anni.
D’altronde nessun ricordo materiale era rimasto di questa
grande catastrofe ad eccezione delle pallottole penetrate nel
muro.
Feci un disegno molto preciso della stanza e del cortile. E
difficile vedere qualcosa d’aspetto più triste di questi muri
bianchi che si stagliano con dei contorni precisi su un cielo
d’un blu indaco.
Dal castello rientrammo in chiesa; la pietra sigillata sul
cadavere di Murat non è stata mai riaperta; dalla volta
pende, come un trofeo di vittoria, la bandiera che aveva con
lui e che gli avevano portato via.
Al mio ritorno a Firenze, verso i mese di dicembre dello
stesso anno, Madame Murat che dimorava in questa città
col nome di contessa di Lipari, sapendo che rientravo da
Pizzo mi fece pregare di passare da lei. Mi affrettai ad
accettare il suo invito. Non aveva mai avuto notizie precise
sulla morte di suo marito e mi pregò di non nasconderle
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nulla. Le raccontai tutto ciò che avevo saputo a Pizzo.
Fu allora che mi fece vedere l’orologio che aveva
riscattato e che Murat teneva in mano quando cadde...
Quanto alla lettera che aveva scritto pochi momenti prima
di morire, non l’aveva mai ricevuta e fui io a darle la prima
copia.
Dimenticavo di dire che in ricordo e in ricompensa del
servizio reso al governo napoletano la città di Pizzo è
esentata per sempre da ogni diritto e imposta.
Figura 23 - La fossa comune dove è sepolto Re Gioacchino
********
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L’ATTO DI MORTE DEL COMUNE
L’atto di morte originale dice testualmente:
«Numero d’ordine 80
L’anno 1815 a dii dodici (leggi tredici poiché il giorno è
errato) del mese di ottobre-Avanti a noi Gerolamo
Tranquillo, Sindaco ed Uffiziale dello stato civile del
comune di Pizzo, Provincia di C. U. Il (leggi Calabria
Ulteriore 2a), sono comparsi: Nicola Moschella di anni 45,
domiciliato entro la città, di professione bastaso e Diego
Galeano di professione Bastaso, di anni 43, domiciliato
dietro San Giovanni, i quali hanno dichiarato che alle ore
21 di questa giornata del mese di ottobre 1815 è stato
fucilato in questo castello Gioacchino Muratte Napolione
ove era detenuto e si fece la commissione, di anni 45(?) di
professione generale francese, domiciliato in questo
castello, è morto nel suddetto domicilio. Per esecuzione
della legge ci siamo trasferiti presso il defunto, ed avendo
conosciuta, insieme coi dichiaranti, la sua effettiva morte,
ne abbiamo formato il presente atto, di cui s’è fatto lettura
ai dichiaranti dichiaranti, ed indi si è segnato da noi.
Essi dichiaranti non sanno firmare».
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Figura 24 - L'atto di morte della Chiesa
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La terza fossa comune della Chiesa di San Giorgio in
Pizzo che accoglie i resti mortali di Gioacchino Murat
Re di Napoli.
Figura 25 - DUOMO DI SAN GIORGIO
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Ultimo Proclama di Gioacchino al popolo meridionale
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58
59
L’ultima
battaglia
di re
Gioacchi
no Murat
al Pizzo
di
Calabria
8 -13
Ottobre
1815
Associazione Culturale Gioacchino MURAT Onlus di
Pizzo
Prezzo al pubblico 5,00
60