L`ultima battaglia di re Gioacchi no Murat al Pizzo di Calabria 8
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L`ultima battaglia di re Gioacchi no Murat al Pizzo di Calabria 8
L’ultima battaglia di re Gioacchi no Murat al Pizzo di Calabria 8 -13 Ottobre 1815 Associazione Culturale Gioacchino MURAT Onlus di Pizzo 1 ********* 2 3 A cura di Giuseppe Pagnotta Presidente dell’Associazione culturale Gioacchino MURAT ONLUS di Pizzo Piazza Generale Malta n. 4 89812 PIZZO Telefono 0963 532218 Email [email protected] Sito Web: www.murat.it 4 V enivo dunque a raccogliere, se posso dirlo, ad una ad una, le ultime ore d’una delle più crudeli agonie di cui i fasti della storia abbiano conservato il ricordo. Avevo preso tutte le mie precauzioni in anticipo. A Vulcano, come si sa, i figli del generale Nunziante m’avevano dato una lettera di raccomandazione per il cavaliere Alcalà. Il generale Alcalà, generale del principe dell’Infantado, nel 1815 stava a Pizzo, dove abita ancora e aveva reso al prigioniero tutti i servigi che aveva potuto rendergli. Durante tutti i giorni della sua prigionia era andato a trovarlo ed aveva preso congedo da lui, con un 5 ultimo addio, qualche istante prima della morte. Figura 1 - Pizzo Calabro ai tempi odierni Avevo appena consegnato al signor Alcalà la lettera di raccomandazione di cui ero latore ch’egli capì subito l’interesse che nutrivo per i più piccoli particolari della catastrofe di cui volevo diventare lo storico. Mise quindi tutti i suoi ricordi a mia disposizione. Dapprima cominciammo col visitare Pizzo. Pizzo è una piccola città di 1500-1800 anime, costruita sul prolungamento d’uno dei contrafforti della grande catena di montagne che parte dagli Appennini, un po’ più su di Potenza e giunge sino a Reggio dividendo tutta la Calabria. Così come a Scilla, questo contrafforte si protende nel mare con un lungo crinale di rocce sull’ultima delle quali è costruita la cittadella. Pizzo domina dunque la spiaggia dai due lati, da un’altezza d’un centinaio di piedi. Alla sua destra è il golfo di Sant’Eufemia, alla sua sinistra è la costa che si estende 6 sino a capo Lambroni. AI centro di Pizzo c’è una grande piazza pressappoco quadrata, mal costruita, in cui sboccano tre o quattro vie tortuose. Nella parte meridionale, questa grande piazza è abbellita dalla statua di re Ferdinando, padre della regina Amelia e nonno dell’attuale re di Napoli. Per andare al mare bisogna scendere dai due lati della piazza. Da destra si scende da un pendio dolce e sabbioso, da sinistra da una scala ciclopica formata come quella di Capteo da larghe lastre di granito. Scesi da questa scala ci si ritrova su una spiaggia cosparsa di casette all’ombra di alcuni olivi. A sessanta passi del mare manca ogni vegetazione e non c’è altro che un lungo manto sabbioso nel quale si sprofonda sino alle ginocchia. Fu da questa piccola spiaggia che, l’8 ottobre 1815, tre o quattro pescatori che avevano steso le loro reti che non pensavano di utilizzare più nella giornata, anche perché quell’8 ottobre era una domenica, scorsero una piccola flottiglia composta di tre navi che dopo aver avuto un attimo di indecisione sulla rotta da seguire si diressero improvvisamente verso Pizzo. A circa cinquanta passi dalla riva, le tre navi misero in panna ed una scialuppa fu buttata in mare: 31 persone vi si sistemarono ed essa avanzò verso la costa. Tre uomini stavano in piedi sulla prua: il primo dei tre era Murat, il secondo il generale Franceschetti ed il terzo l’aiuto di campo Campana. Le altre persone che si trovavano nella barca erano 25 soldati e tre domestici. Quanto alla flottiglia, in cui era il resto della truppa e il tesoro di Murat, era rimasta sotto il comando d’un certo Barbara, maltese di nascita, che Murat aveva colmato di onori e che aveva nominato ammiraglio. 7 Arrivando vicino alla riva il generale Franceschetti stava per saltare a terra, ma Murat lo fermò mettendogli una mano sulla testa e dicendogli: — Scusate generale, tocca a me scendere per primo. E dette queste parole si lanciò sulla spiaggia. Figura 2 - Gioacchino Murat Il generale Franceschetti saltò dopo Murat e Campana dopo Franceschetti. In seguito sbarcarono i soldati e poi i domestici. Murat indossava un abito blu, ricamato d’oro al collo, al 8 petto e alle tasche; portava dei pantaloni di cachemire bianco, stivali da cavallerizzo, una cintura e a quella attaccate due pistole, un cappello ricamato come il vestito, ornato di piume e il cui cordoncino era formato da quattordici diamanti che potevano valere pressappoco mille scudi ciascuno; inoltre sotto il suo braccio sinistro portava arrotolata la sua antica bandiera reale, sotto la quale pensava di radunare i suoi nuovi partigiani. Alla vista di quella piccola truppa i pescatori s’erano ritirati. Murat trovò dunque la spiaggia deserta. Ma non c’era da ingannarsi: dal luogo dov’era sbarcato vedeva perfettamente la scala gigantesca che porta alla piazza; diede l’esempio alla sua piccola truppa mettendosi in testa e marciando dritto verso la città. A metà circa della scala si girò per dare uno sguardo alla flottiglia; vide che la scialuppa si ricongiungeva alla nave; credette che ritornasse per caricare altri soldati e continuò a salire. Quando arrivò alla piazza suonavano le dieci. La piazza era colma di gente: era l’ora in cui stava per cominciare la messa. Lo stupore fu grande quando si vide arrivare la piccola truppa guidata da un uomo così riccamente vestito, da un generale e da un aiuto da campo. Murat s’inoltrò verso il centro della piazza senza che nessuno lo riconoscesse, tanto era lontano il pensiero di rivederlo ancora. Eppure Murat era venuto a Pizzo cinque anni prima, nell’epoca in cui era re. Ma se nessuno lo riconobbe fu lui a riconoscere, tra i contadini, un ex-sergente che aveva servito nella sua guardia a Napoli. Murat come la maggioranza dei sovrani aveva la memoria dei nomi. Andò dritto verso l’ex9 sergente, gli mise le mani sulle spalle e gli disse: — Tu ti chiami Tavella? — Sì, disse quello. Che volete da me? — Tavella, non mi riconosci? continuò Murat. Tavella guardò Murat, ma non rispose. — Tavella, sono Joachim Murat, disse il re. A te l’onore di gridare per primo: viva Joachim! La piccola truppa di Murat gridò subito: viva Joachim! Ma il calabrese restò immobile e silenzioso e non uno dei presenti rispose con un sol grido alle acclamazioni a cui lo stesso ex-re aveva dato inizio. Anzi, un brusio strano cominciò a serpeggia-re tra la folla. Murat avvertì ch’era un brusio di tempesta e rivolgendosi di nuovo al sergente: — Tavella, gli disse, va’ a cercarmi un cavallo e da sergente qual eri, farò di te un capitano. Tavella senza rispondere s’infilò in una delle vie tortuose che sboccano nella piazza, rientrò a casa e vi si chiuse. Durante quel tempo Murat era rimasto nella piazza dove la folla diventava sempre più numerosa. Allora il generale Franceschetti accortosi che nessun gesto amichevole accoglieva il re e che, al contrario, il viso degli astanti diventava, da un minuto all’altro, sempre più scuro, no il pensiero di rivederlo ancora. Eppure Murat era venuto a Pizzo cinque anni prima, nell’epoca in cui era re. Ma se nessuno lo riconobbe fu lui a riconoscere, tra i contadini, un ex-sergente che aveva servito nella sua guardia a Napoli. Murat come la maggioranza dei sovrani aveva la memoria dei nomi. Andò dritto verso l’exsergente, gli mise le mani sulle spalle e gli disse: — Tu ti chiami Tavella? — Sì, disse quello. Che volete da me? 10 — Tavella, non mi riconosci? continuò Murat. Tavella guardò Murat, ma non rispose. — Tavella, sono Joachim Murat, disse il re. A te l’onore di gridare per primo: viva Joachim! Figura 3 - La Battaglia La piccola truppa di Murat gridò subito: viva Joachim! Ma il calabrese restò immobile e silenzioso e non uno dei presenti rispose con un sol grido alle acclamazioni a cui lo stesso ex-re aveva dato inizio. Anzi, un brusio strano cominciò a serpeggiare tra la folla. Murat avvertì ch’era un brusio di tempesta e rivolgendosi di nuovo al sergente: — Tavella, gli disse, va’ a cercarmi un cavallo e da sergente qual eri, farò di te un capitano. Tavella senza rispondere s’infilò in una delle vie tortuose che sboccano nella piazza, rientrò a casa e vi si chiuse. Durante quel tempo Murat era rimasto nella piazza dove la folla diventava sempre più numerosa. Allora il generale 11 Franceschetti accortosi che nessun gesto amichevole accoglieva il re e che, al contrario, il viso degli astanti diventava, da un minuto all’altro, sempre più scuro, s’avvicinò al re: — Sire, disse, che bisogna fare? — Pensi che quell’uomo mi porterà un cavallo? — Non lo credo affatto, disse Franceschetti. — Allora, andiamo a piedi a Monteleone. — Sire, sarebbe più prudente rientrare a bordo. — E tardi ormai. I dadi sono tratti. Che il mio destino si compia a Monteleone. A Monteleone! — A Monteleone! ripetè tutta la truppa e seguì il re che, mostrandole il cammino, marciava alla sua testa. Il re, per andare a Monteleone, prese la stessa strada che noi avevamo fatto per venire da questa città a Pizzo, ma ormai e in tale circostanza suprema s’era perso troppo tempo. Nel momento stesso in cui Tavella era andato via, tre o quattro uomini se l’erano svignata, non per chiudersi come aveva fatto l’ex— sergente della guardia, nelle loro case, ma per andare a prendere fucili e giberne, eterni compagni dei calabresi. Uno di loro, chiamato Giorgio Pellegrino, dopo essersi armato, era corso da un capitano dei gendarmi chiamato Trenta Capelli, i cui soldati erano a Cosenza, ma che si trovava momentaneamente presso la sua famiglia a Pizzo. Gli raccontò ciò che era appena successo, proponendogli & mettersi alla testa della popolazione e di. arrestare Murat Trenta Capelli capì subito i vantaggi che 12 Figura 4 - Murat tenta di recuperare la via del mare. potevano derivargli da un simile servizio reso al governo. Era in uniforme, pronto ad andare a messa. Uscì velocemente da casa sua seguito da Pellegrino, si avviò verso la piazza e propose alla popolazione già rumoreggiante di mettersi alla caccia di Murat. Il grido alle 13 Figura 5 - Lo stemma degli Aragonesi Armi! Risuonò subito; ognuno si precipitò nella propria casa per uscire con un fucile e, guidata da Trenta Capelli e Giorgio Pellegrino, tutta la folla si lanciò verso la strada di Monteleone, tagliando a Murat e alla sua truppa la ritirata. Murat aveva raggiunto il ponte che si trova a circa 14 trecento passi prima di Pizzo quando sentì dietro di lui le grida di tutta la muta che abbaiava sulla sua via; si girò e poiché non sapeva scappare, aspettò. Trentacapilli marciava in testa; quando vide Murat fermarsi, non volle perdere l’occasione di farlo prigioniero con le sue mani; fece un cenno alla popolazione perché restasse ferma là dove si trovava e s’avvicinò da solo verso Murat che a sua volta venne da solo verso di lui. — Come vedete la ritirata vi è tagliata, gli disse. Vedete anche che siamo trenta contro uno e pertanto non avete possibilità di resisterci. Consegnatevi e risparmierete uno spargimento di sangue. — Ho qualcosa di meglio da offrire, disse a sua volta Murat. Seguitemi; unitevi a noi con tutta la truppa e ci saranno le spalline di generale per voi e cinquanta luigi d’oro per ogni vostro uomo. — Ciò che mi proponete è impossibile, disse Trentacapilli, siamo tutti devoti a re Ferdinando per la vita e per la morte. Non potete metterlo in dubbio. Nessuno ha risposto al vostro grido «Viva Joachim ! » Non è vero? Ascoltate. E Trentacapilli alzando in aria la sua spada gridò: — Viva Ferdinando! — Viva Ferdinando! rispose all’unisono tutta la popolazione alla quale cominciavano a riunirsi donne e bambini che accorrevano e si ammucchiavano nella retroguardia. — Sarà dunque ciò che Dio vorrà, disse Gioacchino, ma non mi consegnerò. — Allora, disse Trentacapilli, il sangue ricada su coloro che lo faranno scorrere. 15 — Spostatevi capitano, disse Murat, impedite a quest’uomo di prendere la mira. E gli mostrò col dito Giorgio Pellegrino che mirava su di lui. Figura 6 - Capitano Trentacapilli Trentacapilli si gettò da un lato, il colpo partì, ma Murat non fu colpito. Ma allora Murat capì che se un solo colpo di fucile fosse partito dalla loro parte ci sarebbe stata una carneficina e lui 16 e i suoi uomini sarebbero stati fatti a pezzi; capì che s’era sbagliato sullo spirito dei calabresi. Non gli restava che una risorsa: rientrare alla flottiglia. Fece un cenno a Franceschetti e Campana e lanciandosi dal ponte sulla spiaggia, cioè da un’altezza di trenta-trentacinque piedi, ricadde, senza farsi male, sulla sabbia, Campana e Franceschetti saltarono dopo di lui e furono altrettanto fortunati. Tutti e tre si misero poi a correre verso la riva, in mezzo alle grida di tutta la plebaglia che, non osando seguirlo per la stessa via, ridiscese urlando verso Pizzo per raggiungere la larga scala di cui abbiamo parlato e che portava alla spiaggia. Murat credette d’essere salvo perché pensava di ritrovare la scialuppa sulla riva e la flottiglia là dove l’aveva lasciata, ma alzando gli occhi verso il mare s’accorse che la flottiglia lo abbandonava e riprendeva il largo trainando la scialuppa, legata alla prua della nave dove si trovava Barbara. Quel miserabile tradiva il suo capo per impadronirsi dei tre milioni che, come sapeva, si trovavano nella stanza del re. Murat non poté credere a un tradimento simile; mise la bandiera in punta alla sua spada e fece dei segnali, che però restarono senza risposta. Nel frattempo le pallottole di quelli che erano rimasti sul ponte piovevano intorno a lui, mentre dalla parte della piazza si vedeva già venir fuori la testa della colonna che s’era messa alla caccia dei fuggitivi; non c’era tempo da perdere; restava una sola possibilità di salvezza: spingere in mare una barca che si trovava a venti passi e dirigersi forzando sui remi verso la flottiglia che certamente sarebbe accorsa in aiuto del re. Murat e i suoi compagni si misero quindi a spingere la barca con la forza 17 della disperazione; la barca scivolò sulla sabbia e raggiunse l’acqua. In quel momento partì una scarica e Campana cadde morto. Trentacapilli, Pellegrino e tutto il loro seguito erano ormai a cinquanta passi dalla barca; Franceschetti saltò dentro e con la spinta che le diede l’allontanò di due o tre passi dalla riva. Murat stava per saltare a sua volta, ma per una di quelle fatalità che distruggono le grandi fortune, gli speroni dei suoi stivali da cavallerizzo restarono attaccati ad una rete ch’era distesa sulla spiaggia. Bloccato nel suo slancio, Murat non riuscì a raggiungere la barca e cadde con il viso nell’acqua. Nello stesso momento e prima che si potesse rialzare la folla fu su di lui: in un attimo le sue spalline furono staccate; il suo abito ridotto a brandelli e il suo viso a sangue. Il pasto reale sarebbe stato consumato e ognuno avrebbe portato spietatamente via il suo pezzo se Trentacapilli e Giorgio Pellegrino non fossero intervenuti a proteggerlo con i loro corpi. Si risalì tumultuosamente la scala che portava in città. Passando accanto alla statua di re Ferdinando, le grida raddoppiarono. Trentacapilli e Pellegrino capirono che Murat sarebbe stato massacrato se non l’avessero tolto, al più presto, dalle mani di quella plebaglia; lo portarono verso il castello; vi entrarono con lui, si fecero aprire la porta della prima prigione che trovarono, lo spinsero dentro e la richiusero dietro di lui. Murat, completamente stordito, rotolò sul pavimento; si alzò e guardò intorno a lui: si trovava in mezzo ad una ventina di uomini, prigionieri come lui, ma per furti ed assassini. L’ex gran duca di Berg, l’ex re di Napoli, il cognato di Napoleone era in una cella di condannati correzionali. Un momento dopo il governatore del castello entrò. Si 18 chiamava Mattei e siccome era in uniforme, Murat lo riconobbe per quello che era. — Comandante, esclamò Murat, alzandosi dal banco in cui era seduto e andando dritto verso il governatore, dite, dite, è questa una prigione dove mettere un re? Figura 7- Murat durante la prigionia A tali parole, e mentre il governatore balbettava qualche scusa, furono i condannati che s’alzarono, a loro volta, pieni di stupore. Avevano scambiato Murat per un compagno di furti e brigantaggio ed ora lo riconoscevano per il loro ex-re. — Sire — disse Mattei, dando nel suo imbarazzo al prigioniero il titolo che la legge proibiva di dare, sire, se volete seguirmi vi porterò in una camera privata. — Il re Gioacchino! Il re Gioacchino! mormorarono i condannati. — Sì, disse loro Murat, alzandosi in tutta la sua altezza, sì 19 il re Gioacchino che, benché prigioniero e senza corona, non uscirà di qui senza lasciare ai suoi compagni di prigionia, chiunque essi siano, una traccia del suo passaggio. Ciò detto, mise la mano nel suo borsello e ne tirò fuori una manciata d’oro che fece cadere sul pavimento; poi senza aspettare i ringraziamenti dei miserabili di cui era stato compagno per qualche istante, fece cenno al comandante ch’era pronto a seguirlo. Il comandante s’avviò per primo, gli fece attraversare un piccolo cortile e lo condusse in una stanza le cui due finestre s’affacciavano l’una sul mare e l’altra sulla spiaggia dov’era stato arrestato. Appena giunto gli chiese se desiderasse qualcosa. — Vorrei un bagno profumato e dei sarti per rifarmi gli abiti. — L’uno e l’altro, generale, saranno abbastanza difficili da ottenere, riprese Mattei dandogli questa volta il titolo ufficiale che si era stabilito di dargli. — E perché? chiese Murat — Perché non so dove trovare delle essenze e perché l’unica cosa che i sarti di Pizzo riuscirebbero a farvi è un costume del paese. — Comprate tutta l’acqua di Colonia che trovate e fate venire dei sarti da Monteleone. Voglio un bagno profumato, pagherò cinquanta ducati. Si trovi il modo di farmene fare uno. Quanto agli abiti, fate venire i sarti e spiegherò loro che cosa desidero. 20 Figura 8 - Il Generale Vito Nunziante Il comandante uscì dicendo che avrebbe cercato di eseguire gli ordini appena ricevuti. Un momento dopo dei domestici in livrea entrarono portando tende di damasco da mettere alle finestre, sedie e 21 poltrone dello stesso tipo ed infine materassi, coperte e lenzuola per il letto. La stanza in cui si trovava Murat era quella del custode e quasi tutte queste cose vi mancavano oppure erano in così cattivo stato che solo gente di bassa condizione poteva servirsene. Murat chiese da parte di chi gli veniva tale attenzione; gli risposero ch’era da parte del cavaliere Alcalà. Ben presto si portò a Murat il bagno che aveva chiesto. Era ancora nella vasca quando gli annunziarono il generale Nunziante. Si trattava di una vecchia conoscenza del prigioniero che lo ricevette da amico, ma la posizione del generale Nunziante era falsa e Murat s’accorse subito del suo imbarazzo. Il generale avvertito a Tropea di ciò ch’era successo a Pizzo, veniva per compiere il suo dovere d’interrogare il prigioniero e, pur scusandosi col re dei rigori che per la sua posizione era costretto ad imporgli, cominciò un interrogatorio. Allora Murat s’accontentò di rispondere: — Volete sapere da dove vengo e dove vado, vero generale? Ebbene vengo dalla Corsica e vado a Trieste. La tempesta m’ha spinto sulle coste della Calabria. La mancanza di viveri m’ha obbligato a venire a Pizzo. Questo è tutto. Adesso volete rendermi un servizio? mandatemi degli abiti per farmi uscire dal bagno. Il generale capì che se fosse rimasto più a lungo avrebbe corso il rischio di cedere ai convenevoli e di venir meno al suo dovere, anche se forse un po’ rigoroso; preferì quindi ritirarsi per attendere gli ordini da Napoli e inviò a Murat ciò che domandava. Era una uniforme completa da ufficiale napoletano. Murat 22 la indossò, sorridendo suo malgrado nel vedersi vestito con i colori di re Ferdinando, poi chiese una penna, inchiostro e carta e scrisse all’ambasciata d’Inghilterra, al comandante delle truppe austriache e alla regina, sua moglie. Aveva appena terminato di scrivere quei dispacci che si presentarono i sarti che aveva fatto venire da Monteleone. Subito Murat, con la frivolezza di spirito che lo caratterizzava, passò dai problemi di vita e di morte che aveva appena trattato ad ordinare non due uniformi, ma due vestiti completi:spiegò nei più piccoli dettagli il taglio che desiderava per il vestito, il colore dei pantaloni, i ricami per il tutto, poi, sicuro ch’essi avessero perfettamente capito le sue istruzioni, diede loro alcuni luigi d’anticipo e li congedò dopo essersi fatto promettere che i suoi vestiti sarebbero stati pronti per la domenica seguente. Usciti i sarti, Murat s’avvicinò ad una finestra: quella che s’affacciava sulla spiaggia dov’era stato arrestato. Una folla numerosa era riunita intorno ad un fortino che è possibile vedere ancor oggi a fior di terra. Murat cercò vanamente di indovinare che cosa facesse lì intorno quella folla di curiosi. Proprio in quel momento il custode entrò per chiedere al prigioniero se volesse cenare. Murat gli chiese la causa di quell’assembramento. — Oh! non è niente, rispose il custode. — Come niente! Qualcosa faranno, continuò Murat. — Bah! rispose il custode, guardano scavare una fossa. Murat allora si ricordò che in mezzo ai disordini provocati dalla sua cattura aveva visto cadere vicino a lui uno dei suoi uomini e che si trattava di Campana. 23 Figura 9 - Murat nella cella del Coccodrillo. Tutto però era avvenuto in modo così rapido e imprevisto che aveva avuto appena il tempo di notare le circostanze più importanti che avevano preceduto e seguito immediatamente il suo arresto. Sperava dunque ancora di essersi sbagliato quando vide due uomini fendere il gruppo, entrare nel fortino ed uscirne cinque minuti dopo portando il cadavere insanguinato d’un giovane completamente privo 24 di vestiti: era quello di Campana. Murat cadde su una sedia e mise la testa tra le mani: quell’uomo di bronzo che aveva caracollato su tanti campi di battaglia senza mai una ferita, pur sempre in mezzo al fuoco e senza un attimo di cedimento, si sentì distrutto alla vista improvvisa di quel bel giovane che la famiglia gli aveva affidato, che era caduto per lui in una scaramuccia senza gloria e che uomini indifferenti seppellivano come un cane senza neanche chiedere il suo nome. Dopo un quarto d’ora Murat si alzò e si avvicinò di nuovo alla finestra. Quella volta la spiaggia, tranne alcuni curiosi che si erano attardati, era pressappoco deserta; soltanto nel luogo dove prima c’era stato l’assembramento che aveva attirato l’attenzione del prigioniero, c’era una leggera sopraelevazione che si faceva notare dal colore diverso che aveva la terra appena rivoltata ed indicava il luogo dove era stato seppellito Campana. Due grosse lacrime silenziose scesero dagli occhi di Murat. Era talmente commosso che non vide il custode che, entrato da alcuni minuti, non osava rivolgergli la parola. Infine ad un movimento che il buonuomo fece per farsi notare Murat si girò. — Eccellenza, disse, la cena è pronta. — Bene, disse Murat muovendo la testa come per far cadere l’ultima lacrima che tremava sulle sue palpebre; bene! Eccomi. — Sua Eccellenza il generale Nunziante chiede se gli è permesso di cenare con Vostra Eccellenza. — Certo, disse Murat. Comunicaglielo e ritorna fra cinque minuti. 25 Murat impiegò i cinque minuti per cancellare dal suo viso ogni traccia di emozione, cosicché quando il generale Nunziante entrò lui stesso al posto del custode, lo ricevette con un viso così sorridente come se non fosse successo niente di straordinario. La cena era preparata nella stanza vicina, ma la tranquillità di Murat era solo apparente; il suo cuore era a pezzi e, inutilmente, cercò di prendere qualcosa. Solo il generale Nunziante mangiò e, prevedendo che il prigioniero potesse aver bisogno di mangiare qualcosa durante la notte, fece portare un pollo freddo, pane e vino nella sua stanza. Dopo essere rimasto a tavola all’incirca un quarto d’ora, Murat, non potendo più sopportare la tensione che provava, manifestò il desiderio di ritirarsi nella sua stanza e di restarvi solo e tranquillo sino all’indomani. Il generale Nunziante s’inchinò in segno di consenso e riaccompagnò il prigioniero nella sua stanza. Sulla soglia Murat si girò e gli diede la mano, poi rientrò e la porta si richiuse dietro di lui. Il giorno dopo alle nove del mattino, arrivò un dispaccio in risposta a quello che aveva comunicato il tentativo di sbarco e l’arresto di Murat. Il dispaccio ordinava la convocazione immediata del Consiglio di guerra. Murat doveva essere giudicato militarmente, con tutto il rigore della legge che aveva emanato lui stesso nel 1810 contro qualsiasi bandito trovato nei suoi stati in possesso di armi. Tale provvedimento però al generale Nunziante sembrava così rigoroso che, sospettando che potesse esserci qualche errore nell’interpretazione dei caratteri telegrafici, preferì aspettare un altro dispaccio scritto. Così il prigioniero ebbe un rinvio di tre giorni e ciò gli diede nuove speranze 26 Figura 10 - Vista dalla cella murattiana. sul modo in cui sarebbe stato trattato. Ma il mattino del 12 maggio il dispaccio scritto arrivò; era breve e preciso. Non c’era possibilità di eluderlo. 27 «Napoli, 9 ottobre 1815 Ferdinando per grazia di Dio etc. Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue: Art. 1: Il generale Murat sarà giudicato da una commissione militare i cui membri saranno nominati dal nostro ministro di guerra. Art. 2: Al condannato, per ricevere l’assistenza religiosa, sarà concessa solo mezz’ora». Come si vede erano tanto sicuri della condanna che avevano già stabilito il tempo che doveva intercorrere tra la condanna e la morte. Un secondo decreto era allegato al primo. Conteneva i nomi dei membri scelti per la composizione del consiglio di guerra. Tutta la giornata passò senza che il generale Nunziante avesse il coraggio di avvertire Murat delle notizie che aveva ricevuto. Nella notte tra il 12 e il 13, la commissione si riunì. Infine, poiché era necessario che Murat comparisse davanti ai giudici, non ci fu mezzo di nascondergli più a lungo la situazione in cui si trovava; e il 13, alle sei del mattino, il decreto di avvio di procedimento gli fu notificato; gli venne anche comunicata la lista dei giudici. 28 Figura 11- Ricostruzione della cella di Murat Fu il capitano Strati che gli fece la doppia comunicazione che Murat, benché non se l’aspettasse, ricevette come se vi fosse stato preparato e col sorriso sprezzante sulle labbra. Ma appena la lettura fu conclusa, Murat dichiarò di non riconoscere un tribunale composto da semplici ufficiali; che, se lo si trattava da re, per giudicarlo era necessario un tribunale di re; se lo si trattava da maresciallo di Francia, la sentenza poteva essere pronunciata solo da una commissione di marescialli ed infine se lo si trattava da generale, il meno che si potesse fare per lui, era di riunire una giuria di generali. La missione del capitano Strati non era di rispondere alle 29 richieste del prigioniero: così si limitò a rispondere che il suo dovere era di fare ciò che aveva appena fatto e pregò il prigioniero che meglio di tutti conosceva i rigorosi obblighi della disciplina, di volerlo scusare. — Bene, disse Murat, d’altronde non è su di voi che ricade la colpa di questa odiosa decisione, ma su Ferdinando che tratta uno dei suoi fratelli reali come un brigante. Andate e dite alla commissione che può procedere senza di me. Io non mi recherò al tribunale e anche se mi ci si porta con la forza nessuna potenza terrena avrà il potere di farmi rompere il silenzio. Strati s’inchinò ed uscì. Murat che era ancora a letto si alzò e si vestì velocemente. Non si illudeva sulla sua situazione, sapeva che era stato condannato prima del tempo e aveva visto che tra la condanna e l’esecuzione gli era stata concessa solo mezz’ora. Passeggiava a lunghi passi nella sua stanza quando si presentò Francesco Froya, relatore della commissione. Veniva a pregare Murat a nome dei suoi colleghi di presentarsi davanti al tribunale, almeno per un istante, ma Murat rinnovò il suo rifiuto. Allora Francesco Froya gli chiese quali erano il suo nome, la sua età e il suo luogo di nascita. A tale domanda Murat si girò e con una espressione di alterigia, difficile da descrivere: — Sono, disse, Joachim Murat re delle Due-Sicilie, nato a La Bastide-Fortunière e la storia aggiungerà: assassinato a Pizzo. Adesso che sapete ciò che volevate sapere vi ordino di uscire —. Il relatore ubbidì. Cinque minuti dopo entrò il generale Nunziante; veniva, a sua volta, a supplicare Murat di comparire davanti alla 30 commissione, ma quello fu irremovibile. Passarono Figura 12 - Il re Gioacchino Murat cinque ore, durante le quali Murat restò chiuso da solo, senza che nessuno venisse da lui, poi la porta si riaprì e il procuratore reale La Camera entrò nella sua stanza, tenendo in una mano la sentenza della commissione e nell’altra la legge che lo stesso Murat aveva promulgato contro i banditi e in virtù della quale era stato condannato. Murat era seduto. Capì che gli venivano a comunicare la sua condanna. Si alzò e rivolgendosi con voce sicura al procuratore reale: leggete, signore, gli disse, vi ascolto. Il procuratore reale lesse la sentenza: Murat era condannato all’unanimità con un solo voto contrario. Terminata la lettura: — Generale, gli disse il procuratore reale, spero che morirete senza alcun sentimento di odio nei nostri confronti. E contro voi stesso che dovete avercela per 31 Figura 13 - Copia originale della sentenza di morte 32 la legge che avete fatto. — Signore, rispose Murat, avevo fatto questa legge per i briganti non per le teste coronate. — La legge è uguale per tutti, rispose il procuratore reale. — Ciò è possibile, disse Murat, quando è utile a certa gente, ma chiunque è stato re porta con sé una sacralità che, prima di trattarlo come un comune mortale, sarebbe opportuno rifletterci due volte. Io facevo l’onore a re Ferdinando di credere che non m’avrebbe fatto fucilare come un criminale; m’ingannavo. Tanto peggio per lui. Non ne parliamo più. Ho partecipato a trenta battaglie; ho visto cento volte la morte in faccia. Ci conosciamo da troppo tempo per non avere una certa familiarità l’uno con l’altro. Significa, signore, che quando sarete pronto, lo sarò anch’io e non vi farò aspettare. Quanto ad avercela con voi, non ce l’ho più che con un soldato che in una mischia, avendo ricevuto dal suo capo l’ordine di sparare, m’avesse tirato contro una, pallottola. Andate, signori, capite che poiché il decreto del re non mi concede che una sola mezz’ora, non ho tempo da perdere per dire addio a mia moglie ed ai miei figli. Andate, signori e, sorridendo come quando era re, aggiunse: — Dio vi abbia nella sua santa e degna protezione. Rimasto solo, Murat si sedette di fronte alla finestra che s’affaccia sul mare e scrisse a sua moglie la lettera seguente di cui posso garantire l’autenticità, avendola trascritta dalla copia stessa dell’originale che aveva conservato il cavaliere Alcalà. 33 Figura 14 - Copia originale dell'ultima lettera di Murat alla moglie Carolina Bonaparte. 34 Figura 15 - La famiglia di Re Gioacchino MURAT 35 ********** 36 ! " 37 # $ # # & '( + $ % # ')'* , 38 Figura 16 - Vista del luogo dove Murat sbarcò l'8 ottobre 1815. 39 Nel momento in cui terminava la lettera, la porta s’aprì. Murat si girò e riconobbe il generale Nunziante. Figura 17 - Il luogo dello sbarco di Re Gioacchino MURAT — Generale, gli disse Murat, sareste così gentile da procurarmi un paio di forbici? Se le chiedessi io probabilmente me le rifiuterebbero. Il generale uscì e rientrò qualche secondo dopo con l’ogget40 to richiesto. Murat lo ringraziò con un cenno della testa, gli prese le forbici dalle mani, tagliò una ciocca dei suoi capelli e la mise nella lettera; poi presentandola al generale: — Generale, gli disse, mi date la vostra parola che questa lettera sarà consegnata alla mia Carolina? — Ve lo giuro sulle mie spalline, rispose il generale. E si girò per nascondere la sua emozione. — Su, dunque! generale, disse Murat, battendogli sulla spalla, che cosa significa ciò? Diavolo! siamo tutti e due soldati: abbiamo visto la morte in faccia. Ebbene, vuol dire che la rivedrò e sarò io questa volta a farla venire ad un mio ordine, ciò che abitualmente non fa, perché spero che mi lascerete ordinare il fuoco, è vero? << Il generale annuì con la testa. Adesso generale, ditemi, qual è l’ora fissata per la mia esecuzione? — Stabilitelo voi stesso, rispose il generale. — Vuoi dire che volete ch’io non vi faccia attendere? — Spero che non crediate che sia questo il motivo! — Andiamo, generale. Sto solo scherzando. Ecco tutto. Murat prese l’orologio dal taschino. Era un orologio ricco di diamanti nel quale c’era il ritratto della regina. Il caso volle che gli si presentasse davanti. Murat lo guardò per un momento con un’espressione di dolore indefinibile, poi con un sospiro: — Guardate — disse, come la regina è rassomigliante. Poi stava per rimettere l’orologio nella tasca quando d’un tratto si ricordò il motivo per cui l’aveva preso. — Oh, scusate generale, disse, dimenticavo la cosa principale. Vediamo, sono le tre passate, sarà per le — 41 quattro, se volete. Cinquantacinque minuti, è troppo? — Va bene generale, disse Nunziante e fece un movimento per uscire, accorgendosi che stava per soffocare. — Non vi rivedrò più? disse Murat fermandolo. — Le mie istruzioni dicono che assisterò alla vostra esecuzione, ma voi me ne dispenserete. Non è vero, generale? non ne avrò la forza! — Bene! Bene! Che bambino siete! mi darete la mano passando e sarà tutto. Il generale Nunziante si precipitò verso la porta. Sentiva che stava per scoppiare in singhiozzi. Dall’altra parte della soglia c’erano due preti. — Che cosa vogliono quest’uomini, domandò Murat; pensano forse ch’io abbia bisogno delle loro esortazioni e che non sappia morire? — Chiedono di entrare, sire, disse il generale dando per la prima volta, nel suo turbamento, al prigioniero il titolo riservato ai reali. — Entrino, entrino, disse Murat. I due preti entrarono. Uno di loro si chiamava Francesco Pellegrino ed era lo zio di quel Giorgio Pellegrino che era causa della morte di Murat; l’altro si chiamava Antonio Masdea. — Adesso, signori, disse Murat facendo un passo verso di loro, che volete? ditelo presto, mi fucileranno tra tre quarti d’ora e non ho tempo da perdere. — Generale, disse Pellegrino, veniamo a chiedervi se volete morire da cristiano. — Morirò da soldato, disse Murat. Andate. A questa prima sgarberia Pellegrino si ritirò, ma invece 42 Antonio Masdea restò. Era un bel vecchio, dalla figura imponente, dal procedere grave e dalle maniere semplici. Figura 18 - L'ingresso del Castello di Pizzo. Murat vedendo che non seguiva il suo compagno ebbe dapprima un momento d’impazienza, ma notando l’aria di profondo dolore che traspariva dai suo viso, si trattenne. — Ebbene, reverendo, non m’avete sentito? — Non è così che m’avete ricevuto la prima volta che vi ho visto, sire! E vero che allora eravate re ed io venivo a chiedervi una grazia. — Infatti, disse Murat, il vostro viso non mi è nuovo: dove vi ho visto? Aiutatemi a ricordare. — Proprio qui, sire: quando passaste da Pizzo nei 1810, 43 venni per chiedervi un aiuto per terminare la nostra chiesa: sollecitavo 25.000 franchi e me ne deste 40.000. — Perché prevedevo che vi sarei stato seppellito, rispose sorridendo Murat. — Ebbene! Sire, rifiutereste ad un vecchio l’ultima grazia che vi chiede? — Quale? — Quella di morire da cristiano. — Volete che mi confessi? Ebbene ascoltate: quand’ero ragazzo ho disubbidito ai miei genitori che non volevano ch’io diventassi soldato: questa è l’unica cosa di cui debbo pentirmi. — Sire, volete darmi un attestato che monte da cattolico? — Oh, senza difficoltà, disse Murat e andando a sedersi al tavolo dove aveva già scritto, redasse il seguente biglietto: «Io, Joachim Murat, muoio da cristiano, credendo nella santa chiesa cattolica, apostolica e romana. Joachim Murat» E consegnò il biglietto al prete. Il prete s’allontanò. — Reverendo, disse Murat, la vostra benedizione. — Non osavo offrirveia apertamente, ma ve la davo col cuore, rispose il prete. E pose le mani su quella testa che aveva portato il diadema. Murat s’inchinò e disse a bassa voce alcune parole che sembravano una preghiera, poi fece cenno a don Masdeo di lasciarlo solo. Questa volta il prete obbedì. Il tempo fissato tra la partenza del prete e l’ora dell’esecuzione passò senza che si potesse dire ciò che fece Murat 44 durante quella mezz’ora. Probabilmente rivide tutta la sua Figura 19 - Canonico MASDEA 45 Figura 20 - Le grate della cella del Coccodrillo. vita che dall’oscuro paese natio, dopo aver brillato come una meteora reale, ritornava a spegnersi in un paese sconosciuto. Tutto ciò che si può dire è che una parte dei suo tempo lo impiegò a fare toilette, perché quando ritornò il generale Nunziante lo trovò pronto come se dovesse partire per una parata: i suoi capelli erano regolarmente separati sulla fronte ed inquadravano il suo viso maschio e tranquillo; teneva una mano sullo schienale d’una sedia e stava in posizione d’attesa. - Siete cinque minuti in ritardo, disse, tutto è pronto? Il generale Nunziante era tanto commosso che non poté rispondergli. Murat s’accorse però chiaramente ch’era atteso 46 nel cortile. D’altronde proprio in quel momento il rumore dei calci di parecchi fucili risuonò sul pavimento. — Addio, generale, addio, disse Murat vi raccomando la mia lettera alla mia cara Carolina. Poi, vedendo che il generale nascondeva la testa tra le mani, uscì dalla stanza ed entrò nel cortile. — Amici, disse ai soldati che l’aspettavano, voi sapete che sarò io ad ordinare il fuoco; il cortile è troppo stretto perché possiate mirare giusto: mirate al cuore, salvate i viso. E andò a mettersi a sei passi dai soldati, quasi addossato a un muro e salì un po’ più in alto su uno scalino. Ci fu un attimo di tumulto nel momento in cui stava per ordinare il fuoco: erano i prigionieri correzionali che, avendo una sola finestra con la grata che s’affacciava sul cortile, si ammassavano per poter guardare. L’ufficiale che comandava il picchetto impose loro il silenzio ed essi tacquero. Allora Murat comandò la carica, freddamente, tranquillamente; senza fretta, senza ritardi, come se fosse stato un semplice esercizio. Alla parola Fuoco, solo tre colpi partirono, Murat restò in piedi. Tra i soldati intimoriti, sei non avevano sparato, tre avevano sparato sopra la sua testa. Fu allora che quel cuore di leone che faceva di Murat un semidio nelle battaglie, si mostrò in tutta la sua terribile energia. Non un muscolo del suo viso si mosse. Non un solo movimento indicò il timore. Ogni uomo può avere il coraggio per morire una sola volta; lui, Murat ne aveva per morire due volte. 47 Figura 21 - Il luogo della fucilazione 48 — Grazie, amici miei, disse, grazie per il sentimento per cui m’avete risparmiato. Ma poiché bisognerà sempre finire là dove avete cominciato, ricominciamo e questa volta nessuna grazia, vi prego. E ricominciò ad ordinare la carica con la stessa voce calma e sonora, guardando ad ogni ordine il ritratto della regina; infine la parola fuoco si fece sentire seguita da una detonazione e Murat cadde colpito da tre pallottole. Fu ucciso sul colpo. Una pallottola aveva trafitto il cuore. Lo sollevarono e trovarono nella sua mano l’orologio che non aveva abbandonato e nel quale c’era il ritratto. Ho visto quell’orologio a Firenze nelle mani di madame Murat che l’aveva riscattato per 2400 franchi. Si portò il corpo sul letto e dopo aver redatto il verbale dell’esecuzione si richiuse la porta. Durante la notte il cadavere fu portato in chiesa da quattro soldati; fu buttato nella fossa comune e poi su di lui gettarono dei sacchi di calce. Infine si richiuse la fossa e si sigillò la pietra che d’allora non è stata più riaperta. Una strana voce si sparse. Si disse che il cadavere era stato portato in chiesa decapitato; se bisogna credere a certe leggende orali la testa fu portata a Napoli e consegnata a Ferdinando. Fu poi conservata in un boccale d’acquavite perché se qualche avventuriero avesse voluto approfittare della sua fine isolata e oscura per tentare di prendere il nome di Gioacchino gli si potesse rispondere subito mostrandogli la testa di Murat. La testa era custodita in un armadio posto alla testata del letto di Ferdinando e di cui solo lui teneva le chiavi, cosicché fu soltanto dopo la morte del vecchio re che suo figlio Francesco, spinto dalla curiosità, apri l’armadio e 49 scoprì il segreto paterno. Figura 22 - Stampa dell'epoca che ricorda la fucilazione del Re. Così morì Murat all’età di quarantasette anni, perso 50 dall’esempio che gli aveva dato sei mesi prima Napoleone rientrando dall’Isola d’Elba. Quanto a Barbarà che aveva tradito il suo re e che s’era pagato da solo il tradimento impadronendosi dei tre milioni depositati nella sua nave, attualmente vive chiedendo l’elemosina nei caffè di Malta. Dopo aver ricevuto dalla stessa bocca di testimoni oculari tutti i particolari relativi a questo triste argomento cominciammo la visita delle località che vi sono segnalate. La nostra prima visita fu per la spiaggia dove ebbe luogo lo sbarco. Ci mostrarono in riva al mare, là dove la custodiscono come oggetto di curiosità, la vecchia scialuppa che Murat cercava di spingere verso il mare quando fu preso e la cui carcassa è ancora forata da due pallottole. Davanti al fortino ci facemmo mostrare il luogo dove è seppellito Campana: non c’è nulla che lo indichi alla curiosità dei viaggiatori ed è coperto di sabbia come tutta la spiaggia. Dalla tomba di Campana ci avviammo a misurare la roccia dalla cui cima il re ed i suoi due compagni erano saltati. E alta all’incirca 35 piedi. Di là ritornammo al castello: è una piccola fortezza senza grande importanza militare dove si arriva da una scala stretta tra due muri; due porte la chiudono durante la salita. Arrivati all’ultimo gradino, alla destra c’è la prigione dei condannati correzionali, alla sinistra l’entrata della stanza che occupò Murat e dietro, in una rientranza della scala, il luogo dove fu fucilato. Il muro che si eleva dietro lo scalino sul quale Murat era salito porta ancora le tracce di sei pallottole: tre di esse hanno attraversato il corpo del condannato. 51 Entrammo nella stanza. Come tutte le stanze dei poveri in Italia è composta di quattro pareti nude, imbiancate con calce e coperte d’una moltitudine d’immagini di madonne e santi; di fronte alla porta era il letto dove il re sudò la sua agonia di soldato. Vedemmo due o tre bambini coricati disordinatamente su quel letto. Una vecchia donna accovacciata e che aveva paura del colera recitava i rosario in un angolo; nella stanza vicina dei soldati cantavano a squarciagola. L’uomo che ci fece l’onore di farci visitare la triste abitazione era i figlio del vecchio custode: era un uomo di trenta-trentasei anni. Aveva visto Murat durante i cinque giorni della sua detenzione e si ricordava a meraviglia perché a quell’epoca poteva avere quindici-sedici anni. D’altronde nessun ricordo materiale era rimasto di questa grande catastrofe ad eccezione delle pallottole penetrate nel muro. Feci un disegno molto preciso della stanza e del cortile. E difficile vedere qualcosa d’aspetto più triste di questi muri bianchi che si stagliano con dei contorni precisi su un cielo d’un blu indaco. Dal castello rientrammo in chiesa; la pietra sigillata sul cadavere di Murat non è stata mai riaperta; dalla volta pende, come un trofeo di vittoria, la bandiera che aveva con lui e che gli avevano portato via. Al mio ritorno a Firenze, verso i mese di dicembre dello stesso anno, Madame Murat che dimorava in questa città col nome di contessa di Lipari, sapendo che rientravo da Pizzo mi fece pregare di passare da lei. Mi affrettai ad accettare il suo invito. Non aveva mai avuto notizie precise sulla morte di suo marito e mi pregò di non nasconderle 52 nulla. Le raccontai tutto ciò che avevo saputo a Pizzo. Fu allora che mi fece vedere l’orologio che aveva riscattato e che Murat teneva in mano quando cadde... Quanto alla lettera che aveva scritto pochi momenti prima di morire, non l’aveva mai ricevuta e fui io a darle la prima copia. Dimenticavo di dire che in ricordo e in ricompensa del servizio reso al governo napoletano la città di Pizzo è esentata per sempre da ogni diritto e imposta. Figura 23 - La fossa comune dove è sepolto Re Gioacchino ******** 53 L’ATTO DI MORTE DEL COMUNE L’atto di morte originale dice testualmente: «Numero d’ordine 80 L’anno 1815 a dii dodici (leggi tredici poiché il giorno è errato) del mese di ottobre-Avanti a noi Gerolamo Tranquillo, Sindaco ed Uffiziale dello stato civile del comune di Pizzo, Provincia di C. U. Il (leggi Calabria Ulteriore 2a), sono comparsi: Nicola Moschella di anni 45, domiciliato entro la città, di professione bastaso e Diego Galeano di professione Bastaso, di anni 43, domiciliato dietro San Giovanni, i quali hanno dichiarato che alle ore 21 di questa giornata del mese di ottobre 1815 è stato fucilato in questo castello Gioacchino Muratte Napolione ove era detenuto e si fece la commissione, di anni 45(?) di professione generale francese, domiciliato in questo castello, è morto nel suddetto domicilio. Per esecuzione della legge ci siamo trasferiti presso il defunto, ed avendo conosciuta, insieme coi dichiaranti, la sua effettiva morte, ne abbiamo formato il presente atto, di cui s’è fatto lettura ai dichiaranti dichiaranti, ed indi si è segnato da noi. Essi dichiaranti non sanno firmare». 54 Figura 24 - L'atto di morte della Chiesa 55 La terza fossa comune della Chiesa di San Giorgio in Pizzo che accoglie i resti mortali di Gioacchino Murat Re di Napoli. Figura 25 - DUOMO DI SAN GIORGIO 56 Ultimo Proclama di Gioacchino al popolo meridionale 57 58 59 L’ultima battaglia di re Gioacchi no Murat al Pizzo di Calabria 8 -13 Ottobre 1815 Associazione Culturale Gioacchino MURAT Onlus di Pizzo Prezzo al pubblico 5,00 60