lo spiti, cuore gentile del tibet indiano

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lo spiti, cuore gentile del tibet indiano
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eravamo tagliati fuori dal mondo. Solo
allora abbiamo appreso cos’era successo quattro giorni prima: l’attentato alle
torri gemelle del World Trade Center.
Russo: è difficile spiegare che cosa quei
luoghi ti lascino dentro. Forse lo si può
fare solo con qualche immagine. Pensa
a una strada attraversata da pastori e
greggi, all’aria pungente del mattino,
che smuove le bandierine di preghiera
sui tetti delle case. In un’ansa del fiume, addolcita dal verde dei campi, un
contadino lavora il suo piccolo appezzamento, e cantando incita i suoi yak:
avanti miei yak non preoccupatevi,
ogni sera accendo un incenso per la
vostra salute e vi dono ottimo cibo, voi
mi date la vita ed io la ricambio a voi,
e allora avanti miei yak e non preoccupatevi. Fosco Maraini nel suo Tibet segret,o scriveva che a queste latitudini la
felicità di un popolo si misura anche
attraverso la voglia di cantare. Ecco,
nello Spiti il canto è ancora udibile.
Segno che la fiducia non è scomparsa
dal Dna della gente, malgrado la povertà di mezzi, il clima invivibile, le incognite di una società planetaria in
continuo cambiamento.
❏❏❏
LO SPITI, CUORE GENTILE
DEL TIBET INDIANO
di Agrippino Russo
e non fosse per le frane, le pesanti nevicate, e il freddo
intenso, arrivare nella valle dello Spiti non presenterebbe particolari difficoltà. Niente a che vedere con la scenografia surreale delle valli nepalesi a ridosso dell’Everest dove
il business delle scalate mordi e fuggi, il via vai di turisti lungo
i sentieri predisposti al trekking e i rifiuti abbandonati nei
campi base, le rendono ormai indesiderabili per chi nell’incontro con le montagne cerca altre relazioni e contatti.
Con la regione del Kinnaur alle spalle, e superato l’ultimo
check-point dell’esercito indiano per il controllo di visti e permessi, lo Spiti si materializza come un terso deserto d’alta quota spazzato dal vento, dove il colore rosso dei costoni montagnosi si mescola al rarissimo verde dei campi d’orzo che i contadini
strappano all’aridità del terreno. Verso il villaggio di Langhzam
la cupola bianca dello Shilla, si staglia al di sopra delle valli
ondulate e secche del plateau. Il nome di questa montagna significa “Porta del Cielo”: si tratta di un luogo sacro, identificata dalla tradizione buddista come un varco, una soglia di accesso tra la Terra e il Cielo, tra la nostra realtà ordinaria e quella
straordinaria. Scalarla equivarrebbe a violarla. “In questi luoghi gli umani non sono desiderati e solo gli Dei possono sceglierli per dimora” scriveva Kipling nel suo Kim.
La popolazione qui è di origine bothia (tibetana) e i ritmi di
vita sono ancora essenzialmente
quelli di centinaia di anni fa quando la valle, che collegava
il Tibet all’India, era conosciuta come
una via
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collaterale della famosa Via della Seta.
Fu strada carovaniera e terra di conquista, e vide passare le avanguardie di
Alessandro il Grande, i mongoli di Gengis Khan e le scorrerie dei predoni ladakhi, prima di diventare, nel X secolo,
una provincia occidentale del Tibet. Nel
1847 l’impero inglese la strappò al regno
tibetano del Gugè annettendola all’India; erano i tempi delle lotte più o meno
palesi che l’Inghilterra sosteneva nei confronti dell’espansionismo russo e cinese
in Asia centrale. Oggi lo Spiti è un remoto distretto dello stato indiano dell’Himachal Pradesh e dal punto di vista
amministrativo la valle è eufemisticamente indicata come “tribal area” di etnia e cultura tibetana.
Nella realtà è una zona lasciata a se stessa che unicamente per la vicinanza al
confine cinese il governo indiano ha dotato di infrastrutture più ad uso militare
che civile. Il segno di questo interesse è la
continua ristrutturazione della Hindustan-Tibet Road, che frana un anno si e
uno no. La valle è famosa anche per gli
splendidi, antichissimi monasteri buddisti: Ky Gompa, Dankar, Tangyud, ma
soprattutto quello di Tabo, costruito nel
Priorità a scuola,
sanità e problemi
ambientali
Crescono i rapporti fra Trentino e Tibet,
all’insegna della solidarietà
Prosegue l’amicizia fra Trentino e
Tibet, cementata dalla visita del
Dalai Lama dello scorso giugno.
A novembre una delegazione
della Provincia autonoma guidata
dal vicepresidente Roberto Pinter
ha nuovamente incontrato la guida del popolo tibetano, premio
Nobel per la pace nel 1989, nel
centro buddista di Pomaia, vicino
Pisa. Il colloquio (nella foto) –
unico impegno “mondano” di
una visita legata questa volta ad
impegni di natura strettamente
religiosa – ha consentito di mettere a fuoco una serie di progetti
di cooperazione allo sviluppo che
prenderanno il via nel 2002.
Tutte le iniziative saranno realizzati con il coinvolgimento del mondo dell’associazionismo trentino,
e riguardano i settori educativo,
socio-sanitario e ambientale. Un
primo progetto si propone di sostenere una scuola nel nord dell’India, nella città di Shimla, dove
vivono molti tibetani, dando seguito al gemellaggio già attivato
con la scuola elementare di Bieno. Il secondo ha come teatro lo
stato indiano dell’Arumachal Pradesh: si tratta di un progetto integrato che comporta la costruzio-
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996 D.C. e quarto tra i più famosi del
Tibet.
Nel 1823, in questo luoghi comparve un
personaggio eccentrico, Alexander Csoma
de Koros, studioso ungherese e padre della moderna tibetologia. Partito da Budapest per uno studio sulle origini della
razza Magiara, viaggiò errando in Asia
Centrale e in India, per più di vent’anni,
dimentico del progetto originale, ma
sempre più affascinato dalla ricchezza
culturale dei popoli. Nel 1933, arrivò
invece nello Spiti il tibetologo italiano
Giuseppe Tucci. Nei suoi resoconti si legge dell’abbandono e del degrado in cui
erano caduti molti monasteri.
Oggi, per uno strano scherzo del destino,
dopo l’invasione cinese del Tibet e la fuga in India di migliaia di tibetani, questi monasteri che il tempo e le irrisorie
possibilità economiche della valle stavano distruggendo, sono rinati a nuova vita, grazie all’interessamento del Dalai
Lama e del governo tibetano in esilio e
hanno il non facile compito di preservare
ne di un ambulatorio di base, di
un ospizio per anziani (ma frequentato anche dai bambini, soprattutto orfani), e anche qui di
una scuola. Infine verrà avviato,
una cultura stretta tra l’egemonia cultural-economica della Cina e i messaggi
globalizzanti dei network indiani e della CNN, captati dalle rare antenne
paraboliche.
Ma la gente dello Spiti non sembra ancora così accecata dagli stili di vita proposti dai media e la televisione dove c’è,
spesso è usata più come oggetto sui cui
porre vasetti di fiori e fotografie del Dalai Lama che per essere vista e ascoltata.
Anche perché i black-out di corrente elettrica sono frequenti, e la pazienza ha un
limite anche lassù.
La valle è poverissima. Si regge sull’allevamento del bestiame e su un’agricoltura
molto basilare a causa dell’altitudine e
della scarsità di terra coltivabile. Lo yak
è un elemento indispensabile per la vita
del contadino spitiano: animale da traino e da soma, produttore di latte, la sua
carne seccata diventa riserva alimentare,
con il suo pelo si filano coperte e tappeti
e persino il letame viene seccato in pani
rotondi e usato come combustibile. Si allevano anche un po’ di pecore e capre himalayane, con la cui lana si confezionano scialli, maglioni e coperte. Cavalli,
muli ed asini servono ancora da mezzi
di trasporto, anche se nei dintorni di Ka-
in stretta collaborazione con il Tibet Bureau di Ginevra, un progetto nel campo del monitoraggio e
ripristino ambientale, che si propone fra le altre cose di valutare
gli effetti delle politiche di gestione del territorio poste in essere
dal governo cinese nel Tibet, le
quali hanno prodotto un impatto
ecologico spesso devastante.
“Se, come ci auguriamo, Pechino
riavvierà le trattative con noi – ha
detto a questo proposito il Dalai
Lama – i vostri studi un domani
potrebbero essere fatti propri anche dal governo cinese”.
La delegazione trentina ha infine
confermato al Dalai Lama la disponibilità delle istituzioni, ma anche dell’Università degli studi di
Trento, dell’Università della pace
e del nostro volontariato, a mettere a punto – assieme al governo
tibetano in esilio - anche nuove
iniziative nel campo della formazione professionale, dell’alta formazione e della diplomazia popolare.
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za, la piccola cittadina capoluogo del distretto, circolano già parecchi veicoli e
alcuni autobus.
Grazie all’isolamento, qui vivono ancora
orsi, lupi, il raro leopardo delle nevi, l’ibex, molti rapaci, e branchi di asini e
cavallini allo stato brado.
Sarà la lontananza dal mondo esterno,
le altitudini medie di 4000 metri che
cambiano il metabolismo del corpo, o la
spiritualità che impregna la vita degli
abitanti, ma attraversare questi luoghi
regala ancora al viandante un senso di
pace e di appagamento ormai quasi
scomparso nella nostra massificata società
occidentale. Si riscopre la lentezza del
movimento, l’importanza dei piccoli gesti, la consapevolezza degli sprechi, del
voluttuario, e di ciò che veramente conta; Il cervello sembra sintonizzarsi su canali prima sconosciuti o forse solo sopiti,
coperti da montagne di sovrastrutture,
da modelli abnormi di consumo, da sicurezze acquisite. Ci si scopre a pensare
al cambiamento, alla mutevolezza di ciò
che chiamiamo mondo, a quanto è prezioso essere vivi e partecipi di questo sogno vacuo che denominiamo realtà.
Da pochi anni le autorità indiane hanno aperto la valle ai turisti. Per fortuna,
quelli che fino ad oggi sono entrati lo
hanno fatto in modo rispettoso, quasi in
punta di piedi. Il turismo porta con sé
nuove possibilità economiche, ma nasconde anche molte insidie. Troppi luoghi di incredibile bellezza e interesse,
presi d’assalto da folle invadenti e irrispettose, sono diventati Disneyland consumistiche, snaturandosi irrimediabilmente. Questo è il rischio che corrono le
valli dello Spiti e del Lahaul. Tuttavia il
futuro è questo. Starà ai locali usare la
saggezza per salvaguardare la loro tradizione, e sarà nostro compito aiutarli a
mediare questa difficile transizione che
li aspetta.
AGRIPPINO RUSSO
Insegnante presso la scuola elementare
di Tenna, Agrippino Russo studia da
anni gli aspetti etnografici e storici dei
popoli dell’area tibeto-himalayana e
indiana. Ha viaggiato più volte in Tibet, Nepal, Sikkim, Himachal Pradesh
e Kashmir. Da due anni lavora a una
ricerca sulle leggende della tradizione
pastorale himalyana, mettendola a
confronto con quella trentina.
GIORGIO SALOMON
A maggio del 2002 compirà sessanta
anni e tutto quel che ha passato per
poterci mostrare attraverso la macchina fotografica, la cinepresa e la telecamera quel po’ po’ di avvenimenti in 40
e più anni di lavoro, giustificherebbe
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persino un fisico affaticato. Invece
Giorgio Salomon dimostra una decina
di anni in meno e non soltanto nel fisico, ancora asciutto e scattante, ma anche nello sguardo. Rimasto quello di
sempre: incantato, sereno, curioso.
Giorgio Salomon comincia a lavorare
con la Fotocine di Guido Bonvicini già
a quindici anni, passa poi all’Alto Adige per una sostituzione temporanea.
Transita al Gazzettino, redazione di
Trento, per essere poi assunto definitivamente all’Alto Adige.
Ha una capacità innata: fiuta i limiti e
ha il conseguente coraggio (e la forza),
semmai, di dire no. Se è ancora vivo,
lo deve a questa intelligenza e allo spirito di sacrificio. La sua personale avventura di fotoreporter inizia in tempi
cruciali della cronaca e della storia
trentina e nazionale dell’ultima metà
del secolo scorso: fotografa il terrorismo altoatesino, Longarone, l’alluvione, il Sessantotto e altro ancora. Ma ha
anche il “fisico”. È capacissimo di
mantenere la calma nei momenti tragici e sa sopportare botte da orbi come
ad Innsbruck ai funerali di un terrorista. Lui così minuto, poi, ha forza e resistenza da sherpa.
Entra alla Rai di Trento, dopo alcuni
anni di collaborazione esterna, nel
1977 presentando il film girato sulle
Ande nella tragica spedizione “Città di
Trento”. Dieci anni dopo, ormai assodate le sue capacità, la Rai di Roma lo
spedisce nei luoghi più infuocati del
globo. Dall’Afghanistan all’epoca dell’invasione russa (avrà un encomio solenne), alla Guerra del Golfo. In
Uganda viene fatto prigioniero per un
mese, prima dai guerriglieri e poi dalle
forze governative: e là Giorgio Salomon vede un paio di volte la morte in
faccia. Ancora: sale sul K2, gira pellicole indimenticabili in Australia e in
Vietnam. Con una slitta cerca di raggiungere il Polo Nord, si ferma solo
per insuperabili difficoltà. Mette a segno uno scoop mondiale filmando un
padre che tutti gli anni saliva su un
monte delle Ande a deporre un mazzo
di fiori nell’anniversario della morte
della figlia e del genero nel disastro aereo che impressionò tutti per la resistenza (inutile) di alcuni superstiti.
È sposato con Fiorella (“ha sempre
subìto l’egoismo con cui volevo realizzarmi professionalmente”) che le ha
dato una figlia: Giorgia, laureata, trent’anni.
Giorgio Salomon ha scelto due anni fa
la pensione. Ma non sa staccarsi da
macchina fotografica, telecamera e cinepresa.
SUL PASSO.
Il cineoperatore
Giorgio Salomon
con il giornalista
inviato speciale
del TG1,
Daniele Valentini
e l’insegnante
Agrippino Russo
in una foto ricordo
sul passo
di Kum Zum La
(m 4500).