PDF (Tesi Orlandi)

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PDF (Tesi Orlandi)
Università degli Studi di Camerino_Scuola di Architettura e Design_Ascoli Piceno
Dottorato di ricerca in “Architecture, Environment and Design”
Curriculum “Knowledge and Design of Urban Landscape”
XXIV Ciclo
Piero Orlandi
L'esperienza della città.
Il paesaggio urbano come sguardo fotografico
Tutor: Prof. Pippo Ciorra
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A Pippo Ciorra devo l'amichevole sostegno e la paziente indicazione della rotta.
Desidero ringraziare in particolar modo Giovanna Calvenzi e Sara Marini per i loro consigli, determinanti
per orientare questo lavoro.
Ringrazio anche Dede Auregli, Gabriele Basilico, Paolo Barbaro, Edgarda Battaglia, Valeria Cicala, Andrea
Emiliani, Francesca Fabiani, Vittorio Ferorelli, Laura Gasparini, William Guerrieri, Guido Guidi, Giovanni
Hanninen, Rhodri Jones, Carles Lllop, Monica Manfrini, Sara Marini, Nino Migliori, Nicola Orlandi, Mario
Piccinini, Mili Romano, Angela Rosati, Cristina Tartari, Roberta Valtorta, Riccardo Vlahov, Giovanni Zaffagnini, Andrea Zanelli e il Collegio dei docenti della Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, per le conversazioni, i suggerimenti e l'aiuto.
Premessa
Urbanistica e fotografia sono entrambe un prodotto del
diciannovesimo secolo, quando la città, assorbendo popolazione
proveniente dalle campagne e destinata all’industria, vive una
fase di crescita travolgente. Per questo nasce l’urbanistica
moderna, intesa come insieme di regole e di pratiche progettuali,
di saperi tecnici e poteri amministrativi che si pongono l’obiettivo
di governare la città e il suo sviluppo, e stabiliscono così, oltre
al suo funzionamento, anche la sua forma e la sua immagine.
La fotografia in quegli stessi anni inizia a costituire un insieme
di sguardi rivolto al paesaggio, e in particolare a quello urbano,
dandone una rappresentazione che è sia descrizione oggettiva
che interpretazione soggettiva.
Poiché convivono da un secolo e mezzo, e a causa della
comune relazione con la città, le due discipline hanno
avuto spesso a che fare. Il rapporto, come tutti i rapporti, è
bidirezionale, e capita a volte che sia stata l’urbanistica a
chiedere l’aiuto della fotografia, e che questa lo abbia fatto
restituendole informazioni visive che hanno influenzato le
pratiche di pianificazione e progettazione. L’urbanistica ha da
sempre bisogno di conoscere il territorio su cui deve operare, e
per questo la fotografia è essenziale. Non è infrequente il caso
di incarichi assegnati a fotografi da parte di urbanisti, assessori,
progettisti, per effettuare ricognizioni visive su temi o fenomeni
specifici di un certo territorio.
Altre volte è successo che la fotografia ha preso dal dibattito
sulla città le questioni più calde e ha cercato di analizzarle con
il proprio metodo, con i propri strumenti, il proprio linguaggio,
anche senza porsi l’obiettivo di restituire alla fonte la propria
interpretazione, ma lasciandola a disposizione di ognuno,
divulgandola attraverso canali settoriali e generali: libri, riviste,
mostre, pubblicità, tv, cinema, siti web. In questo modo il flusso
relazionale si allunga, e passa per l’opinione pubblica prima di
ritornare ai centri di esercizio delle decisioni urbanistiche, ma
l’interpretazione visiva può uscirne rafforzata, perché validata
dall’adesione di molti, più partecipata e dunque più autorevole
ed ascoltata.
C’è poi un terzo modo con cui avviene lo scambio tra le
due discipline, quando un autore fotografo, spinto dalle
proprie ricerche, dalla propria sensibilità per il nuovo, per il
cambiamento, produce personali visioni della realtà e dei
fenomeni che la attraversano, ancora ignoti ai più ma già attivi, e
forieri, in tempi più o meno brevi, di modificazioni anche rilevanti
dell’assetto dei luoghi. L’assorbimento di queste visioni è più
lento, perché si tratta di una scoperta, e come ogni scoperta
deve essere avvertita, metabolizzata, deve affrontare processi
di rigetto, scontrarsi con abitudini, convinzioni antiche, tradizioni
interpretative dure da sconfiggere: la fotografia prende allora
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per mano l’urbanistica, e la conduce sui sentieri già esplorati
autonomamente.
La realtà, come sempre, mostra questi casi in un intrico di
mescolanze tra l’uno e l’altro, di percorsi rimasti incompleti, di
intenzioni non realizzate; tuttavia, lo scopo di questo studio è
di cercare con la maggior chiarezza possibile quanto ricorrano
i diversi casi enunciati, esaminando il periodo dagli anni 1970
ad oggi. Intorno al 1970 cambiano molte cose nelle città –
inizia una fase di espansione che conduce in pochi decenni
alla diffusione urbana sul territorio; cambia molto anche il ruolo
della fotografia, che lascia il campo del reportage ed entra in
quello più concettuale tipico delle pratiche artistiche; cambia,
soprattutto, la percezione comune della realtà, influenzata dal
pensiero debole postmoderno e più incline a sostituire i grandi
principi, le interpretazioni ideologiche, con un’osservazione più
analitica, a volte anche frammentaria, che perfino dal punto di
vista linguistico ha delle innegabili attinenze con il fotogramma,
inteso come riduzione e compressione del reale in una sola
immagine.
Comincia in quegli anni una fase – tuttora presente e attiva – in
cui la fotografia, più e meglio di ogni altra pratica artistica e di
ogni altro discorso teorico, sembra in grado di influenzare la
percezione della realtà urbana, di descriverne problemi e destini,
rischi ed urgenze. Sempre più frequenti sono le raffigurazioni
fotografiche di paesaggi urbani, dove lo sviluppo metropolitano è
rappresentato in tutto il suo lievitare irrefrenabile.
Nei capitoli che seguono vogliamo seguire le vicende della
fotografia italiana di questi ultimi quarant’anni relazionandole
alle interpretazioni diffuse di città, alle pratiche artistiche, alle
teorie e alle politiche urbane che nel frattempo si sviluppano.
Il paesaggio urbano c’è, esiste, è sotto i nostri occhi, ma non
sempre sappiamo come leggerlo. La fotografia ci ha aiutato
molto in questi ultimi quarant’anni, lo ha fatto più di ogni altra
disciplina. E’ stata in grado di comunicare qualcosa di definitivo,
di risolutivo? Ha creato una nuova percezione, e dunque una
nuova idea del paesaggio urbano, o si è limitata a leggerlo
secondo gli occhi dei più e a restituirlo al mittente così come
questo lo voleva vedere? Prima degli anni ‘70 sembra che siano
stati gli architetti e gli urbanisti a spingere i fotografi a rispondere
a questo genere di domande, mentre oggi pare che sia la
fotografia a invitare l’urbanistica a riflettere su se stessa in modo
più preciso e documentato, chiedendo e spesso ottenendo per
sè un ruolo più collaborativo e meno subalterno che in passato.
Ma è opportuno dare alla fotografia incarichi precisi, o è meglio
lasciare che sia essa a raccogliere autonomamente i propri temi
di indagine?
Ci domandiamo se esiste - distinta dalla fotografia di architettura,
e da quella di paesaggio - una fotografia di urbanistica, e cioè un
modo di fare uso della fotografia come ricognizione degli ambiti
urbani o extraurbani interessati da progetti di riqualificazione e di
miglioramento. Ricognizione ha qui il senso di una descrizione
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che non si limiti a registrare lo stato fisico dei luoghi, ma aspiri
a definirne l’identità. Un concetto che si potrebbe prendere
come riferimento molto prossimo è quello di site-specific in uso
nell’arte pubblica, che definisce un progetto artistico in grado
di interagire pienamente con il luogo e con le stratificazioni di
senso attribuitegli dagli abitanti e dagli utilizzatori. Le immagini
scattate per questi obiettivi dovrebbero dunque contribuire a
fornire un punto di vista e una riflessione utile per chi deve
progettare l’assetto dei luoghi.
Con la parola progetto intendiamo uno spettro molto largo di
significati tecnici, dalla pianificazione territoriale al progetto
urbano, e perfino al progetto di architettura. Comunque sia e a
qualunque scala operi, il progetto resta il requisito essenziale
di questo tipo di fotografia, nel senso che è al progetto che
essa tende. Per questo la fotografia di architettura “classica”
non rientra in questa nostra accezione, in quanto registra le
forme e lo spazio di un’opera architettonica già realizzata. Le
sue pur notevoli capacità di indagine si collocano all’interno
del campo critico, non di quello progettuale: il progetto – come
percorso ideativo e come realizzazione concreta di un disegno
– è già avvenuto, la fotografia ne certifica gli esiti. La fotografia
urbanistica al contrario è fotografia per il progetto di architettura,
precede l’architettura, indaga le preesistenze, siano esse fisiche,
sociali, paesaggistiche.
Chi come noi si chiede quanto sia concreta la possibilità di
connettere la fotografia al progetto di trasformazione fisica del
territorio, deve per forza di cose vedere come ha operato almeno
in questi ultimi anni la committenza pubblica. Ci sono resoconti
molto precisi [Valtorta, 2008], leggendo i quali cerchiamo risposta
alla domanda se la committenza pubblica garantisce la qualità
della ricerca fotografica, e soprattutto quanto poi ne fa uso,
incanalandola verso gli uffici di piano, o nelle sale dei consigli
comunali. Contribuendo insomma al progetto di miglioramento
del territorio, come si definiva forse fideisticamente oltre
vent’anni fa ciò che stava sia in cima che in fondo al processo di
pianificazione, ciò che insomma si invocava nei presupposti e si
presentava nelle conclusioni dei piani urbanistici [Secchi, 1984].
Roland Barthes sosteneva che “la veggenza del fotografo non
consiste tanto nel vedere quanto nel trovarsi là”. Questa è la
sua abilità, il succo della sua professione, della sua arte. Se
la fotografia decreta notevole ciò che fotografa – dice ancora
Barthes – allora il paesaggio urbano è diventato notevole
anche perché è stato fotografato. E dunque, cosa ci comunica
questa nuova materia? Perché di una nuova materia deve
trattarsi, non è solo un linguaggio, uno stile o una voga, ma si
fonde con i processi urbanistici e li condiziona, dopo essere
transitata nella sensibilità della popolazione, orientandola.
Occorre però ricordare – è sempre il semiologo francese a
farlo - che nella foto certamente si vede tutto quel che c’è da
vedere, ma la foto non sa dire ciò che dà a vedere [Barthes, 1980].
Bisogna interpretarla, dunque; aiutarla a parlare. Ne consegue
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che qualsiasi cosa se ne dice, di quella foto, siamo noi che la
diciamo, non la foto. Questa osservazione tende a favorire una
co-operazione tra fotografo ed esperti di altre discipline, come
è, nel nostro caso, l’urbanista. Ma con quali risultati? Si può
documentare con certezza qualche caso in cui la fotografia ha
convinto un decisore a demolire, costruire, modificare, come
conseguenza dell’aver visto quella foto, come presa d’atto del
suo messaggio?
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1. LA CITTA’ DEI FOTOGRAFI
1. Prendere nota dei luoghi, non dei fatti.
In una fotografia molto nota si vede una strada fiancheggiata
da portici monumentali, nel cuore del centro storico di una città
italiana, ed è subito evidente che si tratta di Bologna. La ripresa
è fatta all’altezza dell’incrocio con una via secondaria, anch’essa
porticata. L’immagine è molto contrastata, le ombre si alternano
alle luci in modo netto, come in un disegno a chiaroscuro. Si capisce
bene l’intento del fotografo di mostrare la qualità urbanistica e
architettonica del luogo, e di sottolineare che conservarlo è un
debito necessario verso la sua bellezza. Parliamo di una delle
migliaia di immagini che scattò Paolo Monti nel 1969 a Bologna,
come indagine visiva finalizzata alla redazione del piano di
conservazione del centro storico.
Guardiamo un’altra immagine. Sullo sfondo di una catena di
montagne si vede in primo piano un insieme di rottami di varia
natura: ferro, pietra, mattoni, plastica, legno. Il paesaggio è duro,
scabroso, senza vegetazione. Qua e là sorgono muri, già qualche
tetto, piccole case in costruzione. Non c’è gente, è il luogo che si
impone allo sguardo, impoverito e reso sciatto dal lavoro umano.
Siamo a Park City, nello Utah, nel 1978, il fotografo è l’americano
Lewis Baltz. Anche in questo caso è evidentissimo quello che
vuole comunicarci l’autore dello scatto: l’aggressione umana alla
natura incontaminata produce rimpianto per la sua perdita, ma
anche attesa per lo sviluppo ignoto di quel germe di bellezza che
può scaturirne.
Sono due esempi molto distanti, ma entrambi esprimono la volontà
di usare la ripresa fotografica non solo come semplice registrazione
della realtà, ma come riflessione sugli sviluppi futuri dei luoghi,
pensando insomma al progetto da realizzare sul corpo della città.
1. Paolo Monti, Bologna, via Zamboni,
1969
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Nel primo caso, la conservazione del patrimonio culturale e storico;
nell’altro, la realizzazione di un nuovo insediamento in un’area
vergine. Sono tutti e due esempi dell’attenzione progressivamente
crescente che dagli anni Settanta del secolo scorso la fotografia
ha portato verso il paesaggio urbano.
Nonostante ciò, la capacità che può avere un fotografo di
perlustrare un luogo e di porgli delle domande – come e quando
si è formato, perché è diventato così – non è riconosciuta da
tutti. Eppure sono molte anche le risposte che il fotografo è in
grado di dare, se questo è davvero il suo obiettivo, se non vuole
limitarsi a constatare, ma è mosso dalla spinta di conoscere e
interpretare. Il suo compito ovviamente non è di improvvisare o
di inventare cose che non sa. Sarebbe però fuori luogo che non
provasse a raccontare e a mettere in evidenza ciò che sa, ciò
che gli è stato raccontato, quello che del luogo ha imparato a
conoscere durante il lavoro preparatorio alle riprese, che deve
essere lento, stratificato e organizzato con l’aiuto di molte persone
e molti saperi. Per questo lo sguardo del fotografo è penetrante,
indagatore, e se c’è una disciplina che più di altre può cercare di
mettere a frutto questo prezioso carattere è quella del progetto di
trasformazione e miglioramento della città contemporanea.
Si potrebbe pensare che il limite congenito della fotografia è di
fermarsi alla constatazione della realtà, di rimanere al di qua
del confine del progetto, della trasformazione, del futuro. La
fotografia avrebbe un solo tempo, il presente – e ridotto a quel
preciso momento – mentre le sono vietati sia il rapporto con il
passato che a maggior ragione quello con il futuro. Tuttavia, se lo
sguardo fotografico è perspicace e se il fotografo agisce in sintonia
con altri specialisti, le cose possono in realtà cambiare. Se ad
esempio l’urbanista interviene e fa uso della fotografia in modo
propedeutico al progetto; e ancora di più, se l’urbanista interagisce
con il fotografo nella fase di studio dei luoghi e di preparazione
dello scatto, allora la fotografia può assumere un senso ulteriore,
che è sia ricostruzione del passato che svelamento del futuro,
indicazione di potenzialità. Un caso anche più evidente è quando
la fotografia mostra i cantieri, cioè i luoghi in trasformazione. Allora
fotografa il progetto, appunto. Ed è possibile allora rendersi conto
di come le metropoli potrebbero diventare, perché la foto avviene
nel momento in cui la trasformazione sta producendosi.
2. Lewis Baltz, dalla serie Park City,
1978-79
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Cesare Zavattini, commentando il lavoro che il fotografo americano
Paul Strand eseguì a Luzzara nei primi anni Cinquanta, diceva che
il suo occhio era in grado di prendere le due dimensioni, l’essere
e il farsi. L’idea del farsi ci sembra coincidere con il percorso che
si sviluppa attraverso il progetto, qualunque progetto dei luoghi.
E dunque sarebbe, questa, un’ammissione implicita che un
fotografo può avventurarsi a suggerire un “dopo”, a indicarlo nella
sua fotografia.
Secondo Anthony Vidler, il critico americano autore di un
celebre libro sul perturbante in architettura, esistono delle verità
architettoniche assodate che è bene mettere in discussione e
verificare costantemente. Questo ha fatto, nel corso del Novecento,
il modernismo, e lo fece con l’aiuto del cinema e della fotografia
[Vidler, 2006]. Quest’ultima dunque può, anche oggi, prendere
un compito che ha già avuto storicamente, di analisi critica del
paesaggio urbano e dell’architettura del Novecento. La fotografia
è dotata di una notevole capacità critica. E deve usarla al meglio
delle sue potenzialità, anche in funzione di de-mistificazione o
almeno di svelamento. Ed infatti essa ha costruito, soprattutto
nell’ultimo quarto del Novecento e fino ad oggi, un’interpretazione
collettiva delle città, con propri percorsi di ricerca originali ed
autonomi che hanno contribuito in modo determinante alla
definizione di un’idea di paesaggio urbano e, attraverso questa,
alla formazione di strategie progettuali e dunque di interventi che
hanno concretamente modificato la forma delle città.
Ma quando si è cominciato a parlare di paesaggio urbano? In
altre parole: quando si è iniziato a credere che la città è una forma
particolare di paesaggio, che esiste un paesaggio urbano in
termini suoi propri e distinti da quello classico, naturale, o rurale?
La storia dell’arte ci ha consegnato molte vedute urbane, dove
però prevale l’aspetto contemplativo dei caratteri monumentali
delle città maggiori. Le origini della nozione di paesaggio urbano
vanno però cercate piuttosto nella disciplina urbanistica, che ha
per oggetto la forma della città e il suo disegno. Troviamo allora il
concetto di impatto visivo della città in Townscape, un libro del 1961
dell’urbanista inglese Gordon Cullen. L’autore mette in evidenza
la particolare forza espressiva propria di piazze, slarghi, strade,
sottolineando che è essa stessa un ingrediente del progetto che
li concerne. Per spiegarla usa delle fotografie, rafforzandone
l’interpretazione con lo schizzo a mano libera. E questo particolare
rivela che la fiducia nell’autonomia interpretativa dell’immagine
fotografica è in fondo ancora limitata.
Un ventennio più tardi, con la campagna fotografica governativa
francese della DATAR della metà degli anni Ottanta, si
stabiliscono i caratteri della ricerca fotografica contemporanea
sulle trasformazioni territoriali, ivi comprese quelle urbane.
Questo colossale sforzo di descrizione del paesaggio francese
contemporaneo partiva dal principio per cui nella rappresentazione
dei luoghi la fotografia è un modo di trascrizione di una sensazione,
non di riproduzione di un fatto [Latarjet, 2010]. Tra le sensazioni può
esserci anche l’idea, la prefigurazione di un futuro dei luoghi, e
dunque un principio di progetto di trasformazione degli stessi.
Il progetto in fin dei conti è un sentimento, significa pre-sentire
ciò che i luoghi potranno essere, come potranno diventare. Se si
ammette che esista questa facoltà della fotografia, allora si può
3. Paul Strand, Luzzara, 1953
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ammettere anche che tra le facoltà ci sia quella di indicare una via
del progetto, rilevando potenzialità, punti di forza, di resistenza o
di malleabilità. Mai come oggi i valori classici del paesaggio sono
diventati caduchi e non sono stati rimpiazzati. Siamo in un periodo
di ricerca, e la fotografia è tra le arti quella che più insistentemente,
negli ultimi decenni, ha indagato l’ambito di questa ricerca.
Il nuovo sguardo che si forma in quegli anni assegna una decisa
preferenza alla fotografia che mostra quel che c’è, non quel che
avviene. Accettare questo punto di vista – come fa ad esempio
Gabriele Basilico – significa ovviamente scegliere una collocazione
alternativa a pratiche fotografiche diverse. Esiste, beninteso, e
Basilico non lo sminuisce, il foto-giornalismo, la tradizione dei
fotoreporter, la ricerca dello scatto che coglie il momento decisivo
di un avvenimento. Ma il superamento di – o anche soltanto la
presa di distanza da – questa pratica conduce a una fotografia
più riflessiva e interpretativa della realtà dei luoghi, anziché degli
eventi. E’ lo sguardo lento e riflessivo sulle cose, sulle ragioni
del loro esistere che costituisce il centro del lavoro fotografico.
Il fissarsi dell’obiettivo su fenomeni, come quello dello sviluppo
urbano, che dagli anni Settanta ad oggi prendono un rilievo
epocale e mondiale, costruisce un nuovo genere, il paesaggio
urbano.
Il nostro paese, concluso il periodo della ricostruzione e poi
del boom economico, vive anch’esso la crisi post-moderna dei
grandi modelli ideali, politici, religiosi, narrativi. La città della
frammentazione spaziale e psicologica riflette il tramonto delle
grandi ideologie totalizzanti, rigide visioni del mondo che lasciano
il posto all’urgente necessità di integrare le culture e le componenti
sociali.
L’immagine urbana registra puntualmente gli effetti indotti dalla
massificazione e poi dalla globalizzazione degli stili di vita, dalle
grandi migrazioni e dai conflitti culturali e religiosi, dalla crescita
delle tecnologie informatiche con la conseguente indifferenza
della localizzazione di molte attività, dal declino dell’industria
manifatturiera e dall’enorme facilità negli spostamenti della
popolazione per lavoro e per turismo.
La fotografia, con la sua capacità di riflessione e di forte
coinvolgimento emozionale, porta all’attenzione collettiva gli effetti
di processi spesso ancora in corso e di difficile interpretazione, e
va così a riempire lo spazio che altre modalità di indagine hanno
lasciato vuoto: per fare un esempio, l’arte figurativa, storica
interprete di mille vedute urbane, segue in quegli anni percorsi
di tipo aniconico e performativo che non sempre riflettono con
precisione e immediatezza la realtà metropolitana delle città
maggiori. Tanto che alcuni temi divenuti poi centrali nel dibattito
sulla città - come la scadente qualità delle periferie, la crisi di
significati dello spazio pubblico e dei luoghi della comunità, la
convivenza difficile e spesso impossibile tra forme della tradizione
locale e innovazione architettonica – sembra siano stati indicati e
dunque in larga misura introdotti nel dibattito dalla fotografia, e solo
in seguito sottoposti all’agenda delle pubbliche amministrazioni e
alla riflessione degli studiosi. Sono stati i fotografi a costringere gli
architetti a confrontarsi di nuovo con il paesaggio, e in particolare
con il paesaggio urbano; cosa che da tempo ormai avevano
smesso di fare, confinati in una dimensione teorica e lontana dalla
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realtà, e assumendone al più una rappresentazione idealizzata
[Nicolin, 2006].
La situazione italiana presenta peculiarità dovute ai caratteri dello
spazio storico-geografico: cento piccole città, molto integrate
nell’ambiente rurale, e uno sviluppo metropolitano che confligge
con la ricca sedimentazione culturale del territorio. Sono, questi,
caratteri molto evidenti nel caso dell’Emilia-Romagna: i centri
urbani, in origine di piccole dimensioni, si sono via via saldati nella
città lineare della via Emilia - la vera metropoli del nord sub-padano
- e nella urbanizzazione continua della città adriatica. Qui hanno
operato alcuni importanti fotografi di paesaggio italiani, chiamati
da amministrazioni pubbliche a documentare aspetti del territorio
regionale. Il caso più noto è quello di Paolo Monti, che tra la fine
degli anni Sessanta e la metà dei Settanta ha contribuito in modo
estensivo a indagini urbanistiche e campagne di rilevamento dei
beni culturali e dei centri storici, fissando un’immagine dell’azione
conservativa ancor oggi viva al punto da condizionare la ricerca
visiva in questo settore.
L’opera di Luigi Ghirri si sviluppa in modo autonomo e personale,
spesso al di fuori di specifiche committenze pubbliche, e dalla
metà degli anni Ottanta sembra indicare percorsi di ricerca
complementari se non addirittura antitetici rispetto all’immagine
che gli enti territoriali emiliano-romagnoli hanno voluto nel
frattempo dare di sé e delle ragioni del proprio operare. Oggi
ci pare che – piuttosto che quello ufficiale - sia stato lo sguardo
libero di Ghirri il vero sguardo produttivo di senso, capace di
costruire una ricerca visiva appropriata sul fenomeno urbano, e di
restituirne frammenti di interpretazione e comprensione.
Le strade indicate da Ghirri e da Monti sembrano seguire traiettorie
prossime ma parallele: nel primo caso si tratta di un pensiero
debole, ironico, perfino interrogativo e perennemente inconcluso,
nell’altro di uno sguardo carico di assiomi che cercano nella
fotografia una dimostrazione visiva definitiva e incontrovertibile.
Sono due stili che segnano i percorsi anche di altri autori. Gabriele
Basilico opera nel solco di Paolo Monti, contribuendo a costruire
un paesaggio urbano monumentale e malinconico, fortemente
connotato da temi postmoderni come la dismissione industriale, e
avvicinando in un’unica infinita descrizione tutte le città del mondo,
fino a creare una sorta di supercittà analoga e ubiqua. Altri sono i
percorsi seguiti da chi individua nella mostra dei New Topographics
americani del 1975 il proprio modello di riferimento, tra tutti Guido
Guidi, e con lui i fotografi che operano per l’associazione Linea
di Confine di Rubiera, impegnati in una ricerca minuziosa e
ostinata del banale che affligge la quotidianità della scena urbana
contemporanea. Quasi sempre i fotografi agiscono in coppia con
studiosi, storici ed urbanisti che influenzano in modo più o meno
determinante la loro visione: Andrea Emiliani e Pierluigi Cervellati
nel caso di Monti, Vittorio Savi e Aldo Rossi per Ghirri, Stefano
Boeri per Basilico, Bernardo Secchi per il gruppo di autori di Linea
di Confine.
Lo sguardo fotografico sulla città interagisce in vario modo con
gli orientamenti e le scelte dell’urbanistica. Ci si può domandare
se è possibile mettere a sistema questa ricchezza di sguardi
complementari alle discipline del cosiddetto “governo del
territorio”, rendendoli disponibili per il progetto urbano in maniera
4. Luigi Ghirri, Scandiano, 1985, dalla
serie Paesaggio italiano, 1980-92
5. Guido Guidi, Zona industriale di
Pievesestina
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più continua ed efficace ed evitando il più possibile che il loro
discorso critico si insterilisca in posizioni radicali e contrapposte:
usando da una parte la fotografia come denuncia della perdita di
una forma urbis classica, per invocare il ritorno alla città bella premoderna; dall’altra accettando l’esistente e rifiutando di fatto ogni
speranza progettuale.
L’utilizzo sempre più frequente della pratica fotografica nei
laboratori di urbanistica partecipata, il proliferare di gruppi e
associazioni attive in questo campo fanno credere che la ripresa
di collaborazione e dialogo tra fotografi e urbanisti - che negli anni
Settanta sembrò una positiva innovazione portata dal dialogo
interdisciplinare - possa condurre a una specifica modalità
narrativa per il paesaggio urbano italiano, precisandone un’idea
originale ed autonoma.
Nell’oscillazione – a volte impercettibile, ma continua – tra
osservazione e trascrizione della realtà e interpretazione dei
luoghi, si nasconde un conflitto tra etiche fotografiche diverse. Se
l’osservazione pura aggiunge profondità alla riflessione, ha però
il limite di trascurare gli aspetti sociali, storici, di isolare i luoghi in
un tempo sospeso, strappato via dal tempo reale, dall’evoluzione
continua. In questo senso, l’eccesso di constatazione può essere
un limite per il progetto, può togliere alla fotografia le potenzialità
progettuali che, come si è detto, essa può avere. Un certo
spirito voyeuristico è il rischio incombente verso cui la fotografia
di paesaggio può essere spinta, e questo rischio può essere
ingigantito dalla perdita della fiducia nel progetto che caratterizza
questi ultimi decenni, gli anni post-moderni.
Rem Koohlaas ha definito gli anni Sessanta come l’ultimo
periodo di fiducia nell’architettura. Oggi siamo come paralizzati
dall’enorme peso che ci scaricano sulle spalle le sfide contro
l’urbanizzazione, l’inquinamento ambientale, il traffico. “Come
trasformare positivamente lo sprawl della città diffusa è uno dei
grandi problemi rimasti per ora senza risposta” [Gregotti, 2011].
Viviamo in una società e in un tempo incapaci di progettare il
futuro, e in questo senso un eccesso di consapevolezza del
reale può essere un limite, e l’approccio documentaristico che
ha caratterizzato in senso positivo la fotografia, quando c’era da
recuperare un rapporto profondo con la realtà, può oggi diventare
un handicap, quando al contrario c’è da recuperare la perduta
capacità di formarsi un ideale [Marini, 2011].
Se la vicinanza prima, e l’appartenenza poi, della fotografia
all’arte concettuale le ha consentito per i quarant’anni dai Settanta
a oggi di diventare l’interprete più incisiva delle trasformazioni
fisiche e sociali del nostro ambiente di vita, oggi l’eccesso di
concettualizzazione può diventare un ostacolo ad esprimere ipotesi
conclusive di questa continua riflessione. Anche la fotografia –
e quella urbana in particolare, visto il ruolo sempre crescente
delle grandi città, in senso demografico, economico, sociale - ha
oggi di fronte a sé il compito di accentuare la sua capacità di
prefigurazione progettuale, a maggior ragione in un momento in
cui il progetto viene sempre più rappresentato attraverso immagini
fotografiche e sempre meno tramite il disegno.
Per almeno un decennio i paesaggi metropolitani, pur mostrandosi
in più occasioni come uno svilimento delle risorse estetiche,
naturali, sociali, architettoniche, hanno reclamato il loro diritto
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a esser paesaggi in virtù del fatto che sono ambienti di vita dei
cittadini, con ciò rispondendo ai requisiti della Convenzione
Europea del paesaggio del 2000. Oggi, le tematiche identitarie,
la necessità di riconoscere i percorsi diversificati delle microstorie
delle diverse comunità, l’autoaffermazione di sé che è ormai uno
dei tratti caratteristici della nostra società sono tutti fattori che
spingono a dare peso alla piccola dimensione e alla partecipazione,
come caratteri salienti e imprescindibili del progetto urbano
contemporaneo. Sono questi gli orizzonti attuali che anche la
fotografia sta contribuendo a esplorare: una crescente ostilità
verso la bigness – che è stata per decenni la connotazione
principale della metropoli e il suo fattore di successo comunicativo
-, la centralità dell’individuo e del cittadino nelle scelte, la comunità
che torna a proclamarsi interprete della propria evoluzione, il ruolo
crescente che la politica deve assumere, o meglio ri-assumere,
nelle scelte della pianificazione urbanistica [Palermo, 2010].
2. Prima della fotografia, e nel frattempo.
Nella seconda metà dell’Ottocento, la fotografia diventa pietra di
paragone per la pittura. Considerata strumento di registrazione
fedele del dato reale, diventa riferimento per le sperimentazioni
antiaccademiche. Nel Dizionario dei luoghi comuni di Gustave
Flaubert (1874-80), alla voce Fotografia è scritto: “Detronizzerà
la pittura”. Oggi sappiamo che non è stato così, ma era difficile
rendersene conto pochi decenni dopo l’invenzione che pareva
destinata a rivoluzionare il modo di rappresentare la realtà.
La fotografia non si è sostituita alla pittura perché non ambiva
farlo, è diventata un’arte di per sé, con regole e obiettivi propri,
e una sua estetica autonoma. Ma l’entrata della fotografia nel
mondo dell’arte è recente, è avvenuta non molto prima degli anni
Settanta del secolo passato. Prima, poteva essere considerata un
supporto per l’arte. Uno strumento al servizio della pittura, come
lo è stato per varie discipline scientifiche, e per l’archeologia,
per lo studio dei monumenti, e via via per il giornalismo, per la
documentazione delle scene dei crimini e per la determinazione
della verità processuale, per la pubblicità commerciale, per la
promozione del turismo, ecc. A lungo la fotografia ha vissuto un
ruolo ancillare, subalterno; è stata solo un documento freddo e
poco espressivo. Basta ascoltare Marcel Proust, quando scrive
di “certe fotografie di una persona, guardando le quali ci par di
ricordarla meno bene di quando ci accontentiamo di pensarla”
[Barthes, 1980].
L’apporto della fotografia alla descrizione del paesaggio urbano
contemporaneo costituisce l’ultimo capitolo di una lunga storia
che attraversa l’arte figurativa dei secoli precedenti. La città
si affaccia alla storia dell’arte dapprima come sfondo nelle
pitture rinascimentali, prende poi un ruolo di primo piano nelle
icnoscenografie cinque e seicentesche, parenti strette delle
odierne vedute da elicottero. La veduta urbana più celebre e
apprezzata è soprattutto quella della pittura olandese, Vermeer
su tutti; nel Settecento sono celebri Canaletto e Bellotto, mentre
Piranesi innesta la divagazione fantastica nel corpo della visione
architettonica.
Nell’Ottocento il fenomeno prende dimensioni gigantesche. Le
città riempiono le tele di Van Gogh, tanto che i suoi dipinti sono
6. Jan Vermeer, Veduta di Delft, 1660
7. Antonio Canal, detto Canaletto,
Canal Grande da Ca’ Balbi verso Rialto,
1720-23
8. Bernardo Bellotto, La Hofkirche di
Dresda con il Castello e il Ponte di
Augusto (Dresda dalla riva sinistra
dell’Elba), 1748 ca
13
l’espressione più evidente del disagio psichico indotto dalla vita
urbana. Gauguin, in modo analogo, si rese interprete di un rifiuto
della modernità che addirittura lo spinse alla fuga in Oceania. Sul
campo opposto stanno Pissarro, cantore dei boulevards di quella
Parigi che è stata chiamata la capitale del XIX secolo, e Monet,
con la sua Gare Saint-Lazare, celeberrimo inno alla ferrovia e al
suo ingresso in città. Essi si servono della fotografia per la loro
pittura, e l’effetto è evidente nella scelta dei soggetti e del punto
di vista da cui descriverli, nel taglio della composizione e in una
certa resa della profondità di campo, dichiaratamente fotografica.
L’esplosione del genere urbano con l’Impressionismo si deve
in larga misura a una rivoluzione tecnologica: quando i colori in
tubetto consentono di dipingere senza difficoltà en plein air; la città
diventa un soggetto da rappresentare in tutte le sue componenti
fisiche e sociali, piazze e folla, mezzi di trasporto e mercati. Di qui
in avanti il dialogo tra pittura e fotografia si infittisce, si arricchisce
di scambi e contrasti, in una incessante corsa a superarsi. Pissarro
dipinge raccontando la città come bellezza inquietante, Atget e
Marville usano l’obiettivo per scrutare Parigi con un’attenzione
erotica, come se il suo fosse il corpo di una donna. La città ha
le forme dei sobborghi, delle cattedrali, dei bassifondi, si mostra
nei porti e nei mercati, è abitata da mendicanti, prostitute, operai
– tra i più celebri, quelli che costruiscono i grattacieli di New York
stando appesi lassù nell’intrico delle travi di ferro.
Boccioni e Delaunay registrano i caratteri della città esplosa del
Novecento, sforzandosi di arrivare a captarne i suoni, gli odori, il
frastuono. Alla Torre Eiffel parigina fa da contrappunto simbolico
della vitalità urbana newyorkese il Ponte di Brooklyn, dipinto in
varie serie da Joseph Stella. Sul fronte dei fotografi stanno le
immagini dell’Empire State Building di Lewis Hine e di Alfred
Stieglitz. Tra i molti altri, Edward Hopper e Mario Sironi, Otto Dix
e Max Beckmann, El Lissitskij, De Chirico e Mondrian dipingono
immagini di paesaggi urbani. La lista è ovviamente interminabile.
Quando però, alla metà del secolo ventesimo, inizia il predominio
dell’Informale, la pittura comincia a tacere, e la fotografia prende
quota, rimpiazzandola progressivamente.
Con la scena urbana la fotografia intrattiene fin dall’inizio un
rapporto molto stretto. E’ figlia dello sviluppo della tecnologia e
dell’industria, e dunque non può che sentirsi sorella della città
nata in quegli stessi anni per effetto della rivoluzione industriale.
La prima fotografia di Nicephore Niepce rappresenta un
paesaggio urbano visto dalla finestra. Siamo nel 1827. Questa
relazione matura in seguito attraverso capostipiti come Daguerre,
Fox Talbot, Bayard ed altri mitici pionieri, e infine con il lavoro di
Eugene Atget, che all’inizio del secolo Ventesimo costruisce una
minuziosa immagine di Parigi, il campo di studi privilegiato nei
primi lustri della tecnica fotografica.
La fotografia ambisce subito a sostituirsi alle arti figurative
nel raccontare la città. Esaurito il movimento impressionista
- e archiviate, più tardi, le narrazioni potenti dei cubisti e dei
costruttivisti - la fotografia e il cinema, nuove arti industriali e a
grande diffusione, prendono progressivamente il sopravvento
sulla pittura nei primi due terzi del Novecento. Il paesaggio urbano
prende forma come crudo racconto delle problematiche sociali
indotte dalla dimensione urbana crescente e dalla concentrazione
14
9.Claude Monet, Gare Saint-Lazare,
1877
10. Eugene Atget, Il Pantheon, 1925
11. Edward Hopper, La città, 1927
12. Walker Evans, Truck and Sign,
1928-30
di una grande massa di popolazione in aree sovraffollate. Weegee
negli Stati Uniti, Cartier Bresson in Francia divulgano immagini
fotogeniche della città babelica, piene di carica emozionale e così
realistiche da essere comprensibili per tutti.
Gli scritti degli anni Trenta di Walter Benjamin possono essere
visti come le didascalie più adatte alle fotografie contemporanee
di autori come August Sander e Albert Renger-Patzsch. In modo
del tutto analogo, i mille tipi umani di Brassai costituiscono il
commento visivo delle nascenti discipline antropologiche e
sociali. Una delle grandi madri della fotografia contemporanea
di paesaggio, la Farm Security Administration americana – il
survey promosso da Roosevelt negli anni Trenta sulla condizione
rurale - si rivolge più alla campagna che alla città, ma uscendo
da quella esperienza Walker Evans comincia anche a fotografare
la città come un corpo compatto, finito, riconoscibile, dotato di
confini, per quanto allargati. Le architetture configurano gli spazi
urbani, pieni e privi di orizzonte; quelli rurali, al contrario, sono
rarefatti, larghi, distesi. C’è una opposizione visiva tra le due
scene, una contrapposizione chiara e netta che non può lasciare
dubbi e alimenta certezze sulla forma del mondo in cui viviamo.
L’oggettività è una prerogativa che la fotografia vuole per sé,
come dimostrano le contemporanee fotografie del dipartimento di
polizia di Los Angeles che catalogano i cold cases dell’epoca con
scientifica brutalità.
Negli anni Settanta del Novecento si crea una tendenza che deriva
da queste esperienze americane della fotografia documentaria
degli anni ‘30 e cerca una aderenza al reale, ma al tempo stesso si
avvicina al concettualismo e alla performance, generi tipici dell’arte
di quegli anni; e ancora, si connette alle esperienze del Bauhaus,
nella sua tensione a sperimentare nuovi linguaggi; e infine prende
qualche spunto da urbanisti americani come Kevin Lynch e Jane
Jacobs e inglesi come Gordon Cullen, e dalla loro originale ricerca
sugli effetti percettivi della costruzione e dell’arredo dello spazio
abitato e di quello pubblico. L’insieme di tutte queste cose genera
una nuova sapienza della fotografia nel rappresentare la scena
urbana, un ruolo che è più progettuale rispetto al vedutismo
classico, se si intende per progetto un’idea che connette passato,
presente e futuro. Questo segna un nuovo genere di paesaggio
urbano fotografico, e dà il via a una produzione ingente di
immagini, in grado di orientare e condizionare la visione comune
molto più di quanto non sia avvenuto nei decenni precedenti.
13. Albert Renger-Patzsch, Terreni a
Bochum, 1929
15
Negli anni Settanta del Novecento ha preso forma un’attitudine
allo sguardo in larga misura diversa da prima, che ha prodotto
un corpus fotografico caratteristico, ispirato da molte domande
nuove, alla ricerca di spiegazioni di fenomeni inediti, che la città
registrava proprio in quegli anni di crisi e di trasformazione. E’
questo il momento nel quale avviene il superamento del reportage
classico fondato sul momento decisivo bressoniano, e la fotografia
scavalcata da altri media perde la sua funzione narrativa e diventa
strumento di lavoro per gli artisti, spesso in chiave concettuale;
dopo quegli anni, che costituiscono l’immediata premessa per il
suo “decollo”, vengono gli anni Ottanta e Novanta, nei quali la
fotografia consolida la sua posizione e approda alla sua fase di
massima espansione” [Valtorta, 2005].
3. Sfiducia postmoderna.
All’inizio degli anni Settanta, la città diventa la scena più idonea
per rappresentare la crisi della post-modernità [Harvey, 1993]. Si
fa sempre più frequente il caso di fotografi che, spinti da puro
intento di ricerca, iniziano a sperimentare la capacità di indagine
del mezzo fotografico, facendo uso delle proprie risorse di cultura
e sensibilità. Tralasciano l’aspetto sociale della città, espresso
in modo ormai definitivo nelle visioni classiche dei pionieri o nei
resoconti che grazie al foto-giornalismo invadono le case di tutti,
e cominciano a occuparsi di quello paesaggistico, con l’obiettivo
di trovarne il grado zero, scevro di luoghi comuni e di troppo facile
riconoscibilità, pronti a utilizzare linguaggi aspri, non fotogenici, e
per questo non facilmente ricevibili dall’universalità del pubblico.
Ponendosi, in altre parole, al di fuori della convenzionalità della
comunicazione più estensiva, sia televisiva che pubblicitaria che
turistica.
Il paesaggio delle città non è per questi autori un fatto estetico,
ma il tramite attraverso il quale si occupano di indagare la
condizione dell’uomo. L’ambiente urbano è il luogo che più di
ogni altro riflette la specificità del mondo contemporaneo, le sue
profonde modificazioni culturali, economiche, sociali. Mostrare la
scena in cui l’umanità si muove con sempre maggiore frequenza,
dove aspira vivere, da cui è attratta, è un modo molto preciso
per farne un ritratto valido almeno per tutto il mondo occidentale.
Come in precedenza, il soggetto rimane l’architettura, la strada,
la complessità densa e stratificata degli spazi, cambia però il
modo con cui si intende parlarne: la concettualizzazione della
fotografia, che avviene in quegli anni sulla spinta dei movimenti
artistici, sposta l’attenzione dagli oggetti rappresentati al loro
significato, all’uso che ne fanno le persone, al valore simbolico
che gli attribuiscono.
Tuttavia, per la sensibilità comune, il paesaggio rimane ancora
oggi un concetto che ha poco a che fare con la città. Avvicinare
l’uno all’altra è quasi un ossimoro, perché il paesaggio resta
composto di coste, monti, campagne, fiumi, alberi fino alla
metà del Novecento e oltre. In Italia, i Fratelli Alinari raccolgono
singoli frammenti monumentali e compongono un collage che
non rappresenta lo spazio delle città, ma ne isola le eccellenze.
Dall’ultimo quarto dell’Ottocento inizia il successo della cartolina
illustrata, grande strumento di condivisione del paesaggio, ben più
popolare delle vedute pittoriche. Con la prima guerra mondiale si
16
14. Los Angeles Police Department,
Scene of the Crime 197, 1944
15. Holger Trulzsch, dalla serie della
DATAR, 1984
registra la comparsa nazionale del paesaggio alpino; essenziale
per stabilire un rapporto poi mai più tramontato tra paesaggio e
nostalgia è la funzione di memoria del paese di origine che la
cartolina svolge con il fenomeno dell’emigrazione, dalla metà
dell’Ottocento in avanti.
Le pubblicazioni del Touring Club Italiano – ad esempio “Le vie
d’Italia”, rivista di geografia, viaggi e fotografia edita dal TCI dal
1917 al 1968, e dunque decisiva nell’orientare l’immaginario
collettivo del paesaggio nella parte centrale del secolo scorso –
trasmettono una impostazione per molti versi ancora elitaria e in
larga misura radicata nel pittoresco, per cui la città resta a lungo,
per definizione, l’anti-paesaggio. La veduta urbana è tollerata se
ed in quanto esprime la storia millenaria delle cento città italiane,
ne descrive le peculiarità tradizionali, ne rafforza il ruolo di origine
della storia nel mondo, di culla della civiltà.
Tra i libri fotografici dedicati alla città sono rimasti celebri Paris
de nuit di Brassai del 1932, A night in London, cruda visione
dell’inglese Bill Brandt del 1938, e ancora del 1938, Changing
New York di Berenice Abbott. La street photography nasce in
quegli anni, facendo convivere reportage e documentazione,
grande interprete ne è Arthur Fellig detto Weegee, che ritrae il
lato oscuro e violento delle metropoli.
Nel 1935 l’austriaca Lisette Model pubblica sulla rivista “Regards”
fotografie scattate a Nizza sulla Promenade des Anglais, che
ritraggono persone, spesso anziani, con il proposito di descrivere
i luoghi in modo indiretto, attraverso i loro fruitori. L’americano
Philip Lorca di Corcia, la francese Lise Sarfati, l’irlandese
Hannah Starkey, pur di diverse generazioni e con diversi
approcci continuano nel solco della street photography, così
come continua e anzi ha preso recentemente molto spazio la
ritrattistica intesa come luogo privilegiato di lettura della società
attraverso la rappresentazione delle persone. Più recentemente è
nata l’attenzione verso le pratiche amatoriali familiari [Skrein, 2004],
secondo una visione etnografica e antropologica. Le fotografie
di famiglia vengono esposte e studiate in sé come testimoni del
16. Paola De Pietri, dalla serie Madri
oggi, 2007
17
tempo e utilizzate anche da autori – tra tutti Wolfgang Tillmans,
primo fotografo nel 2000 a vincere il britannico Turner Prize – che
usano nel loro lavoro fotografie trovate. Prende così importanza
l’archivio, come interazione tra storia, passato, soggettività non
autoriale e la pratica professionale. Secondo alcuni studiosi, questo
dimostrerebbe un calo di fiducia della fotografia in se stessa, o
meglio dell’autore-fotografo in se stesso, e dunque aprirebbe un
interrogativo fondato sul modo come i fotografi possono ancora
essere in grado di rappresentare se non l’interezza del mondo,
almeno una valida interpretazione – per quanto soggettiva - di
una buona parte della realtà.
Indagando il paesaggio urbano, la fotografia prende a riflettere su
se stessa, i suoi limiti, le sue potenzialità, il suo stesso linguaggio.
In ambito italiano, questo è molto evidente in un autore innovativo
e sperimentale come Luigi Ghirri, che perlustrando la città indaga
anche sulle sequenze delle fotografie, sulla modularità delle
inquadrature. Una mostra fotografica che si tiene a Ferrara nel
1979, Iconicittà, curata appunto da Ghirri, rappresenta molto bene
questo nuovo atteggiamento della fotografia.
All’inizio degli anni Ottanta, anche i curatori della celebre campagna
fotografica francese della DATAR si rendono conto che l’arte si sta
allontanando dal mondo visibile per lidi concettuali, performance
e accadimenti vari, mentre la fotografia resta l’unico sguardo
interessato al mondo visibile, e per questo incaricano fotografi
di diversa provenienza nazionale di verificare i cambiamenti
del paesaggio come riflesso dei cambiamenti sociali. Non per
documentare, e nemmeno per narrare, ma per riflettere, questo è
il nuovo ruolo della fotografia. Uno dei fotografi invitati, Gabriele
Basilico, usa l’espressione “l’esperienza dei luoghi”, è come se
parlasse di fare un incontro con i luoghi, e sembra che si tratti di
una cosa che le altre arti non possono più fare.
Nel 1987 hanno luogo due mostre molto importanti per la
diffusione di queste nuove pratiche fotografiche. A Venezia si tiene
“Dialectical Landscapes. Nuovo paesaggio americano”, a cura
di Paolo Costantini; a Milano, “Paysages Photographies”, con
immagini del paesaggio della Francia contemporanea prodotte
17. Fratelli Alinari, Duomo e Battistero di
Parma, fine secolo XIX
18
dalla Mission photographique de la Datar tra il 1984 e il 1985.
Gli anni Settanta sono un momento di grande fiducia nella
fotografia di paesaggio, e questo si vede bene, si percepisce
la felicità della disciplina, il suo attraversare un momento di
certezze, di evoluzione, di speranza, di futuro. Il fotografo è
convinto che con la sua concettualizzazione del mondo si possano
attingere livelli espressivi e insieme di razionalità comunicativa.
L’interdisciplinarità, un credo di quegli anni, ammette la fotografia
nel consesso delle altre materie o degli altri mestieri, con la
sociologia, l’urbanistica, l’antropologia, e perfino la politica.
Oggi le cose sono molto cambiate. Oggi la multiplicittà che
abitiamo può sembrare disarmante, oltre che perturbante. E’ come
se affrontandola – affrontando il compito di descriverla, studiarla,
riprogettarla per migliorarla – ci rendessimo conto che forse non
riusciremo a farcela. Il risultato che ci consegnano i fotografi
sono indagini di struggente bellezza, ma che molto difficilmente
possono darci indicazioni, nel groviglio di contraddizioni che esse
registrano. La crescente complessità del mondo, soprattutto
dell’ambiente urbano, sconcerta, disorienta. Un fotografo
giovane e già esperto come Francesco Jodice ricorre anche al
film, oltre a fotografare. Molti autori hanno sentito la fotografia
come insufficiente ad affrontare la realtà, e fanno uso anche di
interviste, narrazioni di scrittori, raccolta di materiali di diverso
genere e provenienza.
C’è un indizio, fra i tanti, che può rivelare il disagio: il ricorso
crescente al punto di ripresa dall’alto, più elevato della statura
umana. Sembra una resa: la confessione che non si riesce più a
replicare con la stessa efficacia ciò che a suo tempo faceva con
l’obiettivo il fotografo-cittadino Paolo Monti, che semplicemente si
aggirava come un passante fra i tanti lungo le vie delle città. “Se
mi muovo al livello del terreno, non ce la farò mai a cogliere la
cresciuta e crescente complessità delle cose urbane”, sembrano
dire Olivo Barbieri e Alessandra Chemollo, Giampiero Vitali e
Paola De Pietri, tutti autori che hanno usato punti di vista al di
sopra della strada. Paola De Pietri, per un lavoro paesaggistico,
si è porta su una mongolfiera a circa 40 metri di altezza, perché
cercava “un punto di vista che fosse a metà strada tra quello
offerto dalla mappa e quello del visitatore”. Un’altezza che ha
definito “molto umana”, e che ha scelto per fare in modo che “la
distanza fosse solo fonte di chiarezza e non di separazione” [Linea
di Confine, 1997].
L’altro indizio è il ricorso alla immagine in movimento come
mezzo integrativo della visione statica della fotografia. Voci,
interviste, volti per rappresentare la molteplicità e per far fronte
alla complessità. L’atteggiamento fiducioso di un tempo è sparito.
E’ sparito il tempo in cui il fotografo “se la sentiva” di affrontare
la città senza particolari problemi. Con gli anni duemila è come
se i fotografi si dichiarassero incapaci, o almeno meno capaci
di prima. Francesco Jodice fa progetti che dichiarano nella loro
stessa struttura il bisogno della presenza di qualcun altro, quasi
del suo aiuto: come quando segue i movimenti delle persone, o per
meglio dire le insegue, le pedina, come se solo attraverso il loro
muoversi negli spazi urbani questi ultimi prendessero significato
e senso. Molti giovani fotografi prevedono la partecipazione di
persone qualunque come co-autori, desiderano far fotografare
19
anche gli altri. Chiedono agli abitanti le loro vecchie fotografie,
come se solo la vita vera, ripresa senza regia alcuna, potesse
farci giungere un’emozione.
Gli anni Settanta ci hanno mostrato una felicità del fotografare che
si è spinta fino agli anni Ottanta, e poi è regredita come una bassa
marea e ha lasciato i fotografi soli con la loro azione incessante,
raffreddandone lo sguardo. Ma proviamo a ricostruire la storia di
questi quarant’anni cruciali.
4. Paesaggio come senso dei luoghi.
Lo sviluppo del concetto di paesaggio urbano fotografico passa
per tre fasi successive e distinte. Con la nascita della fotografia
(secondo molti autori, il 1839) e fino al primo ventennio del
secolo successivo, resta saldo il punto di vista del positivismo
ottocentesco: è la fotografia – non tanto il fotografo – che ci
mostra la città, nel senso che è radicata la convinzione nella
oggettività assoluta del mezzo fotografico. Non si può parlare di
sguardo, proprio perché sembra quasi che dietro l’obiettivo non
ci sia una persona, e che la macchina operi praticamente da
sola, in modo meccanico. La convinzione nell’oggettività prende
origine dal confronto impari tra il processo fotografico, basato
sull’ottica e la chimica - dunque scientifico, e ritenuto proprio
per questo non dubitabile - e la creatività del pittore, interprete
assolutamente soggettivo (e tanto più evidentemente soggettivo
nel periodo dell’Impressionismo). Per questo tutti pensano che la
fotografia ritrae senz’altro la città così come essa è. Da questa
prassi fotografica discendono ad esempio le immagini dei fratelli
Alinari, e infatti esse non vengono mai divulgate con il nome del
fotografo, ma della sola ditta produttrice.
Una seconda fase è quella che copre i primi due terzi del secolo
ventesimo, e che agli inizi si sovrappone, almeno in parte, con
prassi tipiche della prima fase. Il fotografo come autore comincia
qui a prendere importanza, e si dedica infatti con personale e
intensa partecipazione a trovare i testimoni viventi della vita urbana
e delle sue tipicità, soprattutto delle sofferenze e delle difficoltà
che le sono proprie. La città viene identificata con la società che
essa sta producendo, il fotografo esce allo scoperto e si chiama
Marville, Atget, Sanders, Weegee, Cartier Bresson. Ecco che
allora prende piede un paesaggio urbano meno monumentale
e statico, più permeato della soggettività dell’interprete. Ma la
macchina fotografica resta tuttavia un confine ben netto tra chi
guarda e chi è guardato, da una parte c’è l’oggetto – la città, e
perfino i suoi abitanti sono oggetti da osservare e riprodurre – e
dall’altra il soggetto che inquadra la scena, sceglie l’attimo, ha il
privilegio e la capacità di esserci, nel posto giusto al momento
giusto. Ora questo soggetto c’è, ed è un artista (prima che lui
ci fosse come tale, c’era l’arte fotografica), e l’immagine che
produce è un documento della realtà che lui ha saputo cogliere,
lui e non altri.
Intorno agli anni Settanta del Novecento, e ancora più diffusamente
dagli anni Ottanta, sembra che non sia più il fotografo a raccontare
la città, ma quest’ultima a raccontarci di sé e di noi attraverso il
fotografo. Che resta certamente autore, anzi prende sempre più
risalto come tale. Ma in un certo senso subisce l’influsso di ciò
che decide di fotografare. Le persone escono di scena, la scena
20
urbana resta vuota - ma proprio per questo anche più carica di
presenze, perché non essendoci nessuno ci sono tutti, tutti sono
presenti nelle tracce che lasciano, nei segni della loro vita, del
loro uso. Si inverte il rapporto tra soggetto ed oggetto, il fotografo
diventa portatore di uno sguardo oggettivo, e la città fotografata
diventa il soggetto parlante.
Questa fase ha contato molto nella nostra percezione collettiva
del paesaggio urbano, nel trasformare i nostri gusti e le nostre
opinioni in merito. Resta lungamente attiva - lo è ancora - ed è
quella che vogliamo descrivere nelle pagine seguenti. Prendendo
il punto di vista della città, che è il soggetto parlante, più che
del fotografo-artista. E dunque parlando molto e soprattutto
dell’urbanistica come disciplina che studia e progetta le città,
oltre che della fotografia. Cercando di vedere come tra le due
materie si sia intrecciato un rapporto molto stretto in questi ultimi
quarant’anni, mentre prima era più distaccato e la fotografia
frequentava più spesso altre discipline, come la sociologia o
l’antropologia. Un rapporto – quello tra urbanistica e fotografia
– che com’è naturale si concretizza nel rapporto tra urbanisti e
fotografi, che spesso è molto fertile ma che ciò nonostante a volte
non mantiene le molte promesse e precipita per lunghi periodi in
una reciproca indifferenza che alla fine impoverisce il progetto e
per conseguenza la qualità degli spazi urbani realizzati.
Con gli anni Settanta nasce una fotografia di paesaggio urbano
che non ha il solo scopo di rappresentare, ma anche di fornire
interpretazioni. L’immagine non deve essere passivamente
guardata, chiede invece l’attenzione e il coinvolgimento
dell’osservatore. Attraverso l’immagine si possono interrogare
gli ambiti e gli spazi, essa sfoglia gli strati di senso delle cose
[Bodei, 2011]. Il fotografo agisce spesso dopo essersi documentato
a fondo su ciò che fotografa, il suo non è un lavoro intuitivo, ma
di ricerca. La ricerca visiva dei fotografi è infatti confrontabile con
altre ricerche sia di tipo fisico-quantitativo (rilievi e cartografia di
vario genere, dati statistici, ecc.) sia qualitativo (indagini storiche
e sociali, interviste, ecc.) che di norma sono svolte prima della
progettazione, e contribuisce a definire l’assetto dei luoghi, in
modo non neutrale ma già implicato con il progetto. Ogni tecnica
di misurazione-interpretazione, non escluse quelle ritenute più
18. Philip Lorca di Corcia, New York,
1998
21
scientifiche, come ad esempio la statistica, è in grado di schierarsi
dalla parte di ciò che deve essere dimostrato, e così a maggior
ragione fa la fotografia, tanto è vero che a più riprese si è insistito
su quanto sia apparente e fittizia la sua vicinanza con la realtà
[Smargiassi, 2009].
Mostrare o non mostrare qualcosa è una scelta sempre possibile,
e la cosa - presente o assente - assume per questo significati
precisi. Selezionare, escludere, includere sono indubbiamente
pratiche progettuali – questo è molto percepibile nel caso di Paolo
Monti, che spesso nelle sue immagini dei centri storici esclude i
brani della città moderna, che non gli interessa. E analogamente
sono strumenti del progetto il ripetere, il ribadire, ad esempio con
le sequenze di oggetti, di forme; mettere in primo piano o sullo
sfondo; usare la luce in modo enfatico o deprimente; sfuocare,
contrastare poco o molto – cosa che dà ovviamente risalto e
valore diversi alle architetture, agli oggetti. E ancora: ammettere le
persone o escluderle. Fotografare le persone come se il fotografo
non fosse visto, o al contrario lasciare che le persone si mettano
in posa e guardino il fotografo, dichiarino che sanno che sono
personaggi e non (solo) soggetti sociali. Si può percepire anche il
grado di vicinanza o distacco del fotografo rispetto ai luoghi, alle
cose, alle persone, lo si capisce molto bene dal tipo di fotografia,
se rubata o a posa lunga, se presa da un luogo elevato, evidente,
o da un luogo riparato e nascosto.
Tutto questo la dice lunga sul significato che il fotografo dà a ciò
che raffigura: quanto affetto e quanta condivisione si percepiscono
dall’immagine, o al contrario quanto disagio, che tipo di distanza.
Anche questi sono ingredienti che la disciplina urbanistica e il
progetto urbano possono utilizzare, perché esprimono l’attuale
stato dei luoghi, la considerazione sociale, politica, estetica di cui
godono presso la popolazione. Attraverso la fotografia i luoghi
ci possono dire quanto essi sono assorbiti dalle coscienze, dai
cittadini, e dunque dalla città stessa nel proprio corpo. E poi c’è
sempre il gesto più radicale, a dimostrare quanto sia poco neutrale
l’immagine fotografica: decidere di non mostrare qualcosa,
relegare una immagine possibile nel mondo di quelle mai nate
significa escludere i significati di cui essa potrebbe essere
portatrice all’interno della lunga prassi del progetto, nel senso
polisemico e poli-procedurale che vogliamo qui considerare. Che
comprende tanti momenti in successione o in compresenza: il
momento in cui una questione sul territorio viene sentita come
un problema da risolvere o una risorsa da valorizzare (da parte
di qualcuno, o dalla collettività); la riflessione che ne consegue,
nelle sue varie tappe e modalità disciplinari e professionali;
la discussione, la definizione di scelte e strategie; l’approccio
progettuale vero e proprio, inteso come messa in campo delle
tecniche di progetto; le fasi partecipative, quelle approvative,
l’apertura dei cantieri, la realizzazione, il collaudo, la presa di
possesso da parte dei fruitori, la gestione effettiva, e via via anche
lo sfruttamento, il deperimento, la distruzione ovvero il recuperoristrutturazione-trasformazione. In tutte queste fasi la fotografia
può essere chiamata a monitorare, e il suo monitoraggio influenza
le scelte e dalle scelte è influenzato, in un bottom-down continuo.
Ogni fotografia di paesaggio urbano è la documentazione di un
momento di questi processi da parte di un operatore certamente
22
non inconsapevole e comunque orientato in modo preciso.
C’è poi il significato che l’osservatore attribuisce a ciò che è
raffigurato. La stessa immagine può essere interpretata come
denuncia di qualcosa di sbagliato o accettazione pura e semplice
dello stato delle cose. La fotografia di paesaggio urbano può
esser vista ad esempio dalla parte dei fotografi e dalla parte degli
urbanisti, non necessariamente i due punti di vista coincidono.
Vista dalla parte degli urbanisti, assume forza, rilievo e importanza
la fotografia che contiene uno sguardo progettuale. Non
necessariamente la cosa ha la stessa importanza per i fotografi,
che spesso hanno invece accentuato la componente concettuale
priva di progettualità e piena invece di constatazione, di riflessione
sullo stato di fatto. E’ evidente che le due cose sono diversissime,
perfino contrastanti, quasi opposte. O almeno possono sembrarlo.
5. Urbanistica contro architettura.
Una domanda ricorre frequente, leggendo la letteratura sulla
fotografia, visitando le mostre e i musei, sfogliando le riviste,
partecipando ai convegni e alle giornate di studio. La fotografia di
architettura e quella di urbanistica sono cose diverse? Coincidono?
E’ una domanda che si basa su considerazioni svolte fin dagli
inizi degli anni Settanta [Zannier 1969]. Ci si accorge già allora che
la fotografia di architettura è spesso congelata in un omaggio
rituale all’architetto, invece di cercare una propria autonomia
interpretativa. Esercitare la critica è naturalmente possibile sia
con gli scritti che con la ricerca visiva, questa e quelli hanno gli
stessi diritti e le stesse potenzialità. Ma lo sguardo fotografico
deve essere autonomo e documentato, puntare a qualcosa di più
che non alla semplice rappresentazione dell’identità dell’oggetto
architettonico. Questo può essere forse sufficiente nel caso
di vaste campagne di censimento che riguardano un grande
numero di edifici, ma non per raccontare una singola opera e i
suoi caratteri.
Se la fotografia di paesaggio gode oggi di molto prestigio e
popolarità, non altrettanto si può dire delle discipline che si
occupano di studiare e governare il territorio. Quasi sempre la
costruzione di un edificio viene vista come alterazione del luogo
preesistente. E in effetti lo è. Ma il giudizio che oggi si tende a
dare è generalmente di segno negativo. Se c’è oggi un rapporto in
crisi, sembra infatti proprio quello tra architettura e paesaggio, dal
momento che ogni nuova costruzione viene in genere considerata
come male assorbita da qualsiasi contesto ambientale.
Anni fa, diciamo negli anni Settanta e Ottanta, si sarebbe detto
che le relazioni logorate erano tra architettura e urbanistica.
Il piano urbanistico non è stato in grado di armonizzare le due
discipline. L’università nemmeno, e dunque gli architetti neppure,
non esistendo un mestiere che comprende le due differenti attività
progettuali, se non per effetto di percorsi seguiti individualmente
dai singoli professionisti nella propria carriera. Men che meno gli
enti territoriali: le Regioni hanno programmi scoordinati (casa,
infrastrutture, paesaggio, territorio) e il piano territoriale di livello
regionale è quasi sempre solo un palinsesto macroeconomico. I
concorsi di architettura avrebbero potuto servire a qualcosa, per
connettere le due visioni disciplinari; ma se ne fanno pochi e quelli
che si fanno non si attuano che raramente. E così, uno dei legami
19. Armando Salas Portugal, Cuadra
San Cristobàl, Los Clubes, 1966-68 (Luis
Barragan)
20. Julius Shulman, Kaufmann House,
1947 (Richard Neutra)
21. Guido Guidi, Gipsoteca canoviana a
Possagno, 1996 (Carlo Scarpa)
23
possibili tra le due discipline in dichiarata crisi relazionale è proprio
la fotografia, intesa nelle sue accezioni più ricche, e dunque nel
pieno delle sue molte potenzialità: di documentazione storicocritica, di ricerca visiva, e perfino di indagine pre-progettuale.
La fotografia classica di architettura resta un po’ ai margini di
questi ragionamenti, se si intende parlare di quel tipo di immagini
prodotto per le riviste di settore e per le pubblicazioni monografiche
sul lavoro degli architetti. Di solito questo è un modo di fotografare
che si concentra sul singolo edificio, spesso sui suoi dettagli, e
che dunque non si pone l’obiettivo di relazionare l’architettura al
proprio contesto urbano. La relazione in questo caso è soprattutto
tra fotografo e architetto.
L’americano Robert Adams parla di “trasparenza stilistica”,
definendo così l’obiettivo di questo tipo di fotografia di architettura,
come se il fotografo non dovesse mostrare di esserci, le persone
nemmeno, ma solo l’architettura, come qualche cosa di astratto,
una composizione un po’ misteriosa di luce, ombra, piani, colori,
volumi. Se una buona fotografia di paesaggio è costituita di una
combinazione sapiente di tre fattori - geografia, autobiografia,
metafora [Adams, 1995] -, viene da dire che la fotografia di
architettura tradizionalmente intesa – quella delle riviste, salvo
poche eccezioni – mescola male gli ingredienti: c’è solo metafora,
poca autobiografia, pochissima geografia. Adams riconosce che
“la bellezza è, almeno in parte, sempre legata al soggetto”. E’
un’ammissione molto onesta e pericolosa per un fotografo.
Bisogna vedere quanto misura quella “parte”, perché se è grande,
si riduce di molto l’abilità da riconoscere all’autore.
Le coppie costituite da architetti e fotografi interpreti delle loro
opere sono molte e numerose: Le Corbusier e Lucien Hervé
(fotografo anche di Aalto e Tange), Richard Neutra e Julius
Shulman (fotografo anche di Schindler e Eames), Luis Barragan
e Armando Salas Portugal, Giò Ponti e Giorgio Casali; più vicini
a noi, Luigi Ghirri e Aldo Rossi, o Guido Guidi e Carlo Scarpa.
Di queste foto si può dire, tutt’al più, che mostrano come in casi
eccellenti la stessa architettura da sola possa diventare paesaggio,
per la propria forza espressiva e le proprie qualità compositive.
Ma la ricerca di relazioni tra l’architettura e il suo intorno urbano o
territoriale non è lo scopo principale delle inquadrature.
Paolo Costantini, storico e critico della fotografia prematuramente
scomparso, sosteneva che esistono la fotografia e l’architettura,
non la fotografia di architettura; e Mimmo Jodice, uno dei più
importanti fotografi italiani, dice che la fotografia di architettura
appartiene al fotografo, mentre l’architettura appartiene
all’architetto. In entrambe queste affermazioni vagamente
lapalissiane è ben presente la delimitazione di campi diversi e
separati, il cui dialogo si attua occasionalmente, grazie a quel
fotografo, o a quella fotografia.
In un certo senso la fotografia si pone di fronte all’architettura in
modo tautologico, sembra voler solo ribadire: ribadire il disegno,
ridisegnando a chiaroscuro un prospetto o una prospettiva, anche
di interni. Essendo per tradizione privilegiato il bianco e nero, a
maggior ragione si notano il disegno, le linee, la forma, l’astrazione.
Questo tipo di fotografia sembra voler fornire unicamente
l’identità dell’architettura, certifica il lavoro dell’architetto, ma non
lo inserisce nel sociale, nel vissuto, spesso nemmeno nella città.
24
22. Paolo Rosselli, Usera Library
(Abalos-Herreros), Madrid 2004
Tra fotografia e architettura è nato fin dalle origini un rapporto molto
più semplice e piano di quello tra fotografia e arte. In primo luogo,
il fotografo-architetto è un abbinamento più precoce (e frequente)
di quello fotografo-artista, e poi l’architettura è esente da quella
forma di gelosia che c’è stata sin dalla metà dell’Ottocento tra
pittura e fotografia. Anzi, sembra esistere una collaborazione
quasi servile della fotografia all’architettura, nel celebrarne i fasti
sulle riviste con immagini estetizzanti e prive di rapporti con la
realtà quotidiana (niente oggetti in disordine come quelli che
si vedono quotidianamente nelle case o nei luoghi frequentati,
nessun utente, nessun particolare che possa richiamare rumori,
odori, disagi fruitivi di qualsiasi natura, come puntualmente
avviene nell’esperienza urbana reale); così come a volte la
stessa architettura sembra voler ricercare preventivamente la
fotogenicità, facendone in modo vezzoso un requisito del progetto.
Gabriele Basilico e Giorgio Casali sono i principali autori delle
fotografie su Domus; Luigi Ghirri, Giovanni Chiaramonte e
Paolo Rosselli come autori della rivista Lotus diretta da Pierluigi
Nicolin. Italo Zannier ha definito il committente della fotografia di
architettura come narcisista, e questa è una critica senza mezzi
termini alle finalità della foto di architettura, alla sua capacità
critica e alla sua utilità ermeneutica.
Tra gli urbanisti italiani, Italo Insolera fu tra i primi a relazionare
l’uso della fotografia alla critica architettonica. In questo
modo l’immagine fotografica non è soltanto rappresentazione
dell’oggetto costruito, ma anche interpretazione, e soprattutto
modo di contestualizzare l’architettura all’ambiente e al fruitore,
superando quei limiti che il disegno non può superare [Insolera,
1956]. Al contrario, Bruno Zevi [Zevi, 1951] considerava che la
fotografia fosse inadatta non soltanto a rendere percepibile
la tridimensionalità architettonica, ma soprattutto la spazialità
volumetrica dell’architettura, che invece il cinema poteva rendere
al meglio, con la sua capacità di rendere il movimento e il punto di
vista dell’utilizzatore. E’ indubbio, tuttavia, che è grazie ai grandi
fotografi di architettura, come Julius Shulman o Lucien Hervé,
che le opere di grandi maestri come Neutra e Le Corbusier sono
state rese note al pubblico, che in larga misura le ha conosciute
soltanto per il tramite delle immagini fotografiche.
Kenneth Frampton [Frampton, 1982] sottolinea il “ruolo cruciale”
svolto dal fotografo Nigel Henderson nel formare la sensibilità e
dunque anche nell’orientare il lavoro degli architetti Alison e Peter
Smithson. Le sue immagini delle strade londinesi, della realtà
fisica e sociale dell’East End e della comunità di Bethnal Green
contribuirono, secondo Frampton, alla formazione dei concetti
come quello di identità su cui gli Smithson fondarono molto del
loro lavoro a partire dagli anni Cinquanta.
6. La fotografia è uno strumento, non la soluzione.
Semplificando al massimo, ci sono due modi per trattare di
fotografia: considerandola come arte o come pratica sociale [Marra,
2001]. Questo lavoro prende in esame soprattutto la fotografia nei
suoi rapporti con l’arte e l’architettura, perché intende metterne
in luce le capacità interpretative, mentre la seconda accezione
mette l’accento sul piano dell’utilità: la fotografia utile per la notizia
giornalistica, per il messaggio pubblicitario, per la memoria e
25
la solennizzazione degli eventi di famiglia. Quest’ultima è una
fotografia che tende ad esaurirsi in sé, nel motivo per cui è
stata prodotta, non ambisce a provocare riflessioni, conoscenze
teoriche, né tanto meno ha effetti creativi, progettuali conseguenti
ai concetti che fa scaturire.
La stessa fotografia professionale degli architetti e degli urbanisti,
che infatti può stare in questa secondo modo d’intendere la
fotografia, risponde quasi sempre a precisi motivi di utilità:
censimenti e descrizioni di oggetti, edifici, luoghi, elenchi
e confronto di casi, memorizzazioni, appunti, misurazioni
speditive. Molti dei testi che parlano dell’uso della fotografia nella
progettazione architettonica e urbanistica ne danno una lettura
riduttiva di questo tipo, una lettura strumentale, fino a considerarla
nel suo ruolo di documento visivo per attività specialistiche come
il restauro degli edifici [Fanelli, 2009].
La prassi fotografica è costituita da un piano tecnico-materiale
– nella fotografia analogica, la carta, i pigmenti, ecc.; in quella
digitale, tutta la fase della post-produzione - e da un un
piano descrittivo, costruito attraverso la scelta del punto di
osservazione, l’inquadratura, la scelta del momento dello scatto,
ecc. Diversamente dalla pittura, dove il pittore costruisce una
immagine sul quadro bianco, il fotografo sceglie una immagine
dalla realtà [Shore, 2009]. Questo non significa che quel che si
vede nella fotografia sia la realtà in quanto tale. E’ naturalmente
un’interpretazione della realtà, visto che la soggettività del
fotografo si esprime appunto – e in modo determinante – nella
scelta del punto di vista da cui raffigurarla. Per giunta, non è
affatto detto che il fotografo si accorga di tutto ciò che compare
– potremmo dire che esiste? - nella sua inquadratura, dato che
alcuni particolari e alcuni significati possono prescindere dalla
sua volontà. La lettura che ne fa il fruitore ha una importanza
determinante: il piano mentale di noi osservatori, che vediamo e
ci emozioniamo-riflettiamo su ciò che vediamo, può aggiungere
significati. Una foto può vivere di combinazioni diverse di questi
piani, ad esempio può avere un profondo piano descrittivo
e un limitato piano mentale, o al contrario predeterminare al
minimo l’impressione dell’osservatore, che è libero di allargarla
sconfinatamente.
In questo studio si considera la fotografia non in senso documentario
o puramente descrittivo del paesaggio, ma soprattutto nella sua
funzione interpretativa, cercando anzi di sottolinearne al massimo
l’efficacia e gli effetti possibili sul pubblico e sul sistema di persone
e soggetti in cui maturano le decisioni progettuali sulla città.
La funzione documentativa della fotografia è particolarmente
legata alle immagini fotografiche esistenti negli archivi, siano
essi pubblici o privati, e in questo secondo caso sia aziendali
che familiari. Si tratta spesso di immagini prodotte con finalità
diverse da quelle con cui vengono successivamente interpretate
e utilizzate al momento in cui vengono riscoperte e sottratte al
loro silenzio. Da documento che erano, esse diventano senz’altro
strumento di indagine sul reale, e in questo caso è molto evidente
che il piano mentale di chi osserva è talmente predominante da
sopraffare e cancellare quello descrittivo che ha guidato all’origine
lo scatto.
Il rapporto tra la fotografia e i mutamenti del territorio avvenuti
26
nel passaggio dalla fase industriale a quella postindustriale sono
stati spesso indagati attraverso esempi di committenza pubblica,
considerata nella sua funzione di motore per la progettualità dei
fotografi e la trasformazione dei linguaggi. Le istituzioni pubbliche
che hanno affidato incarichi di survey fotografico per ragioni
legate alla necessità di conoscenza di determinati fenomeni sul
territorio, hanno dato risalto alla possibile natura documentaria
della fotografia, richiedendo ai fotografi un documento visivo
in grado di misurare, più che di rappresentare o interpretare. I
fenomeni oggetto di queste campagne venivano registrati, come
se il mezzo fotografico consistesse soltanto in una operazione
tecnica, priva di ogni soggettività. Difficilmente queste fotografie,
anche se viste nella loro consistenza finale più tipica, quella della
serie, del mucchio, possono dare ispirazioni di tipo progettuale,
ideativo, salvo per quanto attiene alle questioni quantitative,
numeriche che esse per natura possono benissimo riportare.
L’interesse crescente dell’urbanistica per la descrizione è
percepibile anche nella legislazione promulgata nell’ultimo
decennio da Regioni come l’Emilia-Romagna, la Toscana, la
Liguria. Viene codificata l’indispensabilità del quadro conoscitivo
come condizione di partenza per il piano urbanistico, a qualsiasi
livello territoriale, comunale come provinciale e regionale. E’ un
fatto importante, che si sia data importanza alle fonti visive. E’
importante che si riconosca che a le fonti influenzano gli sviluppi
del ragionamento, se cambiano le fonti cambia l’approccio,
e dunque cambia per conseguenza il progetto. La fotografia
documenta le forme del territorio.
Zannier puntualizza bene entro quali limiti si può parlare di
fotografia documentaria. Documento è “termine non certo inteso
nel suo valore limitativo; documentare significa aderire alla realtà,
attraverso la verità dei propri sentimenti e di una intuizione visiva
suggerita dalla esteriorità dei fatti. Un documento presume
sempre un’interpretazione; anzi esso sarà tanto più valido e
genuino e credibile, quanto più sarà il frutto di una intelligente
e sensibile interpretazione. Documentare non significa quindi
riprodurre, ma semmai rappresentare, con stimoli culturali
necessariamente soggettivi e potenzialmente espressivi” [Zannier,
1969]. Ciò nonostante, quando siano prodotte sulla base di richieste
orientate alla pura catalogazione, molte foto di architettura si
riducono ad essere delle “fototessera”, come lo è il ritratto del
portatore della carta d’identità: si tratta in questo caso di una
riduzione della fotografia a una funzione puramente artigianale,
priva di ogni problematica culturale.
In molti casi, soprattutto dagli anni Settanta ad oggi, i fotografi
si sono comportati come autori, alla stregua di ogni altro
artista, proponendo con le loro opere delle rappresentazioni del
paesaggio, dove la soggettività connessa alla propria cultura
e alla propria ideologia ha uno spazio pressoché assoluto. In
questo caso la fotografia può entrare come le altre arti nella
determinazione del sentimento collettivo dei luoghi, realizzando
immagini di alto valore simbolico. La funzione rappresentativa
tende tuttavia a presentare la realtà dei luoghi in modo deformato,
attraverso codici retorici di tipo drammatico o sublime, caricando
certe componenti e certi aspetti e cancellandone o mettendone in
ombra altri, in una modalità di tipo teatrale.
23. Lewis Baltz, Tract House, # 4, 1971
27
Il tipo di approccio che sembra più produttivo per istituire relazioni
tra la fotografia e le discipline del territorio è quello di tipo
interpretativo. Secondo questo stile, il fotografo prima di scattare
si dota di strumenti conoscitivi sui luoghi, effettua sopralluoghi,
dialoga con esperti delle altre discipline, possibilmente torna più
volte e in momenti diversi ad accostarsi agli oggetti da riprendere.
La metafora che si lega meglio a questo modo di procedere è
quella dello sguardo lento [Basilico, 2007] e il prodotto di questo modo
di operare è quello più efficace e produttivo non solo per le finalità
di conoscenza degli oggetti e dei luoghi, ma anche per lo sviluppo
delle riflessioni di tipo progettuale e trasformativo, poiché molto
spesso le fotografie così realizzate restituiscono all’osservatore
la dose di informazioni – rielaborate – che hanno preparato e
preceduto lo scatto.
Quanto al lavoro dei fotografi sul paesaggio, l’americano Lewis
Baltz sostiene che essi, “osservando la realtà producono
figure e traducono il mondo in immagini attraverso un codice di
rappresentazione. Lavorano dunque alla rifondazione estetica
di un paesaggio esteticamente povero, sconnesso, incoerente”
[Valtorta, 2005]. Questo passo contiene in nuce il concetto di
fotografia progettuale cui sopra si è accennato. Baltz aggiunge
anche la nozione di futuro come attinente allo sguardo fotografico
(ponendosi agli antipodi del pensiero di Barthes), e naturalmente
il futuro è l’elemento primario di ogni prassi progettuale. Scrive
infatti che i fotografi “raccontano, con buon anticipo, una storia
futura, individuando paesaggi-limite, oggi emblematici presagi di
una crisi estrema del volto del mondo, domani forse immagini
quotidiane. In questo caso, i fotografi più che documentatori della
realtà sono visionari, inventori di nuove finzioni”.
Se dunque nella pratica architettonica contemporanea, così come
nel campo dell’analisi urbana, il mezzo fotografico in genere è
relegato al rilievo del luogo, alla sua funzione utilitaria e prosaica,
sembra invece interessante portare uno sguardo più approfondito
sulla possibilità di fondare - o almeno promuovere - una pratica
che consiste nel trascrivere in una immagine bidimensionale la
percezione fisica che si può avere di uno spazio. Non è privo di
implicazioni fondare una pratica di progetto sulla registrazione e
la fabbricazione di una realtà attraverso un insieme di immagini
fotografiche. Il modo come l’immagine fotografica può costituire
la sorgente di una dinamica della fiction o di un principio di
composizione merita considerazione, ed è appunto in questo
campo che ci si vuole addentrare.
Prima di farlo, ci sembra utile ricordare quali siano stati, nel
Novecento, i sentimenti più comuni nella percezione della città,
l’insieme di valori simbolici con cui la fotografia urbana si è
confrontata.
28
2. IDEE DI CITTA’ DEL NOVECENTO
1. L’immagine della città contemporanea.
Le città sono insediamenti umani estesi e fortemente popolati,
ma soprattutto caratterizzati da un’alta densità di popolazione.
Nella cultura europea una delle loro caratteristiche principali è la
continuità dell’insediamento in quel sito, e dunque la presenza di
un centro, per lo più storico. Di norma vi si concentra la maggior
parte delle attività umane, praticamente tutte ad esclusione
dell’agricoltura: abitazioni, industria, turismo, commercio,
educazione, politica, cultura. Sono il luogo di sviluppo delle idee e
dei conflitti, dell’incontro e dello scontro.
Negli ultimi decenni, anche grazie a committenze pubbliche, le
relazioni tra fotografia e architettura, paesaggio, urbanistica si
sono intensificate. Ma come si valuta e si riconosce la qualità
intrinseca delle immagini fotografiche in relazione alla cultura
urbana e al suo sviluppo? Dal momento che la nostra cultura è
sempre più audiovisuale, si può sostenere che esiste un’influenza
della fotografia sull’urbanistica, così come per esempio la
cultura cinematografica e la comunicazione hanno influenzato
l’architettura?
La descrizione visiva del fenomeno urbano è una costante che
attraversa l’arte di tutti i secoli, ma certamente il mezzo fotografico,
per la sua larga diffusione e riproducibilità è tra gli interpreti più
incisivi dei caratteri delle città. Nelle fotografie non ci sono molte
cose: per esempio non vediamo i confini amministrativi, non
leggiamo il numero degli abitanti né i loro orientamenti politici, ma
in compenso - se parliamo di fotografie d’autore, ma a volte anche
nella inconsapevole precisione degli scatti anonimi o qualunque
- sono presenti molte cose che non si possono trovare nei testi,
nei grafici e nei disegni tecnici. In primo luogo la percezione del
paesaggio, inteso come configurazione di spazi e volumi, ma
anche come relazioni tra questi e le persone; in nuce, si possono
cogliere anche delle indicazioni per il progetto urbano, per esempio
attraverso la osservazione ravvicinata di pratiche spontanee che
sono indizi di una domanda di trasformazione. Ma più in generale
il germe del progetto può essere percepibile quando la fotografia
è in grado di cogliere quel sentimento del futuro, della potenzialità
del futuro, dello schiudersi costante di momenti nuovi e inattesi,
che forse è il sentimento più tipico della città.
Quando si occupa di paesaggio urbano, la fotografia porta il
proprio cospicuo contributo a formare una coscienza collettiva
della città, fornendo gli elementi visivi che dovranno combinarsi
con le altre percezioni, odori, rumori, sensazioni di vario tipo,
quelli che il geografo Eugenio Turri definiva gli iconemi della città
contemporanea, “congegni della nostra rappresentazione logica
e funzionale del paesaggio” [Turri, 2001]. Naturalmente essi sono
in larga misura contenuti nel messaggio visivo consegnatoci
dagli autori dell’opera (fotografia, nel caso che qui esaminiamo,
ma ovviamente anche pittura, disegno, cinema, ecc.), ma
almeno altrettanto dipendono dalla cultura e dalla sensibilità
29
dell’osservatore.
La percezione della città come si è formata negli ultimi quattro
decenni si basa su iconemi che provengono anche da molto
lontano e si radicano nella cultura soprattutto europea. L’idea di
città-Babele è tra le più antiche ma anche tra le più persistenti e
contemporanee: “quando, nel testo della Bibbia, spunta un nome
di città, esso vi risveglia in generale delle connotazioni malefiche:
Sodoma, Gomorra, Ninive, Gerusalemme l’Infedele. Simbolizzata,
nei profeti, da Babele/Babilonia, la città si contrappone a ciò che
fu il paradiso” [Zumthor, 1998].
Secondo Maupassant, la torre Eiffel – che stava in quella fine del
secolo diciannovesimo diventando il simbolo di Parigi e dell’intera
Francia – si accostava proprio alla Torre di Babele, in un giudizio
fortemente critico. Era come se gli altri monumenti di Parigi fossero
umiliati dalla costruzione di quel mostro di ferro. Maupassant fu
smentito dall’enorme e crescente successo dell’edificio, ed è
noto che per non vederlo egli fosse costretto a frequentarlo molto
spesso, pranzando al ristorante nella torre.
Il carattere primario della città lo troviamo in tutte le epoche nel
suo limite, sia quando esso è espresso nei confini - a loro volta
definiti dalle mura - , sia quando – coma accade oggi – lamentiamo
la sua perdita. Avere un centro riconoscibile e metaforicamente
assimilabile al cuore, è l’altro elemento di tipicità della città
europea. Il modello della megalopoli americana, New York, fa a
pezzi questa concezione. Si perde per sempre la capacità figurale
[Assunto, 1983] degli elementi della forma urbis classica. Come
accade invece in modo ben evidente nella piazza del Campo di
Siena, la cui planimetria raffigura il mantello della Misericordia,
protettivo per tutta la comunità. Lo stesso significato simbolico ha
l’insieme delle ruskiniane pietre di Venezia, con le forme di volta
in volta aggraziate o stravaganti che secondo il teorico inglese
esse assumono nelle principali architetture urbane.
Leon Battista Alberti lodava la varietà tipica della scena urbana
come il fondamento dell’armonia, secondo il detto latino varietas
delectat. Su questo fondamento si basa l’estetica rinascimentale
della città come opera d’arte, concetto ripreso in modi diversi ma
24. Olivo Barbieri, Italia in miniatura, 1998
30
affini da Cartesio, Bacone, Leibnitz, con i valori di geometria,
tecnica e grazia. Al contrario, la varietà, per gran parte della
sensibilità contemporanea, si lega a idee di conflitto, instabilità,
non più di integrazione e piacevolezza. Il funzionalismo, secondo
alcuni teorici della città bella [Cervellati, 2000; Romano, 2008] è colpevole
di questo distacco tra forma e funzione, che nemmeno le rinnovate
letture iconiche nella seconda parte del Novecento (di Lynch e
Cullen, ad esempio) hanno saputo ricomporre adeguatamente.
Tanto è vero che Jane Jacobs, nel suo celeberrimo Vita e morte
delle grandi città, la cui prima edizione è del 1961, certificò la
morte della città come opera d’arte di derivazione rinascimentale.
Non diversamente, in un suo celebre libro del 1965, Il feticcio
urbano, Alexander Mitscherlich si faceva tardo interprete del
tramonto della città moderna e delle sue concezioni, parlando
di una città inabitabile istigatrice di discordia (come recita il
sottotitolo). L’agglomerazione, la moltitudine che è la protagonista
de La ribellione delle masse del filosofo spagnolo Ortega y Gasset,
abita la megalopoli meccanizzata, standardizzata, completamente
disumanizzata descritta da Lewis Mumford nei capitoli finali del
suo La città nella storia (l’edizione italiana è del 1964). Insomma,
il meccanismo della città moderna ha distrutto l’anima della città
antica, secondo le rispettive definizioni di Le Corbusier e di Rilke
che Assunto riprende accentuando un po’ forzatamente i significati
oppositivi di concetti nati autonomamente l’uno dall’altro.
25. Luigi Ghirri, Fidenza, 1985
26. Luigi Ghirri, Parma, 1984
2. Endell e la bellezza della metropoli. Eppure è ricco, sin dagli inizi del secolo XX, il filone di valorizzazione
della metropoli e della sua bellezza, nei disegni di Antonio Sant’Elia
e di Eugene Henard, nei film di Fritz Lang, negli scritti di alcuni
filosofi. Tra questi, August Endell (1871-1925), architetto e teorico
tedesco, noto soprattutto come autore dell’atelier fotografico
“Elvira”, realizzato a Monaco nel 1898 e successivamente andato
distrutto. L’edificio è stato il manifesto delle teorie dell’autore, uno
dei più noti architetti dello Jugendstil, che deve molta della sua
fama all’acuto disprezzo che Adolf Hitler gli portava.
Nel 1908 Endell scrisse un libro, Bellezza della metropoli, che
esalta il paesaggio urbano contemporaneo come immagine della
vita nel presente, contrapposta alle fughe idealistiche verso il
passato. Endell sostiene che l’amore appassionato per la propria
epoca e la propria terra è l’unico fondamento di ogni Kultur,
poiché quanto più l’uomo vive il suo tempo e partecipa in modo
totale e convinto alle attività del suo paese, tanto maggiore sarà
il suo sentimento della patria. Su questa idea di fondo costruisce
un’epopea della vita nella collettività urbana, considerata bella
proprio perché viene equiparata essa stessa a un essere che
lavora. Un’estetica del lavoro che nobilita lo spazio fisico entro
il quale il lavoro si svolge. La posizione di Endell non consiste
nel giustificare ad ogni costo e contro ogni evidenza anche i
difetti della vita urbana. Egli arriva a riconoscere che “la metropoli
raccoglie in un orrido caos, a disprezzo di ogni buon sentimento,
una squallida ricerca del piacere, un fretta nevrotica”, e che si
può disprezzare “la bruttezza della città, i suoi rumori, la sua
sporcizia, le sue buie case, la sua aria pesante e malsana” [Endell,
1908]. Queste parole ci mostrano in fondo come le argomentazioni
odierne degli anti-urbanisti siano princìpi ribaditi quasi identici
31
da quasi un secolo, e dunque non sono teorie particolarmente
innovative. Ma non è questo il carattere più sorprendente delle
argomentazioni di Endell, quanto ciò che ne fa seguire: “Si può
certo ritenere un traguardo degno di sforzo cancellare le città
dalla faccia della terra. Ma esse ora esistono e devono esistere,
a meno che non si voglia distruggere tutta la nostra economia.
Centinaia di migliaia di persone devono vivere nelle città, e invece
che inculcare loro una malsana e disperata nostalgia, sarebbe più
saggio insegnare ad osservare realmente le città, per attingervi
più forza e più gioia che sia possibile”.
Ciò che caratterizza e rende originale – e molto attuale - il punto
di vista di Endell e lo differenzia dalle molte critiche all’ambiente
urbano di origine engelsiana e marxista (giunte di fatto quasi
indenni fino ai nostri giorni, nelle interpretazioni della sinistra
radicale), è proprio questo invito ad agire sulla comunicazione
dei valori positivi che pure esistono nella città contemporanea,
facendone un antidoto alla lamentazione sterile e piagnona, e
come spinta verso una visione positiva, di miglioramento.
Questa “educazione alla percezione”, di tipo provocatorio ma
originale, attraversa tutto il secolo, transitando una ventina di anni
dopo nel sentimento delle immagini di città che Walter Benjamin
descrive negli anni dal 1925 al 1930. E di qui viene fino a noi,
mantenendo intatto il desiderio di ricerca, di curiosità che anima
tuttora chi crede nella forza creativa e antagonista di valori come
l’instabilità, la dissonanza, la frammentarietà. E’ una modalità
percettiva dei caratteri urbani che raggiunge fotografi come Luigi
Ghirri, in modo diretto e attraverso la conoscenza che Ghirri
ha della fotografia del Novecento. La fotografia è naturalmente
portata a raccogliere il testimone della sfida endelliana, proprio
perché tutto ciò che sta dentro una fotografia assume un valore
estetico, viene sacralizzato, è idoneo a fare da commento visivo
alla convinzione espressa da Benjamin che ogni città è bella.
Proprio in quanto esiste, e solo per questo.
Se prendiamo le immagini di città descritte da Benjamin, troviamo
molti elementi che restano validi anche più di ottanta anni dopo,
nonostante le enormi trasformazioni tecniche e sociali. La stazione
come luogo dove la città inizia ad offrirsi, le insegne luminose...
ma soprattutto i cento confini e la loro mutevolezza, le variabili
relazioni tra centro e periferia, che ancora oggi si sentono, si
vivono e non si comprendono quasi affatto. I bambini e i ragazzi
da osservare come modo per introdursi in una città, i mendicanti,
e ovviamente i luoghi principali, i musei e il giardino zoologico, i
monumenti, i mercati, ma anche i colori e i rumori, e ancor di più
quel sentimento così tipico di Benjamin, il sentimento del futuro,
della potenzialità del futuro, dello schiudersi costante di momenti
nuovi e inattesi, che forse è il sentimento più tipico della città
[Benjamin, 2007].
3. Catastrofe o fiducia.
C’è qualcosa però che nel corso di alcuni decenni capovolge
radicalmente questi sentimenti affettuosi e ottimistici nei confronti
della città. La catastrofe bellica spinge a una frettolosa e impulsiva
ricostruzione, che porta in sé tracce evidenti di questa affezione.
Ma le cose stanno cambiando, come spiega lo storico inglese
Arnold Joseph Toynbee nel suo Cities on the move [Toynbee, 1972],
32
la cui edizione originale, del 1970, esce proprio negli anni cruciali
del passaggio alla post-modernità.
Il movimento che cita Toynbee nel titolo del libro sarebbe secondo
l’autore la caratteristica con cui le città nel dopoguerra cominciano
a occupare il territorio (una specie di prefigurazione precoce dello
sprawl urbano di cui tanto si è parlato negli anni successivi).
Questo muoversi delle città sarebbe apparso impensabile alla
fine del Settecento, nell’età pre-industriale. Toynbee lo considera
come una sorta di ripresa del nomadismo, tre o quattromila
anni dopo le orde dei pastori in marcia descritte nel vecchio
Testamento e distrutte dalle popolazioni sedentarie. Una ripresa
che caratterizza le città dall’Ottocento in poi, nello sbigottimento
dei suoi abitanti, increduli al vedere la città mettersi in marcia
come lo shakespeariano bosco di Dunsinane, e sconfinare
oltre le proprie mura di cinta. Le città diventano mobili, anche
se ciò sembra ancor più paradossale perché avviene grazie al
proliferare di quelli che da sempre vengono chiamati al contrario
beni immobili. Avvenimenti epocali che Toynbee già allora
riconosce come frutto dello sviluppo scientifico delle tecnologie
mediche e agricole. L’umanità si consegna alla città-mondo
perché l’esplosione demografica conseguente alla maggiore
speranza di vita per le migliori condizioni alimentari e sanitarie
è una questione inarrestabile e necessaria, a dispetto di tutte le
conseguenze che può causare sul piano del consumo di risorse
vitali: non è possibile regredire a forme di vita precedenti alla
meccanizzazione della società se non a prezzo di un genocidio,
perché il sistema economico arcaico non potrebbe mantenere
che una piccolissima porzione di esseri umani.
Logicamente questa posizione appare oggi largamente superata
dalle teorie ecologiche e dai protocolli ambientali e per la
biodiversità, nonché da considerazioni ovvie sul disequilibrio
geografico e sociale dello sviluppo portato dagli eccessi deregolativi
delle società consumiste e liberiste. E’ però interessante notare la
stretta connessione tra benessere e sviluppo inteso in termini di
consumo di suolo, che è un fattore di scala mondiale e di portata
storica, spesso minimizzato o ignorato da interpretazioni anche
27. Vittore Fossati, Cattolica, 2003
33
28. Luigi Ghirri, dalla serie “Paesaggio, immagine e realtà”, 1981
34
recenti di tipo radicalmente ambientalista o conservatore.
Manhattan diventa la capitale del ventesimo secolo, come Parigi
lo è stata del diciannovesimo. Se Walter Benjamin è stato il
cantore di Parigi, il teorico del manhattanismo è ovviamente Rem
Koolhaas, che nel suo Delirious New York indica nella iperdensità
lo splendore e la miseria della condizione metropolitana, e nella
cultura della congestione l’ideologia urbana che ne deriva.
Con una intuizione da storico, Koolhaas ha capito che “Manhattan
è stata dal 1890 al 1940 il luogo di un’operazione che merita
di essere definita d’avanguardia, ma che doveva trovar modo
di compiersi per tutt’altra via rispetto a quelle aperte dalle
avanguardie europee: a cominciare dal fatto che quest’opera
non implicava né l’esistenza di un’avanguardia consapevole e
organizzata né la pubblicazione di alcun manifesto collettivo”
[Damisch, 1998]. Era la città stessa che, semplicemente crescendo,
si imponeva all’immaginario collettivo di un intero secolo e
di tutto il mondo, cristallizzando l’idea di modernità nelle sue
forme. Selvagge, sublimi ed atroci, secondo le parole che usò
nel 1935 un Le Corbusier sconcertato e forse perfino irritato di
non trovare conferma, in questa città, del suo dogma secondo
cui non poteva esistere una nuova architettura senza una nuova
urbanistica: ecco che nel reticolo rigido disegnato da Olmsted, qui
trasferito senza modificare affatto gli schemi tardo antichi, si era
sviluppata la titanica mineralogia del grattacielo. Congestione,
bigness, labirinto, cancellazione della natura: i caratteri salienti del
paesaggio urbano moderno – tra cui anche un tocco di narcisismo,
il narcisismo della città che osserva le sue forme riflettendosi nelle
pareti a specchio dei suoi grattacieli - provengono da Manhattan
e si trasferiscono oggi senza grandi variazioni nelle megacittà
asiatiche ed africane.
Secondo il filosofo tedesco Georg Simmel (1858-1918),
l’anonimato della metropoli è un mezzo per liberare lo spirito, e
questa è una tipicità della tradizione culturale europea, mentre
al contrario quella americana che si sviluppa negli anni sessanta
considera la città grande come un cancro che attacca addirittura
la struttura sociale. Mumford, già nel 1938, con la prima edizione
di Culture of Cities, parla di inferno, veleno, gigantismo informe.
Come alternativa al disagio delle metropoli, viene indicata la città
policentrica, propugnata in modi diversi da Frank Lloyd Wright,
Ebenezer Howard, Patrick Geddes.
Sono teorie che arrivano fino ai giorni nostri, e calano direttamente
dentro i piani territoriali regionali, come ad esempio quello
dell’Emilia-Romagna della metà degli anni Ottanta che propugna
la città policentrica della via Emilia. Anche per questa via
istituzionale, la città policentrica diventa un soggetto privilegiato
della fotografia, che ne svela appunto i caratteri variati e in sostanza
infiniti: case isolate, centri storici, sobborghi e periferie amorfe,
new towns, villaggi sperduti nella campagna sono facce diverse
che compongono un oggetto disperso dai confini indefinibili e
soprattutto privo ancora di una iconografia, che i fotografi iniziano
a formare e che viene poi interpretata in modi anche opposti
dalla cultura urbanistica: come modello originale e per certi versi
virtuoso di città-regione in grado di lasciar libero da eccessiva
densità il territorio rurale, o al contrario come informe prodotto di
un sistema di pianificazione debole e privo di regole rigide.
35
La linea di pensiero che approda oggi alla città bella e ordinata
ha radici che vanno indietro almeno trecento anni: la metafora
cartesiana contenuta nel Discorso sul metodo, indica la città
come immagine della chiarezza del pensiero, e soprattutto
degli effetti virtuosi del pensare di testa propria : le costruzioni
pensate e compiute da uno stesso architetto sono di solito
più belle e ordinate di quelle che provengono da successivi
riadattamenti di costruzioni precedenti. Le vecchie città ingrandite
progressivamente presentano un aspetto peggiore di quelle che
un bravo ingegnere ha ordinato a suo piacimento in una pianura.
Ma a fianco del rigore e della chiarezza cartesiani convivono
nell’immaginario occidentale anche ben altre sensibilità, come
quella dell’incompiutezza, un altro paradigma che è sopravvissuto
fino alla modernità derivando dal mito della torre di Babele [Zumthor,
1998]. Babele – di cui Manhattan non è altro che la versione
orizzontale – è un crogiolo di lingue, è la quintessenza della
confusione, è una città mai finita, incompiuta ma mai interrotta.
Il racconto babelico conosce solo personaggi collettivi, senza
nomi propri, e dunque appare meno insistente e drammatico, ma
forse proprio per questo è più persistente e ossessivo, e radicato
nell’immaginario.
4. Dalla dispersione alla sparizione.
Alcuni studi avanzano interpretazioni che prefigurano scenari
futuri in quanto ragionevoli concatenazioni con il passato più o
meno recente. Formulano delle idee di città, anche verificandole
con il lessico politico-amministrativo usato nei programmi elettorali
dei sindaci e nei progetti preliminari dei piani strategici.
L’idea di città-padrona [Fratini, 2000] si basa su concetti come la
grande quantità, la grande dimensione, la concentrazione del
potere economico, reso evidente anche visivamente dallo skyline,
costellato di emergenze in altezza, l’una a superare l’altra. E’
chiaro che questa idea si è concretizzata nel secondo Novecento
soprattutto in New York. La città padrona contrappone il centro
(city) alla periferia (banlieue). E’ la versione moderna della Babele
antica, la sua scenografia tipica è la dimensione monumentale,
è la città globale perennemente affannata dalla congestione
del traffico, una “massa captante” con un carattere fortemente
monocentrico.
Ma gli anni del Novecento sono stati attraversati anche dall’idea
della città della tecnologia, non solo nel senso della macchina ma
delle macchine (gli ascensori, ad esempio), il luogo-simbolo del
progresso che avanza e si esprime con le plug-in city degli anni
‘60, le città semoventi di tanta architettura radicale, la città-ponte
che Arata Isozaki disegnò negli anni ‘60. La città tecnologica è
una machine à habiter, un sistema intelligente che tutto sa e tutto
padroneggia, e prende corpo soprattutto nelle città asiatiche e
mediorientali.
C’è poi la città degli individualismi, una metafora di pietra e
cemento della frammentazione esistenziale contemporanea,
altrimenti detta città diffusa, l’effetto più tipico della cultura
automobilistica che consente gli spostamenti quotidiani e
favorisce il sorgere di sterminate edificazioni monofamiliari, alla
ricerca di prezzi dei terreni più bassi e convenienti. Il sociologo e
urbanista americano Melvin Webber studiò questa conurbazione
36
29. Louis Gauffier (1762-1801),
Paesaggio di tetti, Montpellier, Musée
Fabre
30. Edward Hopper, Tetti, 1926
estesa, definendola urban realm già negli anni ‘60, descrivendo
il consumo di suolo e i relativi problemi ecologici e riferendosi
alla città di Los Angeles. Anche Gottmann mise Los Angeles nel
novero delle sue megalopoli, la cui capostipite fu la conurbazione
del nord-est degli Stati Uniti, osservata già a metà degli anni ‘50,
e seguita poi da quella dei grandi laghi intorno a Detroit e da
quella giapponese Osaka-Tokyo-Kobe.
Questi scenari urbani, osservati con spirito critico, se non
decisamente negativo, trovano anche modelli di segno opposto,
più amichevoli, ad esempio la città dei cittadini, già descritta nel
1975 da Roberto Guiducci e antesignana di molte delle nozioni
attualmente tornate al centro del dibattito sulle città, come la
partecipazione, la sostenibilità, e perfino la sobrietà. E’ la città
dei cittadini, basata su concetti come l’identità locale, la misura
d’uomo, la città da abitare, un modello che forse resta più spesso
tale di quanto non si concretizzi, ma che indubbiamente si pone
oggi sempre più spesso come obiettivo delle azioni di governo
urbano.
La negazione di qualunque idea di città sembra essere il concetto
di tracce di città, connesso alla diffusione urbana nel territorio
rurale, un concetto che come vedremo affascina molto i fotografi
post-moderni. E che deve essere relazionato con l’insorgere della
tematica dell’area metropolitana, estraneo alla cultura italiana fino
alla tardiva definizione operata con la legge del 1990. Restano
infatti a lungo molto rari i riflessi metropolitani negli scritti dei
geografi, salvo l’importante ma isolato caso di Lucio Gambi nella
Storia d’Italia einaudiana.
E’ molto recente la convinzione di “partire dalla volontà di non
osservare i recenti fenomeni di trasformazione del territorio come
una non-città, una non-cosa, ma piuttosto un’altra cosa, una città
‘altra’” [Munarin-Tosi, 2001]. Si potrebbe parlare di “territori abitati,
regioni entro le quali da lungo tempo si danno fenomeni insediativi
non riconducibili all’immagine tradizionale della città (almeno così
come questa si è andata depositando nell’immaginario collettivo)”.
L’area metropolitana a sua volta è una precisazione del termine
31. Michele Buda, Milano Marittima,
Grattacielo, 2005
37
“metropoli”, esteso appunto sul territorio; mentre la metropoli
conserva il carattere tradizionale di città, l’area metropolitana
costituisce un insieme spaziale dove l’antica distinzione tra
città e campagna, con le relative differenze sociali, culturali e
paesaggistiche, si scioglie in una diffusione urbana omogenea.
La diffusa difficoltà a cogliere e comprendere unitariamente la
città ha portato – ormai già da oltre un decennio – a un diffuso
ricorso alle discipline “di confine”, non racchiuse nei propri ambiti
tecnici ma più libere di spaziare, per esempio gli scrittori, “ritenuti
capaci di sintesi pre-scientifiche” e, occorre aggiungere, i fotografi
[Amendola, 1997]. Questo ha spostato per ovvia conseguenza la
descrizione dalla struttura urbana, il cui studio è per l’appunto
dominio delle materie della città come l’urbanistica, la geografia,
la sociologia, l’antropologia, alla esperienza urbana, obiettivo
per il cui raggiungimento scrittori, fotografi, registi ed artisti sono
sicuramente più attrezzati. Altra conseguenza è indubbiamente la
minore capacità di descrivere l’ambiente urbano in modo unitario,
e invece la frammentazione in interpretazioni frammentarie,
episodiche, come sono le percezioni e le emozioni soggettive.
Anche le mitologie urbane si sono nel frattempo adeguate. L’ideale
riferimento antico della città frammentaria è la villa Adriana di
Tivoli, un insieme di architetture difformi e giustapposte in una
sintesi affascinante ma anche mai ripetibile nello stesso modo. “La
città fondata su logiche di centralità spaziali, simboliche e culturali
cede il passo alla città-collage o alla città-bricolage. E’ l’avvento
di quella che con una categoria desunta dall’epistemologia del
pensiero debole potrebbe chiamarsi città debole.”
Qual è dunque la “nuova città” che esce dalle trasformazioni
post-moderne, e quali fenomeni ne caratterizzano lo spazio?
Se prendiamo il punto di vista degli architetti, la città è lo spazio
negoziale tra il progetto architettonico e la società [Ciorra-D’Annuntiis,
2000], e un modo per descriverne i caratteri è quello di osservare
i più significativi progetti che vengono proposti per migliorarle.
Per cogliere le situazioni di maggiore ricchezza e complessità
è però opportuno guardare ai progetti che propongono una via
di sovrapposizione e non di sostituzione dei tessuti costruiti, che
stratificano su questi ultimi le loro proposte, come se fossero
lamine poste una sopra l’altra in successione.
Questo consente di tenere in debito conto il rapporto con
l’ordinario che per forza di cose la città contemporanea ha
instaurato e che deve continuare ad instaurare in modi sempre
più vari e creativi. Progettando la città ideale occorre fare i conti
con quella reale, prelevando da essa anche gli impulsi che essa
invia, non tutti negativi per definizione. Tra questi il parassitismo
architettonico, il riuso spontaneo, l’autoproduzione ai diversi livelli
di scala, dall’oggetto d’uso, alla casa, e appunto agli spazi di
uso pubblico, che sono proprio per le loro carenze conclamate
luoghi dove la creatività si scatena nel riuso spontaneo, fino ai
limiti dell’abusivismo, e a volte superandolo [Marini, 2008; Zanfi, 2008;
Pario Perra, 2010]. Sono tutti temi che la fotografia è perfettamente in
grado di indagare e che ha indagato di frequente e con successo.
Non va dimenticato ovviamente il rapporto con la storia,
certamente fondativo nel caso della città italiana ed europea,
e ricordato fin da Ernesto Nathan Rogers come uno dei due
riferimenti principali dell’architettura, insieme alla società. Sono
38
notissime le osservazioni sviluppate da Aldo Rossi sul ruolo del
monumento nelle città [Rossi, 1966] e le riflessioni di Anthony Vidler
sull’uncanny – il perturbante - e la nuova monumentalità che ne
deriva, un nuovo sublime contemporaneo che si fonda su concetti
opposti ai canoni dell’armonia e della continuità che hanno retto
la forma urbis per secoli e secoli [Vidler, 2006].
5. Varianti del gusto e nuovi valori.
L’informe urbano di oggi si esprime secondo tre caratteri
principali, la dissoluzione, la mescolanza, l’omogeneizzazione,
che hanno sostituito quelli tipici della città storica, l’articolazione,
la complessità, la stratificazione. Questo è uno degli esiti della
sensibilità contemporanea, frammentata e priva di grandi ideologie
unificanti.
Anche il pittoresco ha una declinazione non più riferita a caratteri
romantici e ottocenteschi, ma aggiornata: “...qualcosa di vivace
e colorito, piacevolmente disordinato e irregolare, ma piuttosto
un atteggiamento che ci porta ad accettare come valori positivi
ciò che fino a ieri consideravamo come aspetti negativi della città
contemporanea. L’eterogeneità, l’irregolarità, l’insolito, l’intrico, la
varietà, la disarmonia, l’accostamento incongruo di pezzi diversi, il
frammento, la dispersione, l’indeterminatezza, la materia grezza,
i valori tattili, diventano qualità del pittoresco” [Zardini, 1996].
La ormai pressoché esclusiva urbanità del paesaggio è un
fenomeno recente, ma registrato da tutti gli osservatori: “Che si
ragioni in termini di città diffusa, di megalopoli padana, di rete
policentrica, di sistemi urbani o di sistema metropolitano, la
chiave di lettura dei processi di trasformazione dei paesaggi del
Nord Italia sembra passare attraverso la progressiva estensione
della dimensione urbana e della sua impronta culturale” [Società
Geografica Italiana, 2010].
Questa pervasività dell’impronta urbana deve però essere
interpretata all’interno di uno schema meno dicotomico di quello
classico e ormai desueto città-campagna, ed evolvere invece
in direzione di una possibile trasformazione dei modelli urbani
da parte dei modelli rurali. Una “coevoluzione fra i due mondi”,
provocata dalla spinta delle teorie dello sviluppo sostenibile e dalla
loro applicazione nel campo del verde urbano, dell’agricoltura
urbana, e dalla diffusione di progetti innovativi e prototipici come
quello newyorkese della Greenway. Questa tendenza, che
sta generando un nuovo paesaggio urbano fatto di hinterland
urbanizzato e di core metropolitano verde, può già contare su
una sua propria immagine fotografica?
C’è un interessante concetto, espresso nelle pagine del Rapporto
2010 della SGI, quello della territorializzazione del paesaggio,
che deriva dalla fine della distinzione tra ambiti paesaggistici
d’eccellenza, monumenti, vedute straordinarie, ecc. e dall’altro,
ambiti privi di interesse. Il successo crescente del concetto “Tutto
è paesaggio” diffonde il paesaggio su tutto il territorio, e ne fa
un bene di importanza non assoluta, ma espressa in relazione
ai gusti, ai bisogni, alla storia e alla memoria degli abitanti. Da
tempo il paesaggio non è più ciò che è visto da uno sguardo
esterno, prima upper-class, poi grand-touristico, infine massturistico. Oggi il paesaggio è ciò che ognuno vede, e soprattutto
ciò che l’abitante vede del suo proprio ambiente vissuto.
32. John Davies, Westgate, dalla serie
The British Landscape, 1979-2005
33. Thomas Struth, Il Duomo di Milano
39
Possiamo prendere come paradigma della rappresentazione visiva
della città contemporanea alcune foto scattate da Rem Koolhaas
a Singapore e ad Atlanta, una sequenza di “un anonimo, plumbeo
paesaggio urbano” [Mastrigli, 2006], attraversato con l’auto e posto a
commento visivo del suo concetto di città generica. Scala mobile,
aria condizionata e cartongesso sono gli elementi costitutivi dello
spazio-spazzatura, e lo shopping non è più soltanto frenesia di
consumare, ma una “autentica essenza della vita urbana”; un
carattere che dalle città asiatiche si è ormai diffuso ovunque, così
come l’aspirazione alla bigness, che nasce già nei tardi anni Venti
con la fascinazione ispirata a Le Corbusier dal concetto russo di
bolshoi – grande – applicato all’architettura in un senso di qualità.
Nella fotografia del Ventesimo secolo la città appare densamente
popolata e animata di lavoro, industria, e attività di ogni giorno.
Strand e Weston raffiguravano questa frenesia, che però ora
è comune alla maggior parte del mondo. Al contrario, oggi la
rappresentazione della città è vuota e calma. Il banale della città è
rappresentato così da fotografi come i canadesi Jeff Wall e Greg
Girard, da Thomas Struth, e da molti altri. Questa inversione di
significato nella rappresentazione della scena urbana è forse il
segnale più evidente che ci ha lanciato la fotografia nel momento di
passaggio dal moderno al post-moderno: la città-macchina è una
metafora sorpassata, a cui possiamo ormai guardare con divertito
disincanto. Le problematiche della città contemporanea maturano
ed esplodono nel silenzio, dagli atti terroristici alle tensioni sociali
ed etniche, dall’inquinamento ambientale allo spreco energetico.
La frenesia ha lasciato il campo alla calma, una calma minacciosa
e difficilmente interpretabile.
40
34. Robert Frank, Canal Street - New
Orleans, 1958
35. Olivo Barbieri, New Delhi, 1999
3. ESPERIMENTI E DESCRIZIONI PRECOCI
1. Guardare la città.
I molti esempi storici di committenza fotografica pubblica sulla vita
urbana sono ricordati in sintesi da Giovanna Calvenzi [Sismicity 2010,
pp. 28-30]. Iniziando da Jacob Riis, un fotografo di origine danese
trasferitosi nel 1870 negli Stati Uniti. Riis indaga le condizioni di
vita spaventose nelle quali vivevano a New York gli immigrati
che arrivavano dall’Europa, scatta fotografie e le mostra nelle
sue conferenze pubbliche, poi realizza il libro How the Other Half
Lives: Studies Among the Tenements of New York, del 1890.
Con il suo impegno persuade Theodore Roosevelt, all’epoca
alto funzionario della polizia cittadina, a promuovere un vasto
programma di riammodernamento, risanando o demolendo gli
edifici e creando delle aree verdi. Questo è un esempio tra i più
perfetti di quanto si deve intendere quando si parla di un uso
progettuale della fotografia documentaria.
Un altro autore americano, Lewis Hine, ci fornisce un modello
altrettanto celebre. Tra fine Ottocento e inizio del Novecento,
Hine fotografa il lavoro dei bambini nelle miniere, nelle fabbriche,
per le strade, all’epoca consentito. Lo fa con occhio da sociologo
riformista, e usa le sue foto in conferenze pubbliche che provocano
una reazione tale da ottenere una legge che proibisce il lavoro
minorile.
Un episodio recente è il lavoro di Joel Sternfeld, che si è rivelato
essere un esempio di straordinaria efficacia di comunicazione
dell progetto della High Line di New York [Sternfeld, 2009], anche
grazie alla già acquisita notorietà internazionale dell’autore. Le
foto documentavano una realtà urbana che si voleva modificare,
e anche in questo caso dunque la fotografia ha contribuito alla
positiva evoluzione di un contesto urbano dequalificato.
In confronto all’importanza di questi lavori ormai classici, bisogna
riconoscere che c’è poca abitudine da parte degli enti pubblici
del nostro paese a premettere una indagine fotografica ai progetti
di rilevanza urbana e territoriale. Si potrebbe credere che deriva
da poca convinzione nell’utilità di questo modo di procedere.
Uno scetticismo che sembra ben espresso nelle parole di chi
afferma che “nella fotografia per l’urbanistica c’è più fotografia che
urbanistica” [Smargiassi, 2007], e che insomma per trovare fotografie
che abbiano condizionato una scelta urbanistica bisogna faticare
un bel po’. Scrive Smargiassi, in modo anche provocatorio: “Vorrei
essere smentito, ma credo che nessuna delle immagini contenute
in questo volume abbia davvero posto le premesse, o suggerito,
o modificato, le scelte di chi ha il potere di decidere sugli assetti
del territorio”.
Per contrastare una interpretazione così riduttiva occorre trovare
i casi a favore di quella contraria, cercando soprattutto in alcune
regioni del nord Italia, Lombardia, Emilia-Romagna (ne parleremo
diffusamente più avanti), Veneto, perché nel dopoguerra è da qui
che ha preso avvio l’opera di fotografi e di organismi pubblici e privati
dediti alla osservazione del paesaggio anche in termini critici e
36, 37, 38. Gordon Cullen, Townscape,
1961
41
interpretativi. Tra i casi di maggiore rilievo è una campagna voluta
dalla Provincia di Milano, l’Archivio dello Spazio, che per dieci
anni ha coinvolto un gruppo di cinquantotto fotografi che hanno
documentato tutti i paesi della provincia: un lavoro straordinario,
creativo, non solo di documentazione, che ha prodotto un
archivio (oggi conservato al Museo di Fotografia Contemporanea
di Cinisello Balsamo), di oltre settemilaquattrocento fotografie.
Un’importante opera di rilevamento. Cinquantotto fotografi
hanno sottolineato realtà positive e incongruenze del paesaggio
lombardo, ma è difficile dire se e quanto poi gli amministratori
pubblici hanno tenuto conto di queste suggestioni e di questi
suggerimenti, e la domanda di Smargiassi resta intatta, e forse
anche rafforzata.
Eppure, la fotografia possiede certamente in sé una capacità di
sintesi simbolica molto alta, che sembra proprio ciò che serve per
definire i caratteri della città. Questa è il risultato della costruzione
fisica dello spazio urbano come insieme di luoghi in cui vivono gli
abitanti, luoghi che cambiano di continuo e per questo si caricano
di nuovi significati. D’altra parte la città è anche il riflesso della
cultura degli abitanti, e dunque delle loro aspettative, dei loro
miti collettivi, dei loro stili di vita. La città pietrifica dei sogni, delle
idee. Il modo con cui ognuno di noi si mette in relazione con lo
spazio in cui vive deve molto all’immagine mentale che ci siamo
formati di esso. Lo spazio urbano è sia fisico che esistenziale,
le due dimensioni sono interdipendenti e in continua relazione.
La città mentale evolve insieme con la trasformazione della città
fisica, in modi difficilmente preventivabili, ma di cui è necessario
tener conto, perché ogni individuo, dopo le grandi trasformazioni
urbanistiche, ha comunque bisogno di ritrovare un equilibrio, di
riconoscere una continuità di senso che gli permetta di percepire
e conoscere la nuova città senza esserne disorientato.
Uno dei caratteri del post-moderno in campo architettonico è
stato infatti la riscoperta del senso, e questo ha coinciso con
un progressivo allontanamento dal funzionalismo: negli ultimi
trent’anni molte teorie dell’urbanistica hanno posto al centro
dell’attenzione l’utilizzatore: lo hanno fatto Aldo Rossi, Manfredo
Tafuri, Vittorio Gregotti, Bernardo Secchi.
A partire dagli anni Settanta l’urbanistica moderna è rimessa
in discussione. Emergono nuove rappresentazioni della città,
39. Paolo Monti, Monteacuto Ragazza,
1969
42
in particolare nel campo delle scienze sociali, più sensibili agli
spazi e ai riti della vita ordinaria. Negli ambienti professionali si
sviluppa un’urbanistica ispirata da scelte culturali, non soltanto
tecniche. Le lotte urbane di quegli anni, e l’emergere in senso
più allargato di una nuova cultura delle città sono i più diretti
generatori della nascita di concetti come lo spazio pubblico,
definizione coniata ex-novo negli anni ‘80. E’ da allora che le
pubbliche amministrazioni iniziano a mettere al centro della loro
azione questo nuovo concetto, che non è soltanto una categoria
di lettura, ma di azione, un paradigma dell’urbanizzazione degli
spazi; almeno a livello teorico, mentre spesso le realizzazioni
restano molto distanti dalle enunciazioni di principio. Strade
e piazze sono portate al centro del progetto urbano; i piani di
conservazione, che nascono in quegli anni, partono proprio dal
paesaggio urbano nel suo complesso, e non più solo dai singoli
monumenti. Spesso vengono pensati settori di viabilità protetta
dal traffico automobilistico, per creare nuovamente le condizioni
di un uso sociale dello spazio pubblico.
Esempi celebri sono stati la pedonalizzazione del Marais a Parigi,
in seguito la messa in valore delle ramblas a Barcellona, con effetti
molto importanti anche nell’incremento del turismo metropolitano,
mentre un rischio sempre presente è quello della museificazione
dei quartieri turistici. Questi temi diventano via via sempre più
centrali nel lavoro dei fotografi di paesaggio urbano, che in
quegli anni prende a diversificarsi in varie accezioni, più vicine
alle riflessioni disciplinari dell’urbanistica, uscendo dai canoni un
po’ rigidi della raffigurazione della città per vedute, ancora molto
legata alla tradizione pittorica classica.
2. Townscape, tra fotografia e disegno.
L’“impatto visivo” della città, che Gordon Cullen per primo descrive
nel suo libro del 1961, fa un uso largo e originale di analisi
fotografiche direttamente finalizzate al progetto urbanistico.
Il modo con cui Cullen intende la fotografia è però ancora di
stampo positivista e ottocentesco: l’autore non esiste, o se esiste
è l’urbanista, non il fotografo (e dunque non esiste l’autorefotografo). Cullen studia l’impatto visivo della città, cercando di
elencarne gli elementi caratteristici, a partire da una definizione
lapalissiana: “Se mi venisse chiesto di definire il termine
townscape direi che un edificio è opera di architettura ma due
edifici sono townscape, cioè paesaggio urbano”. Il suo obiettivo
è di comprendere il fenomeno urbano, ma soprattutto di stabilire i
principi di un’arte interpretativa che sia presupposto del progetto
urbanistico, “ricorrendo a un linguaggio continuamente fluttuante
tra descrizione e enunciazione di requisiti di progetto, riflessione
personale e categorizzazione teorica” [Di Biagi, 2009].
Cullen è convinto che “è quasi interamente attraverso la vista che
si percepisce l’ambiente”. La scena urbana è resa memorabile da
un insieme di drammatici eventi visuali che costituiscono la sua
ricchezza: “Quando si gira l’angolo la città comincia a rivelarsi,
non al primo colpo d’occhio, ma a poco a poco”. Nel libro vengono
elencate queste visioni seriali, registrate con fotografie e schizzi
presi in città inglesi e francesi, grandi e piccole, mostrando
le sequenze, le geometrie, i punti focali, le enclaves, i tagli, i
livelli, i reticolati, i particolari, le deviazioni, gli arretramenti e le
40. Berenice Abbott, Broadway, El
at Columbus Avenue and Broadway,
1935-39 ca
43
anticipazioni, e varie altre cose, in un elenco eterogeneo che
ha comunque il merito di essere un catalogo visivo sistematico
degli elementi costitutivi dello spazio urbano fatto attraverso
la fotografia. E’ un uso molto creativo e comunicativo della
fotografia, uno strumento di conoscenza e di riflessione utile per
il progetto, anche se la fotografia è qui intesa non certo in modo
autoriale, ma subalterno ai bisogni dell’urbanista. Se il progetto
è un processo che si articola in tre fasi, parte dalla conoscenza,
passa dal pensiero e si conclude in una decisione, le fotografie
di cui fa uso Cullen coprono la prima e gran parte della seconda
fase del processo progettuale.
Questo è il motivo sostanziale per cui questo testo sembra
essere ancora attuale - in un clima di rinnovato interesse per
la dimensione sensoriale del fare urbanistica, posta in antitesi
all’eccesso normativo-regolativo tipico di altre stagioni – pur
essendo evidenti i rischi di elementarizzazione e riduzionismo
a cui l’autore sottopone il paesaggio urbano, ed essendo datata
di mezzo secolo l’immagine che ne viene data. Il townscape di
Cullen era forse poco contemporaneo già ai suoi tempi, e un po’
understated: molti erano i riferimenti tratti dalla città storica e dalle
sue regole formative, pochi – anche quando venivano esaminate
questioni londinesi, quasi sempre riferite a spazi di piccole
dimensioni e in ambiti urbani marginali – i casi di rango davvero
metropolitano.
3. Geografi italiani.
A pochi anni di distanza da Cullen (1975), in Italia, due geografi,
Giorgio Bergami e Tonino Bettanini, ripartono più o meno da quel
punto per estendere il procedimento dalla città al territorio nel
suo complesso. Operano in un modo che visto oggi ci sembra
un po’ meccanicistico, secondo lo stile duro e funzionalista degli
anni Settanta, basandosi come al solito sull’interdisciplinarietà,
e con una oscillazione continua nella scelta di campo. Viene da
chiedersi, leggendo, se si sta parlando di fotografia o di geografia
[Bergami e Bettanini, 1975]. Di fatto il libro parla molto di tecnica della
fotografia, in modo manualistico. E di capacità di vedere in
senso fotografico (questo è il titolo del secondo capitolo), per poi
proporre un metodo di lettura del territorio (oggi diremmo sguardo
sul paesaggio) molto didascalico, simile al lavoro che Paolo Monti
stava svolgendo proprio allora per la Soprintendenza bolognese
alle Gallerie sull’Appennino. Prova ne sia che sono riprodotte
alcune di quelle immagini, scattate durante il censimento dei beni
culturali della valle del Santerno, indicandole come esempi da
seguire.
Il volume propone un modo di inventariare un territorio organizzato
per capitoli: natura, insediamenti e a architetture inseriti nel
territorio, agricoltura, industrializzazione (da notare il termine,
ancora legato a definire un fenomeno che è in corso in quegli
anni), flora e fauna, l’uomo. C’è un paragrafo sulla foto aerea, uno
sul territorio nei rotocalchi (le belle immagini), nelle riviste e nei libri
di fotografia, nelle pubblicazioni scientifiche. C’è un riferimento,
oltre che al lavoro bolognese, a quello toscano di Documentiamo
Firenze e la Toscana, una inchiesta per immagini patrocinata in
quegli anni dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze.
Un capitolo, il quarto, è dedicato alla città. E’ abbastanza inusuale
44
41. Peter Cook e Colin Fournier,
Kunsthouse Graz, 2000-2003
in quegli anni documentare non solo il centro storico e i beni
culturali, ma anche la struttura fisico-organizzativa e sociale della
città. Anche se poi il libro propone una visione ancora fondata
sulla crisi del rapporto città-campagna portata dalla rivoluzione
industriale, fortemente connotata dalla critica alla degradazione
dell’ambiente e alla crescente domanda di beni rari come l’aria,
l’acqua, il verde, in una concezione della città come “luogo che
tutto fagocita, crea il bisogno di un fine-settimana, di un turismo
di massa alla ricerca di ciò che la città stessa va distruggendo”.
Retto da questa visione un po’ ingenua e acerba, citando modelli
derivati dalla cultura politica del tempo (la controinformazione), il
libro continua poi a dare indicazioni per inventariare, e qui diventa
davvero identico agli scritti di Monti, che poi passeranno negli
anni via via in tutti i piani e le analisi dei centri e degli insediamenti
storici: la pianta della città (veduta aerea o panoramica), il
centro storico, la vita pubblica, il tempo libero, le comunicazioni,
la produzione, ecc., poi di nuovo la città nei rotocalchi, nelle
riviste e nei libri di fotografia, nei libri di testo, nelle pubblicazioni
scientifiche. Un capitolo è dedicato al quartiere, con una
esemplificazione fotografica sui quartieri popolari di Genova che
contiene le immagini di una mostra del 1969, realizzata come
esperimento di socializzazione della conoscenza dell’assetto
urbano della città. In generale, la ricerca è fortemente debitrice
a una cultura antropologica ed etnografica, e contiene infatti
indicazioni operative molto pragmatiche (che oggi ci sembrano
ingenue nella loro ruvida spregiudicatezza): “E’ bene abituarsi
il più possibile a scattare istantaneamente foto, anche se con
il rischio di farle leggermente mosse o sfuocate. E’ preferibile
una foto leggermente imperfetta, ma precisa, nel significato, ad
un’immagine perfetta tecnicamente, ma vuota”.
42. Bernd e Hilla Becher, Eight Views,
Haupstrasse 3, Birken, Germany, 1971
4. Approcci sociologici.
I contatti stretti che in quegli anni la fotografia istituisce con
l’urbanistica, la geografia, la sociologia e le scienze sociali trovano
conferma nell’interesse per il mezzo fotografico di un famoso
sociologo come Franco Ferrarotti, che in quegli stessi anni
pubblica un testo con proprie fotografie disciplinari, fatte a partire
dal 1968 in Brasile e poi in Unione Sovietica, Stati Uniti, Svizzera,
America Latina, Ungheria e Mezzogiorno d’Italia [Ferrarotti, 1974].
L’autore osserva che i manuali di fotografia insegnano come
fotografare, ma non perché. Si dice sorpreso dello scarso uso della
fotografia nelle scienze sociali – salvo l’etnografia, l’etnologia e
l’antropologia culturale – dove però essa è usata per documentare
e far conoscere il diverso, il lontano, il primitivo, e dunque non
tanto per aiutare una riflessione, che è un passo successivo, più
raffinato e consapevole. Perché dunque, questo estraniamento
tra fotografia e sociologia? Forse il sociologo, “ultimo venuto nel
mondo pur vacillante dell’accademia, si condanna ad essere più
accademico degli altri e si vieta quelle frivolezze che volentieri si
perdonerebbero, come momenti di piacevole umanizzante relax
agli accademici più stagionati”.
Tra i rari esempi dell’uso della fotografia nelle scienze sociali,
l’autore ricorda il libro Street life in London del 1877, di John
Thomson e Adolphe Smith, con 36 fotografie di poveri londinesi,
dove le immagini finalmente non mostrano strani usi e costumi
45
di popoli primitivi, ma i problemi e le anomalie di casa nostra.
Ferrarotti – che osserva che “fotografare la povertà è difficile
perché è difficile fotografare la mancanza di oggetti, il vuoto, la
penuria” - pone questa indagine a capostipite di libri famosissimi
come Let us Now Praise Famous Men, di James Agee. Mentre
Jacob A.Riis, che nel 1870 sbarca a New York dalla Danimarca,
è la premessa necessaria del lavoro successivo di Lewis W.Hine,
Walker Evans, Dorothea Lange, Berenice Abbott e vari altri. Agee
sembra credere che l’obiettivo fotografico batte l’occhio umano,
che “vede meno rapidamente e meno fedelmente dell’obiettivo”,
ed è “naturalmente, inevitabilmente selettivo”. Agee racconta la
povertà, “vista da una certa distanza”. La questione della distanza
è decisiva, nella fotografia di paesaggio: se sei vicino, e quanto,
o lontano, e quanto, fino alla lontananza siderale della fotografia
aerea. “La conoscenza esige crudeltà e qualche profanazione”,
dice Ferrarotti parafrasando Agee. Il libro ricorda poi la Farm
Security Administration americana, e la sua particolarità di
far viaggiare il fotografo con uno scrittore (Evans e Margareth
Bourke-White, per esempio), o con un economista (Dorothea
Lange e Paul Taylor), secondo principii di multidisciplinarietà. C’è
poi una notevole osservazione sull’ “infantile (faustiano?) tentativo
di una presa eterna sul reale (all’attimo che fugge: <Fermati. Sei
bello>)” che si associa spesso a un modo ingordo, sprovveduto e
irriflessivo di fotografare, tipico del dilettante.
5. Il pop e il primato dell’immagine.
Non c’è dubbio che a facilitare la relazione tra architettura e
fotografia, tra città e fotografia sia stata dagli anni ‘50 in avanti
la pop-art. Il pop in architettura, i cui maggiori ispiratori sono
stati Alison e Peter Smithson e Reyner Banham, sottolineava i
caratteri low-cost e massificati dell’architettura, il suo essere sexy
e glamour, giovane e velocemente transeunte. La fotografia,
per la sua facile riproducibilità, la sua diffusione di massa, la
sua (presunta) facilità di comprensione, era lo strumento più
adatto a diffondere la cultura pop nella raffigurazione della città e
dell’architettura. La forma architettonica non è più soltanto ciò che
consegue alla funzione, come voleva il funzionalismo ante-guerra,
ma costituisce un’immagine, e questa è in larga misura la novità
portata, insieme, dalla cultura pop e dalla fotografia, in modo
coincidente. Molti edifici contemporanei sono diventati soprattutto
- se non quasi esclusivamente - icone e segni, simboli per attrarre
le masse non attraverso un programma di funzionamento e di
contenuti, ma attraverso sensazioni. Ciò provoca nel pubblico
un’esperienza spaziale completamente differente rispetto al
passato [Konrad, 2008].
C’è un grande rilievo delle immagini nella cultura pop, e in
particolare nell’architettura pop, e per questo la fotografia è uscita
ingigantita dalla diffusione di questa cultura negli ultimi decenni,
e dalla preponderante considerazione iconica dell’architettura. La
semiotica degli spazi, architettonici e urbani, oggi pone al centro
del significato l’icona, l’oggetto architettonico solitario e scultoreo,
che funziona come un’attrazione di massa. L’icona ovviamente ha
molto a che fare con l’uso dell’edificio come marchio, come brand
di imprese, società, companies. La produzione di immagini è molto
incentivata da questa preponderanza della dimensione iconica
46
43. Ugo Mulas, Dormitorio pubblico, 1973
dell’architettura e del paesaggio urbano, e a sua volta la rinforza,
la propaga incessantemente, generando figure memorabili del
nostro ambiente sociale. L’architettura iconica è capace, in questo
senso, di produrre molteplici identità per le masse.
Da questo punto di vista, la Torre Eiffel è il prototipo. Oggi altre
architetture super-iconiche sono il Museo Guggenheim di NYC e
quello di Bilbao, e la più recente Elbphilarmonie di Herzog & De
Meuron ad Amburgo. Questi edifici spesso hanno dei soprannomi,
a dimostrare la loro popolarità: la Schwangere Auster, l’ostrica
incinta, è la Congress Hall di Berlino, il Friendly Alien, l’amichevole
alieno, è la Kunsthaus di Graz di Peter Cook & Colin Fournier, il
Bird’s Nest, il nido d’uccello, è lo stadio olimpico di Pechino di
H&DM, The Cloud, la nuvola, è il Padiglione Expo a Yverdon-lesBains di Diller & Scofidio.
Tutti questi edifici hanno provocato milioni di fotografie, e sono
stati promossi da fotografie. Il nesso tra la fotografia e lo sviluppo
dell’architettura (e della città) pop è evidente, ed è questo uno
dei fattori per cui città e fotografia nel secondo dopoguerra hanno
avviato una relazione così promettente e di successo.
44. Mario Giacomelli, Marche, 1978
6.Riflessi (sbiaditi) della città.
L’avvicinamento dei processi concettuali di arte e architettura è un
carattere della città contemporanea, dove l’arte pubblica esercita
una funzione critica molto precisa ed efficace, forse proprio perché
riscatta con una vivacità antagonistica la sua forzata esclusione
dai processi di pianificazione, a cui da sempre la condanna la
cultura urbanistica pubblica. Come parte dell’arte pubblica la
fotografia entra così a discutere della città contemporanea.
Ma perché poi la fotografia è così capace? Perché, soprattutto,
ne è così capace la fotografia d’autore, proprio quando i nostri
tempi ci forniscono tanti strumenti capaci di commentare i
paesaggi urbani, come i videoclip, le simulazioni dei videogiochi,
le telecamere a circuito chiuso sparse negli ipermercati e in tutta
la città? Per la sua fissità. Francesco Jodice, uno dei più attivi e
affermati fotografi italiani della generazione di mezzo, sostiene
che la fissità delle fotografie ci costringe a un confronto, mentre
le storie proiettate scivolano via dallo schermo e dalla nostra
memoria. C’è nella fotografia una insistenza che nessun altro
mezzo è capace di perseguire.
Dopo una lunga fase in cui la fotografia era rimasta al di fuori della
considerazione di pratica artistica, gli anni Settanta segnano un
cambiamento decisivo di prospettiva. In Italia questo processo si
nota pienamente alla fine del decennio. Il 1979 è stato un anno
importante per la crescita della fotografia italiana. La mostra
Venezia 79. La fotografia fu una grande kermesse di 22 workshop
e 20 mostre in prestigiose sedi, dal Museo Correr alle sale della
Biennale, dedicate a fornire un panorama completo della storia
della fotografia, dall’Ottocento al contemporaneo. Il 1979 fu anche
l’anno del primo convegno, svoltosi a Modena, sulla fotografia
come bene culturale. E in quello stesso anno Franco Vaccari
pubblicò Fotografia e inconscio tecnologico, presso Punto e
virgola, la casa editrice fondata da Luigi Ghirri.
Il libro di Vaccari è tra quelli che contribuirono a far superare il
concetto esistenzialistico del “momento decisivo” di derivazione
bressoniana, radicatosi così a fondo nella cultura fotografica del
47
dopoguerra, secondo il quale il fotografo padroneggia in modo del
tutto logico la macchina, piegandola alla sua visione e lasciandole
il semplice ruolo di strumento meccanico. Il fotografo è colui che si
trova nel punto giusto al momento giusto, questa è la sua abilità,
se non la sua arte. Vaccari espropria in larga misura il fotografo
di questo carattere quasi miracolistico, e lo pone su un piano di
consapevole incertezza, di misurata casualità, di libertà vigilata.
Vaccari aveva presentato la prima mostra di Ghirri a Modena,
nel 1971. Artista di primo piano egli stesso, Vaccari considera
merito del concettualismo lo sdoganamento della fotografia come
arte. Sottolinea però un effetto paradosso, in quanto l’eccesso di
mitizzazione della figura del fotografo che si è creato con il tempo
è totalmente in contrasto con il credo concettuale. La fotografia –
sostiene Vaccari - è un segno, sia che l’autore ne sia cosciente,
sia che no. Più un autore è presente, e meno ciò che è prodotto
è una fotografia. In una fotografia, più che in una pittura – dove
l’autore è autore in un senso pieno, totale – i significati appaiono e
scompaiono in continuazione: la fotografia contiene e rappresenta
anche cose che all’autore sfuggivano, mentre scattava. Queste
cose possono restare invisibili, o meglio prive di senso a lungo,
prima che qualcuno le riconosca e le interpreti. In questo modo,
le fotografie conservano molto a lungo una grande quantità di
senso.
La fotografia documentaria in questo senso è un po’ un’invenzione
priva di reale significato: essa non proviene dal fotografo, ma
deriva dall’uso che se ne fa, se l’uso è documentario, allora la
foto è documentaria [Lugon, 2008]. Al tempo stesso la fotografia è
un segno instabile, ha bisogno di una didascalia, di un testo per
essere orientata, per prendere un significato. E poi non bisogna
dimenticare l’importanza della distanza di ciò che è fotografato,
dall’obiettivo. Autori come Marc Augé hanno parlato di una estetica
della distanza; in questo senso, ogni distanza ha una sua estetica,
fino al caso di certa fotografia che si allontana visibilmente dalla
realtà, proprio perché resta distante da ciò che fotografa. Già le
avanguardie storiche avevano messo in evidenza la relatività e
l’ambiguità del rapporto con il reale, aprendo la via a una crisi
45. Nino Migliori, Muro
48
irreversibile della rappresentazione, che paradossalmente,
anziché provocare una crisi anche della fotografia, la spinge invece
ad entrare definitivamente nella cultura contemporanea. Negli anni
Sessanta-Settanta, proprio quando si supera il reportage classico
alla Cartier-Bresson, la fotografia diventa strumento di lavoro per
gli artisti, spesso in chiave concettuale. Dopo quegli anni, che
costituiscono l’immediata premessa per il suo decollo, vengono
gli anni Ottanta e Novanta, nei quali la fotografia consolida la sua
posizione e giunge alla fase di massima espansione.
Nel 1973 si tiene a Torino una mostra importante, Combattimento
per un’immagine. Fotografi e pittori, per mettere in luce l’uso
sempre più generalizzato da parte degli artisti della fotografia
per le loro ricerche e il loro lavoro. La mostra torinese costituisce
in Italia il momento fondativo della ricerca dei rapporti tra arte
e fotografia [Guadagnini-Maggia, 1998]. Gli anni fra il 1968 e il 1973
sono quelli in cui nasce il fenomeno dell’utilizzo della fotografia
all’interno delle ricerche artistiche, un periodo in cui ancora si
mescolano figure di “artisti che usano la fotografia” con figure
di fotografi “puri”: Paolini, Penone, Pisani, Pistoletto e molti altri
artisti espongono sempre più frequentemente le proprie opere
“fotografiche” accanto alle fotografie dei Becher, di Mulas, Cresci,
Vaccari, Friedlander. Del resto, molti fotografi orientano il proprio
lavoro secondo una forte componente concettuale che proviene
dalle ricerche artistiche contemporanee, come è il caso di Mario
Cresci, e negli anni successivi di Ghirri e Guidi. Questi ultimi
iniziano il loro lavori in quegli anni, come altri importanti autori
come Basilico e Gioli, che esordiscono proprio nel 1973.
L’affermarsi della fotografia nella ricerca artistica si deve
soprattutto alla necessità di documentare eventi destinati alla
scomparsa, come le performance. Il fenomeno dei rapporti tra arte
e fotografia sembra dunque nascere più dalla parte degli artisti
che dei fotografi, ma una delle ragioni può essere appunto che
molti dei fotografi-autori di quella generazione stava “nascendo”
in quegli anni – solo Franco Fontana e Mimmo Jodice sono già
affermati -, e dunque solo successivamente inizia a ingrossare la
schiera dei fotografi che diventano artisti.
Nella seconda metà degli anni Settanta e fino alla metà degli
Ottanta – il 1984 segna una data storica della fotografia italiana,
il Viaggio in Italia di Ghirri – questa mescolanza anche un po’
ambigua di arte e fotografia si allenta un poco, lasciando emergere
da un lato la figura di Luigi Ontani, determinante nel trasformare
la fotografia di documentazione in opera d’arte, e dall’altro
consolidando l’emergere della generazione di fotografi autori,
affiancati da critici come Quintavalle e scrittori come Celati, fino
a provocare una coesistenza, un parallelismo di arte e fotografia,
una situazione che accetta di guardare insieme i fotografi e gli
artisti, senza più i sensi di colpa o gli steccati del passato.
Le relazioni divenute più strette tra arte e fotografia diventano
determinanti, soprattutto nel disegnare una traiettoria di incontro
che incrocerà presto la descrizione del paesaggio urbano. Negli
anni Sessanta-Settanta la fotografia dilaga nel campo dell’arte
tout-court, e negli anni Ottanta diventa pienamente arte della
contemporaneità, raccogliendo i frutti della semina avvenuta
con l’arte pop e concettuale. La tendenza nata con gli anni
concettuali, di negare l’oggetto-quadro e sottolineare l’importanza
49
dell’idea, chiama fortemente in causa la fotografia, come
linguaggio più capace per natura di evidenziare l’idea, l’intuizione,
l’istante, lo sguardo. Dunque alla fotografia viene assegnato
progressivamente il “compito di rendere visibile l’invisibile qualità
del concetto e dell’idea” [Miraglia, 2001], oltre che di documentare le
performance della body art e gli eventi naturali (lontani e impervi)
della land art.
7. Arte e/o fotografia.
L’esplosione e la massificazione dell’uso della fotografia si deve,
negli anni del secondo dopoguerra, al grande sviluppo delle
tecnologie – soprattutto del colore – e al progressivo abbassarsi
del prezzo degli apparecchi fotografici, che diventano disponibili
per molti più utenti di qualche decennio prima. L’uso della
fotografia risponde anche alla necessità di promuovere i prodotti di
consumo, e quindi è un effetto del miracolo economico; fotografia,
réclame sui rotocalchi e sui quotidiani, advertising stradale e più
tardi la televisione si integrano in questo sforzo.
Gli anni Settanta vedono la crisi del fotogiornalismo e la nascita di
un grande interesse per la fotografia pubblicitaria e commerciale.
In Italia si dà alla fotografia un sempre maggiore valore intellettuale,
la fotografia entra nell’arte attraverso l’arte povera, la pop art, la
land art. La struttura dell’immagine e la percezione delle cose
divengono più importanti del soggetto rappresentato. Prima Mario
Giacomelli, uno dei più grandi fotografi italiani di paesaggio, più
tardi Gabriele Basilico e Guido Guidi si impegnano in un quello
che è stato detto un questionnement du paysage [Conzémius, 2009].
Paolo Monti è tra i primi, con i suoi chimigrammi, a cercare zone
di confine tra i due mondi negli anni ‘50 e ‘60, e a ben pensarci
si può inserire il suo lavoro – e quello di Luigi Veronesi e di Nino
Migliori – nell’informale. Anche le celebri verifiche di Ugo Mulas
non sono propriamente un lavoro artistico, ma la ricerca linguistica
di un fotografo che frequenta anche il mondo dell’arte. Vaccari
è il fotografo che maggiormente si affaccia all’arte, espone in
Biennale 1972, con la sua performance-installazione Lascia su
queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio.
Negli anni ‘70-’80 la fotografia di paesaggio (urbano) è stato
l’unico strumento di relazione tra il mondo dell’arte e quello
dell’architettura e dell’urbanistica; il primo ospitava molto
frequentemente riflessioni e pratiche connesse alla vita urbana
contemporanea, ma difficilmente riusciva a trasmetterle agli
architetti e agli amministratori, chiusi in discussioni sul sociale,
il politico, l’economico e facile preda di luoghi comuni, ripetizioni,
ossessioni, assolutamente privi di sguardo. Prova ne sia la
frequenza di piani ciechi, privi di rappresentazioni della realtà
su cui si andava ad intervenire. Anche piani celebri come quello
paesistico dell’Emilia-Romagna resterà, ancora alla metà degli
anni Ottanta, privo di immagini che non fossero cartograficozenitali; in questo modo la realtà in cambiamento sfuggiva alla
rappresentazione e infine alla comprensione. Gli urbanisti non
riflettevano sul paesaggio, ma unicamente sulle regole, sui servizi,
sulle quantità, sui temi sociali come il lavoro e la casa, sulle
discipline più recenti, come la conservazione dei beni culturali.
Ma restavano disattenti alla qualità estetica del territorio, perché
non si dotavano degli strumenti adeguati.
50
Il grande cambiamento avvenuto verso la fine degli anni
Sessanta nelle pratiche artistiche sta soprattutto nel passaggio
dalla rappresentazione alla registrazione della realtà [Barilli, 2006].
E’ un tema, come abbiamo visto, perfettamente connesso con la
fotografia e il suo stile, e dunque è naturale che ne derivi un uso
sempre più largo del mezzo fotografico, come quello che appunto
può registrare il reale, senza darne interpretazioni, o almeno
lasciando questa impressione.
Il combattimento per un’immagine nato con la mostra torinese del
1973 dura per tutti gli anni Settanta. E’ una gara dove la fotografia
recita secondo alcuni il ruolo di chi vuol decretare la morte dell’arte,
che ancora e sempre è rappresentata dalla pittura. Tanto che nel
bel mezzo di questa sfida nasce appunto l’iperrealismo, come
reazione della pittura che non vuole farsi da parte ma segue però
pedissequamente le fattispecie fotografiche.
Per quanto si riferisce al tema paesaggio urbano è determinante
che la pop art abbia posto in primo piano la riflessione sul valore
delle immagini nella società massificata e consumista, usando
per questo la parola popular, fin lì intesa nel suo senso rurale,
preindustriale e romantico e che con l’uso dell’abbreviazione viene
invece indirizzata verso il significato urbano e industrializzato.
Dunque, anche la spinta delle tendenze innovative dell’arte va verso
la città anziché verso la campagna e il paesaggio extraurbano,
che progressivamente assume sempre meno rilevanza
semantica. Dalla pop art si arriva in breve all’iperrealismo, che si
fonda ovviamente sul vasto ricorso alla tecnica fotografica. E al
minimalismo, con la sua predilezione per la semplicità esecutiva, e
il gusto di minimizzare l’espressione individuale e la piacevolezza
immediata. Tutti caratteri che riconosciamo facilmente nell’opera
di Luigi Ghirri.
Sol LeWitt è il primo artista che fa uso programmatico del
termine concettuale, che influenzerà molte pratiche fotografiche
successive. L’opera diviene importante come concetto, come
idea, come progetto, non tanto come esecuzione o come prodotto
autentico. Dunque si smitizza il culto dell’autore e dell’opera,
valorizzando il messaggio. Diventa centrale il tema della traccia
(che molti fotografi citano, tuttora, come fonte di ispirazione del
loro lavoro). Siamo al culmine della smaterializzazione dell’arte.
La fotografia – soprattutto se non si calca troppo il suo valore
tecnico, ma quello di riflessione, di punto di vista, di sguardo –
può avere molto a che fare con questo modo di intendere l’arte,
visto che la sua materialità è pari a zero o quasi nel momento
della produzione (lo scatto), mentre la materialità sta soprattutto
nella riproduzione (la stampa).
Oltre all’arte concettuale, un’altra tendenza che ha fortemente a
che fare con la fotografia di paesaggio e di architettura è la land
art, tra i cui protagonisti sono i coniugi Becher, maestri di Gabriele
Basilico, che “... dagli anni sessanta hanno iniziato a viaggiare
in cerca di caseggiati, fattorie, ma soprattutto strutture industriali
in disuso al solo scopo di fotografarle; ne risultano immagini
biomorfiche e quasi commoventi, che parlano del riassorbimento
nella natura dei prodotti che l’uomo ritiene inutilizzabili e della
tendenza contemporanea all’abbandono e allo spreco delle cose”
[Vettese, 1996].
Uno storico dell’arte molto attento da decenni alla fotografia è
51
Arturo Carlo Quintavalle, fondatore del Centro Studi e Archivio
della Comunicazione di Parma. Il suo volume Muri di carta, del
1993, porta la dedica “Per Luigi Ghirri, mio amico”. Si tratta del
catalogo della omonima mostra tenutasi al Padiglione Italia della
Biennale dal 13 giugno al 10 ottobre 1993, che ha avuto grande
peso nel sancire definitivamente l’entrata dei fotografi nel novero
degli artisti. Il volume raccoglie interviste con i fotografi e testi
su Nino Migliori e Luigi Ghirri. “Il tutto”, scrive Quintavalle, “vuol
essere un contributo alla ricerca su una fotografia intesa non come
arte, poesia, ma come critico momento di analisi, di riflessione sul
mondo”. Le fotografie del volume sono tutte conservate presso il
CSAC dell’Università di Parma. I fotografi sono 20, da Man Ray
a Walker Evans, e tra gli italiani Migliori, Ghirri, Basilico, Mimmo
Jodice, Giacomelli, Olivo Barbieri, Giovanni Chiaramonte, Mario
Cresci, Paolo Rosselli, Guido Guidi, Francesco Radino e altri.
52
4. LA CITTA’ DEGLI ARCHITETTI
1. La fotografia tra urbanistica e architettura.
“Da dove guardiamo?” è la prima domanda che bisogna farsi
nell’osservare il reale. La nostra posizione è il principio della
conoscenza. Questo vale ovviamente anche per il punto di vista
sulla città. C’è quello dal cielo, dove la dimensione della figura
umana scompare. E’ una visione geografica, geologica. Ma la
città non ha nulla della immutabilità della natura, occorre invece
conoscere le sue mutazioni, che da lontano sono poco percepibili.
La vista a volo d’uccello è un’utile via di mezzo tra sguardo
zenitale e percezione da terra; nel Cinque-Seicento le città
venivano rappresentate in questo modo, con le icnoscenografie,
capaci al tempo stesso di precisione topografica e descrizione
architettonica.
Albert Einstein diceva che le traiettorie esistono solo in relazione
a un corpo di riferimento. Trasponendo questa affermazione nel
campo fotografico, sarebbe a dire che è il soggetto da fotografare
– il corpo di riferimento – che pretende il giusto spostamento sul
percorso giusto per trovare il punto giusto da cui fotografare.
Analogo concetto è quello espresso dal filosofo spagnolo Ortega
y Gasset, secondo il quale la prospettiva è una delle componenti
determinanti della realtà; “una realtà che vista da qualsiasi punto
resta sempre identica è un concetto assurdo” [Espuche, 1994]. E
dunque il punto di vista, la prospettiva da cui guardiamo il mondo
è determinante almeno quanto i caratteri di ciò che vogliamo
fotografare, anzi il punto di vista si fonde con le caratteristiche
dell’oggetto fotografato, in altre parole il contesto è parte
dell’oggetto.
Il contesto dell’architettura, però, non è solo quello fisico, ma anche
quello disciplinare, normativo, che ne condiziona e ne orienta la
produzione. La città è costruita attraverso i regolamenti e i vincoli.
Se il contesto urbano, oltre che un insieme di oggetti fisici è anche
un complesso di norme, di idee e di visioni progettuali, allora per
verificare il potere di interlocuzione che la fotografia può avere
con le pratiche urbanistiche può essere utile passare in rassegna
alcune delle teorie sulla città moderna formulate da teorici, storici
e progettisti italiani del dopoguerra.
Per fare un esempio tra i molti possibili: il progetto urbano, pratica
teorizzata intorno agli anni Novanta come modo per uscire dal
campo ristretto dell’urbanistica pura e per promuovere concreti
strumenti di trasformazione delle città italiane, è stato ed è ancora
un ottimo campo di analisi per la fotografia. La sua dimensione
– più di una architettura e meno di una città – consente di
superare i limiti della fotografia di architettura – sguardo tendente
al convenzionale, analisi post-factum – e al tempo stesso di
ancorare lo sguardo fotografico a situazioni e ad ambiti precisi, là
dove si sta per sviluppare un progetto di rilievo sociale e non solo
privato come quasi sempre è il caso di una singola architettura.
Per giunta l’apertura di cantieri di vaste dimensioni e lunga durata
consente alla fotografia di documentare lo sviluppo del progetto,
53
implicitamente entrando più da vicino e più direttamente in un
ruolo progettuale.
Il progetto urbano è stato ritenuto un mezzo per unire buona
architettura con buona urbanistica, senza troppi squilibri a favore
dell’una o dell’altra. Anche quando il nome non era ancora stato
coniato, il progetto urbano esisteva già nei fatti, se appunto si
tratta di un progetto capace di coniugare discipline diverse ma
vicine, ivi comprese la tutela dei beni culturali e la capacità di
creare nuovi paesaggi, nella città e nei suoi immediati dintorni. Il
progetto urbano, parlando degli anni a noi vicini, torna a nascere o torna ad essere molto presente - quando la grande crescita delle
città è ormai alle spalle e bisogna confrontarsi con il riuso delle
aree urbane dismesse o degradate, cioè con la crescita dentro la
città, non al di fuori di essa. Se è vero che il progetto urbano non è
soltanto una architettura grande, è però difficile negare che esso
si realizza soprattutto attraverso architetture, ed è dunque una
occasione di fare architettura. E di confrontarsi con l’architettura
esistente. Non a caso tornare ad occuparsi di città costruita più che
di costruzione di appendici di città ha fatto sì che siano riemersi
i temi della costruzione moderna in centro storico e sia rinata la
questione della coesistenza di nuovo ed antico. Questo è uno dei
meriti del progetto urbano, inteso come progetto di riqualificazione
dell’esistente, promosso dagli strumenti urbanistici operativi dei
primi anni Novanta: i programmi integrati (nati nel ’92), di recupero
urbano (1993) e di riqualificazione urbana (introdotti da un decreto
ministeriale del 1994).
Molto è stato scritto su ciò che caratterizza e definisce il progetto
urbano. La scala, ovviamente, intermedia tra quella architettonica
e quella urbanistica. Ma anche i tempi diversi del processo
attuativo. L’affermarsi della pratica del progetto urbano avrebbe
accompagnato il passaggio dal piano immobile, regolatore a
quello strategico e strutturale, che cerca di confrontarsi con le
opportunità del progetto, con la verifica della sua fattibilità, con
le sue istanze estetiche e sociali. Si tratterebbe di guardare il
progetto dalla parte del piano anziché – come più sepsso si è
fatto – il piano dalla parte del progetto.
Nel dopoguerra, dopo l’entrata in vigore della legge urbanistica
nazionale del ’42 si è aperta una stagione dell’urbanistica che
aveva assegnato all’architettura un ruolo un po’ secondario,
conseguente, subordinato. Ma negli anni Ottanta lo sprawl
urbano ha reso evidente se non il fallimento, almeno le carenze
del piano; l’urbanistica si è come resa conto che con gli anni
aveva perso la sua connotazione di progetto, rintanandosi nella
sua versione minore, di regola, di prescrizione, ma che ciò non
ostante non controllava il territorio come aveva creduto, e si è
speranzosamente riavvicinata all’architettura, chiedendole aiuto
e collaborazione. Così l’architettura negli ultimi anni ha preso
a significare molte più cose di prima, anche paesaggio, anche
ambiente, anche città. Come in tutti i processi umani, una continua
oscillazione non genera equilibrio, ma transita solo per un tempo
molto breve per il punto di equilibrio, e a volte quei momenti
di passaggio possono essere unici nei loro effetti, producendo
tracce permanenti e memorabili nelle città. Questo purtroppo non
è accaduto in Italia, almeno non nella seconda metà del secolo
scorso, che non ci ha lasciato davvero prodotti memorabili, nel
54
campo dell’architettura. In questi ultimi anni, poi, l’ago della
bilancia si è forse sbilanciato troppo verso un’architettura solo
estetizzante, clamorosa, glamour, virtuale, di facciata, senza
alcun riferimento al contesto. Questo è il rischio congenito della
(cattiva o scadente) architettura, così come il rischio della (cattiva
o scadente) urbanistica è la bidimensionalità, come sosteneva
Bruno Zevi, e cioè la sua capacità di disegnare solo il terreno, non
lo spazio urbano.
Alcuni dei principali architetti e teorici italiani degli ultimi decenni
hanno lasciato contributi importanti su questioni fondative del
progetto urbano. Se ne può cercare qualche esempio, per vederne
i rimandi alla cultura fotografica. Concetti come “spazio urbano”,
“fenomeno urbano”, “monumento”, “parti di città”, “temi collettivi”
ricorrono nei loro libri, e passano sulla scrivania dei progettisti
spesso attraverso interpretazioni fotografiche d’autore.
2. Bruno Zevi e l’urbatettura.
Zevi coniò il termine di urbatettura per definire l’unità delle due
discipline e riconoscere i casi eccellenti. Si riferiva inizialmente
alle opere dell’architetto americano di origine polacca Jan LubiczNycz, secondo il quale l’urbanistica moderna ha prodotto due idee
con cui ha continuamente, e senza successo, cercato di rispondere
alle crescenti domande imposte dal processo di urbanizzazione.
Esse sono la città-giardino, scaduta a sinonimo di espansione
periferica; e la Ville Radieuse, che propugnò l’uso razionale di
edifici alti, la viabilità a più livelli, le sistemazioni paesaggistiche,
ma in effetti è stata utilizzata per realizzare enormi ed inumani
blocchi residenziali.
Secondo Zevi, la zonizzazione e la mentalità segregazionista
hanno continuato a lungo a separare la vita in compartimenti stagni:
zone industriali, zone residenziali, comunicazioni e trasporti, zone
ricreative. E’ necessario liberarsi da questa concezione di unità
isolate, pensare strutture organiche, con pluralità di funzioni,
atte a formare gusci-contenitori di umanità. La molteplicità delle
funzioni urbane non deve più essere affrontata col metodo di una
meccanica aggregazione, e può trovare una sintesi nell’, intesa
come la possibilità, insita nel progetto architettonico, di realizzare
parti di città, attraverso proposte mega-strutturali di contenitori
polifunzionali integrati che formano il tessuto urbano stesso.
All’origine di questo pensiero stanno le proposte utopiche dei
giapponesi, di Archigram, di Yona Friedman, che sono pressoché
coeve, ma nel suo caso gli studi si spingono a verificare la
concreta fattibilità strutturale, economica e sociale degli interventi.
Zevi utilizza il neologismo di Nycz in due sue opere, Il linguaggio
moderno dell’architettura (1973) e Storia dell’architettura moderna
(nella revisione operata a distanza di un quarto di secolo dalla
prima uscita, e cioè nel 1975). Con ciò dunque fa proprio il termine
urbatettura e lo introduce nel dibattito italiano, precisandone il
significato come superamento dei difetti delle due discipline: da
un lato il disegno a due sole dimensioni dell’urbanistica, dall’altro
il progetto architettonico che non dialoga con l’intorno. Per inciso,
da questi principi consegue che il disegno tridimensionale fa il
pregio dell’urbanistica, e questa posizione serve a rivalutare lo
schizzo, che non è solo un abbozzo dell’architettura, ma anche
55
del progetto urbanistico, come insegnava con la sua pratica di
urbanista-artista Luigi Piccinato.
Per Zevi il termine “urbanistica” è ambiguo e polivalente; riguarda
infatti tre aspetti: programmazione economica territoriale,
configurazione regolamentata degli abitati, costruzione spaziale
concreta della città. Anche l’architettura può essere suddivisa
in tre momenti: concezione economico-sociale dell’edificio,
distribuzione funzionale degli ambienti, realizzazione effettiva.
Per entrambe le discipline, i primi due aspetti attengono alla
progettazione, ma solo il terzo, quello concreto, è l’elemento
che occorre “saper vedere”. La distinzione fra urbanistica-spazio
esterno e architettura-spazio interno è uno schema utile, ma per
cogliere il carattere di “uno slargo, un vicolo, un quartiere valgono
gli stessi metodi critici atti a definire le sale, le gallerie, i portici, la
corte di un palazzo”. E’ operazione analoga, secondo Zevi, “saper
vedere” lo spazio architettonico e quello urbanistico, perché “la
realtà stereometrica di un edificio dipende dai punti di vista esterni,
cioè dalla conformazione dello spazio urbano in cui s’immerge; e,
viceversa, questo spazio è qualificato tridimensionalmente dagli
edifici che lo contornano ed elettrizzano. A rigore, non esistono
né architettura né urbanistica, ma soltanto urbatettura. Malgrado
il salto di scala, la sostanza del discorso non muta..
Zevi si chiede se lo spazio urbano configura gli edifici o ne viene
configurato, e si risponde che dipende dai casi. Due esempi
contrapposti sono rappresentati da piazza Farnese a Roma, in
cui il prepotente aggetto del cornicione michelangiolesco blocca
il prisma spaziale e conferisce significato all’insieme, e da piazza
del Campo a Siena, il cui valore sta invece proprio nell’invaso,
in quanto la cortina edilizia che la cinge è “neutra e opaca”, e
la torre del Mangia, che non è certo neutra e opaca, si rivolge
però non alla piazza ma alla città intera. “La circostanza che lo
spazio urbano sia generalmente scoperto – non lo sono peraltro
i bazar orientali, né le gallerie e i portici; case pensili ed archi
valicano le strade di Perugia e di Siena – non lo differenzia
dalle cavità architettoniche: implica soltanto che la linea di cielo,
segnata dai fastigi degli edifici, acquista enorme rilievo (…)”.
Questo concetto è evidentemente molto importante per le sue
implicazioni fotografiche: la città è precisamente quello spazio
in cui la linea di cielo è definita dallo skyline, essendo di solito
impossibile percepire dall’interno delle aree urbane l’orizzonte,
che è invece il tratto percettivo che distingue gli spazi extraurbani,
e per tradizione la veduta paesaggistica classica.
Zevi è stato certamente tra i teorici dell’architettura quello che più
frequentemente ha fatto uso della fotografia. Molti dei concetti
espressi più sopra erano corroborati, nelle sue pubblicazioni, da
immagini fotografiche. Che però restavano in una certa misura
subalterne alla visione dello storico, venivano cioè usate in una
modalità confermativa, e mai dichiarando il debito all’autore,
molto spesso ignoto. A volte i suoi libri sono illustrati con foto di
allievi dei corsi dello IUAV o della Facoltà di Architettura romana,
o ancora con immagini degli archivi storici, come Villani, Alinari,
Brogi, Anderson.
Uno dei momenti più ricchi di conseguenze nella carriera di Zevi
storico e critico è stata certamente la realizzazione della mostra
ferrarese Identità di Biagio Rossetti, che aprì nel giugno del 1956
56
nel ridotto del Teatro Comunale di Ferrara, una mostra realizzata
attraverso immagini fotografiche, che generò il libro su Biagio
Rossetti e più tardi il Saper vedere l’urbanistica. Zevi fa un uso
non autoriale e tutto sommato subalterno della fotografia, ma,
visti i tempi, lo si può considerare un pioniere dell’attitudine a
spiegare – grazie all’immagine fotografica - questioni spaziali, di
rango urbanistico e non soltanto architettonico.
La rivista L’architettura. Cronache e storia, che diresse per una
vita fino a una reciproca identificazione, è ovviamente costruita
in larga misura con fotografie. Alcuni numeri sono segnalabili,
sia perché contengono testi teorici su lrapporto tra fotografia e
architettura, sia per modalità d’uso peculiari della fotografia nella
interpretazione dell’architettura e della città [Galli 2003].
In L’A n. 16, febbraio 1957, Italo Insolera pubblica un testo,
Fotografia e architettura, tratto da “Ferrania” nn.8 e 9, agostosettembre 1956. Insolera sostiene che non è impossibile
fotografare l’architettura, come spesso si dice, quanto che è
impossibile documentarla con la fotografia, perché la fotografia
ce ne dà un’immagine bidimensionale e statica, mentre “un’opera
architettonica è estremamente mutabile con lo spostarsi di chi
la osserva”. Per questo, il lavoro di collegamento mentale tra le
diverse immagini presuppone una conoscenza precedente alle
fotografie, per poter dare luogo a una associazione fra le immagini,
a una sequenza significativa, e soprattutto conforme al vero. In
altre parole, la soggettività di chi guarda ed elabora con la sua
esperienza le fotografie, mettendole in una sequenza “sensata”,
è decisiva quanto lo è quella dell’autore delle immagini, e questo
alla fine conduce a una modificazione del senso dell’architettura,
dell’opera dell’architetto, che può perfino dar luogo a equivoci
interpretativi. Quella del lettore delle immagini è una terza lettura,
dopo quella dell’architetto e del fotografo.
Insolera parla di documentazione figurativa per definire quella
che è in grado di fornire la fotografia (ma anche il cinema, che
non fa che aggiungere movimento, e con questo connessioni
delle immagini che compongono la sequenza, ma fornendo
in questo modo il punto di vista soggettivo del regista), e cioé
conoscenza solo della figura, della forma. Per dare una compiuta
descrizione del fabbricato e mettere così in luce le “molteplici e
fondamentali relazioni che lo legano alla vita”, per fare un vero
discorso critico, legando così la storia dell’edificio con la storia
dell’uomo e della società, la fotografia può fare comunque di
più del disegno, superarne i limiti congeniti, quando ad esempio
fotografa le persone, l’uso che esse fanno dell’edificio, quando
fotografa il cantiere, le vicende che hanno portato alla creazione
di quell’architettura.
Questo è proprio quanto era avvenuto nella stessa rivista, con
un bellissimo servizio fotografico nel numero 13 del novembre
1956 sul Centro sociale cooperativo “Grandi e Bertacchi” a
Milano (a cura dell’architetto Franco Marescotti). Insieme con
le foto dell’edificio realizzato, ci sono fotografie dei volti degli
operai che l’hanno costruito, dei soci della cooperativa, degli
incontri nelle sale riunioni, insomma della gente e degli eventi
del processo costruttivo. C’è un bel testo di Emilio Tadini, che
spiega. Il progettista, nel suo testo di presentazione, dice che
vuole raccontare quattro anni di lavoro. Che è consapevole di non
57
46. Pagina interna di “L’architettura.
Cronache e storia”, n. 13 / 1956
aver fatto niente di speciale dal punto di vista architettonico, ma
rivendica la qualità del percorso, dal punto di vista sociale, politico
e culturale. Nasce così, dopo un lungo processo partecipativo,
il centro sociale, da osteria con il pergolato e il campo di bocce,
come era prima, uno dei tanti luoghi così nella periferia milanese
di quegli anni.
Alcuni numeri di L’A sono monografici, e dedicati al lavoro di un
singolo architetto, indagato soprattutto attraverso la fotografia. Fra
questi, il n. 82 dell’agosto 1962, dedicato a Bear Run, la Casa sulla
cascata di Frank Lloyd Wright, e il n. 262-63, agosto-settembre
1977, dedicato a una rilettura delle opere brunelleschiane in
chiave moderna.
L’opera dell’architetto americano è illustrata con immagini di un
fotografo non professionista, Paul Mayen, che ne dà una lettura
in progressivo avvicinamento, riferita anzitutto all’ambiente, al
terreno, agli alberi, alle rocce, all’acqua, e perfino alle diverse
58
stagioni. Poi si dilunga sui dettagli esterni, prima di passare
alle foto di interni. In questo caso, Zevi affianca le fotografie al
proprio editoriale e al saggio conclusivo di Edgar Kaufmann Jr.
dal titolo Venticinque anni nella “Casa sulla Cascata”, mentre nel
caso del numero sull’opera di Brunelleschi sembra appropriarsi
in modo molto più diretto della regia del percorso fotografico.
Una “promenade sensuosa e concettuale”, la definisce, affidata
all’ “obiettivo sagace” del fotografo Pino Abbrescia e di Pupa
Bucci Casari, Fabio Santinelli, Eugenio Monti. La ricerca visiva
si propone non solo una documentazione puntigliosa, ma precisi
intenti critici. E’ volta a una rivisitazione dell’opera del grande
architetto, “con occhi snebbiati dai dogmi rinascimentali”, per
reagire contro ogni tentativo di ascriverlo al filone classicista, con
una operazione analoga a quella in atto “da parte degli architetti
post-modern, per dilapidare l’eredità di Wright, Le Corbusier,
Mendelsohn, De Stijl, Scharoun, Aalto”.
In appendice, Zevi fornisce con la consueta perizia, una “chiave
delle immagini” appena viste dal lettore, riconoscendo tra esse le
“immagini-indice” - ad esempio, la porta d’angolo nella Sacrestia
Vecchia, o un contrafforte della lanterna della cupola di Santa
Maria del Fiore - oppure indicando come le fotografie riconoscono
le fabbriche brunelleschiane: come reticolo di appropriazione
urbana, o ancora sottolineando temi connessi a singoli elementi
architettonici, come la cupola, la lanterna, il rapporto tra interno/
esterno, o questioni di linguaggio come concavità-convessità, o
le analisi sulla luce come elemento generatore della spazialità
architettonica. E questo è appunto l’elenco di tematismi che
evidentemente Zevi ha fornito ai fotografi, incaricandoli di
verificarlo con le proprie immagini. Da questo punto di vista, questo
è un lavoro di survey fotografico paragonabile ai migliori esempi
di campagne fotografiche realizzate per indagare un fenomeno,
sia esso urbanistico, economico, sociale, ecc. L’unica differenza è
che si tratta in questo caso di un rilevamento architettonico.
3. Aldo Rossi e l’immagine padana.
Sviluppando le proprie riflessioni sul rapporto tra singoli edifici e
spazi della città (ma conducendole a conclusioni piuttosto diverse
da quelle di Zevi), Aldo Rossi, nel suo L’architettura della città
(1966), si chiede “dove comincia l’individualità di un fatto urbano;
se è nella sua forma, nella sua funzione, nella sua memoria o in
qualcos’altro ancora”. Conclude che si identifica con l’avvenimento.
E’ così ad esempio per il santuario, dove “si fanno i primi passi
verso il sublime”. Tutti sono consapevoli dell’avvenimento,
esso si ripete e si fa concrezione, diventa elemento di città. Non
basta la forma (dimensione, bellezza, particolare riconoscibilità,
grande capacità comunicativa, fascinazione, appeal, facile
memorizzazione, ecc.); la funzione è potenzialità, ma da sola non
è sufficiente a creare l’avvenimento, che deve esserci, e ripetersi,
e diventare necessario, atteso, simbolicamente ed eticamente
rilevante. E anche non basta la memoria, se col tempo si è estinto
tutto il resto, se essa è solo rievocazione mentale di un passato
morto, che non accade più. Queste riflessioni dovrebbero essere
stimolate in profondità, per dare luogo a un piano urbanistico
fondato.
Ma è possibile prefigurare l’avvenimento? E’ possibile imporlo,
59
con la semplice destinazione di un’area, con la sola localizzazione
di un edificio, o individuando un comparto di intervento, un ambito
di riqualificazione? Sembra arduo, se è vero che “la città è nella
sua storia”. Come diceva Cattaneo, Rossi è dell’idea che il
valore dei fatti urbani viene loro assegnato dal fatto che sono un
“immenso deposito di fatiche”. La città è un’opera di architettura
o ingegneria che cresce nel tempo. E dunque può darsi il caso di
una aggiunta al tempo nostro, attuale. Ma con quali regole, a quali
condizioni? Rossi risponde che è ancora valido l’insegnamento
empirico di Camillo Sitte, che raccomanda il “lato artistico” del
progetto urbano, sia esso una piazza, una strada o un edificio,
perché “artisticamente importante è soltanto ciò che può essere
abbracciato con lo sguardo, ciò che può essere visto”.
Quanto alle scale dei luoghi, se ne riconoscono tre, quella della
strada, con le costruzioni e gli spazi non costruiti; quella del
quartiere, costituito da isolati con caratteristiche comuni; quella
della città intera. Noi possiamo domandarci a quale di queste
scale si situa il progetto urbano, ma la risposta non è facile: alla
seconda, se è vero che si parla di scala intermedia. Alla prima
solo se il luogo o l’architettura hanno molta forza, all’ultima solo
se l’urbanistica ne ha poca, cioè se la dimensione urbana è
limitata, e dunque incapace di soverchiare il singolo intervento,
pur se esteso all’intorno.
Come è noto, Luigi Ghirri è stato un precoce e originale interprete
delle architetture di Aldo Rossi, e con l’architetto milanese,
tramite la figura di Vittorio Savi, ha intrattenuto un rapporto
di stima e di collaborazione più che amichevole. Per giunta,
hanno scritto pagine reciproche, cioè l’uno sul lavoro dell’altro.
Tuttavia le teorie di Rossi non sono mai state oggetto di un lavoro
fotografico specifico di Ghirri o di altri, ponendo la città al centro
di una indagine volta a commentare visivamente la concezione
rossiana. Sarebbe stato un compito indubbiamente ciclopico,
ma il contributo che ne avremmo avuto dal punto di vista della
diffusione di una percezione urbana acuta e problematica ci lascia
il senso di una mancanza grave.
47. Luigi Ghirri, Quartiere Gallaratese
(Aldo Rossi)
60
C’è poi da sottolineare che Rossi insiste in più parti del suo
lavoro teorico sul concetto di monumento, che è stato di fatto
rimosso dalla cultura urbanistica italiana degli ultimi quarant’anni
e che invece per natura ha forti connessioni con i caratteri alla
base del progetto urbano. La rimozione del monumento nella
nostra cultura urbanistica è quanto già notava Vittorio Savi
[Savi, 1976], e la riconosce come effetto della “stigmatizzazione
dell’architettura classicista del fascismo”. Ma, secondo Savi,
l’esempio del Gallaratese, dove l’edificio di Rossi sta accanto a
quello di Aymonino, dimostra che il monumentale può prodursi
sia con l’ordinamento assiale di Rossi che con “la più aggressiva
manipolazione delle componenti formali, la trascuratezza e
l’invenzione variata” di Aymonino.
Dunque il monumentalismo non è questione di linguaggio, ma
di tono; e non è peculiarità del totalitarismo, come vuole il luogo
comune con cui si “è stabilita una bizzarra equazione tra architettura
democratica e architettura articolata. […] Prescindendo dal livello
linguistico, nel suo libro Rossi chiarisce nei monumenti un congegno
principale e una forma sintetica dell’espansione urbana”, che oggi
parlando di progetto urbano siamo forse chiamati a riconsiderare.
Rossi scrive che i monumenti sono le persistenze, nella città, come
anche lo sono i tracciati e i segni del piano. Però questi elementi
permanenti sono di due tipi, sia patologici che propulsori. Qual è
la distinzione tra i due? Il carattere permanente e non patologico
– e dunque propulsore – del Palazzo della Ragione a Padova sta
nel fatto che è ancora usato, e pur essendo pacifico per tutti che
si tratta di un’opera d’arte, esso al piano terreno funziona come
un mercato al dettaglio, e questo è prova della sua vitalità. E’
abbastanza chiaro cos’è invece una permanenza patologica, e
Rossi lo spiega senza mezzi termini: “le conservazioni cosiddette
ambientali stanno ai valori della città nel tempo come il corpo
imbalsamato di un santo sta alla immagine della sua personalità
storica”.
Il valore dei monumenti è dunque propulsivo e benefico per
lo sviluppo della città: “il processo dinamico della città tende
più all’evoluzione che alla conservazione e nell’evoluzione i
monumenti si conservano e rappresentano dei fatti propulsori
dello sviluppo stesso. E questo è un fatto verificabile, lo si voglia
o no”. Se ne può dedurre che un obiettivo del progetto urbano
può essere la monumentalità, intesa in questo senso positivo, o
si deve continuare a credere alla contrarietà – di sapore zeviano
– al monumento come inaccettabile retorica?
Queste domande trovano frequenti risposte nel modo di
fotografare la città che vedremo nei capitoli successivi, da parte di
Paolo Monti e Gabriele Basilico soprattutto, dove le componenti
monumentali e la ricerca degli avvenimenti urbani concretizzati in
luoghi simbolici cercano di continuo un equilibrio – che ovviamente
ogni autore trova in posizioni diverse – tra loro.
4. Carlo Aymonino.
Anche Carlo Aymonino studia l’architettura come fenomeno
urbano. Nel senso che l’architettura è elemento costitutivo della
città, ma non coincide con essa. Nel suo libro Il significato delle
città Aymonino esamina i caratteri della città moderna (XVIII-XX
secolo) e prova a relazionarli a specifici interventi architettonici, in
61
particolare cerca di vedere se i nuovi processi di caratterizzazione
indotti dalle architetture hanno significativamente variato la
struttura urbana precedente. Utilizza per questo alcune analisi
specifiche, per esempio riflette sulla diade monumento-intorno,
e si interroga se questa, oltre a essere un parametro di giudizio
sul passato possa essere ancora una “indicazione operativa per
il presente”; si chiede se è possibile considerare la città come un
prodotto architettonico; si chiede se esista una crisi della tipologia,
intesa come elemento ordinatore e semplificatore dei fatti urbani;
e infine se la città può essere costruita per parti formalmente
compiute, se cioè l’architettura possa avere non solo una finalità
esemplificativa o dimostrativa, ma risolutiva.
Mentre Aldo Rossi identifica in sostanza l’architettura con le
emergenze, Aymonino considera il rapporto tra monumento
e intorno come il risultato di un processo storico, non è una
“categoria” valida in sé e dunque utilizzabile come indicazione
operativa. Anzi, esso entra in crisi con lo sviluppo delle forze
produttive moderne, crisi che peraltro va vista in una prospettiva
positiva, di apertura di nuove potenzialità. Aymonino si chiede
in che misura l’architettura moderna è una componente della
città contemporanea e si risponde che ciò accade solo nel caso
di Brasilia, e in minore misura con Chandigarh e Dacca. Se
prendiamo una guida dell’architettura moderna di Berlino, Vienna,
Parigi, Milano non troviamo che interventi puntiformi, anche le
Siedlungen di Francoforte e Berlino o gli Hofe di Vienna non
riescono ad essere parti di città formalmente compiute.
Le caratteristiche che accomunano alcuni famosi esempi di
architettura moderna (tra cui la Cité de réfuge di Le Corbusier,
il Sanatorio di Duiker a Hilversum, il progetto per uffici di El
Lissitzky e Mart Stam) a detta di Aymonino sono principalmente
due: che la loro “costituzione formale” si pone in contrasto con
la città esistente quale struttura che ignora o non permette il
manifestarsi di quella architettonica; e che al loro interno si
manifesta una assoluta indipendenza delle parti, “come rottura e
alternativa del rigido e gerarchico sistema compositivo barocco”;
un processo riconosciuto come principale contenuto della
architettura dell’illuminismo e pienamente congruente con l’età
dell’individualismo novecentesco.
In definitiva, Aymonino conclude che l’analisi urbana – una
materia che entrava proprio in quegli anni nel novero degli
insegnamenti universitari – non fornisce gli strumenti per
l’intervento architettonico: non c’è un nesso diretto di causalità, e
se vi fosse si cadrebbe diritti nella “imbalsamazione accademica
dell’architettura, come dimostrano ampiamente i progetti di
Muratori e della sua scuola” [Aymonino, 1975]. L’analisi urbana è
però uno dei pochi strumenti che possano dare “un contenuto
logico alla progettazione, assicurandone in tal modo i caratteri
di trasmissibilità e continuità dell’esperienza”. (In altra parte del
suo ragionamento l’autore rivendica anche il ruolo simbolico e
formale di alcune celeberrime “parti incomplete” della città, si
pensi al Prato della Valle a Padova). “L’analisi delle strutture
urbane interviene nella progettazione là dove si deve assegnare
un ruolo alle strutture stesse […]: quale parte delle città antica
mantengo e perché (restaurandola o trasformandola); che ruolo
assegno ai monumenti (confermando il precedente o mutandolo
62
completamente); quali permanenze trasferisco nel nuovo assetto
e quali abolisco ecc., sono tutte operazioni di progettazione”. La
città per parti formalmente compiute è comunque un problema
che può essere affrontato soltanto in presenza di due rare
condizioni: “la proprietà unica del suolo, pubblica o privata
che sia, e una dimensione dell’insieme che corrisponda alle
necessità da risolvere, dando loro forma concreta nella quantità
e nella qualità edificata”. E per concludere: “la definizione di
parte resta quindi un problema aperto: essa può essere un’unica
architettura, quanto un sistema che imposti la struttura d’insieme,
cui aggiungere liberamente le varie parti (come sostituzione del
rapporto <strada corridoio – case che vi prospettano>) o ancora
un settore urbano individuabile e definibile in sé (corrispondente
alle <aggiunte> storiche della città tradizionale. In tutti i casi il
carattere necessario (e non ancora sufficiente) perché una parte
si costituisca in quanto tale rispetto all’insieme, è che essa sia
formalmente compiuta, quindi architettonicamente riconoscibile;
e tale riconoscibilità è data dal giudizio (analisi + intervento) che
si dà sull’insieme”.
Non c’è dubbio che tra i fotografi italiani che più compiutamente
e proficuamente hanno lavorato sui temi della città antica e della
sua conformazione, sui suoi processi di crescita e di integrazione/
opposizione con la città moderna è Paolo Monti. Il suo rilevamento
dei centri storici – soprattutto il primo, quello bolognese – può
essere considerato il diario visivo dell’intuizione di un progetto
urbano ante-litteram, il piano del centro storico di Bologna. Se
ne parlerà in seguito. Ciò che sembra utile sottolineare in questo
momento, è la forza delle interpretazioni di Aymonino sulla città
storica, e l’indubbio travaso che tramite il suo lavoro si è avuto nella
cultura disciplinare italiana, e di qui nel lavoro contemporaneo di
fotografi come Monti sulla città storica.
5. Quaroni e le scale. Nel suo Progettare un edificio (1977), Quaroni si pone il problema
delle “scale di progettazione” e osserva che il processo progettuale
attraversa momenti razionali e momenti irrazionali, ma questi
ultimi sono crescenti quanto più ci si avvicina alla piccola scala.
Infatti la programmazione nazionale e la panificazione territoriale
e in larga misura anche quella urbana vede una forte prevalenza
dei contenuti sugli aspetti formali, e per questo si muove in un
maggiore ambito di razionalità e di scientificità, rispetto alla
irrazionalità-artisticità della scala architettonica. E dunque non
ci sono dialoghi tra le diverse scale? Quaroni sembra rispondere
solo nei termini della necessità di un dialogo tra gli specialisti delle
diverse scale, convinto che il bagaglio degli studi, l’atteggiamento
culturale e l’insieme delle tecniche di analisi e progettazione,
e perfino gli artifici e i segreti del mestieri creino differenze,
distanze e addirittura incompatibilità ideologico-comportamentali.
La soluzione starebbe nella “progettazione interdisciplinare”,
piuttosto che nell’esistenza di una figura in grado di controllare
ogni processo, dall’aeroporto al cucchiaio.
Quanto alla forma urbis e al modo con cui una città media si
trasforma ed evolve in una città grande, Quaroni cita alcune
modalità di crescita senza chiarire il ruolo dell’architettura. In
primo luogo ricorda la legge della persistenza del piano formulata
63
nel 1926 da Pierre Lavedan: il rinnovamento di una città tende a
realizzarsi – se non vi sono cambiamenti notevoli delle idee sulla
città – colla sostituzione, via via, dei singoli edifici con edifici nuovi
che quindi rioccupano esattamente il posto lasciato dall’edificio
più antico, mantenendo intatto, o quasi, il tessuto stradale. Inoltre,
i metodi elencati da Quaroni sono gli sventramenti, le addizioni
esterne, sia laterali (Ferrara, Modena, Berlino fredericiana) che
per fasce successive sempre più esterne (Firenze, Colonia, Roma
dopo il 1870) o per nuclei più esterni ancora (le new towns inglesi),
ed infine le “ristrutturazioni” di quartieri, intendendo – precisa – il
re design, ovvero la riprogettazione dell’intero tessuto, cioè non
solo i tipi edilizi ma le destinazioni e la viabilità.
Possiamo rintracciare in queste osservazioni molti temi tipici del
lavoro di diversi fotografi contemporanei, occupati a rappresentare
le stratificazioni della crescita urbana, ossia la crescita della città su
se stessa, ma anche l’aumento delle dimensioni orizzontali della
città, il modo in cui si forma il tessuto urbano, dal germogliare dei
tracciati e della occupazione del suolo al consolidarsi della trama
viaria e del riempimento dei lotti attraverso tipi edilizi diversi.
6. Politiche urbane pubbliche, un breve excursus.
I quattro casi di stretta relazione tra urbanistica e fotografia che
presentiamo nei capitoli seguenti si riferiscono ad autori (Monti,
Ghirri, Basilico, i nuovi topografi) che riflettono nel loro lavoro
– e in una certa misura anticipano – le questioni che la cultura
urbanistica contemporanea approfondisce a livello teorico ed
affronta poi anche a livello operativo. Lo scambio di informazioni
e riflessioni è continuo e bidirezionale, e dunque risulta difficile
stabilire il senso di provenienza. Quel che interessa è sottolineare
come la fotografia giochi un ruolo determinante in questo scambio,
lo abbia fatto negli decenni passati e possa continuare a farlo in
modo anche più preciso e frequente in una prospettiva futura.
Lo scambio tra fotografia e urbanistica transita in verità attraverso
un terzo elemento, la percezione urbana collettiva, che la fotografia
contribuisce a creare e che a sua volta determina gli orientamenti
dell’urbanistica. La fotografia, in quanto strumento che produce
informazione, concorre in misura non piccola all’opera di
“ricodificazione, ridimensionamento, riplasmatura e controllo dello
spazio nei suoi patrimoni ambientali” [Gambi, 1978]. “Concorre cioè,
secondo il suo specifico apporto - quello visivo – alle mutazioni
di significato del territorio in rapporto alla città e alla diffusione di
tale significato tradotto in immagine. […] L’immagine delle città
si offre pertanto come il risultato di un processo di interazione
tra l’esperienza del soggetto percipiente – nella quale entrano
anche i fattori del vissuto – e il dato oggettivo rappresentato dalla
presenza storica della città. La fotografia si inserisce come un
elemento di mediazione in questo processo di transazione tra
l’interno (il soggettivo) e l’esterno (l’oggettivo). Perché questa
transazione sia possibile occorre che l’immagine propria del
soggetto – l’interno – venga socializzata, divenga insomma
‘immagine pubblica’. E nello stesso tempo che il dato oggettivo
offerto dalla realtà si mostri il più vicino possibile all’immagine
soggettiva” [IBC, 1980]. In questo modo la fotografia partecipa alla
costruzione di un inconscio ottico collettivo. La modificazione del
contesto urbano passa prima di tutto attraverso la modificazione
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dei vari soggetti che interagiscono per quel fine: decisori politici,
progettisti, cittadini, realizzatori, ecc. La fotografia favorisce la
diffusione e il consumo del linguaggio che l’urbanistica produce.
Per questo motivo ci sembra utile rammentare in sintesi, qui di
seguito, i temi più importanti nel dibattito, nella pratica e nella
legislazione urbanistica dai primi anni Settanta in poi, con l’intento
di mettere in evidenza quanto il lavoro dei fotografi di cui si parlerà
attiva uno scambio continuo con questo settore, traendone
ispirazione e a sua volta restituendo interpretazioni.
Agli inizi degli anni Sessanta, il contenimento dell’espansione
urbana è già una necessità avvertita. Nel 1967 il ministro socialista
Giacomo Mancini riesce a fare approvare dal parlamento la
legge-ponte, il cui obiettivo principale era l’adozione di forti
limiti volumetrici alla edificazione nei comuni sprovvisti di piani
regolatori. Per non trovarsi a dover ridurre drasticamente l’attività
edilizia, i Comuni dovevano avviare le procedure necessarie per
l’approvazione degli strumenti urbanistici fino ad allora sempre
rimandati. Lo spirito della norma sta come è evidente nell’idea
– dimostratasi poi in larga misura eccessivamente fiduciosa
nelle virtù della pianificazione urbanistica – di poter contenere
lo sviluppo urbano grazie all’esistenza di regole di sviluppo
condivise. La legge non ebbe però efficacia pari alle attese, sia
per i limiti insiti già al proprio interno, che per gli ostacoli creati
via via dall’industria delle costruzioni e dallo stesso Consiglio di
Stato, ma soprattutto per l’intrinseca debolezza dei principi che
la sostenevano, basati sulla concezione tipicamente italiana di
un’urbanistica vista non come una visione strategica della città e
del territorio ma come limitazione all’attività edilizia, una riduzione
che è al tempo stesso autolimitazione e mortificazione della
disciplina.
Nel 1968, il decreto ministeriale che fissa i limiti minimi inderogabili
dei cosiddetti standard urbanistici – verde pubblico, scuole
dell’obbligo, parcheggi, attrezzature di interesse comune culturali,
religiose, sociali – introduce anch’esso innovazioni rilevanti, ma
contribuisce a mantenere la legislazione e la concreta attuazione
dell’urbanistica in una dimensione quantitativa che non può
affatto incidere sulla già avvertita e negli anni sempre più evidente
necessità di migliorare la qualità del costruito, in termini sia estetici
che funzionali e strutturali.
Il problema della casa, il movimento sindacale e la protesta del
‘68 conducono nel ‘71 alla approvazione della legge 865, che
riorganizza in modo radicale il settore dell’edilizia economica
e popolare, sulla spinta delle lotte per la casa di quegli anni.
Ancora una volta però l’approvazione di nuove norme si scontra
con immediate reazioni contrarie: questa volta della proprietà
immobiliare, che provoca successive sentenze della Corte
Costituzionale volte a rendere inefficaci o difficilmente praticabili
dai Comuni le nuove norme sulla espropriazione dei terreni,
prevedendo indennizzi altissimi e vanificando il tentativo della
legge 865 di separare il diritto di proprietà dei suoli da quello di
edificazione, concezione invece profondamente radicata nella
cultura del nostro paese, e che fu affrontata – e, di nuovo, solo
parzialmente risolta - nel 1977 con la legge Bucalossi.
A fine anni Settanta poi interviene un importante provvedimento,
la legge 457 del 1978 che istituisce il piano decennale per la
65
casa e introduce nuovi strumenti attuativi per il recupero edilizio, i
piani di recupero del patrimonio edilizio esistente. Si tratta di una
estensione all’intero tessuto edilizio delle concezioni del recupero
finora limitate alle parti più pregiate della città, i centri storici, la
cui politica di valorizzazione e restauro inizia in Italia già a fine
anni Sessanta, quando nel 1969 viene adottata la variante al
piano regolatore bolognese per il centro storico. Nel 1972 viene
presentato il progetto del Piano per l’Edilizia Economica e Popolare
nel centro storico, che prevedeva l’esproprio degli edifici di cinque
comparti, utilizzando la legge 865 del 1971 appena approvata
L’annuncio di questo progetto crea aspettative ma anche reazioni
contrarie. Tanto che pian piano le previsioni si ammorbidiscono
di molto, anche a seguito delle proteste dei piccoli proprietari, e
solo nel 1975 si sottoscrivono alcune (poche) convenzioni con
cui attuare privatamente il piano, restando prevalente l’attuazione
pubblica, con cospicui finanziamenti della Gescal, il fondo
costituito con il prelievo sugli stipendi dei lavoratori.
Nel 1975 viene istituito il Ministero per i Beni Culturali, per iniziativa
del senatore Giovanni Spadolini, che sarà il primo responsabile
del dicastero. In quel settore uno dei momenti di maggior fervore
politico-amministrativo deriva dalla approvazione della Legge 431
nel 1985, la cosiddetta legge Galasso, che obbliga le regione a
dotarsi di piani paesistici, elencando comunque aree di tutela
paesaggistica connesse ai fenomeni geografici e naturalistici più
importanti sul territorio, come coste, rispetto dei fiumi e dei laghi,
ecc.
Nel frattempo però, e negli stessi anni, continuano anche tendenze
contrarie, come la legge 47 del 1985, la Nicolazzi sul condono, e
nel 1982 la istituzione del silenzio-assenso come procedura di
autorizzazione edilizia, con conseguenze inevitabilmente negative
sull’espansione delle città, sia in termini quantitativi che qualitativi.
Come bilanciamento politico, interviene nel 1986 la istituzione del
Ministero dell’Ambiente, mentre nel 1990 esce la legge 142, che
prevede l’istituzione delle aree metropolitane. Il provvedimento
sembra quanto mai opportuno per governare con strumenti più
idonei le conurbazioni del nostro paese, ma rimane poi di fatto
inattuato, soprattutto per i problemi connessi alla inevitabile
soppressione o riduzione del territorio delle relative province.
Negli anni ‘90 inizia poi la fase della cosiddetta urbanistica
contrattata, che alcuni vedono come una inopportuna riscoperta
dell’architettura contro l’urbanistica. Il rapporto spesso conflittuale
tra le due discipline è storia vecchia in Italia, dove l’urbanistica
anziché connotarsi – come è stato nei principali paesi europei
nordici e di cultura anglosassone - come un insieme di regole
derivanti dalla necessità di governare processi sociali, demografici,
economici, sconta un “vizio di origine che ha visto l’urbanistica
condizionata dal forte legame con la cultura architettonica […] si
è così guardato alla fase finale di un processo di trasformazione,
quello degli aspetti formali, più che a governare la complessità delle
cause della trasformazione stessa. Nella concezione dominante,
se l’architettura era la disciplina del “come”, l’urbanistica era
quella del “dove” costruire; un’urbanistica, quindi, “ancella”
dell’architettura” [Scattoni, 2004].
La legge 179 del 1992 istituisce i programmi integrati di intervento,
lo strumento con il quale si presume di poter migliorare la qualità dei
66
quartieri di edilizia popolare, producendo una maggiore varietà di
funzioni, di tipologie edilizie, di operatori degli interventi. Nel 1993
la legge 493 introduce i programmi di recupero urbano, e nel 1994
un decreto ministeriale per la prima volta in Italia fa riferimento al
necessario recupero delle aree industriali dismesse, lanciando i
programmi di riqualificazione urbana. Molti strumenti urbanistici
innovativi, basati sull’urbanistica concertata o contrattata, che
in Lombardia e in Piemonte ha già dato luogo a deregulation e
polemiche su realizzazioni di grande entità come il Lingotto e
la Bicocca. Nel 1996 seguono i contratti di quartiere, nel 1998 i
programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del
territorio (PRUSST). Le periferie sono sempre più al centro delle
politiche urbanistiche.
Nel 2000 viene approvata la Convenzione europea del paesaggio,
è istituita la DARC, la direzione del Ministero per i Beni Culturali
che per la prima volta prende a occuparsi di architettura ed arte
contemporanee, nello stesso anno il XXIII congresso dell’INU a
Napoli è dedicato al “progetto della città contemporanea”, e quello
successivo del 2003 a Milano, a “Città e regioni metropolitane in
Europa”.
7. Casi di stretta relazione tra urbanistica e fotografia.
Come si è visto, tra l’urbanistica e il progetto autoriale in fotografia
si crea con gli anni un interstizio dove si forma una nuova materia,
il paesaggio urbano. L’urbanistica produce regole, procedure
approvative, idee di sviluppo territoriale e urbano, e conseguenti
atti di governo, previsioni edilizie, demografiche, infrastrutturali,
volendo anche un progetto di società (nelle sue versioni più
utopiche e irrealizzate), o almeno un progetto di nuova forma
urbis.
Di solito questo avviene con l’ausilio di materiali fotografici di
studio, rilievi speditivi, puramente conoscitivo-quantitativi. Sono
questi i materiali che confluiscono nelle decisioni e nelle scelte
dei piani urbanistici. D’altra parte esiste il lavoro di fotografiautori, spesso frutto di proprie istanze, di una propria sensibilità,
svincolati da esigenze di programmazione pubblica, ma influenti
nell’orientare lo sguardo collettivo.
C’è chi sostiene – probabilmente non a torto – che lo sguardo
d’autore è tanto più innovativo e carico di scoperte quanto più è
lasciato libero di esercitarsi al riparo di domande pressanti, senza
dover diventare verifica di qualcosa, di una tesi per esempio. Così
i ritratti di fabbriche di Basilico nascono in libertà, e in libertà anche
le ricerche di Luigi Ghirri. Tuttavia, sia esso libero totalmente o
parzialmente, lo sguardo d’autore ha portato negli anni mattoni su
mattoni alla costruzione del paesaggio urbano.
Ci si potrebbe chiedere se ha contribuito di più Monti o Ghirri a
fissare l’immagine collettiva dell’Emilia-Romagna. E’ un quesito
che ammette molte risposte, e dunque non ne produce davvero
nessuna. Apparentemente Monti ha avuto più effetto progettuale e
pubblico. Ma è stato così perché dietro Monti c’era una macchina
organizzativa potentissima. Al confronto, Ghirri ha prodotto effetti
con la sola forza della sua evidenza, della sua lapalissiana verità.
E’ un po’ anche come se Ghirri avesse smontato di giorno ciò
che Monti montava di notte. Con una metafora un po’ facile li
si potrebbe definire amici-nemici acerrimi, come Peppone e Don
67
Camillo, e come questi contribuiscono in fondo a evidenziare lati
diversi ma essenziali del paesaggio regionale.
Monti è l’ultimo grande fotografo interprete della modernità,
il suo è un racconto epico che ancora non smette di essere
raccontato, la città era quella delle politiche della conservazione,
l’avvenimento urbanistico era il piano del centro storico, il progetto
era il rilievo che le sue fotografie componevano incessantemente,
la forza della sua immagine condiziona a tutt’oggi l’idea di città
che Bologna esprime.
Ghirri ci appare come sguardo libero, ironico, demitizzante, che
si allarga sul mondo padano a macchia d’olio, come in quegli
anni la città iniziava ad allargarsi. L’avvenimento urbanistico non
è in questo caso l’effetto di un piano, di una politica virtuosa e
della sua programmazione efficace, è invece lo sprawl, la fine
della divisione tra città e campagna dopo secoli di lunga durata,
insomma gli effetti visibili della civiltà dei consumi di massa.
Basilico registra un po’ in tutto il mondo e anche in Italia la nascita
della megacittà-ipercittà e l’analogia delle sue forme, la ripetizione
dei suoi modelli. Nel suo sguardo, il moderno entra in scena ed
equivale all’antico, l’archeologia dell’industria si pone a fianco
di altri temi urbani concernenti la città antica, e l’avvenimento
urbanistico è la formazione delle aree dismesse, la nascita della
riqualificazione urbana, i programmi integrati di intervento per il
recupero dei quartieri popolari.
Guidi e i new topographics italiani sono gli autori che sanciscono
che la globalizzazione è compiuta anche da noi. Compaiono i nuovi
abitanti, la città inizia a diventare un mosaico di culture e di diritti.
Crisi economica e crisi della politica decretano la scomparsa dei
grandi progetti, il diritto ad auto-organizzarsi produce la fine del
paesaggio inteso come eccezionalità, e il diffondersi di un tono
qualunque che pervade ogni cosa.
I quattro casi che si esaminano in successione nei capitoli
seguenti evidenziano anche un progressivo spostamento
da un primo momento in cui – con Monti, in particolare – è la
fotografia a svolgere un ruolo subalterno, di servizio, nei confronti
dell’urbanistica come complessivo sistema tecnico, politico e
decisionale; e una fase più recente, in cui al contrario sembra che
sia l’urbanistica a cercare di interpretare i segnali che la fotografia
autonomamente e autorevolmente impone all’attenzione e
all’agenda delle pubbliche amministrazioni. Se Monti eseguiva
di fatto un programma definito dalla pubblica amministrazione
bolognese, Basilico e Guidi disegnano in larga misura gli orizzonti
di sensibilità relativi alle periferie e al paesaggio ordinario delle
nostre città.
68
5. PAOLO MONTI E IL PROGETTO POLITICO DEL
TERRITORIO
1. Premessa: una regione ad alto tasso fotografico.
La storia della fotografia in Emilia-Romagna tra il 1970 e il 1981
ci aiuta a leggere e a spiegare l’ascesa e la caduta della Regione
modello e della sua progettualità. Tra il 1970 – anno della mostra
Bologna centro storico e il 1981 – anno della mostra Paesaggio,
immagine e realtà, di cui parleremo più diffusamente nel prossimo
capitolo, a proposito di Luigi Ghirri - inizia a svanire la capacità
di interpretare le dinamiche territoriali da parte delle pubbliche
amministrazioni e della classe politica locale. Si è esaurita la spinta
propulsiva ideale della ricostruzione, la società rurale è ormai
scomparsa, è iniziata l’urbanizzazione massiccia e si affermano i
fenomeni di massa, con il turismo costiero, la realizzazione delle
autostrade, ecc. Le radici della crisi del modello politico emiliano
– che oggi è sbocciata in tutta la sua drammatica evidenza –
cominciano invisibilmente a formarsi già nel massimo momento
di “splendore” del capoluogo, quando il boom del decennio
precedente ha già orientato le scelte di crescita urbanistica con
lo sviluppo a nord e il piano di Kenzo Tange. La nascita della
cultura della conservazione avviene anche grazie a un blocco
ideologico e culturale molto esteso, trasversale e maggioritario,
che salda poteri locali, università, imprenditoria in una solidarietà
intransigente e impenetrabile.
L’Emilia-Romagna deve al lavoro che Paolo Monti ha svolto qui
tra fine anni Sessanta e metà anni Settanta una gran parte della
propria immagine, quella con cui è conosciuta dentro e fuori i
propri confini. Prima, molto prima – all’incirca tra gli ultimi vent’anni
dell’Ottocento e i primi venti del Novecento - c’è naturalmente la
serie delle inquadrature dei fratelli Alinari che più di tutte le altre ci
viene alla mente come fosse una ossessione da cui non possiamo
liberarci [Nicoli, 1992], e ci sono i vari fondi fotografici storici, di
Brogi e Anderson, Poppi e Romagnoli, custoditi nelle principali
fototeche della regione, dalla Panizzi di Reggio Emilia, al Centro
Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma,
alle Collezioni d’arte della Cassa di Risparmio in Bologna, oggi
confluite nel patrimonio della Fondazione Cassa di Risparmio.
E poi ci sono alcuni affreschi memorabili, come quelli di Paul
Scheuermeier, Enrico Pasquali, Paul Strand e Cesare Zavattini. Ma
è innegabile che l’immagine del paesaggio urbano della Regione
costruita da Monti proprio in quegli anni di transito dalla modernità
alla postmodernità ci colpisce proprio in quanto sembra essere
l’ultima delle grandi imprese che hanno visto una solida alleanza
della politica con la cultura e l’urbanistica; quando era ancora
possibile affermare le cose in modo così chiaro e perentorio, e
trovare al tempo stesso tanti osservatori - o forse per meglio dire
ascoltatori - così affascinati e convinti del messaggio portato dalle
fotografie.
L’ Emilia-Romagna è da sempre una regione dove la fotografia
attecchisce con particolare vigore. Alcune rassegne mirate, come
69
la mostra del 1997 alla Galleria civica di Modena curata da Walter
Guadagnini, hanno messo in evidenza che alcune città emiliane
– Reggio Emilia e Modena in particolare – e un’area romagnola
che ha il suo epicentro a Cesena vedono già negli anni Settanta
una concentrazione assai notevole di fotografi, spesso autoctoni,
favoriti anche da una altrettanto notevole attività istituzionale che,
in tempi diversi, ha certo contribuito a creare l’humus necessario
alla nascita e allo sviluppo d’una koiné artistica in grado di
prolungarsi nel tempo. Quattro autori vengono individuati come
l’antefatto: Franco Fontana, Franco Vaccari, Guido Guidi e Luigi
Ghirri. A cui altri ne conseguono – tra i quali Giovanni Zaffagnini,
Olivo Barbieri, Paola De Pietri, William Guerrieri, Corrado Fanti,
Luciano Leonotti, Riccardo Vlahov.
Tra le ragioni che vengono portate per spiegare questa
concentrazione fotografica, vi è l’esistenza di due centri
propulsori: la reggiana Biblioteca Panizzi – detentrice dell’archivio
Ghirri - e la modenese Galleria Civica; ma anche la costituzione
a Bologna del DAMS - Dipartimento Arti Musica e Spettacolo presso il quale dai primi anni Settanta insegnavano tra gli altri
Italo Zannier, Paolo Monti, Gianni Celati; e la creazione a Parma
per opera di Arturo Carlo Quintavalle del CSAC – Centro Studi
e Archivio della Comunicazione - oltre alla qualità dei docenti e
degli insegnamenti di fotografia nelle due Accademie di Bologna
e Ravenna [Guadagnini, 1997].
A questo elenco già ricco è necessario aggiungere l’opera
di Andrea Emiliani presso la Soprintendenza alle Gallerie di
Bologna, con la realizzazione delle precocissime Campagne di
rilevamento delle aree appenniniche: a Emiliani si deve anche
l’aver portato a Bologna e in Emilia-Romagna Paolo Monti, e il
progetto dell’Istituto regionale per i Beni Culturali, che negli anni
successivi eserciterà un azione di largo respiro nell’uso della
fotografia per il censimento dei beni culturali e soprattutto per
l’identificazione dei paesaggi storici della regione.
Questo fervore di idee e questa ricchezza di protagonisti si
moltiplica anno dopo anno, con la creazione di case editrici
precisamente orientate alla fotografia come Punto e virgola di
Ghirri, con la pubblicazione di libri fondamentali come Fotografia
e inconscio tecnologico di Franco Vaccari (1979), con alcune
imprese di Vittorio Savi, come la sua partecipazione alla mostra
bolognese del 1981, Paesaggio immagine e realtà, fortemente
connotata dal ruolo delle fotografie di Ghirri su alcuni centri della
pianura padana, e ancora con il sodalizio tra Ghirri e Savi nel
documentare il cimitero di San Cataldo di Aldo Rossi per la rivista
Lotus nel 1983.
Tutto questo culmina – come una sorta di celebrazione di
livello nazionale – nella mostra veneziana del 1989 per il 150°
anniversario della nascita della fotografia [Costantini-Zannier, 1989],
curata da Paolo Costantini al Museo Fortuny e dedicata in larga
misura al lavoro di Guido Guidi e Luigi Ghirri. Paolo Costantini
è uno dei giovani critici emergenti di quegli anni, insieme con
Roberta Valtorta, critici – come osserva Italo Zannier, che di fatto è
il loro maestro - finalmente formatisi sullo specifico della fotografia
e non ad essa avvicinatisi come storici dell’arte [Zannier, 1994].
Valtorta oggi dirige il Museo della Fotografia Contemporanea di
Cinisello Balsamo, l’unico museo di fotografia esistente in Italia;
70
Costantini scompare prematuramente, dopo aver contribuito a far
nascere, con Guidi, William Guerrieri – altro fotografo emiliano
– e l’urbanista Bernardo Secchi il centro Linea di Confine per la
Fotografia Contemporanea di Rubiera, attivo da vent’anni nella
perlustrazione fotografica del territorio regionale – e non solo.
Due giovani ricercatori della Facoltà di Architettura di Cesena,
aperta nel 1999, Stefania Rossl e Massimo Sordi, e una attiva
direttrice, Paola Sobrero, animano dalla fine degli anni Novanta
il Festival della fotografia di Savignano sul Rubicone, un piccolo
centro pedecollinare del circondario riminese. Soprattutto negli
ultimi anni il Festival si è occupato di temi legati al territorio: la
quindicesima edizione, quella del 2006, titolata Il viaggio. Azione,
esplorazione, conoscenza ha ospitato mostre personali di autori
come Olivo Barbieri, Francesco Radino e Gianni Berengo
Gardin. Nel 2007 (Singolare plurale. Identità e percezioni) viene
ospitata una rassegna del celeberrimo lavoro di Robert Frank,
Les Américains, la cui prima edizione risale al 1955, e l’altrettanto
celebrata Vietnam Inc. di Philip Jones Griffiths (1971).
C’è una data che
2. Prime avvisaglie di un’epopea.
segna un momento importante per la fotografia di architettura.
E’ il 1953, giunge in Italia il fotografo americano George Everard
Kidder Smith, e comincia un grande lavoro sull’edilizia della
ricostruzione che poi diventò il libro Italy Buildings. Il lavoro di
Kidder Smith è fatto da un architetto che è anche storico e anche
fotografo, ed è un particolare tipo di fotografia di architettura. In
senso stretto non lo è neppure, perché non riguarda – come di
solito accade - un singolo edificio, ma un tema (ma potrebbe essere
anche un periodo, o una zona geografica o culturale); insomma,
è una ricerca visiva con un forte spirito critico ed ermeneutico.
Un catalogo, in un’epoca in cui la catalogazione degli edifici non
era ancora divenuta una prassi scientifica, codificata da regole
messe a punto dai piani di conservazione e tutela, come avverrà
un decennio dopo.
Per questo, il lavoro di Kidder Smith richiama alla mente le estese
campagne di rilevamento urbanistico e culturale che furono
inventate in Emilia-Romagna nei tardi anni sessanta, facendo uso
49. Paul Scheuermeier, Comacchio, 1923
71
dell’obiettivo di Paolo Monti. E delle sue gambe, verrebbe da dire,
visto che il fotografo novarese è il migliore esempio del rapporto
intimo tra la fotografia di paesaggio e il camminare a piedi,
instancabilmente, facendo uso di quella particolare misura della
velocità che consente di entrare, uscire, avvicinarsi, allontanarsi,
procedere oltre e tornare indietro, ingredienti fondamentali per la
buona riuscita del rilievo urbano, o per meglio dire di quello stradale.
La città edificio per edificio, isolato per isolato, percorrendo strada
per strada.
Proprio in quello stesso anno 1953, Paolo Monti lascia il suo
lavoro di direttore del Consorzio Agrario Provinciale di Venezia,
si trasferisce a Milano e abbraccia la professione fotografica.
Durante la settimana Monti fotografava ciò che gli chiedevano
di fare, ma la domenica usciva armato della sua Leica e girava
per le periferie. “Restò un autore esistenziale; il fotografo del
tempo, si direbbe del tempo domenicale e pomeridiano della città.
Non si trasformò nel fotografo dello spazio dell’architettura. Non
lo diventò mai […] il che non impedì che fosse onorato come il
maggiore fotografo italiano di architettura” [Savi, Reggio].
Monti sosteneva che “le forme più antiche di fotografia sono
state certamente l’architettura e il ritratto, e poi la natura morta
e il paesaggio” [Valtorta, 2008(2)], e amava citare una frase di Paul
Valéry: “La vérité est un moyen; il n’est pas le seul”. E’ un mezzo,
non il solo; ma tanto vale usarlo. Le sue foto sono vere perché si
impongono come tali, perché nessuno le ha mai smentite. Anche
se con il passare degli anni l’evidenza dei fatti che ha descritto ci
appare radicata in modo molto più profondo nella realtà territoriale
dell’Appennino bolognese di quanto non sia per il monumentale
lavoro sui centri storici, ideologicamente orientato almeno tanto
quanto scientificamente condotto.
Monti è considerato un fotografo di architettura perché nel suo
archivio sono conservate foto di opere dei BBPR, di Anselmi, Albini,
De Carlo, Moretti, Quaroni, Gardella, Figini e Pollini, Magistretti,
Nervi, Pagano, Pancaldi, Ponti, Samonà, Scarpa, Sottsass,
Viganò e altri ancora dei principali architetti del Novecento italiano.
Ma è soprattutto notissimo in Emilia-Romagna per gli imponenti
rilevamenti dei centri storici, migliaia di immagini dedicate al
paesaggio urbano, decisive per la formazione dei piani urbanistici
di conservazione.
La vicenda che si svolge nell’Emilia-Romagna è inserita nel
contesto nazionale e internazionale, anche se mantiene suoi
propri caratteri di specificità. Sono molti gli studiosi che in questa
regione dialogano con la fotografia e con i fotografi dal loro
specifico campo disciplinare, con arricchimenti reciproci: storici
dell’arte, architetti, geografi, urbanisti. Sembra però che ognuno
si appropri delle immagini del territorio regionale per farne un
proprio uso specialistico e alla fine parziale, ideologicamente
orientato e dunque non pienamente efficace nell’interpretare le
trasformazioni che a partire proprio da quegli anni e fino ad oggi
hanno radicalmente mutato il volto della regione.
Questa regione esemplifica bene i modi della transizione tra il
paesaggio urbano moderno e quello contemporaneo. Il lavoro
che vi svolge Paolo Monti è una “grande narrazione” caratteristica
dell’epilogo del moderno, ne ha la dimensione, la forza e in un
certo senso la rigidità. Quella che vi si vede è la città moderna, nel
72
49. Luciano Leonotti, Porta Lame,
Bologna, 1993
senso di “non ancora contemporanea”, una città priva di periferia
e di espansione, e dunque anche di completezza. Si sente bene
dietro al fotografo la presenza della politica e delle sue scelte, già
prese e da render note attraverso una idonea propaganda visiva.
Questo rilievo del centro storico, volto alla formazione del piano
di conservazione, è rilievo, appunto, ma insieme anche progetto,
perché il progetto nulla deve modificare dell’esistente. Il vantaggio
offerto da questo modo di procedere sta nell’estrema chiarezza
degli obiettivi operativi, ma il suo prezzo sta nel ritardo che d’ora
innanzi si accumula nel comprendere l’evoluzione sociale della
città e nell’adeguare la struttura urbana.
3. Monti, Emiliani, la nuova cultura delle città.
La cultura urbanistica degli anni Settanta conosce una specificità
bolognese ed emiliana che esce perfino dai confini nazionali:
è la pratica della conservazione del centro storico, che per i
decenni successivi ha costituito l’obiettivo primario del governo
del territorio nella regione, transitando con poche variazioni nella
prima legge urbanistica dell’Emilia-Romagna (1978), nei piani
regionali - territoriale e paesistico - e di qui nelle articolazioni di
scala provinciale e comunale. Questo è stato, agli esordi dell’ente
regionale, l’approccio alla qualità urbana e territoriale.
Paolo Monti fu chiamato alla metà degli anni Sessanta dall’editore
Livio Garzanti a commentare visivamente la sua Storia della
letteratura italiana. Andrea Emiliani ne era tra i curatori editoriali, e
così il legame professionale e umano tra il giovane storico dell’arte
e il già maturo fotografo ebbe inizio. Emiliani in quegli stessi anni
avviava, essendo Soprintendente alle Gallerie Cesare Gnudi, la
prima campagna di rilevamento dei beni culturali dell’Appennino
bolognese (1969), secondo un progetto di censimento molto
attento ai legami con il territorio. L’occasione serviva per rifondare
la metodologia con cui compilare gli elenchi e descrivere i
beni, facendo entrare nel campo di interesse temi e oggetti fin
lì trascurati, come la viabilità storica o la cultura materiale, e
leggendo tutto il territorio come un museo, o contenitore di beni
culturali, e favorendo in questo modo una tutela democraticamente
estesa anche ai centri minori, piuttosto che che finalizzata alla
spoliazione degli oggetti d’arte per sradicarli e custodirli in musei
lontani.
Questi principi, che di fatto fondavano una nuova disciplina – che
per l’appunto fu elevata al rango di un ministero a sé stante e
scorporato da quello della Pubblica Istruzione, quello per i beni
culturali, voluto nel 1974 da Giovanni Spadolini – provocava
naturalmente una radicale moltiplicazione dell’uso del mezzo
fotografico, proprio per documentare l’esistenza degli oggetti
d’arte, le loro strette relazioni con i contenitori architettonici, e
particolarmente per certificarne la presenza, quasi come una
foto segnaletica o identitaria. Si stava transitando dal concetto
di monumento a quello di patrimonio culturale, allargando
gli oggetti della tutela e ponendosi dunque urgentemente la
necessità di riconoscerli, e poi di mostrarli, e di raccoglierli in
schede catalografiche. Per tutte queste funzioni la fotografia era
assolutamente necessaria, e Monti ebbe dalla Soprintendenza
alle Gallerie e dalla Provincia di Bologna questo incarico, esteso
alle valli appenniniche del Reno e del Santerno, tra il 1969 e
73
il 1971. Un modello di lavoro che poi negli anni sarebbe stato
portato avanti dai suoi continuatori; nel nascente Istituto regionale
per i Beni Culturali (costruito su un progetto di Emiliani, che
infatti metteva a frutto le esperienze condotte con le campagne
di rilevamento) operò negli anni successivi e per un trentennio
Riccardo Vlahov, il cui lavoro era di quando in quando integrato
da altri fotografi esterni, tra cui Guglielmo Rossi, Corrado Fanti,
Augusto Viggiano.
Le campagne di rilevamento dell’Appennino bolognese
lasciarono posto a prosecuzioni decentrate, avendo appunto
disegnato un metodo e dunque un modello replicabile. Ci sono
tuttavia differenze evidenti nel ruolo della fotografia di Monti se
confrontiamo questa esperienza con quella quasi contemporanea
– in parte coincidente, poi subito successiva - per la rilevazione
dei centri storici. Trattandosi dello stesso autore, degli stessi anni,
di luoghi e committenti così “prossimi” – tutte amministrazioni
pubbliche locali, e per giunta con forti omologie politicoideologiche - non è senza significato rilevarlo, perché la riflessione
che si può sviluppare concerne l’importanza del modo con cui le
committenze pubbliche si propongono di interagire con l’azione di
documentazione.
Le campagne di rilevamento – un termine dal forte sapore militare
che in effetti descrive l’occupazione del territorio montano da
parte delle ragioni della cultura e della storia – si fondano su
una interdisciplinarietà che assegna alla fotografia lo status di
strumento di ricerca visiva, a cui viene riconosciuta una dignità
del tutto analoga alle ricerche tipiche delle altre materie, la
storia dell’arte soprattutto, ma anche la storia, la geografia, la
geologia, la botanica, l’archeologia, l’antropologia. Monti, che
di lì in poi diventa l’autore del primo esemplare di paesaggio
urbano coniato direttamente da una amministrazione comunale
in Italia, percorre le strade appenniniche con una autonomia
decisionale perfettamente integrata con quelle altrui, e restituisce
una fotografia documentaria non particolarmente innovativa, ma
carica del sapore della scoperta; è un lavoro sul campo che ricorda
esempi storici notissimi, come la Farm Security Administration
americana, la ricognizione sul mondo rurale americano (circa
270.000 fotografie) voluta da Roosevelt e condotta negli anni 193743 da trenta fotografi – alcuni dei quali notissimi, come Dorothea
Lange e Walker Evans - che giustamente Andrea Emiliani cita tra
i riferimenti culturali e metodologici.
Evans spiegava in una lettera del febbraio 1934 di cosa deve
occuparsi la survey photography della FSA, e cita l’urban taste,
lo street smell [Jeffrey, 2008]. Cose difficili da definire se non le si
dimostra con l’evidenza e la capacità di convinzione che hanno
i grandi artisti, attraverso la loro opera. Seguendo l’esempio del
maestro americano, Monti fotografa borghi appenninici e oratori,
portici e strade, e non si può dire che non sia evidente il sapore
di quelle borgate, che non si sentano gli odori delle stalle, dei
campi, perfino delle chiese. La descrizione dell’Appennino è
oggettiva, misurata, non retorica, e non è poco, trattandosi di
territori interessati da una pesante crisi demografica, economica
e sociale.
Già pochi mesi dopo, nell’agosto del 1969, con la perlustrazione
visiva del centro storico bolognese che confluirà poi nella mostra
74
dell’anno successivo, si assiste però a un uso diverso del racconto
fotografico. Un uso che produce una manipolazione della realtà
bolognese, descrivendola in modo più ideologico che veritiero.
Anzitutto, la chiusura del centro al traffico automobilistico, se
poteva ritenersi necessaria per consentire una precisa lettura
dello spazio urbano e delle facciate degli edifici, produceva però
una alterazione della sua immagine quotidiana e concreta, a cui
Monti aggiungeva – con l’assenza di persone, e quindi con la
cancellazione della realtà sociale, dell’uso degli spazi – un carattere
di atemporalità, molto funzionale al messaggio che la fotografia
voleva veicolare: che quella scena urbana era l’ammirevole frutto
dell’arte e della storia, che era giusto desiderarne il mantenimento
o il ripristino – laddove fosse stata distrutta o modificata – e che
trasformarla in qualunque modo sarebbe stato peggiorativo.
Oltre alle automobili venivano allontanati i cartelli stradali e ogni
possibile inquinamento visivo; la città compariva, nelle foto di
Monti, come una scenografia teatrale, e l’astrazione tipica del
bianco e nero, spesso molto contrastato e con forti effetti grafici,
dava ancora di più un tono di sospensione e di rinvio a un periodo
indefinito della storia, altrettanto indefinito di quei caratteri originari
delle architetture a cui il concetto di ripristino – una delle novità
concettuali del piano di conservazione – rimandava, invocando
una reductio a un pristinum di epoca imprecisata e imprecisabile,
in quanto probabilmente mai esistita, ma soprattutto immaginata.
Le foto di Monti erano molto diverse dalla realtà urbana di quegli
anni: a parte la corrispondenza al reale degli aspetti architettonici,
c’era invece una inversione di senso delle immagini rispetto
all’uso sociale dei luoghi: l’assenza di traffico automobilistico e di
persone le raffreddava dislocandole in uno spazio-tempo astratto.
Stessa considerazione vale per la costante e inderogabile scelta
di tagliar fuori la rappresentazione della città contemporanea in
centro storico. Nelle sue inquadrature Monti rimuove molti elementi
della storia edilizia e urbanistica anche recentissima, come gli
aspetti della ricostruzione post-bellica in centro storico. Non solo,
ma la città novecentesca è ignorata in tutti i suoi aspetti: dalle
periferie storiche - comprendendovi quelle pubbliche dell’Istituto
Case Popolari o semipubbliche della cooperazione indivisa di
abitazione - alle realizzazioni anche di grande qualità dell’INACasa e dei piani di zona o dei Piani per l’Edilizia Economica e
Popolare, ai grandi interventi infrastrutturali come la tangenziale,
gli assi attrezzati di entrata in città, alle attrezzature pubbliche
come le scuole per l’infanzia, gli impianti sportivi. E se la ragione
più evidente sta nel fatto che molte di queste cose non sono
in centro storico e dunque sono escluse per definizione dalla
commissione ricevuta, c’è da dire però che da un lato invece il
centro antico contiene esempi di architettura recente anche di
qualità, e soprattutto che il paesaggio urbano così disegnato è
per definizione parziale e limitato, a meno di non voler sostenere
– come tuttora fanno alcuni radicali sostenitori della città storica,
che ne confermano i limiti alle mura medievali - che l’unica città è
quella storica, il resto non conta. Le fotografie che Monti dedica
all’architettura del Novecento sono davvero poche: qualche
immagine all’edilizia pubblica del Ventennio a Forlì, ancora meno
le presenze del secondo Novecento, talmente rare da apparire
memorabili nei pochi casi in cui ciò succede.
75
4. Esportazione di un modello.
La rilevazione dei centri storici compiuta da Monti produce un
effetto persistente, quasi una eco di vasta diffusione, e in un breve
volgere di anni, fino al 1975, sarà infatti replicata praticamente
identica in quasi tutti i centri storici delle città politicamente
omologhe dell’Emilia e della Romagna. L’affinità ideologica dei
committenti agisce come un’arma capace di agire con una forza
comunicativa e costrittiva in grado di condizionare i comportamenti
di un gran numero di progettisti, il pensiero di masse di studiosi e
studenti, e perfino di cittadini. L’onda è tanto lunga da risentirne
ancor oggi, se consideriamo quanto abbia attecchito presso la
cittadinanza la rimozione del moderno in centro storico che del
lavoro di Monti era un presupposto necessario. Non è un fatto
strano, se pensiamo che le immagini che Monti ha prodotto
sono oltre diciassettemila. Quasi tredicimila sono quelle relative
al territorio regionale e ai centri storici urbani minori e maggiori,
quattromila circa quelle inerenti il solo centro storico bolognese.
Nell’aprile del 1968 – e dunque prima del rilevamento di Bologna
- fu prodotto un primo piccolo nucleo di immagini relative a
Brisighella, Faenza, Ravenna, Bagnacavallo, Cesena, Rimini,
Lugo, Santarcangelo di Romagna, insomma le province romagnole.
Nel giugno ancora Cesena e l’appennino cesenate, oltre a una
prima ricognizione di quello bolognese, soprattutto in comune di
Porretta Terme, che costituì il materiale della prima campagna
di rilevamento promossa dalla Soprintendenza alle Gallerie, poi
utilizzato in una mostra a Porretta. Nell’ottobre dello stesso anno,
Faenza, Comacchio e ancora Porretta e dintorni. Nell’aprile del
1969 un’altra parte dell’Appennino bolognese (Grizzana, Vergato,
Camugnano), nel giugno l’indagine fotografica sulla strada di
crinale fra le valli del Reno e del Setta. Nell’ottobre Lugo, nell’aprile
del 1970 ancora l’Appennino bolognese, poi in giugno i comuni
di Monzuno, Vergato, Lizzano in Belvedere, Gaggio Montano, in
agosto Marzabotto, in ottobre circa quattrocento immagini di Pieve
di Cento. Nel marzo 1971 altre immagini di Pieve di Cento, di
Bentivoglio e di Castelmaggiore (dunque, la pianura bolognese),
nel giugno la vastissima produzione relativa all’Appennino
imolese (comuni di Castel del Rio e Casalfiumanese), quella
sull’Appennino forlivese nel settembre, e le immagini di Terra del
Sole in agosto, contemporaneamente all’intero centro storico di
Forlì, ancora nel settembre alcune zone dell’hinterland bolognese
(Corticella). Nel marzo del 1972 inizia il rilevamento del centro
storico di Cesena, che dura sei mesi, fino all’agosto inoltrato.
Intanto, nello stesso anno, i rilevamenti di Santarcangelo di
Romagna, San Giovanni in Persiceto e Medicina. Nel 1973 ancora
Medicina e, in agosto, chiuso al traffico come in tutti gli altri centri
storici maggiori, il centro storico di Modena. Nel 1974 l’indagine
sul territorio ferrarese: Bosco della Mesola, Valli di Comacchio,
Cento, Pomposa, il Po. In marzo-aprile Cervia e ancora immagini
su Brisighella e Cesena. Nel luglio 1975 altre immagini su San
Giovanni in Persiceto e, in agosto, il centro storico di Ferrara.
L’intensità, la densità di questo programma dà conto del metodo di
lavoro di Monti: lo spessore quantitativo del materiale è funzione
diretta degli intendimenti teorici che giustificavano l’opportunità
della esecuzione delle campagne di rilevamento. Tre infatti
76
51. Paolo Monti, Modena, 1973
52. Paolo Monti, Rimini, 1972
sono gli obiettivi principali, ognuno di per sé impegnativo. Una
revisione culturale del problema dei beni storico-artistici (quali e
quanti), una revisione amministrativa degli enti e degli organismi
territoriali preposti alla tutela (il Ministero non era ancora stato
creato da Giovanni Spadolini, e lo fu nel 1974), e una revisione
dunque del metodo stesso della gestione. Tutti e tre gli obiettivi
sono evidentemente connessi al decentramento regionale di
alcuni settori, tra cui l’urbanistica, ma anche – allora si sperava – i
beni storico-artistici. In primo luogo c’era una concezione globale
della conservazione che aveva un naturale bisogno del mezzo
fotografico: l’attenzione sempre più insistentemente rivolta alla
cultura materiale come riconoscimento della preminenza della
storia delle cose in un paese tradizionalmente irretito dalla storia
delle idee; e il conseguente spostamento da una erudizione
verticale, per settori, a un concetto orizzontale, per strati,
dell’indagine sul patrimonio storico; l’accantonamento di pregiudizi
accademici, come la distinzione tra arti maggiori e minori e la storia
dell’arte intesa come storia di biografie e di eventi straordinari; la
convinzione che il patrimonio artistico e storico consente e anzi
richiede un uso sociale, e, insieme, la messa in crisi del museo
come camera del tesoro.
L’importanza dell’indagine fotografica di Monti è indiscutibile per
le successive elaborazioni dei piani di conservazione edilizia
ed urbanistica; da essa conseguono in pratica anche i concreti
restauri eseguiti. Ma, come si diceva, è ancora più decisiva
nell’orientare il pensiero dei bolognesi – cittadini e amministratori
pubblici – in direzione di una ideologia conservativa ridondante,
peraltro perfettamente in linea con la tradizione della città, prima
carducciana, poi seguace delle teorie neo-medievaleggianti di
Rubbiani e Bacchelli.
Se la città comunicata è in relazione di causa-effetto con quella
progettata e poi realizzata, le foto di Monti resistono ancora oggi
come principale iconografia bolognese ed emiliana. Ciò è tanto
più evidente considerando che Bologna al di fuori di queste
immagini non ha altre rappresentazioni fotografiche estensive
e di pari rango per tutta la seconda metà del secolo scorso, se
si eccettua la campagna fotografica fatta eseguire nel 1955 dal
cardinale Lercaro nella periferia, tre anni dopo l’inizio del suo
episcopato bolognese. La scomparsa di queste immagini ci priva
di un documento storico eccezionale, esempio di un precocissimo
interesse per la periferia urbana e premessa indispensabile per
una operazione sociale, urbanistica e architettonica di portata
europea, la costruzione di oltre quaranta chiese nella nuova
periferia della città. La rimozione di molte delle azioni del
cardinale conseguita alla sua clamorosa destituzione nel 1968 ha
posto in ombra anche questa sua ciclopica opera pastorale, ed è
sicuramente tra le ragioni principali della eclissi dell’architettura
contemporanea a Bologna che avviene in pratica alla metà degli
anni Sessanta, forse addirittura prima dell’azione di promozione
della nuova cultura conservativa [Gi. e Gl. Gresleri, 2010].
Lercaro il 23 giugno 1955 effettuò per l’intera giornata un
sopralluogo nella periferia bolognese, alla ricerca delle migliori
localizzazioni per i progetti delle chiese di periferia. La giornata
resta documentata da alcune immagini conservate nell’archivio
Villani, oggi confluito in quello Alinari, che costituirono il nucleo
53. Luigi Ghirri, Modena, 1972
77
della mostra sulle nuove chiese, allestita nello stesso anno. In
parallelo con l’azione di comunicazione, il cardinale istituì un
“Ufficio Nuove Chiese” articolato in quattro sezioni – pastorale,
economica, tecnica e di propaganda – e affidò la struttura tecnica
alla direzione dell’architetto Giorgio Trebbi, più tardi ispiratore e
fondatore del Centro studi sull’abitare OIKOS. Si avviò così una
stagione di costruzione di chiese, 44 per l’esattezza, che raccolse
a Bologna architetti di livello nazionale – ad esempio, Vaccaro – e
internazionale, come Alvar Aalto e Le Corbusier.
5. Persistenza del piano.
Il piano del centro storico di Bologna – il primo della regione, e
a lungo il modello per quelli delle altre città, non solo emiliane
- divenne operativo nel 1969, essendo assessore all’urbanistica
Armando Sarti, su progetto di Romano Carrieri, Giancarlo Mattioli,
Vieri Parenti e Roberto Scannavini, con la collaborazione di
Felicia Bottino e Luigi Mari. Nel 1970 fu pubblicato in un volume,
dalla celeberrima copertina rossa, curato da Pier Luigi Cervellati,
Andrea Emiliani, Renzo Renzi e Roberto Scannavini.
Il piano si ispira a teorie discusse nel famoso convegno di
Gubbio del settembre 1960. Anzitutto, l’estensione della tutela
architettonica dal singolo edificio al tessuto urbano nel suo
complesso, alle strade, agli spazi verdi, ai vuoti derivanti dalle
demolizioni belliche. E poi, altro celebre carattere del piano
bolognese, è la forte valenza sociale: l’idea di voler mantenere gli
abitanti, anche quelli più svantaggiati dal punto di vista reddituale,
nelle proprie case, opponendosi alla riqualificazione edilizia intesa
come valorizzazione immobiliare e sostituzione sociale. Celebre
fu l’idea di prevedere un piano PEEP, di edilizia economica e
popolare, nel centro storico, anziché nelle tradizionali aree di
estrema periferia urbana; forse più celebre come obiettivo che
come risultati, sia in termini di metri quadri che di concezione del
risanamento.
E non era affatto secondaria anche l’idea già ben sviluppata
nel piano, di destinare ex conventi e collegi a sedi universitarie.
Anche se forse questa scelta ha prodotto anche problemi di
congestione che si sono manifestati nel breve volgere di un
decennio, traumaticamente evidenziati dalle rivolte studentesche
del ’77. La previsione di destinazioni universitarie nel centro ha
implicitamente impedito – rendendoli inopportunamente alternativi
- la realizzazione di campus universitari esterni alla città antica. C’è
un marcato tratto ideologico nelle pagine del libro rosso, ed è anzi
così forte e insistito che è sopravvissuto indenne fino ad oggi. Vi è
scritto che nel nostro paese, interessato da un incalzante sviluppo
metropolitano (colpevole, quest’ultimo, dell’accentuarsi degli
squilibri tra nord e sud e anche tra diverse aree all’interno di questa
regione), “...la ricerca, gli studi e le indicazioni metodologiche
tendono tutte ad una analisi della forma, alla riesumazione di
concetti relativi alla architettura intesa come arte pura fine a se
stessa che risolve ogni intervento e riscatta qualsiasi situazione
nell’espressione artistica [… ], si dice che l’urbanistica è fallita
[…] perché il compito dell’architetto è quello di fare dell’arte, di
risolvere in chiave poetica la drammatica situazione urbana del
nostro paese.” [Comune di Bologna, 1970] C’è dunque già, espresso
78
54, 55. Paolo Monti, Modena, 1973
in modo molto chiaro, il dissidio tra urbanistica ed architettura che
è rimasto vivo fino ad oggi e che ha impedito in gran parte la
modernizzazione delle città emiliane. Il primato dell’urbanistica ha
portato a un atteggiamento difensivo contro ciò che si opponeva
e si oppone alla conservazione, con conseguenze evidenti sulla
situazione attuale.
In un contesto di questo tipo Paolo Monti realizzò una specie di
ritratto dal vivo del centro storico di Bologna, centinaia di splendidi
scatti a mano libera, in un bianco e nero contrastatissimo e in
piccolo formato, l’ormai desueto 35 mm. Un amorevole ritratto, che
fece poi a tanti altri centri storici: Cesena, Modena, Rimini, ecc.
Di queste fotografie Pier Luigi Cervellati, in quegli anni assessore
comunale, disse che non sono soltanto il rilievo dell’esistente,
ma anche il progetto. Una specie di progetto invisibile. Quello
che c’è è destinato a sopravvivere per legge, d’ora innanzi. La
conservazione del centro storico con il piano di Bologna diventa
infatti una regola in tutta la regione, poi in Italia e anche in Europa.
La Regione Emilia-Romagna preleva così com’è la normativa
del piano bolognese e ne fa l’articolo 36 della legge regionale 47
del 1978, la prima legge urbanistica regionale. Passano così per
legge a tutti gli altri casi urbani, piccoli, medi e grandi, le norme per
la classificazione degli edifici e per definire gli interventi ammessi:
restauro scientifico, restauro e risanamento conservativo,
ristrutturazione edilizia.
Anche la legge 457 nazionale, approvata nello stesso anno della
47 regionale, contiene più o meno le stesse parole. Purtroppo
c’è anche il ripristino tipologico, una metodica d’intervento che
non è altro che un falso storico, in una linea di continuità - non
proprio diretta ma nemmeno inconsapevole – con gli esempi
di mezzo secolo prima di Alfonso Rubbiani. Se si demolisce un
edificio incongruo con il contesto e si dispone di documenti più o
meno credibili sul suo stato precedente (senza mai chiarire però
a quale epoca riferirsi, l’una o l’altra vanno bene, purché diverse
dall’odiato Novecento), lo si rifaccia com’era (forse). Per fortuna
gli esempi di ripristino tipologico sono pochi, e isolati in alcuni dei
primi comparti di attuazione, compresi quelli destinati al PEEP, ma
il fatto è che il ripristino tipologico è possibile, è previsto, ha dignità
di pratica progettuale, e qui vanno forse rintracciate le origini
dell’ostracismo all’architettura contemporanea che compare qua
e là un po’ in tutto il libro rosso sul centro storico.
Si insinua sempre di più nella coscienza dei cittadini una concezione
per cui la città vera è quella dentro le mura, perché quella fuori
è un’appendice malata di cui non c’è quasi bisogno di occuparsi.
Tanto che nel 1983 l’Istituto Beni Culturali celebra ancora le città
storiche, con un famoso convegno, “La salvaguardia delle città
storiche in Europa e nell’area mediterranea”, patrocinato dal
Parlamento Europeo, e con una mostra fotografica di successo,
“I confini perduti”. E il titolo spiega molto bene di cosa si parla. Di
confini, ancora e sempre. Dentro i quali c’è il paradiso, fuori dai
quali l’inferno del brutto. Pier Luigi Cervellati coordina un gruppo
di valenti ricercatori che dettano definitivamente il processo con
cui si forma un piano di conservazione del centro storico. Si forma
l’iconoteca dell’IBC, che da allora, e oggi ancora, fornisce agli
urbanisti e ai progettisti i materiali di base per le loro indagini e i
loro progetti.
56, 57. Paolo Monti, Bologna, 1969
79
Il concetto da comunicare è espresso senza mezzi termini da
Cervellati nei suoi scritti di quegli anni: che il rilievo è equivalente
al progetto. E Monti produce migliaia di fotografie che significano
proprio questo. Cervellati paragona le foto di Monti agli schizzi di
Le Corbusier: “Non mi sembra azzardato affermare che nelle foto
di Monti (quelle di architettura e di urbanistica) ci sia la stessa
capacità interpretativa dello spazio e l’analoga volontà conoscitiva
che riscontriamo negli schizzi di Le Corbusier. In entrambi i casi, i
disegni o le foto, documentano, rilevano, confrontano e indagano
una precisa realtà e contemporaneamente suggeriscono soluzioni
progettuali o, quanto meno, appropriate letture volumetriche
e spaziali […] Ci fanno capire, le foto di Monti, quali interventi
sono ammissibili per non alterare (o al contrario, per modificare) il
luogo che ha fotografato”. Più avanti Cervellati indica altri modi di
utilizzo delle fotografie in chiave progettuale: le foto “confrontate
con gli interventi successivi consentono di misurare gli errori
compiuti. Consentono di valutare la <precarietà> del restauro o la
<violenza> della sostituzione” [Cervellati, 1993].
Ovunque, nelle città emiliane e romagnole, l’immagine urbana
di Monti è diffusa, in mostre, libri, convegni, progetti e piani
urbanistici di conservazione che diventano un caso e un modello
di livello addirittura mondiale. E’ un pezzo della famosa isola rossa
e del suo successo planetario, è un principio apodittico e nemico
di ogni discussione contraria. Vengono elaborate teorie precise
sulla convenienza anche economica, oltre che sociale e politica e
storico-urbanistica, del recupero rispetto alla nuova costruzione.
Ogni volta che se ne parla, sui giornali, nelle riviste, alle tesi
della conservazione sono associate le foto di Monti. Questo
orientamento diventa prevalente e anzi totale nelle università,
nelle pubbliche amministrazioni, si fondano enti come l’Istituto
regionale per i beni culturali, che subito diventano i conservatori
dei materiali di Monti, pian piano si creano le facoltà universitarie
di conservazione dei beni culturali, i corsi di laurea, gli specialisti
del restauro scientifico, le fiere e i saloni dedicati – come quello
del Restauro di Ferrara - , le strutture ministeriali. Le foto di
Monti sono il commento visivo di questa escalation culturale e
soprattutto politico-culturale.
60. Nunzio Battaglia, Le Gocce, Bologna,
2004
80
6. GHIRRI E LA DISPERSIONE URBANA
1. Ritratti mai visti di città padane.
Luigi Ghirri, diplomato geometra, comincia a fotografare nei primi
anni Settanta, dandosi come regola di “vedere con chiarezza”
[Costantini, 1996]. Assume a compito della propria ricerca la necessità
di non lasciare che nulla venga perduto, e utilizza in modo inedito
e perspicace la frammentarietà tipica del mezzo fotografico
per dare risalto ai frammenti della vita sociale e del paesaggio
umano, dedicandosi, al contrario di Monti - interprete della storia
e del suo impegnativo peso sulla società odierna - al fuggevole,
al volatile, a ciò che può sfuggire o restare nell’ombra, cose che
tuttavia spesso possono condizionare in modo anche rilevante i
sentimenti e le azioni delle persone.
Il metodo del rilevamento dei centri storici che si è diffuso in quel
periodo condiziona molto la rappresentazione della scena urbana;
ma soprattutto, i valori che reggono il modello operativo messo a
punto da Monti e Cervellati in pratica non ammettono alternative
credibili. Perché la sensibilità comune si è come coagulata
intorno ala sfida di conservare la città esistente e con essa la
propria memoria e la propria identità. La lotta al consumismo
e alla omologazione condotta da intellettuali come Pasolini e
Sciascia trova in urbanistica la propria espressione nella difesa
del tessuto edilizio e sociale delle città storiche, contro lo sviluppo
della rendita fondiaria tipico dell’espansione urbana. Che viene
vista come una metastasi del corpo cittadino, e come tale non
rappresentabile.
L’eccezionalità dello sguardo fotografico di Ghirri sta in larga misura
proprio nel modo con cui l’autore concede alla propria curiosità di
rovistare tra gli indizi di una rimozione colossale delle evidenze
del territorio padano, che all’epoca pare esclusivamente virtuosa,
ma che negli anni produrrà molti danni di mancata presa d’atto
e di contromisure efficaci. E questo può avvenire il larga misura
proprio perché lo sguardo di Ghirri è libero, non condizionato dalle
attese e dalle necessità di un committente, dalle sue pretese di
ottenere risposte utili alla dimostrazione di strategie già decise,
come è stato il caso di Monti.
Il primo catalogo monografico di Ghirri esce nel 1979, per iniziativa
dell’Università di Parma. Il curatore, Arturo Carlo Quintavalle,
indica alcuni autori più giovani (di cinque anni il primo, di
undici il secondo) che si muovono in sintonia con il fotografo di
Scandiano, Giovanni Chiaramonte e Olivo Barbieri. I due infatti,
insieme con Salbitani, Cresci, Guidi, Castella, costituiscono un
cenacolo di amici aperto anche alle frequentazioni di scrittori –
Gianni Celati soprattutto – da cui derivano esperienze comuni
come la fondazione – da parte di Ghirri e Chiaramonte – della
casa editrice Punto e virgola – o il progetto della mostra Viaggio
in Italia, cinque anni più tardi.
Il catalogo della mostra del 1979 [Università di Parma, 1979] contiene
il percorso del fotografo dalle foto del periodo iniziale (fino al
1970), alla serie Kodachrome del 1970-78, al cui interno sono già
60. Luigi Ghirri, Carpi, 1973, dalla serie
ITALIAAILATI
81
contenute immagini di paesaggio urbano connotate da uno stile
radicalmente innovativo: non compaiono i monumenti principali,
i paesaggi eccellenti, niente di simile alla tradizione iconografica
divulgata dalle pubblicazioni del Touring Club Italiano; la città è
raccontata attraverso elementi considerati generalmente secondari
– e anzi da sottovalutare - che risultano però ormai determinanti
e prevalenti nel panorama quotidiano contemporaneo, come le
immagini pubblicitarie, le vetrine dei negozi, le insegne stradali.
La serie Colazione sull’erba (1972-74) presenta alcuni paesaggi
naturali che potremmo definire kitsch. Ghirri però sembra
rifiutare di descrivere le cose come di cattivo gusto, perché
è un atteggiamento troppo elitario; si limita invece a registrare
fenomeni, in quanto ormai talmente diffusi che risulta impossibile
ignorarli. Anche Catalogo (1970-79) prosegue in questa direzione.
La città è descritta per elenchi visivi di rivestimenti, avvolgibili,
infissi, serrande. Km. 0,250 (1973) è un altro elenco di questo
tipo, e rileva i duecentocinquanta metri lineari del muro di confine
dell’autodromo di Modena. E’ il rovesciamento dell’estetica di
Monti, che al contrario componeva le sue inquadrature scartando
accuratamente l’intrusione dei segni contemporanei, isolando
invece esclusivamente le testimonianze della forma urbis storica.
Tutto il lavoro di Ghirri si connota per l’impronta concettuale sin
dai suoi primi scatti - soprattutto per effetto dell’incontro nel 1969
con l’artista Franco Guerzoni - e per la forte carica ironica. E’
facile rintracciare il primo carattere nelle serie Atlante del 1973,
viaggio mentale in tutti i luoghi del mondo attraverso i segni delle
carte geografiche, dove si possono trovare scatti che sembrano
opere di Schifano o Mondrian. Della seconda ispirazione sono
testimonianze evidenti i lavori Il paese dei balocchi (197179), dedicata ai Luna Park, chiamati baracconi, con parola del
linguaggio popolare, e ancor più quelli di In scala (1977-78), che
inaugura le rappresentazioni del paesaggio urbano attraverso
Italia in miniatura di Rimini, poi riprese da molti altri fotografi negli
anni successivi. C’è in questi scatti tutto il lato pinocchiesco di
Ghirri, come l’ha definito l’amico Celati, e anche l’invenzione di
fotografare le cose a cui nessuno bada, che gli riconoscono i
critici più attenti sin dall’esordio nella piccola ma ormai famosa
mostra all’Hotel Canalgrande di Modena nel 1972.
Ghirri rivela inequivocabilmente che la comunicazione urbana si è
trasferita – senza che quasi ci si accorgesse di quando è iniziato
il fenomeno; ma è chiaro che la diffusione della cultura pop ha
avuto un peso determinante - dalla percezione delle architetture
e degli impianti urbanistici a quella dei cartelli, delle scritte, delle
insegne e dei manifesti, che hanno preso il sopravvento sul
tessuto urbano di cui ancora ci parlava Monti pochissimi anni
prima. L’attenzione al modo come si compongono forme e colori
di piastrelle e mosaici nelle facciate degli edifici più ordinari svela
un parallelo visivo con le composizioni astratte di Mondrian:
l’avvicinamento di casi qualunque a modelli artistici di eccellenza
ribalta provocatoriamente le abitudini percettive dell’osservatore
della città contemporanea.
Mettere al centro dell’inquadratura un vaso di fiori su un balcone
per Ghirri non significa fotografare un dettaglio, un particolare,
ma indicare quel vaso come “forma simbolica” della cultura che
ha prodotto quella casa, quella parte di città. E’ il criterio preso da
82
una figura retorica classica, la sineddoche, per cui la parte viene
presa a indicare e riassumere il tutto, con un effetto di pungente
straniamento: la prima percezione è di rigetto, di incomprensione,
anche di fastidio, ma alla lunga il senso nascosto lavora in
profondità e crea una percezione nuova, più raffinata e persistente,
come la scoperta gioiosa di una verità celata e svelata solo a chi
percorre l’esperienza fino in fondo.
Costantini parla con acutezza di “sguardo liberato dall’intenzione
di convincere, di affermare” [Costantini-Zannier, 1989], e inteso invece
“come forma privilegiata dell’interrogazione”. Se il linguaggio scelto
svela i riferimenti americani, molte sono le originali differenze, da
attribuire oltre che alla diversità dell’approccio culturale, anche
alle dimensioni dello spazio, e alla scelta del paesaggio delle
periferie, degli spazi marginali, dei giardini. Dai maestri d’oltre
oceano viene comunque la convinzione che la fotografia è una
pratica soggettiva che costituisce un mezzo per scrutare dentro
se stessi prima che “nella complessità figurativa del mondo”. E
forse proprio per questo l’individuo-fotografo può mostrare tutto
l’affetto che prova per i suoi soggetti, Costantini parla addirittura
di “tenerezza”.
Se la fotografia è un modo di vedere piuttosto che una tecnica,
allora è sempre esistita, anche prima di essere inventata.
Questo è ciò che pensa Ghirri, togliendo importanza a ogni aura
scientifico-specialistica, e radicalizzando gli aspetti filosofici,
fino ad arrivare a dire [Cesena, 1987] che sono proprio gli angoli
più consueti e canonici, che abbiamo sempre sotto gli occhi e
abbiamo sempre visto, quelli che svelano all’improvviso novità e
aspetti imprevisti. E che nel fotografarli lui aspira a un linguaggio
mediano tra l’eccessiva imparzialità e quella specie di editing
visivo strettamente personale che utilizzano i fotografi-artisti.
Vuole sfuggire alle due categorie incomunicabili e inconciliabili
della conoscenza e della poetica, vuole stare in equilibrio tra i due
estremi.
Qualcuno ha parlato di lui come di un fotografo rinascimentale
- la definizione è di Michele Smargiassi - intendendo mettere
in luce il suo essere polivalente, trasversale: appassionato di
musica (Bob Dylan, Bach, Beethoven, Ry Cooder, e molti altri), di
architettura, di poesia, di cinema (Michelangelo Antonioni, Werner
Herzog), di pittura (Giorgio Morandi, Giorgio De Chirico). E’
questo atteggiamento che gli consentì di trasformare due ricerche
territoriali come il Viaggio in Italia del 1984 e le Esplorazioni sulla via
Emilia del 1986 in veri e propri progetti di comunicazione globale,
riuscendo nell’impresa non facile di coordinare, lui fotografo, un
insieme di fotografi. L’intento era quello di “raccontare un popolo”,
come avevano fatto i fotografi della frontiera americana, e in questo
obiettivo si raccoglieva poi l’ambizione di Ghirri organizzatore di
cultura più che fotografo.
Viaggio in Italia ha luogo a Bari nel 1984. L’aspirazione del curatore
a produrre un grande catalogo dei paesaggi italiani contemporanei
pone questo evento in linea con le figure dei maestri storici come
Canaletto, Bellotto e Guardi in pittura, Anderson e Alinari in
fotografia. Ghirri prende ispirazione dal vedutismo veneziano, oltre
che dalla metafisica e dal surrealismo, aggiungendoci poi del suo,
com’è ovvio che sia per un grande artista [Nappi, 2000]. Il catalogo
contiene uno scritto di Gianni Celati: Verso la foce. Reportage
83
per un amico fotografo. Qui si parla davvero di paesaggio, senza
aggettivazioni, nel senso più largo e trasversale possibile. Le
foto di paesaggio urbano non sono molte: Lugo e Pegognaga di
Olivo Barbieri (ma è paesaggio storico), Cesena di Battistella, la
stazione di Livorno di Chiaramonte, Casale Monferrato di Mario
Tinelli, Napoli di Mimmo Jodice.
E’ lo stesso Ghirri in altra occasione a ricordarci come, appena
nata, la fotografia abbia inteso coltivare un rapporto privilegiato
con la scena urbana, visto che la Veduta dalla finestra a Le Gras
di Niepce (1827) inquadra un angolo di edificato di un piccolo
paese dei Vosgi. Ghirri parla dello sterminato numero di immagini
urbane che sono state prodotte di lì in avanti, e della impossibilità
di rintracciare un filo da seguire per farne un riepilogo che non sia
parziale o forse anche arbitrario. Lo definisce il “riassunto di un
genere”, con una espressione da cui trapela forse anche più che
sfiducia, quasi disprezzo [Gasparini-Ghirri].
Ciò nonostante, lui stesso comporrà negli anni successivi vari
atlanti di città mondiali, proponendoli nel quadro di contributi
collettivi di spessore anche rilevante. Come ad esempio nel 1987,
quando partecipa alla XVII Triennale di Milano e al catalogo,
con un testo dal titolo “Un cancello sul fiume”, illustrato con
varie foto tra cui uno splendido notturno di Luzzara 1985 con
le case tutte azzurre, oltre a varie del cimitero aldorossiano e
del campo di Fossoli. E’ un testo dedicato alla malinconia, che
come dice Zavattini è originaria del Po. Ghirri scrive che non gli
dispiacerebbe abitare nei pressi di Luzzara, e l’amico appena
tornato dall’Africa - di cui parla senza nominarlo, e che però
sappiamo essere Celati - inorridisce e esprime il suo disaccordo
(questo è l’indizio che rivela Celati: parla delle villette geometrili
senza davvero amarle, e in questo è meno concettuale di Ghirri
e più debitore della cultura dominante). Secondo Ghirri i caratteri
della bassa sono proprio la malinconia e l’imprecisione data dalla
foschia. Il centro di tutto questo mondo padano è il cancello nella
piazza di Pomponesco, sul Po. De Chirico, dice Ghirri, usa questa
stessa malinconia come se fosse una materia, come fosse un
colore per le sue tele. Per quella stessa esposizione milanese,
l’architetto Vittorio Valori Perduti - un personaggio immaginario
in cui si cela Vittorio Savi -, nato nella seconda guerra mondiale,
laureato architetto al Politecnico di Milano e dedito alla ricerca di
“rimedi architettonico-urbanistici alle città e alle campagne” parte
per un viaggio-avventura da Roma-EUR a Milano. Savi e Ghirri si
impegnano dunque per la stessa mostra e per lo stesso catalogo
a disegnare itinerari e atlanti, ancora una volta, instancabilmente.
E’ un punto comune della loro ricerca, qualcosa che li avvicina
e li caratterizza entrambi come sperimentatori e indagatori
delle analogie e delle differenze espresse qua e là nei giardini
del villaggio globale dalla multiforme relazione tra architettura e
natura.
Con il titolo Un atlante fotografico sulla metropoli Ghirri fece per
quel catalogo una sua proposta di lettura della geografia urbana
mondiale nel volume “Oltre le città, le metropoli”. I ventidue fotografi
che scelse sono Ogle Winston Link, Walker Evans, André Kertész,
Robert Doisneau, William Klein, Robert Frank, Lee Friedlander,
Diane Arbus, George Tice, Art Sinsabaugh, Nicholas Nixon, Joel
Meyerowitz, William Eggleston, Stephen Shore, William Clift,
84
Joel Sternfeld, Ugo Mulas, Klaus Kinold, Giovanni Chiaramonte,
Andrea Cavazzuti, Fulvio Ventura e lui stesso: un tedesco, un
francese, cinque italiani e quindici americani (due nati all’estero –
Ungheria e Svizzera - ma vissuti negli Usa). Le fotografie datano
dal 1929 al 1988. I luoghi sono in larghissima misura gli Stati Uniti,
e inoltre Parigi, Tokyo, Milano, Caracas, Hong Kong e Atene.
Quattro anni più tardi, Ghirri ripete la scelta di luoghi e fotografi
nell’Atlante metropolitano, un quaderno di Lotus che raccoglie
alcuni dei principali contributi già pubblicati nei cataloghi della
XVII Triennale Le città del mondo e il futuro delle metropoli, le cui
pagine assommavano a circa 700, a detta dello stesso Nicolin
“una galassia gutemberghiana che a modo suo riproduceva la
dispersione metropolitana” [Nicolin, 1991]. Ghirri aggiorna l’atlante,
limitandosi questa volta a soli autori contemporanei e retringendo
decisamente il campo: conferma le scelte di Cavazzuti,
Chiaramonte, Kinold e Meyerowitz, raccoglie foto di Daniele De
Lonti, Joan Fontcuberta, Filippo Partesotti, perfino una foto di Wim
Wenders, ma questa volta soprattutto un gran numero di foto sue.
Le città sono Atene, Caracas. St. Louis, Leningrado, Chicago,
Zurigo, Houston, Berlino, Roma,Boston, New York, Londra, Parigi,
Hong Kong, Barcellona, Lubiana e ovviamente Modena. Difficile
riconoscere un filo conduttore che non sia esclusivamente una
interpretazione soggettiva, a dire bene autoriale.
62. Luigi Ghirri, dalla serie Touring Club
Italiano, 1986
2. Elenchi infiniti e incessanti di cose intime.
L’idea di un atlante per raffigurare il proprio mondo è un’ossessione
tipicamente ghirriana, ricorre nei titoli delle sue serie fotografiche
e anche negli scritti o nei lavori editoriali come quello per il
catalogo della XVII Triennale. Con una metafora musicale che
dimostra una volta di più un riferimento preciso e continuo della
sua cultura, Ghirri ci parla del sentire a strati come modo del nostro
sentire comune, costituito di “conoscenze, attenzioni, stimoli,
sentimenti, ricordi, amnesie e novità, informazioni, richiami, echi”,
e tutto questo si mescola nel vedere, nel fotografare, addirittura in
una singola fotografia. E dunque l’impresa di rintracciare quel filo
in questo “sbalorditivo numero” di cose è un’utopia, ogni atlante
è soggettivo e circoscritto. In un suo testo Ghirri riporta una
citazione tratta dallo scrittore portoghese Fernando Pessoa sul
vestito di una ragazza seduta in un tram: è un viaggio lunghissimo
che parte dalla filanda dove il tessuto è stato prodotto, entra nelle
vite degli operai una ad una, tanto che alla fine l’intero consorzio
umano è davanti agli occhi di chi vede (e pensa, e scrive). E il
vestito è solo un dettaglio di una sola immagine di un solo attimo
nella vita di una sola persona in un solo luogo del mondo...
Sono molti gli scrittori – oltre agli architetti, come vedremo poi che hanno influenzato il lavoro di Ghirri, e tra questi il francese
Georges Perec. Nel suo “Approcci di cosa?”, che introduce un
libro pubblicato per la prima volta nel febbraio del 1973, egli
scrive che ciò che ci parla è sempre lo straordinario. Dietro un
avvenimento deve esserci uno scandalo o un pericolo, ci interessa
solo lo spettacolare. Così, “i giornali parlano di tutto, tranne che
del giornaliero”, e per questo ci annoiano. Dobbiamo parlare
invece di cose comuni, di quelle che ci toccano davvero, perché
parlano di noi, di come siamo. Si tratta di “fondare finalmente la
nostra propria antropologia”, di occuparci non più dell’esotico, ma
85
dell’endotico [Perec, 1994].
In quel libro sottile (non solo per il formato), Perec fornisce degli
elenchi, parlando della rue Vilin, la strada della sua infanzia,
facendo un inventario di ciò che ha ingerito nel 1974, e così
via. Sono indicazioni utili, oltre che per gli scrittori, anche per un
fotografo che voglia davvero raccontare i luoghi che attraversa:
“Descrivete la vostra strada. Descrivetene un’altra. Fate il
confronto. Fate l’inventario delle vostre tasche, della vostra
borsa. Interrogatevi sulla provenienza, l’uso e il divenire di ogni
oggetto che ne estraete. Esaminate i vostri cucchiaini. Cosa c’è
sotto la carta da parati? Quanti gesti occorrono per comporre un
numero telefonico? Perché? Perché non si trovano le sigarette
in drogheria? Perché no? Poco m’importa che queste domande
siano frammentarie, appena indicative di un metodo, al massimo
di un progetto. Molto m’importa, invece, che sembrino triviali
e futili: è precisamente questo che le rende altrettanto, se non
addirittura più essenziali, di tante altre attraverso le quali abbiamo
tentato invano di afferrare la nostra verità”.
Possiamo facilmente confrontare questi elenchi pazienti con
alcuni soggetti delle fotografie di Ghirri: cucchiaini, carta da parati,
fotografie ri-fotografate...
Nelle sue Lezioni americane, uscite postume nel 1988, Italo
Calvino fa frequenti riferimenti a Georges Perec, soprattutto in
riferimento a uno dei valori da conservare nel prossimo millennio,
quello della molteplicità. Certamente Ghirri è stato influenzato da
questi concetti, anche attraverso l’amico Gianni Celati, sodale
di Calvino ed egli stesso scrittore della pianura emiliana e del
Po. L’idea del mondo come garbuglio, groviglio o gomitolo, “di
rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità,
o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più
eterogenei che concorrono a determinare ogni evento” [Calvino,
1988] viene da Carlo Emilio Gadda. E da Gadda provengono altre
poetiche contemporanee, ad esempio il romanzo come opera
perennemente incompiuta, come rovina di progetti ambiziosi e
quasi inattuabili. Da Gadda transita per Calvino e forse giunge a
Ghirri l’enciclopedismo inteso come relazioni infinite tra le cose,
passate e presenti, possibili e reali, ma delle quali tutte occorre
tener conto, dare la genealogia, la provenienza.
Calvino, nel comporre gli ingredienti della qualità del molteplice,
sua primaria necessità psicologica, prende da Marcel Proust
l’immagine della rete che collega ogni cosa, il senso della
dilatazione del mondo fino a diventare inafferrabile, e la
conoscenza come sofferenza derivante da questa inafferrabilità.
Anche la leggerezza e l’esattezza, altri due dei valori calviniani per
il terzo millennio sembrano essere facilmente accomunabili alla
sensibilità di Ghirri, che dunque sembra essere davvero l’autore
che più di tutti in Italia ha effettuato il transito dell’immagine
fotografica dal moderno al contemporaneo. La precisione di
Ghirri e l’esattezza di Calvino hanno forse la stessa origine: “Il
mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita”, dice
Calvino. E la battaglia che Perec combatte con il linguaggio “per
farlo diventare il linguaggio delle cose, che parte dalle cose e torna
a noi carico di tutto l’umano che abbiamo investito nelle cose”;
così come l’idea che la profondità va nascosta alla superficie
(tratta dallo scrittore Hugo von Hofmannsthal) e che ciò che è
86
nascosto non ci interessa (dal filosofo Ludwig Wittgenstein) sono
certamente concetti di Calvino ma anche di Ghirri, come le sue
fotografie – e se non fossero sufficienti da sole, anche i temi delle
sue fotografie - ci svelano con molta evidenza.
3. Una mostra memorabile.
E’ proprio prendendo in mano e consultando il catalogo del 1979
che Vittorio Savi – architetto e critico di felici intuizioni, con il
quale nascerà un’amicizia ricca di stima reciproca - pensa a Ghirri
come autore di alcune fotografie padane per accompagnare
una sezione da lui curata della mostra bolognese Paesaggio,
immagine e realtà, che apre alla Galleria d’arte moderna del
capoluogo emiliano nel 1981. Savi ha raccontato spesso la
genesi di quel lavoro, che segna indubbiamente un momento
decisivo nella visibilità di Ghirri, anche per i contrasti che si
accendono immediatamente tra interpretazioni antitetiche dei
valori del territorio e del suo stato attuale. Se considerate dal
punto di vista del fotografo e nella concatenazione del suo lavoro,
le fotografie per la mostra bolognese non fanno che confermarne
la ricerca, già avviata da tempo, delle espressioni del paesaggio
italiano rimosse dall’iconografia tradizionale, ispirata a modelli di
esasperato estetismo storico-artistico. L’intuizione di Savi sta nel
mettere questo tipo di immagini a fianco di brevi studi storici sulle
piccole città padane che pretenderebbero immagini più conformi
ai contenuti testuali: nei saggi contenuti nel volume ogni autore
descrive i caratteri urbani delle diverse città padane, “ma, al
momento giusto, è restio a considerare le aree nelle quali si è
consumato il conflitto città/campagna” [Paesaggio, 1981]. Questo
è invece proprio ciò che Savi ha chiesto a Ghirri di testimoniare, ed
è questa l’originalità dell’approccio. E’ un racconto di strabiliante
anticonformismo, se confrontato con la produzione coeva di
documenti visivi da parte della Regione, in quanto ente che si sta
costituendo e sta cercando di darsi una immagine propria, ma lo
fa con linguaggi e idee molto connesse con la tradizione. Infatti,
mentre la maggioranza dei lavori anche fotografici sul territorio
extraurbano resta all’interno della visione rurale contenuta nelle
opere di Emilio Sereni o di Lucio Gambi - che presiede in quegli
anni il neo-nato Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della
Regione -, Ghirri offre per quella mostra una lettura del contado
che in realtà racconta della città. Città che si potrebbe presumere
assente da piccole provincie come quelle emiliane e dagli
insediamenti minori sparsi nel territorio extraurbano, ma in realtà
inizia proprio in quegli anni a riverberare la sua immagine - anche
se in modo distorto e a volte parodistico - perfino nei piccoli centri
della pianura. E’ un racconto visivo dello sprawl, avvolto in una
specie di velo d’incanto, una meraviglia persistente e continua
che proviene a Ghirri direttamente dal suo stile e dalle motivazioni
teoriche del suo sguardo.
Paesaggio, immagine e realtà è un titolo molto pertinente, e
fotografa bene la distanza tra il territorio dove la gente vive –
fatto della città lineare della via Emilia, ormai pienamente in via di
formazione, di quella della costa, anch’essa già da tempo delineata,
e delle conurbazioni minori – e l’idea ancora molto vedutistica e
nostalgica che è radicata nei più, soprattutto nella gran parte delle
amministrazioni locali, da quella regionale a quelle provinciali e
62. Luigi Ghirri, Modena, Cimitero di San
Cataldo (Aldo Rossi)
87
comunali. Lo sguardo di Ghirri non ha nulla che vedere con quello
maestoso e retorico di Monti, è uno schiaffo in piena faccia a
storici dell’arte e cultori della conservazione. Ha appreso la lezione
dei New topographics americani, Stephen Shore, Lewis Baltz,
Robert Adams, i fotografi che nel 1975 hanno partecipato alla
mostra sottotitolata Man Altered Landscape. Quelle di Ghirri sono
immagini che non descrivono le ragioni storiche di un territorio,
non danno conto del persistere immutabile di una vie des formes
regionale, ma scovano a casa nostra le tracce della nascente
globalizzazione dei modelli e dei modi di vita. Comincia qui la
fine del pittoresco, nella cultura dominante della pianificazione
urbana e paesaggistica, anche se sarà un processo di lunga
durata e ancora in corso, vista la forza del pensiero “scientifico”
sui beni culturali, che nel corso degli anni si è profondamente
amalgamata con i piani e i programmi delle amministrazioni locali
e con l’opinione del corpo elettorale che le sostiene.
Per paradosso, questa visione così urbana del territorio rurale
è resa da un abitante della campagna come Ghirri è sempre
stato, nato a Scandiano e poi residente a Roncocesi. Come che
sia, questa lettura è la trasposizione per immagini delle indagini
che in quegli anni già iniziavano a descrivere la diffusione della
città e la trasformazione del territorio rurale, progressivamente
assimilato a quello urbano, attraverso la disseminazione di modelli
abitativi, infrastrutture, e più in generale di stili di vita. Mentre gli
studi urbani più avvertiti percepiscono la trasformazione in atto,
i documenti di pianificazione territoriale della Regione e la loro
applicazione alle scale locali contengono ancora riferimenti al
dualismo città-campagna di derivazione marxista, assunto come
obiettivo per una crescita ordinata e razionale degli insediamenti
e per la conservazione dei valori paesaggistici del territorio
extraurbano. La realtà è ben diversamente orientata, e produce
effetti già percepibili a un occhio attento e sensibile come quello
del fotografo di Scandiano.
In occasione della mostra bolognese del 1981, Lucio Gambi
– che ne è il curatore - è in pratica costretto da Vittorio Savi a
confrontarsi con le fotografie di Ghirri. Gambi accetta obtorto collo
e solo dopo molta insistenza di pubblicare nel catalogo queste
immagini. Le foto mostrano binari, vecchi cinema e stazioni di
provincia, automobili, feste di paese, e soprattutto dettagli, una
quantità di dettagli che spezzano la rotondità e la levigatezza dei
paesaggi di cui è composta la regione ufficiale. Entra così, da
uno spiraglio della porta che il fotografo socchiude abilmente, la
nuova luce riflessa dalla pianura, che finora era stata appiattita
sui fogli cartografici e rappresentata solo nelle sue emergenze
storiche. Ed è davvero stridente il contrasto che si crea da subito
con l’armamentario di derivazione guerresca di cui sta dotandosi
su impulso di Gambi l’IBC regionale (carte dell’Istituto Geografico
Militare su cui condurre il rilevamento del patrimonio storico, foto
aeree prese durante la guerra dalla Royal Air Force britannica).
4. Il geometra Ghirri e alcuni architetti.
Il rapporto di Ghirri con la rivista di architettura Lotus International
inizia con il numero 38 del 1983, per iniziativa di Vittorio Savi, che
lo presenta a Pierluigi Nicolin, Alberto Ferlenga e Luca Ortelli,
membri del comitato di redazione. Il suo primo lavoro è dedicato
88
al cimitero modenese di San Cataldo, progettato da Rossi con
Gianni Braghieri per il concorso del 1971 e costruito tra il 1978 e il
1983, e dunque appena ultimato. Ghirri dichiara che lo stimolo che
gli viene dall’architettura di Rossi è di far combaciare l’oggettività
con la soggettività. Tuttavia non crede che per lui si tratti di un
lavoro di tipo nuovo. E’ convinto infatti che aver fotografato il
paesaggio, come ha fatto negli anni precedenti, significhi aver
fotografato l’architettura: “Quello che ho fatto tra il 1970 e il
1975 fotografando i margini delle città antiche, le periferie, o
prevalentemente quei paesi senza dignità storica o geografica,
è stata una sorta di ricomposizione di album di famiglia del mio e
del nostro esterno” [Ghirri, 1997].
Savi racconta estesamente il suo rapporto con Ghirri, che definisce
“una persona sorpresa e financo perplessa della cecità altrui” [Savi,
In prospettiva]. E’ Savi che insiste presso Aldo Rossi, che in un primo
momento non è convinto della scelta del fotografo. Si ripete così
due anni dopo la stessa vicenda che già era avvenuta due anni
prima, alla mostra bolognese della GAM, quando in quel caso i
dissapori per la scelta di Ghirri come fotografo padano erano stati
con Lucio Gambi. Queste frequenti battaglie per promuovere e
difendere le immagini del fotografo di Roncocesi danno ragione
alle affermazioni di Savi, per cui è stato lui a creare Ghirri fotografo
di architettura.
Il confronto con il linguaggio e soprattutto con le poetiche di
Rossi rafforza Ghirri in questa direzione di considerare i ricordi
come luoghi, e i luoghi come oggetti, immagini, testi letterari,
mescolando un po’ tutto. Ed è Savi che lo induce a guardare le
immagini di architettura classiche come stereotipi da cui partire
per poi distanziarsi. E’ difficile districare Savi da Rossi e da Ghirri.
Sono come fatti l’uno per l’altro, l’uno della pasta dell’altro, e le
influenze dell’uno sull’altro sono misteriose e penetranti.
Per Ghirri la fotografia non è invenzione come è nella pittura,
dove si può creare una immagine che non esiste in realtà, ma
inventio nel senso latino, cioè scoperta, rinvenimento a seguito di
una ricerca, di una attenzione particolare, dopo la quale gli oggetti
da inquadrare – che già erano lì, ma non visti, non riconosciuti,
cominciano a essere noti, conosciuti, evidenti [Cavanna, 1999]. Ghirri
è affascinato dallo sguardo duplice che si produce osservando una
fotografia, che è sia sguardo sulla fotografia – presente, qui ed ora
- che sulla realtà – assente, qui ed ora – che la fotografia raffigura.
Scrive: “Fotografare diventa allora coscienza di trovarsi sulla
linea di confine tra conosciuto e ignoto, che trasforma il guardare
nell’intravedere” [Ghirri, 1997]. Da queste parole prenderà vita,
negli anni ‘90 Linea di Confine per la fotografia contemporanea,
l’associazione fotografica di Rubiera che sui temi del paesaggio
fonderà gran parte dei propri obiettivi programmatici.
Nel raffigurare l’architettura, Ghirri gioca frequentemente
a provocare l’intreccio del doppio sguardo del fotografo e
dell’osservatore della fotografia, sguardi diversi e autonomi fino
a un attimo prima di diventare sovrapposti, coincidenti, nella
visione di quella porzione di realtà che il fotografo ha fissato in
quella inquadratura che ora l’osservatore guarda. Questi doppi
sguardi sono certamente gli elementi di fascinazione, di cattura
che la fotografia pratica su ognuno di noi. Ghirri fa uso di tecniche
che diventano subito invenzioni artistiche e poetiche, quando ad
63. Foto di Ghirri in una pagina del
catalogo “Paesaggio, immagine e realtà”,
1981
64. Luigi Ghirri, Scuola di Fagnano Olona
(Aldo Rossi)
89
esempio usa la luce non per svelare ma al contrario per velare
o addirittura per celare, nel buio, nell’ombra, che è l’equivalente
fotografico del silenzio. Adopera la luce (la sua assenza) per
cancellare, anziché per rivelare.
Le foto di architettura consentono in massimo grado di
sperimentare le capacità grafiche della luce. Ma cosa sono poi le
foto di architettura? Non è certo sufficiente che l’architettura sia il
soggetto della ripresa perché ciò che viene prodotto sia fotografia
di architettura. Ghirri ad esempio è riuscito a fotografare i siti
(architettonici, paesaggistici, archeologici) con i frequentatori e i
turisti, riuscendo a trasformare questi ultimi da soggetto sociologico
in vero e proprio elemento attivo della fenomenologia di percezione
dei siti, e questo è molto evidente anche nelle foto che produsse
per i due volumi del Touring Club Italiano dedicati all’EmiliaRomagna. E’ parlando di questa serie di immagini ghirriane
che Savi mette in luce la sua grande capacità nel fotografare
il monumentale, “un monumentale molto annacquato, poco
grande stile nietzschiano, un po’ anche domestico, sentimentale”.
Qui infatti i luoghi del turismo culturale sono rappresentati in
un modo assolutamente anticonvenzionale, spesso pieni di
persone in movimento: immagini mosse, gente ripresa di spalle,
senza nessuna accondiscendenza alla iconografia classica del
monumento messo in posa e privo di presenza umana.
65. Luigi Ghirri, dalla serie “Paesaggio,
immagine e realtà”
66. Luigi Ghirri, Bologna, 1985, dalla
serie Esplorazioni sulla via Emilia
90
7. LA SUPERCITTA’ DI BASILICO
1. Tra i Becher e Savinio.
Gabriele Basilico (Milano, 1944) è più giovane di un anno di Ghirri.
Architetto, inizia a fotografare negli anni ‘70, e il suo primo lavoro
di successo è del 1979, un ritratto della sua città natale eseguito
attraverso le fabbriche, ispirandosi alle fotografie di Bernd ed Hilla
Becher. Da quell’iniziale attenzione al paesaggio urbano e alla
architettura industriale, Gabriele Basilico non ha più cambiato
tema, e ha dedicato oltre trent’anni di impegno costante alle città
di tutto il mondo, da Los Angeles a Mosca, alla Cina, al Medio
Oriente. “La sua opera, monumentale e sistematica, malinconica
nei toni come malinconica è la fine dell’era industriale, si ricollega,
in fondo, alla grande tradizione italiana degli Alinari. […] Basilico
è il grande cantore del nostro mondo devastato dallo sviluppo
economico, nello sforzo di abbracciarlo tutto, secondo una visione
antitetica a quella di Ghirri, ironica e frammentata” [Valtorta, 2005].
E’ facile riconoscere gli antecedenti delle immagini di Gabriele
Basilico nel Novecento italiano e in particolare nella cultura
artistica e architettonica milanese. Su tutti vi sono Mario Sironi
e Giovanni Muzio. In comune con il pittore c’è la tendenza
al monumentalismo, il rigore metafisico, l’attinenza dei temi,
soprattutto quello delle periferie e dell’industria; con l’architetto
ha in comune la milanesità, espressa in un grigiore malinconico
pieno di ascendenze classiche, che dà origine a una speciale
maestosità silenziosa.
Basilico sembra ricordare a tutti che, ci piaccia o no, la periferia
è il prodotto più significativo dei processi di urbanizzazione
del ventesimo secolo. L’urbanistica militante, insegnata nelle
università, promossa dall’INU e amministrata in molti enti locali
governati soprattutto dalle sinistre ha sempre guardato con ostilità
la produzione edilizia della seconda parte del Novecento, che si
è concentrata a ridosso dei margini della edificazione storica,
dando corpo a una città di scadente qualità formale, spesso priva
o sotto-dotata di servizi pubblici e di connessioni infrastrutturali,
marginale sia in senso fisico-geografico che sociale. Tuttavia,
come si è iniziato a sostenere solo negli anni a cavallo del nuovo
millennio, quella città novecentesca era ed è quella in cui si
concentra la maggioranza della popolazione, e dunque quella
a cui è necessario concedere più attenzione di quanta non sia
stata data nel ventennio precedente, tutto preso dallo sviluppo
delle pratiche della conservazione dei centri storici, dell’ambiente
rurale e del paesaggio tradizionale e interessato allo sviluppo
edilizio abitativo e industriale solo in termini quantitativi.
L’attenzione che il fotografo milanese porta alle periferie,
alla produzione edilizia del Novecento, sembra a tutta prima
confermare una delle critiche ricorrenti e più convenzionali
portate all’espansione urbana: quella della sua indistinzione
formale e indifferenza geografica: ovunque nel mondo le periferie
del dopoguerra sono identiche. Basilico rende molto bene
91
67. Mario Sironi, Paesaggio urbano
(Fabbrica)
questo concetto, ne è anzi il divulgatore, attraverso le forme di
una supercittà composta dalle immagini di tutte le città che ha
fotografato, accostate le une alle altre.
Il lavoro di Basilico è tutto dedicato all’evidenziare la struttura
portante della città: l’insieme di oggetti fisici – prevalentemente
architetture, o per meglio dire edifici comuni, quasi mai di
particolare pregio o interesse in sé -, delle dimensioni reali e dei
pesi visivi degli oggetti, delle relazioni tra gli oggetti posti sui diversi
piani dell’immagine. Questo modo di studiare la struttura urbana
è lo stesso, sia che Basilico fotografi Berlino, Valencia o Istanbul,
tant’è vero che le foto si assomigliano, e per conseguenza Milano
finisce per assomigliare a Berlino, a Valencia e ad Istanbul.
L’effetto che si genera è quello di accomunare i luoghi in un’unica
visione, non di distinguerli per specificità o caratteri propri.
Questo avviene non solo per le raffigurazioni urbane ma anche
per le singole architetture: antico e moderno, popolare e nobile
si mescolano l’uno con l’altro, tutto è buono, Basilico definisce
questo suo modo di descrivere le città una sorta di bulimia. Come
per Benjamin, ogni città è bella. Ne deriva un senso di accettazione
dell’esistente che non è diverso da quello che trasmettono le
fotografie di Monti, e che ha avuto certamente effetti determinanti
sulla percezione collettiva delle città, avvicinando alla gente il
corpo della città moderna, reso attraente, non minaccioso, a volte
malinconico perché ritratto nella sua versione un po’ sfiorita, come
se gli anni migliori fossero passati.
Fino a Milano ritratti di fabbriche Basilico è soprattutto un
talentuoso allievo dei Becher, poi con l’esperienza della DATAR
inizia a occuparsi degli spazi aperti come spazi di relazione tra
le cose. Nell’urbanistica italiana questa attenzione si è affermata
anche grazie a Basilico.
Questa supercittà è evidentemente un concetto, e in quanto
92
tale prescinde dalla possibilità reale di vedere effettivamente un
paesaggio di questo tipo. Quel che conta non è nemmeno vedere
insieme le foto delle città, ma ricordarle insieme, e cioè avere
dentro la somma di tutte. Come è poi nella realtà: non le vedremo
mai insieme, queste città, ma agiscono in noi insieme, ricordandoci
che il mondo in cui viviamo è urbano, ovunque, che non possiamo
più isolarci in una natura incontaminata. C’è un destino che si
è maturato per noi, nel XX secolo, che ci concerne tutti e che
non dobbiamo rifiutare – come molte teorie ambientaliste e antiurbane continuano a pretendere.
Avvicinando le fotografie di Basilico a quelle di Monti risultano
forti analogie espressive, che rendono simile anche il messaggio
comunicato: ciò che si vede è da amare, da rispettare, da
conservare. Non ci sono nei due autori incitamenti alla
trasformazione, anche se il ricevimento di questi due messaggi
nella cultura urbanistica ha prodotto effetti per lungo tempo
opposti: Monti paladino della conservazione, Basilico sollecitatore
di un interesse anche operativo per le periferie, le aree industriali
dismesse, in sostanza per i caratteri della città moderna.
Dopo trenta e più anni di schieramenti opposti su questi due
versanti operativi, oggi il concetto di paesaggio urbano sembra
contenere finalmente entrambe le posizioni, e la cultura urbanistica
le ha registrate sin dall’approvazione nel 2000 della Convenzione
europea del Paesaggio, un documento dove si leggono
affermazioni che ribaltano in modo deciso alcune convinzioni
radicate sul primato dei paesaggi eccezionali. Per la prima volta
viene riconosciuto in un documento ufficiale il ruolo del paesaggio
urbano, considerato elemento importante della qualità di vita delle
popolazioni, anche nelle zone della vita quotidiana, e alla stessa
stregua di ogni altro tipo di paesaggio, anche qualitativamente
più importante. Questo consegue alla dichiarazione che sono le
popolazioni a stabilire le gerarchie di valori dei propri paesaggi,
anche in relazione alla affezione che esprimono nei loro confronti.
La descrizione da parte di Basilico di una supercittà i cui
caratteri unificanti consistono nell’essere priva di eccellenze, non
particolarmente riconoscibile per caratteri tipologici e tradizionali,
generalmente moderna e contemporanea, fa del fotografo
milanese il creatore di una nuova estetica urbana collettiva, molto
simile agli obiettivi dei documenti europei volti alla valorizzazione
paesaggistica.
Il tratto che avvicina Basilico alla modernità, e fa della sua una
visione urbana moderna più che contemporanea, è proprio questa
tendenza al generale, e al tempo stesso questo rifiuto verso il
particolare. E’ ancora, quella di Basilico, una grande narrazione,
come lo è stata quella di Paolo Monti, un racconto capace di grandi
sintesi e di significati percepibili. Al contrario, sembra che i caratteri
del post-moderno conducano tutti a un’unica riflessione, che cioè
non esiste un significato unico al di là e al di fuori della percezione
continua e inevitabile della frammentarietà dell’essere, del vivere,
dei luoghi. Generale è moderno, particolare è contemporaneo.
Gli elementi urbani, anche quelli più banali e deboli, anche quelli
apparentemente poco importanti, posso contribuire a definire
il carattere e l’identità di un luogo. Ciò avviene soprattutto
attraverso il confronto di quegli stessi elementi, riscontrati in
situazioni diverse. Confrontando per esempio Berlino, Milano e
68. Gabriele Basilico, Instambul (da
Scattered City, 2005)
93
Valencia Basilico vuole misurare le affinità, ma soprattutto punta
a ricostruire un modello di città immaginaria. E’ chiaro che fare
questo non può non costituire un punto di contatto con il processo
di pianificazione urbanistica, che aspira proprio a definire un
modello di città futura, migliore di quella presente.
Questo continuo mescolare ha a che fare con i sentimenti, è lo
stesso Basilico a dirlo. Mentre il piano (urbanistico) ha preteso di
dettare proprie visioni urbane senza fare riferimento ail sentimenti
delle persone, e dunque rinunciando a qualcosa di essenziale,
le immagini della supercittà che Basilico descrive cercano i
significati universali della forma urbis moderna. Per certi aspetti le
sue fotografie esprimono un senso positivo della globalizzazione,
intesa come apertura oltre i confini di ogni possibile segregazione
o separazione. Una aspirazione ad agire come fa il polline in
natura, e questa è precisamente la metafora che usa l’autore.
2. Come gestire il territorio con l’aiuto dei fotografi. Un organismo governativo francese, la DATAR (Délégation à
l’amenagement du territoire et à l’action régionale) promosse, tra
il 1984 e il 1985, una imponente azione di verifica del paesaggio,
soprattutto di quello rurale e naturale, ma anche urbano - la
banlieue parigina - e a quello industriale interessato dai processi
di dismissione e riconversione.
La DATAR intendeva richiamarsi alle due grandi esperienze di
committenza pubblica, la francese Mission Heliographique del
1851 e la Farm Security Administration rooseveltiana degli anni
Trenta del Novecento. Le pubblicazioni che raccolsero le foto (i libri
saranno due, il primo del 1985, nella piccola versione in brossura
14,5x15,5 cm., il secondo nella grande edizione cartonata in tela
nera, di formato 28x28 quadruplo dell’altro, realizzata nel 1989,
entrambe dall’editore Hazan) non vennero intese come cataloghi,
ma come carnet provvisori di un lavoro sempre in corso, così
come si proclamava la mostra parigina al Palais de Tokyo che si
aprì il 4 dicembre del 1985.
La Mission è dedicata a città e periferie, montagne e litorale,
fabbriche, case rurali e uffici, spazi industriali e rurali. La
mescolanza di generi – alti e bassi, contemporanei e tradizionali
– segna già di per sé una distanza siderale dalla visione che del
problema si aveva in quegli anni in Italia, se si pensa che nello
stesso 1985 da noi fu promulgata la meritoria e da tempo attesa
legge Galasso, che obbliga le regioni a dotarsi di piani paesistici.
Il provvedimento tuttavia esprime punti di vista che rispetto a
quelli francesi sono decisamente meno incentrati sull’attualità:
elenca gli elementi del paesaggio da tutelare, enumerando monti
e ghiacciai, fiumi, coste e usi civici, e sostanzialmente resta
saldamente ancorato a una visione colta, figlia dei testi classici di
Emilio Sereni e Lucio Gambi sui paesaggi agrari, inconsapevole
del (o forse più probabilmente ostile al) lavoro che anche da
noi stanno svolgendo in quegli anni fotografi come Luigi Ghirri,
che proprio nel 1984 progetta e realizza il suo Viaggio in Italia
raccogliendo intorno a sé amici e colleghi tra cui Basilico.
Nel lavoro della DATAR si mette l’accento sulla trasformazione,
mentre al contrario in Italia nei documenti ufficiali sulla tutela
del paesaggio è sottolineata di continuo la necessità di una
continuità, di una stabilità, di una tradizione. Già allora i francesi
94
69. Gabriele Basilico, Piacenza, 2001,
dalla serie LR19/98
ci dicono come i paesaggi tradizionali siano divenuti indescrivibili
(campi chiusi, campi aperti, insediamenti accentrati e dispersi,
tutto è reso irriconoscibile dalle funzioni umane che si espandono
sul territorio). La rappresentazione del paesaggio, continuano
i francesi, deve essere creata, non registrata. E la circolazione
del modello predisposto dalla DATAR sarà riuscita se produrrà
analoghe iniziative regionali decentrate, di approfondimento e
verifica in loco. In realtà, la prima reazione degli organizzatori fu di
moderata insoddisfazione: in quelle immagini il territorio restava
piuttosto “muto” nei riguardi dell’emergere delle trasformazioni più
rilevanti: gli effetti della comunicazione elettronica, le infrastrutture,
l’urbanizzazione. Ma la DATAR viene ancora oggi ricordata come
un episodio eccezionale perché riesce a restituire una variegata e
complessa immagine del territorio contemporaneo, interrogandosi
con serietà sul confine incerto che divide “un atto di identificazione,
di carattere puramente denotativo, da un processo intenzionale di
attribuzione di valori, con le responsabilità e le conseguenze che
ne derivano.” [Infussi, 1986 e 2007].
François Hers e Bernard Latarjet sono i coordinatori-animatori del
progetto. Mettono in chiaro che l’amministrazione che incarica
i fotografi non ha una diretta vocazione culturale, e dunque
non si tratta di un sostegno alla creazione artistica, ma di una
ricerca finalizzata. Hers e Latarjet firmano un testo che si intitola
“L’experience du paysage”. Gabriele Basilico userà spesso d’ora
innanzi la parola esperienza, spesso creando una sorta di duetto
con Roberta Valtorta, amica carissima e apprezzata, insostituibile
sponda di una collaborazione più che ventennale. L’idea sottesa
a questi termini e all’uso che ne fanno gli autori è che il paesaggio
non è solo una realtà visiva che si registra, ma la rappresentazione
che una cultura ne fa. Hers e Latarjet constatano che la fotografia
europea degli anni in cui scrivono si sviluppa secondo due poli
antagonisti: il reportage da un lato, e dall’altra parte una tendenza
più concettuale che, fondata sulle acquisizioni della pittura
moderna, utilizza la realtà come pretesto più che come oggetto.
Europei e americani si pongono in modo molto diverso di fronte alle
trasformazioni del paesaggio. Quest’ultimo ha sostanzialmente
subito le medesime metamorfosi industriali e urbane. Ma mentre
gli americani guardano con allarmata apprensione la distruzione
dei suoli vergini (la verginità del territorio per loro è un valore
mitologico, connesso all’idea della frontiera come esplorazione,
conquista, emancipazione atavica), gli europei vedono nel
cambiamento la sparizione delle testimonianze di una cultura
millenaria; le foto degli europei mostrano con evidenza questo
sentimento della storia come dramma, questa necessità di
lavorare ogni giorno per opporsi alla lenta sparizione della nostra
memoria.
Molto sottilmente, nel saggio che accompagna le fotografie della
DATAR, Jean François Chevrier sostiene che proprio perché la
fotografia è sfuggita all’anatema scagliato nel Novecento dagli
artisti moderni contro la bellezza, solo alla fotografia è possibile
riuscire a rappresentare la bellezza del paesaggio. E in questo
modo può riqualificare – se non il paesaggio stesso – almeno
l’idea di paesaggio.
Augustin Berque (nel testo Les mille naissances du paysage)
scrive che i francesi vogliono sapere le novità del loro paesaggio
95
dopo i “trenta gloriosi” (anni) della crescita. Vogliono sapere quel
che è successo, non solo perché è cambiato il paesaggio, ma
anche il modo con cui lo si guarda, è cambiato il senso comune.
E non sarebbe questa una novità, vista la congenita relatività
del paesaggio, che è sempre relazionato alla percezione degli
individui, non è un oggetto a sé stante. In questo senso i ventotto
sguardi dei ventotto fotografi altro non sono che prove, e Berque
le esamina tutte, una per una.
Sur le litoral de la Manche et de la mer du Nord - questo è il
titolo del lavoro di Basilico - secondo Berque è una riflessione
sulla naturalità/innaturalità della città. Le vacanze, di cui Basilico
mostra i luoghi dopo che si sono spopolati e i vacanzieri sono
tornati in città, sono per gli uomini l’interruzione del lavoro e il
ritorno agli elementi: terra, acqua, vegetale. Ma non esistono
più luoghi di vacanze privi di segni urbani: i parcheggi, i caffè,
il casino, i parchi acquatici, le piscine, sono tutti gli elementi
innaturali. Per contro, mai come in quegli anni, una Parigi piena
e ricchissima di parchi viene considerata come l’anti-natura per
eccellenza. Il mondo non esiste se non dotato di senso attraverso
delle pratiche, che lo fondano in relazione al nostro immaginario.
E l’immaginario non ha evidentemente alcuna relazione con
la realtà. Paradossalmente è proprio la fotografia – il lavoro di
un fotografo, il suo occhio – che anziché mostrarci la realtà ci
mostra quel che noi crediamo di vedervi. I simboli che la rendono
percepibile e dotata di significato.
Della celebre foto di Basilico di Boulogne-sur-Mer, l’economista
Jean-Paul de Gaudemar scrive che mescola l’hard e il soft del
territorio e ne fa un “condensato brutale” di contraddizioni e di
complementarietà della gestione del territorio: strategia industriale
pesante o attrezzatura turistica? La foto, con la spiaggia in primo
piano e sullo sfondo gli impianti siderurgici, dà la misura di queste
domande, le rende palpabili, realistiche. Tutta la complessità della
pianificazione territoriale sta in quella immagine. “Al funzionalismo
del periodo precedente – un luogo, una funzione – risponde
all’improvviso una diversificazione volontaria che va al di là della
protezione contro il rischio […] la sfida è quella dell’armonia nel
70. Gabriele Basilico, Ault, 1985, dalla
serie della DATAR
96
matrimonio dei contrari, quella dell’alleanza della fabbrica con la
spiaggia, del lavoro e del loisir, dell’hard e del soft, del mobile e
dell’immobile, del flusso e dello stock, dell’uomo e della macchina,
del lavoro e del capitale, della terra, del mare e del cielo. Il tempo
della fragilità della specializzazione non ha resistito alla crisi. Il
pianificatore deve sostituirgli le virtù della polivalenza. Deve
inventare il territorio flessibile.” [DATAR 1985, pag. 56].
3. E anche: tra Groddeck e Mulas.
Molto spesso, parlando del suo lavoro, Basilico cita il Libro dell’Es
di Groddeck, un testo (1923) dalla cui lettura dice di essere stato
portato a capire cose determinanti. La prima edizione italiana è del
1966, per Adelphi, sono gli anni in cui Basilico studia architettura
e non ha ancora iniziato il suo mestiere di fotografo. Dunque,
gli anni formativi, gli anni in cui il suo interesse non è nella
rappresentazione del reale urbano, ma nell’idea di trasformarlo,
toccarlo con mano, non solo guardarlo. La ricerca della strada
che porti con la maggiore possibile facilità a questo “toccare”
segna molto spesso il personale percorso di architetti che si
trasformano in fotografi, com’è il caso di Basilico. Non sono pochi
quegli architetti-fotografi che affermano di avere abbandonato
l’idea della pratica professionale di progettista perché che gli
architetti, immersi nelle pastoie burocratiche delle autorizzazioni,
dei pareri, delle norme edilizie, perdono di vista il rapporto con la
realtà fisica, oggettuale in cui si muove il loro lavoro, mentre al
contrario un fotografo vi si immerge in modo diretto, prolungato,
potremmo perfino dire voluttuoso.
Questa è la considerazione che deve aver fatto Basilico, alcuni
anni dopo la laurea in architettura. E il libro di Groddeck, letto
forse qualche anno prima, lo ha accompagnato nel suo percorso
di formazione. Cercare in quel testo i nessi con le immagini
urbane del milanese è un esercizio di qualche interesse. Troviamo
concetti che ci paiono utili. Per esempio: il fatto che amore e odio
coesistono sempre. Che la paura esprime un desiderio. Entrambe
affermazioni che possono significare che la celebrazione così
ripetuta e incessante del corpo delle città del mondo si lega, nello
sguardo del fotografo milanese, con un disagio, con il permanere
di quella paura della grande metropoli che ha segnato il suo
comparire tra fine Ottocento e l’inizio del Ventesimo secolo.
La capacità affettiva che ogni uomo porta con sé, secondo lo
psicanalista tedesco, contiene in misura variabile e casuale
sentimenti di repulsione e di attrazione, rivolti in modo altrettanto
imponderabile verso di sé o verso il mondo esterno. Non di
rado l’affetto si trasforma in odio, quando la delusione agisce
nell’inquinare l’originario sentimento positivo. Altrettanto spesso
l’oggetto non più amato viene sostituito con l’idea di quell’oggetto,
che si può mantenere scevra di delusione e pienamente
rispondente alle nostre aspettative. In questa oscillazione tra
ideale e reale, tra amore e odio si colloca il lavorìo incessante di
Basilico, e la sua produzione di immagini che appunto possono
leggersi come l’idealizzazione della città – ecco una spiegazione
dell’assenza delle persone che la abitano, che in un certo senso
sono tutti avversari erotici dell’autore nel possedere la “sua” città,
almeno con lo sguardo. Una idealizzazione, la sua, che a volte
può velarsi di sentimenti di malinconia, nostalgia, tipici delle estasi
71, 72. Gabriele Basilico, Modena, 2011
97
amorose ricondotte di colpo alla percezione di una realtà priva
dell’amato. Ancora: “non è vero che il dolore costituisca ostacolo
al piacere; in realtà esso è una condizione perché il piacere esista”
e “tutto ciò che esiste è naturale, anche se a Lei sembra contrario
alle regole, e perfino se sembra andar contro alle cosiddette leggi
della natura” [Groddeck, 1966]. Quest’ultima affermazione coincide
con un altro aspetto evidente della poetica di Basilico, la volontà
di non eliminare dalle sue inquadrature ciò che potrebbe apparire
almeno perturbante se non innaturale, visto che trattandosi di
città la natura non può essere intesa nel suo senso proprio, ma
piuttosto come comune modello percettivo.
Tra le peculiarità dello stile di Basilico c’è la assenza della figura
umana. In tutti i sensi: sia come misura, senso, uso dello spazio,
sia come specifica analisi sociale, dei comportamenti, dei caratteri
delle persone. Basilico cita sempre in proposito Groddeck, il libro
dell’Es, e l’influenza che ha avuto questa lettura sul suo modo
di percepire ed intendere la città – in estrema sintesi: le cose
parlano di più, se non ci sono le persone, le tracce contano in
modo determinante. L’assenza delle persone rende i luoghi
silenziosi e parlanti solo per la loro fisicità, che Basilico indaga
con una composizione elegante e lentamente studiata, fortemente
prospettica, spesso frontale; le sue sono immagini stereometriche,
dove ciò che ha importanza sono i volumi, i caratteri architettonici,
mentre i riferimenti sociali sono accettati solo in quanto compatibili
con la composizione, siano essi arredi, pubblicità, automobili.
Bisogna però anche riconoscere che l’assenza delle persone non
è una peculiarità del solo Basilico, ma di molti fotografi. Come
si è visto, anche Monti non riprendeva quasi mai persone nei
suoi scatti, e, prima di Monti, nemmeno gli Alinari. In generale, la
tradizione della fotografia di architettura si è sviluppata sin dalle
origini con questo preciso carattere ,anche se nell’Ottocento e a
lungo anche in seguito le persone scomparivano dall’inquadratura
anche per ragioni legate alle lunghe esposizioni della pellicola,
e dunque si trattava di una ragione puramente tecnica piuttosto
che espressiva. Ma al giorno d’oggi, cancellare la figura umana
quando si fotografa l’architettura e’ un modo per dare una lettura
73. Gabriele Basilico, Boulogne-sur-mer,
dalla serie della DATAR, 1985
98
dei volumi più incisiva e più connessa alla fase di ideazione, al
progetto. Al disegno del progetto, soprattutto, e in questo senso
è una visione astratta e distante dalla realtà, che vuole riportare
l’architettura realizzata al processo creativo, mentale, piuttosto
che avvicinarla alla fase fruitiva.
Se apriamo una rivista di architettura, di qualsiasi paese, per
documentarci su quanto è stato costruito in qualsiasi paese, ci imbattiamo
nella rappresentazione di una serie di edifici che sono stati fotografati e
pubblicati senza gente. L’editore, l’architetto e il fotografo sembrano
ossessionati da una inesistente e permanente preoccupazione: eliminare
dalla scena gli uomini, come se fossero germi capaci di contaminare
l’evento che si sta illustrando [...]. Qualche volta si arriva a dire chi è il
cliente e quali erano le sue esigenze economiche, tecniche o estetiche;
ma quasi mai si dice come il destinatario usa o potrà usare l’edificio
che gli è stato destinato […]. Il giudizio sull’opera è sempre del tutto
indipendente dal giudizio sull’uso che se ne fa. L’opera è considerata
buona, mediocre o cattiva in rapporto ad altri valori, che generalmente
sono valori figurativi” [De Carlo, 1973]. Un tempo non era così: la
pittura rappresentava anche la gente insieme con gli edifici. E
dire che il movimento moderno si è caratterizzato proprio per un
richiamo forte al rapporto tra forma e funzione, cioè tra architettura
e uso dell’architettura.
La cultura progettuale italiana è stata spesso accusata di essere
sbilanciata verso l’ideazione, trascurando la realizzazionegestione, e soffrendo di un idealismo che ha forse a che fare
con la persistenza delle antichità classiche, che ci consegnano
quotidianamente allo sguardo architetture prive di funzione, di
uso, di gente. La fotografia dell’architettura, spesso anche delle
città, quando ci consegna testimonianze visive che cancellano la
figura umana come se fosse un disturbo per la visione delle forme
architettoniche, vuole riavvicinarsi al momento della ideazione
progettuale, quando si forma il disegno. Non a caso Basilico
spesso sostiene che le sue fotografie sono legate al progetto,
sono dei progetti, e in questo non fa solo riferimento al suo essere
architetto, ma al suo volere essere architetto mentre fotografa.
Le immagini fotografiche di paesaggi urbani privi di persone ci
spingono ad addentrarci in un discorso complesso, che attiene
all’importanza dell’assenza in fotografia. Cioè a quanto pesa ciò
che non si vede. A volte pesa più di quanto non conti ciò che
si vede. C’è un pensiero molto preciso di Ugo Mulas, in un suo
libro del 1973, una data che precede gli esordi di Basilico come
fotografo: “La mia idea non è quella di un libro, ma di un archivio,
un archivio fotografico della città di Milano […] Quello che vorrei
fare è fotografare tutto questo senza la gente; perché quello che ci
colpisce di più quando entriamo in un luogo, è il fatto che esso sia
frequentato, è la gente. Invece vorrei che di gente non ce ne fosse,
che fosse protagonista una certa struttura portante che chiamiamo
città, una struttura inarticolata, che porta una folla anonima, che
si ricambia ogni giorno, che ogni giorno passa, che ogni giorno
è destinata a passare. […] credo ci sia un modo di fotografare
la catapecchia dove una donna vive con i suoi bambini senza
metterci dentro né la donna né i bambini, e arrivare comunque a
un’immagine eloquente della loro condizione, un’immagine che
è obiettiva e al tempo stesso è evocativa di quella gente assente
dalla fotografia” [Mulas, 1973].
99
4. Si può fare urbanistica con le fotografie.
Basilico sostiene che “Ritratti di fabbrica”, il suo libro del 1981,
è un progetto di architettura. Che non è un lavoro sulle grandi
fabbriche – che a Milano, diversamente da Torino, non sono il
carattere preminente dell’industria – ma è un lavoro sulla periferia
dove ci sono le fabbriche, e dunque alla fine dei conti è un lavoro
sulla città, su Milano.
Sul fatto che fino a pochi anni fa la sua fotografia è stata
esclusivamente in bianco e nero, osserva che il colore sta al
documento come il bianco e nero sta alla forma. (Si potrebbe anche
aggiungere una riflessione sulla differenza tra pittura e disegno,
maggiore realismo dell’una e maggiore ricerca della struttura nel
secondo. Riguardo a questo, Basilico dice che per lui la fotografia
ha sostituito il disegno, per il quale non era abbastanza portato, nel
suo desiderio di descrivere). Recentemente ha iniziato a usare un
colore “decolorato”, necessario per dare un po’ più di informazioni
sull’ambiente. Ma senza esagerare. E’ il caso dei lavori recenti su
Mosca e Istanbul.
Il suo approccio alla città si basa in egual misura sulla precisione
come sulla casualità: prima di iniziare a fotografare pianifica
percorsi e zone da visitare, si documenta su ciò che deve visitare,
va sui luoghi anche per riconoscere cose di cui ha già qualche
conoscenza. Tuttavia, strada facendo, le cose prendono anche
pieghe impreviste, si consente di diventare un flaneur, ritenendo
che questo approccio sia fertile.
Tra le influenze fotografiche sul suo stile, indica New industrial
parks near Irvine di Lewis Baltz (1974), che lo suggestionò per
il suo modo di fotografare gli edifici per fronti, con un linguaggio
glaciale e distaccato. Cita anche l’inglese Bill Brandt (19041983), e tra gli esponenti della generazione successiva alla sua,
riconosce che Thomas Struth (1954) è molto vicino al suo lavoro.
Tra gli urbanisti di oggi, Basilico apprezza Stefano Boeri e i
concetti che ha espresso sull’importanza dello spazio vuoto nella
significazione della città. La ricerca del vuoto è una costante del suo
lavoro fotografico, tanto che il momento in cui cerca di percepire
– prima - e di rendere in fotografia – poi - questa idea del vuoto
assomiglia – anche questa è una sua metafora - al momento in
cui in teatro si spengono le luci e si aspetta che entrino gli attori.
E’ un paragone che rende evidente la predilezione di Basilico per
la scena, la scena urbana: la scena, prima che entrino gli attori,
è vuota, ma si sa che si riempirà. In questo senso tra assenza
e presenza c’è una vicinanza temporale, una prossimità che
rassicura. Non si tratta di una assenza da day after, del timore
che non ci sia più nessuno. Ma di una forma di bellezza. Anche
se, per Basilico, la bellezza non è nei luoghi, è dentro di noi, e dal
nostro interno si condensa nel nostro sguardo, passa attraverso
il nostro sguardo e da lì si spande sui luoghi. Siamo noi che la
conferiamo ai luoghi. E per dare bellezza ai luoghi occorre usare
equilibrio e rispetto, essi servono per scoprire una dimensione
guardabile.
Questa lentezza necessaria dello sguardo deriva senza dubbio
dalla accumulazione di conoscenze che è dentro di noi e che
alcuni fotografi più di altri usano per costruire il paesaggio e dargli
senso. Basilico non è certamente un fotoreporter, se il carattere
essenziale del fotoreporter è di non aggiungere nulla di suo ai fatti.
100
74. Gabriele Basilico, Viale Isonzo, dalla
serie Milano ritratti di fabbriche, 1978-80
Basilico aggiunge tutto quel che sa, che ha visto, e che pertanto
rivede e riconosce ogni volta che fotografa. L’accumulazione
della sua cultura costituisce il suo sguardo, ed è per questo che
in lui agiscono Sironi e Muzio, Hopper e De Chirico, Benjamin e
Groddeck, Baltz e molti altri ancora.
Pensando al lavoro di Basilico, tra gli urbanisti viene in mente
ancora Giancarlo De Carlo, che scrive: “Credo molto nella
capacità evocativa e stimolante dell’immagine architettonica. Se
si rappresenta come un luogo potrebbe essere, è già come se il
luogo fosse quello che potrebbe essere. Della rappresentazione
la gente si appropria con prontezza e mentalmente comincia
ad esperirla, a modificarla, a contraddirla, ad arricchirla. Se
l’immagine architettonica offerta dal progetto, oltre a possedere
valore intrinseco, e coerente col programma contenuto in un piano
– anzi, più esattamente, se gli è complementare nel senso che
in questa coerenza ritrova la sua stessa necessità – si perviene
allo sviluppo di una qualità che si diffonde alle varie scale. I
progetti sono eventi straordinari che sollecitano l’attuazione di
un programma. Perciò i loro punti di applicazione vanno scelti
accuratamente tenendo conto non solo degli operatori addetti alla
loro realizzazione ma anche degli individui e dei gruppi sociali che
raccolgono e sono influenzati dalle loro immagini. Scelti nel quadro
generale che è il programma, i progetti debbono saper colpire
i punti più sensibili dell’organismo con il quale ci si confronta.
Successivamente il quadro deve poter raccogliere i loro effetti;
non necessariamente quelli che derivano dalla loro realizzazione
perché a volte quelli scatenati dalle loro immagini sono anche più
importanti” [De Carlo, 1992].
Di conseguenza, il rapporto tra le diverse scale di progettazione
è un continuo feed-back: il piano deve poter risentire delle
azioni che esso stesso produce e deve poter per conseguenza
modificare la sua struttura. Non si può distinguere in un piano
quello che è modificabile da quello che è immodificabile, perché
tutto deve essere considerato in movimento perpetuo, compresi
gli obiettivi. De Carlo usa la metafora del percorso di una nave,
che apparentemente segue una rotta predefinita, ma quando il
viaggiatore osserva il timoniere si accorge dei continui piccoli
movimenti che trasmette al timone. La sostanza del piano è
identica: deve essere continuamente messa a punto dai progetti:
“i progetti sono gli aggiustamenti – accostamenti e discostamenti
– che si compiono in modo tentativo, per seguire i moti dell’ago
della bussola”.
Nel dialogo con il progetto sta certamente una aspirazione e al
tempo stesso anche un limite della fotografia. Se il progetto, come
afferma De Carlo, può e deve essere anche stimolo, obiettivo
comune, fattore di coesione sociale, una fotografia che ritragga i
luoghi con l’intento di mostrarne i punti o i fattori di modificabilità,
di sottolinearne le potenzialità, è uno strumento dalle mille risorse
etiche, politiche, culturali. La supercittà di Basilico si può leggere
come palinsesto di tutti i progetti urbani, quelli eseguiti e quelli
mancati, scena del conflitto tra la spinta al cambiamento e la
resistenza dell’inerzia. Ma rappresentare questa scena, celebrarla,
è un modo per renderla attraente e meritevole di attenzione.
101
75. Gabriele Basilico, Modena, 2011
102
8. NUOVI TOPOGRAFI ITALIANI
1. Guido Guidi.
Nel 1978-79 Lewis Baltz, uno dei nuovi topografi americani,
fotografò la rapida costruzione di un complesso sciistico e per
seconde case a est di Salt Lake City, nelle montagne Wasatch,
Utah. Il suo scopo era di registrare le varie fasi di costruzione di
Park City. Quando iniziò il suo lavoro, il paesaggio era caotico,
devastato da decenni di negligenza, cosparso di frammenti di vetro,
ferro, legno, cavi – residui degli scarti di miniere abbandonate
anni prima – e con scarsissima vegetazione. Sembrava la scena
di un cataclisma. Nei due anni e mezzo in cui Baltz eseguì le sue
foto, la terra desolata (un esplicito riferimento al poema di Eliot)
fu coperta da case e strutture commerciali, ma per ironia della
sorte queste accrebbero il senso di desolazione. In quelle foto c’è
una continua tensione tra ciò che la fotografia descrive e ciò che
rivela.
Lo stesso stile si trova nel lavoro di Guido Guidi, forse anche con
una ulteriore accentuazione di tono. In Guidi è evidente la volontà
di fotografare il brutto, lo sciatto, il banale, con uno stile altrettanto
inestetico e casuale, senza composizione apparente (in realtà
Guidi usa il grande formato sia per la qualità dell’immagine che
per la lentezza della esecuzione e per la grandezza dell’immagine
sul vetro smerigliato, che gli consentono di pensare a lungo
l’inquadratura), all’opposto della veduta classica, per provocare
disagio e irritazione: cose rotte, relitti, oggetti desueti. Accozzaglie,
presentate come in una enumerazione caotica. Non si può dire
che questa sia una foto di denuncia, perché non ne ha il tono. E’
una foto complice, anche indulgente, perché si avvicina all’oggetto
assumendo la sua stessa personalità, come se dovesse farsi
accettare. C’è una specie di biasimo dell’utile, del funzionale,
una visione all’opposto di quella di Monti. La sua è una sensibilità
minimalista, di sapore orientale. “Quando fotografo un sasso, io
divento quel sasso”, dice con i suoi studenti.
Ma questo stile non incita al laissez-faire, piuttosto a una ridefinizione
low-profile del progetto di città possibile, un progetto che faccia i
conti con ciò che oggi caratterizza il laboratorio urbano (calo delle
risorse pubbliche, sfiducia verso la politica, conflittualità sociale
causata dai grandi interventi di trasformazione, frammentazione
eccessiva dei centri decisionali, difficoltà nei rapporti tra enti sovra
e sottordinati, ecc.). Nella fotografia understated di Guidi e di Linea
di Confine c’è un tendere a forme più attuali del progetto: piccolo,
interstiziale, low-cost, legato alle pratiche auto-organizzate,
lontano dalla cultura delle archistar e contro le imposizioni dei
modelli di consumo degli oggetti e del territorio.
Guidi è molto coinvolto nell’arte concettuale, come lo fu Ghirri, ma
più di Ghirri, che a un certo punto prese una strada decisamente
fotografica. Guidi, come Franco Vaccari, è forse più spostato
sul versante teorico che su quello della produzione fotografica.
Quando parla del suo lavoro, nelle conferenze, mostra raramente
le sue fotografie, e se lo fa, lo fa con molta parsimonia, diluendo
76. Guido Guidi, dalla serie Paesaggi
ordinari delle Marche, 2009-10
103
un distillato di immagini in un ragionamento esteso. Si vede in
questo la sua personalità di insegnante di fotografia, sia all’ Istituto
Universitario di Architettura di Venezia che all’Accademia di Belle
Arti di Ravenna. Guidi ha infatti molti allievi, che seguono in modo
piuttosto caratteristico le sue indicazioni.
Tra la pratica del nominare-indicare e quella del rappresentaredescrivere, che Guidi vede come molto diverse, quella che gli è
più confacente è la prima. In senso fotografico, Guidi nomina le
cose, se ne tiene quasi distante, è all’opposto dell’atteggiamento
di Basilico. Dichiara apertamente che le sue fotografie sono brutte,
desidera che lo siano, perché questo significa che ha ottenuto il suo
scopo, indicando le cose, senza aggiungere commenti, lasciando
aperto il discorso, mentre di solito l’osservatore desidera essere
orientato. Viene in mente una distinzione fatta da Philip Jones
Griffiths, grande fotoreporter gallese della guerra del Vietnam,
che con sarcasmo sosteneva che esistono foto che raccontano
ciò che avrebbe altrimenti bisogno di mille parole, e altre foto
che hanno invece bisogno di mille parole a commento. Guidi fa
queste ultime, con consapevolezza, quasi con provocazione, ma
certamente applicandosi a farle con costanza, intensità, coerenza.
La stessa cosa – dice Guidi – se messa in rapporto con il contesto
cambia radicalmente. Questa è una delle riflessioni più importanti
della sua poetica. Guidi tende a de-contestualizzare, proprio per
farci percepire la natura delle cose che fotografa, prima che esse
si snaturino entrando in contatto con tutto il resto. Accetta tutto ciò
che fa, in modo orientale. Fa tesoro del caso, dell’incompiutezza,
e lo fa con acuta autoironia: fotografando, dichiara, “c’è sempre
qualcosa da aggiungere, non ho mai concluso. Mia mamma
diceva che sono inconcludente.”
Anche i ripensamenti fanno parte del lavoro – o più in generale,
dell’esperienza di vita. Anche le occasioni perse fanno parte
del lavoro fotografico, costituiscono un patrimonio interiore che
orienterà la propria percezione quando si daranno di nuovo quelle
condizioni: “Solo dopo aver chiuso la finestra mi accorgo della
bellezza del paesaggio.” Questo atteggiamento è l’opposto della
77. Paul Klee, Strassen Kreuzung, 1911
78. Guido Guidi, Castelmaggiore, 2003,
dalla serie Paesaggi dissonanti
104
poetica bressoniana dell’istante decisivo, dell’idea che la capacità
del fotografo sia tutta nell’esserci, essere nel posto giusto al
momento giusto.
Nello stesso volume [Cesena, 1987], nel suo testo su Guidi, Valtorta
parla di lui come capace con il suo lavoro di fare affiorare la
pensosità di un sentimento orientale dello spazio, sentito non
come caos e subbuglio di realtà compresenti , ma come equilibrio
di pochi elementi essenziali.
Guidi sembra in verità l’autore meno adatto ad incarnare concetti
di progettualità fotografica. Anziché porsi strategie particolari,
sembra fotografare armato del suo solo stupore. Lo stupore
sembra il sintomo dell’impotenza dell’occhio, il fotografo che si
abbandona al mezzo, sperando che esso stesso lo aiuti a capire.
E’ una anticipazione/sovrapposizione con le ricerche di Vaccari
sull’inconscio tecnologico.
La vicinanza alla topografia è tanto evidente da diventare
esibita. Disegna luoghi in modo incessante, come se i significati
più generali fossero irraggiungibili, inattingibili. Guidi parla di
geografie personali, e dice: un geografo trova importanti le
strade, le città, i fiumi, un fotografo può trovare importante quel
certo capanno. E’ tautologia pura che diventa strumento di lavoro.
Per la necessità di fredda determinazione cita i fotografi guerra
come modelli, e in particolare Roger Fenton. Come riferimenti
per il modo di raccontare, Flaubert e Joyce. Tra i richiami agli
artisti del Novecento bisogna citare Paul Klee. Guidi usa la stessa
precisione calligrafica, con l’interesse rivolto a trovare un segno,
un dettaglio su cui costruire l’intera composizione, come una tela
di ragno, un lavoro che parte da un punto che viene messo al
centro e si espande minuziosamente, alla ricerca di un senso,
ma continua anche oltre, anche quando il senso sembra lontano.
E’ un processo retto da da un’etica, da una fede assoluta, ma
certe volte sembra addirittura che volga al cinismo, come se ogni
mezzo fosse buono per raggiungere lo scopo, che è quello di
creare.
Guidi è perfettamente al corrente del fatto che il mondo c’è, esiste
anche a prescindere dal fotografo e dai suoi affanni nel catturarlo:
“I miei allievi dicono: <Ho fatto una porta, ho fatto una casa>. In
verità noi fotografi non facciamo proprio nulla”. Detesta la fotografia
in bolla, frontale, prospettica, insomma ogni retorica connessa
alla tradizione, fino al punto di rinnegarsi, con la consueta ironia
perfino caustica: “Ho fotografato degli edifici frontali, da giovane,
perché volevo prendere la realtà di petto”. E invece bisogna
usare un basso, bassissimo profilo: “Cicerone diceva che per
difendere in giudizio un ladro non devi parlare aulico. Devi usare
il suo linguaggio, per essere convincente su di lui”. Il fotografo
deve spersonalizzarsi, nascondere la sua identità, lasciar parlare
sommessamente ciò che entra nelle sue inquadrature.
La bellezza dell’ordinario, che sta alla base di gran parte delle
tesi contenute nella Convenzione Europea del Paesaggio del
2000, e che proviene anche dal lascito ghirriano, è il messaggio
più convinto di Guidi, anche quando fotografa architettura, come
nel caso dell’autore più studiato, Carlo Scarpa. Lo stile non è
straordinario nemmeno in questo caso, eppure è certamente
straordinario il successo che il suo lavoro su Scarpa ha avuto a
livello internazionale, diventando nel 2010 una importante mostra
79. Guido Guidi, Cattolica, Centro
storico, 2003, dalla serie Paesaggi
dissonanti
105
al CCA di Montreal. Guidi va preso come esempio di una idea
molto recente di paesaggio: quella secondo la quale non è più
necessario occuparsi – e preservare – dei soli ambienti eccezionali,
ma accettare al contrario che ogni comunità locale possa ritenere
che il complesso delle sue tradizioni e della sua storia, e il loro
concreto materializzarsi in strutture fisiche composte di natura e
cultura, di segni antropici e geografici, debbano essere considerati
paesaggi da conservare a prescindere dalla posizione occupata
in una ipotetica gerarchia qualitativa.
2. Deserti urbani.
Da tempo partecipe di un gruppo
di intellettuali che fa capo a Gianni Celati e più recentemente ad
Ermanno Cavazzoni è Giovanni Zaffagnini, a lungo orientato alla
ricerca antropologica. Zaffagnini è da un trentennio fautore di una
radicale interdisciplinarietà, maturata dalle frequentazioni di Guido
Guidi e di Luigi Ghirri. Sensibile anch’egli al concettualismo, ma
filtrato da una vena di pragmatismo che mostra forti radicamenti
nella cultura contadina, da cui proviene e che ha molto fotografato.
Giovanni Zaffagnini dice di preferire la fotografia reticente, quella
che lascia spazio alla interpretazione; se no, la fotografia diventa
cronaca, e non gli interessa. C’è in questo atteggiamento la solita
volontà di molti fotografi, dagli anni Settanta in avanti, di sconfessare
una lunga e gloriosa tradizione professionale, uscendone
frettolosamente e forse anche in modo un po’ indisponente e
ideologico, come se farlo significasse automaticamente entrare
nel mondo dell’arte e goderne i privilegi e l’autorità. Tracce, dove
la figura umana non c’è, sguardo lento, non istantanee, e dunque
anche le immagini devono essere guardate lentamente. Più che
per dei pwp vanno bene per dei libri, dove restano eternamente,
o quasi. Nelle foto patinate la presenza dell’autore è ingombrante.
Lui invece ama le foto sporche, le fotografie che sembrano scattate
a caso. Fotografare è come svelare il proprio paesaggio interiore,
così lo definiva Pessoa.
Zaffagnini è autore di alcuni perspicaci prelievi fotografici della
realtà urbana, tra cui Jo Lido, una indagine sullo stato di rovina
in cui versa un parco per divertimenti sulla costa adriatica
che viene preso a occasione di una sfida a un tabù: l’estetica
80. Giovanni Zaffagnini, Gruppo
di Camposonaldo di Santa Sofia,
5-6 gennaio 1989
106
del degrado. Nella percezione, non sempre giustificata, delle
periferie e della costa come aree degradate, le immagini hanno
un ruolo determinante. Una fotografia più analitica e distaccata
può favorire una estetica del degrado che non porti a una censura
preconcetta che nasconda anche il salvabile. Il degrado come
punto di partenza per uno sguardo rinnovato e costruttivo, esente
da intenti consolatori o di facile denuncia, che riconosca forme
e spazi utili a fornire nuovi spunti per correggere e migliorare
l’esistente e a orientare la progettazione futura.
Zaffagnini da tempo va in cerca di queste zone archeologiche
moderne, dove i rottami si trasformano in reperti. Le fotografie
scattate di sera (come quelle della serie Jo lido), quando il buio
comincia a cancellare i colori, rispondono a una scelta che non
è tecnica, ma poetica. Non è più giorno ma non è ancora notte,
è un momento di precarietà. Robert Walser parla del bello che
è nell’assenza di bellezza. C’è in questi presupposti una eco
ancora non spenta delle parole di Endell per un’attenzione non
convenzionale al paesaggio, filtrata attraverso gli insegnamenti
dati fin dalla metà degli anni Sessanta da sociologi come Michel
de Certeau, artisti come Andy Warhol, architetti come Robert
Venturi, che hanno riscoperto il quotidiano e apprezzato le forme
surrettizie che prende nella città la creatività dispersa.
In questo contesto si è sviluppata anche l’arte pubblica, come
strumento per far crescere la partecipazione e sconfiggere il gap
tra tecnica e cittadinanza. E’ una pratica che ha in origine forti
connessioni con l’urban design americano degli anni Sessanta,
una forma di dialogo con gli abitanti dei quartieri in cui hanno
luogo interventi complessi di riqualificazione che alterano equilibri
psicologici sedimentati da anni, senso di appartenenza, memorie
personali e familiari. Si tratta di solito di eventi performativi
organizzati da artisti non interessati a lasciare opere definitive
e stabili nei luoghi – come fontane o sculture spesso destinate
peraltro a personaggi, idee od eventi distanti dal quotidiano ed
espressione di poteri ormai desueti - ma invece apportatori di una
sorta di energia esistenziale e comunicativa in grado di interagire
con i valori espressi dal luogo e di aggiungere senso ai progetti di
trasformazione in corso.
Spesso la fotografia si è fatta protagonista degli interventi di
arte pubblica, ponendosi in una condizione di cerniera tra la
registrazione dell’esistente e il progetto di trasformazione,
assumendosi sia l’una che l’altra veste, rappresentando entrambi
o evidenziando la distanza tra l’una e l’altro, i percorsi per
raggiungere l’uno partendo dall’altro. La fotografia come arte
pubblica è un mezzo per consentire di evidenziare al massimo
grado le capacità maieutiche proprie del mezzo fotografico,
in quanto l’artista/fotografo di arte pubblica spesso si spoglia
dell’aura autoriale e si mette al servizio dei conflitti interpretativi
che sorgono tra diversi utilizzatori degli spazi o tra questi e gli
attori delle trasformazioni.
In questa prospettiva si muove la ricerca a partire dal terzo
capitolo, con l’obiettivo di delineare alcuni percorsi innovativi
con cui la fotografia di paesaggio urbano può aggiornare i propri
linguaggi, abbandonare l’eccesso di autorialità e riconquistare
spazi di relazione con i luoghi e le persone.
L’equilibrio del giudizio sembra essere il carattere preminente
107
del lavoro di Zaffagnini, e pare che derivi dalla miscela quanto
mai adeguata di astensione e coinvolgimento, di radicamento e
di emancipazione, insomma di provenienza locale e riflessione
globale. Non per nulla Zaffagnini ha frequentato discipline
sommamente implicate con la tradizione, come può esserlo
l’etno-antropologia, cavallo di battaglia di ricerche territoriali
fondative, e insieme si è immerso in pratiche di ricognizione dei
paesaggi contemporanei a fianco di autori considerati all’origine
dell’innovazione interpretativa dello spirito dei luoghi come Ghirri
e Celati. Dei vecchi sguardi ha l’autorevolezza e la saggezza,
dei nuovi ha una specie di giovinezza persistente, che sta nella
versatilità intellettuale. Questo contrasto e questa integrazione di
opposti lo rende molto perspicace, intuitivo e razionale insieme.
La frequentazione con Ghirri, Celati, Cavazzoni lo avvicina al più
attivo centro di ricerca sul paesaggio padano da un ventennio e
oltre. Dunque un americano padano, come ce ne sono tanti, da
Ligabue a Tondelli, ma anche un romagnolo, che dunque dal Po
si allontana e punta alla riviera e alla via Emilia, misurandosi con
le sabbie mobili del compromesso tra sviluppo e sradicamento.
Il suo riferimento teorico più insistito è Robert Adams, il libro-cult
Il bello in fotografia. Ne ha fatto un manifesto sempre presente e
citato.
Fin dagli anni Settanta Zaffagnini inizia la sua collaborazione con
Giuseppe Bellosi per documentare la sopravvivenza della cultura
folklorica tradizionale in anni attraversati da cambiamenti sociali
molto forti.
Questa attenzione alle persistenze è qualcosa di molto diverso
dal fotografare relitti, oggi pratica molto in voga. Zaffagnini mostra
il cuore dello scontro tra persistenza e svanimento, ma mentre
negli edifici e nei paesaggi naturali/antropizzati c’è una staticità
silenziosa e irrimediabile, nel caso delle pasquelle c’è molto
movimento, espressività.
Il primo lavoro importante è come co-curatore del volume
Traversate nel deserto, che esce nel 1986 e coinvolge un gruppo
di artisti tra cui sono anche Luigi Ghirri e Gianni Celati. E’ un
dialogo a più voci che prende spunto da una mareggiata che ha
investito li litorale adriatico e lo ha fatto tornare deserto, almeno
a paragone dell’artificializzazione esasperata a cui è stato
condannato. Il deserto è da questo punto di vista “il silenzio da
attraversare per poter ancora parlare con gli altri” [Celati, 2011]. Una
pratica salutare, che può convincerci di verità dimenticate, come
l’assurdità della pretesa di addomesticare il pianeta, di esserne
padroni; e che può metterci (di nuovo) a confronto con la necessità
di pensare, immaginare, riflettere che è insita nell’attraversare lo
spazio vuoto, lo spazio che va risimbolizzato, riempito di nuovi (e
più congrui) valori. E’ un percorso, quello dell’attraversamento del
deserto, che rende ognuno un individuo, degno di sé e padrone
della propria ricerca esistenziale, capace di rendersi conto del
mondo che lo accoglie, contro ogni esperienza tratta dagli esperti.
Il libro contiene fotografie di Olivo Barbieri, Luigi Ghirri, Klaus
Kinold e altri. Nessuna di Zaffagnini, e la cosa è positivamente
da segnalare, per essere di esemplare correttezza. “Dio è morto,
le grandi finalità svaniscono, ma tutti se ne fottono, ecco l’allegra
novità” [Lipovetsky, 1986]. Le foto rendono percepibile questo deserto,
e più che attraverso le immagini alla Atget prive di persone della
108
81, 82. Giovanni Zaffagnini, dalla serie
Jo Lido, requiem per un non luogo, 2009
metropoli londinese di Paul David Barkshire, più che attraverso gli
interni di Vittore Fossati – al contrario, pieni di gente per assenza
fisica ma presenza imponente di tracce – più che per le nebbiose
campagne di Carlo Gajani o per gli scatti carichi di malinconica
attesa di Luigi Ghirri, sono i dintorni di Cesena di Guido Guidi a
rendere nel modo più agghiacciante la campagna desertificata
dello sprawl, del suburbio. Si vede chiarissimo il ritratto penoso
del paesaggio frutto del disinvestimento della sfera pubblica
e delle istituzioni, è evidente solo l’individualismo narcisista
di una società – quella post-moderna, anzi ipermoderna, che
si è liberata delle regole, dei vincoli (la liberazione sessuale,
l’educazione permissiva, l’iperconsumo, la competitività basata
su relazioni mediatiche) e vive di schermi, dal cinema alla tv, dal
pc al telefonino ai videogiochi, una iperrealtà che ha sostituito
quella vera, che nel frattempo si è svuotata di senso, di relazioni,
di bellezza, di giustizia.
Ma Zaffagnini non scade nel moralismo, né con questo libro
né con le sue ricerche successive, sempre tenute in equilibrio
rispetto alla volontà di non denunciare nulla. Non indifferenti, ma
nemmeno troppo sdegnati - lo sdegno può sfiorire nel silenzio,
mentre la lucidità critica resta tale a lungo, persistente e acida.
Da Tabucchi poi viene la convinzione che sentiamo i luoghi
attraverso la nostra storia personale e il nostro stato d’animo, e
dunque questo è almeno altrettanto importante delle peculiarità
caratteristiche dei luoghi. La storia di Zaffagnini, dai primi Settanta
alla fine degli Ottanta, è legata alla etno-antropologia, e questo
orienta la sua percezione (sono parole sue) di una “urbanistica
bastarda”, inquinata o arricchita a seconda delle convinzioni da
una visione più riflessiva e analitica, meno tecnica e arida. Quello
che in fondo Zaffagnini fa, è togliere il più possibile le cose dalle
sue immagini, anziché riempirle di cose e significati, ispirandosi
alla leggerezza delle Lezioni americane di Calvino. Non ci si pone
l’obiettivo di rappresentare la verità, ma di essere credibili, per
poi basare su questa credibilità la propria capacità di dialogo con
il fruitore delle foto. La credibilità dell’immagine è rafforzata dalle
imperfezioni, perché la sensazione che essa sia stata fatta di
fretta ci convince che l’autore non ha avuto il tempo di inquinare
la scena con le proprie contraffazioni. Bisogna però nascondere –
non escludere – la perizia. Si potrebbe affermare che il massimo
di semplicità lo si ottiene attraverso il massimo dell’elaborazione.
Ancora riferendosi a Calvino, Zaffagnini dice che le cose a volerle
spiegare troppo alla fine si sciupano, e pensa che l’immagine
debba essere un’opera aperta che metta in difficoltà coloro che
vivono di certezze.
Baltz sosteneva che ci sono almeno tre ragioni (tre mancanze)
per la libertà di visione degli americani – dei fotografi americani
– di fronte al paesaggio: la mancanza di legami con la mitologia
classica e con il suo perdurante simbolismo; la mancanza di una
storia feudale che definisca da secoli le gerarchie sociali e le
relative visioni del mondo; la mancanza di una chiesa in grado di
imporre una propria allegoria religiosa. La libertà che ne consegue
produce una accentuazione di ciò che è fotografato, privandolo
di valori preventivi e prefissati. La accentuazione dà origine a
questo senso di “sublime della terra”, che ogni fotografo esprime
in modi personali. In un certo senso è il paesaggio a servire ai
109
fotografi, anziché il contrario, serve a loro per progettare la
propria personalità. Tuttavia, la ripetizione di questo modo di fare
a oltranza produce una reazione negli anni Sessanta all’eccesso
di soggettivismo, e succede che di lì in avanti invece di sentirsi
ognuno un osservatore isolato tutti si sentono parte della stessa
società che fotografa, quasi avessero una missione sociale,
di rappresentare in modo neutrale quel che si vede, l’obiettivo
essendo questo: la rappresentazione fedele della realtà inietta in
chi vede uno scetticismo che è il mezzo per raggiungere livelli più
profondi. Questa è la teoria di Baltz.
Zaffagnini, oltre a produrre le foto, indica spesso anche i propri
debiti culturali. Uno di questi è quello con Walker Evans, di cui
ricorda – condividendolo - l’amore per alcuni oggetti e il desiderio
di possederli, fotografandoli. Evans espose nel 1971, insieme
alle fotografie, la sua collezione di cartelli e segnali, formata negli
anni, trattenendo con sé appunto gli oggetti fotografati. E’ un
gesto che lo apparenta all’arte pop, di cui Evans stesso parlava
sottolineando l’analogia tra il rubare e il prendere una fotografia, il
che equivale a un furto simbolico, al reclamare per sé l’oggetto o la
composizione, reclamando al tempo stesso di essere stato il primo
ad averlo visto. La bellezza dei comuni utensili (questo è il titolo
di un articolo che Evans scrisse nel 1955 per la rivista Fortune)
è una sensibilità che Zaffagnini deriva dal maestro americano, e
che spesso è evidente nelle sue immagini. Sull’assonanza dei
fotografi con i ladri si è espresso in modo analogo anche Brassai:
“Noi fotografi siamo una genia di bricconi, di guardoni e di ladri”
[Brassai, 2007].
Altro autore di riferimento per Zaffagnini è Susan Sontag.
Della scrittrice americana cita l’opinione per cui la fotografia
è, innanzitutto, un modo di vedere, piuttosto che l’atto di farlo.
Questa affermazione carica di valore la perlustrazione, il
muoversi, tutta la fase di preparazione dello scatto. Rebecca
Solnit dice che camminare è la sintassi ordinatrice del pensiero,
delle emozioni e degli incontri [Solnit, 2005]. Non c’è dubbio che
una delle operazioni congenite della fotografia sia il camminare,
difficilmente un fotografo può avvicinarsi all’oggetto da fotografare
senza camminare. Allo spostamento a piedi è connaturata la
ricerca del punto di vista, dell’altezza giusta, del rapporto tra primo
piano e sfondo, all’incidenza della luce sull’oggetto da riprendere,
ma ancora prima di ciò camminando si trova, e si sceglie tra
oggetti simili o seriali. Camminando, come afferma la Solnit,
selezioniamo anche le nostre emozioni, lasciamo sedimentare le
une sulle altre, le une nelle altre, troviamo la temperatura giusta
delle percezioni, insomma percepiamo il sapore e l’odore giusto
di ciò che vediamo, come cercava di fare Walker Evans. E’ proprio
questa sottolineatura del valore del modo di vedere connesso
alla fotografia che dovrebbe farne un metodo di indagine molto
ricercato dalle amministrazioni che si occupano di pianificare il
territorio. E’ un modo di vedere moderno, per frammenti, senza
grandi coerenze di racconto, antitetico alle ideologie, ai principi
unificatori che oltre ad essere facilmente ingannevoli e demagogici
si rivelano con l’andar del tempo una falsificazione della realtà,
o comunque una sua semplificazione inadatta a fondarvi un
pensiero costruttivo e duraturo. “La fotografia può dirci: esiste
anche questo. E quello. E quell’altro. (E tutto è umano)” [Sontag,
110
2004].
Viviamo in un paesaggio provvisorio, dunque. E questo infatti è
il titolo (“In un paesaggio provvisorio”) che diede un altro degli
autori di riferimento di Zaffagnini, Lewis Baltz, a un suo articolo
su L’Unità del 23 agosto del 1989. Baltz parla della fotografia
topografica americana e riconosce in essa la “manifestazione di
un’ideologia figurativa di accettazione radicale”, la ricerca buona
e onesta di una fotografia al grado zero. Se consideriamo quanto
sono vicini – forse quasi sinonimi – i termini “accettazione” e il
“constatazione” usato da Vittorio Gregotti [Gregotti, 2011], possiamo
dunque trovare nel persistere della filosofia visiva dei nuovi
topografi americani il versante di immagine del progetto impoverito
di cui parla l’architetto.
Zaffagnini introduce un concetto interessante, per il discorso
sul progetto: una fotografia analitica e distaccata può favorire
una “estetica del degrado” che spinga a vedere il degrado non
come un punto di arrivo - malinconico e conclusivo – ma invece
come un punto di partenza per una riconciliazione con il territorio
attraverso uno sguardo rinnovato e costruttivo; riconoscere forme
e spazi dove trovare spunti per correggere e migliorare l’esistente
e orientare la progettazione futura. E’ qualcosa che si può mettere
in relazione con le tesi espresse da Arturo Lanzani: lo scenario
paesaggistico dell’Italia in declino, del paese senza manutenzione,
privo di risorse per lo sviluppo ma anche per il mantenimento del
proprio livello anche estetico, uno scenario pessimista ma su cui
può anche innestarsi un progetto meno stereotipato di quello che
alligna nella cura del paesaggio da cartolina [Lanzani, 2003].
111
83. Nunzio Battaglia, Bologna, 2005, dalla serie Quale e Quanta
112
9. VISIONI PER
METROPOLITANA
UNA
NUOVA
STRATEGIA
1. Spinte esaurite e nuove sfide.
Il nuovo modo di fotografare il paesaggio promosso da alcuni
autori, Ghirri, Guidi, Barbieri e altri, ha conferito una sorta di
dignità di esser rappresentati anche a luoghi, a edifici, a cose
e persone che non comparivano, di regola, nelle fotografie di
paesaggio. Questa visione, finalmente consapevole anche di molti
soggetti fino allora trascurati – i paesaggi ordinari, per usare una
definizione onnicomprensiva – è responsabile della diffusione di
un sentimento recente del paesaggio, descritto e utilizzato dalla
Convenzione Europea sul paesaggio del 2000, che in definitiva
riconosce la necessità di un progetto di miglioramento, non solo
di una tutela delle eccellenze, e dunque promuove la conoscenza
dello stato dei luoghi, a prescindere dalla loro conclamata qualità.
La forza espressiva-descrittiva-comunicativa della fotografia con
gli anni è molto cambiata, si è fatta meno generalista ed enfatica
ed è diventata più minimalista e capace di dire qualcosa quasi
solo sul qui e ora. Poi, si sa, è cambiato il paesaggio. E’ più
brutto e ordinario, tutto uguale ovunque, e questi suoi caratteri
rendono difficile trovare gli spunti per progettare relazionandosi a
peculiarità ormai inesistenti, o quasi. Una volta – venti o trent’anni
fa - fotografare il bel paesaggio voleva dire soprattutto dare il
supporto visivo al progetto di conservazione. Ma oggi che non
è più solo conservativo e ritagliato sulle eccellenze, oggi cos’è
il progetto di paesaggio? E’ sufficiente registrare, come ha fatto
di recente la Regione Marche, quali e quanti e dove sono i
paesaggi ordinari, e riflettere su quale progetto di miglioramento
è necessario? La riqualificazione di tutti? O forse, al contrario,
l’accettazione consapevole di tutti?
Oltre a essere cambiato il paesaggio, e forse anche a causa di
questo, negli ultimi vent’anni è cambiata radicalmente la cultura
tecnica propria delle discipline del territorio. La conservazione ha
un po’ allentato i suoi controlli, ma non i suoi principi; nel frattempo
si è diffuso un paesaggismo ambientalista, radicale e vincolista,
mentre probabilmente è sfiorito fino a scomparire quello di
origine letteraria e storico-artistica. L’onnipotenza dell’urbanistica
classica – o almeno, la sua convinzione di esserlo - ha mostrato
la corda, lasciando il campo quasi del tutto al fitto chiacchiericcio
della partecipazione diffusa. E poi è calata molto la forza delle
amministrazioni pubbliche e della politica. Quest’ultima non sa più
bene cosa volere, e dunque cosa chiedere. Ai tempi ormai lontani
del suo censimento fotografico del centro storico bolognese,
Paolo Monti aveva ricevuto un incarico preciso e inequivocabile,
da parte del Comune di Bologna. Una committenza forte, che
gli chiedeva: mostriamo il centro storico com’è, anzi, come era,
per render vivo il desiderio di conservarlo. Oggi, al contrario, i
progetti fotografici ricevono, dalle amministrazioni pubbliche che li
promuovono, indicazioni piuttosto vaghe, e la fotografia è lasciata
in sostanza libera di restituire una propria visione dei luoghi.
113
Infine, e soprattutto, sono cambiati i fotografi. Sono diventati
artisti, immersi nel mercato dell’arte e attenti alle richieste delle
loro gallerie, più che al desiderio del vicesindaco o degli assessori
alla cultura o all’urbanistica. Ed è cambiata la fotografia: tutti
fotografano, e il digitale ha reso tutto subito controllabile e
innumerevolmente replicabile, e photoshop tutto alterabile.
In mezzo a tutta questa instabilità, ha ancora senso parlare di
progettualità fotografica? Molti fotografi del dopo-Ghirri fanno
fotografie sciatte, disordinate, understated, proprio perché vogliono
parlare di un paesaggio che ha le stesse caratteristiche. Spesso il
pubblico non specialista definisce queste foto “brutte”. Confonde
ciò che è raffigurato con il linguaggio usato per la figurazione. Ma
è vero anche che la fotografia vuole farsi brutta, nel senso che non
si cura - programmaticamente, ideologicamente, retoricamente –
di rispondere alle classiche regole della composizione, e si fa così
strumento di un anticlassicismo altrettanto manierista.
L’uso della foto digitale e soprattutto di tutte le modificazioni oggi
possibili in fase di post-produzione è assolutamente appropriato,
quasi consustanziale alla città e all’architettura contemporanee,
che sono altrettanto instabili e velocemente mutevoli [Rosselli, 2009].
Dunque c’è un nesso diretto e forte tra il fotografo - il suo modo di
fotografare, che produce la fotografia che noi vediamo - e ciò che
viene osservato, visto, infine selezionato per lo scatto, e dunque
rappresentato. C’è una complessa rete di relazioni, di attrazioni,
di decisioni più o meno consapevoli. Oltre ad esserci un inconscio
tecnologico, una quota di imponderabile autodeterminazione della
stessa macchina fotografica, come ci ha raccontato un notevole
libro di uno dei primi fotografi-artisti [Vaccari, 1979].
La convinzione più diffusa porta a credere che le committenze
hanno più o meno esaurito la loro spinta ermeneutica, e che
la vera forza delle fotografie sta nell’esistere già, negli archivi,
come semi o talee che stanno crescendo in una serra. Il limite
di questi materiali sta forse in quella peculiarità che per altri
versi è la loro ricchezza e il loro esclusivo privilegio: che cioè,
inevitabilmente, per natura, esse ci trascinano a guardarle per
essere testimonianza, per essere lo strumento documentario del
tempo che fu. Il noema “è stato” di cui parlava Barthes, indicandolo
come tipico della fotografia: le foto d’archivio, indispensabili per
gli obiettivi di ricerca storica, sociale, antropologica, scientifica,
ci possono portare, nel campo delle discipline del territorio, a un
progetto storicistico, che naturalmente non è il solo possibile.
Queste domande sembrano ancor più pertinenti e necessarie
oggi che in passato, in quanto alla sostanziale stabilità delle
forme – fisiche e sociali – del territorio che ci ha accompagnato
fino al dopoguerra – che potevano essere rilevate in modo
sufficientemente esaustivo attraverso pratiche tradizionali di tipo
quantitativo e catastale – si è passati nel corso degli ultimi decenni,
e particolarmente degli ultimi anni, a una velocità di trasformazione
elevatissima. Il mondo liquido pretende – per essere captato, e
analizzato in presa diretta – metodiche altrettanto mobili, basate
sull’osservazione, sullo sguardo, più che sulla freddezza dei
numeri.
La fotografia è lasciata libera di parlare il proprio linguaggio (e
di rappresentare il punto di vista dell’autore) e viene per così
dire esibita in giudizio insieme ad altre testimonianze dei fatti e
114
84. Michele Buda, Via Emilia, 2005
della realtà. Questa modalità di solito si estrinseca in pratiche di
tipo laboratoriale, dove urbanisti, artisti, fotografi co-operano nel
porre a confronto punti di vista anche molto diversi, nell’intento
di fornire una interpretazione meno unilaterale e più densa di
significati. Questo approccio è stato finora meno utilizzato dalle
committenze fotografiche di area urbanistica (tra i pochi casi
importanti, la ricerca Atlante Italiano 007. Rischio paesaggio,
realizzato dalla Direzione per l’architettura contemporanea del
Mibac), ma presumibilmente sarà più frequente d’ora innanzi,
nell’intento di avvicinarsi di più alla espressione delle identità
locali attraverso procedure di ascolto mirate, che possono essere
attivate appunto attraverso i workshop di fotografia.
Spectacular City. Photographing the Future è una mostra che
si tenne al Netherlands Architecture Institute di Rotterdam nel
2005. Si può fotografare il futuro? Ovviamente no, a meno che
con la post-produzione digitale non si trasformi il presente in
futuro, immaginandolo. In verità, il titolo della mostra non voleva
significare questo, ma piuttosto mettere in evidenza l’interesse di
molti artisti per la grande città, la grande metropoli, la megalopoli,
come spazi che prefigurano il mondo futuro e ce lo fanno
intravedere. Possiamo intravedere il futuro attraverso il racconto
che certi fotografi ci fanno (Bas Princen, per esempio), di come
il moderno – anche recente – è diventato rovina, abbandono,
scenario in cui si sta preparando l’avvento di qualcosa di altro,
un futuro che l’artista cerca di immaginare. Che forse addirittura
vede, attraverso il suo pensiero, il suo progetto.
Per alcuni decenni si è guardato alla città come scenario dove
cercare l’identità, il genius loci, trovandolo spesso a due passi
da casa: così faceva Ghirri, così fa Guidi, così ha fatto lo stesso
Basilico con i suoi celebri ritratti di fabbriche milanesi. Ora i fotografi
più spesso si allontanano, viaggiano in Estremo Oriente, nel Sud
America, si alzano come fa Barbieri con il suo elicottero, come
per paragonare le sue visioni a Googlearth. O almeno ci fanno
pensare, e molto intensamente, che il mondo contemporaneo ha
smesso l’aspetto che per alcuni decenni ha mantenuto, e si sta
preparando ad assumere tutto un altro aspetto: quello del futuro,
di quello che noi crediamo possa essere il futuro.
La fotografia di paesaggio non naturale, ma antropizzato, ha avuto
85. Fabio Mantovani, Ex Manifattura
Tabacchi, Bologna, 2011
115
un grande sviluppo negli ultimi trent’anni; preso atto che la crescita
industriale aveva spezzato la continuità storica del paesaggio e
il legame con la natura si era perduto, i fotografi hanno cercato
di immaginare la forma del nuovo paesaggio determinato dalle
indelebili trasformazioni provocate dalla presenza dell’industria. E
sceglievano naturalmente la città, anche ossessivamente e anche
ripetitivamente, per misurare il grande processo di sviluppo che
era avvenuto.
Già dagli anni Novanta si è cominciato a pensare che non
avesse più significato ricercare una identità dei luoghi, ma che
fosse molto più interessante e, soprattutto, possibile, istituire una
relazione dinamica con i luoghi, fondata su tentativi di creare un
dialogo. E’ stata la fotografia, con la sua insistenza, a trasformare
molte parti di città disperse, tradite, spezzate, in scenari credibili,
in premesse per paesaggi futuri. Proprio perché la fotografia
certamente registra, ma soprattutto immagina. Immagina le città
contemporanee, che forse più che città sono un sistema, carico
di flussi, modulazioni, convergenze, superfici di comunicazione e
di spettacolo.
Forse non è tuttora chiaro quali sono i caratteri essenziali del
concetto di contemporaneità, ma invece è molto evidente il suo
effetto principale, cioè lo stato di preoccupata incertezza in cui
viviamo, ancora più percepibile da quelli di noi che abitano in città.
La città, evolvendo da moderna a contemporanea, ha smarrito
quella aspirazione all’ordine e alla giustizia, alla razionalità e alla
uguaglianza che la connotava fin dal Rinascimento. La complessità
e la velocità dei processi, la molteplicità degli attori e dei decisori,
la necessità di coordinare le varie autonomie amministrative sono
alcune delle cause. Queste analisi sono comuni a quasi tutti gli
studiosi dei fenomeni urbani. Sono invece, com’è ovvio, molto
diverse le idee su come rispondere. Alcuni propongono il ritorno
alla città bella, quella derivata da modelli storici, nelle forme, negli
equilibri, nell’etica, nelle regole. Altri mediano e si accontentano
di una città almeno coerente. In grado di tessere rapporti credibili,
tra le parti, tra l’innovazione e la tradizione, tra le culture. Tra le
mille contraddizioni sociali in cui la città vive.
Alvaro Siza scrive: “Mi commosse l’idea di una città rinnovata,
non sappiamo quale, che sarebbe sorta dalla periferia, dalle
bidonvilles, dalle favelas, più che dalla memoria o dalla presenza
dei centri storici” [Siza, 1999]. Un progetto, dunque, che fa dell’analisi
della riflessione su ciò che definiamo brutto, uno dei suoi stimoli
fondamentali.
Guardando la metropoli contemporanea e in particolare il mondo
delle periferie, Rem Koolhaas non si accontenta di vedervi
un dizionario di errori da riparare, ma ne rileva la “terrificante
bellezza” e su questa base elabora il proprio metodo di intervento:
la congestione sarebbe il concetto paradigmatico della cultura
del ventesimo secolo, a cominciare da Baudelaire, il primo poeta
moderno che spostò l’osservazione dalla campagna alla città,
maestro del Rimbaud delle Illuminazioni, che è il poema della
città.
Quel che davvero sembra paradossale è il fatto che questa città,
che cresce caotica, casuale e contingente, questo immenso
patchwork, anziché richiamare la così celebrata “globalizzazione”
parrebbe il trionfo del localistico, dello specifico, del qui ed ora.
116
Fragilità, evanescenza, virtualità avvicinano l’architettura alle arti
visive: come queste, quella è assai più che in passato oggetto di
una evoluzione veloce, di un cambiamento di significato nel tempo
e nello spazio a ritmi sempre più accelerati. Al tempo stesso, le
arti si avvicinano alla scena urbana, facendone il proprio campo
di indagine, il contesto di ambientazione. Il progetto architettonico
assume per conseguenza un maggiore understatement,
rinunciando ad obiettivi troppo ambiziosi e totalizzanti. Si fa avanti
un’ estetica dell’ ”antigrazioso urbano”, fondata sulla constatazione
che lo scarto, il residuale, il banale anziché essere stato accettato,
indagato e utilizzato come strumento per il progetto della città,
è stato isolato, negato, trattato come un difetto, con vergogna,
insomma rimosso dai progettisti, dagli amministratori.
La città periferica è anche la città dove vive la gente, dove vive
la larga maggioranza degli abitanti. E’ la città che più di quella
storica – irrigidita dai valori monumentali e culturali - consente
la sperimentazione tipologica, tecnologica, i modelli partecipativi.
Le opinioni che si condensano nelle immagini degli artisti-fotografi
contano ormai come e più di quelle di storici, storici dell’arte,
architetti, filosofi, geografi, antropologi, sociologi. Sembra che
i fotografi abbiano raggiunto una credibilità anche più salda e
autorevole, e in sintesi i loro messaggi recenti sono consistiti in
una tesi ripetuta a più voci: che il luogo could-be-anywhere non
solo non è da criticare, ma è da accettare, perché quel paesaggio
siamo noi. Noi che volevamo l’auto e la seconda casa come tutti
gli altri, che viviamo nelle città e siamo ormai ben più che la metà
della popolazione.
L’ossessiva insistenza con cui i fotografi da tempo indagano il
paesaggio nelle sue forme deteriori e caotiche, è spesso fonte di
fastidio, “ma questo vuoto, questo senso di provvisorietà, talvolta
di bruttezza, questo stato irrisolto delle cose non solo rispecchiano
con efficacia e onestà la nostra effettiva condizione, ma segnalano
forse gli spazi simbolici di un potenziale nuovo paesaggio che per
ora non sappiamo dire” [Valtorta, 2005].
Rappresentando senza commenti l’intensità e spesso la
drammaticità dei fenomeni sociali di cui le città del mondo sono lo
scenario, la fotografia può attirare la nostra attenzione e suscitare
nelle coscienze domande, anche se non può suggerire risposte;
rispecchiando valori e contraddizioni della società odierna, il
paesaggio urbano può aiutarci a conoscere le dimensioni delle
urgenze in cui viviamo, a formarci opinioni, e formandoci le
opinioni, a correggere pratiche. L’arte contemporanea intrattiene
un rapporto stretto con il pensiero politico e sociale, è anzi –
con la crisi della politica, delle istituzioni, dei luoghi tradizionali
di coesione sociale, degli strumenti di comunicazione – il
laboratorio per eccellenza di questo pensiero. Per questo oggi
la rappresentazione della città ha un successo così evidente
e per questo i fotografi continuano ad essere protagonisti di
primo piano di questa azione, che dal cuore dei problemi parte
e ad esso ritorna, dopo aver cercato altrove di arricchirsi con la
moltiplicazione del proprio singolo sguardo.
In tutto questo, va sottolineato il ruolo fondamentale degli Urban
Center, come luoghi dove la fotografia si è unita all’urbanistica,
non solo sui muri e negli scatti, ma nel dibattito, nell’osservare,
recepire i suggerimenti dei fotografi, criticarli, rielaborarli. La spinta
117
che hanno dato gli Urban Center – dal primo e più celebrato,
quello di Torino, in funzione ormai da circa un decennio – si unisce
all’azione svolta da organismi ministeriali - come la ormai celebre
DARC, la Direzione per l’Arte e l’Architettura contemporanee del
Ministero per i Beni Culturali che è stata alle origini del progetto che
ha portato oggi al Maxxi, il Museo romano dell’arte del XXI secolo
- nell’azione di avvicinamento delle politiche culturali a quelle
urbanistiche, dove il ruolo dell’immagine ricopre le due funzioni,
di ricerca-documentazione e di comunicazione-promozione.
Alcuni fotografi europei sono da tempo impegnati in direzioni come
quelle indicate, basti pensare tra i tanti all’olandese Bas Princen,
e all’artista e fotografa catalana Montserrat Soto e a molti giovani
fotografi attivi nell’area barcellonese, da due decenni laboratorio
privilegiato di queste pratiche. Alcuni caratteri comuni è possibile
riconoscerli, pur nella diversità degli approcci, e certamente tra
questi è l’importanza crescente data al corpo umano, al ritratto,
alla definizione delle identità delle persone come stile dominante
della rappresentazione della città multietnica. Questo è avvertibile
anche osservando alcuni casi italiani recenti, che pongono
l’accento su temi di rilevanza politico-sociale connessi alla città,
tornando a proporre dopo decenni una fotografia di servizio, di
indagine critica della realtà, fatta da posizioni molto coinvolte dal
punto di vista della informazione politica, in un caso rifiutando
addirittura la soggettività autoriale per scegliere al contrario la
fisionomia di collettivo.
2. Città desolate di cui siamo responsabili.
Architetto e designer formatosi tra Eindhoven e Rotterdam, Bas
Princen fa parte di una generazione di artisti particolarmente
centrati sul tema della rappresentazione dell’architettura. Princen
si colloca nel solco dei New Topographics americani, e anche
per questa sua qualità è stato invitato da Linea di Confine per la
fotografia contemporanea di Rubiera a documentare il cantiere
della linea veloce Bologna-Milano nel 2008 (Galleria naturale è il
titolo del lavoro). Tuttavia è capace di unire al rigore a volte un po’
freddo della fotografia documentaria una dose non trascurabile
di ironia surrealista, ben percepibile nelle sue vedute urbane.
Nella serie Refuge, Princen mostra cinque città del medio oriente
- Beirut, Amman, Il Cairo, Istanbul, Dubai - e compone una città
immaginaria dotata però di tutti i caratteri che ognuna ha di per
sé: una città senza centro, popolata da oggetti architettonici
implausibili, attraversati o lambiti da flussi migratori di scala
continentale.�
Nel suo ultimo progetto, Reservoir (in mostra nel 2011 alla Casa
dell’Architettura di Roma), tutto il materiale urbano mostrato
(cantieri, case, pezzi e frammenti di costruzioni e strade, rocce e
geologie, cave, grotte, strutture edilizie, scale e scalinate, ruderi)
non sembra nemmeno più in grado di raccontare dei luoghi
in un senso documentario. Pare invece che la ricerca visiva
produca simboli, icone, metafore di qualcosa, di una condizione
esistenziale, di una transitorietà cronica. L’autore alterna linguaggi
diversi, a volte inquadra l’architettura come farebbe un fotografo
di architettura, a volte ritrae il paesaggio come un vedutista
faceva con la pittura nel Settecento. Questa oscillazione continua
dimostra come il modo di guardare e di rappresentare poco
118
86. Bas Princen, Shopping Mall Parking
Lot, Dubai 2009
influisca nel descrivere oggetti così espressivi, che sono di per sé i
monumenti del contemporaneo, nel loro squallore, nella loro mole
inquietante, esistono senza essere scoperti da nessuno, senza
essere raffigurati da nessuno, la loro esistenza è enormemente
più significativa della loro visibilità.
Nella presentazione del libro, Stefano Graziani – che è anche lui
un fotografo – fa uso di una citazione di Ghirri da Atlante, secondo
la quale, in questa epoca in cui tutto è stato già scoperto, la nostra
sola possibilità è di scoprire la scoperta già fatta. Ad esempio, per
Princen, quella di Lewis Baltz, o dell’artista John Baldessari. Del
primo, Princen ripete l’insistenza nel mostrare la desolazione che
l’uomo infligge al paesaggio; del secondo apprezza la preminenza
data alla fotografia nel suo visual looping, il rimando continuo
dall’una all’altra delle tecniche figurative.
Princen utilizza un punto di ripresa che definisce come la media
distanza, e sostiene che non è stata molto usata nella fotografia
recente di architettura, che preferisce i punti di vista estremi,
con l’inquadratura centrata sull’oggetto architettonico oppure sul
paesaggio urbano. Mentre - a suo dire - è esattamente nella media
distanza che la figura umana diventa un elemento interessante:
non è il soggetto principale e dunque non può essere mostrato
come tale, ma le sue relazioni con l’ambiente circostante riescono
a definirlo in modo preciso e originale, e aggiungono allo stesso
tempo un ulteriore piano di lettura al paesaggio o all’architettura.
87. Montserrat Soto, Doom City, 2005
88. Montserrat Soto, Perdidos
Anche Montserrat Soto mette l’architettura al centro del suo lavoro,
ma secondo un concetto molto allargato: non le interessa l’edificio
come composizione, ma il fatto che esso produca relazioni e
interazioni con il contesto sociale e ambientale. Per Soto infatti ,
l’architettura è ciò che la circonda, dove passa, dove vive, ciò che
la accompagna. E’ un concetto che ripete con le sue opere sin
dalla prima mostra del 1990, Devenir intuido. L’habitat è ciò che
scegli, quello che crei intorno a te per sviluppare te stesso, tutto
ciò di cui parli. L’habitat è te stesso, la tua stessa struttura.
E’ anche una idea di architettura, se si intende non solo il disegno
del costruito, ma anche il sentimento dei luoghi; se l’ambiente è
environment inteso come modo di essere, di stare, di sentirsi; se
è il luogo dove per ognuno avvengono le grandi cose.
Tracking Madrid è il suo lavoro più legato al paesaggio urbano
e alla memoria. E’ un inseguimento della città, una carrellata sui
paesaggi urbani, Che si possono percepire in modo ancor più
coinvolto stando sul confine tra dentro e fuori, tra natura e cultura.
La zona che Soto preferisce è quella che segna il limite tra outside
e inside, da cui puoi guardare dentro ma senza penetrare.
Infatti gli elementi più forti della sua poetica sono le porte e le
finestre. Puertas traseras raccoglie vedute da porte e finestre,
sguardi da balaustre, da finestrini di traghetti, da archi di portici.
Il linguaggio della porta è il suo modo di parlare a se stessa – e
all’osservatore delle sue fotografie - stando di fronte al paesaggio
inquadrato, incorniciato, e anche di parlare di quel particolare
momento – e modo - in cui la città si percepisce proprio mentre si
decide di affrontarla, di entrarvi dentro.
Secondo Soto, il grande successo del paesaggio in fotografia, la
sua fotogenicità, l’amore che gli hanno riversato addosso i fotografi
deriva certamente dal fatto che il paesaggio più che nell’oggetto è
119
nello sguardo, più che nella oggettività nella soggettività, e questo
ovviamente stimola l’appetito fotografico. Sta nel modo con cui il
soggetto si mette a esplorare il mondo visibile, più che nel mondo
stesso.
L’esplorazione richiama i primi esempi della fotografi di paesaggio,
i lavori di documentazione del territorio connessi a spedizioni
scientifiche, geologiche, militari. Ad esempio, la campagna
fotografica eseguita negli anni ‘70 dell’Ottocento da Timothy O’
Sullivan e William Henry Jackson negli Stati Uniti, per conto del
governo americano, che portò poi alla creazione del parco di
Yellowstone nel 1872; e così avvenne anche nel 1940, con il lavori
di Ansel Adams sulla Sierra Nevada. Questi sono esempi molto
precisi di una filiazione diretta di azioni progettuali e amministrative
dalla esecuzione di riprese fotografiche, e Montserrat Soto dichiara
esplicitamente il suo debito prima ancora di affetto e fascinazione
che di discendenza culturale.
La riproducibilità immediata e la facile replicabilità in grande numero
delle immagini ha prodotto anche grandi effetti sulla diffusione
delle informazioni, un aspetto di non poco conto e molto utile
alla messa a punto di strategie politico-amministrative. Dal punto
di vista delle discipline territoriali però la fotografia è un’arma a
doppio taglio, poiché contribuisce anche alla moltiplicazione della
conoscenza, dei visitatori, dei fruitori, e dunque costituisce un
problema per le azioni conservative, in quanto genera un aumento
della pressione antropica sui luoghi. Questo è molto evidente
con il turismo, del quale naturalmente la fotografia è stata la
generatrice più efficace e inarrestabile. Così come il turismo ha a
sua volta generato fotografia, nel senso di una richiesta continua
di informazione attraverso immagini stereotipate e accattivanti.
Uno dei modi più sottili ma anche ricorrenti di rappresentare
il paesaggio urbano è quello che possiamo definire “per
complementarietà”, cioè la sua rappresentazione attraverso
la rappresentazione dell’opposto, il paesaggio che una volta si
chiamava rurale e che oggi forse in modo più pertinente si chiama
extra-urbano, in quanto la predominanza della urbanità pretende
di definire tutto il resto in termini di sua assenza. Se già Ghirri è
stato uno dei maestri italiani di questa pratica, Montserrat Soto
ha realizzato molte opere secondo questa poetica. Ad esempio
Hivernaderos (2002) mostra campi di Almerìa e Fuerteventura
dove le coltivazioni tradizionali sono sostituite da costruzioni di
plastica paragonabili alla struttura urbana di strade ed edifici.
Al contrario, nella serie Huellas (2004) predominano scenari
verdi che nascondono rovine di industrie, una sorta di ritorno
della campagna in città in termini meno positivi di quanto non
prevedano le teorie dell’agricoltura urbana. Molto spesso il lavoro
di Soto, come di molti altri artisti contemporanei, prevede la
fruizione di queste immagini anziché attraverso i libri fotografici
o le mostre tradizionali, attraverso installazioni che pongono
il visitatore all’interno di spazi spesso bui circondati da scenari
fotografici (vere e proprie messe in scena) del tipo dei panorama,
con fotografie di grande formato giustapposte che mimano la
realtà viva dei luoghi. Come certe immagini degli anni ‘60 di
Robert Smithson, non si tratta di fotografie di denuncia, ma – al
contrario - di constatazione. Non sono immagini malinconiche, ma
certamente creano instabilità, irritabilità, forse anche disagio. Ci
120
mettono di fronte alle responsabilità connesse alla modificazione
paesaggistica, agli effetti di lunga distanza della urbanizzazione,
e ponendo lo spettatore al centro del panorama ne esigono il
coinvolgimento, la corresponsabilizzazione, in modo anche crudo.
3. Carrers e paesaggio metropolitano.
Barcellona è una città al centro dell’attenzione mondiale da
quasi un ventennio, per la rapidità con cui è riuscita a risollevarsi
dall’emarginazione in cui – come e più del resto della Spagna – si
era trovata nel periodo franchista. Il caso è notissimo: a partire dal
1980 – quando la prima elezione democratica del dopo-Franco
porta all’insediamento di una giunta a maggioranza socialista
guidata da Narcis Serra – la città inizia a cambiare aspetto, grazie
anche alla nomina dell’architetto Oriol Bohigas quale assessore
all’urbanistica [Ingrosso, 2011]. E’ a Barcellona che l’eterno conflitto
tra i santificatori del piano urbanistico generale e i discepoli
dell’architettura come arte in grado di trasformare da sola l’ intero
contesto urbano trova una mediazione concreta e non puramente
teorica nel progetto urbano.
Una invenzione non solo verbale (la parola progetto fa parte del
vocabolario dei termini architettonici, l’aggettivo, invece, di quelli
usati dai pianificatori): Bohigas, con la forza dei fatti, ovvero delle
molte realizzazioni, dimostra che una scala territoriale come
quella rappresentata dalle dimensioni di un quartiere è idonea a
far incontrare le esigenze di un disegno coerente e omogeneo per
una serie abbastanza estesa di isolati, con gli effetti di riverbero
sull’organizzazione e il funzionamento del tessuto cittadino
adiacente alle realizzazioni di architettura di qualità. Di norma, il
protagonista del progetto urbano è lo spazio pubblico, sia esso
aperto che edificato, purché il cittadino vi si riconosca e possa
comprendere immediatamente l’uso da farne e la disponibilità
dello stesso per i propri bisogni.
La città è intesa da Bohigas come una “somma di frammenti,
ciascuno dei quali ha una data coesione fisica e sociale” [Bohigas
2002, p. 71 e segg.], e i progetti urbani devono “venir utilizzati come
base per la partecipazione cittadina e per la collaborazione di
diversi professionisti”. E’ così che nascono profonde ed inedite
riflessioni sull’alternativa tra espansione e ricostruzione, sulla
necessità di superare il falso dualismo tra centro e periferia,
e dunque sulla possibilità di ottenere una città più densa e
compatta, riqualificando spazi dismessi, vuoti, o degradati, anche
ricorrendo a forme contemporanee, utilizzando la metaforica
procedura della metastasi, un metodo induttivo che parte dal
contesto fisico e per progressive aggiunte si perfeziona nel
progetto. La città, si cominciò a dire, si costruisce su se stessa,
aggiungendo, sottraendo, stratificando, in una città già di per se
stratificata e molto compatta (cento chilometri quadrati che non
possono aumentare a causa dei limiti fisici imposti dal mare, dalla
collina del Tibidabo e dai due fiumi Besòs e Llobregat). Nascono
in serie interventi di architettura minimale (come la chiamò Ignasi
de Solà-Morales) su pasei e piazze, frutto della collaborazione
di professionalità diverse, architetti, urbanisti e scultori, tra cui
Richard Serra ed Eduardo Chilida. Questo fervore di opere è ancor
più stimolato, com’è ovvio, dalla assegnazione a Barcellona delle
Olimpiadi del 1992: arrivano i grandi nomi, come Norman Foster,
89. Adrià Goula, dalla serie Carrers
Metropolitan i places centrals, 2010
121
Arata Isozaki, Frank Gehry, Alvaro Siza, e poi Richard Meier,
Herzog & de Meuron, Jean Nouvel, Richard Rogers. Di solito
l’arrivo delle archistar fa terra bruciata delle giovani generazioni
locali; al contrario, l’esperienza di Barcellona smentisce questa
teoria. Architetti come Viaplana e Pinon, Miralles, Bonel, Mateo,
relativamente giovani e sconosciuti, sono emersi dall’esperienza
della riqualificazione urbana come protagonisti dell’architettura
europea, forse grazie alla forte carica di impulsi liberatori esistente
nella città catalana, dal primitivismo di Joan Mirò all’essenzialismo
del padiglione tedesco di Mies van der Rohe.
I caratteri dell’esperienza barcellonese, che si prolunga nel
tempo e tuttora, dopo trent’anni, mantiene in larga misura intatta
la sua forza, portano con sé la necessità della fotografia: molta
architettura, in spazi storici, paesaggistici, in un contesto ricco
di turismo, con alta partecipazione. Molta necessità di dialogo
tra fotografia e progetto. La città, inoltre, possiede una cultura
fotografica di prim’ordine: da Brangulì a Català Roca, passando
via via per Humberto Rivas, Manolo Laguillo, Jordi Bernadò, fino ai
giovani, molto coinvolti nell’analisi urbana attraverso la fotografia.
Tra questi giovani autori, alcuni hanno lavorato con Carles Llop,
architetto e docente dell’ Università Politecnica di Catalogna,
nel realizzare una mostra, Carrers Metropolitans, che è anche
uno studio e un progetto. Lo studio riguarda la viabilità urbana
e il modo in cui storicamente le nostre città prendono forma,
attraverso lo spazio pubblico. Dal più piccolo insediamento alle
città più grandi il primo elemento d’ordine è la strada, che risulta
dalla distanza spontanea o progettata tra gli edifici. In una realtà
urbana metropolitana come quella di Barcellona è necessario
trovare spazi di relazione della vita sociale, e la strada è quello
più immediato e consolidato.
Il municipio di Barcellona, le città dell’Arco Metropolitano,
l’area metropolitana e la sua Regione Urbana hanno realizzato
così Carrers metropolitans, che raccoglie gli spazi emergenti
della costellazione territoriale suddetta. E’ anche una iniziativa
programmatica per creare le condizioni di un progetto concertato,
suddividendo tra le diverse istituzioni pubbliche le competenze
della trasformazione in termini di abitabilità e accessibilità. E’ un
122
90. Pere Bascones, dalla serie Carrers
Metropolitan i places centrals, 2010
documento strategico destinato alla governabilità del territorio.
All’origine dell’iniziativa è una mostra fotografica a fianco di
un seminario, un libro, una strategia in sviluppo attraverso la
cooperazione di studi privati, università, istituzioni. L’esposizione
è stata itinerante in varie città mondiali: Parigi, Shanghai, fino a Rio
de Janeiro. E’ insieme una riflessione sui problemi e le opportunità
dello spazio della strada contemporanea e la diffusione della
conoscenza della grande trasformazione dello spazio urbano della
città, portato a termine negli anni della democrazia a Barcellona.
La riflessione sulla strada come scenario attivo e struttura efficace
per la vita contemporanea, comprendendo anche lo sviluppo di
nuove tecnologie applicate allo spazio urbano.
Nella strada circoliamo, viviamo, lavoriamo, la strada è al tempo
stesso il miglior luogo di relazione ma anche di conflitto. In tutte le
città del mondo le domande sono le stesse: di chi è la strada? A cosa
serve? Chi vigila, chi decide? Come possiamo rendere compatibili
tutte le velocità, i modi di trasporto, le necessità degli abitanti che
passano e di quelli che vi lavorano, come i commercianti? Come
realizzare strade leggibili, fluide, di facile uso? Fino a che punto
la pubblicità, i negozi, la libertà d’espressione e l’arte possono
trovare il loro spazio? Tutte queste funzioni possono essere più
o meno compatibili tra di loro, e creare conflitti di tipo diverso.
La crescita delle città, sia in altezza che in superficie acutizzano
questi problemi d’uso. Per risolvere questi problemi l’urbanistica
moderna ha teso a creare gerarchie e a specializzare usi,
separando mobilità e attività. A volte queste scelte sono state
criticate come portatrici di separazione. Esistono altre esperienze,
di paesi che invece hanno puntato sul potenziale di urbanità che
deriva dalla mescolanza di funzioni e classi sociali. Questi sono i
temi dell’esposizione, e la fotografia in questo caso come si vede
deve essere capace di porre domande e in un certo senso anche
di suggerire percorsi per le risposte. Un video di grande formato
mostra un mondo di strade in movimento; cinquanta progetti di
architettura inventano le strade, ne immaginano un uso diverso,
ne migliorano le capacità di relazione; una sezione della mostra
è dedicata a indagare come la telefonia mobile, la pubblicità
interattiva e i videogiochi modifichino il nostro immaginario sulla
strada.
La stessa varietà di denominazione della strada a Barcellona è
indicativa della diversità d’uso e di approccio: carrer, avinguda,
passeig, carretera, camì, pas, via, travessia, carrer major, gran via,
camì del mig, carretera alta, passeig maritim, rambla, diagonal,
travessera, ecc. La strada può essere osservata dal punto di vista
dei bisogni sociali primari: la nettezza, il parcheggio, la sicurezza
dei bambini, i trasporti pubblici, gli animali, l’accessibilità, l’arte, la
vita 24 ore su 24... [Llop 2011].
91, 92. Andrés Flajszer, dalla serie
Carrers Metropolitan i places centrals,
2010
4. Il collettivo fuori_vista e Sismicity.
Il collettivo di fotografi fuori_vista è composto da tre fotografi
“senior” - Isabella Balena, Alessandra Chemollo, Fulvio Orsenigo
– coadiuvati da alcuni giovani, e produce e cura progetti fotografici
complessi per favorire, attraverso un’adeguata comunicazione,
la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali. Tra questi,
uno dei più recenti e significativi è la mostra Sismicity, che
raccoglie un progetto fotografico sulle conseguenze del sisma
123
che ha colpito L’Aquila e il suo territorio, sviluppato nel corso di
un anno e incentrato su ciò che il terremoto ha messo in luce: il
nesso profondo tra il costruire e l’abitare, il sistema di relazioni tra
identità individuale e collettiva, su cui si fonda il senso condiviso
di bene comune.
Due diverse esperienze fotografiche sono riunite nel lavoro:
immagini di approfondimento dell’impatto del sisma sulla città
e i suoi abitanti si affiancano a scatti dedicati alla registrazione
esaustiva del centro storico de L’Aquila secondo criteri omogenei
e preordinati: “luogo”, “identità”, “bene comune” sono le
problematiche affrontate.
La grande attenzione mediatica – spesso superficiale e deviante
dalla verità dei problemi – non sminuisce e anzi rafforza l’utilità di
un progetto di comunicazione come questo, composito, innovativo
nella metodologia della ricerca, in cui l’autorialità del fotografo
diventa condivisione delle competenze finalizzata ad un progetto
comune. Sismicity è una mostra itinerante intorno alla quale si
sviluppano iniziative di volta in volta diverse che coinvolgono
istituzioni, cittadini ed esperti in una riflessione comune e condivisa
sul futuro della città.
Il collettivo fuori_vista è l’esempio di una fotografia innovativa
nel suo rapporto con i temi dell’urbanistica. Fin dalla sua nascita,
una delle qualità più intense della fotografia è la capacità di
testimoniare e di informare. Da allora si è discusso spesso della
veridicità o meno del mezzo fotografico, l’impegno dei fotografi per
una evoluzione della società in una prospettiva di miglioramento
è documentabile in una serie di episodi tratti dalla storia della
fotografia, a cui idealmente il collettivo veneziano non può non
fare riferimento.
Di fatto, gli interrogativi che fotografi e fotografia si pongono
oggi sono in sostanza ancora gli stessi: quali sono le funzioni
ma anche le possibilità della fotografia che si pone come
obiettivo documentare e informare? Tutti siamo consapevoli
della limitatezza delle possibilità di incidere che ha la fotografia
quando non può raggiungere dei sistemi di divulgazione ampi e
contemporaneamente sappiamo tutti che il potenziale informativo
della fotografia non può competere con la velocità e la capillarità
della rete o dei sistemi televisivi. Nonostante questo, la fotografia
ha per sua natura genetica alcune caratteristiche che in questa
fase di confusione e di cambiamenti la rendono assolutamente
preziosa e fuori_vista ce ne offre una possibile testimonianza: la
fotografia ci consente il ripensamento, ci consente il confronto, ci
regala i tempi della meditazione e della riflessione, ma soprattutto
ci costringe a una presa di coscienza [Calvenzi, 2010].
Il fenomeno mediatico che ha caratterizzato l’informazione sul
terremoto de L’Aquila e l’esperienza di fuori_vista sono in qualche
modo sintomatici. Tutti abbiamo vissuto il bombardamento visivo
su quanto è accaduto, su quello che è stato fatto e su quello
che non è stato fatto, fino ad arrivare a una sorta di indigestione
che ha rischiato di portarci al rifiuto, perché provocata da una
comunicazione per immagini che puntava sull’accumulo e
sul sensazionalismo e che probabilmente mirava anche al
condizionamento dell’opinione pubblica. fuori_vista ha affrontato
il problema con un progetto totalmente opposto, rifacendosi
all’esperienza di episodi della storia della fotografia. Da un
124
lato il riferimento è a Paolo Monti e al lavoro realizzato per la
documentazione dei beni architettonici e ambientali dell’Emilia
Romagna; dall’altro, lo stile è quello definito “documentario”,
teorizzato già negli anni Trenta da Walker Evans e praticato da
tutto il gruppo di fotografi che aveva lavorato per il progetto di
documentazione delle zone rurali degli Stati Uniti per la Farm
Security Administration.
L’esperienza di Sismicity ha i numeri per entrare nella storia
della fotografia recente. Sono immagini che emozionano e allo
stesso tempo sono la testimonianza di un momento storico e un
punto di partenza. L’elemento che trasforma questa esperienza
fotografica in qualche cosa di ancora più importante risiede nel
progetto di comunicazione che fuori_vista ha saputo costruire
attorno al proprio lavoro, ovvero nell’idea di lavorare insieme e
in modo sistematico e anonimo, di raccogliere e verificare i dati,
di organizzare dei laboratori, di indire incontri pubblici con esperti
in diverse discipline, di mettere a confronto esperienze italiane
e straniere, di coinvolgere infine le istituzioni e il pubblico in
un’operazione di rilettura e di analisi che trova nella fotografia la
capacità di essere forza motrice del progetto.
93, 94. fuori_vista, Sismicity. L’Aquila
2010
5. Milano Downtown.
“Il dibattito sulle politiche urbanistiche e sugli strumenti di governo
della città sembra spesso prescindere dai contesti materiali e la
vita concreta dei luoghi sembra uscire dal campo di osservazione.
Allo stesso modo in cui l’architettura fotografa gli edifici purificati
dalle presenze umane, quando si discute di politiche urbanistiche
il riferimento è a quantità, successioni di piani, dispositivi, reti di
attori, senza produrre connessioni con gli esiti materiali e visibili.
La politica, ma forse anche l’architettura e la pianificazione,
sembrano aver perso il gusto di un riscontro sulle cose.
I luoghi però resistono nel tempo e sono testimonianza dello stato
delle cose, di ciò che gli strumenti di governo producono, quasi
come reperti e <corpi del reato>. E’ qui che abbiamo voluto posare
lo sguardo per tornare a discutere criticamente e pragmaticamente
delle trasformazioni urbane a Milano e del futuro della città.” E’ lo
stesso Hanninen che racconta così il suo lavoro [Bricocoli-Savoldi,
2010]. Soltanto sedici fotografie di piccolo formato – insieme con
queste brevi parole - gli bastano per descrivere sinteticamente
la situazione di cinque diverse aree milanesi. Il suo lavoro è
laconico, anti-retorico, preciso, e il fatto che rifugga in modo così
palese dall’abbondanza ne fa un lavoro esemplare, perfettamente
idoneo a dare il senso di quella quiete visiva dell’ambiente urbano
che copre come una coltre contraddizioni anche gravi.
C’è senza dubbio una relazione tra l’ambiente squallido degli
insediamenti periferici e la disattenzione che viene riservata al
progetto che li concerne. Percorrendoli, ci si rende conto che
la qualità urbanistica e architettonica è talmente bassa da non
riuscire ad attrarre l’attenzione del visitatore. Basterebbe solo
questo a spiegare la necessità della fotografia. Bisogna fotografare
i quartieri periferici per permettere che esista una loro relazione
con l’esterno, per evitare che restino isolati e chiusi in se stessi,
come già lo sono per evidenti limiti di tipo funzionale: strade e
accessi difficoltosi, mancanza di spazi pubblici attrattivi, senso di
insicurezza sociale che li pervade e che costituisce a volte una
125
cattiva fama in tutta la città.
Attenzione e visibilità, sono i presupposti per ogni cambiamento
positivo. C’è anche da tener conto di due ostacoli sempre
in agguato: la riluttanza a guardare e l’incapacità di vedere,
sentimenti – o incapacità di sentire – che condizionano in modo
pesante la percezione della città.
Il lavoro di Hanninen su Milano riguarda casi diversi. Santa Giulia
è una operazione immobiliare che va considerata come un caso
esemplare delle trasformazioni urbane milanesi a cavallo tra XX
e XXI secolo, un grande progetto con esiti fallimentari nonostante
le lusinghiere attenzioni avute nella fase di lancio. Gratosoglio
e Pompeo Leoni sono due quartieri diversi, l’uno è un progetto
pubblico degli anni ‘60, l’altro un programma negoziato tra gli
attori pubblici e privati di trent’anni dopo. Prendere atto dei limiti
di entrambe queste realizzazioni può voler dire indicare. nuove
sia per migliorare il migliorabile là dove si è intervenuti, sia per
indicare alternative utili per le nuove esperienze. Sarpi e via
Padova sono invece ambienti cittadini densi, che sono stati al
centro delle cronache per motivi di ordine pubblico. In questi casi,
oltre che obiettivi di miglioramento del progetto di riqualificazione
relativo all’insediamento, la riflessione sul campo evidenzia la
necessità di verificare le politiche per la città nel loro insieme.
Dunque all’esame sono sia le grandi trasformazioni urbane, che
i quartieri da riqualificare, che ambienti insediativi in transizione
e crisi, e in tutti i casi lo sguardo fotografico ha come obiettivo la
città, non l’architettura.
L’urbanista riflette su ciò che vede e fa le sue considerazioni:
se è evidente la crisi della polis – che non è limitata ai confini
dell’urbs, ma, come scrisse Hannah Arendt, “la polis sarà dove
voi andrete” - intesa come comunità insediata che esprime
identità e coesione; anche la civitas – federazione di soggetti che
si propone di sperimentare forme di convivenza – è in difficoltà,
anche se esprime senz’altro una vitalità e una attualità maggiori.
C’è dunque una crisi di urbanità. Proprio quando la popolazione
mondiale è diventata da qualche anno soprattutto urbana, come
ci hanno ricordato mille statistiche. E gli spazi che costruiscono la
città non possono essere più quelli del passato, salvo creare dei
simulacri come sono le città belle invocate da certi autori (da Leon
Krier ai più recenti revivalisti delle città-giardino e di una forma
colta di neomedievalismo).
Gli strumenti di lavoro non possono certo essere ancora gli ambiti
omogenei o le zone urbane della teoria urbanistica di fine anni ‘60.
Ragionando in questo modo sarebbe ancora possibile sognare
modelli utopici, come quello di cui parlava Colin Rowe, una città
ideale che unisce i vantaggi di un centro storico plurifunzionale
e ricco di heritage come quello europeo, con quartieri suburbani
ben disegnati e spaziosi come quelli dell’american way of life.
Un’utopia mai realizzata, e tanto meno realizzabile oggi, in
un’epoca di crisi di risorse, dove mediamente la percentuale di chi
può scegliere l’abitazione in una qualsiasi città è di quel decimo
dei residenti che possiede il 40% dei redditi complessivi. Oggi
forse più che di utopie è opportuno ragionare di rischi concreti,
come quello di avere una città con un centro simile alle downtown
americane e una periferia come quelle metropolitane europee,
qualcosa di simile alla città infinita di Koolhaas.
126
95. Angela Rosati, Ex Manifattura
Tabacchi, Bologna, 2011
Una politica riformista “modesta ma responsabile” è la ricetta
suggerita da questo tipo di approcci visivi, orientati alla ricerca
di una via percorribile per il miglioramento: qualcosa di simile
ai concetti di understatement e di sobrietà che la fotografia
urbanistica di questi anni dovrebbe contribuire a diffondere, per
aiutare un ragionevole progetto di recupero urbano.
6. Il ritorno degli abitanti.
William Guerrieri è da anni il coordinatore delle diverse attività
portate avanti da Linea di Confine di Rubiera. Oltre a questo
ruolo molto importante di curatore e promotore culturale, svolge
anche l’attività di fotografo. Instant Report è un suo progetto di
documentazione della partecipazione pubblica che si è sviluppata
intorno ad alcune questioni urbane di grande rilievo per le due
città di Modena e Bologna.
Il lavoro di Guerrieri sulle Fonderie riunite di Modena si è svolto
tra il 2007 e il 2008. Il complesso di edifici dismessi è una delle più
significative testimonianze industriali della città. L’area fu teatro
di un tragico scontro tra operai in sciopero e polizia, che culminò
nell’uccisione di sei operai il 9 gennaio 1950. Quando il Comune,
circa dieci anni fa, considerò la possibilità di inserire anche le ex
Fonderie nel programma di riqualificazione urbana comprendente
l’intero quadrante nord della città, nacque un intenso dibattito su
come riutilizzare gli edifici. Fu organizzata una discussione con
la comunità per definire un piano condiviso per lo sviluppo del
sito, con il contributo dei cittadini, di associazioni e delle istituzioni
coinvolte. Le ex Fonderie furono oggetto nel 2001 di una
campagna fotografica promossa dalla Regione Emilia-Romagna
e condotta da Gabriele Basilico, che documentò con oltre 700
immagini le aree in corso di trasformazione in cinquanta comuni
della Regione [Basilico, 2001].
Il lavoro su via del Pratello a Bologna è del 2008-2009. Nella strada
del centro storico bolognese, che è una sorta di piccolo quartiere
dalle origini popolari, l’apertura di varie attività commerciali
– promossa tra l’altro da finanziamenti pubblici – ha visto la
proliferazione di bar, ristornati, osterie, pub, birrerie, taverne,
spesso con spazi attrezzati all’esterno (i cosiddetti dehors).
L’apertura notturna fino ad ore molto avanzate ha causato seri
problemi per i residenti, che hanno organizzato comitati per la
difesa della quiete pubblica. Già da alcuni anni l’ambiente urbano
si è caratterizzato per un progressivo degrado. Camminando per
la via del Pratello si è subito sorpresi dalla quantità di scritte sui
muri, graffiti, manifesti, avvisi di varia natura, al di fuori degli spazi
predisposti. L’amministrazione comunale ha aperto una serie di
consultazioni con il quartiere, la popolazione, le associazioni dei
commercianti e le molte associazioni culturali operanti nella zona.
Le prime riunioni avvennero nel 2007, vennero sospese a fine
2008 in seguito ad alcuni provvedimenti del Sindaco sugli orari
di chiusura degli esercizi pubblici che provocarono la reazione
dei gestori, con vasta eco sulla stampa. Come mantenere vivo
lo spirito del Pratello e salvaguardare il sonno degli abitanti?
La domanda è stata posta nel corso di pratiche di Open Space
Technology, una procedura di ascolto partecipativo organizzata
per gestire i conflitti e trovare soluzioni il più possibile condivise.
Nello stesso periodo 2008-2009 Guerrieri documenta la formazione
96. Giovanni Hanninen, Quartiere Librino
a Catania, 2011
127
97. William Guerrieri, Fonderie riunite
di Modena, 2007-08, dalla serie Instant
Report
di una attenzione collettiva verso le trasformazioni urbanistiche in
corso nel quartiere Navile, sempre a Bologna. Vasti complessi
industriali (Casaralta, Sasib, Cevolani, ex Manifattura Tabacchi),
aree militari (la caserma Sani) vengono coinvolte in un progetto
che prevede la realizzazione di uffici, negozi, abitazioni, servizi
culturali e ricreativi. Dovranno essere costruiti parcheggi, strade,
piste pedonali e ciclabili, riutilizzando per questo scopo anche
il percorso delle vecchie linee del trame della ferrovia. L’area
è da tempo quella che raccoglie le iniziative più importanti per
lo sviluppo e la riqualificazione della città: nel quartiere è stato
realizzato il nuovo complesso di uffici comunali, e nell’ex mercato
ortofrutticolo è in corso di realizzazione un grande quartiere
residenziale. Anche in questo caso le fotografie di Guerrieri
danno testimonianza di sopralluoghi e incontri che sono stati
promossi dal Comune. In un certo senso, forse con una forma di
estrema ma benefica tautologia, si può dire che queste fotografie
corrispondono al massimo grado allo sforzo di rappresentare il
futuro, di rappresentare il progetto, visto che raffigurano momenti
in cui esso si forma, in cui la discussione pubblica produce
elementi di riflessione che dovranno poi diventare elementi del
progetto di trasformazione e riuso. Tra questi spunti per il progetto
stanno ad esempio le decisioni sul grado di cancellazione fisica
delle preesistente, che spesso è ciò che sta maggiormente a
cuore agli abitanti, residenti, ex lavoratori che partecipano alla
discussione. Ovviamente un altro contenuto dei confronti pubblici
è la destinazione delle aree, la maggiore o minore dotazione
di servizi – verde, parcheggi, piste ciclopedonali, servizi per la
cultura, ecc; e la quantità di edificazione, la sua densità, perfino
le sue forme.
Da questo punto di vista, così come la fotografia autoriale
classica di paesaggio, anche la documentazione dei processi
di formazione del consenso nelle grandi trasformazione urbane
può essere considerata un survey, una verifica, un contributo
sostanziale al processo di progettazione/pianificazione, e dunque
alla formazione del paesaggio urbano del futuro prossimo.
128
7. Hinterland bolognese.
Nel 2009 la Provincia di Bologna ha dato incarico al fotografo
gallese – ma da tempo residente in Italia - Rhodri Jones di
realizzare un’indagine sul territorio di alcuni comuni della bassa
bolognese. Jones abita già da alcuni anni in un comune della
stessa zona, e tuttavia la sua origine geografica gli impedisce
di porsi nei confronti di quei luoghi con sentimenti di nostalgia.
Anche la sua carriera professionale, spesa in larga misura tra
l’Asia e il Sudamerica come fotoreporter, lo spinge a uno sguardo
oggettivo e al tempo stesso curioso, anche se non nostalgico.
Succede di frequente a questo tipo di autori: stranieri, magari dei
paesi del terzo mondo, già fotoreporter e successivamente decisi
a entrare nel novero degli autori-artisti, dedicandosi dunque ai
tipi di fotografia più autoriali, come indubbiamente è il caso della
fotografia di paesaggio in questi ultimi dieci-quindici anni. Tra i
molti altri esempi che si possono fare viene il mente il caso del
sudafricano Guy Tillim, già attivo con Reuters e France Presse tra
gli anni ‘80 e i ‘90, e nel 2009 auotre di una mostra, Roma, Città di
mezzo, capace di offrire una interpretazione non troppo turistica
della “città eterna” in cui sembra a volte di trovare una sensibilità
trasognata e quasi ghirriana.
Il punto di partenza di Rhodri Jones nel lavoro sull’hinterland
bolognese è basato sul confronto con le situazioni dei brownfield
sites gallesi, originati dalla chiusura delle miniere di ferro e
carbone nelle valleys. La trasformazione edilizia e sociale, in
questo caso, porta a costituire comunità con identità del tutto
nuove, senza radici né storia, in modo analogo a ciò che succede
altrove; ma si tratta di azioni pianificate con il preciso scopo di
recuperare zone degradate o dismesse, e dunque gli obiettivi
sono chiari ed evidenti, oltre che necessari. Meno immediato è
alla sua comprensione il caso bolognese, dove campagne anche
ricche ed industrializzate vengono sacrificate a una forza esterna
ed autonoma, l’espansione della città, che sembra quasi una
invasione che tutto fagocita.
Si creano delle piccole satellite towns unicamente residenziali,
prive di spazi pubblici, che sono sostituiti dai multiplex, dagli
ipermercati e dalle case bingo. E’ il paesaggio della sprawltown
[Ingersoll, 2004], sul quale è lecito interrogarsi, chiedendosi ad
esempio cosa sopravviverà negli anni, come sarà assorbito dalle
parti più nobili del territorio bolognese, se sarà in grado di generare
nostalgia come altri paesaggi hanno fatto e fanno da sempre.
E’ una riflessione apparentemente paradossale, ma in verità è un
modo anche questo per riflettere sulla qualità dei luoghi. L’opinione
comune rigetta questo tipo di insediamento definendolo brutto, ma
al tempo stesso lo chiede, ci abita, vi si adatta. La contraddizione
è evidente. Chi critica lo fa adducendo che non c’è paragone
tra questi paesaggi e quelli della tradizione rurale, ormai ridotti
in poche isole di sopravvivenza, soprattutto in montagna. Ma
confonde la verità dei fatti, ipotizzando che in un vago passato gli
abitanti costruissero consapevolmente un paesaggio bello, mentre
questo non è mai accaduto. Ognuno ha sempre costruito ciò che
serviva, casa e stalla un tempo come oggi casa e capannone,
non si è mai data un’epoca votata a realizzare un bel paesaggio,
il paesaggio è ciò che risulta dal complesso delle attività umane
orientate a fini di utilità personale e sociale, non di bellezza. Uno
98. Guy Tillim, Pincio, 2009
129
dei meriti del lavoro di Jones è esattamente questo, di suggerire
che ciò che le sue foto mostrano non avviene nonostante noi: il
paesaggio siamo noi.
Jones anche nelle sue foto del mondo in cui tutti viviamo non
smette di ricordarsi quel che è stato: un fotografo reporter di zone
calde, e non smette di ricordare di essere stato allievo di un mostro
sacro del fotoreportage come Philip Jones Griffith, poi presidente
dell’agenzia Magnum, gallese anche lui, che divideva il lavoro dei
fotografi tra quelli che producevano foto che raccontano quello
che ci vorrebbero mille parole e foto che hanno bisogno di mille
parole per essere spiegate. Il pragmatismo un po’ guascone,
sfrontato che è proprio della persona si legge anche nei prodotti
della sua seconda vita stanziale e riflessiva, come sottolineatura
della grossolanità, della pesantezza di questo mondo: così come
gli era possibile con una certa trasparenza di sguardo registrare
le pesanti contraddizioni e le violenze dei terzi mondi, oggi con
pesante nitidezza, larghezza, coloritura, diagonalità fotografa
l’evanescenza del paesaggio liquido.
Il lavoro sull’hinterland bolognese si interroga sulle relazioni
tra il paesaggio e l’identità degli abitanti. E’ scontanto prendere
coscienza del fatto che le trasformazioni paesaggistiche e
ambientali si accompagnano a quelle identitarie. Il fatto è che
anche se accettiamo che l’identità di ognuno di noi sia in continua
trasformazione, non ci piace registrare i cambiamenti dell’ambiente
in cui viviamo. Vorremmo che l’ambiente fosse stabile. Possiamo
sopportare l’idea che il nostro paesaggio interiore cambi secondo
logiche sue, di fatto indipendenti dalle nostre forze di contrasto
o interazione, ma ci irrita moltissimo trovarci in posti che non
riconosciamo. Vogliamo che almeno il paesaggio esteriore,
quello che scegliamo per ambientarci, per adattarci al mondo
con il minor sforzo possibile, sia accogliente, risponda al nostro
bisogno di sentirci stabili, di sentire la continuità, i legami col
passato. Superiamo lo shock della nostra identità interiore che si
sfarina, consolandoci con la nostalgia del passato e sforzandoci
di perpetuarne le forme.
Queste fotografie della bassa bolognese ci mostrano luoghi
irriconoscibili rispetto a come erano non molti anni fa. Jones
lavora sul concetto di nostalgia, scompigliando le cose con ironica
intelligenza. Non avendo conosciuto questi luoghi quando erano
molto diversi, non prova nostalgia per la loro trasformazione, e si
chiede se anche fra dieci o vent’anni si potrà provarla pensando
a come erano, cioè come sono oggi. Questo possibile sentimento
futuro ha il suo germe in queste architetture dechirichiane, in queste
metafore di supermercati, in questi eufemismi di fabbriche? Fra
trent’anni, quando la sua chiesa sarà sostituita da un’altra, nuova
e più moderna, il vecchio - ora giovane - abitante si opporrà, lotterà
invano e piangerà sulla sua scomparsa, evocandone le forme, le
opportune geometrie, la sapienza costruttiva, il suo radicamento
nel territorio?
Queste fotografie sembrano suggerirci che il paesaggio esiste a
prescindere dalla nostra memoria e perfino da noi che vogliamo
farne il “nostro” paesaggio. Che esso si forma non certo per noi,
ma nemmeno contro di noi: banalmente, si forma nonostante
noi. Nessuna comunità agisce per costruire un paesaggio, ma
per costruire un’economia, una collettività, una convivenza. Il
130
99. Rhodri Jones, Cart and Skyscrapers,
Shanghai
paesaggio è semplicemente ciò che ne consegue. E’ sempre
stato così, anche quando i nostri antenati avevano il controllo delle
forme del costruito, stabili da secoli, e delle forme delle campagne,
anch’esse immutabili. Quando tutto era stabile e riconoscibile,
però, il paesaggio non esisteva: esisteva il territorio, lo spazio
da usare, ma il paesaggio non veniva percepito. Quando poi
sono scomparsi i contadini e i muratori, i boscaioli e i cacciatori,
quando è comparso l’uomo massificato e uguale, allora è arrivato
il paesaggio, con il suo ingrediente principale, la nostalgia.
Queste cose, i luoghi, le costruzioni che vediamo nelle fotografie di
Jones, diventeranno i beni culturali del futuro? Sarà emozionante
arrivarci e riconoscerle, commovente allontanarsi e lasciarle?
Sarà vietato demolirle o trasformarle? E’ possibile che mescolando
cose un po’ banali, scontate, prosaiche, o addirittura brutte,
sguaiate, piccolo borghesi e un po’ trash, con questi ingredienti
possa in tempi lenti realizzarsi una ricetta gustosa? Perché poi
lenti? Se l’accelerazione tipica della società odierna continuerà
anche solo con progressione aritmetica, potrebbero bastare una
decina d’anni perché noi ci innamoriamo di questo ambiente di
ibridi innaturali, dove case rurali ristrutturati troneggiano nel vuoto
dei campi dell’agricoltura intensiva e meccanizzata, privi ormai
di aie, stalle, pollai, porcili, pozzi, recinzioni, fossi, cavedagne.
Saranno dunque beni culturali le tracce umane che Jones cerca e
raffigura con le sue fotografie, o le nuove composizioni di elementi
antichi - torri, portici, orologi in facciata, tetti spioventi e mattoncini
di cotto - con elementi nuovi come portoncini di garage, piscine,
condizionatori, palestre, antenne paraboliche, grandi vetrate
panoramiche?
Nelle foto che comparivano cinquant’anni fa su Tuttitalia o sulle
pubblicazioni del Touring c’erano i vecchi contadini fotografati
da Enrico Pasquali e Antonio Migliori, e qualche florida massaia
di Antonio Masotti. Foto in bianco e nero, abiti neri e grigi, lana
grossa, feltro, cuoio, tavolacci di legno in stanze di mattoni
rosicchiati dal tempo o di intonaci scrostati. Nebbie fotogeniche
creavano ambienti misteriosi, ricchi di storia dei Comuni e delle
Signorie locali. C’era una miseria appena riscattata che si sente
ancora e si vede ancora, c’era una solidarietà, una collettività,
una comunità. Dietro a queste immagini – anzi: dentro – c’è
ovviamente Bacchelli, che verso nord-ovest diventa Guareschi
e a sud-est Tombari; ci sono galline che becchettano, fiumi che
scorrono e boschi che stormiscono, c’è sudore, odore di stalla,
biciclette, comunisti e democristiani, il progresso che sta per
arrivare. I beni culturali sono castelli e rocche, chiese e pievi e
oratori, centri storici con i portici e le vecchie osterie sotto i portici,
case rurali con i fienili settecenteschi, il pozzo nell’aia, i filari con
le viti maritate.
Jones non ci mostra praticamente niente di tutto questo, perché
di questo non esiste quasi più niente. Oggi non ci sono più la
campagna e la città, c’è solo la città che ha urbanizzato la
campagna, e quel che resta della campagna è diventata un’altra
cosa da quello che era prima, una specie di lago di terra o d’erba.
Certi luoghi sembrano finti: tutti nuovi, con i colori omogenei
e i margini netti come gli oggetti di plastica. Le cose sono ben
separate; la ghiaia è ghiaia, il prato è prato, il muro è tinteggiato di
fresco e così pure la persiana. La nuova chiesa ha gli spigoli non
100, 101. Rhodri Jones, Hinterland
bolognese, 2010
131
ancora consumati dal tempo, e vien da credere che consumati
non li avrà mai. Non perché il materiale è resistente ma perché
nessuno mai riparerà nulla di ciò che si rompe, nessuno sa farlo.
Non esistono artigiani (men che meno contadini e nemmeno, è
ovvio, operai, non parliamo di pescatori, cacciatori, tagliaboschi)
ma autotrasportatori che recapitano dai megastores oggetti nuovi
che sostituiscono i vecchi – lavatrici e lavastoviglie, televisioni e
condizionatori. Ci sono imprese che costruiscono nuove chiese o
nuove case al posto delle vecchie.
Viene da chiedersi se i beni culturali che domani le schiere di
turisti andranno a visitare in queste pianure sono le palestre, i
capannoni, le case a schiera che oggi guardiamo con sufficienza.
Se tra cinquant’anni, i funzionari di qualche istituto per i beni
culturali faranno il censimento dei garage o delle rotonde stradali,
e gli architetti delle soprintendenze impediranno severamente di
modificare il tracciato di qualsiasi lottizzazione, in quanto tipico
esempio della società dell’inizio del terzo millennio, di cui si sentirà
certamente la mancanza, perduta sotto le numerose, successive
e velocissime stratificazioni. Se ci saranno ancora, se saranno
sopravvissuti, andranno vincolati anche i secolari ulivi che furono
qui trasportati all’inizio del terzo millennio, già vecchi e gloriosi, in
queste terre di pianura, provenienti dalle originarie patrie toscane,
umbre o marchigiane. Aeroporti e piscine, stazioni del servizio
ferroviario metropolitano e mega-cartelloni pubblicitari saranno
testimoni malinconici ma orgogliosi di un passato un po’ mitico,
quando la gente di qua iniziava il proprio percorso di integrazione
razziale, di creazione della società multietnica. Una società di
massa ormai matura, dove ogni uguale alla fine della sua giornata
lavorativa si toglie l’uniforme di lavoro – camice o tuta che sia –
e si mette quella del tempo libero, corre a correre o a nuotare
o a volare, poi raduna la famiglia in pizzeria o nella multisala
cinematografica più vicina.
132
102. Alessandra Chemollo, Reggio
Emilia, 2005, dalla serie Quale e Quanta
10. CONCLUSIONI
Molti discorsi sul paesaggio – urbano e rurale – sono oggi gravati
da una forma di idealismo nostalgico, secondo cui i relitti delle forme
della costruzione ed organizzazione del territorio che ci provengono
dal passato sono l’espressione della capacità dei nostri antenati di
costruire un bel paesaggio. In verità, se prendiamo in mano dei classici
come ad esempio la Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio
Sereni [Sereni, 1961], non troviamo affatto enunciazioni questo genere:
nessun soggetto in nessuna epoca ha mai operato sul territorio – ha
costruito, ha coltivato, si è insediato – con l’intenzione di costruire
un bel paesaggio, ma semplicemente con l’intenzione di sfruttare il
territorio per i suoi fini: abitare, coltivare, produrre, difendersi, spostarsi,
ecc. Nei secoli sono state attivate procedure per controllare l’entità e
la qualità delle trasformazioni, più o meno efficaci – anche in ragione
della forza con cui le trasformazioni di imponevano, forza economica,
militare, sociale. Nell’Ottocento è stata inventata l’urbanistica, proprio
per porre limiti e condizioni all’inurbamento indotto dalla rivoluzione
industriale, e per consentire alle classi subalterne condizioni di vita –
alloggi, soprattutto – idonee o almeno decorose. Ma questi sviluppi non
cambiano la sostanza: l’uomo ha sempre trasformato il territorio per
i suoi bisogni, mai per realizzare qualcosa di bello. Si può convenire
che i metodi costruttivi, rimasti per secoli sostanzialmente simili e
riconoscibili, hanno consentito fino alla fine dell’Ottocento di mantenere
una certa continuità di forme, soprattutto nel territorio rurale, e in minor
misura nella città. Ma queste tecniche tradizionali non erano scelte
consapevolmente, bensì erano a disposizione; non erano preferite
ad altre più invasive, erano le uniche che era possibile utilizzare.
L’invenzione di materiali da costruzione come il ferro e il cemento
armato, la crescente industrializzazione edilizia, la necessità di produrre
a minor costo per un maggior numero di persone, è questo che ha reso
uniformi i paesaggi e ne ha abbassato la qualità.
Il paesaggio non è una forma estranea e indipendente dalla sensibilità
dell’osservatore. Esistono certamente i paesaggi in un senso oggettivo
– conglomerati di natura, storia, cultura che hanno valori documentabili,
evidenti, percepiti dalla collettività. Ma non c’è dubbio che il paesaggio
è più intensamente percepito quando diviene una forma di vita
spirituale (come si esprimeva Thomas Mann, riferendosi alla sua
103. Tim Davis, dalla serie The New
Antiquity, 2009
104. Claudio Sabatino, dalla serie
Indagini sul Po, 2008
133
amata Lubecca). In questa definizione c’è l’intreccio di grande storia e
di storia familiare o addirittura individuale; e soprattutto, c’è la cultura
dell’individuo che guarda, ricorda, rievoca, fa del paesaggio una scena
di vicende affettivamente coinvolgenti, e strappa il paesaggio dalla sua
pura versione pietrificata, o vegetale, o atmosferica.
Questi argomenti hanno a che fare con la fotografia in modo preciso e
continuo. Si potrebbe quasi dire che la fotografia è un potente, formidabile
strumento di smascheramento di luoghi comuni paesaggistici, e
al contrario, di penetrazione del paesaggio come forma spirituale.
Il principio di realtà - la sua percezione, la sua accettazione, la sua
affermazione sull’ideologia – è stato indotto e facilitato dalla fotografia
di ricerca e documentazione, quella americana degli anni Trenta e
francese della DATAR. L’effetto di secchezza e semplicità che può avere
una fotografia priva di abbellimenti, di inquadrature selettive, di punti di
vista pittoreschi, di accorgimenti fotogenici, può essere paragonato alla
sconcertante limpidezza con cui Brahms inizia la sua quarta sinfonia, in
polemica con la lentezza costruita delle sinfonie di Behetoven. Senza
preamboli, senza sotterfugi: l’accettazione del paesaggio così com’è,
a cui certa fotografia documentaristica o concettuale ci induce, è uno
strumento molto utile per contrastare descrizioni volte all’indietro, al
passato, orientate a riprodurre il paesaggio storico-tradizionale. Al
contrario, è possibile trarre spunti dalla fotografia di paesaggio urbano
più compromessa e brutale, per costruire consapevolmente i processi
di rigenerazione e riciclaggio.
Tenendo presenti questi concetti, ci siamo chiesti nelle pagine
precedenti qual è il compito oggi della fotografia, di quella fotografia
documentaria o sociale che si preoccupa di informare. Di più,
quale sarebbe la specificità della fotografia di fronte allo strapotere
della moda, della tv, del cinema, del giornalismo. Uno spazio da
occupare, dopo decenni di un concettualismo che ha fornito molte
interpretazioni ma che forse non ha dato altrettante risposte,
sembra essere quello dell’informazione – e addirittura della
contro-informazione - necessaria nel periodo della partecipazione;
di indirizzarsi verso “progetti fotografici complessi destinati a
migliorare la partecipazione con un’adeguata comunicazione dei
processi decisionali che interessano il territorio” [Sismicity, 2010].
Sembrano concetti antichi, e in effetti lo sono, provengono dalla
105. Giovanni Hanninen, Milano, 2011
134
stagione degli anni Settanta, ed è un recupero possibile di ciò
che di quegli anni – non è molto, forse – non è stato bruciato nel
grande incendio degli anni di piombo.
Se guardiamo a quegli anni, vediamo un primo periodo in cui la
fotografia di paesaggio si è occupata esclusivamente dell’antico,
dei centri storici, escludendo il moderno: Paolo Monti non coglieva
il moderno perché non voleva nemmeno provarci. Col passare
degli anni, una generazione di nuovi artisti (Ghirri, nato nel 1943,
Basilico nel 1944, Guidi nel 1941) comincia ad occuparsi quasi
esclusivamente del moderno, per reazione. Oggi il nuovo punto
di vista dovrebbe essere di tornare verso l’antico partendo però
dal moderno, cioè inglobare la riflessione sull’antico nella nostra
consapevolezza della irrinunciabilità del moderno. In questo modo
dovrebbe risultare possibile dare una versione più mirata e sicura
del paesaggio italiano contemporaneo, che non rifiuti la storia ma
non ne sia schiacciato, che non rifiuti la attualità, ma non finga di
essere altrove, dove non è: in Asia, in Africa, in America, come
succede a certa fotografia convenzionalmente ripetitiva di modelli
internazionali.
Questo concetto ritorna negli studi più recenti sulla fotografia
documentaria: “la fotografia deve essere una fonte di informazioni
e sapere di tipo quasi scientifico, permettere semplicemente di
archiviare il presente per l’avvenire, o invece cercare, descrivendo
la realtà del mondo sociale, di trasformare le opinioni e le azioni
del presente? [Lugon, 2008] E’ ovviamente una domanda retorica.
La città futura annunciata dalla fotografia contemporanea è un
equilibrio instabile di contrasti etnici e culturali, dove ogni soggetto
è titolare di propri diritti, e quasi per conseguenza ogni oggetto è
degno di conservazione, e nessuno di esecrazione; il paesaggio
è tutto e anche il suo contrario, e così forse non è più nulla, è un
concetto scomparso in mille diverse interpretazioni e sensibilità, e
la fotografia di paesaggio urbano è dunque testimone dell’ultima
versione del concetto di paesaggio. Questa complessità nuova
esige probabilmente nuovi strumenti di lettura, che superino non
tanto i maestri, ma i loro epigoni, che occupano gran parte della
scena senza ereditare dai predecessori la forza interpretativa.
Le città italiane non sono paragonabili a quelle mondiali – salvo
la conurbazione milanese – e dunque è pleonastico – oltre
che fuorviante - fotografarle come New York. La necessità di
salvare il salvabile del nostro patrimonio culturale e identitario
non è un obiettivo superato, e bisogna vedere quale fotografia
può servire a questo fine senza essere la ripetizione di quella
ormai standardizzata sul modello del Touring Club Italiano, troppo
ingentilita e destinata a un pubblico di turisti. L’urbanistica diventa
partecipata, e dunque bisogna che la fotografia faccia anche da
occhio per la popolazione comune, che chiede sguardi più svelti e
pragmatici, vuole una fotografia non di denuncia ma nemmeno di
acquiescenza, vuole una foto di pronta comprensione che indichi
la trasformabilità dei luoghi, ne descriva gli utilizzatori.
Tra l’eccesso di enfasi degli autori/artisti e ormai inevitabile
ripetitività del concettualismo-minimalismo, quale può essere la
terza via? Una via più partecipata e precisa, ma non chiusa all’arte,
per poter comunque prendere dall’arte la sua capacità di suscitare
emozioni; che si allontani dalla logica del mercato dell’arte per
raggiungere un pubblico più vasto, e affronti la necessità di
135
misurarsi con l’understatement necessario per poter affrontare
la crisi economica e la contingenza epocale delle questioni
ambientali. Che accetti il tema della sobrietà, già così diffuso nella
letteratura urbanistica, e non solo. Alcuni temi che sono emersi in
questi anni, come quello delle rovine del contemporaneo o delle
shrinking cities - le città in post-sviluppo, in decrescita, in crisi
economica e demografica - attengono quasi per definizione alla
sobrietà, perché trattano del meno, del non più, e si interrogano
su quale sarà il futuro per vaste aree del pianeta.
Da qualche tempo si ascoltano opinioni che invocano un cambio
di passo nella ricerca fotografica applicata al paesaggio urbano.
In parte provengono dal settore stesso della critica fotografica,
altre volte si tratta di indicazioni che provengono dal versante
degli urbanisti e degli architetti, e diventano però un invito anche
per i fotografi.
Alcuni critici hanno parlato a volte con sufficienza, a volte con vera
irritazione dell’eccessiva proliferazione di epigoni dei nuovi topografi
americani. E’ uno stile che a distanza di quasi quarant’anni dagli
episodi fondativi, è transitato da noi in un numero imprecisato di
repliche, perdendo sempre più incisività e ovviamente originalità.
Ci sarebbe stata una “sorta di confuso americanismo” [Mormorio,
2000] come causa dell’omologazione in cui è caduta una schiera
di fotografi affascinati dai New topographics, un “concettualismo
senza lucidità” da cui si sono salvati, a parte Giacomelli e lo
stesso Ghirri, in pochi: tra questi, Francesco Radino, Mimmo
Jodice, Giovanni Chiaramonte, fotografi che hanno saputo far
convivere il senso della modernità con quello della tradizione. C’è
il senso di una necessità nuova, la ricerca di una via italiana al
paesaggio urbano, capace di registrare sia le costanti del mondo
globale che le peculiarità locali, con cui è giusto e sensato fare i
conti. Soprattutto quando si tratta di un valore anche economico
di non poco conto e di non poca importanza per la ripresa del
paese, come ad esempio lo stato dei nostri beni culturali e la
necessità di trovare una equilibrata politica di conservazione.
Basata su decenni di verifiche, orientata a un sapiente equilibrio
tra tradizione e contemporaneità.
Le nuove frontiere dell’urbanistica del terzo millennio - la
partecipazione, le mappature emotive, la questione ecologica
nelle sue varie declinazioni, il rischio di scomparsa del welfare
– implicano una ripresa delle ragioni etiche del progetto, una
necessaria mediazione rispetto alle sue dimensioni, per renderlo
fattibile e affrontabile. Ridimensionamento da un lato e urgenza
sociale dall’altro sono tensioni uguali e contrarie da cui possono
emergere conflitti, e l’equilibrio ragionato della rappresentazione
dei fattori e degli attori della scena urbana costituisce una sfida
eccitante per i giovani autori, già evidente e percepibile nei loro
lavori.
Il cambio di passo che oggi è necessario sta soprattutto nello
smettere di constatare (constatare la crescita, l’immagine della
contemporaneità, la presenza dei nuovi abitanti e la relazione con
le identità locali), e tornare a progettare. Proprio nel momento
in cui la fotografia diventa progetto in un modo più esteticorappresentativo che davvero progettuale (abbondano i rendering
su base fotografica, non più la fotografia di ricerca), si pone davvero
la necessità di un progetto. Il rilievo dell’esistente è sempre stato
136
necessario, e deve tornare ad esserlo con una fotografia di nuovo
capace di mettersi docilmente al servizio di concrete esigenze
di misurazione, spiegazione, mediazione, usando un linguaggio
accessibile, uscendo dalle secche del concettualismo più radicale.
Superare la continua contraddizione tra conservazione
e trasformazione è un problema concreto del progetto
contemporaneo che la fotografia può facilitare in più modi. La
fotografia è adatta a questo, perché può affiancare le cose, le
affianca di fatto. L’affiancamento è la scintilla che consente la
vicinanza tra le due diversità e la loro fusione, il loro equilibrio.
L’equilibrio tra conservazione e trasformazione è l’unica via di
salvezza tra lo storicismo che impedisce la contemporaneità e il
modernismo arrogante che strappa le radici.
E dunque: equilibrio tra locale e globale. Tornare al piccolo
e poco costoso. Partecipare le scelte. Fondare il progetto
sull’ecologia. Tornare alla politica e alla rappresentazione sociale,
anche attraverso la fotografia che mostra (non che denuncia,
semplicemente che mostra certi temi, e li sottolinea, li rende
evidenti). Ridare una immagine vera e autonoma, non frutto di
copiatura, del paesaggio urbano italiano. La fotografia progettuale
influenza e viene influenzata da questi temi. Interviene nella
loro formulazione, li definisce, li trasforma aggiungendo punti
di vista e conoscenza visiva (contro i piani e i progetti ciechi,
privi di immagine). E inoltre li diffonde, e diffondendoli partecipa
al dibattito, ne viene influenzata. Subisce (giustamente) le loro
urgenze, l’animosità con cui vengono discussi e vissuti. E dunque
può – e deve – credere ancora in se stessa e nel proprio compito.
137
106. Riccardo Vlahov, dalla serie Ferrovie dell’Emilia - Romagna, 2011
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16, 19, 20, 22, 23, 32, 33, 34, 35, 40, 41, 42, 44, 45, 47, 67, 77, 86, 87, 88, 98, 103 da web; 3 Strand in
bibliografia; 5, 21, 76 Archivio Guido Guidi, Cesena; 11, 30 Kranzfelder in bibliografia; 13 Lugon in bibliografia;
15, 68, 70, 73 Mission in bibliografia; 17 Archivio Alinari, Firenze; 18, Instant city in bibliografia; 4, 25, 26,
60, 62, 64, 66 Fototeca Panizzi, Reggio Emilia; 28, 53, 65 CSAC Università di Parma; 29 Ottani Cavina in
bibliografia; 36, 37, 38 Cullen in bibliografia; 43 Mulas in bibliografia; 46 L’architettura n.13/1956; 49 Archivio
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Michele Buda, Cesena; 89 Archivio Adrià Goula, Barcelona; 90 Archivio Pere Bascones, Barcelona; 91, 92
Archivio Andrès Flajszer, Barcelona; 93, 94 fuori_vista in bibliografia; 96, 105 Archivio Giovanni Hanninen,
Milano; 97 Archivio William Guerrieri, Rubiera; 99, 100, 101 Archivio Rhodri Jones, Bologna; 106 Archivio
Riccardo Vlahov, Bologna.
Abstract
Piero Orlandi
The experience of the town.
Urban landscape as photographic glance
Town planning and photography were both born in the Nineteenth Century, when cities, absorbing
population from the countryside, to be employed in industry, were becoming bigger and bigger. Town
planning, as a branch of learning, comes into being just for this reason, and states a set of rules
and procedures, technical knowledge and administrative powers, whose aim is that of managing the
town and its development, and also to define its shape and image. In the same years, photography
started portraying the landscape, mainly the urban one, giving of it a representation that is both an
objective description and a subjective interpretation.
As the two disciplines have coexisted for over a century and half, and because of their common
relation with the town, they both have a lot to do one with the other. The relationship, as always, is
bidirectional, and it sometimes happens that town planning asks photography for help, and that this
one gives back visual information that have influenced the planning practices. Town planning needs
to know its territory, and for that purpose photography is a necessity. Quite often, town authorities
give photographers the task of carrying out visual reports on topics and phenomena in a certain
area.
Other times it has happened that photography takes from the discussion on the town some hot
questions, and tries to analyze them its own way, using its own tools and language, even without
giving its own interpretation back to the source, but on the contrary making it accessible to anyone,
through both sectorial and general channels: books, magazines, exhibitions, tv, cinema, websites.
This way, the relational flow becomes longer, and goes through the public opinion before coming
back to the centers where the planners’ decisions are taken; the visual interpretation is strengthened
though by the agreement of a lot of people, becoming more shared, and more effective.
There is also a third way of the exchange between the two disciplines. When a photographer,
following his own researches, moved by the feeling for the new and for the change of the town,
produces a personal vision of reality and its phenomena which are perhaps still unknown to the
majority of people, but already active and bearers of the oncoming transformations in the structure
of the places.
153
In this case, the absorption of such visions is slower, as they are a true discovery. Every discovery
needs in fact to be felt and metabolized, moreover it needs to face rejections, old habits, beliefs and
traditions which are hard to defeat: then, photography leads town planning along unexplored paths.
Reality, as always, shows a mix of these cases, therefore the aim of this study is to investigate a very
short period, the years between 1970 and today.
Round about the 1970 many things changed in cities: a period of huge growth started, so that in
few decades a wide diffusion of population took place in the country side. The role of photography
changes too: the reportage is ending, while is starting conceptualism, taken from visual arts; but
above all, the common perception of reality is changing, influenced by the weak thought of postmodernity, and inclined to a more analytical observation, instead of ideological interpretations.
In these years begins a phase in which photography, more than other disciplines and sciences,
seems to be able to orient the perception of urban reality, to describe its problems and destiny, risks
and the emergencies. Photographic representation of urban landscape becomes more and more
frequent, and metropolitan growth is showed as an uncontrollable rising.
We want, particularly, to follow the history of Italian photography in the last four decades, linking it to
the most popular interpretations of the idea of towns, to the artistic trends, and to the urban theories
and policies. Urban landscape is here, under our eyes, but often we don’t know how to look at it.
Photography helped us a lot in these last years, more than other disciplines. We wonder if it has
been able to communicate something conclusive, if it has created a new perception and a new idea
of urban landscape or if, otherwise, it has adopted the common view, showing people what they
want to see.
Before the Seventies, architects and urban planners urged photographers into this kind of questions;
on the contrary, today, photography seems to ask urban planning for a better precision in documenting
its own field. So is it better to give specific tasks to photography or instead to leave it free to search
what to investigate?
We wonder if photography of urban planning exists, differently from the photography of architecture
and landscape; if it is possible to use photography as a predictive investigation on areas where the
plans of redevelopment and enhancement are carried out. Can this investigation be really more than
a simple recording of the condition of the places, or instead is it able to define their identity? The
closer concept we can state is the site-specifc one, used by public art, to define a performance or
an installation carried out with the interaction of artists, inhabitants and stakeholders. The pictures
taken for this purpose could shape a point of view useful for the planner.
By the word “plan”, we mean a wide technical range: territorial planning, urban rehabilitation, and
so on. We are not talking of traditional photography of architecture, as it depicts the shape and the
space of a single building, already planned and realized. We are in this case in the critical field, not
in the planning one. On the contrary, we are looking for a photography which comes before the
architecture, not after.
We will investigate some cases of public customers in Italy in the last four decades, and in
particular we will analyze the work of some Italian artists: Paolo Monti – who worked in the years
1968-75 photographing the most important old towns of Emilia-Romagna – Luigi Ghirri – the first
photographer who certified urban sprawl in Italy – Gabriele Basilico – perhaps the best know Italian
landscape-photographer abroad. We will talk also about some Italian followers of the American
new topographics – the authors of the celebrated exhibition in 1975 in Rochester – very related to
conceptualism.
To come to an end, we will observe – through the work of young authors in Italy and abroad such as:
Bas Princen, Montserrat Soto, Giovanni Hanninen, Rhodri Jones and others – a slow but meaningful
changing of style, leaving simple statement of facts and coming back to a stronger engagement.
Therefore, political, environmental and social engagement seems to become the new aim of today’s
urban landscape photography.
154
INDICE
Premessa
1. La città dei fotografi
Prendere nota dei luoghi, non dei fatti
Prima della fotografia, e nel frattempo
Sfiducia postmoderna
Paesaggio come senso dei luoghi
Urbanistica contro architettura
La fotografia è uno strumento, non la soluzione
2. Idee di città del Novecento
L’immagine della città contemporanea
Endell e la bellezza della metropoli
Catastrofe o fiducia
Dalla dispersione alla sparizione
Varianti del gusto e nuovi valori
3. Esperimenti e descrizioni precoci
Guardare la città
Townscape, fra fotografia e disegno
Geografi italiani
Approcci sociologici
Il pop e il primato dell’immagine
Riflessi (sbiaditi) della città
Arte e/o fotografia
4. La città degli architetti
La fotografia tra urbanistica e architettura
Bruno Zevi e l’urbatettura
Aldo Rossi e l’immagine padana
Carlo Aymonino
Quaroni e le scale
Politiche urbane pubbliche, un breve excursus
Casi di stretta relazione tra urbanistica e fotografia
5. Paolo Monti e il progetto politico del territorio
Premessa: una regione ad alto tasso fotografico
Prime avvisaglie di un’epopea
Monti, Emiliani, la nuova cultura delle città
Esportazione di un modello
Persistenza del piano
Effetti collaterali di lunga durata
6. Ghirri e la dispersione urbana
Ritratti mai visti di città padane
Elenchi infiniti e incessanti di cose intime
Una mostra memorabile
Il geometra Ghirri e alcuni architetti
7. La supercittà di Gabriele Basilico
Tra i Becher e Savinio
Come gestire il territorio con l’aiuto dei fotografi
E anche: tra Groddeck e Mulas
Si può fare urbanistica con le fotografie
8. Nuovi topografi italiani
Guido Guidi
Deserti urbani
155
9. Visioni per una nuova strategia metropolitana
Spinte esaurite e nuove sfide
Città desolate di cui siamo responsabili
Carrers e paesaggio metropolitano
Il collettivo fuori_vista e Sismicity
Milano Downtown
Il ritorno degli abitanti
Hinterland bolognese
10. Conclusioni
Bibliografia
Referenze fotografiche
Abstract
156
157