PDF (Tesi Orlandi)
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Università degli Studi di Camerino_Scuola di Architettura e Design_Ascoli Piceno Dottorato di ricerca in “Architecture, Environment and Design” Curriculum “Knowledge and Design of Urban Landscape” XXIV Ciclo Piero Orlandi L'esperienza della città. Il paesaggio urbano come sguardo fotografico Tutor: Prof. Pippo Ciorra 1 A Pippo Ciorra devo l'amichevole sostegno e la paziente indicazione della rotta. Desidero ringraziare in particolar modo Giovanna Calvenzi e Sara Marini per i loro consigli, determinanti per orientare questo lavoro. Ringrazio anche Dede Auregli, Gabriele Basilico, Paolo Barbaro, Edgarda Battaglia, Valeria Cicala, Andrea Emiliani, Francesca Fabiani, Vittorio Ferorelli, Laura Gasparini, William Guerrieri, Guido Guidi, Giovanni Hanninen, Rhodri Jones, Carles Lllop, Monica Manfrini, Sara Marini, Nino Migliori, Nicola Orlandi, Mario Piccinini, Mili Romano, Angela Rosati, Cristina Tartari, Roberta Valtorta, Riccardo Vlahov, Giovanni Zaffagnini, Andrea Zanelli e il Collegio dei docenti della Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, per le conversazioni, i suggerimenti e l'aiuto. Premessa Urbanistica e fotografia sono entrambe un prodotto del diciannovesimo secolo, quando la città, assorbendo popolazione proveniente dalle campagne e destinata all’industria, vive una fase di crescita travolgente. Per questo nasce l’urbanistica moderna, intesa come insieme di regole e di pratiche progettuali, di saperi tecnici e poteri amministrativi che si pongono l’obiettivo di governare la città e il suo sviluppo, e stabiliscono così, oltre al suo funzionamento, anche la sua forma e la sua immagine. La fotografia in quegli stessi anni inizia a costituire un insieme di sguardi rivolto al paesaggio, e in particolare a quello urbano, dandone una rappresentazione che è sia descrizione oggettiva che interpretazione soggettiva. Poiché convivono da un secolo e mezzo, e a causa della comune relazione con la città, le due discipline hanno avuto spesso a che fare. Il rapporto, come tutti i rapporti, è bidirezionale, e capita a volte che sia stata l’urbanistica a chiedere l’aiuto della fotografia, e che questa lo abbia fatto restituendole informazioni visive che hanno influenzato le pratiche di pianificazione e progettazione. L’urbanistica ha da sempre bisogno di conoscere il territorio su cui deve operare, e per questo la fotografia è essenziale. Non è infrequente il caso di incarichi assegnati a fotografi da parte di urbanisti, assessori, progettisti, per effettuare ricognizioni visive su temi o fenomeni specifici di un certo territorio. Altre volte è successo che la fotografia ha preso dal dibattito sulla città le questioni più calde e ha cercato di analizzarle con il proprio metodo, con i propri strumenti, il proprio linguaggio, anche senza porsi l’obiettivo di restituire alla fonte la propria interpretazione, ma lasciandola a disposizione di ognuno, divulgandola attraverso canali settoriali e generali: libri, riviste, mostre, pubblicità, tv, cinema, siti web. In questo modo il flusso relazionale si allunga, e passa per l’opinione pubblica prima di ritornare ai centri di esercizio delle decisioni urbanistiche, ma l’interpretazione visiva può uscirne rafforzata, perché validata dall’adesione di molti, più partecipata e dunque più autorevole ed ascoltata. C’è poi un terzo modo con cui avviene lo scambio tra le due discipline, quando un autore fotografo, spinto dalle proprie ricerche, dalla propria sensibilità per il nuovo, per il cambiamento, produce personali visioni della realtà e dei fenomeni che la attraversano, ancora ignoti ai più ma già attivi, e forieri, in tempi più o meno brevi, di modificazioni anche rilevanti dell’assetto dei luoghi. L’assorbimento di queste visioni è più lento, perché si tratta di una scoperta, e come ogni scoperta deve essere avvertita, metabolizzata, deve affrontare processi di rigetto, scontrarsi con abitudini, convinzioni antiche, tradizioni interpretative dure da sconfiggere: la fotografia prende allora 3 per mano l’urbanistica, e la conduce sui sentieri già esplorati autonomamente. La realtà, come sempre, mostra questi casi in un intrico di mescolanze tra l’uno e l’altro, di percorsi rimasti incompleti, di intenzioni non realizzate; tuttavia, lo scopo di questo studio è di cercare con la maggior chiarezza possibile quanto ricorrano i diversi casi enunciati, esaminando il periodo dagli anni 1970 ad oggi. Intorno al 1970 cambiano molte cose nelle città – inizia una fase di espansione che conduce in pochi decenni alla diffusione urbana sul territorio; cambia molto anche il ruolo della fotografia, che lascia il campo del reportage ed entra in quello più concettuale tipico delle pratiche artistiche; cambia, soprattutto, la percezione comune della realtà, influenzata dal pensiero debole postmoderno e più incline a sostituire i grandi principi, le interpretazioni ideologiche, con un’osservazione più analitica, a volte anche frammentaria, che perfino dal punto di vista linguistico ha delle innegabili attinenze con il fotogramma, inteso come riduzione e compressione del reale in una sola immagine. Comincia in quegli anni una fase – tuttora presente e attiva – in cui la fotografia, più e meglio di ogni altra pratica artistica e di ogni altro discorso teorico, sembra in grado di influenzare la percezione della realtà urbana, di descriverne problemi e destini, rischi ed urgenze. Sempre più frequenti sono le raffigurazioni fotografiche di paesaggi urbani, dove lo sviluppo metropolitano è rappresentato in tutto il suo lievitare irrefrenabile. Nei capitoli che seguono vogliamo seguire le vicende della fotografia italiana di questi ultimi quarant’anni relazionandole alle interpretazioni diffuse di città, alle pratiche artistiche, alle teorie e alle politiche urbane che nel frattempo si sviluppano. Il paesaggio urbano c’è, esiste, è sotto i nostri occhi, ma non sempre sappiamo come leggerlo. La fotografia ci ha aiutato molto in questi ultimi quarant’anni, lo ha fatto più di ogni altra disciplina. E’ stata in grado di comunicare qualcosa di definitivo, di risolutivo? Ha creato una nuova percezione, e dunque una nuova idea del paesaggio urbano, o si è limitata a leggerlo secondo gli occhi dei più e a restituirlo al mittente così come questo lo voleva vedere? Prima degli anni ‘70 sembra che siano stati gli architetti e gli urbanisti a spingere i fotografi a rispondere a questo genere di domande, mentre oggi pare che sia la fotografia a invitare l’urbanistica a riflettere su se stessa in modo più preciso e documentato, chiedendo e spesso ottenendo per sè un ruolo più collaborativo e meno subalterno che in passato. Ma è opportuno dare alla fotografia incarichi precisi, o è meglio lasciare che sia essa a raccogliere autonomamente i propri temi di indagine? Ci domandiamo se esiste - distinta dalla fotografia di architettura, e da quella di paesaggio - una fotografia di urbanistica, e cioè un modo di fare uso della fotografia come ricognizione degli ambiti urbani o extraurbani interessati da progetti di riqualificazione e di miglioramento. Ricognizione ha qui il senso di una descrizione 4 che non si limiti a registrare lo stato fisico dei luoghi, ma aspiri a definirne l’identità. Un concetto che si potrebbe prendere come riferimento molto prossimo è quello di site-specific in uso nell’arte pubblica, che definisce un progetto artistico in grado di interagire pienamente con il luogo e con le stratificazioni di senso attribuitegli dagli abitanti e dagli utilizzatori. Le immagini scattate per questi obiettivi dovrebbero dunque contribuire a fornire un punto di vista e una riflessione utile per chi deve progettare l’assetto dei luoghi. Con la parola progetto intendiamo uno spettro molto largo di significati tecnici, dalla pianificazione territoriale al progetto urbano, e perfino al progetto di architettura. Comunque sia e a qualunque scala operi, il progetto resta il requisito essenziale di questo tipo di fotografia, nel senso che è al progetto che essa tende. Per questo la fotografia di architettura “classica” non rientra in questa nostra accezione, in quanto registra le forme e lo spazio di un’opera architettonica già realizzata. Le sue pur notevoli capacità di indagine si collocano all’interno del campo critico, non di quello progettuale: il progetto – come percorso ideativo e come realizzazione concreta di un disegno – è già avvenuto, la fotografia ne certifica gli esiti. La fotografia urbanistica al contrario è fotografia per il progetto di architettura, precede l’architettura, indaga le preesistenze, siano esse fisiche, sociali, paesaggistiche. Chi come noi si chiede quanto sia concreta la possibilità di connettere la fotografia al progetto di trasformazione fisica del territorio, deve per forza di cose vedere come ha operato almeno in questi ultimi anni la committenza pubblica. Ci sono resoconti molto precisi [Valtorta, 2008], leggendo i quali cerchiamo risposta alla domanda se la committenza pubblica garantisce la qualità della ricerca fotografica, e soprattutto quanto poi ne fa uso, incanalandola verso gli uffici di piano, o nelle sale dei consigli comunali. Contribuendo insomma al progetto di miglioramento del territorio, come si definiva forse fideisticamente oltre vent’anni fa ciò che stava sia in cima che in fondo al processo di pianificazione, ciò che insomma si invocava nei presupposti e si presentava nelle conclusioni dei piani urbanistici [Secchi, 1984]. Roland Barthes sosteneva che “la veggenza del fotografo non consiste tanto nel vedere quanto nel trovarsi là”. Questa è la sua abilità, il succo della sua professione, della sua arte. Se la fotografia decreta notevole ciò che fotografa – dice ancora Barthes – allora il paesaggio urbano è diventato notevole anche perché è stato fotografato. E dunque, cosa ci comunica questa nuova materia? Perché di una nuova materia deve trattarsi, non è solo un linguaggio, uno stile o una voga, ma si fonde con i processi urbanistici e li condiziona, dopo essere transitata nella sensibilità della popolazione, orientandola. Occorre però ricordare – è sempre il semiologo francese a farlo - che nella foto certamente si vede tutto quel che c’è da vedere, ma la foto non sa dire ciò che dà a vedere [Barthes, 1980]. Bisogna interpretarla, dunque; aiutarla a parlare. Ne consegue 5 che qualsiasi cosa se ne dice, di quella foto, siamo noi che la diciamo, non la foto. Questa osservazione tende a favorire una co-operazione tra fotografo ed esperti di altre discipline, come è, nel nostro caso, l’urbanista. Ma con quali risultati? Si può documentare con certezza qualche caso in cui la fotografia ha convinto un decisore a demolire, costruire, modificare, come conseguenza dell’aver visto quella foto, come presa d’atto del suo messaggio? 6 1. LA CITTA’ DEI FOTOGRAFI 1. Prendere nota dei luoghi, non dei fatti. In una fotografia molto nota si vede una strada fiancheggiata da portici monumentali, nel cuore del centro storico di una città italiana, ed è subito evidente che si tratta di Bologna. La ripresa è fatta all’altezza dell’incrocio con una via secondaria, anch’essa porticata. L’immagine è molto contrastata, le ombre si alternano alle luci in modo netto, come in un disegno a chiaroscuro. Si capisce bene l’intento del fotografo di mostrare la qualità urbanistica e architettonica del luogo, e di sottolineare che conservarlo è un debito necessario verso la sua bellezza. Parliamo di una delle migliaia di immagini che scattò Paolo Monti nel 1969 a Bologna, come indagine visiva finalizzata alla redazione del piano di conservazione del centro storico. Guardiamo un’altra immagine. Sullo sfondo di una catena di montagne si vede in primo piano un insieme di rottami di varia natura: ferro, pietra, mattoni, plastica, legno. Il paesaggio è duro, scabroso, senza vegetazione. Qua e là sorgono muri, già qualche tetto, piccole case in costruzione. Non c’è gente, è il luogo che si impone allo sguardo, impoverito e reso sciatto dal lavoro umano. Siamo a Park City, nello Utah, nel 1978, il fotografo è l’americano Lewis Baltz. Anche in questo caso è evidentissimo quello che vuole comunicarci l’autore dello scatto: l’aggressione umana alla natura incontaminata produce rimpianto per la sua perdita, ma anche attesa per lo sviluppo ignoto di quel germe di bellezza che può scaturirne. Sono due esempi molto distanti, ma entrambi esprimono la volontà di usare la ripresa fotografica non solo come semplice registrazione della realtà, ma come riflessione sugli sviluppi futuri dei luoghi, pensando insomma al progetto da realizzare sul corpo della città. 1. Paolo Monti, Bologna, via Zamboni, 1969 7 Nel primo caso, la conservazione del patrimonio culturale e storico; nell’altro, la realizzazione di un nuovo insediamento in un’area vergine. Sono tutti e due esempi dell’attenzione progressivamente crescente che dagli anni Settanta del secolo scorso la fotografia ha portato verso il paesaggio urbano. Nonostante ciò, la capacità che può avere un fotografo di perlustrare un luogo e di porgli delle domande – come e quando si è formato, perché è diventato così – non è riconosciuta da tutti. Eppure sono molte anche le risposte che il fotografo è in grado di dare, se questo è davvero il suo obiettivo, se non vuole limitarsi a constatare, ma è mosso dalla spinta di conoscere e interpretare. Il suo compito ovviamente non è di improvvisare o di inventare cose che non sa. Sarebbe però fuori luogo che non provasse a raccontare e a mettere in evidenza ciò che sa, ciò che gli è stato raccontato, quello che del luogo ha imparato a conoscere durante il lavoro preparatorio alle riprese, che deve essere lento, stratificato e organizzato con l’aiuto di molte persone e molti saperi. Per questo lo sguardo del fotografo è penetrante, indagatore, e se c’è una disciplina che più di altre può cercare di mettere a frutto questo prezioso carattere è quella del progetto di trasformazione e miglioramento della città contemporanea. Si potrebbe pensare che il limite congenito della fotografia è di fermarsi alla constatazione della realtà, di rimanere al di qua del confine del progetto, della trasformazione, del futuro. La fotografia avrebbe un solo tempo, il presente – e ridotto a quel preciso momento – mentre le sono vietati sia il rapporto con il passato che a maggior ragione quello con il futuro. Tuttavia, se lo sguardo fotografico è perspicace e se il fotografo agisce in sintonia con altri specialisti, le cose possono in realtà cambiare. Se ad esempio l’urbanista interviene e fa uso della fotografia in modo propedeutico al progetto; e ancora di più, se l’urbanista interagisce con il fotografo nella fase di studio dei luoghi e di preparazione dello scatto, allora la fotografia può assumere un senso ulteriore, che è sia ricostruzione del passato che svelamento del futuro, indicazione di potenzialità. Un caso anche più evidente è quando la fotografia mostra i cantieri, cioè i luoghi in trasformazione. Allora fotografa il progetto, appunto. Ed è possibile allora rendersi conto di come le metropoli potrebbero diventare, perché la foto avviene nel momento in cui la trasformazione sta producendosi. 2. Lewis Baltz, dalla serie Park City, 1978-79 8 Cesare Zavattini, commentando il lavoro che il fotografo americano Paul Strand eseguì a Luzzara nei primi anni Cinquanta, diceva che il suo occhio era in grado di prendere le due dimensioni, l’essere e il farsi. L’idea del farsi ci sembra coincidere con il percorso che si sviluppa attraverso il progetto, qualunque progetto dei luoghi. E dunque sarebbe, questa, un’ammissione implicita che un fotografo può avventurarsi a suggerire un “dopo”, a indicarlo nella sua fotografia. Secondo Anthony Vidler, il critico americano autore di un celebre libro sul perturbante in architettura, esistono delle verità architettoniche assodate che è bene mettere in discussione e verificare costantemente. Questo ha fatto, nel corso del Novecento, il modernismo, e lo fece con l’aiuto del cinema e della fotografia [Vidler, 2006]. Quest’ultima dunque può, anche oggi, prendere un compito che ha già avuto storicamente, di analisi critica del paesaggio urbano e dell’architettura del Novecento. La fotografia è dotata di una notevole capacità critica. E deve usarla al meglio delle sue potenzialità, anche in funzione di de-mistificazione o almeno di svelamento. Ed infatti essa ha costruito, soprattutto nell’ultimo quarto del Novecento e fino ad oggi, un’interpretazione collettiva delle città, con propri percorsi di ricerca originali ed autonomi che hanno contribuito in modo determinante alla definizione di un’idea di paesaggio urbano e, attraverso questa, alla formazione di strategie progettuali e dunque di interventi che hanno concretamente modificato la forma delle città. Ma quando si è cominciato a parlare di paesaggio urbano? In altre parole: quando si è iniziato a credere che la città è una forma particolare di paesaggio, che esiste un paesaggio urbano in termini suoi propri e distinti da quello classico, naturale, o rurale? La storia dell’arte ci ha consegnato molte vedute urbane, dove però prevale l’aspetto contemplativo dei caratteri monumentali delle città maggiori. Le origini della nozione di paesaggio urbano vanno però cercate piuttosto nella disciplina urbanistica, che ha per oggetto la forma della città e il suo disegno. Troviamo allora il concetto di impatto visivo della città in Townscape, un libro del 1961 dell’urbanista inglese Gordon Cullen. L’autore mette in evidenza la particolare forza espressiva propria di piazze, slarghi, strade, sottolineando che è essa stessa un ingrediente del progetto che li concerne. Per spiegarla usa delle fotografie, rafforzandone l’interpretazione con lo schizzo a mano libera. E questo particolare rivela che la fiducia nell’autonomia interpretativa dell’immagine fotografica è in fondo ancora limitata. Un ventennio più tardi, con la campagna fotografica governativa francese della DATAR della metà degli anni Ottanta, si stabiliscono i caratteri della ricerca fotografica contemporanea sulle trasformazioni territoriali, ivi comprese quelle urbane. Questo colossale sforzo di descrizione del paesaggio francese contemporaneo partiva dal principio per cui nella rappresentazione dei luoghi la fotografia è un modo di trascrizione di una sensazione, non di riproduzione di un fatto [Latarjet, 2010]. Tra le sensazioni può esserci anche l’idea, la prefigurazione di un futuro dei luoghi, e dunque un principio di progetto di trasformazione degli stessi. Il progetto in fin dei conti è un sentimento, significa pre-sentire ciò che i luoghi potranno essere, come potranno diventare. Se si ammette che esista questa facoltà della fotografia, allora si può 3. Paul Strand, Luzzara, 1953 9 ammettere anche che tra le facoltà ci sia quella di indicare una via del progetto, rilevando potenzialità, punti di forza, di resistenza o di malleabilità. Mai come oggi i valori classici del paesaggio sono diventati caduchi e non sono stati rimpiazzati. Siamo in un periodo di ricerca, e la fotografia è tra le arti quella che più insistentemente, negli ultimi decenni, ha indagato l’ambito di questa ricerca. Il nuovo sguardo che si forma in quegli anni assegna una decisa preferenza alla fotografia che mostra quel che c’è, non quel che avviene. Accettare questo punto di vista – come fa ad esempio Gabriele Basilico – significa ovviamente scegliere una collocazione alternativa a pratiche fotografiche diverse. Esiste, beninteso, e Basilico non lo sminuisce, il foto-giornalismo, la tradizione dei fotoreporter, la ricerca dello scatto che coglie il momento decisivo di un avvenimento. Ma il superamento di – o anche soltanto la presa di distanza da – questa pratica conduce a una fotografia più riflessiva e interpretativa della realtà dei luoghi, anziché degli eventi. E’ lo sguardo lento e riflessivo sulle cose, sulle ragioni del loro esistere che costituisce il centro del lavoro fotografico. Il fissarsi dell’obiettivo su fenomeni, come quello dello sviluppo urbano, che dagli anni Settanta ad oggi prendono un rilievo epocale e mondiale, costruisce un nuovo genere, il paesaggio urbano. Il nostro paese, concluso il periodo della ricostruzione e poi del boom economico, vive anch’esso la crisi post-moderna dei grandi modelli ideali, politici, religiosi, narrativi. La città della frammentazione spaziale e psicologica riflette il tramonto delle grandi ideologie totalizzanti, rigide visioni del mondo che lasciano il posto all’urgente necessità di integrare le culture e le componenti sociali. L’immagine urbana registra puntualmente gli effetti indotti dalla massificazione e poi dalla globalizzazione degli stili di vita, dalle grandi migrazioni e dai conflitti culturali e religiosi, dalla crescita delle tecnologie informatiche con la conseguente indifferenza della localizzazione di molte attività, dal declino dell’industria manifatturiera e dall’enorme facilità negli spostamenti della popolazione per lavoro e per turismo. La fotografia, con la sua capacità di riflessione e di forte coinvolgimento emozionale, porta all’attenzione collettiva gli effetti di processi spesso ancora in corso e di difficile interpretazione, e va così a riempire lo spazio che altre modalità di indagine hanno lasciato vuoto: per fare un esempio, l’arte figurativa, storica interprete di mille vedute urbane, segue in quegli anni percorsi di tipo aniconico e performativo che non sempre riflettono con precisione e immediatezza la realtà metropolitana delle città maggiori. Tanto che alcuni temi divenuti poi centrali nel dibattito sulla città - come la scadente qualità delle periferie, la crisi di significati dello spazio pubblico e dei luoghi della comunità, la convivenza difficile e spesso impossibile tra forme della tradizione locale e innovazione architettonica – sembra siano stati indicati e dunque in larga misura introdotti nel dibattito dalla fotografia, e solo in seguito sottoposti all’agenda delle pubbliche amministrazioni e alla riflessione degli studiosi. Sono stati i fotografi a costringere gli architetti a confrontarsi di nuovo con il paesaggio, e in particolare con il paesaggio urbano; cosa che da tempo ormai avevano smesso di fare, confinati in una dimensione teorica e lontana dalla 10 realtà, e assumendone al più una rappresentazione idealizzata [Nicolin, 2006]. La situazione italiana presenta peculiarità dovute ai caratteri dello spazio storico-geografico: cento piccole città, molto integrate nell’ambiente rurale, e uno sviluppo metropolitano che confligge con la ricca sedimentazione culturale del territorio. Sono, questi, caratteri molto evidenti nel caso dell’Emilia-Romagna: i centri urbani, in origine di piccole dimensioni, si sono via via saldati nella città lineare della via Emilia - la vera metropoli del nord sub-padano - e nella urbanizzazione continua della città adriatica. Qui hanno operato alcuni importanti fotografi di paesaggio italiani, chiamati da amministrazioni pubbliche a documentare aspetti del territorio regionale. Il caso più noto è quello di Paolo Monti, che tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta ha contribuito in modo estensivo a indagini urbanistiche e campagne di rilevamento dei beni culturali e dei centri storici, fissando un’immagine dell’azione conservativa ancor oggi viva al punto da condizionare la ricerca visiva in questo settore. L’opera di Luigi Ghirri si sviluppa in modo autonomo e personale, spesso al di fuori di specifiche committenze pubbliche, e dalla metà degli anni Ottanta sembra indicare percorsi di ricerca complementari se non addirittura antitetici rispetto all’immagine che gli enti territoriali emiliano-romagnoli hanno voluto nel frattempo dare di sé e delle ragioni del proprio operare. Oggi ci pare che – piuttosto che quello ufficiale - sia stato lo sguardo libero di Ghirri il vero sguardo produttivo di senso, capace di costruire una ricerca visiva appropriata sul fenomeno urbano, e di restituirne frammenti di interpretazione e comprensione. Le strade indicate da Ghirri e da Monti sembrano seguire traiettorie prossime ma parallele: nel primo caso si tratta di un pensiero debole, ironico, perfino interrogativo e perennemente inconcluso, nell’altro di uno sguardo carico di assiomi che cercano nella fotografia una dimostrazione visiva definitiva e incontrovertibile. Sono due stili che segnano i percorsi anche di altri autori. Gabriele Basilico opera nel solco di Paolo Monti, contribuendo a costruire un paesaggio urbano monumentale e malinconico, fortemente connotato da temi postmoderni come la dismissione industriale, e avvicinando in un’unica infinita descrizione tutte le città del mondo, fino a creare una sorta di supercittà analoga e ubiqua. Altri sono i percorsi seguiti da chi individua nella mostra dei New Topographics americani del 1975 il proprio modello di riferimento, tra tutti Guido Guidi, e con lui i fotografi che operano per l’associazione Linea di Confine di Rubiera, impegnati in una ricerca minuziosa e ostinata del banale che affligge la quotidianità della scena urbana contemporanea. Quasi sempre i fotografi agiscono in coppia con studiosi, storici ed urbanisti che influenzano in modo più o meno determinante la loro visione: Andrea Emiliani e Pierluigi Cervellati nel caso di Monti, Vittorio Savi e Aldo Rossi per Ghirri, Stefano Boeri per Basilico, Bernardo Secchi per il gruppo di autori di Linea di Confine. Lo sguardo fotografico sulla città interagisce in vario modo con gli orientamenti e le scelte dell’urbanistica. Ci si può domandare se è possibile mettere a sistema questa ricchezza di sguardi complementari alle discipline del cosiddetto “governo del territorio”, rendendoli disponibili per il progetto urbano in maniera 4. Luigi Ghirri, Scandiano, 1985, dalla serie Paesaggio italiano, 1980-92 5. Guido Guidi, Zona industriale di Pievesestina 11 più continua ed efficace ed evitando il più possibile che il loro discorso critico si insterilisca in posizioni radicali e contrapposte: usando da una parte la fotografia come denuncia della perdita di una forma urbis classica, per invocare il ritorno alla città bella premoderna; dall’altra accettando l’esistente e rifiutando di fatto ogni speranza progettuale. L’utilizzo sempre più frequente della pratica fotografica nei laboratori di urbanistica partecipata, il proliferare di gruppi e associazioni attive in questo campo fanno credere che la ripresa di collaborazione e dialogo tra fotografi e urbanisti - che negli anni Settanta sembrò una positiva innovazione portata dal dialogo interdisciplinare - possa condurre a una specifica modalità narrativa per il paesaggio urbano italiano, precisandone un’idea originale ed autonoma. Nell’oscillazione – a volte impercettibile, ma continua – tra osservazione e trascrizione della realtà e interpretazione dei luoghi, si nasconde un conflitto tra etiche fotografiche diverse. Se l’osservazione pura aggiunge profondità alla riflessione, ha però il limite di trascurare gli aspetti sociali, storici, di isolare i luoghi in un tempo sospeso, strappato via dal tempo reale, dall’evoluzione continua. In questo senso, l’eccesso di constatazione può essere un limite per il progetto, può togliere alla fotografia le potenzialità progettuali che, come si è detto, essa può avere. Un certo spirito voyeuristico è il rischio incombente verso cui la fotografia di paesaggio può essere spinta, e questo rischio può essere ingigantito dalla perdita della fiducia nel progetto che caratterizza questi ultimi decenni, gli anni post-moderni. Rem Koohlaas ha definito gli anni Sessanta come l’ultimo periodo di fiducia nell’architettura. Oggi siamo come paralizzati dall’enorme peso che ci scaricano sulle spalle le sfide contro l’urbanizzazione, l’inquinamento ambientale, il traffico. “Come trasformare positivamente lo sprawl della città diffusa è uno dei grandi problemi rimasti per ora senza risposta” [Gregotti, 2011]. Viviamo in una società e in un tempo incapaci di progettare il futuro, e in questo senso un eccesso di consapevolezza del reale può essere un limite, e l’approccio documentaristico che ha caratterizzato in senso positivo la fotografia, quando c’era da recuperare un rapporto profondo con la realtà, può oggi diventare un handicap, quando al contrario c’è da recuperare la perduta capacità di formarsi un ideale [Marini, 2011]. Se la vicinanza prima, e l’appartenenza poi, della fotografia all’arte concettuale le ha consentito per i quarant’anni dai Settanta a oggi di diventare l’interprete più incisiva delle trasformazioni fisiche e sociali del nostro ambiente di vita, oggi l’eccesso di concettualizzazione può diventare un ostacolo ad esprimere ipotesi conclusive di questa continua riflessione. Anche la fotografia – e quella urbana in particolare, visto il ruolo sempre crescente delle grandi città, in senso demografico, economico, sociale - ha oggi di fronte a sé il compito di accentuare la sua capacità di prefigurazione progettuale, a maggior ragione in un momento in cui il progetto viene sempre più rappresentato attraverso immagini fotografiche e sempre meno tramite il disegno. Per almeno un decennio i paesaggi metropolitani, pur mostrandosi in più occasioni come uno svilimento delle risorse estetiche, naturali, sociali, architettoniche, hanno reclamato il loro diritto 12 a esser paesaggi in virtù del fatto che sono ambienti di vita dei cittadini, con ciò rispondendo ai requisiti della Convenzione Europea del paesaggio del 2000. Oggi, le tematiche identitarie, la necessità di riconoscere i percorsi diversificati delle microstorie delle diverse comunità, l’autoaffermazione di sé che è ormai uno dei tratti caratteristici della nostra società sono tutti fattori che spingono a dare peso alla piccola dimensione e alla partecipazione, come caratteri salienti e imprescindibili del progetto urbano contemporaneo. Sono questi gli orizzonti attuali che anche la fotografia sta contribuendo a esplorare: una crescente ostilità verso la bigness – che è stata per decenni la connotazione principale della metropoli e il suo fattore di successo comunicativo -, la centralità dell’individuo e del cittadino nelle scelte, la comunità che torna a proclamarsi interprete della propria evoluzione, il ruolo crescente che la politica deve assumere, o meglio ri-assumere, nelle scelte della pianificazione urbanistica [Palermo, 2010]. 2. Prima della fotografia, e nel frattempo. Nella seconda metà dell’Ottocento, la fotografia diventa pietra di paragone per la pittura. Considerata strumento di registrazione fedele del dato reale, diventa riferimento per le sperimentazioni antiaccademiche. Nel Dizionario dei luoghi comuni di Gustave Flaubert (1874-80), alla voce Fotografia è scritto: “Detronizzerà la pittura”. Oggi sappiamo che non è stato così, ma era difficile rendersene conto pochi decenni dopo l’invenzione che pareva destinata a rivoluzionare il modo di rappresentare la realtà. La fotografia non si è sostituita alla pittura perché non ambiva farlo, è diventata un’arte di per sé, con regole e obiettivi propri, e una sua estetica autonoma. Ma l’entrata della fotografia nel mondo dell’arte è recente, è avvenuta non molto prima degli anni Settanta del secolo passato. Prima, poteva essere considerata un supporto per l’arte. Uno strumento al servizio della pittura, come lo è stato per varie discipline scientifiche, e per l’archeologia, per lo studio dei monumenti, e via via per il giornalismo, per la documentazione delle scene dei crimini e per la determinazione della verità processuale, per la pubblicità commerciale, per la promozione del turismo, ecc. A lungo la fotografia ha vissuto un ruolo ancillare, subalterno; è stata solo un documento freddo e poco espressivo. Basta ascoltare Marcel Proust, quando scrive di “certe fotografie di una persona, guardando le quali ci par di ricordarla meno bene di quando ci accontentiamo di pensarla” [Barthes, 1980]. L’apporto della fotografia alla descrizione del paesaggio urbano contemporaneo costituisce l’ultimo capitolo di una lunga storia che attraversa l’arte figurativa dei secoli precedenti. La città si affaccia alla storia dell’arte dapprima come sfondo nelle pitture rinascimentali, prende poi un ruolo di primo piano nelle icnoscenografie cinque e seicentesche, parenti strette delle odierne vedute da elicottero. La veduta urbana più celebre e apprezzata è soprattutto quella della pittura olandese, Vermeer su tutti; nel Settecento sono celebri Canaletto e Bellotto, mentre Piranesi innesta la divagazione fantastica nel corpo della visione architettonica. Nell’Ottocento il fenomeno prende dimensioni gigantesche. Le città riempiono le tele di Van Gogh, tanto che i suoi dipinti sono 6. Jan Vermeer, Veduta di Delft, 1660 7. Antonio Canal, detto Canaletto, Canal Grande da Ca’ Balbi verso Rialto, 1720-23 8. Bernardo Bellotto, La Hofkirche di Dresda con il Castello e il Ponte di Augusto (Dresda dalla riva sinistra dell’Elba), 1748 ca 13 l’espressione più evidente del disagio psichico indotto dalla vita urbana. Gauguin, in modo analogo, si rese interprete di un rifiuto della modernità che addirittura lo spinse alla fuga in Oceania. Sul campo opposto stanno Pissarro, cantore dei boulevards di quella Parigi che è stata chiamata la capitale del XIX secolo, e Monet, con la sua Gare Saint-Lazare, celeberrimo inno alla ferrovia e al suo ingresso in città. Essi si servono della fotografia per la loro pittura, e l’effetto è evidente nella scelta dei soggetti e del punto di vista da cui descriverli, nel taglio della composizione e in una certa resa della profondità di campo, dichiaratamente fotografica. L’esplosione del genere urbano con l’Impressionismo si deve in larga misura a una rivoluzione tecnologica: quando i colori in tubetto consentono di dipingere senza difficoltà en plein air; la città diventa un soggetto da rappresentare in tutte le sue componenti fisiche e sociali, piazze e folla, mezzi di trasporto e mercati. Di qui in avanti il dialogo tra pittura e fotografia si infittisce, si arricchisce di scambi e contrasti, in una incessante corsa a superarsi. Pissarro dipinge raccontando la città come bellezza inquietante, Atget e Marville usano l’obiettivo per scrutare Parigi con un’attenzione erotica, come se il suo fosse il corpo di una donna. La città ha le forme dei sobborghi, delle cattedrali, dei bassifondi, si mostra nei porti e nei mercati, è abitata da mendicanti, prostitute, operai – tra i più celebri, quelli che costruiscono i grattacieli di New York stando appesi lassù nell’intrico delle travi di ferro. Boccioni e Delaunay registrano i caratteri della città esplosa del Novecento, sforzandosi di arrivare a captarne i suoni, gli odori, il frastuono. Alla Torre Eiffel parigina fa da contrappunto simbolico della vitalità urbana newyorkese il Ponte di Brooklyn, dipinto in varie serie da Joseph Stella. Sul fronte dei fotografi stanno le immagini dell’Empire State Building di Lewis Hine e di Alfred Stieglitz. Tra i molti altri, Edward Hopper e Mario Sironi, Otto Dix e Max Beckmann, El Lissitskij, De Chirico e Mondrian dipingono immagini di paesaggi urbani. La lista è ovviamente interminabile. Quando però, alla metà del secolo ventesimo, inizia il predominio dell’Informale, la pittura comincia a tacere, e la fotografia prende quota, rimpiazzandola progressivamente. Con la scena urbana la fotografia intrattiene fin dall’inizio un rapporto molto stretto. E’ figlia dello sviluppo della tecnologia e dell’industria, e dunque non può che sentirsi sorella della città nata in quegli stessi anni per effetto della rivoluzione industriale. La prima fotografia di Nicephore Niepce rappresenta un paesaggio urbano visto dalla finestra. Siamo nel 1827. Questa relazione matura in seguito attraverso capostipiti come Daguerre, Fox Talbot, Bayard ed altri mitici pionieri, e infine con il lavoro di Eugene Atget, che all’inizio del secolo Ventesimo costruisce una minuziosa immagine di Parigi, il campo di studi privilegiato nei primi lustri della tecnica fotografica. La fotografia ambisce subito a sostituirsi alle arti figurative nel raccontare la città. Esaurito il movimento impressionista - e archiviate, più tardi, le narrazioni potenti dei cubisti e dei costruttivisti - la fotografia e il cinema, nuove arti industriali e a grande diffusione, prendono progressivamente il sopravvento sulla pittura nei primi due terzi del Novecento. Il paesaggio urbano prende forma come crudo racconto delle problematiche sociali indotte dalla dimensione urbana crescente e dalla concentrazione 14 9.Claude Monet, Gare Saint-Lazare, 1877 10. Eugene Atget, Il Pantheon, 1925 11. Edward Hopper, La città, 1927 12. Walker Evans, Truck and Sign, 1928-30 di una grande massa di popolazione in aree sovraffollate. Weegee negli Stati Uniti, Cartier Bresson in Francia divulgano immagini fotogeniche della città babelica, piene di carica emozionale e così realistiche da essere comprensibili per tutti. Gli scritti degli anni Trenta di Walter Benjamin possono essere visti come le didascalie più adatte alle fotografie contemporanee di autori come August Sander e Albert Renger-Patzsch. In modo del tutto analogo, i mille tipi umani di Brassai costituiscono il commento visivo delle nascenti discipline antropologiche e sociali. Una delle grandi madri della fotografia contemporanea di paesaggio, la Farm Security Administration americana – il survey promosso da Roosevelt negli anni Trenta sulla condizione rurale - si rivolge più alla campagna che alla città, ma uscendo da quella esperienza Walker Evans comincia anche a fotografare la città come un corpo compatto, finito, riconoscibile, dotato di confini, per quanto allargati. Le architetture configurano gli spazi urbani, pieni e privi di orizzonte; quelli rurali, al contrario, sono rarefatti, larghi, distesi. C’è una opposizione visiva tra le due scene, una contrapposizione chiara e netta che non può lasciare dubbi e alimenta certezze sulla forma del mondo in cui viviamo. L’oggettività è una prerogativa che la fotografia vuole per sé, come dimostrano le contemporanee fotografie del dipartimento di polizia di Los Angeles che catalogano i cold cases dell’epoca con scientifica brutalità. Negli anni Settanta del Novecento si crea una tendenza che deriva da queste esperienze americane della fotografia documentaria degli anni ‘30 e cerca una aderenza al reale, ma al tempo stesso si avvicina al concettualismo e alla performance, generi tipici dell’arte di quegli anni; e ancora, si connette alle esperienze del Bauhaus, nella sua tensione a sperimentare nuovi linguaggi; e infine prende qualche spunto da urbanisti americani come Kevin Lynch e Jane Jacobs e inglesi come Gordon Cullen, e dalla loro originale ricerca sugli effetti percettivi della costruzione e dell’arredo dello spazio abitato e di quello pubblico. L’insieme di tutte queste cose genera una nuova sapienza della fotografia nel rappresentare la scena urbana, un ruolo che è più progettuale rispetto al vedutismo classico, se si intende per progetto un’idea che connette passato, presente e futuro. Questo segna un nuovo genere di paesaggio urbano fotografico, e dà il via a una produzione ingente di immagini, in grado di orientare e condizionare la visione comune molto più di quanto non sia avvenuto nei decenni precedenti. 13. Albert Renger-Patzsch, Terreni a Bochum, 1929 15 Negli anni Settanta del Novecento ha preso forma un’attitudine allo sguardo in larga misura diversa da prima, che ha prodotto un corpus fotografico caratteristico, ispirato da molte domande nuove, alla ricerca di spiegazioni di fenomeni inediti, che la città registrava proprio in quegli anni di crisi e di trasformazione. E’ questo il momento nel quale avviene il superamento del reportage classico fondato sul momento decisivo bressoniano, e la fotografia scavalcata da altri media perde la sua funzione narrativa e diventa strumento di lavoro per gli artisti, spesso in chiave concettuale; dopo quegli anni, che costituiscono l’immediata premessa per il suo “decollo”, vengono gli anni Ottanta e Novanta, nei quali la fotografia consolida la sua posizione e approda alla sua fase di massima espansione” [Valtorta, 2005]. 3. Sfiducia postmoderna. All’inizio degli anni Settanta, la città diventa la scena più idonea per rappresentare la crisi della post-modernità [Harvey, 1993]. Si fa sempre più frequente il caso di fotografi che, spinti da puro intento di ricerca, iniziano a sperimentare la capacità di indagine del mezzo fotografico, facendo uso delle proprie risorse di cultura e sensibilità. Tralasciano l’aspetto sociale della città, espresso in modo ormai definitivo nelle visioni classiche dei pionieri o nei resoconti che grazie al foto-giornalismo invadono le case di tutti, e cominciano a occuparsi di quello paesaggistico, con l’obiettivo di trovarne il grado zero, scevro di luoghi comuni e di troppo facile riconoscibilità, pronti a utilizzare linguaggi aspri, non fotogenici, e per questo non facilmente ricevibili dall’universalità del pubblico. Ponendosi, in altre parole, al di fuori della convenzionalità della comunicazione più estensiva, sia televisiva che pubblicitaria che turistica. Il paesaggio delle città non è per questi autori un fatto estetico, ma il tramite attraverso il quale si occupano di indagare la condizione dell’uomo. L’ambiente urbano è il luogo che più di ogni altro riflette la specificità del mondo contemporaneo, le sue profonde modificazioni culturali, economiche, sociali. Mostrare la scena in cui l’umanità si muove con sempre maggiore frequenza, dove aspira vivere, da cui è attratta, è un modo molto preciso per farne un ritratto valido almeno per tutto il mondo occidentale. Come in precedenza, il soggetto rimane l’architettura, la strada, la complessità densa e stratificata degli spazi, cambia però il modo con cui si intende parlarne: la concettualizzazione della fotografia, che avviene in quegli anni sulla spinta dei movimenti artistici, sposta l’attenzione dagli oggetti rappresentati al loro significato, all’uso che ne fanno le persone, al valore simbolico che gli attribuiscono. Tuttavia, per la sensibilità comune, il paesaggio rimane ancora oggi un concetto che ha poco a che fare con la città. Avvicinare l’uno all’altra è quasi un ossimoro, perché il paesaggio resta composto di coste, monti, campagne, fiumi, alberi fino alla metà del Novecento e oltre. In Italia, i Fratelli Alinari raccolgono singoli frammenti monumentali e compongono un collage che non rappresenta lo spazio delle città, ma ne isola le eccellenze. Dall’ultimo quarto dell’Ottocento inizia il successo della cartolina illustrata, grande strumento di condivisione del paesaggio, ben più popolare delle vedute pittoriche. Con la prima guerra mondiale si 16 14. Los Angeles Police Department, Scene of the Crime 197, 1944 15. Holger Trulzsch, dalla serie della DATAR, 1984 registra la comparsa nazionale del paesaggio alpino; essenziale per stabilire un rapporto poi mai più tramontato tra paesaggio e nostalgia è la funzione di memoria del paese di origine che la cartolina svolge con il fenomeno dell’emigrazione, dalla metà dell’Ottocento in avanti. Le pubblicazioni del Touring Club Italiano – ad esempio “Le vie d’Italia”, rivista di geografia, viaggi e fotografia edita dal TCI dal 1917 al 1968, e dunque decisiva nell’orientare l’immaginario collettivo del paesaggio nella parte centrale del secolo scorso – trasmettono una impostazione per molti versi ancora elitaria e in larga misura radicata nel pittoresco, per cui la città resta a lungo, per definizione, l’anti-paesaggio. La veduta urbana è tollerata se ed in quanto esprime la storia millenaria delle cento città italiane, ne descrive le peculiarità tradizionali, ne rafforza il ruolo di origine della storia nel mondo, di culla della civiltà. Tra i libri fotografici dedicati alla città sono rimasti celebri Paris de nuit di Brassai del 1932, A night in London, cruda visione dell’inglese Bill Brandt del 1938, e ancora del 1938, Changing New York di Berenice Abbott. La street photography nasce in quegli anni, facendo convivere reportage e documentazione, grande interprete ne è Arthur Fellig detto Weegee, che ritrae il lato oscuro e violento delle metropoli. Nel 1935 l’austriaca Lisette Model pubblica sulla rivista “Regards” fotografie scattate a Nizza sulla Promenade des Anglais, che ritraggono persone, spesso anziani, con il proposito di descrivere i luoghi in modo indiretto, attraverso i loro fruitori. L’americano Philip Lorca di Corcia, la francese Lise Sarfati, l’irlandese Hannah Starkey, pur di diverse generazioni e con diversi approcci continuano nel solco della street photography, così come continua e anzi ha preso recentemente molto spazio la ritrattistica intesa come luogo privilegiato di lettura della società attraverso la rappresentazione delle persone. Più recentemente è nata l’attenzione verso le pratiche amatoriali familiari [Skrein, 2004], secondo una visione etnografica e antropologica. Le fotografie di famiglia vengono esposte e studiate in sé come testimoni del 16. Paola De Pietri, dalla serie Madri oggi, 2007 17 tempo e utilizzate anche da autori – tra tutti Wolfgang Tillmans, primo fotografo nel 2000 a vincere il britannico Turner Prize – che usano nel loro lavoro fotografie trovate. Prende così importanza l’archivio, come interazione tra storia, passato, soggettività non autoriale e la pratica professionale. Secondo alcuni studiosi, questo dimostrerebbe un calo di fiducia della fotografia in se stessa, o meglio dell’autore-fotografo in se stesso, e dunque aprirebbe un interrogativo fondato sul modo come i fotografi possono ancora essere in grado di rappresentare se non l’interezza del mondo, almeno una valida interpretazione – per quanto soggettiva - di una buona parte della realtà. Indagando il paesaggio urbano, la fotografia prende a riflettere su se stessa, i suoi limiti, le sue potenzialità, il suo stesso linguaggio. In ambito italiano, questo è molto evidente in un autore innovativo e sperimentale come Luigi Ghirri, che perlustrando la città indaga anche sulle sequenze delle fotografie, sulla modularità delle inquadrature. Una mostra fotografica che si tiene a Ferrara nel 1979, Iconicittà, curata appunto da Ghirri, rappresenta molto bene questo nuovo atteggiamento della fotografia. All’inizio degli anni Ottanta, anche i curatori della celebre campagna fotografica francese della DATAR si rendono conto che l’arte si sta allontanando dal mondo visibile per lidi concettuali, performance e accadimenti vari, mentre la fotografia resta l’unico sguardo interessato al mondo visibile, e per questo incaricano fotografi di diversa provenienza nazionale di verificare i cambiamenti del paesaggio come riflesso dei cambiamenti sociali. Non per documentare, e nemmeno per narrare, ma per riflettere, questo è il nuovo ruolo della fotografia. Uno dei fotografi invitati, Gabriele Basilico, usa l’espressione “l’esperienza dei luoghi”, è come se parlasse di fare un incontro con i luoghi, e sembra che si tratti di una cosa che le altre arti non possono più fare. Nel 1987 hanno luogo due mostre molto importanti per la diffusione di queste nuove pratiche fotografiche. A Venezia si tiene “Dialectical Landscapes. Nuovo paesaggio americano”, a cura di Paolo Costantini; a Milano, “Paysages Photographies”, con immagini del paesaggio della Francia contemporanea prodotte 17. Fratelli Alinari, Duomo e Battistero di Parma, fine secolo XIX 18 dalla Mission photographique de la Datar tra il 1984 e il 1985. Gli anni Settanta sono un momento di grande fiducia nella fotografia di paesaggio, e questo si vede bene, si percepisce la felicità della disciplina, il suo attraversare un momento di certezze, di evoluzione, di speranza, di futuro. Il fotografo è convinto che con la sua concettualizzazione del mondo si possano attingere livelli espressivi e insieme di razionalità comunicativa. L’interdisciplinarità, un credo di quegli anni, ammette la fotografia nel consesso delle altre materie o degli altri mestieri, con la sociologia, l’urbanistica, l’antropologia, e perfino la politica. Oggi le cose sono molto cambiate. Oggi la multiplicittà che abitiamo può sembrare disarmante, oltre che perturbante. E’ come se affrontandola – affrontando il compito di descriverla, studiarla, riprogettarla per migliorarla – ci rendessimo conto che forse non riusciremo a farcela. Il risultato che ci consegnano i fotografi sono indagini di struggente bellezza, ma che molto difficilmente possono darci indicazioni, nel groviglio di contraddizioni che esse registrano. La crescente complessità del mondo, soprattutto dell’ambiente urbano, sconcerta, disorienta. Un fotografo giovane e già esperto come Francesco Jodice ricorre anche al film, oltre a fotografare. Molti autori hanno sentito la fotografia come insufficiente ad affrontare la realtà, e fanno uso anche di interviste, narrazioni di scrittori, raccolta di materiali di diverso genere e provenienza. C’è un indizio, fra i tanti, che può rivelare il disagio: il ricorso crescente al punto di ripresa dall’alto, più elevato della statura umana. Sembra una resa: la confessione che non si riesce più a replicare con la stessa efficacia ciò che a suo tempo faceva con l’obiettivo il fotografo-cittadino Paolo Monti, che semplicemente si aggirava come un passante fra i tanti lungo le vie delle città. “Se mi muovo al livello del terreno, non ce la farò mai a cogliere la cresciuta e crescente complessità delle cose urbane”, sembrano dire Olivo Barbieri e Alessandra Chemollo, Giampiero Vitali e Paola De Pietri, tutti autori che hanno usato punti di vista al di sopra della strada. Paola De Pietri, per un lavoro paesaggistico, si è porta su una mongolfiera a circa 40 metri di altezza, perché cercava “un punto di vista che fosse a metà strada tra quello offerto dalla mappa e quello del visitatore”. Un’altezza che ha definito “molto umana”, e che ha scelto per fare in modo che “la distanza fosse solo fonte di chiarezza e non di separazione” [Linea di Confine, 1997]. L’altro indizio è il ricorso alla immagine in movimento come mezzo integrativo della visione statica della fotografia. Voci, interviste, volti per rappresentare la molteplicità e per far fronte alla complessità. L’atteggiamento fiducioso di un tempo è sparito. E’ sparito il tempo in cui il fotografo “se la sentiva” di affrontare la città senza particolari problemi. Con gli anni duemila è come se i fotografi si dichiarassero incapaci, o almeno meno capaci di prima. Francesco Jodice fa progetti che dichiarano nella loro stessa struttura il bisogno della presenza di qualcun altro, quasi del suo aiuto: come quando segue i movimenti delle persone, o per meglio dire le insegue, le pedina, come se solo attraverso il loro muoversi negli spazi urbani questi ultimi prendessero significato e senso. Molti giovani fotografi prevedono la partecipazione di persone qualunque come co-autori, desiderano far fotografare 19 anche gli altri. Chiedono agli abitanti le loro vecchie fotografie, come se solo la vita vera, ripresa senza regia alcuna, potesse farci giungere un’emozione. Gli anni Settanta ci hanno mostrato una felicità del fotografare che si è spinta fino agli anni Ottanta, e poi è regredita come una bassa marea e ha lasciato i fotografi soli con la loro azione incessante, raffreddandone lo sguardo. Ma proviamo a ricostruire la storia di questi quarant’anni cruciali. 4. Paesaggio come senso dei luoghi. Lo sviluppo del concetto di paesaggio urbano fotografico passa per tre fasi successive e distinte. Con la nascita della fotografia (secondo molti autori, il 1839) e fino al primo ventennio del secolo successivo, resta saldo il punto di vista del positivismo ottocentesco: è la fotografia – non tanto il fotografo – che ci mostra la città, nel senso che è radicata la convinzione nella oggettività assoluta del mezzo fotografico. Non si può parlare di sguardo, proprio perché sembra quasi che dietro l’obiettivo non ci sia una persona, e che la macchina operi praticamente da sola, in modo meccanico. La convinzione nell’oggettività prende origine dal confronto impari tra il processo fotografico, basato sull’ottica e la chimica - dunque scientifico, e ritenuto proprio per questo non dubitabile - e la creatività del pittore, interprete assolutamente soggettivo (e tanto più evidentemente soggettivo nel periodo dell’Impressionismo). Per questo tutti pensano che la fotografia ritrae senz’altro la città così come essa è. Da questa prassi fotografica discendono ad esempio le immagini dei fratelli Alinari, e infatti esse non vengono mai divulgate con il nome del fotografo, ma della sola ditta produttrice. Una seconda fase è quella che copre i primi due terzi del secolo ventesimo, e che agli inizi si sovrappone, almeno in parte, con prassi tipiche della prima fase. Il fotografo come autore comincia qui a prendere importanza, e si dedica infatti con personale e intensa partecipazione a trovare i testimoni viventi della vita urbana e delle sue tipicità, soprattutto delle sofferenze e delle difficoltà che le sono proprie. La città viene identificata con la società che essa sta producendo, il fotografo esce allo scoperto e si chiama Marville, Atget, Sanders, Weegee, Cartier Bresson. Ecco che allora prende piede un paesaggio urbano meno monumentale e statico, più permeato della soggettività dell’interprete. Ma la macchina fotografica resta tuttavia un confine ben netto tra chi guarda e chi è guardato, da una parte c’è l’oggetto – la città, e perfino i suoi abitanti sono oggetti da osservare e riprodurre – e dall’altra il soggetto che inquadra la scena, sceglie l’attimo, ha il privilegio e la capacità di esserci, nel posto giusto al momento giusto. Ora questo soggetto c’è, ed è un artista (prima che lui ci fosse come tale, c’era l’arte fotografica), e l’immagine che produce è un documento della realtà che lui ha saputo cogliere, lui e non altri. Intorno agli anni Settanta del Novecento, e ancora più diffusamente dagli anni Ottanta, sembra che non sia più il fotografo a raccontare la città, ma quest’ultima a raccontarci di sé e di noi attraverso il fotografo. Che resta certamente autore, anzi prende sempre più risalto come tale. Ma in un certo senso subisce l’influsso di ciò che decide di fotografare. Le persone escono di scena, la scena 20 urbana resta vuota - ma proprio per questo anche più carica di presenze, perché non essendoci nessuno ci sono tutti, tutti sono presenti nelle tracce che lasciano, nei segni della loro vita, del loro uso. Si inverte il rapporto tra soggetto ed oggetto, il fotografo diventa portatore di uno sguardo oggettivo, e la città fotografata diventa il soggetto parlante. Questa fase ha contato molto nella nostra percezione collettiva del paesaggio urbano, nel trasformare i nostri gusti e le nostre opinioni in merito. Resta lungamente attiva - lo è ancora - ed è quella che vogliamo descrivere nelle pagine seguenti. Prendendo il punto di vista della città, che è il soggetto parlante, più che del fotografo-artista. E dunque parlando molto e soprattutto dell’urbanistica come disciplina che studia e progetta le città, oltre che della fotografia. Cercando di vedere come tra le due materie si sia intrecciato un rapporto molto stretto in questi ultimi quarant’anni, mentre prima era più distaccato e la fotografia frequentava più spesso altre discipline, come la sociologia o l’antropologia. Un rapporto – quello tra urbanistica e fotografia – che com’è naturale si concretizza nel rapporto tra urbanisti e fotografi, che spesso è molto fertile ma che ciò nonostante a volte non mantiene le molte promesse e precipita per lunghi periodi in una reciproca indifferenza che alla fine impoverisce il progetto e per conseguenza la qualità degli spazi urbani realizzati. Con gli anni Settanta nasce una fotografia di paesaggio urbano che non ha il solo scopo di rappresentare, ma anche di fornire interpretazioni. L’immagine non deve essere passivamente guardata, chiede invece l’attenzione e il coinvolgimento dell’osservatore. Attraverso l’immagine si possono interrogare gli ambiti e gli spazi, essa sfoglia gli strati di senso delle cose [Bodei, 2011]. Il fotografo agisce spesso dopo essersi documentato a fondo su ciò che fotografa, il suo non è un lavoro intuitivo, ma di ricerca. La ricerca visiva dei fotografi è infatti confrontabile con altre ricerche sia di tipo fisico-quantitativo (rilievi e cartografia di vario genere, dati statistici, ecc.) sia qualitativo (indagini storiche e sociali, interviste, ecc.) che di norma sono svolte prima della progettazione, e contribuisce a definire l’assetto dei luoghi, in modo non neutrale ma già implicato con il progetto. Ogni tecnica di misurazione-interpretazione, non escluse quelle ritenute più 18. Philip Lorca di Corcia, New York, 1998 21 scientifiche, come ad esempio la statistica, è in grado di schierarsi dalla parte di ciò che deve essere dimostrato, e così a maggior ragione fa la fotografia, tanto è vero che a più riprese si è insistito su quanto sia apparente e fittizia la sua vicinanza con la realtà [Smargiassi, 2009]. Mostrare o non mostrare qualcosa è una scelta sempre possibile, e la cosa - presente o assente - assume per questo significati precisi. Selezionare, escludere, includere sono indubbiamente pratiche progettuali – questo è molto percepibile nel caso di Paolo Monti, che spesso nelle sue immagini dei centri storici esclude i brani della città moderna, che non gli interessa. E analogamente sono strumenti del progetto il ripetere, il ribadire, ad esempio con le sequenze di oggetti, di forme; mettere in primo piano o sullo sfondo; usare la luce in modo enfatico o deprimente; sfuocare, contrastare poco o molto – cosa che dà ovviamente risalto e valore diversi alle architetture, agli oggetti. E ancora: ammettere le persone o escluderle. Fotografare le persone come se il fotografo non fosse visto, o al contrario lasciare che le persone si mettano in posa e guardino il fotografo, dichiarino che sanno che sono personaggi e non (solo) soggetti sociali. Si può percepire anche il grado di vicinanza o distacco del fotografo rispetto ai luoghi, alle cose, alle persone, lo si capisce molto bene dal tipo di fotografia, se rubata o a posa lunga, se presa da un luogo elevato, evidente, o da un luogo riparato e nascosto. Tutto questo la dice lunga sul significato che il fotografo dà a ciò che raffigura: quanto affetto e quanta condivisione si percepiscono dall’immagine, o al contrario quanto disagio, che tipo di distanza. Anche questi sono ingredienti che la disciplina urbanistica e il progetto urbano possono utilizzare, perché esprimono l’attuale stato dei luoghi, la considerazione sociale, politica, estetica di cui godono presso la popolazione. Attraverso la fotografia i luoghi ci possono dire quanto essi sono assorbiti dalle coscienze, dai cittadini, e dunque dalla città stessa nel proprio corpo. E poi c’è sempre il gesto più radicale, a dimostrare quanto sia poco neutrale l’immagine fotografica: decidere di non mostrare qualcosa, relegare una immagine possibile nel mondo di quelle mai nate significa escludere i significati di cui essa potrebbe essere portatrice all’interno della lunga prassi del progetto, nel senso polisemico e poli-procedurale che vogliamo qui considerare. Che comprende tanti momenti in successione o in compresenza: il momento in cui una questione sul territorio viene sentita come un problema da risolvere o una risorsa da valorizzare (da parte di qualcuno, o dalla collettività); la riflessione che ne consegue, nelle sue varie tappe e modalità disciplinari e professionali; la discussione, la definizione di scelte e strategie; l’approccio progettuale vero e proprio, inteso come messa in campo delle tecniche di progetto; le fasi partecipative, quelle approvative, l’apertura dei cantieri, la realizzazione, il collaudo, la presa di possesso da parte dei fruitori, la gestione effettiva, e via via anche lo sfruttamento, il deperimento, la distruzione ovvero il recuperoristrutturazione-trasformazione. In tutte queste fasi la fotografia può essere chiamata a monitorare, e il suo monitoraggio influenza le scelte e dalle scelte è influenzato, in un bottom-down continuo. Ogni fotografia di paesaggio urbano è la documentazione di un momento di questi processi da parte di un operatore certamente 22 non inconsapevole e comunque orientato in modo preciso. C’è poi il significato che l’osservatore attribuisce a ciò che è raffigurato. La stessa immagine può essere interpretata come denuncia di qualcosa di sbagliato o accettazione pura e semplice dello stato delle cose. La fotografia di paesaggio urbano può esser vista ad esempio dalla parte dei fotografi e dalla parte degli urbanisti, non necessariamente i due punti di vista coincidono. Vista dalla parte degli urbanisti, assume forza, rilievo e importanza la fotografia che contiene uno sguardo progettuale. Non necessariamente la cosa ha la stessa importanza per i fotografi, che spesso hanno invece accentuato la componente concettuale priva di progettualità e piena invece di constatazione, di riflessione sullo stato di fatto. E’ evidente che le due cose sono diversissime, perfino contrastanti, quasi opposte. O almeno possono sembrarlo. 5. Urbanistica contro architettura. Una domanda ricorre frequente, leggendo la letteratura sulla fotografia, visitando le mostre e i musei, sfogliando le riviste, partecipando ai convegni e alle giornate di studio. La fotografia di architettura e quella di urbanistica sono cose diverse? Coincidono? E’ una domanda che si basa su considerazioni svolte fin dagli inizi degli anni Settanta [Zannier 1969]. Ci si accorge già allora che la fotografia di architettura è spesso congelata in un omaggio rituale all’architetto, invece di cercare una propria autonomia interpretativa. Esercitare la critica è naturalmente possibile sia con gli scritti che con la ricerca visiva, questa e quelli hanno gli stessi diritti e le stesse potenzialità. Ma lo sguardo fotografico deve essere autonomo e documentato, puntare a qualcosa di più che non alla semplice rappresentazione dell’identità dell’oggetto architettonico. Questo può essere forse sufficiente nel caso di vaste campagne di censimento che riguardano un grande numero di edifici, ma non per raccontare una singola opera e i suoi caratteri. Se la fotografia di paesaggio gode oggi di molto prestigio e popolarità, non altrettanto si può dire delle discipline che si occupano di studiare e governare il territorio. Quasi sempre la costruzione di un edificio viene vista come alterazione del luogo preesistente. E in effetti lo è. Ma il giudizio che oggi si tende a dare è generalmente di segno negativo. Se c’è oggi un rapporto in crisi, sembra infatti proprio quello tra architettura e paesaggio, dal momento che ogni nuova costruzione viene in genere considerata come male assorbita da qualsiasi contesto ambientale. Anni fa, diciamo negli anni Settanta e Ottanta, si sarebbe detto che le relazioni logorate erano tra architettura e urbanistica. Il piano urbanistico non è stato in grado di armonizzare le due discipline. L’università nemmeno, e dunque gli architetti neppure, non esistendo un mestiere che comprende le due differenti attività progettuali, se non per effetto di percorsi seguiti individualmente dai singoli professionisti nella propria carriera. Men che meno gli enti territoriali: le Regioni hanno programmi scoordinati (casa, infrastrutture, paesaggio, territorio) e il piano territoriale di livello regionale è quasi sempre solo un palinsesto macroeconomico. I concorsi di architettura avrebbero potuto servire a qualcosa, per connettere le due visioni disciplinari; ma se ne fanno pochi e quelli che si fanno non si attuano che raramente. E così, uno dei legami 19. Armando Salas Portugal, Cuadra San Cristobàl, Los Clubes, 1966-68 (Luis Barragan) 20. Julius Shulman, Kaufmann House, 1947 (Richard Neutra) 21. Guido Guidi, Gipsoteca canoviana a Possagno, 1996 (Carlo Scarpa) 23 possibili tra le due discipline in dichiarata crisi relazionale è proprio la fotografia, intesa nelle sue accezioni più ricche, e dunque nel pieno delle sue molte potenzialità: di documentazione storicocritica, di ricerca visiva, e perfino di indagine pre-progettuale. La fotografia classica di architettura resta un po’ ai margini di questi ragionamenti, se si intende parlare di quel tipo di immagini prodotto per le riviste di settore e per le pubblicazioni monografiche sul lavoro degli architetti. Di solito questo è un modo di fotografare che si concentra sul singolo edificio, spesso sui suoi dettagli, e che dunque non si pone l’obiettivo di relazionare l’architettura al proprio contesto urbano. La relazione in questo caso è soprattutto tra fotografo e architetto. L’americano Robert Adams parla di “trasparenza stilistica”, definendo così l’obiettivo di questo tipo di fotografia di architettura, come se il fotografo non dovesse mostrare di esserci, le persone nemmeno, ma solo l’architettura, come qualche cosa di astratto, una composizione un po’ misteriosa di luce, ombra, piani, colori, volumi. Se una buona fotografia di paesaggio è costituita di una combinazione sapiente di tre fattori - geografia, autobiografia, metafora [Adams, 1995] -, viene da dire che la fotografia di architettura tradizionalmente intesa – quella delle riviste, salvo poche eccezioni – mescola male gli ingredienti: c’è solo metafora, poca autobiografia, pochissima geografia. Adams riconosce che “la bellezza è, almeno in parte, sempre legata al soggetto”. E’ un’ammissione molto onesta e pericolosa per un fotografo. Bisogna vedere quanto misura quella “parte”, perché se è grande, si riduce di molto l’abilità da riconoscere all’autore. Le coppie costituite da architetti e fotografi interpreti delle loro opere sono molte e numerose: Le Corbusier e Lucien Hervé (fotografo anche di Aalto e Tange), Richard Neutra e Julius Shulman (fotografo anche di Schindler e Eames), Luis Barragan e Armando Salas Portugal, Giò Ponti e Giorgio Casali; più vicini a noi, Luigi Ghirri e Aldo Rossi, o Guido Guidi e Carlo Scarpa. Di queste foto si può dire, tutt’al più, che mostrano come in casi eccellenti la stessa architettura da sola possa diventare paesaggio, per la propria forza espressiva e le proprie qualità compositive. Ma la ricerca di relazioni tra l’architettura e il suo intorno urbano o territoriale non è lo scopo principale delle inquadrature. Paolo Costantini, storico e critico della fotografia prematuramente scomparso, sosteneva che esistono la fotografia e l’architettura, non la fotografia di architettura; e Mimmo Jodice, uno dei più importanti fotografi italiani, dice che la fotografia di architettura appartiene al fotografo, mentre l’architettura appartiene all’architetto. In entrambe queste affermazioni vagamente lapalissiane è ben presente la delimitazione di campi diversi e separati, il cui dialogo si attua occasionalmente, grazie a quel fotografo, o a quella fotografia. In un certo senso la fotografia si pone di fronte all’architettura in modo tautologico, sembra voler solo ribadire: ribadire il disegno, ridisegnando a chiaroscuro un prospetto o una prospettiva, anche di interni. Essendo per tradizione privilegiato il bianco e nero, a maggior ragione si notano il disegno, le linee, la forma, l’astrazione. Questo tipo di fotografia sembra voler fornire unicamente l’identità dell’architettura, certifica il lavoro dell’architetto, ma non lo inserisce nel sociale, nel vissuto, spesso nemmeno nella città. 24 22. Paolo Rosselli, Usera Library (Abalos-Herreros), Madrid 2004 Tra fotografia e architettura è nato fin dalle origini un rapporto molto più semplice e piano di quello tra fotografia e arte. In primo luogo, il fotografo-architetto è un abbinamento più precoce (e frequente) di quello fotografo-artista, e poi l’architettura è esente da quella forma di gelosia che c’è stata sin dalla metà dell’Ottocento tra pittura e fotografia. Anzi, sembra esistere una collaborazione quasi servile della fotografia all’architettura, nel celebrarne i fasti sulle riviste con immagini estetizzanti e prive di rapporti con la realtà quotidiana (niente oggetti in disordine come quelli che si vedono quotidianamente nelle case o nei luoghi frequentati, nessun utente, nessun particolare che possa richiamare rumori, odori, disagi fruitivi di qualsiasi natura, come puntualmente avviene nell’esperienza urbana reale); così come a volte la stessa architettura sembra voler ricercare preventivamente la fotogenicità, facendone in modo vezzoso un requisito del progetto. Gabriele Basilico e Giorgio Casali sono i principali autori delle fotografie su Domus; Luigi Ghirri, Giovanni Chiaramonte e Paolo Rosselli come autori della rivista Lotus diretta da Pierluigi Nicolin. Italo Zannier ha definito il committente della fotografia di architettura come narcisista, e questa è una critica senza mezzi termini alle finalità della foto di architettura, alla sua capacità critica e alla sua utilità ermeneutica. Tra gli urbanisti italiani, Italo Insolera fu tra i primi a relazionare l’uso della fotografia alla critica architettonica. In questo modo l’immagine fotografica non è soltanto rappresentazione dell’oggetto costruito, ma anche interpretazione, e soprattutto modo di contestualizzare l’architettura all’ambiente e al fruitore, superando quei limiti che il disegno non può superare [Insolera, 1956]. Al contrario, Bruno Zevi [Zevi, 1951] considerava che la fotografia fosse inadatta non soltanto a rendere percepibile la tridimensionalità architettonica, ma soprattutto la spazialità volumetrica dell’architettura, che invece il cinema poteva rendere al meglio, con la sua capacità di rendere il movimento e il punto di vista dell’utilizzatore. E’ indubbio, tuttavia, che è grazie ai grandi fotografi di architettura, come Julius Shulman o Lucien Hervé, che le opere di grandi maestri come Neutra e Le Corbusier sono state rese note al pubblico, che in larga misura le ha conosciute soltanto per il tramite delle immagini fotografiche. Kenneth Frampton [Frampton, 1982] sottolinea il “ruolo cruciale” svolto dal fotografo Nigel Henderson nel formare la sensibilità e dunque anche nell’orientare il lavoro degli architetti Alison e Peter Smithson. Le sue immagini delle strade londinesi, della realtà fisica e sociale dell’East End e della comunità di Bethnal Green contribuirono, secondo Frampton, alla formazione dei concetti come quello di identità su cui gli Smithson fondarono molto del loro lavoro a partire dagli anni Cinquanta. 6. La fotografia è uno strumento, non la soluzione. Semplificando al massimo, ci sono due modi per trattare di fotografia: considerandola come arte o come pratica sociale [Marra, 2001]. Questo lavoro prende in esame soprattutto la fotografia nei suoi rapporti con l’arte e l’architettura, perché intende metterne in luce le capacità interpretative, mentre la seconda accezione mette l’accento sul piano dell’utilità: la fotografia utile per la notizia giornalistica, per il messaggio pubblicitario, per la memoria e 25 la solennizzazione degli eventi di famiglia. Quest’ultima è una fotografia che tende ad esaurirsi in sé, nel motivo per cui è stata prodotta, non ambisce a provocare riflessioni, conoscenze teoriche, né tanto meno ha effetti creativi, progettuali conseguenti ai concetti che fa scaturire. La stessa fotografia professionale degli architetti e degli urbanisti, che infatti può stare in questa secondo modo d’intendere la fotografia, risponde quasi sempre a precisi motivi di utilità: censimenti e descrizioni di oggetti, edifici, luoghi, elenchi e confronto di casi, memorizzazioni, appunti, misurazioni speditive. Molti dei testi che parlano dell’uso della fotografia nella progettazione architettonica e urbanistica ne danno una lettura riduttiva di questo tipo, una lettura strumentale, fino a considerarla nel suo ruolo di documento visivo per attività specialistiche come il restauro degli edifici [Fanelli, 2009]. La prassi fotografica è costituita da un piano tecnico-materiale – nella fotografia analogica, la carta, i pigmenti, ecc.; in quella digitale, tutta la fase della post-produzione - e da un un piano descrittivo, costruito attraverso la scelta del punto di osservazione, l’inquadratura, la scelta del momento dello scatto, ecc. Diversamente dalla pittura, dove il pittore costruisce una immagine sul quadro bianco, il fotografo sceglie una immagine dalla realtà [Shore, 2009]. Questo non significa che quel che si vede nella fotografia sia la realtà in quanto tale. E’ naturalmente un’interpretazione della realtà, visto che la soggettività del fotografo si esprime appunto – e in modo determinante – nella scelta del punto di vista da cui raffigurarla. Per giunta, non è affatto detto che il fotografo si accorga di tutto ciò che compare – potremmo dire che esiste? - nella sua inquadratura, dato che alcuni particolari e alcuni significati possono prescindere dalla sua volontà. La lettura che ne fa il fruitore ha una importanza determinante: il piano mentale di noi osservatori, che vediamo e ci emozioniamo-riflettiamo su ciò che vediamo, può aggiungere significati. Una foto può vivere di combinazioni diverse di questi piani, ad esempio può avere un profondo piano descrittivo e un limitato piano mentale, o al contrario predeterminare al minimo l’impressione dell’osservatore, che è libero di allargarla sconfinatamente. In questo studio si considera la fotografia non in senso documentario o puramente descrittivo del paesaggio, ma soprattutto nella sua funzione interpretativa, cercando anzi di sottolinearne al massimo l’efficacia e gli effetti possibili sul pubblico e sul sistema di persone e soggetti in cui maturano le decisioni progettuali sulla città. La funzione documentativa della fotografia è particolarmente legata alle immagini fotografiche esistenti negli archivi, siano essi pubblici o privati, e in questo secondo caso sia aziendali che familiari. Si tratta spesso di immagini prodotte con finalità diverse da quelle con cui vengono successivamente interpretate e utilizzate al momento in cui vengono riscoperte e sottratte al loro silenzio. Da documento che erano, esse diventano senz’altro strumento di indagine sul reale, e in questo caso è molto evidente che il piano mentale di chi osserva è talmente predominante da sopraffare e cancellare quello descrittivo che ha guidato all’origine lo scatto. Il rapporto tra la fotografia e i mutamenti del territorio avvenuti 26 nel passaggio dalla fase industriale a quella postindustriale sono stati spesso indagati attraverso esempi di committenza pubblica, considerata nella sua funzione di motore per la progettualità dei fotografi e la trasformazione dei linguaggi. Le istituzioni pubbliche che hanno affidato incarichi di survey fotografico per ragioni legate alla necessità di conoscenza di determinati fenomeni sul territorio, hanno dato risalto alla possibile natura documentaria della fotografia, richiedendo ai fotografi un documento visivo in grado di misurare, più che di rappresentare o interpretare. I fenomeni oggetto di queste campagne venivano registrati, come se il mezzo fotografico consistesse soltanto in una operazione tecnica, priva di ogni soggettività. Difficilmente queste fotografie, anche se viste nella loro consistenza finale più tipica, quella della serie, del mucchio, possono dare ispirazioni di tipo progettuale, ideativo, salvo per quanto attiene alle questioni quantitative, numeriche che esse per natura possono benissimo riportare. L’interesse crescente dell’urbanistica per la descrizione è percepibile anche nella legislazione promulgata nell’ultimo decennio da Regioni come l’Emilia-Romagna, la Toscana, la Liguria. Viene codificata l’indispensabilità del quadro conoscitivo come condizione di partenza per il piano urbanistico, a qualsiasi livello territoriale, comunale come provinciale e regionale. E’ un fatto importante, che si sia data importanza alle fonti visive. E’ importante che si riconosca che a le fonti influenzano gli sviluppi del ragionamento, se cambiano le fonti cambia l’approccio, e dunque cambia per conseguenza il progetto. La fotografia documenta le forme del territorio. Zannier puntualizza bene entro quali limiti si può parlare di fotografia documentaria. Documento è “termine non certo inteso nel suo valore limitativo; documentare significa aderire alla realtà, attraverso la verità dei propri sentimenti e di una intuizione visiva suggerita dalla esteriorità dei fatti. Un documento presume sempre un’interpretazione; anzi esso sarà tanto più valido e genuino e credibile, quanto più sarà il frutto di una intelligente e sensibile interpretazione. Documentare non significa quindi riprodurre, ma semmai rappresentare, con stimoli culturali necessariamente soggettivi e potenzialmente espressivi” [Zannier, 1969]. Ciò nonostante, quando siano prodotte sulla base di richieste orientate alla pura catalogazione, molte foto di architettura si riducono ad essere delle “fototessera”, come lo è il ritratto del portatore della carta d’identità: si tratta in questo caso di una riduzione della fotografia a una funzione puramente artigianale, priva di ogni problematica culturale. In molti casi, soprattutto dagli anni Settanta ad oggi, i fotografi si sono comportati come autori, alla stregua di ogni altro artista, proponendo con le loro opere delle rappresentazioni del paesaggio, dove la soggettività connessa alla propria cultura e alla propria ideologia ha uno spazio pressoché assoluto. In questo caso la fotografia può entrare come le altre arti nella determinazione del sentimento collettivo dei luoghi, realizzando immagini di alto valore simbolico. La funzione rappresentativa tende tuttavia a presentare la realtà dei luoghi in modo deformato, attraverso codici retorici di tipo drammatico o sublime, caricando certe componenti e certi aspetti e cancellandone o mettendone in ombra altri, in una modalità di tipo teatrale. 23. Lewis Baltz, Tract House, # 4, 1971 27 Il tipo di approccio che sembra più produttivo per istituire relazioni tra la fotografia e le discipline del territorio è quello di tipo interpretativo. Secondo questo stile, il fotografo prima di scattare si dota di strumenti conoscitivi sui luoghi, effettua sopralluoghi, dialoga con esperti delle altre discipline, possibilmente torna più volte e in momenti diversi ad accostarsi agli oggetti da riprendere. La metafora che si lega meglio a questo modo di procedere è quella dello sguardo lento [Basilico, 2007] e il prodotto di questo modo di operare è quello più efficace e produttivo non solo per le finalità di conoscenza degli oggetti e dei luoghi, ma anche per lo sviluppo delle riflessioni di tipo progettuale e trasformativo, poiché molto spesso le fotografie così realizzate restituiscono all’osservatore la dose di informazioni – rielaborate – che hanno preparato e preceduto lo scatto. Quanto al lavoro dei fotografi sul paesaggio, l’americano Lewis Baltz sostiene che essi, “osservando la realtà producono figure e traducono il mondo in immagini attraverso un codice di rappresentazione. Lavorano dunque alla rifondazione estetica di un paesaggio esteticamente povero, sconnesso, incoerente” [Valtorta, 2005]. Questo passo contiene in nuce il concetto di fotografia progettuale cui sopra si è accennato. Baltz aggiunge anche la nozione di futuro come attinente allo sguardo fotografico (ponendosi agli antipodi del pensiero di Barthes), e naturalmente il futuro è l’elemento primario di ogni prassi progettuale. Scrive infatti che i fotografi “raccontano, con buon anticipo, una storia futura, individuando paesaggi-limite, oggi emblematici presagi di una crisi estrema del volto del mondo, domani forse immagini quotidiane. In questo caso, i fotografi più che documentatori della realtà sono visionari, inventori di nuove finzioni”. Se dunque nella pratica architettonica contemporanea, così come nel campo dell’analisi urbana, il mezzo fotografico in genere è relegato al rilievo del luogo, alla sua funzione utilitaria e prosaica, sembra invece interessante portare uno sguardo più approfondito sulla possibilità di fondare - o almeno promuovere - una pratica che consiste nel trascrivere in una immagine bidimensionale la percezione fisica che si può avere di uno spazio. Non è privo di implicazioni fondare una pratica di progetto sulla registrazione e la fabbricazione di una realtà attraverso un insieme di immagini fotografiche. Il modo come l’immagine fotografica può costituire la sorgente di una dinamica della fiction o di un principio di composizione merita considerazione, ed è appunto in questo campo che ci si vuole addentrare. Prima di farlo, ci sembra utile ricordare quali siano stati, nel Novecento, i sentimenti più comuni nella percezione della città, l’insieme di valori simbolici con cui la fotografia urbana si è confrontata. 28 2. IDEE DI CITTA’ DEL NOVECENTO 1. L’immagine della città contemporanea. Le città sono insediamenti umani estesi e fortemente popolati, ma soprattutto caratterizzati da un’alta densità di popolazione. Nella cultura europea una delle loro caratteristiche principali è la continuità dell’insediamento in quel sito, e dunque la presenza di un centro, per lo più storico. Di norma vi si concentra la maggior parte delle attività umane, praticamente tutte ad esclusione dell’agricoltura: abitazioni, industria, turismo, commercio, educazione, politica, cultura. Sono il luogo di sviluppo delle idee e dei conflitti, dell’incontro e dello scontro. Negli ultimi decenni, anche grazie a committenze pubbliche, le relazioni tra fotografia e architettura, paesaggio, urbanistica si sono intensificate. Ma come si valuta e si riconosce la qualità intrinseca delle immagini fotografiche in relazione alla cultura urbana e al suo sviluppo? Dal momento che la nostra cultura è sempre più audiovisuale, si può sostenere che esiste un’influenza della fotografia sull’urbanistica, così come per esempio la cultura cinematografica e la comunicazione hanno influenzato l’architettura? La descrizione visiva del fenomeno urbano è una costante che attraversa l’arte di tutti i secoli, ma certamente il mezzo fotografico, per la sua larga diffusione e riproducibilità è tra gli interpreti più incisivi dei caratteri delle città. Nelle fotografie non ci sono molte cose: per esempio non vediamo i confini amministrativi, non leggiamo il numero degli abitanti né i loro orientamenti politici, ma in compenso - se parliamo di fotografie d’autore, ma a volte anche nella inconsapevole precisione degli scatti anonimi o qualunque - sono presenti molte cose che non si possono trovare nei testi, nei grafici e nei disegni tecnici. In primo luogo la percezione del paesaggio, inteso come configurazione di spazi e volumi, ma anche come relazioni tra questi e le persone; in nuce, si possono cogliere anche delle indicazioni per il progetto urbano, per esempio attraverso la osservazione ravvicinata di pratiche spontanee che sono indizi di una domanda di trasformazione. Ma più in generale il germe del progetto può essere percepibile quando la fotografia è in grado di cogliere quel sentimento del futuro, della potenzialità del futuro, dello schiudersi costante di momenti nuovi e inattesi, che forse è il sentimento più tipico della città. Quando si occupa di paesaggio urbano, la fotografia porta il proprio cospicuo contributo a formare una coscienza collettiva della città, fornendo gli elementi visivi che dovranno combinarsi con le altre percezioni, odori, rumori, sensazioni di vario tipo, quelli che il geografo Eugenio Turri definiva gli iconemi della città contemporanea, “congegni della nostra rappresentazione logica e funzionale del paesaggio” [Turri, 2001]. Naturalmente essi sono in larga misura contenuti nel messaggio visivo consegnatoci dagli autori dell’opera (fotografia, nel caso che qui esaminiamo, ma ovviamente anche pittura, disegno, cinema, ecc.), ma almeno altrettanto dipendono dalla cultura e dalla sensibilità 29 dell’osservatore. La percezione della città come si è formata negli ultimi quattro decenni si basa su iconemi che provengono anche da molto lontano e si radicano nella cultura soprattutto europea. L’idea di città-Babele è tra le più antiche ma anche tra le più persistenti e contemporanee: “quando, nel testo della Bibbia, spunta un nome di città, esso vi risveglia in generale delle connotazioni malefiche: Sodoma, Gomorra, Ninive, Gerusalemme l’Infedele. Simbolizzata, nei profeti, da Babele/Babilonia, la città si contrappone a ciò che fu il paradiso” [Zumthor, 1998]. Secondo Maupassant, la torre Eiffel – che stava in quella fine del secolo diciannovesimo diventando il simbolo di Parigi e dell’intera Francia – si accostava proprio alla Torre di Babele, in un giudizio fortemente critico. Era come se gli altri monumenti di Parigi fossero umiliati dalla costruzione di quel mostro di ferro. Maupassant fu smentito dall’enorme e crescente successo dell’edificio, ed è noto che per non vederlo egli fosse costretto a frequentarlo molto spesso, pranzando al ristorante nella torre. Il carattere primario della città lo troviamo in tutte le epoche nel suo limite, sia quando esso è espresso nei confini - a loro volta definiti dalle mura - , sia quando – coma accade oggi – lamentiamo la sua perdita. Avere un centro riconoscibile e metaforicamente assimilabile al cuore, è l’altro elemento di tipicità della città europea. Il modello della megalopoli americana, New York, fa a pezzi questa concezione. Si perde per sempre la capacità figurale [Assunto, 1983] degli elementi della forma urbis classica. Come accade invece in modo ben evidente nella piazza del Campo di Siena, la cui planimetria raffigura il mantello della Misericordia, protettivo per tutta la comunità. Lo stesso significato simbolico ha l’insieme delle ruskiniane pietre di Venezia, con le forme di volta in volta aggraziate o stravaganti che secondo il teorico inglese esse assumono nelle principali architetture urbane. Leon Battista Alberti lodava la varietà tipica della scena urbana come il fondamento dell’armonia, secondo il detto latino varietas delectat. Su questo fondamento si basa l’estetica rinascimentale della città come opera d’arte, concetto ripreso in modi diversi ma 24. Olivo Barbieri, Italia in miniatura, 1998 30 affini da Cartesio, Bacone, Leibnitz, con i valori di geometria, tecnica e grazia. Al contrario, la varietà, per gran parte della sensibilità contemporanea, si lega a idee di conflitto, instabilità, non più di integrazione e piacevolezza. Il funzionalismo, secondo alcuni teorici della città bella [Cervellati, 2000; Romano, 2008] è colpevole di questo distacco tra forma e funzione, che nemmeno le rinnovate letture iconiche nella seconda parte del Novecento (di Lynch e Cullen, ad esempio) hanno saputo ricomporre adeguatamente. Tanto è vero che Jane Jacobs, nel suo celeberrimo Vita e morte delle grandi città, la cui prima edizione è del 1961, certificò la morte della città come opera d’arte di derivazione rinascimentale. Non diversamente, in un suo celebre libro del 1965, Il feticcio urbano, Alexander Mitscherlich si faceva tardo interprete del tramonto della città moderna e delle sue concezioni, parlando di una città inabitabile istigatrice di discordia (come recita il sottotitolo). L’agglomerazione, la moltitudine che è la protagonista de La ribellione delle masse del filosofo spagnolo Ortega y Gasset, abita la megalopoli meccanizzata, standardizzata, completamente disumanizzata descritta da Lewis Mumford nei capitoli finali del suo La città nella storia (l’edizione italiana è del 1964). Insomma, il meccanismo della città moderna ha distrutto l’anima della città antica, secondo le rispettive definizioni di Le Corbusier e di Rilke che Assunto riprende accentuando un po’ forzatamente i significati oppositivi di concetti nati autonomamente l’uno dall’altro. 25. Luigi Ghirri, Fidenza, 1985 26. Luigi Ghirri, Parma, 1984 2. Endell e la bellezza della metropoli. Eppure è ricco, sin dagli inizi del secolo XX, il filone di valorizzazione della metropoli e della sua bellezza, nei disegni di Antonio Sant’Elia e di Eugene Henard, nei film di Fritz Lang, negli scritti di alcuni filosofi. Tra questi, August Endell (1871-1925), architetto e teorico tedesco, noto soprattutto come autore dell’atelier fotografico “Elvira”, realizzato a Monaco nel 1898 e successivamente andato distrutto. L’edificio è stato il manifesto delle teorie dell’autore, uno dei più noti architetti dello Jugendstil, che deve molta della sua fama all’acuto disprezzo che Adolf Hitler gli portava. Nel 1908 Endell scrisse un libro, Bellezza della metropoli, che esalta il paesaggio urbano contemporaneo come immagine della vita nel presente, contrapposta alle fughe idealistiche verso il passato. Endell sostiene che l’amore appassionato per la propria epoca e la propria terra è l’unico fondamento di ogni Kultur, poiché quanto più l’uomo vive il suo tempo e partecipa in modo totale e convinto alle attività del suo paese, tanto maggiore sarà il suo sentimento della patria. Su questa idea di fondo costruisce un’epopea della vita nella collettività urbana, considerata bella proprio perché viene equiparata essa stessa a un essere che lavora. Un’estetica del lavoro che nobilita lo spazio fisico entro il quale il lavoro si svolge. La posizione di Endell non consiste nel giustificare ad ogni costo e contro ogni evidenza anche i difetti della vita urbana. Egli arriva a riconoscere che “la metropoli raccoglie in un orrido caos, a disprezzo di ogni buon sentimento, una squallida ricerca del piacere, un fretta nevrotica”, e che si può disprezzare “la bruttezza della città, i suoi rumori, la sua sporcizia, le sue buie case, la sua aria pesante e malsana” [Endell, 1908]. Queste parole ci mostrano in fondo come le argomentazioni odierne degli anti-urbanisti siano princìpi ribaditi quasi identici 31 da quasi un secolo, e dunque non sono teorie particolarmente innovative. Ma non è questo il carattere più sorprendente delle argomentazioni di Endell, quanto ciò che ne fa seguire: “Si può certo ritenere un traguardo degno di sforzo cancellare le città dalla faccia della terra. Ma esse ora esistono e devono esistere, a meno che non si voglia distruggere tutta la nostra economia. Centinaia di migliaia di persone devono vivere nelle città, e invece che inculcare loro una malsana e disperata nostalgia, sarebbe più saggio insegnare ad osservare realmente le città, per attingervi più forza e più gioia che sia possibile”. Ciò che caratterizza e rende originale – e molto attuale - il punto di vista di Endell e lo differenzia dalle molte critiche all’ambiente urbano di origine engelsiana e marxista (giunte di fatto quasi indenni fino ai nostri giorni, nelle interpretazioni della sinistra radicale), è proprio questo invito ad agire sulla comunicazione dei valori positivi che pure esistono nella città contemporanea, facendone un antidoto alla lamentazione sterile e piagnona, e come spinta verso una visione positiva, di miglioramento. Questa “educazione alla percezione”, di tipo provocatorio ma originale, attraversa tutto il secolo, transitando una ventina di anni dopo nel sentimento delle immagini di città che Walter Benjamin descrive negli anni dal 1925 al 1930. E di qui viene fino a noi, mantenendo intatto il desiderio di ricerca, di curiosità che anima tuttora chi crede nella forza creativa e antagonista di valori come l’instabilità, la dissonanza, la frammentarietà. E’ una modalità percettiva dei caratteri urbani che raggiunge fotografi come Luigi Ghirri, in modo diretto e attraverso la conoscenza che Ghirri ha della fotografia del Novecento. La fotografia è naturalmente portata a raccogliere il testimone della sfida endelliana, proprio perché tutto ciò che sta dentro una fotografia assume un valore estetico, viene sacralizzato, è idoneo a fare da commento visivo alla convinzione espressa da Benjamin che ogni città è bella. Proprio in quanto esiste, e solo per questo. Se prendiamo le immagini di città descritte da Benjamin, troviamo molti elementi che restano validi anche più di ottanta anni dopo, nonostante le enormi trasformazioni tecniche e sociali. La stazione come luogo dove la città inizia ad offrirsi, le insegne luminose... ma soprattutto i cento confini e la loro mutevolezza, le variabili relazioni tra centro e periferia, che ancora oggi si sentono, si vivono e non si comprendono quasi affatto. I bambini e i ragazzi da osservare come modo per introdursi in una città, i mendicanti, e ovviamente i luoghi principali, i musei e il giardino zoologico, i monumenti, i mercati, ma anche i colori e i rumori, e ancor di più quel sentimento così tipico di Benjamin, il sentimento del futuro, della potenzialità del futuro, dello schiudersi costante di momenti nuovi e inattesi, che forse è il sentimento più tipico della città [Benjamin, 2007]. 3. Catastrofe o fiducia. C’è qualcosa però che nel corso di alcuni decenni capovolge radicalmente questi sentimenti affettuosi e ottimistici nei confronti della città. La catastrofe bellica spinge a una frettolosa e impulsiva ricostruzione, che porta in sé tracce evidenti di questa affezione. Ma le cose stanno cambiando, come spiega lo storico inglese Arnold Joseph Toynbee nel suo Cities on the move [Toynbee, 1972], 32 la cui edizione originale, del 1970, esce proprio negli anni cruciali del passaggio alla post-modernità. Il movimento che cita Toynbee nel titolo del libro sarebbe secondo l’autore la caratteristica con cui le città nel dopoguerra cominciano a occupare il territorio (una specie di prefigurazione precoce dello sprawl urbano di cui tanto si è parlato negli anni successivi). Questo muoversi delle città sarebbe apparso impensabile alla fine del Settecento, nell’età pre-industriale. Toynbee lo considera come una sorta di ripresa del nomadismo, tre o quattromila anni dopo le orde dei pastori in marcia descritte nel vecchio Testamento e distrutte dalle popolazioni sedentarie. Una ripresa che caratterizza le città dall’Ottocento in poi, nello sbigottimento dei suoi abitanti, increduli al vedere la città mettersi in marcia come lo shakespeariano bosco di Dunsinane, e sconfinare oltre le proprie mura di cinta. Le città diventano mobili, anche se ciò sembra ancor più paradossale perché avviene grazie al proliferare di quelli che da sempre vengono chiamati al contrario beni immobili. Avvenimenti epocali che Toynbee già allora riconosce come frutto dello sviluppo scientifico delle tecnologie mediche e agricole. L’umanità si consegna alla città-mondo perché l’esplosione demografica conseguente alla maggiore speranza di vita per le migliori condizioni alimentari e sanitarie è una questione inarrestabile e necessaria, a dispetto di tutte le conseguenze che può causare sul piano del consumo di risorse vitali: non è possibile regredire a forme di vita precedenti alla meccanizzazione della società se non a prezzo di un genocidio, perché il sistema economico arcaico non potrebbe mantenere che una piccolissima porzione di esseri umani. Logicamente questa posizione appare oggi largamente superata dalle teorie ecologiche e dai protocolli ambientali e per la biodiversità, nonché da considerazioni ovvie sul disequilibrio geografico e sociale dello sviluppo portato dagli eccessi deregolativi delle società consumiste e liberiste. E’ però interessante notare la stretta connessione tra benessere e sviluppo inteso in termini di consumo di suolo, che è un fattore di scala mondiale e di portata storica, spesso minimizzato o ignorato da interpretazioni anche 27. Vittore Fossati, Cattolica, 2003 33 28. Luigi Ghirri, dalla serie “Paesaggio, immagine e realtà”, 1981 34 recenti di tipo radicalmente ambientalista o conservatore. Manhattan diventa la capitale del ventesimo secolo, come Parigi lo è stata del diciannovesimo. Se Walter Benjamin è stato il cantore di Parigi, il teorico del manhattanismo è ovviamente Rem Koolhaas, che nel suo Delirious New York indica nella iperdensità lo splendore e la miseria della condizione metropolitana, e nella cultura della congestione l’ideologia urbana che ne deriva. Con una intuizione da storico, Koolhaas ha capito che “Manhattan è stata dal 1890 al 1940 il luogo di un’operazione che merita di essere definita d’avanguardia, ma che doveva trovar modo di compiersi per tutt’altra via rispetto a quelle aperte dalle avanguardie europee: a cominciare dal fatto che quest’opera non implicava né l’esistenza di un’avanguardia consapevole e organizzata né la pubblicazione di alcun manifesto collettivo” [Damisch, 1998]. Era la città stessa che, semplicemente crescendo, si imponeva all’immaginario collettivo di un intero secolo e di tutto il mondo, cristallizzando l’idea di modernità nelle sue forme. Selvagge, sublimi ed atroci, secondo le parole che usò nel 1935 un Le Corbusier sconcertato e forse perfino irritato di non trovare conferma, in questa città, del suo dogma secondo cui non poteva esistere una nuova architettura senza una nuova urbanistica: ecco che nel reticolo rigido disegnato da Olmsted, qui trasferito senza modificare affatto gli schemi tardo antichi, si era sviluppata la titanica mineralogia del grattacielo. Congestione, bigness, labirinto, cancellazione della natura: i caratteri salienti del paesaggio urbano moderno – tra cui anche un tocco di narcisismo, il narcisismo della città che osserva le sue forme riflettendosi nelle pareti a specchio dei suoi grattacieli - provengono da Manhattan e si trasferiscono oggi senza grandi variazioni nelle megacittà asiatiche ed africane. Secondo il filosofo tedesco Georg Simmel (1858-1918), l’anonimato della metropoli è un mezzo per liberare lo spirito, e questa è una tipicità della tradizione culturale europea, mentre al contrario quella americana che si sviluppa negli anni sessanta considera la città grande come un cancro che attacca addirittura la struttura sociale. Mumford, già nel 1938, con la prima edizione di Culture of Cities, parla di inferno, veleno, gigantismo informe. Come alternativa al disagio delle metropoli, viene indicata la città policentrica, propugnata in modi diversi da Frank Lloyd Wright, Ebenezer Howard, Patrick Geddes. Sono teorie che arrivano fino ai giorni nostri, e calano direttamente dentro i piani territoriali regionali, come ad esempio quello dell’Emilia-Romagna della metà degli anni Ottanta che propugna la città policentrica della via Emilia. Anche per questa via istituzionale, la città policentrica diventa un soggetto privilegiato della fotografia, che ne svela appunto i caratteri variati e in sostanza infiniti: case isolate, centri storici, sobborghi e periferie amorfe, new towns, villaggi sperduti nella campagna sono facce diverse che compongono un oggetto disperso dai confini indefinibili e soprattutto privo ancora di una iconografia, che i fotografi iniziano a formare e che viene poi interpretata in modi anche opposti dalla cultura urbanistica: come modello originale e per certi versi virtuoso di città-regione in grado di lasciar libero da eccessiva densità il territorio rurale, o al contrario come informe prodotto di un sistema di pianificazione debole e privo di regole rigide. 35 La linea di pensiero che approda oggi alla città bella e ordinata ha radici che vanno indietro almeno trecento anni: la metafora cartesiana contenuta nel Discorso sul metodo, indica la città come immagine della chiarezza del pensiero, e soprattutto degli effetti virtuosi del pensare di testa propria : le costruzioni pensate e compiute da uno stesso architetto sono di solito più belle e ordinate di quelle che provengono da successivi riadattamenti di costruzioni precedenti. Le vecchie città ingrandite progressivamente presentano un aspetto peggiore di quelle che un bravo ingegnere ha ordinato a suo piacimento in una pianura. Ma a fianco del rigore e della chiarezza cartesiani convivono nell’immaginario occidentale anche ben altre sensibilità, come quella dell’incompiutezza, un altro paradigma che è sopravvissuto fino alla modernità derivando dal mito della torre di Babele [Zumthor, 1998]. Babele – di cui Manhattan non è altro che la versione orizzontale – è un crogiolo di lingue, è la quintessenza della confusione, è una città mai finita, incompiuta ma mai interrotta. Il racconto babelico conosce solo personaggi collettivi, senza nomi propri, e dunque appare meno insistente e drammatico, ma forse proprio per questo è più persistente e ossessivo, e radicato nell’immaginario. 4. Dalla dispersione alla sparizione. Alcuni studi avanzano interpretazioni che prefigurano scenari futuri in quanto ragionevoli concatenazioni con il passato più o meno recente. Formulano delle idee di città, anche verificandole con il lessico politico-amministrativo usato nei programmi elettorali dei sindaci e nei progetti preliminari dei piani strategici. L’idea di città-padrona [Fratini, 2000] si basa su concetti come la grande quantità, la grande dimensione, la concentrazione del potere economico, reso evidente anche visivamente dallo skyline, costellato di emergenze in altezza, l’una a superare l’altra. E’ chiaro che questa idea si è concretizzata nel secondo Novecento soprattutto in New York. La città padrona contrappone il centro (city) alla periferia (banlieue). E’ la versione moderna della Babele antica, la sua scenografia tipica è la dimensione monumentale, è la città globale perennemente affannata dalla congestione del traffico, una “massa captante” con un carattere fortemente monocentrico. Ma gli anni del Novecento sono stati attraversati anche dall’idea della città della tecnologia, non solo nel senso della macchina ma delle macchine (gli ascensori, ad esempio), il luogo-simbolo del progresso che avanza e si esprime con le plug-in city degli anni ‘60, le città semoventi di tanta architettura radicale, la città-ponte che Arata Isozaki disegnò negli anni ‘60. La città tecnologica è una machine à habiter, un sistema intelligente che tutto sa e tutto padroneggia, e prende corpo soprattutto nelle città asiatiche e mediorientali. C’è poi la città degli individualismi, una metafora di pietra e cemento della frammentazione esistenziale contemporanea, altrimenti detta città diffusa, l’effetto più tipico della cultura automobilistica che consente gli spostamenti quotidiani e favorisce il sorgere di sterminate edificazioni monofamiliari, alla ricerca di prezzi dei terreni più bassi e convenienti. Il sociologo e urbanista americano Melvin Webber studiò questa conurbazione 36 29. Louis Gauffier (1762-1801), Paesaggio di tetti, Montpellier, Musée Fabre 30. Edward Hopper, Tetti, 1926 estesa, definendola urban realm già negli anni ‘60, descrivendo il consumo di suolo e i relativi problemi ecologici e riferendosi alla città di Los Angeles. Anche Gottmann mise Los Angeles nel novero delle sue megalopoli, la cui capostipite fu la conurbazione del nord-est degli Stati Uniti, osservata già a metà degli anni ‘50, e seguita poi da quella dei grandi laghi intorno a Detroit e da quella giapponese Osaka-Tokyo-Kobe. Questi scenari urbani, osservati con spirito critico, se non decisamente negativo, trovano anche modelli di segno opposto, più amichevoli, ad esempio la città dei cittadini, già descritta nel 1975 da Roberto Guiducci e antesignana di molte delle nozioni attualmente tornate al centro del dibattito sulle città, come la partecipazione, la sostenibilità, e perfino la sobrietà. E’ la città dei cittadini, basata su concetti come l’identità locale, la misura d’uomo, la città da abitare, un modello che forse resta più spesso tale di quanto non si concretizzi, ma che indubbiamente si pone oggi sempre più spesso come obiettivo delle azioni di governo urbano. La negazione di qualunque idea di città sembra essere il concetto di tracce di città, connesso alla diffusione urbana nel territorio rurale, un concetto che come vedremo affascina molto i fotografi post-moderni. E che deve essere relazionato con l’insorgere della tematica dell’area metropolitana, estraneo alla cultura italiana fino alla tardiva definizione operata con la legge del 1990. Restano infatti a lungo molto rari i riflessi metropolitani negli scritti dei geografi, salvo l’importante ma isolato caso di Lucio Gambi nella Storia d’Italia einaudiana. E’ molto recente la convinzione di “partire dalla volontà di non osservare i recenti fenomeni di trasformazione del territorio come una non-città, una non-cosa, ma piuttosto un’altra cosa, una città ‘altra’” [Munarin-Tosi, 2001]. Si potrebbe parlare di “territori abitati, regioni entro le quali da lungo tempo si danno fenomeni insediativi non riconducibili all’immagine tradizionale della città (almeno così come questa si è andata depositando nell’immaginario collettivo)”. L’area metropolitana a sua volta è una precisazione del termine 31. Michele Buda, Milano Marittima, Grattacielo, 2005 37 “metropoli”, esteso appunto sul territorio; mentre la metropoli conserva il carattere tradizionale di città, l’area metropolitana costituisce un insieme spaziale dove l’antica distinzione tra città e campagna, con le relative differenze sociali, culturali e paesaggistiche, si scioglie in una diffusione urbana omogenea. La diffusa difficoltà a cogliere e comprendere unitariamente la città ha portato – ormai già da oltre un decennio – a un diffuso ricorso alle discipline “di confine”, non racchiuse nei propri ambiti tecnici ma più libere di spaziare, per esempio gli scrittori, “ritenuti capaci di sintesi pre-scientifiche” e, occorre aggiungere, i fotografi [Amendola, 1997]. Questo ha spostato per ovvia conseguenza la descrizione dalla struttura urbana, il cui studio è per l’appunto dominio delle materie della città come l’urbanistica, la geografia, la sociologia, l’antropologia, alla esperienza urbana, obiettivo per il cui raggiungimento scrittori, fotografi, registi ed artisti sono sicuramente più attrezzati. Altra conseguenza è indubbiamente la minore capacità di descrivere l’ambiente urbano in modo unitario, e invece la frammentazione in interpretazioni frammentarie, episodiche, come sono le percezioni e le emozioni soggettive. Anche le mitologie urbane si sono nel frattempo adeguate. L’ideale riferimento antico della città frammentaria è la villa Adriana di Tivoli, un insieme di architetture difformi e giustapposte in una sintesi affascinante ma anche mai ripetibile nello stesso modo. “La città fondata su logiche di centralità spaziali, simboliche e culturali cede il passo alla città-collage o alla città-bricolage. E’ l’avvento di quella che con una categoria desunta dall’epistemologia del pensiero debole potrebbe chiamarsi città debole.” Qual è dunque la “nuova città” che esce dalle trasformazioni post-moderne, e quali fenomeni ne caratterizzano lo spazio? Se prendiamo il punto di vista degli architetti, la città è lo spazio negoziale tra il progetto architettonico e la società [Ciorra-D’Annuntiis, 2000], e un modo per descriverne i caratteri è quello di osservare i più significativi progetti che vengono proposti per migliorarle. Per cogliere le situazioni di maggiore ricchezza e complessità è però opportuno guardare ai progetti che propongono una via di sovrapposizione e non di sostituzione dei tessuti costruiti, che stratificano su questi ultimi le loro proposte, come se fossero lamine poste una sopra l’altra in successione. Questo consente di tenere in debito conto il rapporto con l’ordinario che per forza di cose la città contemporanea ha instaurato e che deve continuare ad instaurare in modi sempre più vari e creativi. Progettando la città ideale occorre fare i conti con quella reale, prelevando da essa anche gli impulsi che essa invia, non tutti negativi per definizione. Tra questi il parassitismo architettonico, il riuso spontaneo, l’autoproduzione ai diversi livelli di scala, dall’oggetto d’uso, alla casa, e appunto agli spazi di uso pubblico, che sono proprio per le loro carenze conclamate luoghi dove la creatività si scatena nel riuso spontaneo, fino ai limiti dell’abusivismo, e a volte superandolo [Marini, 2008; Zanfi, 2008; Pario Perra, 2010]. Sono tutti temi che la fotografia è perfettamente in grado di indagare e che ha indagato di frequente e con successo. Non va dimenticato ovviamente il rapporto con la storia, certamente fondativo nel caso della città italiana ed europea, e ricordato fin da Ernesto Nathan Rogers come uno dei due riferimenti principali dell’architettura, insieme alla società. Sono 38 notissime le osservazioni sviluppate da Aldo Rossi sul ruolo del monumento nelle città [Rossi, 1966] e le riflessioni di Anthony Vidler sull’uncanny – il perturbante - e la nuova monumentalità che ne deriva, un nuovo sublime contemporaneo che si fonda su concetti opposti ai canoni dell’armonia e della continuità che hanno retto la forma urbis per secoli e secoli [Vidler, 2006]. 5. Varianti del gusto e nuovi valori. L’informe urbano di oggi si esprime secondo tre caratteri principali, la dissoluzione, la mescolanza, l’omogeneizzazione, che hanno sostituito quelli tipici della città storica, l’articolazione, la complessità, la stratificazione. Questo è uno degli esiti della sensibilità contemporanea, frammentata e priva di grandi ideologie unificanti. Anche il pittoresco ha una declinazione non più riferita a caratteri romantici e ottocenteschi, ma aggiornata: “...qualcosa di vivace e colorito, piacevolmente disordinato e irregolare, ma piuttosto un atteggiamento che ci porta ad accettare come valori positivi ciò che fino a ieri consideravamo come aspetti negativi della città contemporanea. L’eterogeneità, l’irregolarità, l’insolito, l’intrico, la varietà, la disarmonia, l’accostamento incongruo di pezzi diversi, il frammento, la dispersione, l’indeterminatezza, la materia grezza, i valori tattili, diventano qualità del pittoresco” [Zardini, 1996]. La ormai pressoché esclusiva urbanità del paesaggio è un fenomeno recente, ma registrato da tutti gli osservatori: “Che si ragioni in termini di città diffusa, di megalopoli padana, di rete policentrica, di sistemi urbani o di sistema metropolitano, la chiave di lettura dei processi di trasformazione dei paesaggi del Nord Italia sembra passare attraverso la progressiva estensione della dimensione urbana e della sua impronta culturale” [Società Geografica Italiana, 2010]. Questa pervasività dell’impronta urbana deve però essere interpretata all’interno di uno schema meno dicotomico di quello classico e ormai desueto città-campagna, ed evolvere invece in direzione di una possibile trasformazione dei modelli urbani da parte dei modelli rurali. Una “coevoluzione fra i due mondi”, provocata dalla spinta delle teorie dello sviluppo sostenibile e dalla loro applicazione nel campo del verde urbano, dell’agricoltura urbana, e dalla diffusione di progetti innovativi e prototipici come quello newyorkese della Greenway. Questa tendenza, che sta generando un nuovo paesaggio urbano fatto di hinterland urbanizzato e di core metropolitano verde, può già contare su una sua propria immagine fotografica? C’è un interessante concetto, espresso nelle pagine del Rapporto 2010 della SGI, quello della territorializzazione del paesaggio, che deriva dalla fine della distinzione tra ambiti paesaggistici d’eccellenza, monumenti, vedute straordinarie, ecc. e dall’altro, ambiti privi di interesse. Il successo crescente del concetto “Tutto è paesaggio” diffonde il paesaggio su tutto il territorio, e ne fa un bene di importanza non assoluta, ma espressa in relazione ai gusti, ai bisogni, alla storia e alla memoria degli abitanti. Da tempo il paesaggio non è più ciò che è visto da uno sguardo esterno, prima upper-class, poi grand-touristico, infine massturistico. Oggi il paesaggio è ciò che ognuno vede, e soprattutto ciò che l’abitante vede del suo proprio ambiente vissuto. 32. John Davies, Westgate, dalla serie The British Landscape, 1979-2005 33. Thomas Struth, Il Duomo di Milano 39 Possiamo prendere come paradigma della rappresentazione visiva della città contemporanea alcune foto scattate da Rem Koolhaas a Singapore e ad Atlanta, una sequenza di “un anonimo, plumbeo paesaggio urbano” [Mastrigli, 2006], attraversato con l’auto e posto a commento visivo del suo concetto di città generica. Scala mobile, aria condizionata e cartongesso sono gli elementi costitutivi dello spazio-spazzatura, e lo shopping non è più soltanto frenesia di consumare, ma una “autentica essenza della vita urbana”; un carattere che dalle città asiatiche si è ormai diffuso ovunque, così come l’aspirazione alla bigness, che nasce già nei tardi anni Venti con la fascinazione ispirata a Le Corbusier dal concetto russo di bolshoi – grande – applicato all’architettura in un senso di qualità. Nella fotografia del Ventesimo secolo la città appare densamente popolata e animata di lavoro, industria, e attività di ogni giorno. Strand e Weston raffiguravano questa frenesia, che però ora è comune alla maggior parte del mondo. Al contrario, oggi la rappresentazione della città è vuota e calma. Il banale della città è rappresentato così da fotografi come i canadesi Jeff Wall e Greg Girard, da Thomas Struth, e da molti altri. Questa inversione di significato nella rappresentazione della scena urbana è forse il segnale più evidente che ci ha lanciato la fotografia nel momento di passaggio dal moderno al post-moderno: la città-macchina è una metafora sorpassata, a cui possiamo ormai guardare con divertito disincanto. Le problematiche della città contemporanea maturano ed esplodono nel silenzio, dagli atti terroristici alle tensioni sociali ed etniche, dall’inquinamento ambientale allo spreco energetico. La frenesia ha lasciato il campo alla calma, una calma minacciosa e difficilmente interpretabile. 40 34. Robert Frank, Canal Street - New Orleans, 1958 35. Olivo Barbieri, New Delhi, 1999 3. ESPERIMENTI E DESCRIZIONI PRECOCI 1. Guardare la città. I molti esempi storici di committenza fotografica pubblica sulla vita urbana sono ricordati in sintesi da Giovanna Calvenzi [Sismicity 2010, pp. 28-30]. Iniziando da Jacob Riis, un fotografo di origine danese trasferitosi nel 1870 negli Stati Uniti. Riis indaga le condizioni di vita spaventose nelle quali vivevano a New York gli immigrati che arrivavano dall’Europa, scatta fotografie e le mostra nelle sue conferenze pubbliche, poi realizza il libro How the Other Half Lives: Studies Among the Tenements of New York, del 1890. Con il suo impegno persuade Theodore Roosevelt, all’epoca alto funzionario della polizia cittadina, a promuovere un vasto programma di riammodernamento, risanando o demolendo gli edifici e creando delle aree verdi. Questo è un esempio tra i più perfetti di quanto si deve intendere quando si parla di un uso progettuale della fotografia documentaria. Un altro autore americano, Lewis Hine, ci fornisce un modello altrettanto celebre. Tra fine Ottocento e inizio del Novecento, Hine fotografa il lavoro dei bambini nelle miniere, nelle fabbriche, per le strade, all’epoca consentito. Lo fa con occhio da sociologo riformista, e usa le sue foto in conferenze pubbliche che provocano una reazione tale da ottenere una legge che proibisce il lavoro minorile. Un episodio recente è il lavoro di Joel Sternfeld, che si è rivelato essere un esempio di straordinaria efficacia di comunicazione dell progetto della High Line di New York [Sternfeld, 2009], anche grazie alla già acquisita notorietà internazionale dell’autore. Le foto documentavano una realtà urbana che si voleva modificare, e anche in questo caso dunque la fotografia ha contribuito alla positiva evoluzione di un contesto urbano dequalificato. In confronto all’importanza di questi lavori ormai classici, bisogna riconoscere che c’è poca abitudine da parte degli enti pubblici del nostro paese a premettere una indagine fotografica ai progetti di rilevanza urbana e territoriale. Si potrebbe credere che deriva da poca convinzione nell’utilità di questo modo di procedere. Uno scetticismo che sembra ben espresso nelle parole di chi afferma che “nella fotografia per l’urbanistica c’è più fotografia che urbanistica” [Smargiassi, 2007], e che insomma per trovare fotografie che abbiano condizionato una scelta urbanistica bisogna faticare un bel po’. Scrive Smargiassi, in modo anche provocatorio: “Vorrei essere smentito, ma credo che nessuna delle immagini contenute in questo volume abbia davvero posto le premesse, o suggerito, o modificato, le scelte di chi ha il potere di decidere sugli assetti del territorio”. Per contrastare una interpretazione così riduttiva occorre trovare i casi a favore di quella contraria, cercando soprattutto in alcune regioni del nord Italia, Lombardia, Emilia-Romagna (ne parleremo diffusamente più avanti), Veneto, perché nel dopoguerra è da qui che ha preso avvio l’opera di fotografi e di organismi pubblici e privati dediti alla osservazione del paesaggio anche in termini critici e 36, 37, 38. Gordon Cullen, Townscape, 1961 41 interpretativi. Tra i casi di maggiore rilievo è una campagna voluta dalla Provincia di Milano, l’Archivio dello Spazio, che per dieci anni ha coinvolto un gruppo di cinquantotto fotografi che hanno documentato tutti i paesi della provincia: un lavoro straordinario, creativo, non solo di documentazione, che ha prodotto un archivio (oggi conservato al Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo), di oltre settemilaquattrocento fotografie. Un’importante opera di rilevamento. Cinquantotto fotografi hanno sottolineato realtà positive e incongruenze del paesaggio lombardo, ma è difficile dire se e quanto poi gli amministratori pubblici hanno tenuto conto di queste suggestioni e di questi suggerimenti, e la domanda di Smargiassi resta intatta, e forse anche rafforzata. Eppure, la fotografia possiede certamente in sé una capacità di sintesi simbolica molto alta, che sembra proprio ciò che serve per definire i caratteri della città. Questa è il risultato della costruzione fisica dello spazio urbano come insieme di luoghi in cui vivono gli abitanti, luoghi che cambiano di continuo e per questo si caricano di nuovi significati. D’altra parte la città è anche il riflesso della cultura degli abitanti, e dunque delle loro aspettative, dei loro miti collettivi, dei loro stili di vita. La città pietrifica dei sogni, delle idee. Il modo con cui ognuno di noi si mette in relazione con lo spazio in cui vive deve molto all’immagine mentale che ci siamo formati di esso. Lo spazio urbano è sia fisico che esistenziale, le due dimensioni sono interdipendenti e in continua relazione. La città mentale evolve insieme con la trasformazione della città fisica, in modi difficilmente preventivabili, ma di cui è necessario tener conto, perché ogni individuo, dopo le grandi trasformazioni urbanistiche, ha comunque bisogno di ritrovare un equilibrio, di riconoscere una continuità di senso che gli permetta di percepire e conoscere la nuova città senza esserne disorientato. Uno dei caratteri del post-moderno in campo architettonico è stato infatti la riscoperta del senso, e questo ha coinciso con un progressivo allontanamento dal funzionalismo: negli ultimi trent’anni molte teorie dell’urbanistica hanno posto al centro dell’attenzione l’utilizzatore: lo hanno fatto Aldo Rossi, Manfredo Tafuri, Vittorio Gregotti, Bernardo Secchi. A partire dagli anni Settanta l’urbanistica moderna è rimessa in discussione. Emergono nuove rappresentazioni della città, 39. Paolo Monti, Monteacuto Ragazza, 1969 42 in particolare nel campo delle scienze sociali, più sensibili agli spazi e ai riti della vita ordinaria. Negli ambienti professionali si sviluppa un’urbanistica ispirata da scelte culturali, non soltanto tecniche. Le lotte urbane di quegli anni, e l’emergere in senso più allargato di una nuova cultura delle città sono i più diretti generatori della nascita di concetti come lo spazio pubblico, definizione coniata ex-novo negli anni ‘80. E’ da allora che le pubbliche amministrazioni iniziano a mettere al centro della loro azione questo nuovo concetto, che non è soltanto una categoria di lettura, ma di azione, un paradigma dell’urbanizzazione degli spazi; almeno a livello teorico, mentre spesso le realizzazioni restano molto distanti dalle enunciazioni di principio. Strade e piazze sono portate al centro del progetto urbano; i piani di conservazione, che nascono in quegli anni, partono proprio dal paesaggio urbano nel suo complesso, e non più solo dai singoli monumenti. Spesso vengono pensati settori di viabilità protetta dal traffico automobilistico, per creare nuovamente le condizioni di un uso sociale dello spazio pubblico. Esempi celebri sono stati la pedonalizzazione del Marais a Parigi, in seguito la messa in valore delle ramblas a Barcellona, con effetti molto importanti anche nell’incremento del turismo metropolitano, mentre un rischio sempre presente è quello della museificazione dei quartieri turistici. Questi temi diventano via via sempre più centrali nel lavoro dei fotografi di paesaggio urbano, che in quegli anni prende a diversificarsi in varie accezioni, più vicine alle riflessioni disciplinari dell’urbanistica, uscendo dai canoni un po’ rigidi della raffigurazione della città per vedute, ancora molto legata alla tradizione pittorica classica. 2. Townscape, tra fotografia e disegno. L’“impatto visivo” della città, che Gordon Cullen per primo descrive nel suo libro del 1961, fa un uso largo e originale di analisi fotografiche direttamente finalizzate al progetto urbanistico. Il modo con cui Cullen intende la fotografia è però ancora di stampo positivista e ottocentesco: l’autore non esiste, o se esiste è l’urbanista, non il fotografo (e dunque non esiste l’autorefotografo). Cullen studia l’impatto visivo della città, cercando di elencarne gli elementi caratteristici, a partire da una definizione lapalissiana: “Se mi venisse chiesto di definire il termine townscape direi che un edificio è opera di architettura ma due edifici sono townscape, cioè paesaggio urbano”. Il suo obiettivo è di comprendere il fenomeno urbano, ma soprattutto di stabilire i principi di un’arte interpretativa che sia presupposto del progetto urbanistico, “ricorrendo a un linguaggio continuamente fluttuante tra descrizione e enunciazione di requisiti di progetto, riflessione personale e categorizzazione teorica” [Di Biagi, 2009]. Cullen è convinto che “è quasi interamente attraverso la vista che si percepisce l’ambiente”. La scena urbana è resa memorabile da un insieme di drammatici eventi visuali che costituiscono la sua ricchezza: “Quando si gira l’angolo la città comincia a rivelarsi, non al primo colpo d’occhio, ma a poco a poco”. Nel libro vengono elencate queste visioni seriali, registrate con fotografie e schizzi presi in città inglesi e francesi, grandi e piccole, mostrando le sequenze, le geometrie, i punti focali, le enclaves, i tagli, i livelli, i reticolati, i particolari, le deviazioni, gli arretramenti e le 40. Berenice Abbott, Broadway, El at Columbus Avenue and Broadway, 1935-39 ca 43 anticipazioni, e varie altre cose, in un elenco eterogeneo che ha comunque il merito di essere un catalogo visivo sistematico degli elementi costitutivi dello spazio urbano fatto attraverso la fotografia. E’ un uso molto creativo e comunicativo della fotografia, uno strumento di conoscenza e di riflessione utile per il progetto, anche se la fotografia è qui intesa non certo in modo autoriale, ma subalterno ai bisogni dell’urbanista. Se il progetto è un processo che si articola in tre fasi, parte dalla conoscenza, passa dal pensiero e si conclude in una decisione, le fotografie di cui fa uso Cullen coprono la prima e gran parte della seconda fase del processo progettuale. Questo è il motivo sostanziale per cui questo testo sembra essere ancora attuale - in un clima di rinnovato interesse per la dimensione sensoriale del fare urbanistica, posta in antitesi all’eccesso normativo-regolativo tipico di altre stagioni – pur essendo evidenti i rischi di elementarizzazione e riduzionismo a cui l’autore sottopone il paesaggio urbano, ed essendo datata di mezzo secolo l’immagine che ne viene data. Il townscape di Cullen era forse poco contemporaneo già ai suoi tempi, e un po’ understated: molti erano i riferimenti tratti dalla città storica e dalle sue regole formative, pochi – anche quando venivano esaminate questioni londinesi, quasi sempre riferite a spazi di piccole dimensioni e in ambiti urbani marginali – i casi di rango davvero metropolitano. 3. Geografi italiani. A pochi anni di distanza da Cullen (1975), in Italia, due geografi, Giorgio Bergami e Tonino Bettanini, ripartono più o meno da quel punto per estendere il procedimento dalla città al territorio nel suo complesso. Operano in un modo che visto oggi ci sembra un po’ meccanicistico, secondo lo stile duro e funzionalista degli anni Settanta, basandosi come al solito sull’interdisciplinarietà, e con una oscillazione continua nella scelta di campo. Viene da chiedersi, leggendo, se si sta parlando di fotografia o di geografia [Bergami e Bettanini, 1975]. Di fatto il libro parla molto di tecnica della fotografia, in modo manualistico. E di capacità di vedere in senso fotografico (questo è il titolo del secondo capitolo), per poi proporre un metodo di lettura del territorio (oggi diremmo sguardo sul paesaggio) molto didascalico, simile al lavoro che Paolo Monti stava svolgendo proprio allora per la Soprintendenza bolognese alle Gallerie sull’Appennino. Prova ne sia che sono riprodotte alcune di quelle immagini, scattate durante il censimento dei beni culturali della valle del Santerno, indicandole come esempi da seguire. Il volume propone un modo di inventariare un territorio organizzato per capitoli: natura, insediamenti e a architetture inseriti nel territorio, agricoltura, industrializzazione (da notare il termine, ancora legato a definire un fenomeno che è in corso in quegli anni), flora e fauna, l’uomo. C’è un paragrafo sulla foto aerea, uno sul territorio nei rotocalchi (le belle immagini), nelle riviste e nei libri di fotografia, nelle pubblicazioni scientifiche. C’è un riferimento, oltre che al lavoro bolognese, a quello toscano di Documentiamo Firenze e la Toscana, una inchiesta per immagini patrocinata in quegli anni dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze. Un capitolo, il quarto, è dedicato alla città. E’ abbastanza inusuale 44 41. Peter Cook e Colin Fournier, Kunsthouse Graz, 2000-2003 in quegli anni documentare non solo il centro storico e i beni culturali, ma anche la struttura fisico-organizzativa e sociale della città. Anche se poi il libro propone una visione ancora fondata sulla crisi del rapporto città-campagna portata dalla rivoluzione industriale, fortemente connotata dalla critica alla degradazione dell’ambiente e alla crescente domanda di beni rari come l’aria, l’acqua, il verde, in una concezione della città come “luogo che tutto fagocita, crea il bisogno di un fine-settimana, di un turismo di massa alla ricerca di ciò che la città stessa va distruggendo”. Retto da questa visione un po’ ingenua e acerba, citando modelli derivati dalla cultura politica del tempo (la controinformazione), il libro continua poi a dare indicazioni per inventariare, e qui diventa davvero identico agli scritti di Monti, che poi passeranno negli anni via via in tutti i piani e le analisi dei centri e degli insediamenti storici: la pianta della città (veduta aerea o panoramica), il centro storico, la vita pubblica, il tempo libero, le comunicazioni, la produzione, ecc., poi di nuovo la città nei rotocalchi, nelle riviste e nei libri di fotografia, nei libri di testo, nelle pubblicazioni scientifiche. Un capitolo è dedicato al quartiere, con una esemplificazione fotografica sui quartieri popolari di Genova che contiene le immagini di una mostra del 1969, realizzata come esperimento di socializzazione della conoscenza dell’assetto urbano della città. In generale, la ricerca è fortemente debitrice a una cultura antropologica ed etnografica, e contiene infatti indicazioni operative molto pragmatiche (che oggi ci sembrano ingenue nella loro ruvida spregiudicatezza): “E’ bene abituarsi il più possibile a scattare istantaneamente foto, anche se con il rischio di farle leggermente mosse o sfuocate. E’ preferibile una foto leggermente imperfetta, ma precisa, nel significato, ad un’immagine perfetta tecnicamente, ma vuota”. 42. Bernd e Hilla Becher, Eight Views, Haupstrasse 3, Birken, Germany, 1971 4. Approcci sociologici. I contatti stretti che in quegli anni la fotografia istituisce con l’urbanistica, la geografia, la sociologia e le scienze sociali trovano conferma nell’interesse per il mezzo fotografico di un famoso sociologo come Franco Ferrarotti, che in quegli stessi anni pubblica un testo con proprie fotografie disciplinari, fatte a partire dal 1968 in Brasile e poi in Unione Sovietica, Stati Uniti, Svizzera, America Latina, Ungheria e Mezzogiorno d’Italia [Ferrarotti, 1974]. L’autore osserva che i manuali di fotografia insegnano come fotografare, ma non perché. Si dice sorpreso dello scarso uso della fotografia nelle scienze sociali – salvo l’etnografia, l’etnologia e l’antropologia culturale – dove però essa è usata per documentare e far conoscere il diverso, il lontano, il primitivo, e dunque non tanto per aiutare una riflessione, che è un passo successivo, più raffinato e consapevole. Perché dunque, questo estraniamento tra fotografia e sociologia? Forse il sociologo, “ultimo venuto nel mondo pur vacillante dell’accademia, si condanna ad essere più accademico degli altri e si vieta quelle frivolezze che volentieri si perdonerebbero, come momenti di piacevole umanizzante relax agli accademici più stagionati”. Tra i rari esempi dell’uso della fotografia nelle scienze sociali, l’autore ricorda il libro Street life in London del 1877, di John Thomson e Adolphe Smith, con 36 fotografie di poveri londinesi, dove le immagini finalmente non mostrano strani usi e costumi 45 di popoli primitivi, ma i problemi e le anomalie di casa nostra. Ferrarotti – che osserva che “fotografare la povertà è difficile perché è difficile fotografare la mancanza di oggetti, il vuoto, la penuria” - pone questa indagine a capostipite di libri famosissimi come Let us Now Praise Famous Men, di James Agee. Mentre Jacob A.Riis, che nel 1870 sbarca a New York dalla Danimarca, è la premessa necessaria del lavoro successivo di Lewis W.Hine, Walker Evans, Dorothea Lange, Berenice Abbott e vari altri. Agee sembra credere che l’obiettivo fotografico batte l’occhio umano, che “vede meno rapidamente e meno fedelmente dell’obiettivo”, ed è “naturalmente, inevitabilmente selettivo”. Agee racconta la povertà, “vista da una certa distanza”. La questione della distanza è decisiva, nella fotografia di paesaggio: se sei vicino, e quanto, o lontano, e quanto, fino alla lontananza siderale della fotografia aerea. “La conoscenza esige crudeltà e qualche profanazione”, dice Ferrarotti parafrasando Agee. Il libro ricorda poi la Farm Security Administration americana, e la sua particolarità di far viaggiare il fotografo con uno scrittore (Evans e Margareth Bourke-White, per esempio), o con un economista (Dorothea Lange e Paul Taylor), secondo principii di multidisciplinarietà. C’è poi una notevole osservazione sull’ “infantile (faustiano?) tentativo di una presa eterna sul reale (all’attimo che fugge: <Fermati. Sei bello>)” che si associa spesso a un modo ingordo, sprovveduto e irriflessivo di fotografare, tipico del dilettante. 5. Il pop e il primato dell’immagine. Non c’è dubbio che a facilitare la relazione tra architettura e fotografia, tra città e fotografia sia stata dagli anni ‘50 in avanti la pop-art. Il pop in architettura, i cui maggiori ispiratori sono stati Alison e Peter Smithson e Reyner Banham, sottolineava i caratteri low-cost e massificati dell’architettura, il suo essere sexy e glamour, giovane e velocemente transeunte. La fotografia, per la sua facile riproducibilità, la sua diffusione di massa, la sua (presunta) facilità di comprensione, era lo strumento più adatto a diffondere la cultura pop nella raffigurazione della città e dell’architettura. La forma architettonica non è più soltanto ciò che consegue alla funzione, come voleva il funzionalismo ante-guerra, ma costituisce un’immagine, e questa è in larga misura la novità portata, insieme, dalla cultura pop e dalla fotografia, in modo coincidente. Molti edifici contemporanei sono diventati soprattutto - se non quasi esclusivamente - icone e segni, simboli per attrarre le masse non attraverso un programma di funzionamento e di contenuti, ma attraverso sensazioni. Ciò provoca nel pubblico un’esperienza spaziale completamente differente rispetto al passato [Konrad, 2008]. C’è un grande rilievo delle immagini nella cultura pop, e in particolare nell’architettura pop, e per questo la fotografia è uscita ingigantita dalla diffusione di questa cultura negli ultimi decenni, e dalla preponderante considerazione iconica dell’architettura. La semiotica degli spazi, architettonici e urbani, oggi pone al centro del significato l’icona, l’oggetto architettonico solitario e scultoreo, che funziona come un’attrazione di massa. L’icona ovviamente ha molto a che fare con l’uso dell’edificio come marchio, come brand di imprese, società, companies. La produzione di immagini è molto incentivata da questa preponderanza della dimensione iconica 46 43. Ugo Mulas, Dormitorio pubblico, 1973 dell’architettura e del paesaggio urbano, e a sua volta la rinforza, la propaga incessantemente, generando figure memorabili del nostro ambiente sociale. L’architettura iconica è capace, in questo senso, di produrre molteplici identità per le masse. Da questo punto di vista, la Torre Eiffel è il prototipo. Oggi altre architetture super-iconiche sono il Museo Guggenheim di NYC e quello di Bilbao, e la più recente Elbphilarmonie di Herzog & De Meuron ad Amburgo. Questi edifici spesso hanno dei soprannomi, a dimostrare la loro popolarità: la Schwangere Auster, l’ostrica incinta, è la Congress Hall di Berlino, il Friendly Alien, l’amichevole alieno, è la Kunsthaus di Graz di Peter Cook & Colin Fournier, il Bird’s Nest, il nido d’uccello, è lo stadio olimpico di Pechino di H&DM, The Cloud, la nuvola, è il Padiglione Expo a Yverdon-lesBains di Diller & Scofidio. Tutti questi edifici hanno provocato milioni di fotografie, e sono stati promossi da fotografie. Il nesso tra la fotografia e lo sviluppo dell’architettura (e della città) pop è evidente, ed è questo uno dei fattori per cui città e fotografia nel secondo dopoguerra hanno avviato una relazione così promettente e di successo. 44. Mario Giacomelli, Marche, 1978 6.Riflessi (sbiaditi) della città. L’avvicinamento dei processi concettuali di arte e architettura è un carattere della città contemporanea, dove l’arte pubblica esercita una funzione critica molto precisa ed efficace, forse proprio perché riscatta con una vivacità antagonistica la sua forzata esclusione dai processi di pianificazione, a cui da sempre la condanna la cultura urbanistica pubblica. Come parte dell’arte pubblica la fotografia entra così a discutere della città contemporanea. Ma perché poi la fotografia è così capace? Perché, soprattutto, ne è così capace la fotografia d’autore, proprio quando i nostri tempi ci forniscono tanti strumenti capaci di commentare i paesaggi urbani, come i videoclip, le simulazioni dei videogiochi, le telecamere a circuito chiuso sparse negli ipermercati e in tutta la città? Per la sua fissità. Francesco Jodice, uno dei più attivi e affermati fotografi italiani della generazione di mezzo, sostiene che la fissità delle fotografie ci costringe a un confronto, mentre le storie proiettate scivolano via dallo schermo e dalla nostra memoria. C’è nella fotografia una insistenza che nessun altro mezzo è capace di perseguire. Dopo una lunga fase in cui la fotografia era rimasta al di fuori della considerazione di pratica artistica, gli anni Settanta segnano un cambiamento decisivo di prospettiva. In Italia questo processo si nota pienamente alla fine del decennio. Il 1979 è stato un anno importante per la crescita della fotografia italiana. La mostra Venezia 79. La fotografia fu una grande kermesse di 22 workshop e 20 mostre in prestigiose sedi, dal Museo Correr alle sale della Biennale, dedicate a fornire un panorama completo della storia della fotografia, dall’Ottocento al contemporaneo. Il 1979 fu anche l’anno del primo convegno, svoltosi a Modena, sulla fotografia come bene culturale. E in quello stesso anno Franco Vaccari pubblicò Fotografia e inconscio tecnologico, presso Punto e virgola, la casa editrice fondata da Luigi Ghirri. Il libro di Vaccari è tra quelli che contribuirono a far superare il concetto esistenzialistico del “momento decisivo” di derivazione bressoniana, radicatosi così a fondo nella cultura fotografica del 47 dopoguerra, secondo il quale il fotografo padroneggia in modo del tutto logico la macchina, piegandola alla sua visione e lasciandole il semplice ruolo di strumento meccanico. Il fotografo è colui che si trova nel punto giusto al momento giusto, questa è la sua abilità, se non la sua arte. Vaccari espropria in larga misura il fotografo di questo carattere quasi miracolistico, e lo pone su un piano di consapevole incertezza, di misurata casualità, di libertà vigilata. Vaccari aveva presentato la prima mostra di Ghirri a Modena, nel 1971. Artista di primo piano egli stesso, Vaccari considera merito del concettualismo lo sdoganamento della fotografia come arte. Sottolinea però un effetto paradosso, in quanto l’eccesso di mitizzazione della figura del fotografo che si è creato con il tempo è totalmente in contrasto con il credo concettuale. La fotografia – sostiene Vaccari - è un segno, sia che l’autore ne sia cosciente, sia che no. Più un autore è presente, e meno ciò che è prodotto è una fotografia. In una fotografia, più che in una pittura – dove l’autore è autore in un senso pieno, totale – i significati appaiono e scompaiono in continuazione: la fotografia contiene e rappresenta anche cose che all’autore sfuggivano, mentre scattava. Queste cose possono restare invisibili, o meglio prive di senso a lungo, prima che qualcuno le riconosca e le interpreti. In questo modo, le fotografie conservano molto a lungo una grande quantità di senso. La fotografia documentaria in questo senso è un po’ un’invenzione priva di reale significato: essa non proviene dal fotografo, ma deriva dall’uso che se ne fa, se l’uso è documentario, allora la foto è documentaria [Lugon, 2008]. Al tempo stesso la fotografia è un segno instabile, ha bisogno di una didascalia, di un testo per essere orientata, per prendere un significato. E poi non bisogna dimenticare l’importanza della distanza di ciò che è fotografato, dall’obiettivo. Autori come Marc Augé hanno parlato di una estetica della distanza; in questo senso, ogni distanza ha una sua estetica, fino al caso di certa fotografia che si allontana visibilmente dalla realtà, proprio perché resta distante da ciò che fotografa. Già le avanguardie storiche avevano messo in evidenza la relatività e l’ambiguità del rapporto con il reale, aprendo la via a una crisi 45. Nino Migliori, Muro 48 irreversibile della rappresentazione, che paradossalmente, anziché provocare una crisi anche della fotografia, la spinge invece ad entrare definitivamente nella cultura contemporanea. Negli anni Sessanta-Settanta, proprio quando si supera il reportage classico alla Cartier-Bresson, la fotografia diventa strumento di lavoro per gli artisti, spesso in chiave concettuale. Dopo quegli anni, che costituiscono l’immediata premessa per il suo decollo, vengono gli anni Ottanta e Novanta, nei quali la fotografia consolida la sua posizione e giunge alla fase di massima espansione. Nel 1973 si tiene a Torino una mostra importante, Combattimento per un’immagine. Fotografi e pittori, per mettere in luce l’uso sempre più generalizzato da parte degli artisti della fotografia per le loro ricerche e il loro lavoro. La mostra torinese costituisce in Italia il momento fondativo della ricerca dei rapporti tra arte e fotografia [Guadagnini-Maggia, 1998]. Gli anni fra il 1968 e il 1973 sono quelli in cui nasce il fenomeno dell’utilizzo della fotografia all’interno delle ricerche artistiche, un periodo in cui ancora si mescolano figure di “artisti che usano la fotografia” con figure di fotografi “puri”: Paolini, Penone, Pisani, Pistoletto e molti altri artisti espongono sempre più frequentemente le proprie opere “fotografiche” accanto alle fotografie dei Becher, di Mulas, Cresci, Vaccari, Friedlander. Del resto, molti fotografi orientano il proprio lavoro secondo una forte componente concettuale che proviene dalle ricerche artistiche contemporanee, come è il caso di Mario Cresci, e negli anni successivi di Ghirri e Guidi. Questi ultimi iniziano il loro lavori in quegli anni, come altri importanti autori come Basilico e Gioli, che esordiscono proprio nel 1973. L’affermarsi della fotografia nella ricerca artistica si deve soprattutto alla necessità di documentare eventi destinati alla scomparsa, come le performance. Il fenomeno dei rapporti tra arte e fotografia sembra dunque nascere più dalla parte degli artisti che dei fotografi, ma una delle ragioni può essere appunto che molti dei fotografi-autori di quella generazione stava “nascendo” in quegli anni – solo Franco Fontana e Mimmo Jodice sono già affermati -, e dunque solo successivamente inizia a ingrossare la schiera dei fotografi che diventano artisti. Nella seconda metà degli anni Settanta e fino alla metà degli Ottanta – il 1984 segna una data storica della fotografia italiana, il Viaggio in Italia di Ghirri – questa mescolanza anche un po’ ambigua di arte e fotografia si allenta un poco, lasciando emergere da un lato la figura di Luigi Ontani, determinante nel trasformare la fotografia di documentazione in opera d’arte, e dall’altro consolidando l’emergere della generazione di fotografi autori, affiancati da critici come Quintavalle e scrittori come Celati, fino a provocare una coesistenza, un parallelismo di arte e fotografia, una situazione che accetta di guardare insieme i fotografi e gli artisti, senza più i sensi di colpa o gli steccati del passato. Le relazioni divenute più strette tra arte e fotografia diventano determinanti, soprattutto nel disegnare una traiettoria di incontro che incrocerà presto la descrizione del paesaggio urbano. Negli anni Sessanta-Settanta la fotografia dilaga nel campo dell’arte tout-court, e negli anni Ottanta diventa pienamente arte della contemporaneità, raccogliendo i frutti della semina avvenuta con l’arte pop e concettuale. La tendenza nata con gli anni concettuali, di negare l’oggetto-quadro e sottolineare l’importanza 49 dell’idea, chiama fortemente in causa la fotografia, come linguaggio più capace per natura di evidenziare l’idea, l’intuizione, l’istante, lo sguardo. Dunque alla fotografia viene assegnato progressivamente il “compito di rendere visibile l’invisibile qualità del concetto e dell’idea” [Miraglia, 2001], oltre che di documentare le performance della body art e gli eventi naturali (lontani e impervi) della land art. 7. Arte e/o fotografia. L’esplosione e la massificazione dell’uso della fotografia si deve, negli anni del secondo dopoguerra, al grande sviluppo delle tecnologie – soprattutto del colore – e al progressivo abbassarsi del prezzo degli apparecchi fotografici, che diventano disponibili per molti più utenti di qualche decennio prima. L’uso della fotografia risponde anche alla necessità di promuovere i prodotti di consumo, e quindi è un effetto del miracolo economico; fotografia, réclame sui rotocalchi e sui quotidiani, advertising stradale e più tardi la televisione si integrano in questo sforzo. Gli anni Settanta vedono la crisi del fotogiornalismo e la nascita di un grande interesse per la fotografia pubblicitaria e commerciale. In Italia si dà alla fotografia un sempre maggiore valore intellettuale, la fotografia entra nell’arte attraverso l’arte povera, la pop art, la land art. La struttura dell’immagine e la percezione delle cose divengono più importanti del soggetto rappresentato. Prima Mario Giacomelli, uno dei più grandi fotografi italiani di paesaggio, più tardi Gabriele Basilico e Guido Guidi si impegnano in un quello che è stato detto un questionnement du paysage [Conzémius, 2009]. Paolo Monti è tra i primi, con i suoi chimigrammi, a cercare zone di confine tra i due mondi negli anni ‘50 e ‘60, e a ben pensarci si può inserire il suo lavoro – e quello di Luigi Veronesi e di Nino Migliori – nell’informale. Anche le celebri verifiche di Ugo Mulas non sono propriamente un lavoro artistico, ma la ricerca linguistica di un fotografo che frequenta anche il mondo dell’arte. Vaccari è il fotografo che maggiormente si affaccia all’arte, espone in Biennale 1972, con la sua performance-installazione Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio. Negli anni ‘70-’80 la fotografia di paesaggio (urbano) è stato l’unico strumento di relazione tra il mondo dell’arte e quello dell’architettura e dell’urbanistica; il primo ospitava molto frequentemente riflessioni e pratiche connesse alla vita urbana contemporanea, ma difficilmente riusciva a trasmetterle agli architetti e agli amministratori, chiusi in discussioni sul sociale, il politico, l’economico e facile preda di luoghi comuni, ripetizioni, ossessioni, assolutamente privi di sguardo. Prova ne sia la frequenza di piani ciechi, privi di rappresentazioni della realtà su cui si andava ad intervenire. Anche piani celebri come quello paesistico dell’Emilia-Romagna resterà, ancora alla metà degli anni Ottanta, privo di immagini che non fossero cartograficozenitali; in questo modo la realtà in cambiamento sfuggiva alla rappresentazione e infine alla comprensione. Gli urbanisti non riflettevano sul paesaggio, ma unicamente sulle regole, sui servizi, sulle quantità, sui temi sociali come il lavoro e la casa, sulle discipline più recenti, come la conservazione dei beni culturali. Ma restavano disattenti alla qualità estetica del territorio, perché non si dotavano degli strumenti adeguati. 50 Il grande cambiamento avvenuto verso la fine degli anni Sessanta nelle pratiche artistiche sta soprattutto nel passaggio dalla rappresentazione alla registrazione della realtà [Barilli, 2006]. E’ un tema, come abbiamo visto, perfettamente connesso con la fotografia e il suo stile, e dunque è naturale che ne derivi un uso sempre più largo del mezzo fotografico, come quello che appunto può registrare il reale, senza darne interpretazioni, o almeno lasciando questa impressione. Il combattimento per un’immagine nato con la mostra torinese del 1973 dura per tutti gli anni Settanta. E’ una gara dove la fotografia recita secondo alcuni il ruolo di chi vuol decretare la morte dell’arte, che ancora e sempre è rappresentata dalla pittura. Tanto che nel bel mezzo di questa sfida nasce appunto l’iperrealismo, come reazione della pittura che non vuole farsi da parte ma segue però pedissequamente le fattispecie fotografiche. Per quanto si riferisce al tema paesaggio urbano è determinante che la pop art abbia posto in primo piano la riflessione sul valore delle immagini nella società massificata e consumista, usando per questo la parola popular, fin lì intesa nel suo senso rurale, preindustriale e romantico e che con l’uso dell’abbreviazione viene invece indirizzata verso il significato urbano e industrializzato. Dunque, anche la spinta delle tendenze innovative dell’arte va verso la città anziché verso la campagna e il paesaggio extraurbano, che progressivamente assume sempre meno rilevanza semantica. Dalla pop art si arriva in breve all’iperrealismo, che si fonda ovviamente sul vasto ricorso alla tecnica fotografica. E al minimalismo, con la sua predilezione per la semplicità esecutiva, e il gusto di minimizzare l’espressione individuale e la piacevolezza immediata. Tutti caratteri che riconosciamo facilmente nell’opera di Luigi Ghirri. Sol LeWitt è il primo artista che fa uso programmatico del termine concettuale, che influenzerà molte pratiche fotografiche successive. L’opera diviene importante come concetto, come idea, come progetto, non tanto come esecuzione o come prodotto autentico. Dunque si smitizza il culto dell’autore e dell’opera, valorizzando il messaggio. Diventa centrale il tema della traccia (che molti fotografi citano, tuttora, come fonte di ispirazione del loro lavoro). Siamo al culmine della smaterializzazione dell’arte. La fotografia – soprattutto se non si calca troppo il suo valore tecnico, ma quello di riflessione, di punto di vista, di sguardo – può avere molto a che fare con questo modo di intendere l’arte, visto che la sua materialità è pari a zero o quasi nel momento della produzione (lo scatto), mentre la materialità sta soprattutto nella riproduzione (la stampa). Oltre all’arte concettuale, un’altra tendenza che ha fortemente a che fare con la fotografia di paesaggio e di architettura è la land art, tra i cui protagonisti sono i coniugi Becher, maestri di Gabriele Basilico, che “... dagli anni sessanta hanno iniziato a viaggiare in cerca di caseggiati, fattorie, ma soprattutto strutture industriali in disuso al solo scopo di fotografarle; ne risultano immagini biomorfiche e quasi commoventi, che parlano del riassorbimento nella natura dei prodotti che l’uomo ritiene inutilizzabili e della tendenza contemporanea all’abbandono e allo spreco delle cose” [Vettese, 1996]. Uno storico dell’arte molto attento da decenni alla fotografia è 51 Arturo Carlo Quintavalle, fondatore del Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma. Il suo volume Muri di carta, del 1993, porta la dedica “Per Luigi Ghirri, mio amico”. Si tratta del catalogo della omonima mostra tenutasi al Padiglione Italia della Biennale dal 13 giugno al 10 ottobre 1993, che ha avuto grande peso nel sancire definitivamente l’entrata dei fotografi nel novero degli artisti. Il volume raccoglie interviste con i fotografi e testi su Nino Migliori e Luigi Ghirri. “Il tutto”, scrive Quintavalle, “vuol essere un contributo alla ricerca su una fotografia intesa non come arte, poesia, ma come critico momento di analisi, di riflessione sul mondo”. Le fotografie del volume sono tutte conservate presso il CSAC dell’Università di Parma. I fotografi sono 20, da Man Ray a Walker Evans, e tra gli italiani Migliori, Ghirri, Basilico, Mimmo Jodice, Giacomelli, Olivo Barbieri, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Paolo Rosselli, Guido Guidi, Francesco Radino e altri. 52 4. LA CITTA’ DEGLI ARCHITETTI 1. La fotografia tra urbanistica e architettura. “Da dove guardiamo?” è la prima domanda che bisogna farsi nell’osservare il reale. La nostra posizione è il principio della conoscenza. Questo vale ovviamente anche per il punto di vista sulla città. C’è quello dal cielo, dove la dimensione della figura umana scompare. E’ una visione geografica, geologica. Ma la città non ha nulla della immutabilità della natura, occorre invece conoscere le sue mutazioni, che da lontano sono poco percepibili. La vista a volo d’uccello è un’utile via di mezzo tra sguardo zenitale e percezione da terra; nel Cinque-Seicento le città venivano rappresentate in questo modo, con le icnoscenografie, capaci al tempo stesso di precisione topografica e descrizione architettonica. Albert Einstein diceva che le traiettorie esistono solo in relazione a un corpo di riferimento. Trasponendo questa affermazione nel campo fotografico, sarebbe a dire che è il soggetto da fotografare – il corpo di riferimento – che pretende il giusto spostamento sul percorso giusto per trovare il punto giusto da cui fotografare. Analogo concetto è quello espresso dal filosofo spagnolo Ortega y Gasset, secondo il quale la prospettiva è una delle componenti determinanti della realtà; “una realtà che vista da qualsiasi punto resta sempre identica è un concetto assurdo” [Espuche, 1994]. E dunque il punto di vista, la prospettiva da cui guardiamo il mondo è determinante almeno quanto i caratteri di ciò che vogliamo fotografare, anzi il punto di vista si fonde con le caratteristiche dell’oggetto fotografato, in altre parole il contesto è parte dell’oggetto. Il contesto dell’architettura, però, non è solo quello fisico, ma anche quello disciplinare, normativo, che ne condiziona e ne orienta la produzione. La città è costruita attraverso i regolamenti e i vincoli. Se il contesto urbano, oltre che un insieme di oggetti fisici è anche un complesso di norme, di idee e di visioni progettuali, allora per verificare il potere di interlocuzione che la fotografia può avere con le pratiche urbanistiche può essere utile passare in rassegna alcune delle teorie sulla città moderna formulate da teorici, storici e progettisti italiani del dopoguerra. Per fare un esempio tra i molti possibili: il progetto urbano, pratica teorizzata intorno agli anni Novanta come modo per uscire dal campo ristretto dell’urbanistica pura e per promuovere concreti strumenti di trasformazione delle città italiane, è stato ed è ancora un ottimo campo di analisi per la fotografia. La sua dimensione – più di una architettura e meno di una città – consente di superare i limiti della fotografia di architettura – sguardo tendente al convenzionale, analisi post-factum – e al tempo stesso di ancorare lo sguardo fotografico a situazioni e ad ambiti precisi, là dove si sta per sviluppare un progetto di rilievo sociale e non solo privato come quasi sempre è il caso di una singola architettura. Per giunta l’apertura di cantieri di vaste dimensioni e lunga durata consente alla fotografia di documentare lo sviluppo del progetto, 53 implicitamente entrando più da vicino e più direttamente in un ruolo progettuale. Il progetto urbano è stato ritenuto un mezzo per unire buona architettura con buona urbanistica, senza troppi squilibri a favore dell’una o dell’altra. Anche quando il nome non era ancora stato coniato, il progetto urbano esisteva già nei fatti, se appunto si tratta di un progetto capace di coniugare discipline diverse ma vicine, ivi comprese la tutela dei beni culturali e la capacità di creare nuovi paesaggi, nella città e nei suoi immediati dintorni. Il progetto urbano, parlando degli anni a noi vicini, torna a nascere o torna ad essere molto presente - quando la grande crescita delle città è ormai alle spalle e bisogna confrontarsi con il riuso delle aree urbane dismesse o degradate, cioè con la crescita dentro la città, non al di fuori di essa. Se è vero che il progetto urbano non è soltanto una architettura grande, è però difficile negare che esso si realizza soprattutto attraverso architetture, ed è dunque una occasione di fare architettura. E di confrontarsi con l’architettura esistente. Non a caso tornare ad occuparsi di città costruita più che di costruzione di appendici di città ha fatto sì che siano riemersi i temi della costruzione moderna in centro storico e sia rinata la questione della coesistenza di nuovo ed antico. Questo è uno dei meriti del progetto urbano, inteso come progetto di riqualificazione dell’esistente, promosso dagli strumenti urbanistici operativi dei primi anni Novanta: i programmi integrati (nati nel ’92), di recupero urbano (1993) e di riqualificazione urbana (introdotti da un decreto ministeriale del 1994). Molto è stato scritto su ciò che caratterizza e definisce il progetto urbano. La scala, ovviamente, intermedia tra quella architettonica e quella urbanistica. Ma anche i tempi diversi del processo attuativo. L’affermarsi della pratica del progetto urbano avrebbe accompagnato il passaggio dal piano immobile, regolatore a quello strategico e strutturale, che cerca di confrontarsi con le opportunità del progetto, con la verifica della sua fattibilità, con le sue istanze estetiche e sociali. Si tratterebbe di guardare il progetto dalla parte del piano anziché – come più sepsso si è fatto – il piano dalla parte del progetto. Nel dopoguerra, dopo l’entrata in vigore della legge urbanistica nazionale del ’42 si è aperta una stagione dell’urbanistica che aveva assegnato all’architettura un ruolo un po’ secondario, conseguente, subordinato. Ma negli anni Ottanta lo sprawl urbano ha reso evidente se non il fallimento, almeno le carenze del piano; l’urbanistica si è come resa conto che con gli anni aveva perso la sua connotazione di progetto, rintanandosi nella sua versione minore, di regola, di prescrizione, ma che ciò non ostante non controllava il territorio come aveva creduto, e si è speranzosamente riavvicinata all’architettura, chiedendole aiuto e collaborazione. Così l’architettura negli ultimi anni ha preso a significare molte più cose di prima, anche paesaggio, anche ambiente, anche città. Come in tutti i processi umani, una continua oscillazione non genera equilibrio, ma transita solo per un tempo molto breve per il punto di equilibrio, e a volte quei momenti di passaggio possono essere unici nei loro effetti, producendo tracce permanenti e memorabili nelle città. Questo purtroppo non è accaduto in Italia, almeno non nella seconda metà del secolo scorso, che non ci ha lasciato davvero prodotti memorabili, nel 54 campo dell’architettura. In questi ultimi anni, poi, l’ago della bilancia si è forse sbilanciato troppo verso un’architettura solo estetizzante, clamorosa, glamour, virtuale, di facciata, senza alcun riferimento al contesto. Questo è il rischio congenito della (cattiva o scadente) architettura, così come il rischio della (cattiva o scadente) urbanistica è la bidimensionalità, come sosteneva Bruno Zevi, e cioè la sua capacità di disegnare solo il terreno, non lo spazio urbano. Alcuni dei principali architetti e teorici italiani degli ultimi decenni hanno lasciato contributi importanti su questioni fondative del progetto urbano. Se ne può cercare qualche esempio, per vederne i rimandi alla cultura fotografica. Concetti come “spazio urbano”, “fenomeno urbano”, “monumento”, “parti di città”, “temi collettivi” ricorrono nei loro libri, e passano sulla scrivania dei progettisti spesso attraverso interpretazioni fotografiche d’autore. 2. Bruno Zevi e l’urbatettura. Zevi coniò il termine di urbatettura per definire l’unità delle due discipline e riconoscere i casi eccellenti. Si riferiva inizialmente alle opere dell’architetto americano di origine polacca Jan LubiczNycz, secondo il quale l’urbanistica moderna ha prodotto due idee con cui ha continuamente, e senza successo, cercato di rispondere alle crescenti domande imposte dal processo di urbanizzazione. Esse sono la città-giardino, scaduta a sinonimo di espansione periferica; e la Ville Radieuse, che propugnò l’uso razionale di edifici alti, la viabilità a più livelli, le sistemazioni paesaggistiche, ma in effetti è stata utilizzata per realizzare enormi ed inumani blocchi residenziali. Secondo Zevi, la zonizzazione e la mentalità segregazionista hanno continuato a lungo a separare la vita in compartimenti stagni: zone industriali, zone residenziali, comunicazioni e trasporti, zone ricreative. E’ necessario liberarsi da questa concezione di unità isolate, pensare strutture organiche, con pluralità di funzioni, atte a formare gusci-contenitori di umanità. La molteplicità delle funzioni urbane non deve più essere affrontata col metodo di una meccanica aggregazione, e può trovare una sintesi nell’, intesa come la possibilità, insita nel progetto architettonico, di realizzare parti di città, attraverso proposte mega-strutturali di contenitori polifunzionali integrati che formano il tessuto urbano stesso. All’origine di questo pensiero stanno le proposte utopiche dei giapponesi, di Archigram, di Yona Friedman, che sono pressoché coeve, ma nel suo caso gli studi si spingono a verificare la concreta fattibilità strutturale, economica e sociale degli interventi. Zevi utilizza il neologismo di Nycz in due sue opere, Il linguaggio moderno dell’architettura (1973) e Storia dell’architettura moderna (nella revisione operata a distanza di un quarto di secolo dalla prima uscita, e cioè nel 1975). Con ciò dunque fa proprio il termine urbatettura e lo introduce nel dibattito italiano, precisandone il significato come superamento dei difetti delle due discipline: da un lato il disegno a due sole dimensioni dell’urbanistica, dall’altro il progetto architettonico che non dialoga con l’intorno. Per inciso, da questi principi consegue che il disegno tridimensionale fa il pregio dell’urbanistica, e questa posizione serve a rivalutare lo schizzo, che non è solo un abbozzo dell’architettura, ma anche 55 del progetto urbanistico, come insegnava con la sua pratica di urbanista-artista Luigi Piccinato. Per Zevi il termine “urbanistica” è ambiguo e polivalente; riguarda infatti tre aspetti: programmazione economica territoriale, configurazione regolamentata degli abitati, costruzione spaziale concreta della città. Anche l’architettura può essere suddivisa in tre momenti: concezione economico-sociale dell’edificio, distribuzione funzionale degli ambienti, realizzazione effettiva. Per entrambe le discipline, i primi due aspetti attengono alla progettazione, ma solo il terzo, quello concreto, è l’elemento che occorre “saper vedere”. La distinzione fra urbanistica-spazio esterno e architettura-spazio interno è uno schema utile, ma per cogliere il carattere di “uno slargo, un vicolo, un quartiere valgono gli stessi metodi critici atti a definire le sale, le gallerie, i portici, la corte di un palazzo”. E’ operazione analoga, secondo Zevi, “saper vedere” lo spazio architettonico e quello urbanistico, perché “la realtà stereometrica di un edificio dipende dai punti di vista esterni, cioè dalla conformazione dello spazio urbano in cui s’immerge; e, viceversa, questo spazio è qualificato tridimensionalmente dagli edifici che lo contornano ed elettrizzano. A rigore, non esistono né architettura né urbanistica, ma soltanto urbatettura. Malgrado il salto di scala, la sostanza del discorso non muta.. Zevi si chiede se lo spazio urbano configura gli edifici o ne viene configurato, e si risponde che dipende dai casi. Due esempi contrapposti sono rappresentati da piazza Farnese a Roma, in cui il prepotente aggetto del cornicione michelangiolesco blocca il prisma spaziale e conferisce significato all’insieme, e da piazza del Campo a Siena, il cui valore sta invece proprio nell’invaso, in quanto la cortina edilizia che la cinge è “neutra e opaca”, e la torre del Mangia, che non è certo neutra e opaca, si rivolge però non alla piazza ma alla città intera. “La circostanza che lo spazio urbano sia generalmente scoperto – non lo sono peraltro i bazar orientali, né le gallerie e i portici; case pensili ed archi valicano le strade di Perugia e di Siena – non lo differenzia dalle cavità architettoniche: implica soltanto che la linea di cielo, segnata dai fastigi degli edifici, acquista enorme rilievo (…)”. Questo concetto è evidentemente molto importante per le sue implicazioni fotografiche: la città è precisamente quello spazio in cui la linea di cielo è definita dallo skyline, essendo di solito impossibile percepire dall’interno delle aree urbane l’orizzonte, che è invece il tratto percettivo che distingue gli spazi extraurbani, e per tradizione la veduta paesaggistica classica. Zevi è stato certamente tra i teorici dell’architettura quello che più frequentemente ha fatto uso della fotografia. Molti dei concetti espressi più sopra erano corroborati, nelle sue pubblicazioni, da immagini fotografiche. Che però restavano in una certa misura subalterne alla visione dello storico, venivano cioè usate in una modalità confermativa, e mai dichiarando il debito all’autore, molto spesso ignoto. A volte i suoi libri sono illustrati con foto di allievi dei corsi dello IUAV o della Facoltà di Architettura romana, o ancora con immagini degli archivi storici, come Villani, Alinari, Brogi, Anderson. Uno dei momenti più ricchi di conseguenze nella carriera di Zevi storico e critico è stata certamente la realizzazione della mostra ferrarese Identità di Biagio Rossetti, che aprì nel giugno del 1956 56 nel ridotto del Teatro Comunale di Ferrara, una mostra realizzata attraverso immagini fotografiche, che generò il libro su Biagio Rossetti e più tardi il Saper vedere l’urbanistica. Zevi fa un uso non autoriale e tutto sommato subalterno della fotografia, ma, visti i tempi, lo si può considerare un pioniere dell’attitudine a spiegare – grazie all’immagine fotografica - questioni spaziali, di rango urbanistico e non soltanto architettonico. La rivista L’architettura. Cronache e storia, che diresse per una vita fino a una reciproca identificazione, è ovviamente costruita in larga misura con fotografie. Alcuni numeri sono segnalabili, sia perché contengono testi teorici su lrapporto tra fotografia e architettura, sia per modalità d’uso peculiari della fotografia nella interpretazione dell’architettura e della città [Galli 2003]. In L’A n. 16, febbraio 1957, Italo Insolera pubblica un testo, Fotografia e architettura, tratto da “Ferrania” nn.8 e 9, agostosettembre 1956. Insolera sostiene che non è impossibile fotografare l’architettura, come spesso si dice, quanto che è impossibile documentarla con la fotografia, perché la fotografia ce ne dà un’immagine bidimensionale e statica, mentre “un’opera architettonica è estremamente mutabile con lo spostarsi di chi la osserva”. Per questo, il lavoro di collegamento mentale tra le diverse immagini presuppone una conoscenza precedente alle fotografie, per poter dare luogo a una associazione fra le immagini, a una sequenza significativa, e soprattutto conforme al vero. In altre parole, la soggettività di chi guarda ed elabora con la sua esperienza le fotografie, mettendole in una sequenza “sensata”, è decisiva quanto lo è quella dell’autore delle immagini, e questo alla fine conduce a una modificazione del senso dell’architettura, dell’opera dell’architetto, che può perfino dar luogo a equivoci interpretativi. Quella del lettore delle immagini è una terza lettura, dopo quella dell’architetto e del fotografo. Insolera parla di documentazione figurativa per definire quella che è in grado di fornire la fotografia (ma anche il cinema, che non fa che aggiungere movimento, e con questo connessioni delle immagini che compongono la sequenza, ma fornendo in questo modo il punto di vista soggettivo del regista), e cioé conoscenza solo della figura, della forma. Per dare una compiuta descrizione del fabbricato e mettere così in luce le “molteplici e fondamentali relazioni che lo legano alla vita”, per fare un vero discorso critico, legando così la storia dell’edificio con la storia dell’uomo e della società, la fotografia può fare comunque di più del disegno, superarne i limiti congeniti, quando ad esempio fotografa le persone, l’uso che esse fanno dell’edificio, quando fotografa il cantiere, le vicende che hanno portato alla creazione di quell’architettura. Questo è proprio quanto era avvenuto nella stessa rivista, con un bellissimo servizio fotografico nel numero 13 del novembre 1956 sul Centro sociale cooperativo “Grandi e Bertacchi” a Milano (a cura dell’architetto Franco Marescotti). Insieme con le foto dell’edificio realizzato, ci sono fotografie dei volti degli operai che l’hanno costruito, dei soci della cooperativa, degli incontri nelle sale riunioni, insomma della gente e degli eventi del processo costruttivo. C’è un bel testo di Emilio Tadini, che spiega. Il progettista, nel suo testo di presentazione, dice che vuole raccontare quattro anni di lavoro. Che è consapevole di non 57 46. Pagina interna di “L’architettura. Cronache e storia”, n. 13 / 1956 aver fatto niente di speciale dal punto di vista architettonico, ma rivendica la qualità del percorso, dal punto di vista sociale, politico e culturale. Nasce così, dopo un lungo processo partecipativo, il centro sociale, da osteria con il pergolato e il campo di bocce, come era prima, uno dei tanti luoghi così nella periferia milanese di quegli anni. Alcuni numeri di L’A sono monografici, e dedicati al lavoro di un singolo architetto, indagato soprattutto attraverso la fotografia. Fra questi, il n. 82 dell’agosto 1962, dedicato a Bear Run, la Casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright, e il n. 262-63, agosto-settembre 1977, dedicato a una rilettura delle opere brunelleschiane in chiave moderna. L’opera dell’architetto americano è illustrata con immagini di un fotografo non professionista, Paul Mayen, che ne dà una lettura in progressivo avvicinamento, riferita anzitutto all’ambiente, al terreno, agli alberi, alle rocce, all’acqua, e perfino alle diverse 58 stagioni. Poi si dilunga sui dettagli esterni, prima di passare alle foto di interni. In questo caso, Zevi affianca le fotografie al proprio editoriale e al saggio conclusivo di Edgar Kaufmann Jr. dal titolo Venticinque anni nella “Casa sulla Cascata”, mentre nel caso del numero sull’opera di Brunelleschi sembra appropriarsi in modo molto più diretto della regia del percorso fotografico. Una “promenade sensuosa e concettuale”, la definisce, affidata all’ “obiettivo sagace” del fotografo Pino Abbrescia e di Pupa Bucci Casari, Fabio Santinelli, Eugenio Monti. La ricerca visiva si propone non solo una documentazione puntigliosa, ma precisi intenti critici. E’ volta a una rivisitazione dell’opera del grande architetto, “con occhi snebbiati dai dogmi rinascimentali”, per reagire contro ogni tentativo di ascriverlo al filone classicista, con una operazione analoga a quella in atto “da parte degli architetti post-modern, per dilapidare l’eredità di Wright, Le Corbusier, Mendelsohn, De Stijl, Scharoun, Aalto”. In appendice, Zevi fornisce con la consueta perizia, una “chiave delle immagini” appena viste dal lettore, riconoscendo tra esse le “immagini-indice” - ad esempio, la porta d’angolo nella Sacrestia Vecchia, o un contrafforte della lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore - oppure indicando come le fotografie riconoscono le fabbriche brunelleschiane: come reticolo di appropriazione urbana, o ancora sottolineando temi connessi a singoli elementi architettonici, come la cupola, la lanterna, il rapporto tra interno/ esterno, o questioni di linguaggio come concavità-convessità, o le analisi sulla luce come elemento generatore della spazialità architettonica. E questo è appunto l’elenco di tematismi che evidentemente Zevi ha fornito ai fotografi, incaricandoli di verificarlo con le proprie immagini. Da questo punto di vista, questo è un lavoro di survey fotografico paragonabile ai migliori esempi di campagne fotografiche realizzate per indagare un fenomeno, sia esso urbanistico, economico, sociale, ecc. L’unica differenza è che si tratta in questo caso di un rilevamento architettonico. 3. Aldo Rossi e l’immagine padana. Sviluppando le proprie riflessioni sul rapporto tra singoli edifici e spazi della città (ma conducendole a conclusioni piuttosto diverse da quelle di Zevi), Aldo Rossi, nel suo L’architettura della città (1966), si chiede “dove comincia l’individualità di un fatto urbano; se è nella sua forma, nella sua funzione, nella sua memoria o in qualcos’altro ancora”. Conclude che si identifica con l’avvenimento. E’ così ad esempio per il santuario, dove “si fanno i primi passi verso il sublime”. Tutti sono consapevoli dell’avvenimento, esso si ripete e si fa concrezione, diventa elemento di città. Non basta la forma (dimensione, bellezza, particolare riconoscibilità, grande capacità comunicativa, fascinazione, appeal, facile memorizzazione, ecc.); la funzione è potenzialità, ma da sola non è sufficiente a creare l’avvenimento, che deve esserci, e ripetersi, e diventare necessario, atteso, simbolicamente ed eticamente rilevante. E anche non basta la memoria, se col tempo si è estinto tutto il resto, se essa è solo rievocazione mentale di un passato morto, che non accade più. Queste riflessioni dovrebbero essere stimolate in profondità, per dare luogo a un piano urbanistico fondato. Ma è possibile prefigurare l’avvenimento? E’ possibile imporlo, 59 con la semplice destinazione di un’area, con la sola localizzazione di un edificio, o individuando un comparto di intervento, un ambito di riqualificazione? Sembra arduo, se è vero che “la città è nella sua storia”. Come diceva Cattaneo, Rossi è dell’idea che il valore dei fatti urbani viene loro assegnato dal fatto che sono un “immenso deposito di fatiche”. La città è un’opera di architettura o ingegneria che cresce nel tempo. E dunque può darsi il caso di una aggiunta al tempo nostro, attuale. Ma con quali regole, a quali condizioni? Rossi risponde che è ancora valido l’insegnamento empirico di Camillo Sitte, che raccomanda il “lato artistico” del progetto urbano, sia esso una piazza, una strada o un edificio, perché “artisticamente importante è soltanto ciò che può essere abbracciato con lo sguardo, ciò che può essere visto”. Quanto alle scale dei luoghi, se ne riconoscono tre, quella della strada, con le costruzioni e gli spazi non costruiti; quella del quartiere, costituito da isolati con caratteristiche comuni; quella della città intera. Noi possiamo domandarci a quale di queste scale si situa il progetto urbano, ma la risposta non è facile: alla seconda, se è vero che si parla di scala intermedia. Alla prima solo se il luogo o l’architettura hanno molta forza, all’ultima solo se l’urbanistica ne ha poca, cioè se la dimensione urbana è limitata, e dunque incapace di soverchiare il singolo intervento, pur se esteso all’intorno. Come è noto, Luigi Ghirri è stato un precoce e originale interprete delle architetture di Aldo Rossi, e con l’architetto milanese, tramite la figura di Vittorio Savi, ha intrattenuto un rapporto di stima e di collaborazione più che amichevole. Per giunta, hanno scritto pagine reciproche, cioè l’uno sul lavoro dell’altro. Tuttavia le teorie di Rossi non sono mai state oggetto di un lavoro fotografico specifico di Ghirri o di altri, ponendo la città al centro di una indagine volta a commentare visivamente la concezione rossiana. Sarebbe stato un compito indubbiamente ciclopico, ma il contributo che ne avremmo avuto dal punto di vista della diffusione di una percezione urbana acuta e problematica ci lascia il senso di una mancanza grave. 47. Luigi Ghirri, Quartiere Gallaratese (Aldo Rossi) 60 C’è poi da sottolineare che Rossi insiste in più parti del suo lavoro teorico sul concetto di monumento, che è stato di fatto rimosso dalla cultura urbanistica italiana degli ultimi quarant’anni e che invece per natura ha forti connessioni con i caratteri alla base del progetto urbano. La rimozione del monumento nella nostra cultura urbanistica è quanto già notava Vittorio Savi [Savi, 1976], e la riconosce come effetto della “stigmatizzazione dell’architettura classicista del fascismo”. Ma, secondo Savi, l’esempio del Gallaratese, dove l’edificio di Rossi sta accanto a quello di Aymonino, dimostra che il monumentale può prodursi sia con l’ordinamento assiale di Rossi che con “la più aggressiva manipolazione delle componenti formali, la trascuratezza e l’invenzione variata” di Aymonino. Dunque il monumentalismo non è questione di linguaggio, ma di tono; e non è peculiarità del totalitarismo, come vuole il luogo comune con cui si “è stabilita una bizzarra equazione tra architettura democratica e architettura articolata. […] Prescindendo dal livello linguistico, nel suo libro Rossi chiarisce nei monumenti un congegno principale e una forma sintetica dell’espansione urbana”, che oggi parlando di progetto urbano siamo forse chiamati a riconsiderare. Rossi scrive che i monumenti sono le persistenze, nella città, come anche lo sono i tracciati e i segni del piano. Però questi elementi permanenti sono di due tipi, sia patologici che propulsori. Qual è la distinzione tra i due? Il carattere permanente e non patologico – e dunque propulsore – del Palazzo della Ragione a Padova sta nel fatto che è ancora usato, e pur essendo pacifico per tutti che si tratta di un’opera d’arte, esso al piano terreno funziona come un mercato al dettaglio, e questo è prova della sua vitalità. E’ abbastanza chiaro cos’è invece una permanenza patologica, e Rossi lo spiega senza mezzi termini: “le conservazioni cosiddette ambientali stanno ai valori della città nel tempo come il corpo imbalsamato di un santo sta alla immagine della sua personalità storica”. Il valore dei monumenti è dunque propulsivo e benefico per lo sviluppo della città: “il processo dinamico della città tende più all’evoluzione che alla conservazione e nell’evoluzione i monumenti si conservano e rappresentano dei fatti propulsori dello sviluppo stesso. E questo è un fatto verificabile, lo si voglia o no”. Se ne può dedurre che un obiettivo del progetto urbano può essere la monumentalità, intesa in questo senso positivo, o si deve continuare a credere alla contrarietà – di sapore zeviano – al monumento come inaccettabile retorica? Queste domande trovano frequenti risposte nel modo di fotografare la città che vedremo nei capitoli successivi, da parte di Paolo Monti e Gabriele Basilico soprattutto, dove le componenti monumentali e la ricerca degli avvenimenti urbani concretizzati in luoghi simbolici cercano di continuo un equilibrio – che ovviamente ogni autore trova in posizioni diverse – tra loro. 4. Carlo Aymonino. Anche Carlo Aymonino studia l’architettura come fenomeno urbano. Nel senso che l’architettura è elemento costitutivo della città, ma non coincide con essa. Nel suo libro Il significato delle città Aymonino esamina i caratteri della città moderna (XVIII-XX secolo) e prova a relazionarli a specifici interventi architettonici, in 61 particolare cerca di vedere se i nuovi processi di caratterizzazione indotti dalle architetture hanno significativamente variato la struttura urbana precedente. Utilizza per questo alcune analisi specifiche, per esempio riflette sulla diade monumento-intorno, e si interroga se questa, oltre a essere un parametro di giudizio sul passato possa essere ancora una “indicazione operativa per il presente”; si chiede se è possibile considerare la città come un prodotto architettonico; si chiede se esista una crisi della tipologia, intesa come elemento ordinatore e semplificatore dei fatti urbani; e infine se la città può essere costruita per parti formalmente compiute, se cioè l’architettura possa avere non solo una finalità esemplificativa o dimostrativa, ma risolutiva. Mentre Aldo Rossi identifica in sostanza l’architettura con le emergenze, Aymonino considera il rapporto tra monumento e intorno come il risultato di un processo storico, non è una “categoria” valida in sé e dunque utilizzabile come indicazione operativa. Anzi, esso entra in crisi con lo sviluppo delle forze produttive moderne, crisi che peraltro va vista in una prospettiva positiva, di apertura di nuove potenzialità. Aymonino si chiede in che misura l’architettura moderna è una componente della città contemporanea e si risponde che ciò accade solo nel caso di Brasilia, e in minore misura con Chandigarh e Dacca. Se prendiamo una guida dell’architettura moderna di Berlino, Vienna, Parigi, Milano non troviamo che interventi puntiformi, anche le Siedlungen di Francoforte e Berlino o gli Hofe di Vienna non riescono ad essere parti di città formalmente compiute. Le caratteristiche che accomunano alcuni famosi esempi di architettura moderna (tra cui la Cité de réfuge di Le Corbusier, il Sanatorio di Duiker a Hilversum, il progetto per uffici di El Lissitzky e Mart Stam) a detta di Aymonino sono principalmente due: che la loro “costituzione formale” si pone in contrasto con la città esistente quale struttura che ignora o non permette il manifestarsi di quella architettonica; e che al loro interno si manifesta una assoluta indipendenza delle parti, “come rottura e alternativa del rigido e gerarchico sistema compositivo barocco”; un processo riconosciuto come principale contenuto della architettura dell’illuminismo e pienamente congruente con l’età dell’individualismo novecentesco. In definitiva, Aymonino conclude che l’analisi urbana – una materia che entrava proprio in quegli anni nel novero degli insegnamenti universitari – non fornisce gli strumenti per l’intervento architettonico: non c’è un nesso diretto di causalità, e se vi fosse si cadrebbe diritti nella “imbalsamazione accademica dell’architettura, come dimostrano ampiamente i progetti di Muratori e della sua scuola” [Aymonino, 1975]. L’analisi urbana è però uno dei pochi strumenti che possano dare “un contenuto logico alla progettazione, assicurandone in tal modo i caratteri di trasmissibilità e continuità dell’esperienza”. (In altra parte del suo ragionamento l’autore rivendica anche il ruolo simbolico e formale di alcune celeberrime “parti incomplete” della città, si pensi al Prato della Valle a Padova). “L’analisi delle strutture urbane interviene nella progettazione là dove si deve assegnare un ruolo alle strutture stesse […]: quale parte delle città antica mantengo e perché (restaurandola o trasformandola); che ruolo assegno ai monumenti (confermando il precedente o mutandolo 62 completamente); quali permanenze trasferisco nel nuovo assetto e quali abolisco ecc., sono tutte operazioni di progettazione”. La città per parti formalmente compiute è comunque un problema che può essere affrontato soltanto in presenza di due rare condizioni: “la proprietà unica del suolo, pubblica o privata che sia, e una dimensione dell’insieme che corrisponda alle necessità da risolvere, dando loro forma concreta nella quantità e nella qualità edificata”. E per concludere: “la definizione di parte resta quindi un problema aperto: essa può essere un’unica architettura, quanto un sistema che imposti la struttura d’insieme, cui aggiungere liberamente le varie parti (come sostituzione del rapporto <strada corridoio – case che vi prospettano>) o ancora un settore urbano individuabile e definibile in sé (corrispondente alle <aggiunte> storiche della città tradizionale. In tutti i casi il carattere necessario (e non ancora sufficiente) perché una parte si costituisca in quanto tale rispetto all’insieme, è che essa sia formalmente compiuta, quindi architettonicamente riconoscibile; e tale riconoscibilità è data dal giudizio (analisi + intervento) che si dà sull’insieme”. Non c’è dubbio che tra i fotografi italiani che più compiutamente e proficuamente hanno lavorato sui temi della città antica e della sua conformazione, sui suoi processi di crescita e di integrazione/ opposizione con la città moderna è Paolo Monti. Il suo rilevamento dei centri storici – soprattutto il primo, quello bolognese – può essere considerato il diario visivo dell’intuizione di un progetto urbano ante-litteram, il piano del centro storico di Bologna. Se ne parlerà in seguito. Ciò che sembra utile sottolineare in questo momento, è la forza delle interpretazioni di Aymonino sulla città storica, e l’indubbio travaso che tramite il suo lavoro si è avuto nella cultura disciplinare italiana, e di qui nel lavoro contemporaneo di fotografi come Monti sulla città storica. 5. Quaroni e le scale. Nel suo Progettare un edificio (1977), Quaroni si pone il problema delle “scale di progettazione” e osserva che il processo progettuale attraversa momenti razionali e momenti irrazionali, ma questi ultimi sono crescenti quanto più ci si avvicina alla piccola scala. Infatti la programmazione nazionale e la panificazione territoriale e in larga misura anche quella urbana vede una forte prevalenza dei contenuti sugli aspetti formali, e per questo si muove in un maggiore ambito di razionalità e di scientificità, rispetto alla irrazionalità-artisticità della scala architettonica. E dunque non ci sono dialoghi tra le diverse scale? Quaroni sembra rispondere solo nei termini della necessità di un dialogo tra gli specialisti delle diverse scale, convinto che il bagaglio degli studi, l’atteggiamento culturale e l’insieme delle tecniche di analisi e progettazione, e perfino gli artifici e i segreti del mestieri creino differenze, distanze e addirittura incompatibilità ideologico-comportamentali. La soluzione starebbe nella “progettazione interdisciplinare”, piuttosto che nell’esistenza di una figura in grado di controllare ogni processo, dall’aeroporto al cucchiaio. Quanto alla forma urbis e al modo con cui una città media si trasforma ed evolve in una città grande, Quaroni cita alcune modalità di crescita senza chiarire il ruolo dell’architettura. In primo luogo ricorda la legge della persistenza del piano formulata 63 nel 1926 da Pierre Lavedan: il rinnovamento di una città tende a realizzarsi – se non vi sono cambiamenti notevoli delle idee sulla città – colla sostituzione, via via, dei singoli edifici con edifici nuovi che quindi rioccupano esattamente il posto lasciato dall’edificio più antico, mantenendo intatto, o quasi, il tessuto stradale. Inoltre, i metodi elencati da Quaroni sono gli sventramenti, le addizioni esterne, sia laterali (Ferrara, Modena, Berlino fredericiana) che per fasce successive sempre più esterne (Firenze, Colonia, Roma dopo il 1870) o per nuclei più esterni ancora (le new towns inglesi), ed infine le “ristrutturazioni” di quartieri, intendendo – precisa – il re design, ovvero la riprogettazione dell’intero tessuto, cioè non solo i tipi edilizi ma le destinazioni e la viabilità. Possiamo rintracciare in queste osservazioni molti temi tipici del lavoro di diversi fotografi contemporanei, occupati a rappresentare le stratificazioni della crescita urbana, ossia la crescita della città su se stessa, ma anche l’aumento delle dimensioni orizzontali della città, il modo in cui si forma il tessuto urbano, dal germogliare dei tracciati e della occupazione del suolo al consolidarsi della trama viaria e del riempimento dei lotti attraverso tipi edilizi diversi. 6. Politiche urbane pubbliche, un breve excursus. I quattro casi di stretta relazione tra urbanistica e fotografia che presentiamo nei capitoli seguenti si riferiscono ad autori (Monti, Ghirri, Basilico, i nuovi topografi) che riflettono nel loro lavoro – e in una certa misura anticipano – le questioni che la cultura urbanistica contemporanea approfondisce a livello teorico ed affronta poi anche a livello operativo. Lo scambio di informazioni e riflessioni è continuo e bidirezionale, e dunque risulta difficile stabilire il senso di provenienza. Quel che interessa è sottolineare come la fotografia giochi un ruolo determinante in questo scambio, lo abbia fatto negli decenni passati e possa continuare a farlo in modo anche più preciso e frequente in una prospettiva futura. Lo scambio tra fotografia e urbanistica transita in verità attraverso un terzo elemento, la percezione urbana collettiva, che la fotografia contribuisce a creare e che a sua volta determina gli orientamenti dell’urbanistica. La fotografia, in quanto strumento che produce informazione, concorre in misura non piccola all’opera di “ricodificazione, ridimensionamento, riplasmatura e controllo dello spazio nei suoi patrimoni ambientali” [Gambi, 1978]. “Concorre cioè, secondo il suo specifico apporto - quello visivo – alle mutazioni di significato del territorio in rapporto alla città e alla diffusione di tale significato tradotto in immagine. […] L’immagine delle città si offre pertanto come il risultato di un processo di interazione tra l’esperienza del soggetto percipiente – nella quale entrano anche i fattori del vissuto – e il dato oggettivo rappresentato dalla presenza storica della città. La fotografia si inserisce come un elemento di mediazione in questo processo di transazione tra l’interno (il soggettivo) e l’esterno (l’oggettivo). Perché questa transazione sia possibile occorre che l’immagine propria del soggetto – l’interno – venga socializzata, divenga insomma ‘immagine pubblica’. E nello stesso tempo che il dato oggettivo offerto dalla realtà si mostri il più vicino possibile all’immagine soggettiva” [IBC, 1980]. In questo modo la fotografia partecipa alla costruzione di un inconscio ottico collettivo. La modificazione del contesto urbano passa prima di tutto attraverso la modificazione 64 dei vari soggetti che interagiscono per quel fine: decisori politici, progettisti, cittadini, realizzatori, ecc. La fotografia favorisce la diffusione e il consumo del linguaggio che l’urbanistica produce. Per questo motivo ci sembra utile rammentare in sintesi, qui di seguito, i temi più importanti nel dibattito, nella pratica e nella legislazione urbanistica dai primi anni Settanta in poi, con l’intento di mettere in evidenza quanto il lavoro dei fotografi di cui si parlerà attiva uno scambio continuo con questo settore, traendone ispirazione e a sua volta restituendo interpretazioni. Agli inizi degli anni Sessanta, il contenimento dell’espansione urbana è già una necessità avvertita. Nel 1967 il ministro socialista Giacomo Mancini riesce a fare approvare dal parlamento la legge-ponte, il cui obiettivo principale era l’adozione di forti limiti volumetrici alla edificazione nei comuni sprovvisti di piani regolatori. Per non trovarsi a dover ridurre drasticamente l’attività edilizia, i Comuni dovevano avviare le procedure necessarie per l’approvazione degli strumenti urbanistici fino ad allora sempre rimandati. Lo spirito della norma sta come è evidente nell’idea – dimostratasi poi in larga misura eccessivamente fiduciosa nelle virtù della pianificazione urbanistica – di poter contenere lo sviluppo urbano grazie all’esistenza di regole di sviluppo condivise. La legge non ebbe però efficacia pari alle attese, sia per i limiti insiti già al proprio interno, che per gli ostacoli creati via via dall’industria delle costruzioni e dallo stesso Consiglio di Stato, ma soprattutto per l’intrinseca debolezza dei principi che la sostenevano, basati sulla concezione tipicamente italiana di un’urbanistica vista non come una visione strategica della città e del territorio ma come limitazione all’attività edilizia, una riduzione che è al tempo stesso autolimitazione e mortificazione della disciplina. Nel 1968, il decreto ministeriale che fissa i limiti minimi inderogabili dei cosiddetti standard urbanistici – verde pubblico, scuole dell’obbligo, parcheggi, attrezzature di interesse comune culturali, religiose, sociali – introduce anch’esso innovazioni rilevanti, ma contribuisce a mantenere la legislazione e la concreta attuazione dell’urbanistica in una dimensione quantitativa che non può affatto incidere sulla già avvertita e negli anni sempre più evidente necessità di migliorare la qualità del costruito, in termini sia estetici che funzionali e strutturali. Il problema della casa, il movimento sindacale e la protesta del ‘68 conducono nel ‘71 alla approvazione della legge 865, che riorganizza in modo radicale il settore dell’edilizia economica e popolare, sulla spinta delle lotte per la casa di quegli anni. Ancora una volta però l’approvazione di nuove norme si scontra con immediate reazioni contrarie: questa volta della proprietà immobiliare, che provoca successive sentenze della Corte Costituzionale volte a rendere inefficaci o difficilmente praticabili dai Comuni le nuove norme sulla espropriazione dei terreni, prevedendo indennizzi altissimi e vanificando il tentativo della legge 865 di separare il diritto di proprietà dei suoli da quello di edificazione, concezione invece profondamente radicata nella cultura del nostro paese, e che fu affrontata – e, di nuovo, solo parzialmente risolta - nel 1977 con la legge Bucalossi. A fine anni Settanta poi interviene un importante provvedimento, la legge 457 del 1978 che istituisce il piano decennale per la 65 casa e introduce nuovi strumenti attuativi per il recupero edilizio, i piani di recupero del patrimonio edilizio esistente. Si tratta di una estensione all’intero tessuto edilizio delle concezioni del recupero finora limitate alle parti più pregiate della città, i centri storici, la cui politica di valorizzazione e restauro inizia in Italia già a fine anni Sessanta, quando nel 1969 viene adottata la variante al piano regolatore bolognese per il centro storico. Nel 1972 viene presentato il progetto del Piano per l’Edilizia Economica e Popolare nel centro storico, che prevedeva l’esproprio degli edifici di cinque comparti, utilizzando la legge 865 del 1971 appena approvata L’annuncio di questo progetto crea aspettative ma anche reazioni contrarie. Tanto che pian piano le previsioni si ammorbidiscono di molto, anche a seguito delle proteste dei piccoli proprietari, e solo nel 1975 si sottoscrivono alcune (poche) convenzioni con cui attuare privatamente il piano, restando prevalente l’attuazione pubblica, con cospicui finanziamenti della Gescal, il fondo costituito con il prelievo sugli stipendi dei lavoratori. Nel 1975 viene istituito il Ministero per i Beni Culturali, per iniziativa del senatore Giovanni Spadolini, che sarà il primo responsabile del dicastero. In quel settore uno dei momenti di maggior fervore politico-amministrativo deriva dalla approvazione della Legge 431 nel 1985, la cosiddetta legge Galasso, che obbliga le regione a dotarsi di piani paesistici, elencando comunque aree di tutela paesaggistica connesse ai fenomeni geografici e naturalistici più importanti sul territorio, come coste, rispetto dei fiumi e dei laghi, ecc. Nel frattempo però, e negli stessi anni, continuano anche tendenze contrarie, come la legge 47 del 1985, la Nicolazzi sul condono, e nel 1982 la istituzione del silenzio-assenso come procedura di autorizzazione edilizia, con conseguenze inevitabilmente negative sull’espansione delle città, sia in termini quantitativi che qualitativi. Come bilanciamento politico, interviene nel 1986 la istituzione del Ministero dell’Ambiente, mentre nel 1990 esce la legge 142, che prevede l’istituzione delle aree metropolitane. Il provvedimento sembra quanto mai opportuno per governare con strumenti più idonei le conurbazioni del nostro paese, ma rimane poi di fatto inattuato, soprattutto per i problemi connessi alla inevitabile soppressione o riduzione del territorio delle relative province. Negli anni ‘90 inizia poi la fase della cosiddetta urbanistica contrattata, che alcuni vedono come una inopportuna riscoperta dell’architettura contro l’urbanistica. Il rapporto spesso conflittuale tra le due discipline è storia vecchia in Italia, dove l’urbanistica anziché connotarsi – come è stato nei principali paesi europei nordici e di cultura anglosassone - come un insieme di regole derivanti dalla necessità di governare processi sociali, demografici, economici, sconta un “vizio di origine che ha visto l’urbanistica condizionata dal forte legame con la cultura architettonica […] si è così guardato alla fase finale di un processo di trasformazione, quello degli aspetti formali, più che a governare la complessità delle cause della trasformazione stessa. Nella concezione dominante, se l’architettura era la disciplina del “come”, l’urbanistica era quella del “dove” costruire; un’urbanistica, quindi, “ancella” dell’architettura” [Scattoni, 2004]. La legge 179 del 1992 istituisce i programmi integrati di intervento, lo strumento con il quale si presume di poter migliorare la qualità dei 66 quartieri di edilizia popolare, producendo una maggiore varietà di funzioni, di tipologie edilizie, di operatori degli interventi. Nel 1993 la legge 493 introduce i programmi di recupero urbano, e nel 1994 un decreto ministeriale per la prima volta in Italia fa riferimento al necessario recupero delle aree industriali dismesse, lanciando i programmi di riqualificazione urbana. Molti strumenti urbanistici innovativi, basati sull’urbanistica concertata o contrattata, che in Lombardia e in Piemonte ha già dato luogo a deregulation e polemiche su realizzazioni di grande entità come il Lingotto e la Bicocca. Nel 1996 seguono i contratti di quartiere, nel 1998 i programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio (PRUSST). Le periferie sono sempre più al centro delle politiche urbanistiche. Nel 2000 viene approvata la Convenzione europea del paesaggio, è istituita la DARC, la direzione del Ministero per i Beni Culturali che per la prima volta prende a occuparsi di architettura ed arte contemporanee, nello stesso anno il XXIII congresso dell’INU a Napoli è dedicato al “progetto della città contemporanea”, e quello successivo del 2003 a Milano, a “Città e regioni metropolitane in Europa”. 7. Casi di stretta relazione tra urbanistica e fotografia. Come si è visto, tra l’urbanistica e il progetto autoriale in fotografia si crea con gli anni un interstizio dove si forma una nuova materia, il paesaggio urbano. L’urbanistica produce regole, procedure approvative, idee di sviluppo territoriale e urbano, e conseguenti atti di governo, previsioni edilizie, demografiche, infrastrutturali, volendo anche un progetto di società (nelle sue versioni più utopiche e irrealizzate), o almeno un progetto di nuova forma urbis. Di solito questo avviene con l’ausilio di materiali fotografici di studio, rilievi speditivi, puramente conoscitivo-quantitativi. Sono questi i materiali che confluiscono nelle decisioni e nelle scelte dei piani urbanistici. D’altra parte esiste il lavoro di fotografiautori, spesso frutto di proprie istanze, di una propria sensibilità, svincolati da esigenze di programmazione pubblica, ma influenti nell’orientare lo sguardo collettivo. C’è chi sostiene – probabilmente non a torto – che lo sguardo d’autore è tanto più innovativo e carico di scoperte quanto più è lasciato libero di esercitarsi al riparo di domande pressanti, senza dover diventare verifica di qualcosa, di una tesi per esempio. Così i ritratti di fabbriche di Basilico nascono in libertà, e in libertà anche le ricerche di Luigi Ghirri. Tuttavia, sia esso libero totalmente o parzialmente, lo sguardo d’autore ha portato negli anni mattoni su mattoni alla costruzione del paesaggio urbano. Ci si potrebbe chiedere se ha contribuito di più Monti o Ghirri a fissare l’immagine collettiva dell’Emilia-Romagna. E’ un quesito che ammette molte risposte, e dunque non ne produce davvero nessuna. Apparentemente Monti ha avuto più effetto progettuale e pubblico. Ma è stato così perché dietro Monti c’era una macchina organizzativa potentissima. Al confronto, Ghirri ha prodotto effetti con la sola forza della sua evidenza, della sua lapalissiana verità. E’ un po’ anche come se Ghirri avesse smontato di giorno ciò che Monti montava di notte. Con una metafora un po’ facile li si potrebbe definire amici-nemici acerrimi, come Peppone e Don 67 Camillo, e come questi contribuiscono in fondo a evidenziare lati diversi ma essenziali del paesaggio regionale. Monti è l’ultimo grande fotografo interprete della modernità, il suo è un racconto epico che ancora non smette di essere raccontato, la città era quella delle politiche della conservazione, l’avvenimento urbanistico era il piano del centro storico, il progetto era il rilievo che le sue fotografie componevano incessantemente, la forza della sua immagine condiziona a tutt’oggi l’idea di città che Bologna esprime. Ghirri ci appare come sguardo libero, ironico, demitizzante, che si allarga sul mondo padano a macchia d’olio, come in quegli anni la città iniziava ad allargarsi. L’avvenimento urbanistico non è in questo caso l’effetto di un piano, di una politica virtuosa e della sua programmazione efficace, è invece lo sprawl, la fine della divisione tra città e campagna dopo secoli di lunga durata, insomma gli effetti visibili della civiltà dei consumi di massa. Basilico registra un po’ in tutto il mondo e anche in Italia la nascita della megacittà-ipercittà e l’analogia delle sue forme, la ripetizione dei suoi modelli. Nel suo sguardo, il moderno entra in scena ed equivale all’antico, l’archeologia dell’industria si pone a fianco di altri temi urbani concernenti la città antica, e l’avvenimento urbanistico è la formazione delle aree dismesse, la nascita della riqualificazione urbana, i programmi integrati di intervento per il recupero dei quartieri popolari. Guidi e i new topographics italiani sono gli autori che sanciscono che la globalizzazione è compiuta anche da noi. Compaiono i nuovi abitanti, la città inizia a diventare un mosaico di culture e di diritti. Crisi economica e crisi della politica decretano la scomparsa dei grandi progetti, il diritto ad auto-organizzarsi produce la fine del paesaggio inteso come eccezionalità, e il diffondersi di un tono qualunque che pervade ogni cosa. I quattro casi che si esaminano in successione nei capitoli seguenti evidenziano anche un progressivo spostamento da un primo momento in cui – con Monti, in particolare – è la fotografia a svolgere un ruolo subalterno, di servizio, nei confronti dell’urbanistica come complessivo sistema tecnico, politico e decisionale; e una fase più recente, in cui al contrario sembra che sia l’urbanistica a cercare di interpretare i segnali che la fotografia autonomamente e autorevolmente impone all’attenzione e all’agenda delle pubbliche amministrazioni. Se Monti eseguiva di fatto un programma definito dalla pubblica amministrazione bolognese, Basilico e Guidi disegnano in larga misura gli orizzonti di sensibilità relativi alle periferie e al paesaggio ordinario delle nostre città. 68 5. PAOLO MONTI E IL PROGETTO POLITICO DEL TERRITORIO 1. Premessa: una regione ad alto tasso fotografico. La storia della fotografia in Emilia-Romagna tra il 1970 e il 1981 ci aiuta a leggere e a spiegare l’ascesa e la caduta della Regione modello e della sua progettualità. Tra il 1970 – anno della mostra Bologna centro storico e il 1981 – anno della mostra Paesaggio, immagine e realtà, di cui parleremo più diffusamente nel prossimo capitolo, a proposito di Luigi Ghirri - inizia a svanire la capacità di interpretare le dinamiche territoriali da parte delle pubbliche amministrazioni e della classe politica locale. Si è esaurita la spinta propulsiva ideale della ricostruzione, la società rurale è ormai scomparsa, è iniziata l’urbanizzazione massiccia e si affermano i fenomeni di massa, con il turismo costiero, la realizzazione delle autostrade, ecc. Le radici della crisi del modello politico emiliano – che oggi è sbocciata in tutta la sua drammatica evidenza – cominciano invisibilmente a formarsi già nel massimo momento di “splendore” del capoluogo, quando il boom del decennio precedente ha già orientato le scelte di crescita urbanistica con lo sviluppo a nord e il piano di Kenzo Tange. La nascita della cultura della conservazione avviene anche grazie a un blocco ideologico e culturale molto esteso, trasversale e maggioritario, che salda poteri locali, università, imprenditoria in una solidarietà intransigente e impenetrabile. L’Emilia-Romagna deve al lavoro che Paolo Monti ha svolto qui tra fine anni Sessanta e metà anni Settanta una gran parte della propria immagine, quella con cui è conosciuta dentro e fuori i propri confini. Prima, molto prima – all’incirca tra gli ultimi vent’anni dell’Ottocento e i primi venti del Novecento - c’è naturalmente la serie delle inquadrature dei fratelli Alinari che più di tutte le altre ci viene alla mente come fosse una ossessione da cui non possiamo liberarci [Nicoli, 1992], e ci sono i vari fondi fotografici storici, di Brogi e Anderson, Poppi e Romagnoli, custoditi nelle principali fototeche della regione, dalla Panizzi di Reggio Emilia, al Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma, alle Collezioni d’arte della Cassa di Risparmio in Bologna, oggi confluite nel patrimonio della Fondazione Cassa di Risparmio. E poi ci sono alcuni affreschi memorabili, come quelli di Paul Scheuermeier, Enrico Pasquali, Paul Strand e Cesare Zavattini. Ma è innegabile che l’immagine del paesaggio urbano della Regione costruita da Monti proprio in quegli anni di transito dalla modernità alla postmodernità ci colpisce proprio in quanto sembra essere l’ultima delle grandi imprese che hanno visto una solida alleanza della politica con la cultura e l’urbanistica; quando era ancora possibile affermare le cose in modo così chiaro e perentorio, e trovare al tempo stesso tanti osservatori - o forse per meglio dire ascoltatori - così affascinati e convinti del messaggio portato dalle fotografie. L’ Emilia-Romagna è da sempre una regione dove la fotografia attecchisce con particolare vigore. Alcune rassegne mirate, come 69 la mostra del 1997 alla Galleria civica di Modena curata da Walter Guadagnini, hanno messo in evidenza che alcune città emiliane – Reggio Emilia e Modena in particolare – e un’area romagnola che ha il suo epicentro a Cesena vedono già negli anni Settanta una concentrazione assai notevole di fotografi, spesso autoctoni, favoriti anche da una altrettanto notevole attività istituzionale che, in tempi diversi, ha certo contribuito a creare l’humus necessario alla nascita e allo sviluppo d’una koiné artistica in grado di prolungarsi nel tempo. Quattro autori vengono individuati come l’antefatto: Franco Fontana, Franco Vaccari, Guido Guidi e Luigi Ghirri. A cui altri ne conseguono – tra i quali Giovanni Zaffagnini, Olivo Barbieri, Paola De Pietri, William Guerrieri, Corrado Fanti, Luciano Leonotti, Riccardo Vlahov. Tra le ragioni che vengono portate per spiegare questa concentrazione fotografica, vi è l’esistenza di due centri propulsori: la reggiana Biblioteca Panizzi – detentrice dell’archivio Ghirri - e la modenese Galleria Civica; ma anche la costituzione a Bologna del DAMS - Dipartimento Arti Musica e Spettacolo presso il quale dai primi anni Settanta insegnavano tra gli altri Italo Zannier, Paolo Monti, Gianni Celati; e la creazione a Parma per opera di Arturo Carlo Quintavalle del CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione - oltre alla qualità dei docenti e degli insegnamenti di fotografia nelle due Accademie di Bologna e Ravenna [Guadagnini, 1997]. A questo elenco già ricco è necessario aggiungere l’opera di Andrea Emiliani presso la Soprintendenza alle Gallerie di Bologna, con la realizzazione delle precocissime Campagne di rilevamento delle aree appenniniche: a Emiliani si deve anche l’aver portato a Bologna e in Emilia-Romagna Paolo Monti, e il progetto dell’Istituto regionale per i Beni Culturali, che negli anni successivi eserciterà un azione di largo respiro nell’uso della fotografia per il censimento dei beni culturali e soprattutto per l’identificazione dei paesaggi storici della regione. Questo fervore di idee e questa ricchezza di protagonisti si moltiplica anno dopo anno, con la creazione di case editrici precisamente orientate alla fotografia come Punto e virgola di Ghirri, con la pubblicazione di libri fondamentali come Fotografia e inconscio tecnologico di Franco Vaccari (1979), con alcune imprese di Vittorio Savi, come la sua partecipazione alla mostra bolognese del 1981, Paesaggio immagine e realtà, fortemente connotata dal ruolo delle fotografie di Ghirri su alcuni centri della pianura padana, e ancora con il sodalizio tra Ghirri e Savi nel documentare il cimitero di San Cataldo di Aldo Rossi per la rivista Lotus nel 1983. Tutto questo culmina – come una sorta di celebrazione di livello nazionale – nella mostra veneziana del 1989 per il 150° anniversario della nascita della fotografia [Costantini-Zannier, 1989], curata da Paolo Costantini al Museo Fortuny e dedicata in larga misura al lavoro di Guido Guidi e Luigi Ghirri. Paolo Costantini è uno dei giovani critici emergenti di quegli anni, insieme con Roberta Valtorta, critici – come osserva Italo Zannier, che di fatto è il loro maestro - finalmente formatisi sullo specifico della fotografia e non ad essa avvicinatisi come storici dell’arte [Zannier, 1994]. Valtorta oggi dirige il Museo della Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, l’unico museo di fotografia esistente in Italia; 70 Costantini scompare prematuramente, dopo aver contribuito a far nascere, con Guidi, William Guerrieri – altro fotografo emiliano – e l’urbanista Bernardo Secchi il centro Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea di Rubiera, attivo da vent’anni nella perlustrazione fotografica del territorio regionale – e non solo. Due giovani ricercatori della Facoltà di Architettura di Cesena, aperta nel 1999, Stefania Rossl e Massimo Sordi, e una attiva direttrice, Paola Sobrero, animano dalla fine degli anni Novanta il Festival della fotografia di Savignano sul Rubicone, un piccolo centro pedecollinare del circondario riminese. Soprattutto negli ultimi anni il Festival si è occupato di temi legati al territorio: la quindicesima edizione, quella del 2006, titolata Il viaggio. Azione, esplorazione, conoscenza ha ospitato mostre personali di autori come Olivo Barbieri, Francesco Radino e Gianni Berengo Gardin. Nel 2007 (Singolare plurale. Identità e percezioni) viene ospitata una rassegna del celeberrimo lavoro di Robert Frank, Les Américains, la cui prima edizione risale al 1955, e l’altrettanto celebrata Vietnam Inc. di Philip Jones Griffiths (1971). C’è una data che 2. Prime avvisaglie di un’epopea. segna un momento importante per la fotografia di architettura. E’ il 1953, giunge in Italia il fotografo americano George Everard Kidder Smith, e comincia un grande lavoro sull’edilizia della ricostruzione che poi diventò il libro Italy Buildings. Il lavoro di Kidder Smith è fatto da un architetto che è anche storico e anche fotografo, ed è un particolare tipo di fotografia di architettura. In senso stretto non lo è neppure, perché non riguarda – come di solito accade - un singolo edificio, ma un tema (ma potrebbe essere anche un periodo, o una zona geografica o culturale); insomma, è una ricerca visiva con un forte spirito critico ed ermeneutico. Un catalogo, in un’epoca in cui la catalogazione degli edifici non era ancora divenuta una prassi scientifica, codificata da regole messe a punto dai piani di conservazione e tutela, come avverrà un decennio dopo. Per questo, il lavoro di Kidder Smith richiama alla mente le estese campagne di rilevamento urbanistico e culturale che furono inventate in Emilia-Romagna nei tardi anni sessanta, facendo uso 49. Paul Scheuermeier, Comacchio, 1923 71 dell’obiettivo di Paolo Monti. E delle sue gambe, verrebbe da dire, visto che il fotografo novarese è il migliore esempio del rapporto intimo tra la fotografia di paesaggio e il camminare a piedi, instancabilmente, facendo uso di quella particolare misura della velocità che consente di entrare, uscire, avvicinarsi, allontanarsi, procedere oltre e tornare indietro, ingredienti fondamentali per la buona riuscita del rilievo urbano, o per meglio dire di quello stradale. La città edificio per edificio, isolato per isolato, percorrendo strada per strada. Proprio in quello stesso anno 1953, Paolo Monti lascia il suo lavoro di direttore del Consorzio Agrario Provinciale di Venezia, si trasferisce a Milano e abbraccia la professione fotografica. Durante la settimana Monti fotografava ciò che gli chiedevano di fare, ma la domenica usciva armato della sua Leica e girava per le periferie. “Restò un autore esistenziale; il fotografo del tempo, si direbbe del tempo domenicale e pomeridiano della città. Non si trasformò nel fotografo dello spazio dell’architettura. Non lo diventò mai […] il che non impedì che fosse onorato come il maggiore fotografo italiano di architettura” [Savi, Reggio]. Monti sosteneva che “le forme più antiche di fotografia sono state certamente l’architettura e il ritratto, e poi la natura morta e il paesaggio” [Valtorta, 2008(2)], e amava citare una frase di Paul Valéry: “La vérité est un moyen; il n’est pas le seul”. E’ un mezzo, non il solo; ma tanto vale usarlo. Le sue foto sono vere perché si impongono come tali, perché nessuno le ha mai smentite. Anche se con il passare degli anni l’evidenza dei fatti che ha descritto ci appare radicata in modo molto più profondo nella realtà territoriale dell’Appennino bolognese di quanto non sia per il monumentale lavoro sui centri storici, ideologicamente orientato almeno tanto quanto scientificamente condotto. Monti è considerato un fotografo di architettura perché nel suo archivio sono conservate foto di opere dei BBPR, di Anselmi, Albini, De Carlo, Moretti, Quaroni, Gardella, Figini e Pollini, Magistretti, Nervi, Pagano, Pancaldi, Ponti, Samonà, Scarpa, Sottsass, Viganò e altri ancora dei principali architetti del Novecento italiano. Ma è soprattutto notissimo in Emilia-Romagna per gli imponenti rilevamenti dei centri storici, migliaia di immagini dedicate al paesaggio urbano, decisive per la formazione dei piani urbanistici di conservazione. La vicenda che si svolge nell’Emilia-Romagna è inserita nel contesto nazionale e internazionale, anche se mantiene suoi propri caratteri di specificità. Sono molti gli studiosi che in questa regione dialogano con la fotografia e con i fotografi dal loro specifico campo disciplinare, con arricchimenti reciproci: storici dell’arte, architetti, geografi, urbanisti. Sembra però che ognuno si appropri delle immagini del territorio regionale per farne un proprio uso specialistico e alla fine parziale, ideologicamente orientato e dunque non pienamente efficace nell’interpretare le trasformazioni che a partire proprio da quegli anni e fino ad oggi hanno radicalmente mutato il volto della regione. Questa regione esemplifica bene i modi della transizione tra il paesaggio urbano moderno e quello contemporaneo. Il lavoro che vi svolge Paolo Monti è una “grande narrazione” caratteristica dell’epilogo del moderno, ne ha la dimensione, la forza e in un certo senso la rigidità. Quella che vi si vede è la città moderna, nel 72 49. Luciano Leonotti, Porta Lame, Bologna, 1993 senso di “non ancora contemporanea”, una città priva di periferia e di espansione, e dunque anche di completezza. Si sente bene dietro al fotografo la presenza della politica e delle sue scelte, già prese e da render note attraverso una idonea propaganda visiva. Questo rilievo del centro storico, volto alla formazione del piano di conservazione, è rilievo, appunto, ma insieme anche progetto, perché il progetto nulla deve modificare dell’esistente. Il vantaggio offerto da questo modo di procedere sta nell’estrema chiarezza degli obiettivi operativi, ma il suo prezzo sta nel ritardo che d’ora innanzi si accumula nel comprendere l’evoluzione sociale della città e nell’adeguare la struttura urbana. 3. Monti, Emiliani, la nuova cultura delle città. La cultura urbanistica degli anni Settanta conosce una specificità bolognese ed emiliana che esce perfino dai confini nazionali: è la pratica della conservazione del centro storico, che per i decenni successivi ha costituito l’obiettivo primario del governo del territorio nella regione, transitando con poche variazioni nella prima legge urbanistica dell’Emilia-Romagna (1978), nei piani regionali - territoriale e paesistico - e di qui nelle articolazioni di scala provinciale e comunale. Questo è stato, agli esordi dell’ente regionale, l’approccio alla qualità urbana e territoriale. Paolo Monti fu chiamato alla metà degli anni Sessanta dall’editore Livio Garzanti a commentare visivamente la sua Storia della letteratura italiana. Andrea Emiliani ne era tra i curatori editoriali, e così il legame professionale e umano tra il giovane storico dell’arte e il già maturo fotografo ebbe inizio. Emiliani in quegli stessi anni avviava, essendo Soprintendente alle Gallerie Cesare Gnudi, la prima campagna di rilevamento dei beni culturali dell’Appennino bolognese (1969), secondo un progetto di censimento molto attento ai legami con il territorio. L’occasione serviva per rifondare la metodologia con cui compilare gli elenchi e descrivere i beni, facendo entrare nel campo di interesse temi e oggetti fin lì trascurati, come la viabilità storica o la cultura materiale, e leggendo tutto il territorio come un museo, o contenitore di beni culturali, e favorendo in questo modo una tutela democraticamente estesa anche ai centri minori, piuttosto che che finalizzata alla spoliazione degli oggetti d’arte per sradicarli e custodirli in musei lontani. Questi principi, che di fatto fondavano una nuova disciplina – che per l’appunto fu elevata al rango di un ministero a sé stante e scorporato da quello della Pubblica Istruzione, quello per i beni culturali, voluto nel 1974 da Giovanni Spadolini – provocava naturalmente una radicale moltiplicazione dell’uso del mezzo fotografico, proprio per documentare l’esistenza degli oggetti d’arte, le loro strette relazioni con i contenitori architettonici, e particolarmente per certificarne la presenza, quasi come una foto segnaletica o identitaria. Si stava transitando dal concetto di monumento a quello di patrimonio culturale, allargando gli oggetti della tutela e ponendosi dunque urgentemente la necessità di riconoscerli, e poi di mostrarli, e di raccoglierli in schede catalografiche. Per tutte queste funzioni la fotografia era assolutamente necessaria, e Monti ebbe dalla Soprintendenza alle Gallerie e dalla Provincia di Bologna questo incarico, esteso alle valli appenniniche del Reno e del Santerno, tra il 1969 e 73 il 1971. Un modello di lavoro che poi negli anni sarebbe stato portato avanti dai suoi continuatori; nel nascente Istituto regionale per i Beni Culturali (costruito su un progetto di Emiliani, che infatti metteva a frutto le esperienze condotte con le campagne di rilevamento) operò negli anni successivi e per un trentennio Riccardo Vlahov, il cui lavoro era di quando in quando integrato da altri fotografi esterni, tra cui Guglielmo Rossi, Corrado Fanti, Augusto Viggiano. Le campagne di rilevamento dell’Appennino bolognese lasciarono posto a prosecuzioni decentrate, avendo appunto disegnato un metodo e dunque un modello replicabile. Ci sono tuttavia differenze evidenti nel ruolo della fotografia di Monti se confrontiamo questa esperienza con quella quasi contemporanea – in parte coincidente, poi subito successiva - per la rilevazione dei centri storici. Trattandosi dello stesso autore, degli stessi anni, di luoghi e committenti così “prossimi” – tutte amministrazioni pubbliche locali, e per giunta con forti omologie politicoideologiche - non è senza significato rilevarlo, perché la riflessione che si può sviluppare concerne l’importanza del modo con cui le committenze pubbliche si propongono di interagire con l’azione di documentazione. Le campagne di rilevamento – un termine dal forte sapore militare che in effetti descrive l’occupazione del territorio montano da parte delle ragioni della cultura e della storia – si fondano su una interdisciplinarietà che assegna alla fotografia lo status di strumento di ricerca visiva, a cui viene riconosciuta una dignità del tutto analoga alle ricerche tipiche delle altre materie, la storia dell’arte soprattutto, ma anche la storia, la geografia, la geologia, la botanica, l’archeologia, l’antropologia. Monti, che di lì in poi diventa l’autore del primo esemplare di paesaggio urbano coniato direttamente da una amministrazione comunale in Italia, percorre le strade appenniniche con una autonomia decisionale perfettamente integrata con quelle altrui, e restituisce una fotografia documentaria non particolarmente innovativa, ma carica del sapore della scoperta; è un lavoro sul campo che ricorda esempi storici notissimi, come la Farm Security Administration americana, la ricognizione sul mondo rurale americano (circa 270.000 fotografie) voluta da Roosevelt e condotta negli anni 193743 da trenta fotografi – alcuni dei quali notissimi, come Dorothea Lange e Walker Evans - che giustamente Andrea Emiliani cita tra i riferimenti culturali e metodologici. Evans spiegava in una lettera del febbraio 1934 di cosa deve occuparsi la survey photography della FSA, e cita l’urban taste, lo street smell [Jeffrey, 2008]. Cose difficili da definire se non le si dimostra con l’evidenza e la capacità di convinzione che hanno i grandi artisti, attraverso la loro opera. Seguendo l’esempio del maestro americano, Monti fotografa borghi appenninici e oratori, portici e strade, e non si può dire che non sia evidente il sapore di quelle borgate, che non si sentano gli odori delle stalle, dei campi, perfino delle chiese. La descrizione dell’Appennino è oggettiva, misurata, non retorica, e non è poco, trattandosi di territori interessati da una pesante crisi demografica, economica e sociale. Già pochi mesi dopo, nell’agosto del 1969, con la perlustrazione visiva del centro storico bolognese che confluirà poi nella mostra 74 dell’anno successivo, si assiste però a un uso diverso del racconto fotografico. Un uso che produce una manipolazione della realtà bolognese, descrivendola in modo più ideologico che veritiero. Anzitutto, la chiusura del centro al traffico automobilistico, se poteva ritenersi necessaria per consentire una precisa lettura dello spazio urbano e delle facciate degli edifici, produceva però una alterazione della sua immagine quotidiana e concreta, a cui Monti aggiungeva – con l’assenza di persone, e quindi con la cancellazione della realtà sociale, dell’uso degli spazi – un carattere di atemporalità, molto funzionale al messaggio che la fotografia voleva veicolare: che quella scena urbana era l’ammirevole frutto dell’arte e della storia, che era giusto desiderarne il mantenimento o il ripristino – laddove fosse stata distrutta o modificata – e che trasformarla in qualunque modo sarebbe stato peggiorativo. Oltre alle automobili venivano allontanati i cartelli stradali e ogni possibile inquinamento visivo; la città compariva, nelle foto di Monti, come una scenografia teatrale, e l’astrazione tipica del bianco e nero, spesso molto contrastato e con forti effetti grafici, dava ancora di più un tono di sospensione e di rinvio a un periodo indefinito della storia, altrettanto indefinito di quei caratteri originari delle architetture a cui il concetto di ripristino – una delle novità concettuali del piano di conservazione – rimandava, invocando una reductio a un pristinum di epoca imprecisata e imprecisabile, in quanto probabilmente mai esistita, ma soprattutto immaginata. Le foto di Monti erano molto diverse dalla realtà urbana di quegli anni: a parte la corrispondenza al reale degli aspetti architettonici, c’era invece una inversione di senso delle immagini rispetto all’uso sociale dei luoghi: l’assenza di traffico automobilistico e di persone le raffreddava dislocandole in uno spazio-tempo astratto. Stessa considerazione vale per la costante e inderogabile scelta di tagliar fuori la rappresentazione della città contemporanea in centro storico. Nelle sue inquadrature Monti rimuove molti elementi della storia edilizia e urbanistica anche recentissima, come gli aspetti della ricostruzione post-bellica in centro storico. Non solo, ma la città novecentesca è ignorata in tutti i suoi aspetti: dalle periferie storiche - comprendendovi quelle pubbliche dell’Istituto Case Popolari o semipubbliche della cooperazione indivisa di abitazione - alle realizzazioni anche di grande qualità dell’INACasa e dei piani di zona o dei Piani per l’Edilizia Economica e Popolare, ai grandi interventi infrastrutturali come la tangenziale, gli assi attrezzati di entrata in città, alle attrezzature pubbliche come le scuole per l’infanzia, gli impianti sportivi. E se la ragione più evidente sta nel fatto che molte di queste cose non sono in centro storico e dunque sono escluse per definizione dalla commissione ricevuta, c’è da dire però che da un lato invece il centro antico contiene esempi di architettura recente anche di qualità, e soprattutto che il paesaggio urbano così disegnato è per definizione parziale e limitato, a meno di non voler sostenere – come tuttora fanno alcuni radicali sostenitori della città storica, che ne confermano i limiti alle mura medievali - che l’unica città è quella storica, il resto non conta. Le fotografie che Monti dedica all’architettura del Novecento sono davvero poche: qualche immagine all’edilizia pubblica del Ventennio a Forlì, ancora meno le presenze del secondo Novecento, talmente rare da apparire memorabili nei pochi casi in cui ciò succede. 75 4. Esportazione di un modello. La rilevazione dei centri storici compiuta da Monti produce un effetto persistente, quasi una eco di vasta diffusione, e in un breve volgere di anni, fino al 1975, sarà infatti replicata praticamente identica in quasi tutti i centri storici delle città politicamente omologhe dell’Emilia e della Romagna. L’affinità ideologica dei committenti agisce come un’arma capace di agire con una forza comunicativa e costrittiva in grado di condizionare i comportamenti di un gran numero di progettisti, il pensiero di masse di studiosi e studenti, e perfino di cittadini. L’onda è tanto lunga da risentirne ancor oggi, se consideriamo quanto abbia attecchito presso la cittadinanza la rimozione del moderno in centro storico che del lavoro di Monti era un presupposto necessario. Non è un fatto strano, se pensiamo che le immagini che Monti ha prodotto sono oltre diciassettemila. Quasi tredicimila sono quelle relative al territorio regionale e ai centri storici urbani minori e maggiori, quattromila circa quelle inerenti il solo centro storico bolognese. Nell’aprile del 1968 – e dunque prima del rilevamento di Bologna - fu prodotto un primo piccolo nucleo di immagini relative a Brisighella, Faenza, Ravenna, Bagnacavallo, Cesena, Rimini, Lugo, Santarcangelo di Romagna, insomma le province romagnole. Nel giugno ancora Cesena e l’appennino cesenate, oltre a una prima ricognizione di quello bolognese, soprattutto in comune di Porretta Terme, che costituì il materiale della prima campagna di rilevamento promossa dalla Soprintendenza alle Gallerie, poi utilizzato in una mostra a Porretta. Nell’ottobre dello stesso anno, Faenza, Comacchio e ancora Porretta e dintorni. Nell’aprile del 1969 un’altra parte dell’Appennino bolognese (Grizzana, Vergato, Camugnano), nel giugno l’indagine fotografica sulla strada di crinale fra le valli del Reno e del Setta. Nell’ottobre Lugo, nell’aprile del 1970 ancora l’Appennino bolognese, poi in giugno i comuni di Monzuno, Vergato, Lizzano in Belvedere, Gaggio Montano, in agosto Marzabotto, in ottobre circa quattrocento immagini di Pieve di Cento. Nel marzo 1971 altre immagini di Pieve di Cento, di Bentivoglio e di Castelmaggiore (dunque, la pianura bolognese), nel giugno la vastissima produzione relativa all’Appennino imolese (comuni di Castel del Rio e Casalfiumanese), quella sull’Appennino forlivese nel settembre, e le immagini di Terra del Sole in agosto, contemporaneamente all’intero centro storico di Forlì, ancora nel settembre alcune zone dell’hinterland bolognese (Corticella). Nel marzo del 1972 inizia il rilevamento del centro storico di Cesena, che dura sei mesi, fino all’agosto inoltrato. Intanto, nello stesso anno, i rilevamenti di Santarcangelo di Romagna, San Giovanni in Persiceto e Medicina. Nel 1973 ancora Medicina e, in agosto, chiuso al traffico come in tutti gli altri centri storici maggiori, il centro storico di Modena. Nel 1974 l’indagine sul territorio ferrarese: Bosco della Mesola, Valli di Comacchio, Cento, Pomposa, il Po. In marzo-aprile Cervia e ancora immagini su Brisighella e Cesena. Nel luglio 1975 altre immagini su San Giovanni in Persiceto e, in agosto, il centro storico di Ferrara. L’intensità, la densità di questo programma dà conto del metodo di lavoro di Monti: lo spessore quantitativo del materiale è funzione diretta degli intendimenti teorici che giustificavano l’opportunità della esecuzione delle campagne di rilevamento. Tre infatti 76 51. Paolo Monti, Modena, 1973 52. Paolo Monti, Rimini, 1972 sono gli obiettivi principali, ognuno di per sé impegnativo. Una revisione culturale del problema dei beni storico-artistici (quali e quanti), una revisione amministrativa degli enti e degli organismi territoriali preposti alla tutela (il Ministero non era ancora stato creato da Giovanni Spadolini, e lo fu nel 1974), e una revisione dunque del metodo stesso della gestione. Tutti e tre gli obiettivi sono evidentemente connessi al decentramento regionale di alcuni settori, tra cui l’urbanistica, ma anche – allora si sperava – i beni storico-artistici. In primo luogo c’era una concezione globale della conservazione che aveva un naturale bisogno del mezzo fotografico: l’attenzione sempre più insistentemente rivolta alla cultura materiale come riconoscimento della preminenza della storia delle cose in un paese tradizionalmente irretito dalla storia delle idee; e il conseguente spostamento da una erudizione verticale, per settori, a un concetto orizzontale, per strati, dell’indagine sul patrimonio storico; l’accantonamento di pregiudizi accademici, come la distinzione tra arti maggiori e minori e la storia dell’arte intesa come storia di biografie e di eventi straordinari; la convinzione che il patrimonio artistico e storico consente e anzi richiede un uso sociale, e, insieme, la messa in crisi del museo come camera del tesoro. L’importanza dell’indagine fotografica di Monti è indiscutibile per le successive elaborazioni dei piani di conservazione edilizia ed urbanistica; da essa conseguono in pratica anche i concreti restauri eseguiti. Ma, come si diceva, è ancora più decisiva nell’orientare il pensiero dei bolognesi – cittadini e amministratori pubblici – in direzione di una ideologia conservativa ridondante, peraltro perfettamente in linea con la tradizione della città, prima carducciana, poi seguace delle teorie neo-medievaleggianti di Rubbiani e Bacchelli. Se la città comunicata è in relazione di causa-effetto con quella progettata e poi realizzata, le foto di Monti resistono ancora oggi come principale iconografia bolognese ed emiliana. Ciò è tanto più evidente considerando che Bologna al di fuori di queste immagini non ha altre rappresentazioni fotografiche estensive e di pari rango per tutta la seconda metà del secolo scorso, se si eccettua la campagna fotografica fatta eseguire nel 1955 dal cardinale Lercaro nella periferia, tre anni dopo l’inizio del suo episcopato bolognese. La scomparsa di queste immagini ci priva di un documento storico eccezionale, esempio di un precocissimo interesse per la periferia urbana e premessa indispensabile per una operazione sociale, urbanistica e architettonica di portata europea, la costruzione di oltre quaranta chiese nella nuova periferia della città. La rimozione di molte delle azioni del cardinale conseguita alla sua clamorosa destituzione nel 1968 ha posto in ombra anche questa sua ciclopica opera pastorale, ed è sicuramente tra le ragioni principali della eclissi dell’architettura contemporanea a Bologna che avviene in pratica alla metà degli anni Sessanta, forse addirittura prima dell’azione di promozione della nuova cultura conservativa [Gi. e Gl. Gresleri, 2010]. Lercaro il 23 giugno 1955 effettuò per l’intera giornata un sopralluogo nella periferia bolognese, alla ricerca delle migliori localizzazioni per i progetti delle chiese di periferia. La giornata resta documentata da alcune immagini conservate nell’archivio Villani, oggi confluito in quello Alinari, che costituirono il nucleo 53. Luigi Ghirri, Modena, 1972 77 della mostra sulle nuove chiese, allestita nello stesso anno. In parallelo con l’azione di comunicazione, il cardinale istituì un “Ufficio Nuove Chiese” articolato in quattro sezioni – pastorale, economica, tecnica e di propaganda – e affidò la struttura tecnica alla direzione dell’architetto Giorgio Trebbi, più tardi ispiratore e fondatore del Centro studi sull’abitare OIKOS. Si avviò così una stagione di costruzione di chiese, 44 per l’esattezza, che raccolse a Bologna architetti di livello nazionale – ad esempio, Vaccaro – e internazionale, come Alvar Aalto e Le Corbusier. 5. Persistenza del piano. Il piano del centro storico di Bologna – il primo della regione, e a lungo il modello per quelli delle altre città, non solo emiliane - divenne operativo nel 1969, essendo assessore all’urbanistica Armando Sarti, su progetto di Romano Carrieri, Giancarlo Mattioli, Vieri Parenti e Roberto Scannavini, con la collaborazione di Felicia Bottino e Luigi Mari. Nel 1970 fu pubblicato in un volume, dalla celeberrima copertina rossa, curato da Pier Luigi Cervellati, Andrea Emiliani, Renzo Renzi e Roberto Scannavini. Il piano si ispira a teorie discusse nel famoso convegno di Gubbio del settembre 1960. Anzitutto, l’estensione della tutela architettonica dal singolo edificio al tessuto urbano nel suo complesso, alle strade, agli spazi verdi, ai vuoti derivanti dalle demolizioni belliche. E poi, altro celebre carattere del piano bolognese, è la forte valenza sociale: l’idea di voler mantenere gli abitanti, anche quelli più svantaggiati dal punto di vista reddituale, nelle proprie case, opponendosi alla riqualificazione edilizia intesa come valorizzazione immobiliare e sostituzione sociale. Celebre fu l’idea di prevedere un piano PEEP, di edilizia economica e popolare, nel centro storico, anziché nelle tradizionali aree di estrema periferia urbana; forse più celebre come obiettivo che come risultati, sia in termini di metri quadri che di concezione del risanamento. E non era affatto secondaria anche l’idea già ben sviluppata nel piano, di destinare ex conventi e collegi a sedi universitarie. Anche se forse questa scelta ha prodotto anche problemi di congestione che si sono manifestati nel breve volgere di un decennio, traumaticamente evidenziati dalle rivolte studentesche del ’77. La previsione di destinazioni universitarie nel centro ha implicitamente impedito – rendendoli inopportunamente alternativi - la realizzazione di campus universitari esterni alla città antica. C’è un marcato tratto ideologico nelle pagine del libro rosso, ed è anzi così forte e insistito che è sopravvissuto indenne fino ad oggi. Vi è scritto che nel nostro paese, interessato da un incalzante sviluppo metropolitano (colpevole, quest’ultimo, dell’accentuarsi degli squilibri tra nord e sud e anche tra diverse aree all’interno di questa regione), “...la ricerca, gli studi e le indicazioni metodologiche tendono tutte ad una analisi della forma, alla riesumazione di concetti relativi alla architettura intesa come arte pura fine a se stessa che risolve ogni intervento e riscatta qualsiasi situazione nell’espressione artistica [… ], si dice che l’urbanistica è fallita […] perché il compito dell’architetto è quello di fare dell’arte, di risolvere in chiave poetica la drammatica situazione urbana del nostro paese.” [Comune di Bologna, 1970] C’è dunque già, espresso 78 54, 55. Paolo Monti, Modena, 1973 in modo molto chiaro, il dissidio tra urbanistica ed architettura che è rimasto vivo fino ad oggi e che ha impedito in gran parte la modernizzazione delle città emiliane. Il primato dell’urbanistica ha portato a un atteggiamento difensivo contro ciò che si opponeva e si oppone alla conservazione, con conseguenze evidenti sulla situazione attuale. In un contesto di questo tipo Paolo Monti realizzò una specie di ritratto dal vivo del centro storico di Bologna, centinaia di splendidi scatti a mano libera, in un bianco e nero contrastatissimo e in piccolo formato, l’ormai desueto 35 mm. Un amorevole ritratto, che fece poi a tanti altri centri storici: Cesena, Modena, Rimini, ecc. Di queste fotografie Pier Luigi Cervellati, in quegli anni assessore comunale, disse che non sono soltanto il rilievo dell’esistente, ma anche il progetto. Una specie di progetto invisibile. Quello che c’è è destinato a sopravvivere per legge, d’ora innanzi. La conservazione del centro storico con il piano di Bologna diventa infatti una regola in tutta la regione, poi in Italia e anche in Europa. La Regione Emilia-Romagna preleva così com’è la normativa del piano bolognese e ne fa l’articolo 36 della legge regionale 47 del 1978, la prima legge urbanistica regionale. Passano così per legge a tutti gli altri casi urbani, piccoli, medi e grandi, le norme per la classificazione degli edifici e per definire gli interventi ammessi: restauro scientifico, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia. Anche la legge 457 nazionale, approvata nello stesso anno della 47 regionale, contiene più o meno le stesse parole. Purtroppo c’è anche il ripristino tipologico, una metodica d’intervento che non è altro che un falso storico, in una linea di continuità - non proprio diretta ma nemmeno inconsapevole – con gli esempi di mezzo secolo prima di Alfonso Rubbiani. Se si demolisce un edificio incongruo con il contesto e si dispone di documenti più o meno credibili sul suo stato precedente (senza mai chiarire però a quale epoca riferirsi, l’una o l’altra vanno bene, purché diverse dall’odiato Novecento), lo si rifaccia com’era (forse). Per fortuna gli esempi di ripristino tipologico sono pochi, e isolati in alcuni dei primi comparti di attuazione, compresi quelli destinati al PEEP, ma il fatto è che il ripristino tipologico è possibile, è previsto, ha dignità di pratica progettuale, e qui vanno forse rintracciate le origini dell’ostracismo all’architettura contemporanea che compare qua e là un po’ in tutto il libro rosso sul centro storico. Si insinua sempre di più nella coscienza dei cittadini una concezione per cui la città vera è quella dentro le mura, perché quella fuori è un’appendice malata di cui non c’è quasi bisogno di occuparsi. Tanto che nel 1983 l’Istituto Beni Culturali celebra ancora le città storiche, con un famoso convegno, “La salvaguardia delle città storiche in Europa e nell’area mediterranea”, patrocinato dal Parlamento Europeo, e con una mostra fotografica di successo, “I confini perduti”. E il titolo spiega molto bene di cosa si parla. Di confini, ancora e sempre. Dentro i quali c’è il paradiso, fuori dai quali l’inferno del brutto. Pier Luigi Cervellati coordina un gruppo di valenti ricercatori che dettano definitivamente il processo con cui si forma un piano di conservazione del centro storico. Si forma l’iconoteca dell’IBC, che da allora, e oggi ancora, fornisce agli urbanisti e ai progettisti i materiali di base per le loro indagini e i loro progetti. 56, 57. Paolo Monti, Bologna, 1969 79 Il concetto da comunicare è espresso senza mezzi termini da Cervellati nei suoi scritti di quegli anni: che il rilievo è equivalente al progetto. E Monti produce migliaia di fotografie che significano proprio questo. Cervellati paragona le foto di Monti agli schizzi di Le Corbusier: “Non mi sembra azzardato affermare che nelle foto di Monti (quelle di architettura e di urbanistica) ci sia la stessa capacità interpretativa dello spazio e l’analoga volontà conoscitiva che riscontriamo negli schizzi di Le Corbusier. In entrambi i casi, i disegni o le foto, documentano, rilevano, confrontano e indagano una precisa realtà e contemporaneamente suggeriscono soluzioni progettuali o, quanto meno, appropriate letture volumetriche e spaziali […] Ci fanno capire, le foto di Monti, quali interventi sono ammissibili per non alterare (o al contrario, per modificare) il luogo che ha fotografato”. Più avanti Cervellati indica altri modi di utilizzo delle fotografie in chiave progettuale: le foto “confrontate con gli interventi successivi consentono di misurare gli errori compiuti. Consentono di valutare la <precarietà> del restauro o la <violenza> della sostituzione” [Cervellati, 1993]. Ovunque, nelle città emiliane e romagnole, l’immagine urbana di Monti è diffusa, in mostre, libri, convegni, progetti e piani urbanistici di conservazione che diventano un caso e un modello di livello addirittura mondiale. E’ un pezzo della famosa isola rossa e del suo successo planetario, è un principio apodittico e nemico di ogni discussione contraria. Vengono elaborate teorie precise sulla convenienza anche economica, oltre che sociale e politica e storico-urbanistica, del recupero rispetto alla nuova costruzione. Ogni volta che se ne parla, sui giornali, nelle riviste, alle tesi della conservazione sono associate le foto di Monti. Questo orientamento diventa prevalente e anzi totale nelle università, nelle pubbliche amministrazioni, si fondano enti come l’Istituto regionale per i beni culturali, che subito diventano i conservatori dei materiali di Monti, pian piano si creano le facoltà universitarie di conservazione dei beni culturali, i corsi di laurea, gli specialisti del restauro scientifico, le fiere e i saloni dedicati – come quello del Restauro di Ferrara - , le strutture ministeriali. Le foto di Monti sono il commento visivo di questa escalation culturale e soprattutto politico-culturale. 60. Nunzio Battaglia, Le Gocce, Bologna, 2004 80 6. GHIRRI E LA DISPERSIONE URBANA 1. Ritratti mai visti di città padane. Luigi Ghirri, diplomato geometra, comincia a fotografare nei primi anni Settanta, dandosi come regola di “vedere con chiarezza” [Costantini, 1996]. Assume a compito della propria ricerca la necessità di non lasciare che nulla venga perduto, e utilizza in modo inedito e perspicace la frammentarietà tipica del mezzo fotografico per dare risalto ai frammenti della vita sociale e del paesaggio umano, dedicandosi, al contrario di Monti - interprete della storia e del suo impegnativo peso sulla società odierna - al fuggevole, al volatile, a ciò che può sfuggire o restare nell’ombra, cose che tuttavia spesso possono condizionare in modo anche rilevante i sentimenti e le azioni delle persone. Il metodo del rilevamento dei centri storici che si è diffuso in quel periodo condiziona molto la rappresentazione della scena urbana; ma soprattutto, i valori che reggono il modello operativo messo a punto da Monti e Cervellati in pratica non ammettono alternative credibili. Perché la sensibilità comune si è come coagulata intorno ala sfida di conservare la città esistente e con essa la propria memoria e la propria identità. La lotta al consumismo e alla omologazione condotta da intellettuali come Pasolini e Sciascia trova in urbanistica la propria espressione nella difesa del tessuto edilizio e sociale delle città storiche, contro lo sviluppo della rendita fondiaria tipico dell’espansione urbana. Che viene vista come una metastasi del corpo cittadino, e come tale non rappresentabile. L’eccezionalità dello sguardo fotografico di Ghirri sta in larga misura proprio nel modo con cui l’autore concede alla propria curiosità di rovistare tra gli indizi di una rimozione colossale delle evidenze del territorio padano, che all’epoca pare esclusivamente virtuosa, ma che negli anni produrrà molti danni di mancata presa d’atto e di contromisure efficaci. E questo può avvenire il larga misura proprio perché lo sguardo di Ghirri è libero, non condizionato dalle attese e dalle necessità di un committente, dalle sue pretese di ottenere risposte utili alla dimostrazione di strategie già decise, come è stato il caso di Monti. Il primo catalogo monografico di Ghirri esce nel 1979, per iniziativa dell’Università di Parma. Il curatore, Arturo Carlo Quintavalle, indica alcuni autori più giovani (di cinque anni il primo, di undici il secondo) che si muovono in sintonia con il fotografo di Scandiano, Giovanni Chiaramonte e Olivo Barbieri. I due infatti, insieme con Salbitani, Cresci, Guidi, Castella, costituiscono un cenacolo di amici aperto anche alle frequentazioni di scrittori – Gianni Celati soprattutto – da cui derivano esperienze comuni come la fondazione – da parte di Ghirri e Chiaramonte – della casa editrice Punto e virgola – o il progetto della mostra Viaggio in Italia, cinque anni più tardi. Il catalogo della mostra del 1979 [Università di Parma, 1979] contiene il percorso del fotografo dalle foto del periodo iniziale (fino al 1970), alla serie Kodachrome del 1970-78, al cui interno sono già 60. Luigi Ghirri, Carpi, 1973, dalla serie ITALIAAILATI 81 contenute immagini di paesaggio urbano connotate da uno stile radicalmente innovativo: non compaiono i monumenti principali, i paesaggi eccellenti, niente di simile alla tradizione iconografica divulgata dalle pubblicazioni del Touring Club Italiano; la città è raccontata attraverso elementi considerati generalmente secondari – e anzi da sottovalutare - che risultano però ormai determinanti e prevalenti nel panorama quotidiano contemporaneo, come le immagini pubblicitarie, le vetrine dei negozi, le insegne stradali. La serie Colazione sull’erba (1972-74) presenta alcuni paesaggi naturali che potremmo definire kitsch. Ghirri però sembra rifiutare di descrivere le cose come di cattivo gusto, perché è un atteggiamento troppo elitario; si limita invece a registrare fenomeni, in quanto ormai talmente diffusi che risulta impossibile ignorarli. Anche Catalogo (1970-79) prosegue in questa direzione. La città è descritta per elenchi visivi di rivestimenti, avvolgibili, infissi, serrande. Km. 0,250 (1973) è un altro elenco di questo tipo, e rileva i duecentocinquanta metri lineari del muro di confine dell’autodromo di Modena. E’ il rovesciamento dell’estetica di Monti, che al contrario componeva le sue inquadrature scartando accuratamente l’intrusione dei segni contemporanei, isolando invece esclusivamente le testimonianze della forma urbis storica. Tutto il lavoro di Ghirri si connota per l’impronta concettuale sin dai suoi primi scatti - soprattutto per effetto dell’incontro nel 1969 con l’artista Franco Guerzoni - e per la forte carica ironica. E’ facile rintracciare il primo carattere nelle serie Atlante del 1973, viaggio mentale in tutti i luoghi del mondo attraverso i segni delle carte geografiche, dove si possono trovare scatti che sembrano opere di Schifano o Mondrian. Della seconda ispirazione sono testimonianze evidenti i lavori Il paese dei balocchi (197179), dedicata ai Luna Park, chiamati baracconi, con parola del linguaggio popolare, e ancor più quelli di In scala (1977-78), che inaugura le rappresentazioni del paesaggio urbano attraverso Italia in miniatura di Rimini, poi riprese da molti altri fotografi negli anni successivi. C’è in questi scatti tutto il lato pinocchiesco di Ghirri, come l’ha definito l’amico Celati, e anche l’invenzione di fotografare le cose a cui nessuno bada, che gli riconoscono i critici più attenti sin dall’esordio nella piccola ma ormai famosa mostra all’Hotel Canalgrande di Modena nel 1972. Ghirri rivela inequivocabilmente che la comunicazione urbana si è trasferita – senza che quasi ci si accorgesse di quando è iniziato il fenomeno; ma è chiaro che la diffusione della cultura pop ha avuto un peso determinante - dalla percezione delle architetture e degli impianti urbanistici a quella dei cartelli, delle scritte, delle insegne e dei manifesti, che hanno preso il sopravvento sul tessuto urbano di cui ancora ci parlava Monti pochissimi anni prima. L’attenzione al modo come si compongono forme e colori di piastrelle e mosaici nelle facciate degli edifici più ordinari svela un parallelo visivo con le composizioni astratte di Mondrian: l’avvicinamento di casi qualunque a modelli artistici di eccellenza ribalta provocatoriamente le abitudini percettive dell’osservatore della città contemporanea. Mettere al centro dell’inquadratura un vaso di fiori su un balcone per Ghirri non significa fotografare un dettaglio, un particolare, ma indicare quel vaso come “forma simbolica” della cultura che ha prodotto quella casa, quella parte di città. E’ il criterio preso da 82 una figura retorica classica, la sineddoche, per cui la parte viene presa a indicare e riassumere il tutto, con un effetto di pungente straniamento: la prima percezione è di rigetto, di incomprensione, anche di fastidio, ma alla lunga il senso nascosto lavora in profondità e crea una percezione nuova, più raffinata e persistente, come la scoperta gioiosa di una verità celata e svelata solo a chi percorre l’esperienza fino in fondo. Costantini parla con acutezza di “sguardo liberato dall’intenzione di convincere, di affermare” [Costantini-Zannier, 1989], e inteso invece “come forma privilegiata dell’interrogazione”. Se il linguaggio scelto svela i riferimenti americani, molte sono le originali differenze, da attribuire oltre che alla diversità dell’approccio culturale, anche alle dimensioni dello spazio, e alla scelta del paesaggio delle periferie, degli spazi marginali, dei giardini. Dai maestri d’oltre oceano viene comunque la convinzione che la fotografia è una pratica soggettiva che costituisce un mezzo per scrutare dentro se stessi prima che “nella complessità figurativa del mondo”. E forse proprio per questo l’individuo-fotografo può mostrare tutto l’affetto che prova per i suoi soggetti, Costantini parla addirittura di “tenerezza”. Se la fotografia è un modo di vedere piuttosto che una tecnica, allora è sempre esistita, anche prima di essere inventata. Questo è ciò che pensa Ghirri, togliendo importanza a ogni aura scientifico-specialistica, e radicalizzando gli aspetti filosofici, fino ad arrivare a dire [Cesena, 1987] che sono proprio gli angoli più consueti e canonici, che abbiamo sempre sotto gli occhi e abbiamo sempre visto, quelli che svelano all’improvviso novità e aspetti imprevisti. E che nel fotografarli lui aspira a un linguaggio mediano tra l’eccessiva imparzialità e quella specie di editing visivo strettamente personale che utilizzano i fotografi-artisti. Vuole sfuggire alle due categorie incomunicabili e inconciliabili della conoscenza e della poetica, vuole stare in equilibrio tra i due estremi. Qualcuno ha parlato di lui come di un fotografo rinascimentale - la definizione è di Michele Smargiassi - intendendo mettere in luce il suo essere polivalente, trasversale: appassionato di musica (Bob Dylan, Bach, Beethoven, Ry Cooder, e molti altri), di architettura, di poesia, di cinema (Michelangelo Antonioni, Werner Herzog), di pittura (Giorgio Morandi, Giorgio De Chirico). E’ questo atteggiamento che gli consentì di trasformare due ricerche territoriali come il Viaggio in Italia del 1984 e le Esplorazioni sulla via Emilia del 1986 in veri e propri progetti di comunicazione globale, riuscendo nell’impresa non facile di coordinare, lui fotografo, un insieme di fotografi. L’intento era quello di “raccontare un popolo”, come avevano fatto i fotografi della frontiera americana, e in questo obiettivo si raccoglieva poi l’ambizione di Ghirri organizzatore di cultura più che fotografo. Viaggio in Italia ha luogo a Bari nel 1984. L’aspirazione del curatore a produrre un grande catalogo dei paesaggi italiani contemporanei pone questo evento in linea con le figure dei maestri storici come Canaletto, Bellotto e Guardi in pittura, Anderson e Alinari in fotografia. Ghirri prende ispirazione dal vedutismo veneziano, oltre che dalla metafisica e dal surrealismo, aggiungendoci poi del suo, com’è ovvio che sia per un grande artista [Nappi, 2000]. Il catalogo contiene uno scritto di Gianni Celati: Verso la foce. Reportage 83 per un amico fotografo. Qui si parla davvero di paesaggio, senza aggettivazioni, nel senso più largo e trasversale possibile. Le foto di paesaggio urbano non sono molte: Lugo e Pegognaga di Olivo Barbieri (ma è paesaggio storico), Cesena di Battistella, la stazione di Livorno di Chiaramonte, Casale Monferrato di Mario Tinelli, Napoli di Mimmo Jodice. E’ lo stesso Ghirri in altra occasione a ricordarci come, appena nata, la fotografia abbia inteso coltivare un rapporto privilegiato con la scena urbana, visto che la Veduta dalla finestra a Le Gras di Niepce (1827) inquadra un angolo di edificato di un piccolo paese dei Vosgi. Ghirri parla dello sterminato numero di immagini urbane che sono state prodotte di lì in avanti, e della impossibilità di rintracciare un filo da seguire per farne un riepilogo che non sia parziale o forse anche arbitrario. Lo definisce il “riassunto di un genere”, con una espressione da cui trapela forse anche più che sfiducia, quasi disprezzo [Gasparini-Ghirri]. Ciò nonostante, lui stesso comporrà negli anni successivi vari atlanti di città mondiali, proponendoli nel quadro di contributi collettivi di spessore anche rilevante. Come ad esempio nel 1987, quando partecipa alla XVII Triennale di Milano e al catalogo, con un testo dal titolo “Un cancello sul fiume”, illustrato con varie foto tra cui uno splendido notturno di Luzzara 1985 con le case tutte azzurre, oltre a varie del cimitero aldorossiano e del campo di Fossoli. E’ un testo dedicato alla malinconia, che come dice Zavattini è originaria del Po. Ghirri scrive che non gli dispiacerebbe abitare nei pressi di Luzzara, e l’amico appena tornato dall’Africa - di cui parla senza nominarlo, e che però sappiamo essere Celati - inorridisce e esprime il suo disaccordo (questo è l’indizio che rivela Celati: parla delle villette geometrili senza davvero amarle, e in questo è meno concettuale di Ghirri e più debitore della cultura dominante). Secondo Ghirri i caratteri della bassa sono proprio la malinconia e l’imprecisione data dalla foschia. Il centro di tutto questo mondo padano è il cancello nella piazza di Pomponesco, sul Po. De Chirico, dice Ghirri, usa questa stessa malinconia come se fosse una materia, come fosse un colore per le sue tele. Per quella stessa esposizione milanese, l’architetto Vittorio Valori Perduti - un personaggio immaginario in cui si cela Vittorio Savi -, nato nella seconda guerra mondiale, laureato architetto al Politecnico di Milano e dedito alla ricerca di “rimedi architettonico-urbanistici alle città e alle campagne” parte per un viaggio-avventura da Roma-EUR a Milano. Savi e Ghirri si impegnano dunque per la stessa mostra e per lo stesso catalogo a disegnare itinerari e atlanti, ancora una volta, instancabilmente. E’ un punto comune della loro ricerca, qualcosa che li avvicina e li caratterizza entrambi come sperimentatori e indagatori delle analogie e delle differenze espresse qua e là nei giardini del villaggio globale dalla multiforme relazione tra architettura e natura. Con il titolo Un atlante fotografico sulla metropoli Ghirri fece per quel catalogo una sua proposta di lettura della geografia urbana mondiale nel volume “Oltre le città, le metropoli”. I ventidue fotografi che scelse sono Ogle Winston Link, Walker Evans, André Kertész, Robert Doisneau, William Klein, Robert Frank, Lee Friedlander, Diane Arbus, George Tice, Art Sinsabaugh, Nicholas Nixon, Joel Meyerowitz, William Eggleston, Stephen Shore, William Clift, 84 Joel Sternfeld, Ugo Mulas, Klaus Kinold, Giovanni Chiaramonte, Andrea Cavazzuti, Fulvio Ventura e lui stesso: un tedesco, un francese, cinque italiani e quindici americani (due nati all’estero – Ungheria e Svizzera - ma vissuti negli Usa). Le fotografie datano dal 1929 al 1988. I luoghi sono in larghissima misura gli Stati Uniti, e inoltre Parigi, Tokyo, Milano, Caracas, Hong Kong e Atene. Quattro anni più tardi, Ghirri ripete la scelta di luoghi e fotografi nell’Atlante metropolitano, un quaderno di Lotus che raccoglie alcuni dei principali contributi già pubblicati nei cataloghi della XVII Triennale Le città del mondo e il futuro delle metropoli, le cui pagine assommavano a circa 700, a detta dello stesso Nicolin “una galassia gutemberghiana che a modo suo riproduceva la dispersione metropolitana” [Nicolin, 1991]. Ghirri aggiorna l’atlante, limitandosi questa volta a soli autori contemporanei e retringendo decisamente il campo: conferma le scelte di Cavazzuti, Chiaramonte, Kinold e Meyerowitz, raccoglie foto di Daniele De Lonti, Joan Fontcuberta, Filippo Partesotti, perfino una foto di Wim Wenders, ma questa volta soprattutto un gran numero di foto sue. Le città sono Atene, Caracas. St. Louis, Leningrado, Chicago, Zurigo, Houston, Berlino, Roma,Boston, New York, Londra, Parigi, Hong Kong, Barcellona, Lubiana e ovviamente Modena. Difficile riconoscere un filo conduttore che non sia esclusivamente una interpretazione soggettiva, a dire bene autoriale. 62. Luigi Ghirri, dalla serie Touring Club Italiano, 1986 2. Elenchi infiniti e incessanti di cose intime. L’idea di un atlante per raffigurare il proprio mondo è un’ossessione tipicamente ghirriana, ricorre nei titoli delle sue serie fotografiche e anche negli scritti o nei lavori editoriali come quello per il catalogo della XVII Triennale. Con una metafora musicale che dimostra una volta di più un riferimento preciso e continuo della sua cultura, Ghirri ci parla del sentire a strati come modo del nostro sentire comune, costituito di “conoscenze, attenzioni, stimoli, sentimenti, ricordi, amnesie e novità, informazioni, richiami, echi”, e tutto questo si mescola nel vedere, nel fotografare, addirittura in una singola fotografia. E dunque l’impresa di rintracciare quel filo in questo “sbalorditivo numero” di cose è un’utopia, ogni atlante è soggettivo e circoscritto. In un suo testo Ghirri riporta una citazione tratta dallo scrittore portoghese Fernando Pessoa sul vestito di una ragazza seduta in un tram: è un viaggio lunghissimo che parte dalla filanda dove il tessuto è stato prodotto, entra nelle vite degli operai una ad una, tanto che alla fine l’intero consorzio umano è davanti agli occhi di chi vede (e pensa, e scrive). E il vestito è solo un dettaglio di una sola immagine di un solo attimo nella vita di una sola persona in un solo luogo del mondo... Sono molti gli scrittori – oltre agli architetti, come vedremo poi che hanno influenzato il lavoro di Ghirri, e tra questi il francese Georges Perec. Nel suo “Approcci di cosa?”, che introduce un libro pubblicato per la prima volta nel febbraio del 1973, egli scrive che ciò che ci parla è sempre lo straordinario. Dietro un avvenimento deve esserci uno scandalo o un pericolo, ci interessa solo lo spettacolare. Così, “i giornali parlano di tutto, tranne che del giornaliero”, e per questo ci annoiano. Dobbiamo parlare invece di cose comuni, di quelle che ci toccano davvero, perché parlano di noi, di come siamo. Si tratta di “fondare finalmente la nostra propria antropologia”, di occuparci non più dell’esotico, ma 85 dell’endotico [Perec, 1994]. In quel libro sottile (non solo per il formato), Perec fornisce degli elenchi, parlando della rue Vilin, la strada della sua infanzia, facendo un inventario di ciò che ha ingerito nel 1974, e così via. Sono indicazioni utili, oltre che per gli scrittori, anche per un fotografo che voglia davvero raccontare i luoghi che attraversa: “Descrivete la vostra strada. Descrivetene un’altra. Fate il confronto. Fate l’inventario delle vostre tasche, della vostra borsa. Interrogatevi sulla provenienza, l’uso e il divenire di ogni oggetto che ne estraete. Esaminate i vostri cucchiaini. Cosa c’è sotto la carta da parati? Quanti gesti occorrono per comporre un numero telefonico? Perché? Perché non si trovano le sigarette in drogheria? Perché no? Poco m’importa che queste domande siano frammentarie, appena indicative di un metodo, al massimo di un progetto. Molto m’importa, invece, che sembrino triviali e futili: è precisamente questo che le rende altrettanto, se non addirittura più essenziali, di tante altre attraverso le quali abbiamo tentato invano di afferrare la nostra verità”. Possiamo facilmente confrontare questi elenchi pazienti con alcuni soggetti delle fotografie di Ghirri: cucchiaini, carta da parati, fotografie ri-fotografate... Nelle sue Lezioni americane, uscite postume nel 1988, Italo Calvino fa frequenti riferimenti a Georges Perec, soprattutto in riferimento a uno dei valori da conservare nel prossimo millennio, quello della molteplicità. Certamente Ghirri è stato influenzato da questi concetti, anche attraverso l’amico Gianni Celati, sodale di Calvino ed egli stesso scrittore della pianura emiliana e del Po. L’idea del mondo come garbuglio, groviglio o gomitolo, “di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento” [Calvino, 1988] viene da Carlo Emilio Gadda. E da Gadda provengono altre poetiche contemporanee, ad esempio il romanzo come opera perennemente incompiuta, come rovina di progetti ambiziosi e quasi inattuabili. Da Gadda transita per Calvino e forse giunge a Ghirri l’enciclopedismo inteso come relazioni infinite tra le cose, passate e presenti, possibili e reali, ma delle quali tutte occorre tener conto, dare la genealogia, la provenienza. Calvino, nel comporre gli ingredienti della qualità del molteplice, sua primaria necessità psicologica, prende da Marcel Proust l’immagine della rete che collega ogni cosa, il senso della dilatazione del mondo fino a diventare inafferrabile, e la conoscenza come sofferenza derivante da questa inafferrabilità. Anche la leggerezza e l’esattezza, altri due dei valori calviniani per il terzo millennio sembrano essere facilmente accomunabili alla sensibilità di Ghirri, che dunque sembra essere davvero l’autore che più di tutti in Italia ha effettuato il transito dell’immagine fotografica dal moderno al contemporaneo. La precisione di Ghirri e l’esattezza di Calvino hanno forse la stessa origine: “Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita”, dice Calvino. E la battaglia che Perec combatte con il linguaggio “per farlo diventare il linguaggio delle cose, che parte dalle cose e torna a noi carico di tutto l’umano che abbiamo investito nelle cose”; così come l’idea che la profondità va nascosta alla superficie (tratta dallo scrittore Hugo von Hofmannsthal) e che ciò che è 86 nascosto non ci interessa (dal filosofo Ludwig Wittgenstein) sono certamente concetti di Calvino ma anche di Ghirri, come le sue fotografie – e se non fossero sufficienti da sole, anche i temi delle sue fotografie - ci svelano con molta evidenza. 3. Una mostra memorabile. E’ proprio prendendo in mano e consultando il catalogo del 1979 che Vittorio Savi – architetto e critico di felici intuizioni, con il quale nascerà un’amicizia ricca di stima reciproca - pensa a Ghirri come autore di alcune fotografie padane per accompagnare una sezione da lui curata della mostra bolognese Paesaggio, immagine e realtà, che apre alla Galleria d’arte moderna del capoluogo emiliano nel 1981. Savi ha raccontato spesso la genesi di quel lavoro, che segna indubbiamente un momento decisivo nella visibilità di Ghirri, anche per i contrasti che si accendono immediatamente tra interpretazioni antitetiche dei valori del territorio e del suo stato attuale. Se considerate dal punto di vista del fotografo e nella concatenazione del suo lavoro, le fotografie per la mostra bolognese non fanno che confermarne la ricerca, già avviata da tempo, delle espressioni del paesaggio italiano rimosse dall’iconografia tradizionale, ispirata a modelli di esasperato estetismo storico-artistico. L’intuizione di Savi sta nel mettere questo tipo di immagini a fianco di brevi studi storici sulle piccole città padane che pretenderebbero immagini più conformi ai contenuti testuali: nei saggi contenuti nel volume ogni autore descrive i caratteri urbani delle diverse città padane, “ma, al momento giusto, è restio a considerare le aree nelle quali si è consumato il conflitto città/campagna” [Paesaggio, 1981]. Questo è invece proprio ciò che Savi ha chiesto a Ghirri di testimoniare, ed è questa l’originalità dell’approccio. E’ un racconto di strabiliante anticonformismo, se confrontato con la produzione coeva di documenti visivi da parte della Regione, in quanto ente che si sta costituendo e sta cercando di darsi una immagine propria, ma lo fa con linguaggi e idee molto connesse con la tradizione. Infatti, mentre la maggioranza dei lavori anche fotografici sul territorio extraurbano resta all’interno della visione rurale contenuta nelle opere di Emilio Sereni o di Lucio Gambi - che presiede in quegli anni il neo-nato Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione -, Ghirri offre per quella mostra una lettura del contado che in realtà racconta della città. Città che si potrebbe presumere assente da piccole provincie come quelle emiliane e dagli insediamenti minori sparsi nel territorio extraurbano, ma in realtà inizia proprio in quegli anni a riverberare la sua immagine - anche se in modo distorto e a volte parodistico - perfino nei piccoli centri della pianura. E’ un racconto visivo dello sprawl, avvolto in una specie di velo d’incanto, una meraviglia persistente e continua che proviene a Ghirri direttamente dal suo stile e dalle motivazioni teoriche del suo sguardo. Paesaggio, immagine e realtà è un titolo molto pertinente, e fotografa bene la distanza tra il territorio dove la gente vive – fatto della città lineare della via Emilia, ormai pienamente in via di formazione, di quella della costa, anch’essa già da tempo delineata, e delle conurbazioni minori – e l’idea ancora molto vedutistica e nostalgica che è radicata nei più, soprattutto nella gran parte delle amministrazioni locali, da quella regionale a quelle provinciali e 62. Luigi Ghirri, Modena, Cimitero di San Cataldo (Aldo Rossi) 87 comunali. Lo sguardo di Ghirri non ha nulla che vedere con quello maestoso e retorico di Monti, è uno schiaffo in piena faccia a storici dell’arte e cultori della conservazione. Ha appreso la lezione dei New topographics americani, Stephen Shore, Lewis Baltz, Robert Adams, i fotografi che nel 1975 hanno partecipato alla mostra sottotitolata Man Altered Landscape. Quelle di Ghirri sono immagini che non descrivono le ragioni storiche di un territorio, non danno conto del persistere immutabile di una vie des formes regionale, ma scovano a casa nostra le tracce della nascente globalizzazione dei modelli e dei modi di vita. Comincia qui la fine del pittoresco, nella cultura dominante della pianificazione urbana e paesaggistica, anche se sarà un processo di lunga durata e ancora in corso, vista la forza del pensiero “scientifico” sui beni culturali, che nel corso degli anni si è profondamente amalgamata con i piani e i programmi delle amministrazioni locali e con l’opinione del corpo elettorale che le sostiene. Per paradosso, questa visione così urbana del territorio rurale è resa da un abitante della campagna come Ghirri è sempre stato, nato a Scandiano e poi residente a Roncocesi. Come che sia, questa lettura è la trasposizione per immagini delle indagini che in quegli anni già iniziavano a descrivere la diffusione della città e la trasformazione del territorio rurale, progressivamente assimilato a quello urbano, attraverso la disseminazione di modelli abitativi, infrastrutture, e più in generale di stili di vita. Mentre gli studi urbani più avvertiti percepiscono la trasformazione in atto, i documenti di pianificazione territoriale della Regione e la loro applicazione alle scale locali contengono ancora riferimenti al dualismo città-campagna di derivazione marxista, assunto come obiettivo per una crescita ordinata e razionale degli insediamenti e per la conservazione dei valori paesaggistici del territorio extraurbano. La realtà è ben diversamente orientata, e produce effetti già percepibili a un occhio attento e sensibile come quello del fotografo di Scandiano. In occasione della mostra bolognese del 1981, Lucio Gambi – che ne è il curatore - è in pratica costretto da Vittorio Savi a confrontarsi con le fotografie di Ghirri. Gambi accetta obtorto collo e solo dopo molta insistenza di pubblicare nel catalogo queste immagini. Le foto mostrano binari, vecchi cinema e stazioni di provincia, automobili, feste di paese, e soprattutto dettagli, una quantità di dettagli che spezzano la rotondità e la levigatezza dei paesaggi di cui è composta la regione ufficiale. Entra così, da uno spiraglio della porta che il fotografo socchiude abilmente, la nuova luce riflessa dalla pianura, che finora era stata appiattita sui fogli cartografici e rappresentata solo nelle sue emergenze storiche. Ed è davvero stridente il contrasto che si crea da subito con l’armamentario di derivazione guerresca di cui sta dotandosi su impulso di Gambi l’IBC regionale (carte dell’Istituto Geografico Militare su cui condurre il rilevamento del patrimonio storico, foto aeree prese durante la guerra dalla Royal Air Force britannica). 4. Il geometra Ghirri e alcuni architetti. Il rapporto di Ghirri con la rivista di architettura Lotus International inizia con il numero 38 del 1983, per iniziativa di Vittorio Savi, che lo presenta a Pierluigi Nicolin, Alberto Ferlenga e Luca Ortelli, membri del comitato di redazione. Il suo primo lavoro è dedicato 88 al cimitero modenese di San Cataldo, progettato da Rossi con Gianni Braghieri per il concorso del 1971 e costruito tra il 1978 e il 1983, e dunque appena ultimato. Ghirri dichiara che lo stimolo che gli viene dall’architettura di Rossi è di far combaciare l’oggettività con la soggettività. Tuttavia non crede che per lui si tratti di un lavoro di tipo nuovo. E’ convinto infatti che aver fotografato il paesaggio, come ha fatto negli anni precedenti, significhi aver fotografato l’architettura: “Quello che ho fatto tra il 1970 e il 1975 fotografando i margini delle città antiche, le periferie, o prevalentemente quei paesi senza dignità storica o geografica, è stata una sorta di ricomposizione di album di famiglia del mio e del nostro esterno” [Ghirri, 1997]. Savi racconta estesamente il suo rapporto con Ghirri, che definisce “una persona sorpresa e financo perplessa della cecità altrui” [Savi, In prospettiva]. E’ Savi che insiste presso Aldo Rossi, che in un primo momento non è convinto della scelta del fotografo. Si ripete così due anni dopo la stessa vicenda che già era avvenuta due anni prima, alla mostra bolognese della GAM, quando in quel caso i dissapori per la scelta di Ghirri come fotografo padano erano stati con Lucio Gambi. Queste frequenti battaglie per promuovere e difendere le immagini del fotografo di Roncocesi danno ragione alle affermazioni di Savi, per cui è stato lui a creare Ghirri fotografo di architettura. Il confronto con il linguaggio e soprattutto con le poetiche di Rossi rafforza Ghirri in questa direzione di considerare i ricordi come luoghi, e i luoghi come oggetti, immagini, testi letterari, mescolando un po’ tutto. Ed è Savi che lo induce a guardare le immagini di architettura classiche come stereotipi da cui partire per poi distanziarsi. E’ difficile districare Savi da Rossi e da Ghirri. Sono come fatti l’uno per l’altro, l’uno della pasta dell’altro, e le influenze dell’uno sull’altro sono misteriose e penetranti. Per Ghirri la fotografia non è invenzione come è nella pittura, dove si può creare una immagine che non esiste in realtà, ma inventio nel senso latino, cioè scoperta, rinvenimento a seguito di una ricerca, di una attenzione particolare, dopo la quale gli oggetti da inquadrare – che già erano lì, ma non visti, non riconosciuti, cominciano a essere noti, conosciuti, evidenti [Cavanna, 1999]. Ghirri è affascinato dallo sguardo duplice che si produce osservando una fotografia, che è sia sguardo sulla fotografia – presente, qui ed ora - che sulla realtà – assente, qui ed ora – che la fotografia raffigura. Scrive: “Fotografare diventa allora coscienza di trovarsi sulla linea di confine tra conosciuto e ignoto, che trasforma il guardare nell’intravedere” [Ghirri, 1997]. Da queste parole prenderà vita, negli anni ‘90 Linea di Confine per la fotografia contemporanea, l’associazione fotografica di Rubiera che sui temi del paesaggio fonderà gran parte dei propri obiettivi programmatici. Nel raffigurare l’architettura, Ghirri gioca frequentemente a provocare l’intreccio del doppio sguardo del fotografo e dell’osservatore della fotografia, sguardi diversi e autonomi fino a un attimo prima di diventare sovrapposti, coincidenti, nella visione di quella porzione di realtà che il fotografo ha fissato in quella inquadratura che ora l’osservatore guarda. Questi doppi sguardi sono certamente gli elementi di fascinazione, di cattura che la fotografia pratica su ognuno di noi. Ghirri fa uso di tecniche che diventano subito invenzioni artistiche e poetiche, quando ad 63. Foto di Ghirri in una pagina del catalogo “Paesaggio, immagine e realtà”, 1981 64. Luigi Ghirri, Scuola di Fagnano Olona (Aldo Rossi) 89 esempio usa la luce non per svelare ma al contrario per velare o addirittura per celare, nel buio, nell’ombra, che è l’equivalente fotografico del silenzio. Adopera la luce (la sua assenza) per cancellare, anziché per rivelare. Le foto di architettura consentono in massimo grado di sperimentare le capacità grafiche della luce. Ma cosa sono poi le foto di architettura? Non è certo sufficiente che l’architettura sia il soggetto della ripresa perché ciò che viene prodotto sia fotografia di architettura. Ghirri ad esempio è riuscito a fotografare i siti (architettonici, paesaggistici, archeologici) con i frequentatori e i turisti, riuscendo a trasformare questi ultimi da soggetto sociologico in vero e proprio elemento attivo della fenomenologia di percezione dei siti, e questo è molto evidente anche nelle foto che produsse per i due volumi del Touring Club Italiano dedicati all’EmiliaRomagna. E’ parlando di questa serie di immagini ghirriane che Savi mette in luce la sua grande capacità nel fotografare il monumentale, “un monumentale molto annacquato, poco grande stile nietzschiano, un po’ anche domestico, sentimentale”. Qui infatti i luoghi del turismo culturale sono rappresentati in un modo assolutamente anticonvenzionale, spesso pieni di persone in movimento: immagini mosse, gente ripresa di spalle, senza nessuna accondiscendenza alla iconografia classica del monumento messo in posa e privo di presenza umana. 65. Luigi Ghirri, dalla serie “Paesaggio, immagine e realtà” 66. Luigi Ghirri, Bologna, 1985, dalla serie Esplorazioni sulla via Emilia 90 7. LA SUPERCITTA’ DI BASILICO 1. Tra i Becher e Savinio. Gabriele Basilico (Milano, 1944) è più giovane di un anno di Ghirri. Architetto, inizia a fotografare negli anni ‘70, e il suo primo lavoro di successo è del 1979, un ritratto della sua città natale eseguito attraverso le fabbriche, ispirandosi alle fotografie di Bernd ed Hilla Becher. Da quell’iniziale attenzione al paesaggio urbano e alla architettura industriale, Gabriele Basilico non ha più cambiato tema, e ha dedicato oltre trent’anni di impegno costante alle città di tutto il mondo, da Los Angeles a Mosca, alla Cina, al Medio Oriente. “La sua opera, monumentale e sistematica, malinconica nei toni come malinconica è la fine dell’era industriale, si ricollega, in fondo, alla grande tradizione italiana degli Alinari. […] Basilico è il grande cantore del nostro mondo devastato dallo sviluppo economico, nello sforzo di abbracciarlo tutto, secondo una visione antitetica a quella di Ghirri, ironica e frammentata” [Valtorta, 2005]. E’ facile riconoscere gli antecedenti delle immagini di Gabriele Basilico nel Novecento italiano e in particolare nella cultura artistica e architettonica milanese. Su tutti vi sono Mario Sironi e Giovanni Muzio. In comune con il pittore c’è la tendenza al monumentalismo, il rigore metafisico, l’attinenza dei temi, soprattutto quello delle periferie e dell’industria; con l’architetto ha in comune la milanesità, espressa in un grigiore malinconico pieno di ascendenze classiche, che dà origine a una speciale maestosità silenziosa. Basilico sembra ricordare a tutti che, ci piaccia o no, la periferia è il prodotto più significativo dei processi di urbanizzazione del ventesimo secolo. L’urbanistica militante, insegnata nelle università, promossa dall’INU e amministrata in molti enti locali governati soprattutto dalle sinistre ha sempre guardato con ostilità la produzione edilizia della seconda parte del Novecento, che si è concentrata a ridosso dei margini della edificazione storica, dando corpo a una città di scadente qualità formale, spesso priva o sotto-dotata di servizi pubblici e di connessioni infrastrutturali, marginale sia in senso fisico-geografico che sociale. Tuttavia, come si è iniziato a sostenere solo negli anni a cavallo del nuovo millennio, quella città novecentesca era ed è quella in cui si concentra la maggioranza della popolazione, e dunque quella a cui è necessario concedere più attenzione di quanta non sia stata data nel ventennio precedente, tutto preso dallo sviluppo delle pratiche della conservazione dei centri storici, dell’ambiente rurale e del paesaggio tradizionale e interessato allo sviluppo edilizio abitativo e industriale solo in termini quantitativi. L’attenzione che il fotografo milanese porta alle periferie, alla produzione edilizia del Novecento, sembra a tutta prima confermare una delle critiche ricorrenti e più convenzionali portate all’espansione urbana: quella della sua indistinzione formale e indifferenza geografica: ovunque nel mondo le periferie del dopoguerra sono identiche. Basilico rende molto bene 91 67. Mario Sironi, Paesaggio urbano (Fabbrica) questo concetto, ne è anzi il divulgatore, attraverso le forme di una supercittà composta dalle immagini di tutte le città che ha fotografato, accostate le une alle altre. Il lavoro di Basilico è tutto dedicato all’evidenziare la struttura portante della città: l’insieme di oggetti fisici – prevalentemente architetture, o per meglio dire edifici comuni, quasi mai di particolare pregio o interesse in sé -, delle dimensioni reali e dei pesi visivi degli oggetti, delle relazioni tra gli oggetti posti sui diversi piani dell’immagine. Questo modo di studiare la struttura urbana è lo stesso, sia che Basilico fotografi Berlino, Valencia o Istanbul, tant’è vero che le foto si assomigliano, e per conseguenza Milano finisce per assomigliare a Berlino, a Valencia e ad Istanbul. L’effetto che si genera è quello di accomunare i luoghi in un’unica visione, non di distinguerli per specificità o caratteri propri. Questo avviene non solo per le raffigurazioni urbane ma anche per le singole architetture: antico e moderno, popolare e nobile si mescolano l’uno con l’altro, tutto è buono, Basilico definisce questo suo modo di descrivere le città una sorta di bulimia. Come per Benjamin, ogni città è bella. Ne deriva un senso di accettazione dell’esistente che non è diverso da quello che trasmettono le fotografie di Monti, e che ha avuto certamente effetti determinanti sulla percezione collettiva delle città, avvicinando alla gente il corpo della città moderna, reso attraente, non minaccioso, a volte malinconico perché ritratto nella sua versione un po’ sfiorita, come se gli anni migliori fossero passati. Fino a Milano ritratti di fabbriche Basilico è soprattutto un talentuoso allievo dei Becher, poi con l’esperienza della DATAR inizia a occuparsi degli spazi aperti come spazi di relazione tra le cose. Nell’urbanistica italiana questa attenzione si è affermata anche grazie a Basilico. Questa supercittà è evidentemente un concetto, e in quanto 92 tale prescinde dalla possibilità reale di vedere effettivamente un paesaggio di questo tipo. Quel che conta non è nemmeno vedere insieme le foto delle città, ma ricordarle insieme, e cioè avere dentro la somma di tutte. Come è poi nella realtà: non le vedremo mai insieme, queste città, ma agiscono in noi insieme, ricordandoci che il mondo in cui viviamo è urbano, ovunque, che non possiamo più isolarci in una natura incontaminata. C’è un destino che si è maturato per noi, nel XX secolo, che ci concerne tutti e che non dobbiamo rifiutare – come molte teorie ambientaliste e antiurbane continuano a pretendere. Avvicinando le fotografie di Basilico a quelle di Monti risultano forti analogie espressive, che rendono simile anche il messaggio comunicato: ciò che si vede è da amare, da rispettare, da conservare. Non ci sono nei due autori incitamenti alla trasformazione, anche se il ricevimento di questi due messaggi nella cultura urbanistica ha prodotto effetti per lungo tempo opposti: Monti paladino della conservazione, Basilico sollecitatore di un interesse anche operativo per le periferie, le aree industriali dismesse, in sostanza per i caratteri della città moderna. Dopo trenta e più anni di schieramenti opposti su questi due versanti operativi, oggi il concetto di paesaggio urbano sembra contenere finalmente entrambe le posizioni, e la cultura urbanistica le ha registrate sin dall’approvazione nel 2000 della Convenzione europea del Paesaggio, un documento dove si leggono affermazioni che ribaltano in modo deciso alcune convinzioni radicate sul primato dei paesaggi eccezionali. Per la prima volta viene riconosciuto in un documento ufficiale il ruolo del paesaggio urbano, considerato elemento importante della qualità di vita delle popolazioni, anche nelle zone della vita quotidiana, e alla stessa stregua di ogni altro tipo di paesaggio, anche qualitativamente più importante. Questo consegue alla dichiarazione che sono le popolazioni a stabilire le gerarchie di valori dei propri paesaggi, anche in relazione alla affezione che esprimono nei loro confronti. La descrizione da parte di Basilico di una supercittà i cui caratteri unificanti consistono nell’essere priva di eccellenze, non particolarmente riconoscibile per caratteri tipologici e tradizionali, generalmente moderna e contemporanea, fa del fotografo milanese il creatore di una nuova estetica urbana collettiva, molto simile agli obiettivi dei documenti europei volti alla valorizzazione paesaggistica. Il tratto che avvicina Basilico alla modernità, e fa della sua una visione urbana moderna più che contemporanea, è proprio questa tendenza al generale, e al tempo stesso questo rifiuto verso il particolare. E’ ancora, quella di Basilico, una grande narrazione, come lo è stata quella di Paolo Monti, un racconto capace di grandi sintesi e di significati percepibili. Al contrario, sembra che i caratteri del post-moderno conducano tutti a un’unica riflessione, che cioè non esiste un significato unico al di là e al di fuori della percezione continua e inevitabile della frammentarietà dell’essere, del vivere, dei luoghi. Generale è moderno, particolare è contemporaneo. Gli elementi urbani, anche quelli più banali e deboli, anche quelli apparentemente poco importanti, posso contribuire a definire il carattere e l’identità di un luogo. Ciò avviene soprattutto attraverso il confronto di quegli stessi elementi, riscontrati in situazioni diverse. Confrontando per esempio Berlino, Milano e 68. Gabriele Basilico, Instambul (da Scattered City, 2005) 93 Valencia Basilico vuole misurare le affinità, ma soprattutto punta a ricostruire un modello di città immaginaria. E’ chiaro che fare questo non può non costituire un punto di contatto con il processo di pianificazione urbanistica, che aspira proprio a definire un modello di città futura, migliore di quella presente. Questo continuo mescolare ha a che fare con i sentimenti, è lo stesso Basilico a dirlo. Mentre il piano (urbanistico) ha preteso di dettare proprie visioni urbane senza fare riferimento ail sentimenti delle persone, e dunque rinunciando a qualcosa di essenziale, le immagini della supercittà che Basilico descrive cercano i significati universali della forma urbis moderna. Per certi aspetti le sue fotografie esprimono un senso positivo della globalizzazione, intesa come apertura oltre i confini di ogni possibile segregazione o separazione. Una aspirazione ad agire come fa il polline in natura, e questa è precisamente la metafora che usa l’autore. 2. Come gestire il territorio con l’aiuto dei fotografi. Un organismo governativo francese, la DATAR (Délégation à l’amenagement du territoire et à l’action régionale) promosse, tra il 1984 e il 1985, una imponente azione di verifica del paesaggio, soprattutto di quello rurale e naturale, ma anche urbano - la banlieue parigina - e a quello industriale interessato dai processi di dismissione e riconversione. La DATAR intendeva richiamarsi alle due grandi esperienze di committenza pubblica, la francese Mission Heliographique del 1851 e la Farm Security Administration rooseveltiana degli anni Trenta del Novecento. Le pubblicazioni che raccolsero le foto (i libri saranno due, il primo del 1985, nella piccola versione in brossura 14,5x15,5 cm., il secondo nella grande edizione cartonata in tela nera, di formato 28x28 quadruplo dell’altro, realizzata nel 1989, entrambe dall’editore Hazan) non vennero intese come cataloghi, ma come carnet provvisori di un lavoro sempre in corso, così come si proclamava la mostra parigina al Palais de Tokyo che si aprì il 4 dicembre del 1985. La Mission è dedicata a città e periferie, montagne e litorale, fabbriche, case rurali e uffici, spazi industriali e rurali. La mescolanza di generi – alti e bassi, contemporanei e tradizionali – segna già di per sé una distanza siderale dalla visione che del problema si aveva in quegli anni in Italia, se si pensa che nello stesso 1985 da noi fu promulgata la meritoria e da tempo attesa legge Galasso, che obbliga le regioni a dotarsi di piani paesistici. Il provvedimento tuttavia esprime punti di vista che rispetto a quelli francesi sono decisamente meno incentrati sull’attualità: elenca gli elementi del paesaggio da tutelare, enumerando monti e ghiacciai, fiumi, coste e usi civici, e sostanzialmente resta saldamente ancorato a una visione colta, figlia dei testi classici di Emilio Sereni e Lucio Gambi sui paesaggi agrari, inconsapevole del (o forse più probabilmente ostile al) lavoro che anche da noi stanno svolgendo in quegli anni fotografi come Luigi Ghirri, che proprio nel 1984 progetta e realizza il suo Viaggio in Italia raccogliendo intorno a sé amici e colleghi tra cui Basilico. Nel lavoro della DATAR si mette l’accento sulla trasformazione, mentre al contrario in Italia nei documenti ufficiali sulla tutela del paesaggio è sottolineata di continuo la necessità di una continuità, di una stabilità, di una tradizione. Già allora i francesi 94 69. Gabriele Basilico, Piacenza, 2001, dalla serie LR19/98 ci dicono come i paesaggi tradizionali siano divenuti indescrivibili (campi chiusi, campi aperti, insediamenti accentrati e dispersi, tutto è reso irriconoscibile dalle funzioni umane che si espandono sul territorio). La rappresentazione del paesaggio, continuano i francesi, deve essere creata, non registrata. E la circolazione del modello predisposto dalla DATAR sarà riuscita se produrrà analoghe iniziative regionali decentrate, di approfondimento e verifica in loco. In realtà, la prima reazione degli organizzatori fu di moderata insoddisfazione: in quelle immagini il territorio restava piuttosto “muto” nei riguardi dell’emergere delle trasformazioni più rilevanti: gli effetti della comunicazione elettronica, le infrastrutture, l’urbanizzazione. Ma la DATAR viene ancora oggi ricordata come un episodio eccezionale perché riesce a restituire una variegata e complessa immagine del territorio contemporaneo, interrogandosi con serietà sul confine incerto che divide “un atto di identificazione, di carattere puramente denotativo, da un processo intenzionale di attribuzione di valori, con le responsabilità e le conseguenze che ne derivano.” [Infussi, 1986 e 2007]. François Hers e Bernard Latarjet sono i coordinatori-animatori del progetto. Mettono in chiaro che l’amministrazione che incarica i fotografi non ha una diretta vocazione culturale, e dunque non si tratta di un sostegno alla creazione artistica, ma di una ricerca finalizzata. Hers e Latarjet firmano un testo che si intitola “L’experience du paysage”. Gabriele Basilico userà spesso d’ora innanzi la parola esperienza, spesso creando una sorta di duetto con Roberta Valtorta, amica carissima e apprezzata, insostituibile sponda di una collaborazione più che ventennale. L’idea sottesa a questi termini e all’uso che ne fanno gli autori è che il paesaggio non è solo una realtà visiva che si registra, ma la rappresentazione che una cultura ne fa. Hers e Latarjet constatano che la fotografia europea degli anni in cui scrivono si sviluppa secondo due poli antagonisti: il reportage da un lato, e dall’altra parte una tendenza più concettuale che, fondata sulle acquisizioni della pittura moderna, utilizza la realtà come pretesto più che come oggetto. Europei e americani si pongono in modo molto diverso di fronte alle trasformazioni del paesaggio. Quest’ultimo ha sostanzialmente subito le medesime metamorfosi industriali e urbane. Ma mentre gli americani guardano con allarmata apprensione la distruzione dei suoli vergini (la verginità del territorio per loro è un valore mitologico, connesso all’idea della frontiera come esplorazione, conquista, emancipazione atavica), gli europei vedono nel cambiamento la sparizione delle testimonianze di una cultura millenaria; le foto degli europei mostrano con evidenza questo sentimento della storia come dramma, questa necessità di lavorare ogni giorno per opporsi alla lenta sparizione della nostra memoria. Molto sottilmente, nel saggio che accompagna le fotografie della DATAR, Jean François Chevrier sostiene che proprio perché la fotografia è sfuggita all’anatema scagliato nel Novecento dagli artisti moderni contro la bellezza, solo alla fotografia è possibile riuscire a rappresentare la bellezza del paesaggio. E in questo modo può riqualificare – se non il paesaggio stesso – almeno l’idea di paesaggio. Augustin Berque (nel testo Les mille naissances du paysage) scrive che i francesi vogliono sapere le novità del loro paesaggio 95 dopo i “trenta gloriosi” (anni) della crescita. Vogliono sapere quel che è successo, non solo perché è cambiato il paesaggio, ma anche il modo con cui lo si guarda, è cambiato il senso comune. E non sarebbe questa una novità, vista la congenita relatività del paesaggio, che è sempre relazionato alla percezione degli individui, non è un oggetto a sé stante. In questo senso i ventotto sguardi dei ventotto fotografi altro non sono che prove, e Berque le esamina tutte, una per una. Sur le litoral de la Manche et de la mer du Nord - questo è il titolo del lavoro di Basilico - secondo Berque è una riflessione sulla naturalità/innaturalità della città. Le vacanze, di cui Basilico mostra i luoghi dopo che si sono spopolati e i vacanzieri sono tornati in città, sono per gli uomini l’interruzione del lavoro e il ritorno agli elementi: terra, acqua, vegetale. Ma non esistono più luoghi di vacanze privi di segni urbani: i parcheggi, i caffè, il casino, i parchi acquatici, le piscine, sono tutti gli elementi innaturali. Per contro, mai come in quegli anni, una Parigi piena e ricchissima di parchi viene considerata come l’anti-natura per eccellenza. Il mondo non esiste se non dotato di senso attraverso delle pratiche, che lo fondano in relazione al nostro immaginario. E l’immaginario non ha evidentemente alcuna relazione con la realtà. Paradossalmente è proprio la fotografia – il lavoro di un fotografo, il suo occhio – che anziché mostrarci la realtà ci mostra quel che noi crediamo di vedervi. I simboli che la rendono percepibile e dotata di significato. Della celebre foto di Basilico di Boulogne-sur-Mer, l’economista Jean-Paul de Gaudemar scrive che mescola l’hard e il soft del territorio e ne fa un “condensato brutale” di contraddizioni e di complementarietà della gestione del territorio: strategia industriale pesante o attrezzatura turistica? La foto, con la spiaggia in primo piano e sullo sfondo gli impianti siderurgici, dà la misura di queste domande, le rende palpabili, realistiche. Tutta la complessità della pianificazione territoriale sta in quella immagine. “Al funzionalismo del periodo precedente – un luogo, una funzione – risponde all’improvviso una diversificazione volontaria che va al di là della protezione contro il rischio […] la sfida è quella dell’armonia nel 70. Gabriele Basilico, Ault, 1985, dalla serie della DATAR 96 matrimonio dei contrari, quella dell’alleanza della fabbrica con la spiaggia, del lavoro e del loisir, dell’hard e del soft, del mobile e dell’immobile, del flusso e dello stock, dell’uomo e della macchina, del lavoro e del capitale, della terra, del mare e del cielo. Il tempo della fragilità della specializzazione non ha resistito alla crisi. Il pianificatore deve sostituirgli le virtù della polivalenza. Deve inventare il territorio flessibile.” [DATAR 1985, pag. 56]. 3. E anche: tra Groddeck e Mulas. Molto spesso, parlando del suo lavoro, Basilico cita il Libro dell’Es di Groddeck, un testo (1923) dalla cui lettura dice di essere stato portato a capire cose determinanti. La prima edizione italiana è del 1966, per Adelphi, sono gli anni in cui Basilico studia architettura e non ha ancora iniziato il suo mestiere di fotografo. Dunque, gli anni formativi, gli anni in cui il suo interesse non è nella rappresentazione del reale urbano, ma nell’idea di trasformarlo, toccarlo con mano, non solo guardarlo. La ricerca della strada che porti con la maggiore possibile facilità a questo “toccare” segna molto spesso il personale percorso di architetti che si trasformano in fotografi, com’è il caso di Basilico. Non sono pochi quegli architetti-fotografi che affermano di avere abbandonato l’idea della pratica professionale di progettista perché che gli architetti, immersi nelle pastoie burocratiche delle autorizzazioni, dei pareri, delle norme edilizie, perdono di vista il rapporto con la realtà fisica, oggettuale in cui si muove il loro lavoro, mentre al contrario un fotografo vi si immerge in modo diretto, prolungato, potremmo perfino dire voluttuoso. Questa è la considerazione che deve aver fatto Basilico, alcuni anni dopo la laurea in architettura. E il libro di Groddeck, letto forse qualche anno prima, lo ha accompagnato nel suo percorso di formazione. Cercare in quel testo i nessi con le immagini urbane del milanese è un esercizio di qualche interesse. Troviamo concetti che ci paiono utili. Per esempio: il fatto che amore e odio coesistono sempre. Che la paura esprime un desiderio. Entrambe affermazioni che possono significare che la celebrazione così ripetuta e incessante del corpo delle città del mondo si lega, nello sguardo del fotografo milanese, con un disagio, con il permanere di quella paura della grande metropoli che ha segnato il suo comparire tra fine Ottocento e l’inizio del Ventesimo secolo. La capacità affettiva che ogni uomo porta con sé, secondo lo psicanalista tedesco, contiene in misura variabile e casuale sentimenti di repulsione e di attrazione, rivolti in modo altrettanto imponderabile verso di sé o verso il mondo esterno. Non di rado l’affetto si trasforma in odio, quando la delusione agisce nell’inquinare l’originario sentimento positivo. Altrettanto spesso l’oggetto non più amato viene sostituito con l’idea di quell’oggetto, che si può mantenere scevra di delusione e pienamente rispondente alle nostre aspettative. In questa oscillazione tra ideale e reale, tra amore e odio si colloca il lavorìo incessante di Basilico, e la sua produzione di immagini che appunto possono leggersi come l’idealizzazione della città – ecco una spiegazione dell’assenza delle persone che la abitano, che in un certo senso sono tutti avversari erotici dell’autore nel possedere la “sua” città, almeno con lo sguardo. Una idealizzazione, la sua, che a volte può velarsi di sentimenti di malinconia, nostalgia, tipici delle estasi 71, 72. Gabriele Basilico, Modena, 2011 97 amorose ricondotte di colpo alla percezione di una realtà priva dell’amato. Ancora: “non è vero che il dolore costituisca ostacolo al piacere; in realtà esso è una condizione perché il piacere esista” e “tutto ciò che esiste è naturale, anche se a Lei sembra contrario alle regole, e perfino se sembra andar contro alle cosiddette leggi della natura” [Groddeck, 1966]. Quest’ultima affermazione coincide con un altro aspetto evidente della poetica di Basilico, la volontà di non eliminare dalle sue inquadrature ciò che potrebbe apparire almeno perturbante se non innaturale, visto che trattandosi di città la natura non può essere intesa nel suo senso proprio, ma piuttosto come comune modello percettivo. Tra le peculiarità dello stile di Basilico c’è la assenza della figura umana. In tutti i sensi: sia come misura, senso, uso dello spazio, sia come specifica analisi sociale, dei comportamenti, dei caratteri delle persone. Basilico cita sempre in proposito Groddeck, il libro dell’Es, e l’influenza che ha avuto questa lettura sul suo modo di percepire ed intendere la città – in estrema sintesi: le cose parlano di più, se non ci sono le persone, le tracce contano in modo determinante. L’assenza delle persone rende i luoghi silenziosi e parlanti solo per la loro fisicità, che Basilico indaga con una composizione elegante e lentamente studiata, fortemente prospettica, spesso frontale; le sue sono immagini stereometriche, dove ciò che ha importanza sono i volumi, i caratteri architettonici, mentre i riferimenti sociali sono accettati solo in quanto compatibili con la composizione, siano essi arredi, pubblicità, automobili. Bisogna però anche riconoscere che l’assenza delle persone non è una peculiarità del solo Basilico, ma di molti fotografi. Come si è visto, anche Monti non riprendeva quasi mai persone nei suoi scatti, e, prima di Monti, nemmeno gli Alinari. In generale, la tradizione della fotografia di architettura si è sviluppata sin dalle origini con questo preciso carattere ,anche se nell’Ottocento e a lungo anche in seguito le persone scomparivano dall’inquadratura anche per ragioni legate alle lunghe esposizioni della pellicola, e dunque si trattava di una ragione puramente tecnica piuttosto che espressiva. Ma al giorno d’oggi, cancellare la figura umana quando si fotografa l’architettura e’ un modo per dare una lettura 73. Gabriele Basilico, Boulogne-sur-mer, dalla serie della DATAR, 1985 98 dei volumi più incisiva e più connessa alla fase di ideazione, al progetto. Al disegno del progetto, soprattutto, e in questo senso è una visione astratta e distante dalla realtà, che vuole riportare l’architettura realizzata al processo creativo, mentale, piuttosto che avvicinarla alla fase fruitiva. Se apriamo una rivista di architettura, di qualsiasi paese, per documentarci su quanto è stato costruito in qualsiasi paese, ci imbattiamo nella rappresentazione di una serie di edifici che sono stati fotografati e pubblicati senza gente. L’editore, l’architetto e il fotografo sembrano ossessionati da una inesistente e permanente preoccupazione: eliminare dalla scena gli uomini, come se fossero germi capaci di contaminare l’evento che si sta illustrando [...]. Qualche volta si arriva a dire chi è il cliente e quali erano le sue esigenze economiche, tecniche o estetiche; ma quasi mai si dice come il destinatario usa o potrà usare l’edificio che gli è stato destinato […]. Il giudizio sull’opera è sempre del tutto indipendente dal giudizio sull’uso che se ne fa. L’opera è considerata buona, mediocre o cattiva in rapporto ad altri valori, che generalmente sono valori figurativi” [De Carlo, 1973]. Un tempo non era così: la pittura rappresentava anche la gente insieme con gli edifici. E dire che il movimento moderno si è caratterizzato proprio per un richiamo forte al rapporto tra forma e funzione, cioè tra architettura e uso dell’architettura. La cultura progettuale italiana è stata spesso accusata di essere sbilanciata verso l’ideazione, trascurando la realizzazionegestione, e soffrendo di un idealismo che ha forse a che fare con la persistenza delle antichità classiche, che ci consegnano quotidianamente allo sguardo architetture prive di funzione, di uso, di gente. La fotografia dell’architettura, spesso anche delle città, quando ci consegna testimonianze visive che cancellano la figura umana come se fosse un disturbo per la visione delle forme architettoniche, vuole riavvicinarsi al momento della ideazione progettuale, quando si forma il disegno. Non a caso Basilico spesso sostiene che le sue fotografie sono legate al progetto, sono dei progetti, e in questo non fa solo riferimento al suo essere architetto, ma al suo volere essere architetto mentre fotografa. Le immagini fotografiche di paesaggi urbani privi di persone ci spingono ad addentrarci in un discorso complesso, che attiene all’importanza dell’assenza in fotografia. Cioè a quanto pesa ciò che non si vede. A volte pesa più di quanto non conti ciò che si vede. C’è un pensiero molto preciso di Ugo Mulas, in un suo libro del 1973, una data che precede gli esordi di Basilico come fotografo: “La mia idea non è quella di un libro, ma di un archivio, un archivio fotografico della città di Milano […] Quello che vorrei fare è fotografare tutto questo senza la gente; perché quello che ci colpisce di più quando entriamo in un luogo, è il fatto che esso sia frequentato, è la gente. Invece vorrei che di gente non ce ne fosse, che fosse protagonista una certa struttura portante che chiamiamo città, una struttura inarticolata, che porta una folla anonima, che si ricambia ogni giorno, che ogni giorno passa, che ogni giorno è destinata a passare. […] credo ci sia un modo di fotografare la catapecchia dove una donna vive con i suoi bambini senza metterci dentro né la donna né i bambini, e arrivare comunque a un’immagine eloquente della loro condizione, un’immagine che è obiettiva e al tempo stesso è evocativa di quella gente assente dalla fotografia” [Mulas, 1973]. 99 4. Si può fare urbanistica con le fotografie. Basilico sostiene che “Ritratti di fabbrica”, il suo libro del 1981, è un progetto di architettura. Che non è un lavoro sulle grandi fabbriche – che a Milano, diversamente da Torino, non sono il carattere preminente dell’industria – ma è un lavoro sulla periferia dove ci sono le fabbriche, e dunque alla fine dei conti è un lavoro sulla città, su Milano. Sul fatto che fino a pochi anni fa la sua fotografia è stata esclusivamente in bianco e nero, osserva che il colore sta al documento come il bianco e nero sta alla forma. (Si potrebbe anche aggiungere una riflessione sulla differenza tra pittura e disegno, maggiore realismo dell’una e maggiore ricerca della struttura nel secondo. Riguardo a questo, Basilico dice che per lui la fotografia ha sostituito il disegno, per il quale non era abbastanza portato, nel suo desiderio di descrivere). Recentemente ha iniziato a usare un colore “decolorato”, necessario per dare un po’ più di informazioni sull’ambiente. Ma senza esagerare. E’ il caso dei lavori recenti su Mosca e Istanbul. Il suo approccio alla città si basa in egual misura sulla precisione come sulla casualità: prima di iniziare a fotografare pianifica percorsi e zone da visitare, si documenta su ciò che deve visitare, va sui luoghi anche per riconoscere cose di cui ha già qualche conoscenza. Tuttavia, strada facendo, le cose prendono anche pieghe impreviste, si consente di diventare un flaneur, ritenendo che questo approccio sia fertile. Tra le influenze fotografiche sul suo stile, indica New industrial parks near Irvine di Lewis Baltz (1974), che lo suggestionò per il suo modo di fotografare gli edifici per fronti, con un linguaggio glaciale e distaccato. Cita anche l’inglese Bill Brandt (19041983), e tra gli esponenti della generazione successiva alla sua, riconosce che Thomas Struth (1954) è molto vicino al suo lavoro. Tra gli urbanisti di oggi, Basilico apprezza Stefano Boeri e i concetti che ha espresso sull’importanza dello spazio vuoto nella significazione della città. La ricerca del vuoto è una costante del suo lavoro fotografico, tanto che il momento in cui cerca di percepire – prima - e di rendere in fotografia – poi - questa idea del vuoto assomiglia – anche questa è una sua metafora - al momento in cui in teatro si spengono le luci e si aspetta che entrino gli attori. E’ un paragone che rende evidente la predilezione di Basilico per la scena, la scena urbana: la scena, prima che entrino gli attori, è vuota, ma si sa che si riempirà. In questo senso tra assenza e presenza c’è una vicinanza temporale, una prossimità che rassicura. Non si tratta di una assenza da day after, del timore che non ci sia più nessuno. Ma di una forma di bellezza. Anche se, per Basilico, la bellezza non è nei luoghi, è dentro di noi, e dal nostro interno si condensa nel nostro sguardo, passa attraverso il nostro sguardo e da lì si spande sui luoghi. Siamo noi che la conferiamo ai luoghi. E per dare bellezza ai luoghi occorre usare equilibrio e rispetto, essi servono per scoprire una dimensione guardabile. Questa lentezza necessaria dello sguardo deriva senza dubbio dalla accumulazione di conoscenze che è dentro di noi e che alcuni fotografi più di altri usano per costruire il paesaggio e dargli senso. Basilico non è certamente un fotoreporter, se il carattere essenziale del fotoreporter è di non aggiungere nulla di suo ai fatti. 100 74. Gabriele Basilico, Viale Isonzo, dalla serie Milano ritratti di fabbriche, 1978-80 Basilico aggiunge tutto quel che sa, che ha visto, e che pertanto rivede e riconosce ogni volta che fotografa. L’accumulazione della sua cultura costituisce il suo sguardo, ed è per questo che in lui agiscono Sironi e Muzio, Hopper e De Chirico, Benjamin e Groddeck, Baltz e molti altri ancora. Pensando al lavoro di Basilico, tra gli urbanisti viene in mente ancora Giancarlo De Carlo, che scrive: “Credo molto nella capacità evocativa e stimolante dell’immagine architettonica. Se si rappresenta come un luogo potrebbe essere, è già come se il luogo fosse quello che potrebbe essere. Della rappresentazione la gente si appropria con prontezza e mentalmente comincia ad esperirla, a modificarla, a contraddirla, ad arricchirla. Se l’immagine architettonica offerta dal progetto, oltre a possedere valore intrinseco, e coerente col programma contenuto in un piano – anzi, più esattamente, se gli è complementare nel senso che in questa coerenza ritrova la sua stessa necessità – si perviene allo sviluppo di una qualità che si diffonde alle varie scale. I progetti sono eventi straordinari che sollecitano l’attuazione di un programma. Perciò i loro punti di applicazione vanno scelti accuratamente tenendo conto non solo degli operatori addetti alla loro realizzazione ma anche degli individui e dei gruppi sociali che raccolgono e sono influenzati dalle loro immagini. Scelti nel quadro generale che è il programma, i progetti debbono saper colpire i punti più sensibili dell’organismo con il quale ci si confronta. Successivamente il quadro deve poter raccogliere i loro effetti; non necessariamente quelli che derivano dalla loro realizzazione perché a volte quelli scatenati dalle loro immagini sono anche più importanti” [De Carlo, 1992]. Di conseguenza, il rapporto tra le diverse scale di progettazione è un continuo feed-back: il piano deve poter risentire delle azioni che esso stesso produce e deve poter per conseguenza modificare la sua struttura. Non si può distinguere in un piano quello che è modificabile da quello che è immodificabile, perché tutto deve essere considerato in movimento perpetuo, compresi gli obiettivi. De Carlo usa la metafora del percorso di una nave, che apparentemente segue una rotta predefinita, ma quando il viaggiatore osserva il timoniere si accorge dei continui piccoli movimenti che trasmette al timone. La sostanza del piano è identica: deve essere continuamente messa a punto dai progetti: “i progetti sono gli aggiustamenti – accostamenti e discostamenti – che si compiono in modo tentativo, per seguire i moti dell’ago della bussola”. Nel dialogo con il progetto sta certamente una aspirazione e al tempo stesso anche un limite della fotografia. Se il progetto, come afferma De Carlo, può e deve essere anche stimolo, obiettivo comune, fattore di coesione sociale, una fotografia che ritragga i luoghi con l’intento di mostrarne i punti o i fattori di modificabilità, di sottolinearne le potenzialità, è uno strumento dalle mille risorse etiche, politiche, culturali. La supercittà di Basilico si può leggere come palinsesto di tutti i progetti urbani, quelli eseguiti e quelli mancati, scena del conflitto tra la spinta al cambiamento e la resistenza dell’inerzia. Ma rappresentare questa scena, celebrarla, è un modo per renderla attraente e meritevole di attenzione. 101 75. Gabriele Basilico, Modena, 2011 102 8. NUOVI TOPOGRAFI ITALIANI 1. Guido Guidi. Nel 1978-79 Lewis Baltz, uno dei nuovi topografi americani, fotografò la rapida costruzione di un complesso sciistico e per seconde case a est di Salt Lake City, nelle montagne Wasatch, Utah. Il suo scopo era di registrare le varie fasi di costruzione di Park City. Quando iniziò il suo lavoro, il paesaggio era caotico, devastato da decenni di negligenza, cosparso di frammenti di vetro, ferro, legno, cavi – residui degli scarti di miniere abbandonate anni prima – e con scarsissima vegetazione. Sembrava la scena di un cataclisma. Nei due anni e mezzo in cui Baltz eseguì le sue foto, la terra desolata (un esplicito riferimento al poema di Eliot) fu coperta da case e strutture commerciali, ma per ironia della sorte queste accrebbero il senso di desolazione. In quelle foto c’è una continua tensione tra ciò che la fotografia descrive e ciò che rivela. Lo stesso stile si trova nel lavoro di Guido Guidi, forse anche con una ulteriore accentuazione di tono. In Guidi è evidente la volontà di fotografare il brutto, lo sciatto, il banale, con uno stile altrettanto inestetico e casuale, senza composizione apparente (in realtà Guidi usa il grande formato sia per la qualità dell’immagine che per la lentezza della esecuzione e per la grandezza dell’immagine sul vetro smerigliato, che gli consentono di pensare a lungo l’inquadratura), all’opposto della veduta classica, per provocare disagio e irritazione: cose rotte, relitti, oggetti desueti. Accozzaglie, presentate come in una enumerazione caotica. Non si può dire che questa sia una foto di denuncia, perché non ne ha il tono. E’ una foto complice, anche indulgente, perché si avvicina all’oggetto assumendo la sua stessa personalità, come se dovesse farsi accettare. C’è una specie di biasimo dell’utile, del funzionale, una visione all’opposto di quella di Monti. La sua è una sensibilità minimalista, di sapore orientale. “Quando fotografo un sasso, io divento quel sasso”, dice con i suoi studenti. Ma questo stile non incita al laissez-faire, piuttosto a una ridefinizione low-profile del progetto di città possibile, un progetto che faccia i conti con ciò che oggi caratterizza il laboratorio urbano (calo delle risorse pubbliche, sfiducia verso la politica, conflittualità sociale causata dai grandi interventi di trasformazione, frammentazione eccessiva dei centri decisionali, difficoltà nei rapporti tra enti sovra e sottordinati, ecc.). Nella fotografia understated di Guidi e di Linea di Confine c’è un tendere a forme più attuali del progetto: piccolo, interstiziale, low-cost, legato alle pratiche auto-organizzate, lontano dalla cultura delle archistar e contro le imposizioni dei modelli di consumo degli oggetti e del territorio. Guidi è molto coinvolto nell’arte concettuale, come lo fu Ghirri, ma più di Ghirri, che a un certo punto prese una strada decisamente fotografica. Guidi, come Franco Vaccari, è forse più spostato sul versante teorico che su quello della produzione fotografica. Quando parla del suo lavoro, nelle conferenze, mostra raramente le sue fotografie, e se lo fa, lo fa con molta parsimonia, diluendo 76. Guido Guidi, dalla serie Paesaggi ordinari delle Marche, 2009-10 103 un distillato di immagini in un ragionamento esteso. Si vede in questo la sua personalità di insegnante di fotografia, sia all’ Istituto Universitario di Architettura di Venezia che all’Accademia di Belle Arti di Ravenna. Guidi ha infatti molti allievi, che seguono in modo piuttosto caratteristico le sue indicazioni. Tra la pratica del nominare-indicare e quella del rappresentaredescrivere, che Guidi vede come molto diverse, quella che gli è più confacente è la prima. In senso fotografico, Guidi nomina le cose, se ne tiene quasi distante, è all’opposto dell’atteggiamento di Basilico. Dichiara apertamente che le sue fotografie sono brutte, desidera che lo siano, perché questo significa che ha ottenuto il suo scopo, indicando le cose, senza aggiungere commenti, lasciando aperto il discorso, mentre di solito l’osservatore desidera essere orientato. Viene in mente una distinzione fatta da Philip Jones Griffiths, grande fotoreporter gallese della guerra del Vietnam, che con sarcasmo sosteneva che esistono foto che raccontano ciò che avrebbe altrimenti bisogno di mille parole, e altre foto che hanno invece bisogno di mille parole a commento. Guidi fa queste ultime, con consapevolezza, quasi con provocazione, ma certamente applicandosi a farle con costanza, intensità, coerenza. La stessa cosa – dice Guidi – se messa in rapporto con il contesto cambia radicalmente. Questa è una delle riflessioni più importanti della sua poetica. Guidi tende a de-contestualizzare, proprio per farci percepire la natura delle cose che fotografa, prima che esse si snaturino entrando in contatto con tutto il resto. Accetta tutto ciò che fa, in modo orientale. Fa tesoro del caso, dell’incompiutezza, e lo fa con acuta autoironia: fotografando, dichiara, “c’è sempre qualcosa da aggiungere, non ho mai concluso. Mia mamma diceva che sono inconcludente.” Anche i ripensamenti fanno parte del lavoro – o più in generale, dell’esperienza di vita. Anche le occasioni perse fanno parte del lavoro fotografico, costituiscono un patrimonio interiore che orienterà la propria percezione quando si daranno di nuovo quelle condizioni: “Solo dopo aver chiuso la finestra mi accorgo della bellezza del paesaggio.” Questo atteggiamento è l’opposto della 77. Paul Klee, Strassen Kreuzung, 1911 78. Guido Guidi, Castelmaggiore, 2003, dalla serie Paesaggi dissonanti 104 poetica bressoniana dell’istante decisivo, dell’idea che la capacità del fotografo sia tutta nell’esserci, essere nel posto giusto al momento giusto. Nello stesso volume [Cesena, 1987], nel suo testo su Guidi, Valtorta parla di lui come capace con il suo lavoro di fare affiorare la pensosità di un sentimento orientale dello spazio, sentito non come caos e subbuglio di realtà compresenti , ma come equilibrio di pochi elementi essenziali. Guidi sembra in verità l’autore meno adatto ad incarnare concetti di progettualità fotografica. Anziché porsi strategie particolari, sembra fotografare armato del suo solo stupore. Lo stupore sembra il sintomo dell’impotenza dell’occhio, il fotografo che si abbandona al mezzo, sperando che esso stesso lo aiuti a capire. E’ una anticipazione/sovrapposizione con le ricerche di Vaccari sull’inconscio tecnologico. La vicinanza alla topografia è tanto evidente da diventare esibita. Disegna luoghi in modo incessante, come se i significati più generali fossero irraggiungibili, inattingibili. Guidi parla di geografie personali, e dice: un geografo trova importanti le strade, le città, i fiumi, un fotografo può trovare importante quel certo capanno. E’ tautologia pura che diventa strumento di lavoro. Per la necessità di fredda determinazione cita i fotografi guerra come modelli, e in particolare Roger Fenton. Come riferimenti per il modo di raccontare, Flaubert e Joyce. Tra i richiami agli artisti del Novecento bisogna citare Paul Klee. Guidi usa la stessa precisione calligrafica, con l’interesse rivolto a trovare un segno, un dettaglio su cui costruire l’intera composizione, come una tela di ragno, un lavoro che parte da un punto che viene messo al centro e si espande minuziosamente, alla ricerca di un senso, ma continua anche oltre, anche quando il senso sembra lontano. E’ un processo retto da da un’etica, da una fede assoluta, ma certe volte sembra addirittura che volga al cinismo, come se ogni mezzo fosse buono per raggiungere lo scopo, che è quello di creare. Guidi è perfettamente al corrente del fatto che il mondo c’è, esiste anche a prescindere dal fotografo e dai suoi affanni nel catturarlo: “I miei allievi dicono: <Ho fatto una porta, ho fatto una casa>. In verità noi fotografi non facciamo proprio nulla”. Detesta la fotografia in bolla, frontale, prospettica, insomma ogni retorica connessa alla tradizione, fino al punto di rinnegarsi, con la consueta ironia perfino caustica: “Ho fotografato degli edifici frontali, da giovane, perché volevo prendere la realtà di petto”. E invece bisogna usare un basso, bassissimo profilo: “Cicerone diceva che per difendere in giudizio un ladro non devi parlare aulico. Devi usare il suo linguaggio, per essere convincente su di lui”. Il fotografo deve spersonalizzarsi, nascondere la sua identità, lasciar parlare sommessamente ciò che entra nelle sue inquadrature. La bellezza dell’ordinario, che sta alla base di gran parte delle tesi contenute nella Convenzione Europea del Paesaggio del 2000, e che proviene anche dal lascito ghirriano, è il messaggio più convinto di Guidi, anche quando fotografa architettura, come nel caso dell’autore più studiato, Carlo Scarpa. Lo stile non è straordinario nemmeno in questo caso, eppure è certamente straordinario il successo che il suo lavoro su Scarpa ha avuto a livello internazionale, diventando nel 2010 una importante mostra 79. Guido Guidi, Cattolica, Centro storico, 2003, dalla serie Paesaggi dissonanti 105 al CCA di Montreal. Guidi va preso come esempio di una idea molto recente di paesaggio: quella secondo la quale non è più necessario occuparsi – e preservare – dei soli ambienti eccezionali, ma accettare al contrario che ogni comunità locale possa ritenere che il complesso delle sue tradizioni e della sua storia, e il loro concreto materializzarsi in strutture fisiche composte di natura e cultura, di segni antropici e geografici, debbano essere considerati paesaggi da conservare a prescindere dalla posizione occupata in una ipotetica gerarchia qualitativa. 2. Deserti urbani. Da tempo partecipe di un gruppo di intellettuali che fa capo a Gianni Celati e più recentemente ad Ermanno Cavazzoni è Giovanni Zaffagnini, a lungo orientato alla ricerca antropologica. Zaffagnini è da un trentennio fautore di una radicale interdisciplinarietà, maturata dalle frequentazioni di Guido Guidi e di Luigi Ghirri. Sensibile anch’egli al concettualismo, ma filtrato da una vena di pragmatismo che mostra forti radicamenti nella cultura contadina, da cui proviene e che ha molto fotografato. Giovanni Zaffagnini dice di preferire la fotografia reticente, quella che lascia spazio alla interpretazione; se no, la fotografia diventa cronaca, e non gli interessa. C’è in questo atteggiamento la solita volontà di molti fotografi, dagli anni Settanta in avanti, di sconfessare una lunga e gloriosa tradizione professionale, uscendone frettolosamente e forse anche in modo un po’ indisponente e ideologico, come se farlo significasse automaticamente entrare nel mondo dell’arte e goderne i privilegi e l’autorità. Tracce, dove la figura umana non c’è, sguardo lento, non istantanee, e dunque anche le immagini devono essere guardate lentamente. Più che per dei pwp vanno bene per dei libri, dove restano eternamente, o quasi. Nelle foto patinate la presenza dell’autore è ingombrante. Lui invece ama le foto sporche, le fotografie che sembrano scattate a caso. Fotografare è come svelare il proprio paesaggio interiore, così lo definiva Pessoa. Zaffagnini è autore di alcuni perspicaci prelievi fotografici della realtà urbana, tra cui Jo Lido, una indagine sullo stato di rovina in cui versa un parco per divertimenti sulla costa adriatica che viene preso a occasione di una sfida a un tabù: l’estetica 80. Giovanni Zaffagnini, Gruppo di Camposonaldo di Santa Sofia, 5-6 gennaio 1989 106 del degrado. Nella percezione, non sempre giustificata, delle periferie e della costa come aree degradate, le immagini hanno un ruolo determinante. Una fotografia più analitica e distaccata può favorire una estetica del degrado che non porti a una censura preconcetta che nasconda anche il salvabile. Il degrado come punto di partenza per uno sguardo rinnovato e costruttivo, esente da intenti consolatori o di facile denuncia, che riconosca forme e spazi utili a fornire nuovi spunti per correggere e migliorare l’esistente e a orientare la progettazione futura. Zaffagnini da tempo va in cerca di queste zone archeologiche moderne, dove i rottami si trasformano in reperti. Le fotografie scattate di sera (come quelle della serie Jo lido), quando il buio comincia a cancellare i colori, rispondono a una scelta che non è tecnica, ma poetica. Non è più giorno ma non è ancora notte, è un momento di precarietà. Robert Walser parla del bello che è nell’assenza di bellezza. C’è in questi presupposti una eco ancora non spenta delle parole di Endell per un’attenzione non convenzionale al paesaggio, filtrata attraverso gli insegnamenti dati fin dalla metà degli anni Sessanta da sociologi come Michel de Certeau, artisti come Andy Warhol, architetti come Robert Venturi, che hanno riscoperto il quotidiano e apprezzato le forme surrettizie che prende nella città la creatività dispersa. In questo contesto si è sviluppata anche l’arte pubblica, come strumento per far crescere la partecipazione e sconfiggere il gap tra tecnica e cittadinanza. E’ una pratica che ha in origine forti connessioni con l’urban design americano degli anni Sessanta, una forma di dialogo con gli abitanti dei quartieri in cui hanno luogo interventi complessi di riqualificazione che alterano equilibri psicologici sedimentati da anni, senso di appartenenza, memorie personali e familiari. Si tratta di solito di eventi performativi organizzati da artisti non interessati a lasciare opere definitive e stabili nei luoghi – come fontane o sculture spesso destinate peraltro a personaggi, idee od eventi distanti dal quotidiano ed espressione di poteri ormai desueti - ma invece apportatori di una sorta di energia esistenziale e comunicativa in grado di interagire con i valori espressi dal luogo e di aggiungere senso ai progetti di trasformazione in corso. Spesso la fotografia si è fatta protagonista degli interventi di arte pubblica, ponendosi in una condizione di cerniera tra la registrazione dell’esistente e il progetto di trasformazione, assumendosi sia l’una che l’altra veste, rappresentando entrambi o evidenziando la distanza tra l’una e l’altro, i percorsi per raggiungere l’uno partendo dall’altro. La fotografia come arte pubblica è un mezzo per consentire di evidenziare al massimo grado le capacità maieutiche proprie del mezzo fotografico, in quanto l’artista/fotografo di arte pubblica spesso si spoglia dell’aura autoriale e si mette al servizio dei conflitti interpretativi che sorgono tra diversi utilizzatori degli spazi o tra questi e gli attori delle trasformazioni. In questa prospettiva si muove la ricerca a partire dal terzo capitolo, con l’obiettivo di delineare alcuni percorsi innovativi con cui la fotografia di paesaggio urbano può aggiornare i propri linguaggi, abbandonare l’eccesso di autorialità e riconquistare spazi di relazione con i luoghi e le persone. L’equilibrio del giudizio sembra essere il carattere preminente 107 del lavoro di Zaffagnini, e pare che derivi dalla miscela quanto mai adeguata di astensione e coinvolgimento, di radicamento e di emancipazione, insomma di provenienza locale e riflessione globale. Non per nulla Zaffagnini ha frequentato discipline sommamente implicate con la tradizione, come può esserlo l’etno-antropologia, cavallo di battaglia di ricerche territoriali fondative, e insieme si è immerso in pratiche di ricognizione dei paesaggi contemporanei a fianco di autori considerati all’origine dell’innovazione interpretativa dello spirito dei luoghi come Ghirri e Celati. Dei vecchi sguardi ha l’autorevolezza e la saggezza, dei nuovi ha una specie di giovinezza persistente, che sta nella versatilità intellettuale. Questo contrasto e questa integrazione di opposti lo rende molto perspicace, intuitivo e razionale insieme. La frequentazione con Ghirri, Celati, Cavazzoni lo avvicina al più attivo centro di ricerca sul paesaggio padano da un ventennio e oltre. Dunque un americano padano, come ce ne sono tanti, da Ligabue a Tondelli, ma anche un romagnolo, che dunque dal Po si allontana e punta alla riviera e alla via Emilia, misurandosi con le sabbie mobili del compromesso tra sviluppo e sradicamento. Il suo riferimento teorico più insistito è Robert Adams, il libro-cult Il bello in fotografia. Ne ha fatto un manifesto sempre presente e citato. Fin dagli anni Settanta Zaffagnini inizia la sua collaborazione con Giuseppe Bellosi per documentare la sopravvivenza della cultura folklorica tradizionale in anni attraversati da cambiamenti sociali molto forti. Questa attenzione alle persistenze è qualcosa di molto diverso dal fotografare relitti, oggi pratica molto in voga. Zaffagnini mostra il cuore dello scontro tra persistenza e svanimento, ma mentre negli edifici e nei paesaggi naturali/antropizzati c’è una staticità silenziosa e irrimediabile, nel caso delle pasquelle c’è molto movimento, espressività. Il primo lavoro importante è come co-curatore del volume Traversate nel deserto, che esce nel 1986 e coinvolge un gruppo di artisti tra cui sono anche Luigi Ghirri e Gianni Celati. E’ un dialogo a più voci che prende spunto da una mareggiata che ha investito li litorale adriatico e lo ha fatto tornare deserto, almeno a paragone dell’artificializzazione esasperata a cui è stato condannato. Il deserto è da questo punto di vista “il silenzio da attraversare per poter ancora parlare con gli altri” [Celati, 2011]. Una pratica salutare, che può convincerci di verità dimenticate, come l’assurdità della pretesa di addomesticare il pianeta, di esserne padroni; e che può metterci (di nuovo) a confronto con la necessità di pensare, immaginare, riflettere che è insita nell’attraversare lo spazio vuoto, lo spazio che va risimbolizzato, riempito di nuovi (e più congrui) valori. E’ un percorso, quello dell’attraversamento del deserto, che rende ognuno un individuo, degno di sé e padrone della propria ricerca esistenziale, capace di rendersi conto del mondo che lo accoglie, contro ogni esperienza tratta dagli esperti. Il libro contiene fotografie di Olivo Barbieri, Luigi Ghirri, Klaus Kinold e altri. Nessuna di Zaffagnini, e la cosa è positivamente da segnalare, per essere di esemplare correttezza. “Dio è morto, le grandi finalità svaniscono, ma tutti se ne fottono, ecco l’allegra novità” [Lipovetsky, 1986]. Le foto rendono percepibile questo deserto, e più che attraverso le immagini alla Atget prive di persone della 108 81, 82. Giovanni Zaffagnini, dalla serie Jo Lido, requiem per un non luogo, 2009 metropoli londinese di Paul David Barkshire, più che attraverso gli interni di Vittore Fossati – al contrario, pieni di gente per assenza fisica ma presenza imponente di tracce – più che per le nebbiose campagne di Carlo Gajani o per gli scatti carichi di malinconica attesa di Luigi Ghirri, sono i dintorni di Cesena di Guido Guidi a rendere nel modo più agghiacciante la campagna desertificata dello sprawl, del suburbio. Si vede chiarissimo il ritratto penoso del paesaggio frutto del disinvestimento della sfera pubblica e delle istituzioni, è evidente solo l’individualismo narcisista di una società – quella post-moderna, anzi ipermoderna, che si è liberata delle regole, dei vincoli (la liberazione sessuale, l’educazione permissiva, l’iperconsumo, la competitività basata su relazioni mediatiche) e vive di schermi, dal cinema alla tv, dal pc al telefonino ai videogiochi, una iperrealtà che ha sostituito quella vera, che nel frattempo si è svuotata di senso, di relazioni, di bellezza, di giustizia. Ma Zaffagnini non scade nel moralismo, né con questo libro né con le sue ricerche successive, sempre tenute in equilibrio rispetto alla volontà di non denunciare nulla. Non indifferenti, ma nemmeno troppo sdegnati - lo sdegno può sfiorire nel silenzio, mentre la lucidità critica resta tale a lungo, persistente e acida. Da Tabucchi poi viene la convinzione che sentiamo i luoghi attraverso la nostra storia personale e il nostro stato d’animo, e dunque questo è almeno altrettanto importante delle peculiarità caratteristiche dei luoghi. La storia di Zaffagnini, dai primi Settanta alla fine degli Ottanta, è legata alla etno-antropologia, e questo orienta la sua percezione (sono parole sue) di una “urbanistica bastarda”, inquinata o arricchita a seconda delle convinzioni da una visione più riflessiva e analitica, meno tecnica e arida. Quello che in fondo Zaffagnini fa, è togliere il più possibile le cose dalle sue immagini, anziché riempirle di cose e significati, ispirandosi alla leggerezza delle Lezioni americane di Calvino. Non ci si pone l’obiettivo di rappresentare la verità, ma di essere credibili, per poi basare su questa credibilità la propria capacità di dialogo con il fruitore delle foto. La credibilità dell’immagine è rafforzata dalle imperfezioni, perché la sensazione che essa sia stata fatta di fretta ci convince che l’autore non ha avuto il tempo di inquinare la scena con le proprie contraffazioni. Bisogna però nascondere – non escludere – la perizia. Si potrebbe affermare che il massimo di semplicità lo si ottiene attraverso il massimo dell’elaborazione. Ancora riferendosi a Calvino, Zaffagnini dice che le cose a volerle spiegare troppo alla fine si sciupano, e pensa che l’immagine debba essere un’opera aperta che metta in difficoltà coloro che vivono di certezze. Baltz sosteneva che ci sono almeno tre ragioni (tre mancanze) per la libertà di visione degli americani – dei fotografi americani – di fronte al paesaggio: la mancanza di legami con la mitologia classica e con il suo perdurante simbolismo; la mancanza di una storia feudale che definisca da secoli le gerarchie sociali e le relative visioni del mondo; la mancanza di una chiesa in grado di imporre una propria allegoria religiosa. La libertà che ne consegue produce una accentuazione di ciò che è fotografato, privandolo di valori preventivi e prefissati. La accentuazione dà origine a questo senso di “sublime della terra”, che ogni fotografo esprime in modi personali. In un certo senso è il paesaggio a servire ai 109 fotografi, anziché il contrario, serve a loro per progettare la propria personalità. Tuttavia, la ripetizione di questo modo di fare a oltranza produce una reazione negli anni Sessanta all’eccesso di soggettivismo, e succede che di lì in avanti invece di sentirsi ognuno un osservatore isolato tutti si sentono parte della stessa società che fotografa, quasi avessero una missione sociale, di rappresentare in modo neutrale quel che si vede, l’obiettivo essendo questo: la rappresentazione fedele della realtà inietta in chi vede uno scetticismo che è il mezzo per raggiungere livelli più profondi. Questa è la teoria di Baltz. Zaffagnini, oltre a produrre le foto, indica spesso anche i propri debiti culturali. Uno di questi è quello con Walker Evans, di cui ricorda – condividendolo - l’amore per alcuni oggetti e il desiderio di possederli, fotografandoli. Evans espose nel 1971, insieme alle fotografie, la sua collezione di cartelli e segnali, formata negli anni, trattenendo con sé appunto gli oggetti fotografati. E’ un gesto che lo apparenta all’arte pop, di cui Evans stesso parlava sottolineando l’analogia tra il rubare e il prendere una fotografia, il che equivale a un furto simbolico, al reclamare per sé l’oggetto o la composizione, reclamando al tempo stesso di essere stato il primo ad averlo visto. La bellezza dei comuni utensili (questo è il titolo di un articolo che Evans scrisse nel 1955 per la rivista Fortune) è una sensibilità che Zaffagnini deriva dal maestro americano, e che spesso è evidente nelle sue immagini. Sull’assonanza dei fotografi con i ladri si è espresso in modo analogo anche Brassai: “Noi fotografi siamo una genia di bricconi, di guardoni e di ladri” [Brassai, 2007]. Altro autore di riferimento per Zaffagnini è Susan Sontag. Della scrittrice americana cita l’opinione per cui la fotografia è, innanzitutto, un modo di vedere, piuttosto che l’atto di farlo. Questa affermazione carica di valore la perlustrazione, il muoversi, tutta la fase di preparazione dello scatto. Rebecca Solnit dice che camminare è la sintassi ordinatrice del pensiero, delle emozioni e degli incontri [Solnit, 2005]. Non c’è dubbio che una delle operazioni congenite della fotografia sia il camminare, difficilmente un fotografo può avvicinarsi all’oggetto da fotografare senza camminare. Allo spostamento a piedi è connaturata la ricerca del punto di vista, dell’altezza giusta, del rapporto tra primo piano e sfondo, all’incidenza della luce sull’oggetto da riprendere, ma ancora prima di ciò camminando si trova, e si sceglie tra oggetti simili o seriali. Camminando, come afferma la Solnit, selezioniamo anche le nostre emozioni, lasciamo sedimentare le une sulle altre, le une nelle altre, troviamo la temperatura giusta delle percezioni, insomma percepiamo il sapore e l’odore giusto di ciò che vediamo, come cercava di fare Walker Evans. E’ proprio questa sottolineatura del valore del modo di vedere connesso alla fotografia che dovrebbe farne un metodo di indagine molto ricercato dalle amministrazioni che si occupano di pianificare il territorio. E’ un modo di vedere moderno, per frammenti, senza grandi coerenze di racconto, antitetico alle ideologie, ai principi unificatori che oltre ad essere facilmente ingannevoli e demagogici si rivelano con l’andar del tempo una falsificazione della realtà, o comunque una sua semplificazione inadatta a fondarvi un pensiero costruttivo e duraturo. “La fotografia può dirci: esiste anche questo. E quello. E quell’altro. (E tutto è umano)” [Sontag, 110 2004]. Viviamo in un paesaggio provvisorio, dunque. E questo infatti è il titolo (“In un paesaggio provvisorio”) che diede un altro degli autori di riferimento di Zaffagnini, Lewis Baltz, a un suo articolo su L’Unità del 23 agosto del 1989. Baltz parla della fotografia topografica americana e riconosce in essa la “manifestazione di un’ideologia figurativa di accettazione radicale”, la ricerca buona e onesta di una fotografia al grado zero. Se consideriamo quanto sono vicini – forse quasi sinonimi – i termini “accettazione” e il “constatazione” usato da Vittorio Gregotti [Gregotti, 2011], possiamo dunque trovare nel persistere della filosofia visiva dei nuovi topografi americani il versante di immagine del progetto impoverito di cui parla l’architetto. Zaffagnini introduce un concetto interessante, per il discorso sul progetto: una fotografia analitica e distaccata può favorire una “estetica del degrado” che spinga a vedere il degrado non come un punto di arrivo - malinconico e conclusivo – ma invece come un punto di partenza per una riconciliazione con il territorio attraverso uno sguardo rinnovato e costruttivo; riconoscere forme e spazi dove trovare spunti per correggere e migliorare l’esistente e orientare la progettazione futura. E’ qualcosa che si può mettere in relazione con le tesi espresse da Arturo Lanzani: lo scenario paesaggistico dell’Italia in declino, del paese senza manutenzione, privo di risorse per lo sviluppo ma anche per il mantenimento del proprio livello anche estetico, uno scenario pessimista ma su cui può anche innestarsi un progetto meno stereotipato di quello che alligna nella cura del paesaggio da cartolina [Lanzani, 2003]. 111 83. Nunzio Battaglia, Bologna, 2005, dalla serie Quale e Quanta 112 9. VISIONI PER METROPOLITANA UNA NUOVA STRATEGIA 1. Spinte esaurite e nuove sfide. Il nuovo modo di fotografare il paesaggio promosso da alcuni autori, Ghirri, Guidi, Barbieri e altri, ha conferito una sorta di dignità di esser rappresentati anche a luoghi, a edifici, a cose e persone che non comparivano, di regola, nelle fotografie di paesaggio. Questa visione, finalmente consapevole anche di molti soggetti fino allora trascurati – i paesaggi ordinari, per usare una definizione onnicomprensiva – è responsabile della diffusione di un sentimento recente del paesaggio, descritto e utilizzato dalla Convenzione Europea sul paesaggio del 2000, che in definitiva riconosce la necessità di un progetto di miglioramento, non solo di una tutela delle eccellenze, e dunque promuove la conoscenza dello stato dei luoghi, a prescindere dalla loro conclamata qualità. La forza espressiva-descrittiva-comunicativa della fotografia con gli anni è molto cambiata, si è fatta meno generalista ed enfatica ed è diventata più minimalista e capace di dire qualcosa quasi solo sul qui e ora. Poi, si sa, è cambiato il paesaggio. E’ più brutto e ordinario, tutto uguale ovunque, e questi suoi caratteri rendono difficile trovare gli spunti per progettare relazionandosi a peculiarità ormai inesistenti, o quasi. Una volta – venti o trent’anni fa - fotografare il bel paesaggio voleva dire soprattutto dare il supporto visivo al progetto di conservazione. Ma oggi che non è più solo conservativo e ritagliato sulle eccellenze, oggi cos’è il progetto di paesaggio? E’ sufficiente registrare, come ha fatto di recente la Regione Marche, quali e quanti e dove sono i paesaggi ordinari, e riflettere su quale progetto di miglioramento è necessario? La riqualificazione di tutti? O forse, al contrario, l’accettazione consapevole di tutti? Oltre a essere cambiato il paesaggio, e forse anche a causa di questo, negli ultimi vent’anni è cambiata radicalmente la cultura tecnica propria delle discipline del territorio. La conservazione ha un po’ allentato i suoi controlli, ma non i suoi principi; nel frattempo si è diffuso un paesaggismo ambientalista, radicale e vincolista, mentre probabilmente è sfiorito fino a scomparire quello di origine letteraria e storico-artistica. L’onnipotenza dell’urbanistica classica – o almeno, la sua convinzione di esserlo - ha mostrato la corda, lasciando il campo quasi del tutto al fitto chiacchiericcio della partecipazione diffusa. E poi è calata molto la forza delle amministrazioni pubbliche e della politica. Quest’ultima non sa più bene cosa volere, e dunque cosa chiedere. Ai tempi ormai lontani del suo censimento fotografico del centro storico bolognese, Paolo Monti aveva ricevuto un incarico preciso e inequivocabile, da parte del Comune di Bologna. Una committenza forte, che gli chiedeva: mostriamo il centro storico com’è, anzi, come era, per render vivo il desiderio di conservarlo. Oggi, al contrario, i progetti fotografici ricevono, dalle amministrazioni pubbliche che li promuovono, indicazioni piuttosto vaghe, e la fotografia è lasciata in sostanza libera di restituire una propria visione dei luoghi. 113 Infine, e soprattutto, sono cambiati i fotografi. Sono diventati artisti, immersi nel mercato dell’arte e attenti alle richieste delle loro gallerie, più che al desiderio del vicesindaco o degli assessori alla cultura o all’urbanistica. Ed è cambiata la fotografia: tutti fotografano, e il digitale ha reso tutto subito controllabile e innumerevolmente replicabile, e photoshop tutto alterabile. In mezzo a tutta questa instabilità, ha ancora senso parlare di progettualità fotografica? Molti fotografi del dopo-Ghirri fanno fotografie sciatte, disordinate, understated, proprio perché vogliono parlare di un paesaggio che ha le stesse caratteristiche. Spesso il pubblico non specialista definisce queste foto “brutte”. Confonde ciò che è raffigurato con il linguaggio usato per la figurazione. Ma è vero anche che la fotografia vuole farsi brutta, nel senso che non si cura - programmaticamente, ideologicamente, retoricamente – di rispondere alle classiche regole della composizione, e si fa così strumento di un anticlassicismo altrettanto manierista. L’uso della foto digitale e soprattutto di tutte le modificazioni oggi possibili in fase di post-produzione è assolutamente appropriato, quasi consustanziale alla città e all’architettura contemporanee, che sono altrettanto instabili e velocemente mutevoli [Rosselli, 2009]. Dunque c’è un nesso diretto e forte tra il fotografo - il suo modo di fotografare, che produce la fotografia che noi vediamo - e ciò che viene osservato, visto, infine selezionato per lo scatto, e dunque rappresentato. C’è una complessa rete di relazioni, di attrazioni, di decisioni più o meno consapevoli. Oltre ad esserci un inconscio tecnologico, una quota di imponderabile autodeterminazione della stessa macchina fotografica, come ci ha raccontato un notevole libro di uno dei primi fotografi-artisti [Vaccari, 1979]. La convinzione più diffusa porta a credere che le committenze hanno più o meno esaurito la loro spinta ermeneutica, e che la vera forza delle fotografie sta nell’esistere già, negli archivi, come semi o talee che stanno crescendo in una serra. Il limite di questi materiali sta forse in quella peculiarità che per altri versi è la loro ricchezza e il loro esclusivo privilegio: che cioè, inevitabilmente, per natura, esse ci trascinano a guardarle per essere testimonianza, per essere lo strumento documentario del tempo che fu. Il noema “è stato” di cui parlava Barthes, indicandolo come tipico della fotografia: le foto d’archivio, indispensabili per gli obiettivi di ricerca storica, sociale, antropologica, scientifica, ci possono portare, nel campo delle discipline del territorio, a un progetto storicistico, che naturalmente non è il solo possibile. Queste domande sembrano ancor più pertinenti e necessarie oggi che in passato, in quanto alla sostanziale stabilità delle forme – fisiche e sociali – del territorio che ci ha accompagnato fino al dopoguerra – che potevano essere rilevate in modo sufficientemente esaustivo attraverso pratiche tradizionali di tipo quantitativo e catastale – si è passati nel corso degli ultimi decenni, e particolarmente degli ultimi anni, a una velocità di trasformazione elevatissima. Il mondo liquido pretende – per essere captato, e analizzato in presa diretta – metodiche altrettanto mobili, basate sull’osservazione, sullo sguardo, più che sulla freddezza dei numeri. La fotografia è lasciata libera di parlare il proprio linguaggio (e di rappresentare il punto di vista dell’autore) e viene per così dire esibita in giudizio insieme ad altre testimonianze dei fatti e 114 84. Michele Buda, Via Emilia, 2005 della realtà. Questa modalità di solito si estrinseca in pratiche di tipo laboratoriale, dove urbanisti, artisti, fotografi co-operano nel porre a confronto punti di vista anche molto diversi, nell’intento di fornire una interpretazione meno unilaterale e più densa di significati. Questo approccio è stato finora meno utilizzato dalle committenze fotografiche di area urbanistica (tra i pochi casi importanti, la ricerca Atlante Italiano 007. Rischio paesaggio, realizzato dalla Direzione per l’architettura contemporanea del Mibac), ma presumibilmente sarà più frequente d’ora innanzi, nell’intento di avvicinarsi di più alla espressione delle identità locali attraverso procedure di ascolto mirate, che possono essere attivate appunto attraverso i workshop di fotografia. Spectacular City. Photographing the Future è una mostra che si tenne al Netherlands Architecture Institute di Rotterdam nel 2005. Si può fotografare il futuro? Ovviamente no, a meno che con la post-produzione digitale non si trasformi il presente in futuro, immaginandolo. In verità, il titolo della mostra non voleva significare questo, ma piuttosto mettere in evidenza l’interesse di molti artisti per la grande città, la grande metropoli, la megalopoli, come spazi che prefigurano il mondo futuro e ce lo fanno intravedere. Possiamo intravedere il futuro attraverso il racconto che certi fotografi ci fanno (Bas Princen, per esempio), di come il moderno – anche recente – è diventato rovina, abbandono, scenario in cui si sta preparando l’avvento di qualcosa di altro, un futuro che l’artista cerca di immaginare. Che forse addirittura vede, attraverso il suo pensiero, il suo progetto. Per alcuni decenni si è guardato alla città come scenario dove cercare l’identità, il genius loci, trovandolo spesso a due passi da casa: così faceva Ghirri, così fa Guidi, così ha fatto lo stesso Basilico con i suoi celebri ritratti di fabbriche milanesi. Ora i fotografi più spesso si allontanano, viaggiano in Estremo Oriente, nel Sud America, si alzano come fa Barbieri con il suo elicottero, come per paragonare le sue visioni a Googlearth. O almeno ci fanno pensare, e molto intensamente, che il mondo contemporaneo ha smesso l’aspetto che per alcuni decenni ha mantenuto, e si sta preparando ad assumere tutto un altro aspetto: quello del futuro, di quello che noi crediamo possa essere il futuro. La fotografia di paesaggio non naturale, ma antropizzato, ha avuto 85. Fabio Mantovani, Ex Manifattura Tabacchi, Bologna, 2011 115 un grande sviluppo negli ultimi trent’anni; preso atto che la crescita industriale aveva spezzato la continuità storica del paesaggio e il legame con la natura si era perduto, i fotografi hanno cercato di immaginare la forma del nuovo paesaggio determinato dalle indelebili trasformazioni provocate dalla presenza dell’industria. E sceglievano naturalmente la città, anche ossessivamente e anche ripetitivamente, per misurare il grande processo di sviluppo che era avvenuto. Già dagli anni Novanta si è cominciato a pensare che non avesse più significato ricercare una identità dei luoghi, ma che fosse molto più interessante e, soprattutto, possibile, istituire una relazione dinamica con i luoghi, fondata su tentativi di creare un dialogo. E’ stata la fotografia, con la sua insistenza, a trasformare molte parti di città disperse, tradite, spezzate, in scenari credibili, in premesse per paesaggi futuri. Proprio perché la fotografia certamente registra, ma soprattutto immagina. Immagina le città contemporanee, che forse più che città sono un sistema, carico di flussi, modulazioni, convergenze, superfici di comunicazione e di spettacolo. Forse non è tuttora chiaro quali sono i caratteri essenziali del concetto di contemporaneità, ma invece è molto evidente il suo effetto principale, cioè lo stato di preoccupata incertezza in cui viviamo, ancora più percepibile da quelli di noi che abitano in città. La città, evolvendo da moderna a contemporanea, ha smarrito quella aspirazione all’ordine e alla giustizia, alla razionalità e alla uguaglianza che la connotava fin dal Rinascimento. La complessità e la velocità dei processi, la molteplicità degli attori e dei decisori, la necessità di coordinare le varie autonomie amministrative sono alcune delle cause. Queste analisi sono comuni a quasi tutti gli studiosi dei fenomeni urbani. Sono invece, com’è ovvio, molto diverse le idee su come rispondere. Alcuni propongono il ritorno alla città bella, quella derivata da modelli storici, nelle forme, negli equilibri, nell’etica, nelle regole. Altri mediano e si accontentano di una città almeno coerente. In grado di tessere rapporti credibili, tra le parti, tra l’innovazione e la tradizione, tra le culture. Tra le mille contraddizioni sociali in cui la città vive. Alvaro Siza scrive: “Mi commosse l’idea di una città rinnovata, non sappiamo quale, che sarebbe sorta dalla periferia, dalle bidonvilles, dalle favelas, più che dalla memoria o dalla presenza dei centri storici” [Siza, 1999]. Un progetto, dunque, che fa dell’analisi della riflessione su ciò che definiamo brutto, uno dei suoi stimoli fondamentali. Guardando la metropoli contemporanea e in particolare il mondo delle periferie, Rem Koolhaas non si accontenta di vedervi un dizionario di errori da riparare, ma ne rileva la “terrificante bellezza” e su questa base elabora il proprio metodo di intervento: la congestione sarebbe il concetto paradigmatico della cultura del ventesimo secolo, a cominciare da Baudelaire, il primo poeta moderno che spostò l’osservazione dalla campagna alla città, maestro del Rimbaud delle Illuminazioni, che è il poema della città. Quel che davvero sembra paradossale è il fatto che questa città, che cresce caotica, casuale e contingente, questo immenso patchwork, anziché richiamare la così celebrata “globalizzazione” parrebbe il trionfo del localistico, dello specifico, del qui ed ora. 116 Fragilità, evanescenza, virtualità avvicinano l’architettura alle arti visive: come queste, quella è assai più che in passato oggetto di una evoluzione veloce, di un cambiamento di significato nel tempo e nello spazio a ritmi sempre più accelerati. Al tempo stesso, le arti si avvicinano alla scena urbana, facendone il proprio campo di indagine, il contesto di ambientazione. Il progetto architettonico assume per conseguenza un maggiore understatement, rinunciando ad obiettivi troppo ambiziosi e totalizzanti. Si fa avanti un’ estetica dell’ ”antigrazioso urbano”, fondata sulla constatazione che lo scarto, il residuale, il banale anziché essere stato accettato, indagato e utilizzato come strumento per il progetto della città, è stato isolato, negato, trattato come un difetto, con vergogna, insomma rimosso dai progettisti, dagli amministratori. La città periferica è anche la città dove vive la gente, dove vive la larga maggioranza degli abitanti. E’ la città che più di quella storica – irrigidita dai valori monumentali e culturali - consente la sperimentazione tipologica, tecnologica, i modelli partecipativi. Le opinioni che si condensano nelle immagini degli artisti-fotografi contano ormai come e più di quelle di storici, storici dell’arte, architetti, filosofi, geografi, antropologi, sociologi. Sembra che i fotografi abbiano raggiunto una credibilità anche più salda e autorevole, e in sintesi i loro messaggi recenti sono consistiti in una tesi ripetuta a più voci: che il luogo could-be-anywhere non solo non è da criticare, ma è da accettare, perché quel paesaggio siamo noi. Noi che volevamo l’auto e la seconda casa come tutti gli altri, che viviamo nelle città e siamo ormai ben più che la metà della popolazione. L’ossessiva insistenza con cui i fotografi da tempo indagano il paesaggio nelle sue forme deteriori e caotiche, è spesso fonte di fastidio, “ma questo vuoto, questo senso di provvisorietà, talvolta di bruttezza, questo stato irrisolto delle cose non solo rispecchiano con efficacia e onestà la nostra effettiva condizione, ma segnalano forse gli spazi simbolici di un potenziale nuovo paesaggio che per ora non sappiamo dire” [Valtorta, 2005]. Rappresentando senza commenti l’intensità e spesso la drammaticità dei fenomeni sociali di cui le città del mondo sono lo scenario, la fotografia può attirare la nostra attenzione e suscitare nelle coscienze domande, anche se non può suggerire risposte; rispecchiando valori e contraddizioni della società odierna, il paesaggio urbano può aiutarci a conoscere le dimensioni delle urgenze in cui viviamo, a formarci opinioni, e formandoci le opinioni, a correggere pratiche. L’arte contemporanea intrattiene un rapporto stretto con il pensiero politico e sociale, è anzi – con la crisi della politica, delle istituzioni, dei luoghi tradizionali di coesione sociale, degli strumenti di comunicazione – il laboratorio per eccellenza di questo pensiero. Per questo oggi la rappresentazione della città ha un successo così evidente e per questo i fotografi continuano ad essere protagonisti di primo piano di questa azione, che dal cuore dei problemi parte e ad esso ritorna, dopo aver cercato altrove di arricchirsi con la moltiplicazione del proprio singolo sguardo. In tutto questo, va sottolineato il ruolo fondamentale degli Urban Center, come luoghi dove la fotografia si è unita all’urbanistica, non solo sui muri e negli scatti, ma nel dibattito, nell’osservare, recepire i suggerimenti dei fotografi, criticarli, rielaborarli. La spinta 117 che hanno dato gli Urban Center – dal primo e più celebrato, quello di Torino, in funzione ormai da circa un decennio – si unisce all’azione svolta da organismi ministeriali - come la ormai celebre DARC, la Direzione per l’Arte e l’Architettura contemporanee del Ministero per i Beni Culturali che è stata alle origini del progetto che ha portato oggi al Maxxi, il Museo romano dell’arte del XXI secolo - nell’azione di avvicinamento delle politiche culturali a quelle urbanistiche, dove il ruolo dell’immagine ricopre le due funzioni, di ricerca-documentazione e di comunicazione-promozione. Alcuni fotografi europei sono da tempo impegnati in direzioni come quelle indicate, basti pensare tra i tanti all’olandese Bas Princen, e all’artista e fotografa catalana Montserrat Soto e a molti giovani fotografi attivi nell’area barcellonese, da due decenni laboratorio privilegiato di queste pratiche. Alcuni caratteri comuni è possibile riconoscerli, pur nella diversità degli approcci, e certamente tra questi è l’importanza crescente data al corpo umano, al ritratto, alla definizione delle identità delle persone come stile dominante della rappresentazione della città multietnica. Questo è avvertibile anche osservando alcuni casi italiani recenti, che pongono l’accento su temi di rilevanza politico-sociale connessi alla città, tornando a proporre dopo decenni una fotografia di servizio, di indagine critica della realtà, fatta da posizioni molto coinvolte dal punto di vista della informazione politica, in un caso rifiutando addirittura la soggettività autoriale per scegliere al contrario la fisionomia di collettivo. 2. Città desolate di cui siamo responsabili. Architetto e designer formatosi tra Eindhoven e Rotterdam, Bas Princen fa parte di una generazione di artisti particolarmente centrati sul tema della rappresentazione dell’architettura. Princen si colloca nel solco dei New Topographics americani, e anche per questa sua qualità è stato invitato da Linea di Confine per la fotografia contemporanea di Rubiera a documentare il cantiere della linea veloce Bologna-Milano nel 2008 (Galleria naturale è il titolo del lavoro). Tuttavia è capace di unire al rigore a volte un po’ freddo della fotografia documentaria una dose non trascurabile di ironia surrealista, ben percepibile nelle sue vedute urbane. Nella serie Refuge, Princen mostra cinque città del medio oriente - Beirut, Amman, Il Cairo, Istanbul, Dubai - e compone una città immaginaria dotata però di tutti i caratteri che ognuna ha di per sé: una città senza centro, popolata da oggetti architettonici implausibili, attraversati o lambiti da flussi migratori di scala continentale.� Nel suo ultimo progetto, Reservoir (in mostra nel 2011 alla Casa dell’Architettura di Roma), tutto il materiale urbano mostrato (cantieri, case, pezzi e frammenti di costruzioni e strade, rocce e geologie, cave, grotte, strutture edilizie, scale e scalinate, ruderi) non sembra nemmeno più in grado di raccontare dei luoghi in un senso documentario. Pare invece che la ricerca visiva produca simboli, icone, metafore di qualcosa, di una condizione esistenziale, di una transitorietà cronica. L’autore alterna linguaggi diversi, a volte inquadra l’architettura come farebbe un fotografo di architettura, a volte ritrae il paesaggio come un vedutista faceva con la pittura nel Settecento. Questa oscillazione continua dimostra come il modo di guardare e di rappresentare poco 118 86. Bas Princen, Shopping Mall Parking Lot, Dubai 2009 influisca nel descrivere oggetti così espressivi, che sono di per sé i monumenti del contemporaneo, nel loro squallore, nella loro mole inquietante, esistono senza essere scoperti da nessuno, senza essere raffigurati da nessuno, la loro esistenza è enormemente più significativa della loro visibilità. Nella presentazione del libro, Stefano Graziani – che è anche lui un fotografo – fa uso di una citazione di Ghirri da Atlante, secondo la quale, in questa epoca in cui tutto è stato già scoperto, la nostra sola possibilità è di scoprire la scoperta già fatta. Ad esempio, per Princen, quella di Lewis Baltz, o dell’artista John Baldessari. Del primo, Princen ripete l’insistenza nel mostrare la desolazione che l’uomo infligge al paesaggio; del secondo apprezza la preminenza data alla fotografia nel suo visual looping, il rimando continuo dall’una all’altra delle tecniche figurative. Princen utilizza un punto di ripresa che definisce come la media distanza, e sostiene che non è stata molto usata nella fotografia recente di architettura, che preferisce i punti di vista estremi, con l’inquadratura centrata sull’oggetto architettonico oppure sul paesaggio urbano. Mentre - a suo dire - è esattamente nella media distanza che la figura umana diventa un elemento interessante: non è il soggetto principale e dunque non può essere mostrato come tale, ma le sue relazioni con l’ambiente circostante riescono a definirlo in modo preciso e originale, e aggiungono allo stesso tempo un ulteriore piano di lettura al paesaggio o all’architettura. 87. Montserrat Soto, Doom City, 2005 88. Montserrat Soto, Perdidos Anche Montserrat Soto mette l’architettura al centro del suo lavoro, ma secondo un concetto molto allargato: non le interessa l’edificio come composizione, ma il fatto che esso produca relazioni e interazioni con il contesto sociale e ambientale. Per Soto infatti , l’architettura è ciò che la circonda, dove passa, dove vive, ciò che la accompagna. E’ un concetto che ripete con le sue opere sin dalla prima mostra del 1990, Devenir intuido. L’habitat è ciò che scegli, quello che crei intorno a te per sviluppare te stesso, tutto ciò di cui parli. L’habitat è te stesso, la tua stessa struttura. E’ anche una idea di architettura, se si intende non solo il disegno del costruito, ma anche il sentimento dei luoghi; se l’ambiente è environment inteso come modo di essere, di stare, di sentirsi; se è il luogo dove per ognuno avvengono le grandi cose. Tracking Madrid è il suo lavoro più legato al paesaggio urbano e alla memoria. E’ un inseguimento della città, una carrellata sui paesaggi urbani, Che si possono percepire in modo ancor più coinvolto stando sul confine tra dentro e fuori, tra natura e cultura. La zona che Soto preferisce è quella che segna il limite tra outside e inside, da cui puoi guardare dentro ma senza penetrare. Infatti gli elementi più forti della sua poetica sono le porte e le finestre. Puertas traseras raccoglie vedute da porte e finestre, sguardi da balaustre, da finestrini di traghetti, da archi di portici. Il linguaggio della porta è il suo modo di parlare a se stessa – e all’osservatore delle sue fotografie - stando di fronte al paesaggio inquadrato, incorniciato, e anche di parlare di quel particolare momento – e modo - in cui la città si percepisce proprio mentre si decide di affrontarla, di entrarvi dentro. Secondo Soto, il grande successo del paesaggio in fotografia, la sua fotogenicità, l’amore che gli hanno riversato addosso i fotografi deriva certamente dal fatto che il paesaggio più che nell’oggetto è 119 nello sguardo, più che nella oggettività nella soggettività, e questo ovviamente stimola l’appetito fotografico. Sta nel modo con cui il soggetto si mette a esplorare il mondo visibile, più che nel mondo stesso. L’esplorazione richiama i primi esempi della fotografi di paesaggio, i lavori di documentazione del territorio connessi a spedizioni scientifiche, geologiche, militari. Ad esempio, la campagna fotografica eseguita negli anni ‘70 dell’Ottocento da Timothy O’ Sullivan e William Henry Jackson negli Stati Uniti, per conto del governo americano, che portò poi alla creazione del parco di Yellowstone nel 1872; e così avvenne anche nel 1940, con il lavori di Ansel Adams sulla Sierra Nevada. Questi sono esempi molto precisi di una filiazione diretta di azioni progettuali e amministrative dalla esecuzione di riprese fotografiche, e Montserrat Soto dichiara esplicitamente il suo debito prima ancora di affetto e fascinazione che di discendenza culturale. La riproducibilità immediata e la facile replicabilità in grande numero delle immagini ha prodotto anche grandi effetti sulla diffusione delle informazioni, un aspetto di non poco conto e molto utile alla messa a punto di strategie politico-amministrative. Dal punto di vista delle discipline territoriali però la fotografia è un’arma a doppio taglio, poiché contribuisce anche alla moltiplicazione della conoscenza, dei visitatori, dei fruitori, e dunque costituisce un problema per le azioni conservative, in quanto genera un aumento della pressione antropica sui luoghi. Questo è molto evidente con il turismo, del quale naturalmente la fotografia è stata la generatrice più efficace e inarrestabile. Così come il turismo ha a sua volta generato fotografia, nel senso di una richiesta continua di informazione attraverso immagini stereotipate e accattivanti. Uno dei modi più sottili ma anche ricorrenti di rappresentare il paesaggio urbano è quello che possiamo definire “per complementarietà”, cioè la sua rappresentazione attraverso la rappresentazione dell’opposto, il paesaggio che una volta si chiamava rurale e che oggi forse in modo più pertinente si chiama extra-urbano, in quanto la predominanza della urbanità pretende di definire tutto il resto in termini di sua assenza. Se già Ghirri è stato uno dei maestri italiani di questa pratica, Montserrat Soto ha realizzato molte opere secondo questa poetica. Ad esempio Hivernaderos (2002) mostra campi di Almerìa e Fuerteventura dove le coltivazioni tradizionali sono sostituite da costruzioni di plastica paragonabili alla struttura urbana di strade ed edifici. Al contrario, nella serie Huellas (2004) predominano scenari verdi che nascondono rovine di industrie, una sorta di ritorno della campagna in città in termini meno positivi di quanto non prevedano le teorie dell’agricoltura urbana. Molto spesso il lavoro di Soto, come di molti altri artisti contemporanei, prevede la fruizione di queste immagini anziché attraverso i libri fotografici o le mostre tradizionali, attraverso installazioni che pongono il visitatore all’interno di spazi spesso bui circondati da scenari fotografici (vere e proprie messe in scena) del tipo dei panorama, con fotografie di grande formato giustapposte che mimano la realtà viva dei luoghi. Come certe immagini degli anni ‘60 di Robert Smithson, non si tratta di fotografie di denuncia, ma – al contrario - di constatazione. Non sono immagini malinconiche, ma certamente creano instabilità, irritabilità, forse anche disagio. Ci 120 mettono di fronte alle responsabilità connesse alla modificazione paesaggistica, agli effetti di lunga distanza della urbanizzazione, e ponendo lo spettatore al centro del panorama ne esigono il coinvolgimento, la corresponsabilizzazione, in modo anche crudo. 3. Carrers e paesaggio metropolitano. Barcellona è una città al centro dell’attenzione mondiale da quasi un ventennio, per la rapidità con cui è riuscita a risollevarsi dall’emarginazione in cui – come e più del resto della Spagna – si era trovata nel periodo franchista. Il caso è notissimo: a partire dal 1980 – quando la prima elezione democratica del dopo-Franco porta all’insediamento di una giunta a maggioranza socialista guidata da Narcis Serra – la città inizia a cambiare aspetto, grazie anche alla nomina dell’architetto Oriol Bohigas quale assessore all’urbanistica [Ingrosso, 2011]. E’ a Barcellona che l’eterno conflitto tra i santificatori del piano urbanistico generale e i discepoli dell’architettura come arte in grado di trasformare da sola l’ intero contesto urbano trova una mediazione concreta e non puramente teorica nel progetto urbano. Una invenzione non solo verbale (la parola progetto fa parte del vocabolario dei termini architettonici, l’aggettivo, invece, di quelli usati dai pianificatori): Bohigas, con la forza dei fatti, ovvero delle molte realizzazioni, dimostra che una scala territoriale come quella rappresentata dalle dimensioni di un quartiere è idonea a far incontrare le esigenze di un disegno coerente e omogeneo per una serie abbastanza estesa di isolati, con gli effetti di riverbero sull’organizzazione e il funzionamento del tessuto cittadino adiacente alle realizzazioni di architettura di qualità. Di norma, il protagonista del progetto urbano è lo spazio pubblico, sia esso aperto che edificato, purché il cittadino vi si riconosca e possa comprendere immediatamente l’uso da farne e la disponibilità dello stesso per i propri bisogni. La città è intesa da Bohigas come una “somma di frammenti, ciascuno dei quali ha una data coesione fisica e sociale” [Bohigas 2002, p. 71 e segg.], e i progetti urbani devono “venir utilizzati come base per la partecipazione cittadina e per la collaborazione di diversi professionisti”. E’ così che nascono profonde ed inedite riflessioni sull’alternativa tra espansione e ricostruzione, sulla necessità di superare il falso dualismo tra centro e periferia, e dunque sulla possibilità di ottenere una città più densa e compatta, riqualificando spazi dismessi, vuoti, o degradati, anche ricorrendo a forme contemporanee, utilizzando la metaforica procedura della metastasi, un metodo induttivo che parte dal contesto fisico e per progressive aggiunte si perfeziona nel progetto. La città, si cominciò a dire, si costruisce su se stessa, aggiungendo, sottraendo, stratificando, in una città già di per se stratificata e molto compatta (cento chilometri quadrati che non possono aumentare a causa dei limiti fisici imposti dal mare, dalla collina del Tibidabo e dai due fiumi Besòs e Llobregat). Nascono in serie interventi di architettura minimale (come la chiamò Ignasi de Solà-Morales) su pasei e piazze, frutto della collaborazione di professionalità diverse, architetti, urbanisti e scultori, tra cui Richard Serra ed Eduardo Chilida. Questo fervore di opere è ancor più stimolato, com’è ovvio, dalla assegnazione a Barcellona delle Olimpiadi del 1992: arrivano i grandi nomi, come Norman Foster, 89. Adrià Goula, dalla serie Carrers Metropolitan i places centrals, 2010 121 Arata Isozaki, Frank Gehry, Alvaro Siza, e poi Richard Meier, Herzog & de Meuron, Jean Nouvel, Richard Rogers. Di solito l’arrivo delle archistar fa terra bruciata delle giovani generazioni locali; al contrario, l’esperienza di Barcellona smentisce questa teoria. Architetti come Viaplana e Pinon, Miralles, Bonel, Mateo, relativamente giovani e sconosciuti, sono emersi dall’esperienza della riqualificazione urbana come protagonisti dell’architettura europea, forse grazie alla forte carica di impulsi liberatori esistente nella città catalana, dal primitivismo di Joan Mirò all’essenzialismo del padiglione tedesco di Mies van der Rohe. I caratteri dell’esperienza barcellonese, che si prolunga nel tempo e tuttora, dopo trent’anni, mantiene in larga misura intatta la sua forza, portano con sé la necessità della fotografia: molta architettura, in spazi storici, paesaggistici, in un contesto ricco di turismo, con alta partecipazione. Molta necessità di dialogo tra fotografia e progetto. La città, inoltre, possiede una cultura fotografica di prim’ordine: da Brangulì a Català Roca, passando via via per Humberto Rivas, Manolo Laguillo, Jordi Bernadò, fino ai giovani, molto coinvolti nell’analisi urbana attraverso la fotografia. Tra questi giovani autori, alcuni hanno lavorato con Carles Llop, architetto e docente dell’ Università Politecnica di Catalogna, nel realizzare una mostra, Carrers Metropolitans, che è anche uno studio e un progetto. Lo studio riguarda la viabilità urbana e il modo in cui storicamente le nostre città prendono forma, attraverso lo spazio pubblico. Dal più piccolo insediamento alle città più grandi il primo elemento d’ordine è la strada, che risulta dalla distanza spontanea o progettata tra gli edifici. In una realtà urbana metropolitana come quella di Barcellona è necessario trovare spazi di relazione della vita sociale, e la strada è quello più immediato e consolidato. Il municipio di Barcellona, le città dell’Arco Metropolitano, l’area metropolitana e la sua Regione Urbana hanno realizzato così Carrers metropolitans, che raccoglie gli spazi emergenti della costellazione territoriale suddetta. E’ anche una iniziativa programmatica per creare le condizioni di un progetto concertato, suddividendo tra le diverse istituzioni pubbliche le competenze della trasformazione in termini di abitabilità e accessibilità. E’ un 122 90. Pere Bascones, dalla serie Carrers Metropolitan i places centrals, 2010 documento strategico destinato alla governabilità del territorio. All’origine dell’iniziativa è una mostra fotografica a fianco di un seminario, un libro, una strategia in sviluppo attraverso la cooperazione di studi privati, università, istituzioni. L’esposizione è stata itinerante in varie città mondiali: Parigi, Shanghai, fino a Rio de Janeiro. E’ insieme una riflessione sui problemi e le opportunità dello spazio della strada contemporanea e la diffusione della conoscenza della grande trasformazione dello spazio urbano della città, portato a termine negli anni della democrazia a Barcellona. La riflessione sulla strada come scenario attivo e struttura efficace per la vita contemporanea, comprendendo anche lo sviluppo di nuove tecnologie applicate allo spazio urbano. Nella strada circoliamo, viviamo, lavoriamo, la strada è al tempo stesso il miglior luogo di relazione ma anche di conflitto. In tutte le città del mondo le domande sono le stesse: di chi è la strada? A cosa serve? Chi vigila, chi decide? Come possiamo rendere compatibili tutte le velocità, i modi di trasporto, le necessità degli abitanti che passano e di quelli che vi lavorano, come i commercianti? Come realizzare strade leggibili, fluide, di facile uso? Fino a che punto la pubblicità, i negozi, la libertà d’espressione e l’arte possono trovare il loro spazio? Tutte queste funzioni possono essere più o meno compatibili tra di loro, e creare conflitti di tipo diverso. La crescita delle città, sia in altezza che in superficie acutizzano questi problemi d’uso. Per risolvere questi problemi l’urbanistica moderna ha teso a creare gerarchie e a specializzare usi, separando mobilità e attività. A volte queste scelte sono state criticate come portatrici di separazione. Esistono altre esperienze, di paesi che invece hanno puntato sul potenziale di urbanità che deriva dalla mescolanza di funzioni e classi sociali. Questi sono i temi dell’esposizione, e la fotografia in questo caso come si vede deve essere capace di porre domande e in un certo senso anche di suggerire percorsi per le risposte. Un video di grande formato mostra un mondo di strade in movimento; cinquanta progetti di architettura inventano le strade, ne immaginano un uso diverso, ne migliorano le capacità di relazione; una sezione della mostra è dedicata a indagare come la telefonia mobile, la pubblicità interattiva e i videogiochi modifichino il nostro immaginario sulla strada. La stessa varietà di denominazione della strada a Barcellona è indicativa della diversità d’uso e di approccio: carrer, avinguda, passeig, carretera, camì, pas, via, travessia, carrer major, gran via, camì del mig, carretera alta, passeig maritim, rambla, diagonal, travessera, ecc. La strada può essere osservata dal punto di vista dei bisogni sociali primari: la nettezza, il parcheggio, la sicurezza dei bambini, i trasporti pubblici, gli animali, l’accessibilità, l’arte, la vita 24 ore su 24... [Llop 2011]. 91, 92. Andrés Flajszer, dalla serie Carrers Metropolitan i places centrals, 2010 4. Il collettivo fuori_vista e Sismicity. Il collettivo di fotografi fuori_vista è composto da tre fotografi “senior” - Isabella Balena, Alessandra Chemollo, Fulvio Orsenigo – coadiuvati da alcuni giovani, e produce e cura progetti fotografici complessi per favorire, attraverso un’adeguata comunicazione, la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali. Tra questi, uno dei più recenti e significativi è la mostra Sismicity, che raccoglie un progetto fotografico sulle conseguenze del sisma 123 che ha colpito L’Aquila e il suo territorio, sviluppato nel corso di un anno e incentrato su ciò che il terremoto ha messo in luce: il nesso profondo tra il costruire e l’abitare, il sistema di relazioni tra identità individuale e collettiva, su cui si fonda il senso condiviso di bene comune. Due diverse esperienze fotografiche sono riunite nel lavoro: immagini di approfondimento dell’impatto del sisma sulla città e i suoi abitanti si affiancano a scatti dedicati alla registrazione esaustiva del centro storico de L’Aquila secondo criteri omogenei e preordinati: “luogo”, “identità”, “bene comune” sono le problematiche affrontate. La grande attenzione mediatica – spesso superficiale e deviante dalla verità dei problemi – non sminuisce e anzi rafforza l’utilità di un progetto di comunicazione come questo, composito, innovativo nella metodologia della ricerca, in cui l’autorialità del fotografo diventa condivisione delle competenze finalizzata ad un progetto comune. Sismicity è una mostra itinerante intorno alla quale si sviluppano iniziative di volta in volta diverse che coinvolgono istituzioni, cittadini ed esperti in una riflessione comune e condivisa sul futuro della città. Il collettivo fuori_vista è l’esempio di una fotografia innovativa nel suo rapporto con i temi dell’urbanistica. Fin dalla sua nascita, una delle qualità più intense della fotografia è la capacità di testimoniare e di informare. Da allora si è discusso spesso della veridicità o meno del mezzo fotografico, l’impegno dei fotografi per una evoluzione della società in una prospettiva di miglioramento è documentabile in una serie di episodi tratti dalla storia della fotografia, a cui idealmente il collettivo veneziano non può non fare riferimento. Di fatto, gli interrogativi che fotografi e fotografia si pongono oggi sono in sostanza ancora gli stessi: quali sono le funzioni ma anche le possibilità della fotografia che si pone come obiettivo documentare e informare? Tutti siamo consapevoli della limitatezza delle possibilità di incidere che ha la fotografia quando non può raggiungere dei sistemi di divulgazione ampi e contemporaneamente sappiamo tutti che il potenziale informativo della fotografia non può competere con la velocità e la capillarità della rete o dei sistemi televisivi. Nonostante questo, la fotografia ha per sua natura genetica alcune caratteristiche che in questa fase di confusione e di cambiamenti la rendono assolutamente preziosa e fuori_vista ce ne offre una possibile testimonianza: la fotografia ci consente il ripensamento, ci consente il confronto, ci regala i tempi della meditazione e della riflessione, ma soprattutto ci costringe a una presa di coscienza [Calvenzi, 2010]. Il fenomeno mediatico che ha caratterizzato l’informazione sul terremoto de L’Aquila e l’esperienza di fuori_vista sono in qualche modo sintomatici. Tutti abbiamo vissuto il bombardamento visivo su quanto è accaduto, su quello che è stato fatto e su quello che non è stato fatto, fino ad arrivare a una sorta di indigestione che ha rischiato di portarci al rifiuto, perché provocata da una comunicazione per immagini che puntava sull’accumulo e sul sensazionalismo e che probabilmente mirava anche al condizionamento dell’opinione pubblica. fuori_vista ha affrontato il problema con un progetto totalmente opposto, rifacendosi all’esperienza di episodi della storia della fotografia. Da un 124 lato il riferimento è a Paolo Monti e al lavoro realizzato per la documentazione dei beni architettonici e ambientali dell’Emilia Romagna; dall’altro, lo stile è quello definito “documentario”, teorizzato già negli anni Trenta da Walker Evans e praticato da tutto il gruppo di fotografi che aveva lavorato per il progetto di documentazione delle zone rurali degli Stati Uniti per la Farm Security Administration. L’esperienza di Sismicity ha i numeri per entrare nella storia della fotografia recente. Sono immagini che emozionano e allo stesso tempo sono la testimonianza di un momento storico e un punto di partenza. L’elemento che trasforma questa esperienza fotografica in qualche cosa di ancora più importante risiede nel progetto di comunicazione che fuori_vista ha saputo costruire attorno al proprio lavoro, ovvero nell’idea di lavorare insieme e in modo sistematico e anonimo, di raccogliere e verificare i dati, di organizzare dei laboratori, di indire incontri pubblici con esperti in diverse discipline, di mettere a confronto esperienze italiane e straniere, di coinvolgere infine le istituzioni e il pubblico in un’operazione di rilettura e di analisi che trova nella fotografia la capacità di essere forza motrice del progetto. 93, 94. fuori_vista, Sismicity. L’Aquila 2010 5. Milano Downtown. “Il dibattito sulle politiche urbanistiche e sugli strumenti di governo della città sembra spesso prescindere dai contesti materiali e la vita concreta dei luoghi sembra uscire dal campo di osservazione. Allo stesso modo in cui l’architettura fotografa gli edifici purificati dalle presenze umane, quando si discute di politiche urbanistiche il riferimento è a quantità, successioni di piani, dispositivi, reti di attori, senza produrre connessioni con gli esiti materiali e visibili. La politica, ma forse anche l’architettura e la pianificazione, sembrano aver perso il gusto di un riscontro sulle cose. I luoghi però resistono nel tempo e sono testimonianza dello stato delle cose, di ciò che gli strumenti di governo producono, quasi come reperti e <corpi del reato>. E’ qui che abbiamo voluto posare lo sguardo per tornare a discutere criticamente e pragmaticamente delle trasformazioni urbane a Milano e del futuro della città.” E’ lo stesso Hanninen che racconta così il suo lavoro [Bricocoli-Savoldi, 2010]. Soltanto sedici fotografie di piccolo formato – insieme con queste brevi parole - gli bastano per descrivere sinteticamente la situazione di cinque diverse aree milanesi. Il suo lavoro è laconico, anti-retorico, preciso, e il fatto che rifugga in modo così palese dall’abbondanza ne fa un lavoro esemplare, perfettamente idoneo a dare il senso di quella quiete visiva dell’ambiente urbano che copre come una coltre contraddizioni anche gravi. C’è senza dubbio una relazione tra l’ambiente squallido degli insediamenti periferici e la disattenzione che viene riservata al progetto che li concerne. Percorrendoli, ci si rende conto che la qualità urbanistica e architettonica è talmente bassa da non riuscire ad attrarre l’attenzione del visitatore. Basterebbe solo questo a spiegare la necessità della fotografia. Bisogna fotografare i quartieri periferici per permettere che esista una loro relazione con l’esterno, per evitare che restino isolati e chiusi in se stessi, come già lo sono per evidenti limiti di tipo funzionale: strade e accessi difficoltosi, mancanza di spazi pubblici attrattivi, senso di insicurezza sociale che li pervade e che costituisce a volte una 125 cattiva fama in tutta la città. Attenzione e visibilità, sono i presupposti per ogni cambiamento positivo. C’è anche da tener conto di due ostacoli sempre in agguato: la riluttanza a guardare e l’incapacità di vedere, sentimenti – o incapacità di sentire – che condizionano in modo pesante la percezione della città. Il lavoro di Hanninen su Milano riguarda casi diversi. Santa Giulia è una operazione immobiliare che va considerata come un caso esemplare delle trasformazioni urbane milanesi a cavallo tra XX e XXI secolo, un grande progetto con esiti fallimentari nonostante le lusinghiere attenzioni avute nella fase di lancio. Gratosoglio e Pompeo Leoni sono due quartieri diversi, l’uno è un progetto pubblico degli anni ‘60, l’altro un programma negoziato tra gli attori pubblici e privati di trent’anni dopo. Prendere atto dei limiti di entrambe queste realizzazioni può voler dire indicare. nuove sia per migliorare il migliorabile là dove si è intervenuti, sia per indicare alternative utili per le nuove esperienze. Sarpi e via Padova sono invece ambienti cittadini densi, che sono stati al centro delle cronache per motivi di ordine pubblico. In questi casi, oltre che obiettivi di miglioramento del progetto di riqualificazione relativo all’insediamento, la riflessione sul campo evidenzia la necessità di verificare le politiche per la città nel loro insieme. Dunque all’esame sono sia le grandi trasformazioni urbane, che i quartieri da riqualificare, che ambienti insediativi in transizione e crisi, e in tutti i casi lo sguardo fotografico ha come obiettivo la città, non l’architettura. L’urbanista riflette su ciò che vede e fa le sue considerazioni: se è evidente la crisi della polis – che non è limitata ai confini dell’urbs, ma, come scrisse Hannah Arendt, “la polis sarà dove voi andrete” - intesa come comunità insediata che esprime identità e coesione; anche la civitas – federazione di soggetti che si propone di sperimentare forme di convivenza – è in difficoltà, anche se esprime senz’altro una vitalità e una attualità maggiori. C’è dunque una crisi di urbanità. Proprio quando la popolazione mondiale è diventata da qualche anno soprattutto urbana, come ci hanno ricordato mille statistiche. E gli spazi che costruiscono la città non possono essere più quelli del passato, salvo creare dei simulacri come sono le città belle invocate da certi autori (da Leon Krier ai più recenti revivalisti delle città-giardino e di una forma colta di neomedievalismo). Gli strumenti di lavoro non possono certo essere ancora gli ambiti omogenei o le zone urbane della teoria urbanistica di fine anni ‘60. Ragionando in questo modo sarebbe ancora possibile sognare modelli utopici, come quello di cui parlava Colin Rowe, una città ideale che unisce i vantaggi di un centro storico plurifunzionale e ricco di heritage come quello europeo, con quartieri suburbani ben disegnati e spaziosi come quelli dell’american way of life. Un’utopia mai realizzata, e tanto meno realizzabile oggi, in un’epoca di crisi di risorse, dove mediamente la percentuale di chi può scegliere l’abitazione in una qualsiasi città è di quel decimo dei residenti che possiede il 40% dei redditi complessivi. Oggi forse più che di utopie è opportuno ragionare di rischi concreti, come quello di avere una città con un centro simile alle downtown americane e una periferia come quelle metropolitane europee, qualcosa di simile alla città infinita di Koolhaas. 126 95. Angela Rosati, Ex Manifattura Tabacchi, Bologna, 2011 Una politica riformista “modesta ma responsabile” è la ricetta suggerita da questo tipo di approcci visivi, orientati alla ricerca di una via percorribile per il miglioramento: qualcosa di simile ai concetti di understatement e di sobrietà che la fotografia urbanistica di questi anni dovrebbe contribuire a diffondere, per aiutare un ragionevole progetto di recupero urbano. 6. Il ritorno degli abitanti. William Guerrieri è da anni il coordinatore delle diverse attività portate avanti da Linea di Confine di Rubiera. Oltre a questo ruolo molto importante di curatore e promotore culturale, svolge anche l’attività di fotografo. Instant Report è un suo progetto di documentazione della partecipazione pubblica che si è sviluppata intorno ad alcune questioni urbane di grande rilievo per le due città di Modena e Bologna. Il lavoro di Guerrieri sulle Fonderie riunite di Modena si è svolto tra il 2007 e il 2008. Il complesso di edifici dismessi è una delle più significative testimonianze industriali della città. L’area fu teatro di un tragico scontro tra operai in sciopero e polizia, che culminò nell’uccisione di sei operai il 9 gennaio 1950. Quando il Comune, circa dieci anni fa, considerò la possibilità di inserire anche le ex Fonderie nel programma di riqualificazione urbana comprendente l’intero quadrante nord della città, nacque un intenso dibattito su come riutilizzare gli edifici. Fu organizzata una discussione con la comunità per definire un piano condiviso per lo sviluppo del sito, con il contributo dei cittadini, di associazioni e delle istituzioni coinvolte. Le ex Fonderie furono oggetto nel 2001 di una campagna fotografica promossa dalla Regione Emilia-Romagna e condotta da Gabriele Basilico, che documentò con oltre 700 immagini le aree in corso di trasformazione in cinquanta comuni della Regione [Basilico, 2001]. Il lavoro su via del Pratello a Bologna è del 2008-2009. Nella strada del centro storico bolognese, che è una sorta di piccolo quartiere dalle origini popolari, l’apertura di varie attività commerciali – promossa tra l’altro da finanziamenti pubblici – ha visto la proliferazione di bar, ristornati, osterie, pub, birrerie, taverne, spesso con spazi attrezzati all’esterno (i cosiddetti dehors). L’apertura notturna fino ad ore molto avanzate ha causato seri problemi per i residenti, che hanno organizzato comitati per la difesa della quiete pubblica. Già da alcuni anni l’ambiente urbano si è caratterizzato per un progressivo degrado. Camminando per la via del Pratello si è subito sorpresi dalla quantità di scritte sui muri, graffiti, manifesti, avvisi di varia natura, al di fuori degli spazi predisposti. L’amministrazione comunale ha aperto una serie di consultazioni con il quartiere, la popolazione, le associazioni dei commercianti e le molte associazioni culturali operanti nella zona. Le prime riunioni avvennero nel 2007, vennero sospese a fine 2008 in seguito ad alcuni provvedimenti del Sindaco sugli orari di chiusura degli esercizi pubblici che provocarono la reazione dei gestori, con vasta eco sulla stampa. Come mantenere vivo lo spirito del Pratello e salvaguardare il sonno degli abitanti? La domanda è stata posta nel corso di pratiche di Open Space Technology, una procedura di ascolto partecipativo organizzata per gestire i conflitti e trovare soluzioni il più possibile condivise. Nello stesso periodo 2008-2009 Guerrieri documenta la formazione 96. Giovanni Hanninen, Quartiere Librino a Catania, 2011 127 97. William Guerrieri, Fonderie riunite di Modena, 2007-08, dalla serie Instant Report di una attenzione collettiva verso le trasformazioni urbanistiche in corso nel quartiere Navile, sempre a Bologna. Vasti complessi industriali (Casaralta, Sasib, Cevolani, ex Manifattura Tabacchi), aree militari (la caserma Sani) vengono coinvolte in un progetto che prevede la realizzazione di uffici, negozi, abitazioni, servizi culturali e ricreativi. Dovranno essere costruiti parcheggi, strade, piste pedonali e ciclabili, riutilizzando per questo scopo anche il percorso delle vecchie linee del trame della ferrovia. L’area è da tempo quella che raccoglie le iniziative più importanti per lo sviluppo e la riqualificazione della città: nel quartiere è stato realizzato il nuovo complesso di uffici comunali, e nell’ex mercato ortofrutticolo è in corso di realizzazione un grande quartiere residenziale. Anche in questo caso le fotografie di Guerrieri danno testimonianza di sopralluoghi e incontri che sono stati promossi dal Comune. In un certo senso, forse con una forma di estrema ma benefica tautologia, si può dire che queste fotografie corrispondono al massimo grado allo sforzo di rappresentare il futuro, di rappresentare il progetto, visto che raffigurano momenti in cui esso si forma, in cui la discussione pubblica produce elementi di riflessione che dovranno poi diventare elementi del progetto di trasformazione e riuso. Tra questi spunti per il progetto stanno ad esempio le decisioni sul grado di cancellazione fisica delle preesistente, che spesso è ciò che sta maggiormente a cuore agli abitanti, residenti, ex lavoratori che partecipano alla discussione. Ovviamente un altro contenuto dei confronti pubblici è la destinazione delle aree, la maggiore o minore dotazione di servizi – verde, parcheggi, piste ciclopedonali, servizi per la cultura, ecc; e la quantità di edificazione, la sua densità, perfino le sue forme. Da questo punto di vista, così come la fotografia autoriale classica di paesaggio, anche la documentazione dei processi di formazione del consenso nelle grandi trasformazione urbane può essere considerata un survey, una verifica, un contributo sostanziale al processo di progettazione/pianificazione, e dunque alla formazione del paesaggio urbano del futuro prossimo. 128 7. Hinterland bolognese. Nel 2009 la Provincia di Bologna ha dato incarico al fotografo gallese – ma da tempo residente in Italia - Rhodri Jones di realizzare un’indagine sul territorio di alcuni comuni della bassa bolognese. Jones abita già da alcuni anni in un comune della stessa zona, e tuttavia la sua origine geografica gli impedisce di porsi nei confronti di quei luoghi con sentimenti di nostalgia. Anche la sua carriera professionale, spesa in larga misura tra l’Asia e il Sudamerica come fotoreporter, lo spinge a uno sguardo oggettivo e al tempo stesso curioso, anche se non nostalgico. Succede di frequente a questo tipo di autori: stranieri, magari dei paesi del terzo mondo, già fotoreporter e successivamente decisi a entrare nel novero degli autori-artisti, dedicandosi dunque ai tipi di fotografia più autoriali, come indubbiamente è il caso della fotografia di paesaggio in questi ultimi dieci-quindici anni. Tra i molti altri esempi che si possono fare viene il mente il caso del sudafricano Guy Tillim, già attivo con Reuters e France Presse tra gli anni ‘80 e i ‘90, e nel 2009 auotre di una mostra, Roma, Città di mezzo, capace di offrire una interpretazione non troppo turistica della “città eterna” in cui sembra a volte di trovare una sensibilità trasognata e quasi ghirriana. Il punto di partenza di Rhodri Jones nel lavoro sull’hinterland bolognese è basato sul confronto con le situazioni dei brownfield sites gallesi, originati dalla chiusura delle miniere di ferro e carbone nelle valleys. La trasformazione edilizia e sociale, in questo caso, porta a costituire comunità con identità del tutto nuove, senza radici né storia, in modo analogo a ciò che succede altrove; ma si tratta di azioni pianificate con il preciso scopo di recuperare zone degradate o dismesse, e dunque gli obiettivi sono chiari ed evidenti, oltre che necessari. Meno immediato è alla sua comprensione il caso bolognese, dove campagne anche ricche ed industrializzate vengono sacrificate a una forza esterna ed autonoma, l’espansione della città, che sembra quasi una invasione che tutto fagocita. Si creano delle piccole satellite towns unicamente residenziali, prive di spazi pubblici, che sono sostituiti dai multiplex, dagli ipermercati e dalle case bingo. E’ il paesaggio della sprawltown [Ingersoll, 2004], sul quale è lecito interrogarsi, chiedendosi ad esempio cosa sopravviverà negli anni, come sarà assorbito dalle parti più nobili del territorio bolognese, se sarà in grado di generare nostalgia come altri paesaggi hanno fatto e fanno da sempre. E’ una riflessione apparentemente paradossale, ma in verità è un modo anche questo per riflettere sulla qualità dei luoghi. L’opinione comune rigetta questo tipo di insediamento definendolo brutto, ma al tempo stesso lo chiede, ci abita, vi si adatta. La contraddizione è evidente. Chi critica lo fa adducendo che non c’è paragone tra questi paesaggi e quelli della tradizione rurale, ormai ridotti in poche isole di sopravvivenza, soprattutto in montagna. Ma confonde la verità dei fatti, ipotizzando che in un vago passato gli abitanti costruissero consapevolmente un paesaggio bello, mentre questo non è mai accaduto. Ognuno ha sempre costruito ciò che serviva, casa e stalla un tempo come oggi casa e capannone, non si è mai data un’epoca votata a realizzare un bel paesaggio, il paesaggio è ciò che risulta dal complesso delle attività umane orientate a fini di utilità personale e sociale, non di bellezza. Uno 98. Guy Tillim, Pincio, 2009 129 dei meriti del lavoro di Jones è esattamente questo, di suggerire che ciò che le sue foto mostrano non avviene nonostante noi: il paesaggio siamo noi. Jones anche nelle sue foto del mondo in cui tutti viviamo non smette di ricordarsi quel che è stato: un fotografo reporter di zone calde, e non smette di ricordare di essere stato allievo di un mostro sacro del fotoreportage come Philip Jones Griffith, poi presidente dell’agenzia Magnum, gallese anche lui, che divideva il lavoro dei fotografi tra quelli che producevano foto che raccontano quello che ci vorrebbero mille parole e foto che hanno bisogno di mille parole per essere spiegate. Il pragmatismo un po’ guascone, sfrontato che è proprio della persona si legge anche nei prodotti della sua seconda vita stanziale e riflessiva, come sottolineatura della grossolanità, della pesantezza di questo mondo: così come gli era possibile con una certa trasparenza di sguardo registrare le pesanti contraddizioni e le violenze dei terzi mondi, oggi con pesante nitidezza, larghezza, coloritura, diagonalità fotografa l’evanescenza del paesaggio liquido. Il lavoro sull’hinterland bolognese si interroga sulle relazioni tra il paesaggio e l’identità degli abitanti. E’ scontanto prendere coscienza del fatto che le trasformazioni paesaggistiche e ambientali si accompagnano a quelle identitarie. Il fatto è che anche se accettiamo che l’identità di ognuno di noi sia in continua trasformazione, non ci piace registrare i cambiamenti dell’ambiente in cui viviamo. Vorremmo che l’ambiente fosse stabile. Possiamo sopportare l’idea che il nostro paesaggio interiore cambi secondo logiche sue, di fatto indipendenti dalle nostre forze di contrasto o interazione, ma ci irrita moltissimo trovarci in posti che non riconosciamo. Vogliamo che almeno il paesaggio esteriore, quello che scegliamo per ambientarci, per adattarci al mondo con il minor sforzo possibile, sia accogliente, risponda al nostro bisogno di sentirci stabili, di sentire la continuità, i legami col passato. Superiamo lo shock della nostra identità interiore che si sfarina, consolandoci con la nostalgia del passato e sforzandoci di perpetuarne le forme. Queste fotografie della bassa bolognese ci mostrano luoghi irriconoscibili rispetto a come erano non molti anni fa. Jones lavora sul concetto di nostalgia, scompigliando le cose con ironica intelligenza. Non avendo conosciuto questi luoghi quando erano molto diversi, non prova nostalgia per la loro trasformazione, e si chiede se anche fra dieci o vent’anni si potrà provarla pensando a come erano, cioè come sono oggi. Questo possibile sentimento futuro ha il suo germe in queste architetture dechirichiane, in queste metafore di supermercati, in questi eufemismi di fabbriche? Fra trent’anni, quando la sua chiesa sarà sostituita da un’altra, nuova e più moderna, il vecchio - ora giovane - abitante si opporrà, lotterà invano e piangerà sulla sua scomparsa, evocandone le forme, le opportune geometrie, la sapienza costruttiva, il suo radicamento nel territorio? Queste fotografie sembrano suggerirci che il paesaggio esiste a prescindere dalla nostra memoria e perfino da noi che vogliamo farne il “nostro” paesaggio. Che esso si forma non certo per noi, ma nemmeno contro di noi: banalmente, si forma nonostante noi. Nessuna comunità agisce per costruire un paesaggio, ma per costruire un’economia, una collettività, una convivenza. Il 130 99. Rhodri Jones, Cart and Skyscrapers, Shanghai paesaggio è semplicemente ciò che ne consegue. E’ sempre stato così, anche quando i nostri antenati avevano il controllo delle forme del costruito, stabili da secoli, e delle forme delle campagne, anch’esse immutabili. Quando tutto era stabile e riconoscibile, però, il paesaggio non esisteva: esisteva il territorio, lo spazio da usare, ma il paesaggio non veniva percepito. Quando poi sono scomparsi i contadini e i muratori, i boscaioli e i cacciatori, quando è comparso l’uomo massificato e uguale, allora è arrivato il paesaggio, con il suo ingrediente principale, la nostalgia. Queste cose, i luoghi, le costruzioni che vediamo nelle fotografie di Jones, diventeranno i beni culturali del futuro? Sarà emozionante arrivarci e riconoscerle, commovente allontanarsi e lasciarle? Sarà vietato demolirle o trasformarle? E’ possibile che mescolando cose un po’ banali, scontate, prosaiche, o addirittura brutte, sguaiate, piccolo borghesi e un po’ trash, con questi ingredienti possa in tempi lenti realizzarsi una ricetta gustosa? Perché poi lenti? Se l’accelerazione tipica della società odierna continuerà anche solo con progressione aritmetica, potrebbero bastare una decina d’anni perché noi ci innamoriamo di questo ambiente di ibridi innaturali, dove case rurali ristrutturati troneggiano nel vuoto dei campi dell’agricoltura intensiva e meccanizzata, privi ormai di aie, stalle, pollai, porcili, pozzi, recinzioni, fossi, cavedagne. Saranno dunque beni culturali le tracce umane che Jones cerca e raffigura con le sue fotografie, o le nuove composizioni di elementi antichi - torri, portici, orologi in facciata, tetti spioventi e mattoncini di cotto - con elementi nuovi come portoncini di garage, piscine, condizionatori, palestre, antenne paraboliche, grandi vetrate panoramiche? Nelle foto che comparivano cinquant’anni fa su Tuttitalia o sulle pubblicazioni del Touring c’erano i vecchi contadini fotografati da Enrico Pasquali e Antonio Migliori, e qualche florida massaia di Antonio Masotti. Foto in bianco e nero, abiti neri e grigi, lana grossa, feltro, cuoio, tavolacci di legno in stanze di mattoni rosicchiati dal tempo o di intonaci scrostati. Nebbie fotogeniche creavano ambienti misteriosi, ricchi di storia dei Comuni e delle Signorie locali. C’era una miseria appena riscattata che si sente ancora e si vede ancora, c’era una solidarietà, una collettività, una comunità. Dietro a queste immagini – anzi: dentro – c’è ovviamente Bacchelli, che verso nord-ovest diventa Guareschi e a sud-est Tombari; ci sono galline che becchettano, fiumi che scorrono e boschi che stormiscono, c’è sudore, odore di stalla, biciclette, comunisti e democristiani, il progresso che sta per arrivare. I beni culturali sono castelli e rocche, chiese e pievi e oratori, centri storici con i portici e le vecchie osterie sotto i portici, case rurali con i fienili settecenteschi, il pozzo nell’aia, i filari con le viti maritate. Jones non ci mostra praticamente niente di tutto questo, perché di questo non esiste quasi più niente. Oggi non ci sono più la campagna e la città, c’è solo la città che ha urbanizzato la campagna, e quel che resta della campagna è diventata un’altra cosa da quello che era prima, una specie di lago di terra o d’erba. Certi luoghi sembrano finti: tutti nuovi, con i colori omogenei e i margini netti come gli oggetti di plastica. Le cose sono ben separate; la ghiaia è ghiaia, il prato è prato, il muro è tinteggiato di fresco e così pure la persiana. La nuova chiesa ha gli spigoli non 100, 101. Rhodri Jones, Hinterland bolognese, 2010 131 ancora consumati dal tempo, e vien da credere che consumati non li avrà mai. Non perché il materiale è resistente ma perché nessuno mai riparerà nulla di ciò che si rompe, nessuno sa farlo. Non esistono artigiani (men che meno contadini e nemmeno, è ovvio, operai, non parliamo di pescatori, cacciatori, tagliaboschi) ma autotrasportatori che recapitano dai megastores oggetti nuovi che sostituiscono i vecchi – lavatrici e lavastoviglie, televisioni e condizionatori. Ci sono imprese che costruiscono nuove chiese o nuove case al posto delle vecchie. Viene da chiedersi se i beni culturali che domani le schiere di turisti andranno a visitare in queste pianure sono le palestre, i capannoni, le case a schiera che oggi guardiamo con sufficienza. Se tra cinquant’anni, i funzionari di qualche istituto per i beni culturali faranno il censimento dei garage o delle rotonde stradali, e gli architetti delle soprintendenze impediranno severamente di modificare il tracciato di qualsiasi lottizzazione, in quanto tipico esempio della società dell’inizio del terzo millennio, di cui si sentirà certamente la mancanza, perduta sotto le numerose, successive e velocissime stratificazioni. Se ci saranno ancora, se saranno sopravvissuti, andranno vincolati anche i secolari ulivi che furono qui trasportati all’inizio del terzo millennio, già vecchi e gloriosi, in queste terre di pianura, provenienti dalle originarie patrie toscane, umbre o marchigiane. Aeroporti e piscine, stazioni del servizio ferroviario metropolitano e mega-cartelloni pubblicitari saranno testimoni malinconici ma orgogliosi di un passato un po’ mitico, quando la gente di qua iniziava il proprio percorso di integrazione razziale, di creazione della società multietnica. Una società di massa ormai matura, dove ogni uguale alla fine della sua giornata lavorativa si toglie l’uniforme di lavoro – camice o tuta che sia – e si mette quella del tempo libero, corre a correre o a nuotare o a volare, poi raduna la famiglia in pizzeria o nella multisala cinematografica più vicina. 132 102. Alessandra Chemollo, Reggio Emilia, 2005, dalla serie Quale e Quanta 10. CONCLUSIONI Molti discorsi sul paesaggio – urbano e rurale – sono oggi gravati da una forma di idealismo nostalgico, secondo cui i relitti delle forme della costruzione ed organizzazione del territorio che ci provengono dal passato sono l’espressione della capacità dei nostri antenati di costruire un bel paesaggio. In verità, se prendiamo in mano dei classici come ad esempio la Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni [Sereni, 1961], non troviamo affatto enunciazioni questo genere: nessun soggetto in nessuna epoca ha mai operato sul territorio – ha costruito, ha coltivato, si è insediato – con l’intenzione di costruire un bel paesaggio, ma semplicemente con l’intenzione di sfruttare il territorio per i suoi fini: abitare, coltivare, produrre, difendersi, spostarsi, ecc. Nei secoli sono state attivate procedure per controllare l’entità e la qualità delle trasformazioni, più o meno efficaci – anche in ragione della forza con cui le trasformazioni di imponevano, forza economica, militare, sociale. Nell’Ottocento è stata inventata l’urbanistica, proprio per porre limiti e condizioni all’inurbamento indotto dalla rivoluzione industriale, e per consentire alle classi subalterne condizioni di vita – alloggi, soprattutto – idonee o almeno decorose. Ma questi sviluppi non cambiano la sostanza: l’uomo ha sempre trasformato il territorio per i suoi bisogni, mai per realizzare qualcosa di bello. Si può convenire che i metodi costruttivi, rimasti per secoli sostanzialmente simili e riconoscibili, hanno consentito fino alla fine dell’Ottocento di mantenere una certa continuità di forme, soprattutto nel territorio rurale, e in minor misura nella città. Ma queste tecniche tradizionali non erano scelte consapevolmente, bensì erano a disposizione; non erano preferite ad altre più invasive, erano le uniche che era possibile utilizzare. L’invenzione di materiali da costruzione come il ferro e il cemento armato, la crescente industrializzazione edilizia, la necessità di produrre a minor costo per un maggior numero di persone, è questo che ha reso uniformi i paesaggi e ne ha abbassato la qualità. Il paesaggio non è una forma estranea e indipendente dalla sensibilità dell’osservatore. Esistono certamente i paesaggi in un senso oggettivo – conglomerati di natura, storia, cultura che hanno valori documentabili, evidenti, percepiti dalla collettività. Ma non c’è dubbio che il paesaggio è più intensamente percepito quando diviene una forma di vita spirituale (come si esprimeva Thomas Mann, riferendosi alla sua 103. Tim Davis, dalla serie The New Antiquity, 2009 104. Claudio Sabatino, dalla serie Indagini sul Po, 2008 133 amata Lubecca). In questa definizione c’è l’intreccio di grande storia e di storia familiare o addirittura individuale; e soprattutto, c’è la cultura dell’individuo che guarda, ricorda, rievoca, fa del paesaggio una scena di vicende affettivamente coinvolgenti, e strappa il paesaggio dalla sua pura versione pietrificata, o vegetale, o atmosferica. Questi argomenti hanno a che fare con la fotografia in modo preciso e continuo. Si potrebbe quasi dire che la fotografia è un potente, formidabile strumento di smascheramento di luoghi comuni paesaggistici, e al contrario, di penetrazione del paesaggio come forma spirituale. Il principio di realtà - la sua percezione, la sua accettazione, la sua affermazione sull’ideologia – è stato indotto e facilitato dalla fotografia di ricerca e documentazione, quella americana degli anni Trenta e francese della DATAR. L’effetto di secchezza e semplicità che può avere una fotografia priva di abbellimenti, di inquadrature selettive, di punti di vista pittoreschi, di accorgimenti fotogenici, può essere paragonato alla sconcertante limpidezza con cui Brahms inizia la sua quarta sinfonia, in polemica con la lentezza costruita delle sinfonie di Behetoven. Senza preamboli, senza sotterfugi: l’accettazione del paesaggio così com’è, a cui certa fotografia documentaristica o concettuale ci induce, è uno strumento molto utile per contrastare descrizioni volte all’indietro, al passato, orientate a riprodurre il paesaggio storico-tradizionale. Al contrario, è possibile trarre spunti dalla fotografia di paesaggio urbano più compromessa e brutale, per costruire consapevolmente i processi di rigenerazione e riciclaggio. Tenendo presenti questi concetti, ci siamo chiesti nelle pagine precedenti qual è il compito oggi della fotografia, di quella fotografia documentaria o sociale che si preoccupa di informare. Di più, quale sarebbe la specificità della fotografia di fronte allo strapotere della moda, della tv, del cinema, del giornalismo. Uno spazio da occupare, dopo decenni di un concettualismo che ha fornito molte interpretazioni ma che forse non ha dato altrettante risposte, sembra essere quello dell’informazione – e addirittura della contro-informazione - necessaria nel periodo della partecipazione; di indirizzarsi verso “progetti fotografici complessi destinati a migliorare la partecipazione con un’adeguata comunicazione dei processi decisionali che interessano il territorio” [Sismicity, 2010]. Sembrano concetti antichi, e in effetti lo sono, provengono dalla 105. Giovanni Hanninen, Milano, 2011 134 stagione degli anni Settanta, ed è un recupero possibile di ciò che di quegli anni – non è molto, forse – non è stato bruciato nel grande incendio degli anni di piombo. Se guardiamo a quegli anni, vediamo un primo periodo in cui la fotografia di paesaggio si è occupata esclusivamente dell’antico, dei centri storici, escludendo il moderno: Paolo Monti non coglieva il moderno perché non voleva nemmeno provarci. Col passare degli anni, una generazione di nuovi artisti (Ghirri, nato nel 1943, Basilico nel 1944, Guidi nel 1941) comincia ad occuparsi quasi esclusivamente del moderno, per reazione. Oggi il nuovo punto di vista dovrebbe essere di tornare verso l’antico partendo però dal moderno, cioè inglobare la riflessione sull’antico nella nostra consapevolezza della irrinunciabilità del moderno. In questo modo dovrebbe risultare possibile dare una versione più mirata e sicura del paesaggio italiano contemporaneo, che non rifiuti la storia ma non ne sia schiacciato, che non rifiuti la attualità, ma non finga di essere altrove, dove non è: in Asia, in Africa, in America, come succede a certa fotografia convenzionalmente ripetitiva di modelli internazionali. Questo concetto ritorna negli studi più recenti sulla fotografia documentaria: “la fotografia deve essere una fonte di informazioni e sapere di tipo quasi scientifico, permettere semplicemente di archiviare il presente per l’avvenire, o invece cercare, descrivendo la realtà del mondo sociale, di trasformare le opinioni e le azioni del presente? [Lugon, 2008] E’ ovviamente una domanda retorica. La città futura annunciata dalla fotografia contemporanea è un equilibrio instabile di contrasti etnici e culturali, dove ogni soggetto è titolare di propri diritti, e quasi per conseguenza ogni oggetto è degno di conservazione, e nessuno di esecrazione; il paesaggio è tutto e anche il suo contrario, e così forse non è più nulla, è un concetto scomparso in mille diverse interpretazioni e sensibilità, e la fotografia di paesaggio urbano è dunque testimone dell’ultima versione del concetto di paesaggio. Questa complessità nuova esige probabilmente nuovi strumenti di lettura, che superino non tanto i maestri, ma i loro epigoni, che occupano gran parte della scena senza ereditare dai predecessori la forza interpretativa. Le città italiane non sono paragonabili a quelle mondiali – salvo la conurbazione milanese – e dunque è pleonastico – oltre che fuorviante - fotografarle come New York. La necessità di salvare il salvabile del nostro patrimonio culturale e identitario non è un obiettivo superato, e bisogna vedere quale fotografia può servire a questo fine senza essere la ripetizione di quella ormai standardizzata sul modello del Touring Club Italiano, troppo ingentilita e destinata a un pubblico di turisti. L’urbanistica diventa partecipata, e dunque bisogna che la fotografia faccia anche da occhio per la popolazione comune, che chiede sguardi più svelti e pragmatici, vuole una fotografia non di denuncia ma nemmeno di acquiescenza, vuole una foto di pronta comprensione che indichi la trasformabilità dei luoghi, ne descriva gli utilizzatori. Tra l’eccesso di enfasi degli autori/artisti e ormai inevitabile ripetitività del concettualismo-minimalismo, quale può essere la terza via? Una via più partecipata e precisa, ma non chiusa all’arte, per poter comunque prendere dall’arte la sua capacità di suscitare emozioni; che si allontani dalla logica del mercato dell’arte per raggiungere un pubblico più vasto, e affronti la necessità di 135 misurarsi con l’understatement necessario per poter affrontare la crisi economica e la contingenza epocale delle questioni ambientali. Che accetti il tema della sobrietà, già così diffuso nella letteratura urbanistica, e non solo. Alcuni temi che sono emersi in questi anni, come quello delle rovine del contemporaneo o delle shrinking cities - le città in post-sviluppo, in decrescita, in crisi economica e demografica - attengono quasi per definizione alla sobrietà, perché trattano del meno, del non più, e si interrogano su quale sarà il futuro per vaste aree del pianeta. Da qualche tempo si ascoltano opinioni che invocano un cambio di passo nella ricerca fotografica applicata al paesaggio urbano. In parte provengono dal settore stesso della critica fotografica, altre volte si tratta di indicazioni che provengono dal versante degli urbanisti e degli architetti, e diventano però un invito anche per i fotografi. Alcuni critici hanno parlato a volte con sufficienza, a volte con vera irritazione dell’eccessiva proliferazione di epigoni dei nuovi topografi americani. E’ uno stile che a distanza di quasi quarant’anni dagli episodi fondativi, è transitato da noi in un numero imprecisato di repliche, perdendo sempre più incisività e ovviamente originalità. Ci sarebbe stata una “sorta di confuso americanismo” [Mormorio, 2000] come causa dell’omologazione in cui è caduta una schiera di fotografi affascinati dai New topographics, un “concettualismo senza lucidità” da cui si sono salvati, a parte Giacomelli e lo stesso Ghirri, in pochi: tra questi, Francesco Radino, Mimmo Jodice, Giovanni Chiaramonte, fotografi che hanno saputo far convivere il senso della modernità con quello della tradizione. C’è il senso di una necessità nuova, la ricerca di una via italiana al paesaggio urbano, capace di registrare sia le costanti del mondo globale che le peculiarità locali, con cui è giusto e sensato fare i conti. Soprattutto quando si tratta di un valore anche economico di non poco conto e di non poca importanza per la ripresa del paese, come ad esempio lo stato dei nostri beni culturali e la necessità di trovare una equilibrata politica di conservazione. Basata su decenni di verifiche, orientata a un sapiente equilibrio tra tradizione e contemporaneità. Le nuove frontiere dell’urbanistica del terzo millennio - la partecipazione, le mappature emotive, la questione ecologica nelle sue varie declinazioni, il rischio di scomparsa del welfare – implicano una ripresa delle ragioni etiche del progetto, una necessaria mediazione rispetto alle sue dimensioni, per renderlo fattibile e affrontabile. Ridimensionamento da un lato e urgenza sociale dall’altro sono tensioni uguali e contrarie da cui possono emergere conflitti, e l’equilibrio ragionato della rappresentazione dei fattori e degli attori della scena urbana costituisce una sfida eccitante per i giovani autori, già evidente e percepibile nei loro lavori. Il cambio di passo che oggi è necessario sta soprattutto nello smettere di constatare (constatare la crescita, l’immagine della contemporaneità, la presenza dei nuovi abitanti e la relazione con le identità locali), e tornare a progettare. Proprio nel momento in cui la fotografia diventa progetto in un modo più esteticorappresentativo che davvero progettuale (abbondano i rendering su base fotografica, non più la fotografia di ricerca), si pone davvero la necessità di un progetto. Il rilievo dell’esistente è sempre stato 136 necessario, e deve tornare ad esserlo con una fotografia di nuovo capace di mettersi docilmente al servizio di concrete esigenze di misurazione, spiegazione, mediazione, usando un linguaggio accessibile, uscendo dalle secche del concettualismo più radicale. Superare la continua contraddizione tra conservazione e trasformazione è un problema concreto del progetto contemporaneo che la fotografia può facilitare in più modi. La fotografia è adatta a questo, perché può affiancare le cose, le affianca di fatto. L’affiancamento è la scintilla che consente la vicinanza tra le due diversità e la loro fusione, il loro equilibrio. L’equilibrio tra conservazione e trasformazione è l’unica via di salvezza tra lo storicismo che impedisce la contemporaneità e il modernismo arrogante che strappa le radici. E dunque: equilibrio tra locale e globale. Tornare al piccolo e poco costoso. Partecipare le scelte. Fondare il progetto sull’ecologia. Tornare alla politica e alla rappresentazione sociale, anche attraverso la fotografia che mostra (non che denuncia, semplicemente che mostra certi temi, e li sottolinea, li rende evidenti). Ridare una immagine vera e autonoma, non frutto di copiatura, del paesaggio urbano italiano. La fotografia progettuale influenza e viene influenzata da questi temi. Interviene nella loro formulazione, li definisce, li trasforma aggiungendo punti di vista e conoscenza visiva (contro i piani e i progetti ciechi, privi di immagine). E inoltre li diffonde, e diffondendoli partecipa al dibattito, ne viene influenzata. Subisce (giustamente) le loro urgenze, l’animosità con cui vengono discussi e vissuti. E dunque può – e deve – credere ancora in se stessa e nel proprio compito. 137 106. Riccardo Vlahov, dalla serie Ferrovie dell’Emilia - Romagna, 2011 138 BIBLIOGRAFIA Adams Robert 1995 La bellezza in fotografia, Bollati Boringhieri, Torino. Al limite 2006 Dalai, Milano. Al limite. Arte e fotografia tra gli anni Sessanta e Settanta, Baldini Castoldi Amendola Giandomenico 1997 La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea, Laterza, Roma-Bari. 2000 Dal crogiolo all’insalatiera, in Paesaggio Urbano, 5-6, sett.-dic. 2000. Assunto Rosario 1983 La città di Anfione e la città di Prometeo. Idea e poetiche della città, Jaca Book, Milano. 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Abstract Piero Orlandi The experience of the town. Urban landscape as photographic glance Town planning and photography were both born in the Nineteenth Century, when cities, absorbing population from the countryside, to be employed in industry, were becoming bigger and bigger. Town planning, as a branch of learning, comes into being just for this reason, and states a set of rules and procedures, technical knowledge and administrative powers, whose aim is that of managing the town and its development, and also to define its shape and image. In the same years, photography started portraying the landscape, mainly the urban one, giving of it a representation that is both an objective description and a subjective interpretation. As the two disciplines have coexisted for over a century and half, and because of their common relation with the town, they both have a lot to do one with the other. The relationship, as always, is bidirectional, and it sometimes happens that town planning asks photography for help, and that this one gives back visual information that have influenced the planning practices. Town planning needs to know its territory, and for that purpose photography is a necessity. Quite often, town authorities give photographers the task of carrying out visual reports on topics and phenomena in a certain area. Other times it has happened that photography takes from the discussion on the town some hot questions, and tries to analyze them its own way, using its own tools and language, even without giving its own interpretation back to the source, but on the contrary making it accessible to anyone, through both sectorial and general channels: books, magazines, exhibitions, tv, cinema, websites. This way, the relational flow becomes longer, and goes through the public opinion before coming back to the centers where the planners’ decisions are taken; the visual interpretation is strengthened though by the agreement of a lot of people, becoming more shared, and more effective. There is also a third way of the exchange between the two disciplines. When a photographer, following his own researches, moved by the feeling for the new and for the change of the town, produces a personal vision of reality and its phenomena which are perhaps still unknown to the majority of people, but already active and bearers of the oncoming transformations in the structure of the places. 153 In this case, the absorption of such visions is slower, as they are a true discovery. Every discovery needs in fact to be felt and metabolized, moreover it needs to face rejections, old habits, beliefs and traditions which are hard to defeat: then, photography leads town planning along unexplored paths. Reality, as always, shows a mix of these cases, therefore the aim of this study is to investigate a very short period, the years between 1970 and today. Round about the 1970 many things changed in cities: a period of huge growth started, so that in few decades a wide diffusion of population took place in the country side. The role of photography changes too: the reportage is ending, while is starting conceptualism, taken from visual arts; but above all, the common perception of reality is changing, influenced by the weak thought of postmodernity, and inclined to a more analytical observation, instead of ideological interpretations. In these years begins a phase in which photography, more than other disciplines and sciences, seems to be able to orient the perception of urban reality, to describe its problems and destiny, risks and the emergencies. Photographic representation of urban landscape becomes more and more frequent, and metropolitan growth is showed as an uncontrollable rising. We want, particularly, to follow the history of Italian photography in the last four decades, linking it to the most popular interpretations of the idea of towns, to the artistic trends, and to the urban theories and policies. Urban landscape is here, under our eyes, but often we don’t know how to look at it. Photography helped us a lot in these last years, more than other disciplines. We wonder if it has been able to communicate something conclusive, if it has created a new perception and a new idea of urban landscape or if, otherwise, it has adopted the common view, showing people what they want to see. Before the Seventies, architects and urban planners urged photographers into this kind of questions; on the contrary, today, photography seems to ask urban planning for a better precision in documenting its own field. So is it better to give specific tasks to photography or instead to leave it free to search what to investigate? We wonder if photography of urban planning exists, differently from the photography of architecture and landscape; if it is possible to use photography as a predictive investigation on areas where the plans of redevelopment and enhancement are carried out. Can this investigation be really more than a simple recording of the condition of the places, or instead is it able to define their identity? The closer concept we can state is the site-specifc one, used by public art, to define a performance or an installation carried out with the interaction of artists, inhabitants and stakeholders. The pictures taken for this purpose could shape a point of view useful for the planner. By the word “plan”, we mean a wide technical range: territorial planning, urban rehabilitation, and so on. We are not talking of traditional photography of architecture, as it depicts the shape and the space of a single building, already planned and realized. We are in this case in the critical field, not in the planning one. On the contrary, we are looking for a photography which comes before the architecture, not after. We will investigate some cases of public customers in Italy in the last four decades, and in particular we will analyze the work of some Italian artists: Paolo Monti – who worked in the years 1968-75 photographing the most important old towns of Emilia-Romagna – Luigi Ghirri – the first photographer who certified urban sprawl in Italy – Gabriele Basilico – perhaps the best know Italian landscape-photographer abroad. We will talk also about some Italian followers of the American new topographics – the authors of the celebrated exhibition in 1975 in Rochester – very related to conceptualism. To come to an end, we will observe – through the work of young authors in Italy and abroad such as: Bas Princen, Montserrat Soto, Giovanni Hanninen, Rhodri Jones and others – a slow but meaningful changing of style, leaving simple statement of facts and coming back to a stronger engagement. Therefore, political, environmental and social engagement seems to become the new aim of today’s urban landscape photography. 154 INDICE Premessa 1. La città dei fotografi Prendere nota dei luoghi, non dei fatti Prima della fotografia, e nel frattempo Sfiducia postmoderna Paesaggio come senso dei luoghi Urbanistica contro architettura La fotografia è uno strumento, non la soluzione 2. Idee di città del Novecento L’immagine della città contemporanea Endell e la bellezza della metropoli Catastrofe o fiducia Dalla dispersione alla sparizione Varianti del gusto e nuovi valori 3. Esperimenti e descrizioni precoci Guardare la città Townscape, fra fotografia e disegno Geografi italiani Approcci sociologici Il pop e il primato dell’immagine Riflessi (sbiaditi) della città Arte e/o fotografia 4. La città degli architetti La fotografia tra urbanistica e architettura Bruno Zevi e l’urbatettura Aldo Rossi e l’immagine padana Carlo Aymonino Quaroni e le scale Politiche urbane pubbliche, un breve excursus Casi di stretta relazione tra urbanistica e fotografia 5. Paolo Monti e il progetto politico del territorio Premessa: una regione ad alto tasso fotografico Prime avvisaglie di un’epopea Monti, Emiliani, la nuova cultura delle città Esportazione di un modello Persistenza del piano Effetti collaterali di lunga durata 6. Ghirri e la dispersione urbana Ritratti mai visti di città padane Elenchi infiniti e incessanti di cose intime Una mostra memorabile Il geometra Ghirri e alcuni architetti 7. La supercittà di Gabriele Basilico Tra i Becher e Savinio Come gestire il territorio con l’aiuto dei fotografi E anche: tra Groddeck e Mulas Si può fare urbanistica con le fotografie 8. Nuovi topografi italiani Guido Guidi Deserti urbani 155 9. Visioni per una nuova strategia metropolitana Spinte esaurite e nuove sfide Città desolate di cui siamo responsabili Carrers e paesaggio metropolitano Il collettivo fuori_vista e Sismicity Milano Downtown Il ritorno degli abitanti Hinterland bolognese 10. Conclusioni Bibliografia Referenze fotografiche Abstract 156 157