handicap e integrazione

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handicap e integrazione
handicap
e
integrazione
il r uol o de l l ’e d u c a t o r e a s c u o la
HANDICAP E INTEGRAZIONE:
IL RUOLO DELL’EDUCATORE A SCUOLA
Linee di pensiero e riflessioni
attraverso due ricerche condotte nel territorio bolognese
Nelle scuole di Bologna operano più di 200 educatori per favorire l’integrazione
scolastica degli alunni in situazione di handicap. Il loro lavoro rappresenta una
risorsa fondamentale per gli alunni e quindi per la scuola e si svolge in costante
collaborazione con i dirigenti scolastici, gli insegnanti, il personale non docente, i
tecnici dell’azienda USL, le famiglie.
Si tratta di una figura professionale che ha, nel tempo, acquisito sempre maggiori
conoscenze e competenze e garantito professionalità e continuità nella gestione
degli interventi educativi affidati.
Abbiamo ritenuto molto importante aprire una riflessione sul ruolo professionale
dell’educatore che opera a scuola attraverso il convegno “Handicap e integrazione:
il ruolo dell’educatore a scuola”, tenuto a Bologna il 24 marzo 2007.
La prima parte del convegno è stata dedicata alla presentazione di due ricerche,
svolte una sul patrimonio documentale raccolto da Società Dolce nel corso degli
ultimi anni di gestione dei servizi, e l’altra affidata al Grep (Gruppo di ricerca di
Etnografia del pensiero - Dipartimento Discipline Storiche Università di Bologna) volta
a dare voce direttamente agli educatori sulle loro esperienze professionali.
Entrambe le ricerche sono state discusse nella tavola rotonda da professionisti che
operano a diverso titolo nell’ambito dei servizi di integrazione scolastica.
01
handicap
e
integrazione
i l r uol o de l l ’e du c a t o r e a s c u o la
Atti convegno “Handicap e Integrazione: il ruolo dell’educatore a scuola”.
Linee di pensiero e riflessioni attraverso due ricerche condotte nel territorio bolognese.
Cooperativa Sociale Società Dolce soc. coop.
24 marzo 2007 - Sala Conferenze Quartiere Santo Stefano, Via Santo Stefano 119, Bologna.
Pubblicazione atti: luglio 2007
2
1. CARTE D’ARCHIVIO E AZIONE EDUCATIVA
Dati e riflessioni sui servizi scolastici di assistenza
handicap nella città di Bologna
1.1.
1.1.1.
1.1.2.
1.1.3.
1.1.4.
1.1.5.
Presentazione
di Caterina Segata
Premessa
Finalità e motivazioni
I primi dati
Guida alla lettura
Ringraziamenti
1.2.
9
9
10
11
13
14
Il quadro normativo
di Caterina Segata
1.2.1. Gli accordi di programma
1.2.2. La legislazione scolastica
15
1.3.
La storia della ricerca
di Lucia Marrocchi
1.3.1. Premessa
1.3.2. Strumenti di rilevamento dei dati
23
1.4.
39
1.4.1.
1.4.2.
1.4.3.
1.4.4.
1.4.5.
Lo stato dell’integrazione
di Lucia Marrocchi
Premessa
La presenza sul territorio dei servizi di assistenza handicap
nei quartieri della città e nelle scuole bolognesi
La presenza sul territorio dei minori con disabilità in carico nei
servizi di assistenza handicap
La distribuzione dei minori con disabilità in carico nei servizi di
assistenza handicap nei quartieri e per tipo di scuola
La presenza sul territorio degli educatori della cooperativa nei
servizi di assistenza handicap
19
21
23
28
39
42
45
46
54
3
1.4.6. Le ore complessive settimanali di intervento educativo assegnate ai
minori con disabilità nei servizi di assistenza handicap
56
1.5.
La qualità dell’integrazione
di Lucia Marrocchi
Premessa
Le ore medie settimanali di intervento educativo assegnate ai
minori con disabilità dai quartieri nei servizi di assistenza handicap
Le ore medie settimanali di intervento educativo assegnate agli
educatori dalla cooperativa nei servizi di assistenza handicap
I minori con disabilità seguiti in continuità dalla cooperativa e nei
passaggi di ordine scolastico nei servizi di assistenza handicap
Il possesso del PEP e le informazioni fornite dalla scuola
all’educatore nei servizi di assistenza handicap
La partecipazione dell’educatore agli incontri del Gruppo
Operativo convocato dalla scuola nei servizi di assistenza handicap
58
72
1.6.1.
1.6.2.
1.6.3.
1.6.4.
1.6.5.
1.6.6.
1.6.7.
Il ruolo dell’educatore
di Caterina Segata
Premessa
Gli educatori dei servizi assistenza handicap
Anzianità di servizio
Titoli di studio
Qualifiche professionali
Inquadramento del ruolo
Le aree di intervento
1.7.
Indice tabelle
83
1.8.
Indice grafici
84
1.9.
Bibliografia
86
1.5.1.
1.5.2.
1.5.3.
1.5.4.
1.5.5.
1.5.6.
1.6.
4
58
59
61
65
68
70
72
73
75
76
78
78
80
2. METTERSI IN GIOCO OGNI GIORNO
Inchiesta tra gli educatori nelle scuole di Bologna
2.1.
Introduzione
di Anna Laura Diaco
91
2.2.
“Che ci sia una rete di rapporti, è quello che io cerco”
di Anna Laura Diaco
94
2.2.1. “Quando dico che lavoro a scuola come educatore...”
94
2.2.2. “Vieni a contatto con tante figure, tanti ambiti... in più, tu chi sei?”
96
2.2.3. “L’opportunità di metterci te stesso”
104
2.3.
108
“Trasmettere esperienza”
di Sebastiano Miele
2.3.1. “Educatore? Cosa vuol dire?”
108
2.3.2. “Fai l’insegnante di sostegno... no, faccio un’altra cosa...”
110
2.3.3. “È questa ambiguità del ruolo che è tipica dell’educatore,
che non è né questo né quello”
111
2.3.4. “Chi ha il diploma fa la stessa cosa: spiegami la differenza”
114
2.3.5. “Quando lo fai, la realtà è diversa”
115
2.3.6. “Che ti sappiano trasmettere esperienza”
118
2.4.
APPENDICE
“È un laboratorio in cui puoi inventare continuamente le soluzioni”.
Sulla verità euristica dell’educatore
di Valerio Romitelli
121
2.5.
Bibliografia
127
5
3. GLI INTERVENTI DELLA TAVOLA ROTONDA
3.1.
Valerio Romitelli
Docente di Metodologia delle Scienze Sociali
Università di Bologna
131
3.2.
Fulvia Righi
Pedagogista quartiere e coordinatrice servizi educativi territoriali e di scuola
dell'infanzia, Comune di Bologna.
134
3.3.
Alessandra Francucci
Dirigente scolastico Direzione Didattica n. 10 e Istituto Comprensivo n. 3
di Bologna
138
3.4.
Giancarlo Rigon
Direttore Unità Operativa di Neuropsichiatria e Psicologia dell’Età evolutiva
dell’Azienda USL Bologna Centro
141
3.5.
Giovanni Battista Pesce
Presidente Consulta Comunale per il superamento dell’handicap
Comune di Bologna
144
3.6.
Raffaele Tomba
Responsabile Area Servizi alle persone, alle famiglie, alla comunità e
politiche delle differenze - Comune di Bologna
148
4. GALLERIA FOTOGRAFICA
6
4.1.
I relatori
152
4.2.
Testimonianze fotografiche convegno
154
1. CARTE D’ARCHIVIO E AZIONE EDUCATIVA
Dati e riflessioni sui servizi scolastici di assistenza
handicap nella città di Bologna
Caterina Segata, Lucia Marrocchi
Cooperativa Sociale Società Dolce
“Il confronto con i dati è frutto di una opzione che riconosce i destinatari
come attori nell’organizzazione e di un assunto teorico che indica
nei sistemi sociali e organizzativi la presenza di fenomeni multicausati,
di interazioni complesse e ambivalenti che richiedono
delle letture differenziate, a più livelli, da rivisitare nel tempo.”
(Produrre servizi. Lavorare con oggetti immateriali
Franca Olivetti Manoukian, Il Mulino 1998, pag 106)
7
Copyright ©2007 Tutti i diritti sono riservati a Cooperativa Sociale Società Dolce Società
Cooperativa - Viale Aldini, 206 - 40136 Bologna
E’ vietata la riproduzione non autorizzata
8
1.1. PRESENTAZIONE
di Caterina Segata
1.1. 1 Premessa
La ricerca che viene presentata nasce dall’esperienza di Società Dolce nella gestione dei servizi educativi a
favore dell’integrazione scolastica degli alunni con disabilità.
E’ a gennaio del 1989 1, dopo meno di un anno dalla sua costituzione, che la cooperativa viene chiamata dal
Comune di Bologna, insieme ad altre due cooperative operanti nel territorio bolognese (SPEP Coop e ASS
Coop), a gestire i servizi educativi scolastici (servizi integrativi scolastici, assistenza agli alunni con disabilità
e centri estivi), fino ad allora realizzati direttamente con personale comunale. La collaborazione tra Società
Dolce e il Comune di Bologna nella gestione dei servizi educativi scolastici ed extrascolastici non si è mai
interrotta da allora.
Oltre all’esperienza acquisita nel corso degli anni nella gestione dei servizi, sia per il Comune di Bologna
che per altre amministrazioni comunali della Provincia di Bologna e di altre province nel territorio regionale
(Cesena, Fidenza, Parma), la cooperativa è da anni impegnata in un’attività di confronto continuo con le altre realtà della cooperazione sociale che sono impegnate nello stesso ambito di intervento 2.
L’esperienza nella gestione dei servizi e le riflessioni continue sul lavoro svolto dagli educatori in ambito
scolastico ci hanno portato a ritenere che fosse necessario individuare strumenti e modalità per iniziare un
lavoro di approfondimento e riflessione sul ruolo dell’educatore insieme a tutti i soggetti interessati all’integrazione scolastica: amministrazione comunale, scuola, azienda USL, famiglie.
1. Il 20 gennaio 1989 la Giunta del Comune di Bologna delibera l’affidamento diretto all’Associazione Temporanea d’Impresa dei servizi integrativi scolastici fino ad allora gestiti direttamente con personale comunale (Resto del Carlino del 18 gennaio 1989, La Repubblica del 20
gennaio 1989 e l’Unità del 22 gennaio 1989). Oltre agli educatori delle tre cooperative, fu ricollocato nei servizi anche il personale educativo precario già impiegato dal Comune per i medesimi servizi.
2. Nel 2003 viene istituito il Tavolo Tecnico per l’Integrazione Scolastica dalle Centrali Cooperative della Provincia di Bologna (Agci, ConfCooperative e Legacoop) a cui aderiscono le Cooperative Sociali impegnate nella gestione dei servizi educativi scolastici a favore dell’integrazione degli alunni in situazione di handicap. Il Tavolo ha come obiettivi: la valorizzazione e sviluppo di buone pratiche nella gestione
dei servizi; la valorizzazione del ruolo dell’educatore nell’ambito dei servizi rivolti all’integrazione scolastica; la gestione di rappresentanze
unitarie della cooperazione sociale nei diversi tavoli tecnici e di concertazione in ambito regionale, provinciale, distrettuale e comunale; la
realizzazione di iniziative pubbliche finalizzate allo sviluppo di una cultura dell’integrazione.
9
La cooperativa ha quindi attivato internamente un percorso di studio sul patrimonio documentale raccolto
negli anni, i cui risultati vengono qui esposti, limitando l’analisi al solo Comune di Bologna per poi ampliare
l’ambito ai comuni della provincia e nel futuro anche alle altre esperienze di gestione in ambito regionale.
Parallelamente Società Dolce ha affidato al Grep (Gruppo di ricerca di Etnografia del pensiero diretto dal
Prof. Valerio Romitelli - Dipartimento Discipline Storiche dell’Università di Bologna) l’incarico di realizzare
una ricerca volta a dare voce direttamente agli educatori sulle loro esperienze professionali.
Gli esiti di entrambe le ricerche sono stati presentati e discussi in occasione del seminario “Handicap e integrazione: il ruolo dell’educatore a scuola - Linee di pensiero e riflessioni attraverso due ricerche condotte
nel territorio bolognese”; svolto a Bologna il 24 marzo 2007.
1.1.2. Finalità e motivazioni
La ricognizione è nata dall’esigenza di delineare in serie storica le caratteristiche e la tipologia dei servizi
gestiti da Società Dolce in convenzione e di rendere testimonianza del lavoro di integrazione scolastica
svolto dagli educatori a favore dei minori con disabilità, inseriti nelle scuole del sistema scolastico bolognese. I dati sottoposti alla rilevazione riguardano gli anni scolastici che vanno dal 2002 al 2006.
La scelta di limitare il campo di indagine al solo territorio bolognese e agli ultimi quattro anni di gestione è
motivata da vari fattori. Una prima valutazione riguarda la “quantità” di dati a nostra disposizione, che abbiamo valutato sufficientemente ampia per poter garantire una base solida alle nostre riflessioni. A ciò si
aggiunge l’implementazione di una sistema di rilevazione dei dati omogeneo (vedi capitolo 1.3. la storia
della ricerca) che ha consentito la comparabilità da un anno scolastico all’altro dei diversi aspetti rilevati.
Dal 2001 ad oggi, inoltre, abbiamo notato un sempre più intenso sforzo da parte di tutte le istituzioni rivolto ad approfondire i ruoli e i processi che stanno alla base dell’integrazione scolastica e sociale delle persone con disabilità, anche al fine di operare valutazioni di qualità e verifiche di rispondenza alla norma. Il nostro obiettivo è quello di dare un contributo nell’ottica di fornire ulteriori elementi di riflessione utili al miglioramento e all’innovazione dei servizi.
Siamo convinti che il confronto con i dati sia un punto di partenza imprescindibile per “riflettere” sulle pratiche,
sui modelli organizzativi implementati nei servizi e sui risultati raggiunti. Si tratta di un percorso scomodo e faticoso, che può avere come effetto la messa in discussione delle certezze, su cui si basa la nostra azione quotidiana. E’ però certo che non esiste altra possibilità, per chi come noi opera nel campo dei servizi alla persona, che
intraprendere la strada della ricerca continua e del confronto con tutte le fonti e tutte le letture dei sistemi sociali e organizzativi in cui si trova ad operare, nella consapevolezza che si tratta di un lavoro senza fine.
Cos’è infatti il lavoro sociale se non un continuo pensare e ripensare ogni giorno, rispetto al presente, al
passato ed al futuro? Lavoro sociale significa prima di tutto ricercare il pensiero dei destinatari, degli operatori sociali, di tutti i soggetti che concorrono alla realizzazione dei servizi.
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Significa essere consapevoli di come ogni lettura di un fenomeno sociale sia, di per sé, parziale, e di come
solo nel confronto di sguardi ed approcci differenti si possa cercare di coglierne la complessità multidimensionale.
Oggi il nostro sforzo si concentra sul ruolo dell’educatore a scuola, nell’ottica di proseguire la riflessione sul
complesso di aspetti che contraddistinguono l’ambito dei servizi a favore delle persone in situazione di
handicap e delle azioni a favore di una loro piena integrazione educativa, scolastica e sociale.
1.1.3. I primi dati
Nel corso degli ultimi quattro anni scolastici, la cooperativa ha gestito i servizi di assistenza handicap in
convenzione con sette quartieri del Comune di Bologna su nove: Borgo Panigale, Navile, Porto, San Donato,
San Vitale, Santo Stefano e Saragozza. Tutti i dati che verranno presentati si riferiscono, anche quando non
analitici per quartiere, a queste gestioni.
Presentiamo in apertura i dati relativi al totale degli educatori che hanno lavorato nei servizi di assistenza
handicap (nel totale sono compresi anche i mediatori della comunicazione) negli ultimi quattro anni. Come
è possibile vedere nel grafico S2 gli educatori sono aumentati mediamente del + 9,5% annuo, fino a raggiungere le 188 unità nell’anno scolastico 2005-2006.
Grafico S2 - Serie storica degli educatori nei servizi di assistenza handicap
300
200
100
144
149
+3%
157
+5%
188
+20%
0
2002/2003
2003/2004
2004/2005
2005/2006
Anche il totale degli interventi educativi affidati in tutti i servizi gestiti a Bologna ha subito negli ultimi
quattro anni un incremento medio annuo del + 9%.
11
Il grafico S1 indica anno per anno il totale degli interventi affidati complessivamente a Bologna e le percentuali di aumento 3. Il dato si riferisce agli interventi educativi in ambito scolastico, comprendendo anche gli
interventi di mediazione della comunicazione e gli accompagnamenti educativi.
Grafico S1 - Serie storica degli interventi educativi nei servizi di assistenza handicap
400
300
200
232
246
+6%
262
+7%
300
+15%
100
0
2002/2003
2003/2004
2004/2005
2005/2006
La progressione in percentuale subisce un aumento se teniamo conto non più degli interventi affidati ma
del monte ore settimanale medio, e quindi della “quantità” di prestazioni educative erogate a favore dei minori con disabilità. Il grafico S3 presenta anno per anno il totale delle ore settimanali assegnate (il dato medio è ricavato dalla media annuale calcolata su 35 settimane) e gli scostamenti in percentuale, rivelando un
aumento medio annuo del + 12,5%.
Grafico S3 - Ore medie settimanali assegnate ai minori nei servizi di assistenza handicap
4000
3000
2000
2687
2939
+9%
2002/2003
2003/2004
3232
+10%
3831
+19%
1000
0
3.
2004/2005
2005/2006
I dati totali sono leggermente superiori al numero dei minori seguiti, in quanto a favore dello stesso bambino/ragazzo può essere attivato più di un intervento (vedi capitolo 1.4. Lo stato dell’integrazione ed in specifico: Tabella 3 e Grafico 3).
12
Se mettiamo a confronto gli scostamenti in percentuale dei tre dati presentati (numero di educatori, interventi educativi e monti ore settimanali) vediamo che le due linee relative agli interventi e al totale delle ore corrono in parallelo, mentre il numero di educatori subisce un picco di aumento tra il 2004-2005 e il 2005-2006.
Grafico S4 - Comparazione tra le percentuali di aumento
relativi a monti ore settimanali di intervento, numero di
educatori e numero di interventi educativi
Monti ore settimanali di intervento
Numero di educatori
Numero di interventi educativi
21%
20%
19%
18%
15%
15%
12%
10%
9%
9%
6%
6%
3%
3%
7%
5%
0%
0%
2002/2003
2003/2004
2004/2005
2005/2006
Uno degli sforzi gestionali, che contraddistingue il lavoro dei coordinatori in fase di avvio annuale dei servizi, è quello di garantire al minor numero di educatori il massimo degli interventi e dei monti ore affidati,
comprendendo tra gli interventi anche i servizi integrativi (pre/post orario, assistenza alla refezione e trasporto scolastico) che si svolgono nelle stesse scuole o in scuole vicine. Questa scelta ha come obiettivo la
limitazione massima del turn over e la qualità delle prestazioni educative erogate. Ovviamente ci sono situazioni in cui non è possibile fare ciò in quanto non troviamo le condizioni all’interno delle scuole per poter definire orari che rendano compatibili un intervento con l’altro.
L’aumento del numero degli educatori è, quindi, il prodotto finale dell’aumento delle prestazioni richieste
(servizi di assistenza handicap e servizi integrativi), delle difficoltà nell’individuazione di orari degli interventi compatibili tra loro e della maggior disponibilità degli educatori a svolgere i servizi integrativi. Tutti
aspetti questi che verranno ampiamente approfonditi nel capitolo 5. La qualità dell’integrazione.
1.1.4. Guida alla lettura
Abbiamo articolato l’esposizione della nostra ricerca dedicando un capitolo al quadro normativo di riferimento, nel quale si inserisce la figura professionale dell’educatore che opera a scuola a favore dell’integrazione scolastica dei minori con disabilità (capitolo 1.2. Il quadro normativo). Si tratta ovviamente di una materia già trattata da più parti e con maggior competenza, ma abbiamo ritenuto che potesse essere utile una
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lettura della norma che seguisse il filo dei riferimenti e delle definizioni del ruolo affidato a questa figura
professionale.
Il terzo capitolo illustra gli strumenti e le modalità che abbiamo utilizzato per la raccolta e l’archiviazione
dei dati, inclusa una parte dedicata all’ideazione e alla costruzione del database (capitolo 1.3. La storia della
ricerca).
I tre capitoli che seguono presentano i dati e le analisi qualitative e quantitative condotte sui risultati: capitolo 1.4. Lo stato dell’integrazione, capitolo 1.5. La qualità dell’integrazione e capitolo 1.6. Il ruolo dell’educatore.
La ricerca nel suo complesso è frutto dell’esperienza di lavoro che ci ha visto condividere con continuità riflessioni e pensieri, problemi e soluzioni con tutto lo staff di coordinamento dell’area scuola infanzia.
Abbiamo nel tempo ideato progetti pedagogici e gestionali per rispondere alle procedure di selezione indette dalle amministrazioni comunali per individuare il soggetto gestore dei servizi di assistenza all’handicap e percorsi formativi rivolti agli educatori che operano a scuola. I testi che presentiamo attingono anche
da questi materiali per le parti di interesse ai fini della ricerca.
1.1.5. Ringraziamenti
Siamo molto soddisfatte di poter presentare questo lavoro iniziato nel 2003 e vogliamo ringraziare le persone che hanno collaborato alla realizzazione di questo risultato.
In primo luogo ci preme sottolineare che questa ricerca è stata possibile grazie al sostegno della direzione
della cooperativa che ha consentito che dedicassimo tempo, energie e denaro alla predisposizione degli
strumenti, allo studio e all’analisi dei risultati. Sperando di non aver deluso le aspettative, vogliamo ringraziare il presidente Pietro Segata in rappresentanza di tutti i soci della cooperativa che ci hanno dato fiducia.
Abbiamo potuto contare nell’ideazione e costruzione del database e nella restituzione dei dati su Paolo
Malucelli e Anselmo Aldrovandi, che hanno garantito professionalità, pazienza e capacità di visione. A loro e
a Simona Gorni, che ci ha sostenuto nell’inserimento paziente e meticoloso dei dati, la nostra riconoscenza.
Un ringraziamento particolare a tutti i componenti dello staff di coordinamento dell’area scuola infanzia (di
oggi e di ieri) per il sostegno quotidiano che ci ha consentito di produrre questo lavoro: grazie ad Alida, Anna, Cristiana, Daniela, Davide, Elisa, Elisabetta, Francesca, Francesca, Laura, Maria Rosa, Piera, Sara, Sara, Valeria e a tutte le referenti.
A tutti gli educatori che operano a scuola e si mettono “in gioco ogni giorno”, alla loro professionalità, alla
loro pazienza, alla loro flessibilità, alla loro autonomia è dedicato questo lavoro.
14
1.2. IL QUADRO NORMATIVO
di Caterina Segata
Proponiamo in apertura un’analisi della normativa nazionale e regionale e degli accordi provinciali e territoriali che definiscono compiti e funzioni delle istituzioni e delle figure professionali, che a diverso titolo
operano a favore dell’integrazione scolastica.
L’obiettivo è quello di evidenziare gli obblighi istituzionali e professionali che concretizzano nella reale pratica scolastica il processo di integrazione degli alunni in situazione di handicap, con particolare attenzione
alle funzioni e ai compiti ai quali risponde l’educatore che opera a scuola.
Gli approcci culturali e le relative politiche di spesa, che hanno condizionato e condizionano la definizione
della figura professionale dell’educatore a scuola, si sono andate definendo nel tempo in base all’evolversi
del concetto di integrazione, che trova una sua storia nelle leggi che si sono succedute dal 1971 ad oggi.
Solo a partire dal 1971 si afferma il principio dell’inserimento nelle classi normali e dell’integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap. Il cammino verso la piena integrazione scolastica è segnato da
tre provvedimenti legislativi: la Legge 118/71, il D.P.R. 616/77 e la Legge 517/77.
La Legge 118/71 è la prima ad aver sancito il principio generale dell’inserimento dei soggetti con disabilità
nelle classi comuni della scuola dell’obbligo anche se ancora si escludono i casi in cui “i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali” (art. 28).
Ai minorati e agli invalidi civili non autosufficienti, che frequentino la scuola dell’obbligo o i corsi di addestramento professionale, devono essere assicurati il trasporto gratuito dalla propria abitazione alla sede
della scuola e viceversa, l’accesso alla scuola mediante l’eliminazione delle barriere architettoniche e l’assistenza durante gli orari scolastici degli invalidi più gravi.
Anche se il termine “assistenza” non viene ulteriormente declinato e specificato, con quest’articolo la legge
prevede una funzione di aiuto non didattico che sta alla base della possibilità per gli alunni più gravi di frequentare la scuola.
Il D.P.R. 616/77, in materia di trasferimento e di delega alle Regioni delle funzioni amministrative indicate all’art. 117 e 118 della Costituzione, introduce ulteriori elementi di fondamentale importanza nel percorso
verso una piena esigibilità del diritto allo studio. In primo luogo viene trasferita alle Regioni (art. 17) e ai Comuni (art. 45) la competenza in materia di assistenza scolastica.
15
In secondo luogo, all’art. 42, essa viene declinata comprendendo sotto questo nome “tutte le strutture, i servizi e le attività destinate a facilitare mediante erogazioni e provvidenze in denaro o mediante servizi individuali
o collettivi, a favore degli alunni di istituzioni scolastiche pubbliche o private, anche se adulti, l’assolvimento dell’obbligo scolastico nonché, per gli studenti capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi, la prosecuzione degli studi. Le funzioni suddette concernono fra l’altro: gli interventi di assistenza medico-psichica; l’assistenza
ai minorati psico-fisici; l’erogazione gratuita dei libri di testo agli alunni delle scuole elementari.”
L’assistenza scolastica si attua attraverso una serie diversificata di interventi che comprendono, oltre ai
mezzi e agli strumenti materiali, anche l’organizzazione di servizi individuali e collettivi. Quindi l’assistenza
scolastica si attua attraverso la diversificazione degli interventi e risponde ad un principio universale: essa
va garantita a tutti i cittadini che frequentano la scuola sia essa pubblica o privata.
Con la Legge n. 517/77, che ha come oggetto i criteri di valutazione e altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico, viene definitivamente decretato il diritto all’integrazione scolastica nelle scuole dell’obbligo 4 e si
individuano specifici interventi volti a rendere esigibile il diritto all’educazione e all’istruzione degli alunni
in situazione di handicap. In primo luogo viene introdotto il principio della flessibilità dell’azione educativa
e didattica: “al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la promozione della piena formazione
della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche integrative
organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni” (Art. 2).
La scuola deve individuare modalità organizzative e strumenti di programmazione flessibili che garantiscano a tutti gli alunni non solo il diritto allo studio ma anche la promozione della piena formazione della personalità. Non ci sono soluzioni stabilite a priori, ma viene sancita la necessità di modulare l’azione educativa
sulla base dei bisogni espressi dai “singoli alunni”.
“Nell’ambito di tali attività la scuola attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps
con la prestazione di insegnanti specializzati (…). Devono inoltre essere assicurati la necessaria integrazione
specialistica, il servizio socio-psicopedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive competenze
dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal consiglio scolastico distrettuale.” (Art. 2).
Per poter attuare quanto stabilito in materia di diritto allo studio e di integrazione degli alunni in situazione
di handicap, la scuola mette in campo tutte le risorse disponibili (insegnati specializzati, riduzione del numero degli alunni nelle classi interessate), ma a queste devono essere affiancate anche altre risorse. Ancora
una volta il riferimento è generico, ma chiama in causa gli enti locali ai quali è demandato il compito di fornire servizi e professionalità non docenti che sostengano l’integrazione scolastica.
4.
Per le scuole superiori è la Corte Costituzionale, con Sentenza n. 215/87, a sciogliere definitivamente il nodo, affermando il diritto dei soggetti
in situazione di handicap alla frequenza della scuola secondaria superiore, benché non obbligatoria. La frequenza non solo deve essere “tollerata”e “consentita”, ma attivamente perseguita. La Corte decreta così l’illegittimità costituzionale dell’art. 28 III comma della Legge 118/71, nella parte in cui in riferimento ai soggetti con handicap prevede che “sarà facilitata”anziché “assicurata”la frequenza alle scuole superiori.
16
Il diritto all’educazione e all’istruzione 5 delle persone in situazione di handicap trova la sua dimensione legislativa definitiva nella Legge 104/92 “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle
persone handicappate”:
“Art. 12 – Diritto all’educazione e all’istruzione
1. Al bambino da 0 a 3 anni handicappato è garantito l’inserimento negli asili nido.
2. E’ garantito il diritto all’educazione e all’istruzione della persona handicappata nelle sezioni comuni di
scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni
universitarie.
3. L’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione”.
L’integrazione scolastica è inserita in una più ampia strategia d’integrazione sociale 6 e si realizza attraverso
“la programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali, culturali, ricreativi, sportivi e con altre attività sul territorio gestite da enti pubblici o privati. A tale scopo gli enti locali, gli organismi scolastici e le unità sanitarie locali, nell’ambito delle rispettive competenze, stipulano accordi di
programma (…)” (Art. 13 comma I lettera a).
Diviene fondamentale la concertazione degli interventi di competenza delle diverse istituzioni attraverso
specifici accordi di programma 7, che vedremo riaffermata anche nella normativa regionale in materia di diritto allo studio. Gli accordi di programma rappresentano su base locale la definizione e l’attuazione dei
programmi d’intervento, sostenuti da precisi impegni finanziari, che richiedono per la loro attuazione l’azione coordinata ed integrata delle aziende USL, delle amministrazioni comunali, della Provincia e dell’amministrazione scolastica. Gli impegni operativi mirano a garantire le condizioni ambientali, gli strumenti e le professionalità più idonee a facilitare il processo di piena integrazione scolastica e sociale dei minori con handicap, attraverso il puntuale coordinamento degli interventi di competenza degli enti firmatari.
Quali riferimenti troviamo nella Legge 104/92 per comprendere il ruolo svolto dagli educatori a scuola?
All’art. 13 comma 2, viene data facoltà agli enti locali di prevedere negli asili nido, in cui sono inseriti bambini con disabilità, adeguamenti organizzativi e funzionali nonché l’assegnazione di personale docente e di
operatori ed assistenti specializzati. Subito di seguito trattando delle scuole di ogni ordine e grado (comma
3) si riafferma l’obbligo per gli enti locali di fornire l’assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale
degli alunni in situazione di handicap fisico o sensoriale, già prevista ai sensi del DPR 616/77.
5.
I diritti del minore in situazione di handicap ad essere adeguatamente assistito e istruito dalle strutture scolastiche pubbliche sono tutelati dal
combinato disposto degli art. 2, 3, 34 e 38 della Costituzione Italiana (1948) e dalla successiva sentenza della Corte Costituzionale (n. 215/87), che ha
esteso il diritto anche agli istituti secondari di II grado. I diritti del minore disabile sono garantiti, oltre che dagli art. 15 e 17 della Carta Sociale Europea (1961), anche dalla recente Costituzione Europea, adottata a Roma il 29 ottobre 2004, che vieta “qualsiasi forma di discriminazione fondata, in
particolare,sulla disabilità”e dichiara che “l'Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone disabili di beneficiare di misure intese a garantire l´autonomia,l´inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”.
6. Legge 104/92 “Art. 1 Finalità. La Repubblica: a) garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della
persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società”.
7. Il rimando è agli artt. 5 e 13 della Legge 104/92 e al successivo Decreto Ministeriale del 9 luglio 1992 che stabilisce i criteri per la stipula
degli accordi di programma fra Amministrazione Scolastica, Enti Locali ed AUSL.
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Ecco che l’assistenza scolastica, prima nominata genericamente, viene ad essere “mirata” nei suoi compiti all’ambito delle autonomie e della comunicazione.
Un’altro riferimento importante ai fini della nostra trattazione, che verrà ripreso in seguito anche nella lettura dell’Accordo di Programma della Provincia di Bologna, è all’art. 14 - Modalità di attuazione dell’integrazione, in cui viene data facoltà in sede di accordi di programma di “prevedere lo svolgimento di corsi di aggiornamento comuni per il personale delle scuole, delle unità sanitarie locali e degli enti locali, impegnati in piani educativi e di recupero individualizzati”.
Per quanto riguarda la Regione Emilia Romagna il riferimento è alla Legge RER 26/01 “Diritto allo studio ed
all’apprendimento per tutta la vita”, che disciplina gli interventi volti a rimuovere gli ostacoli di ordine economico, sociale e culturale che si frappongono al pieno godimento del diritto di ogni persona ad accedere
a tutti i gradi del sistema scolastico e formativo.
Tra gli interventi garantiti troviamo i “sussidi e servizi individualizzati per soggetti in situazione di handicap”
(Art. 3), maggiormente dettagliati al successivo “Art. 5 - Interventi per l’integrazione dei soggetti in situazione di handicap:
1. La Regione e gli Enti Locali promuovono (…) interventi atti a garantire il diritto all’educazione, all’istruzione ed all’integrazione nel sistema scolastico e formativo dei soggetti in situazione di handicap, nonché di ogni cittadino che a causa di deficit fisici, psichici o sensoriali rischi di incontrare ostacoli al proprio percorso educativo e formativo.
2. Gli interventi vengono attivati nel quadro di accordi di programma, stipulati fra Enti Locali, organi scolastici e Aziende Unità sanitarie locali, finalizzati ad una programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio assistenziali, culturali, ricreativi, sportivi e con altre attività gestite sul territorio da enti pubblici e privati.
3. Nell’ambito degli accordi di programma, in particolare:
a) i Comuni provvedono – nei limiti delle proprie disponibilità e sulla base del piano educativo individualizzato predisposto con l’Amministrazione scolastica e le Aziende Unità sanitarie locali – agli interventi diretti ad assicurare l’accesso e la frequenza al sistema scolastico e formativo attraverso la
fornitura di servizi di trasporto speciale, di materiale didattico e strumentale, nonché di personale
aggiuntivo provvisto dei requisiti di legge e destinato a favorire e sviluppare l’autonomia e la capacità
di comunicazione;
b) le Aziende Unità sanitarie locali provvedono alla certificazione, partecipano alla definizione del piano educativo individualizzato ed effettuano le verifiche necessarie al suo aggiornamento, assicurando altresì le attività di consulenza e di supporto richieste dal personale docente, educativo e socio-assistenziale impegnato nel processo di integrazione”.
L’articolo, riportato interamente, riafferma i capisaldi per l’integrazione scolastica degli alunni disabili, di cui
abbiamo visto l’evoluzione: accordi di programma per la programmazione coordinata degli interventi; piani
educativi individualizzati sulla base delle esigenze di ogni alunno in situazione di handicap; personale non
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docente destinato dai Comuni per favorire e sviluppare le autonomie e la comunicazione; consulenza e supporto per tutte le figure che a diverso titolo sono impegnate nel percorsi di integrazione.
1.2.1. Gli accordi di programma
Passiamo ora ad una breve analisi dell’Accordo di Programma della Provincia di Bologna del 15 ottobre 2001 8
per le parti che interessano la nostra trattazione. Come stabilito dalla Legge 104/92,“Gli impegni operativi e
finanziari dell’Accordo mirano a garantire le condizioni di ambiente, di strumenti e di persone più idonee a
facilitare il processo di piena integrazione scolastica, formativa e sociale degli scolari/studenti in situazione di
handicap, attraverso il coordinamento puntuale, funzionale e verificato degli interventi di competenza degli
Enti firmatari” 9 (Art. 1).
Tra gli interventi di competenza delle amministrazioni comunali troviamo l’assegnazione alle scuole di “personale, adeguatamente preparato, per l’assistenza, l’autonomia personale e la comunicazione degli allievi certificati” e il compito di “favorire la continuità delle azioni educative e assistenziali assicurate in ambito scolastico, qualora fattibile, anche durante le iniziative educativo-ricreative estive” (Art. 5.4.2. punto d e punto g).
Viene ripresa dalla Legge 104/92 la declinazione dei compiti affidati al personale fornito dagli enti locali
(assistenza, autonomia personale e comunicazione), anche se al punto g) c’è un riferimento ad azioni educative oltre che assistenziali assicurate in ambito scolastico. La figura professionale preposta a svolgere questi
compiti in ambito scolastico non viene definita anche se viene richiesto che questo personale sia “adeguatamente preparato”.
Un altro aspetto che preme mettere in evidenza riguarda la formazione del personale. Come previsto dalla
Legge 104/92, all’Art. 5.1., che tratta delle competenze in capo all’amministrazione scolastica, trova spazio
anche la realizzazione di “attività di aggiornamento/formazione in servizio per gli insegnanti di sostegno e
curricolari, nonché i collaboratori scolastici (..) su tematiche di carattere pedagogico, didattico e su specifiche tecnologie per il superamento dell’handicap. Alcune di queste attività potranno coinvolgere anche il personale degli altri Enti (…)” (punto d). Questo aspetto viene ripreso all’Art. 5.3. che si occupa delle competenze in capo alle aziende USL:“collaborare con l’Amministrazione Scolastica e gli Enti Locali per la realizzazione di progetti di aggiornamento e formazione in servizio previsti dalla normativa vigente” (punto d).
Nella parte dell’accordo che entra nel merito del processo, che sta alla base di ogni percorso di integrazione, troviamo altri riferimenti importanti per la definizione del ruolo dell’educatore a scuola:“Per ogni alunno in situazione di handicap (…) viene definito uno specifico Piano Educativo Personalizzato, (…). Il Piano è
parte integrante della programmazione educativa/didattica di classe. Esso è definito entro i primi due mesi
di scuola (…) dai docenti della scuola (…) e con il contributo degli operatori dell’Azienda USL, delle eventuali figure professionali sociali dell’Ente Locale che seguono il caso e la famiglia” (Art. 11).
8.
L’Accordo Provinciale di Programma per l’Integrazione Scolastica e Formativa degli Studenti in situazione di handicap della Provincia di
Bologna del 15 Ottobre 2001, con validità quinquennale, è appena scaduto. La Provincia di Bologna ha comunicato la proroga di un anno
e ha presentato in sede di Conferenza di programmazione (30 novembre 2006) ai rappresentanti dei Comuni, dell'Azienda USL, della
Scuola e delle Associazioni le linee di indirizzo (contenuti, strumenti, modalità e tempi) e nominato un gruppo tecnico di lavoro con il
compito di coordinare il percorso di concertazione dal quale dovranno scaturire le proposte e le osservazioni per la costruzione del nuovo
testo dell'Accordo Provinciale di Programma.
9. Gli Enti Firmatari sono: la Provincia di Bologna, l’Ufficio Scolastico Regionale, l’Ufficio Scolastico Provinciale, le Aziende USL e i Comuni
della provincia.
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E di nuovo all’Art. 12 dedicato al Gruppo Operativo: “Per ogni alunno in situazione di handicap opera collegialmente il Gruppo interprofessionale. Esso è costituito da: Dirigente Scolastico (…), dagli insegnanti che
seguono l’alunno (curricolari, di sostegno etc.), dagli operatori dell’Azienda USL referenti per il caso (…),
dagli operatori sociali e/o tecnici dell’Ente Locale”.
Il nostro educatore non è meglio definito, ma tra i suoi compiti rientra il contributo alla definizione del piano
educativo personalizzato e la partecipazione ai gruppi operativi interprofessionali. Anche nell’articolo dedicato alla tipologia e alle mansioni del personale impegnato nel processo di integrazione scolastica il riferimento
è a “figure professionali sociali” non meglio definite né in termini di requisiti né di funzioni e compiti (art. 16).
Per poter adempiere a pieno al dettato normativo della Legge 104/92 vengono previsti inoltre specifici
accordi territoriali necessari al “coordinamento dei servizi scolastici con quelli territoriali ed extrascolastici per
favorire l’effettiva realizzazione dei programmi di integrazione scolastica e sociale” (Art. 4.1. Accordo
Provinciale). L’integrazione scolastica, di cui l’accordo individua le condizioni più idonee di attuazione, fa
parte di un progetto ampio, globale ed individualizzato al tempo stesso, che coinvolge il singolo individuo,
la sua famiglia e tutta la realtà del territorio. Sulla base dell’art. 4 dell’Accordo di Programma Provinciale, si
costituiscono gruppi di lavoro per sviluppare e attuare accordi di programma territoriali intesi come articolazione e ampliamento dall’accordo provinciale.
Il territorio, inteso come mappa di risorse e opportunità, costituisce il luogo naturale per realizzare processi
di integrazione sociale e scolastica, che a partire dai bisogni della persona siano finalizzati alla definizione di
un progetto di vita.
Per ottenere ciò devono essere raggiunti gli obiettivi principali, e cioè: mettere in rete le risorse dei singoli
enti del territorio, razionalizzandone l’utilizzo, al fine di favorire un’effettiva integrazione fra le strutture coinvolte; rafforzare la cultura dell’integrazione sociale e scolastica ampliando le strategie del patto educativo fra
i servizi, la scuola e la famiglia; favorire la continuità tra i diversi ordini di scuola per garantire i progetti educativi unitari d’integrazione per ogni singolo alunno in situazione di handicap.
Dal 2001 ad oggi, nei diversi territori della provincia di Bologna sono stati realizzati e sottoscritti i seguenti
accordi territoriali 10:
1. Area Nord dell’Azienda USL di Bologna (ex Bologna Nord)
2. Comune di Imola e Comuni del Circondario Imolese
3. Comune di Bologna
4. Distretto Socio Sanitario dell’ex AUSL Bologna SUD (San Lazzaro di Savena)
5. Distretto Socio Sanitario dell’ex AUSL Bologna SUD (Porretta Terme)
6. Distretto Socio Sanitario dell’ex AUSL Bologna SUD (Casalecchio di Reno)
Nel 2004, il Comune di Bologna ha sottoscritto un Accordo territoriale che definisce percorsi, procedure e
modalità di raccordo fra le varie Istituzioni “innovativi, diversamente articolati o comunque maggiormente
dettagliati rispetto al testo Provinciale, proprio perché declinati sulle specificità del territorio del Comune di
Bologna.”(art. 1 dell’Accordo Territoriale). In particolare, è stata posta attenzione alle procedure di inserimento di bambini certificati nei servizi rivolti alla prima infanzia pubblici e privati, alla definizione delle modalità
di accesso ai servizi erogati dal Comune per il diritto allo studio, all’apertura di un dialogo costruttivo con le
associazioni dei familiari per la promozione di azioni di integrazione in ambito scolastico ed extrascolastico.
10. I
testi integrali degli accordi territoriali sono reperibili nel sito della Provincia di Bologna:
http://www.provincia.bologna.it/handicap/accordo-programma.html
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Per quanto riguarda i riferimenti specifici alla figura professionale dell’educatore a scuola, l’Accordo
Territoriale entra nel merito all’art. 7 e all’art. 11. Nel primo caso l’articolo si occupa della progettazione educativa:.“Il PEP (piano educativo personalizzato n.d.r.) viene redatto sulla base del Profilo Dinamico Funzionale
(PDF), di norma entro il mese di novembre, dal gruppo di lavoro (GO) istituito presso il servizio educativo per
la prima infanzia o la scuola. Il gruppo di lavoro è costituito da tutte le figure professionali che collaborano a
diverso titolo alla realizzazione del PEP: educatori o insegnanti di classe e di sostegno, operatori dell’Azienda
Usl, operatori pedagogici e personale educativo sociale e specialistico fornito dal Comune, genitori”.
Il nome “educatori” all’inizio dell’elenco fa riferimento all’ambito dei servizi educativi rivolti alla prima infanzia, dove non operano insegnanti, ma educatori e personale ausiliario. L’educatore a scuola è richiamato
subito sotto con la definizione: “personale educativo sociale e specialistico fornito dal Comune”.
La stessa dicitura viene ripresa all’art. 11 – Figure Professionali. Ai titolari dei servizi educativi rivolti alla prima
infanzia e alle istituzioni scolastiche spetta il compito di provvedere alle funzioni educative e didattiche
(educatori di nido e insegnanti di sostegno) e alle funzioni ausiliarie necessarie per “assicurare la mobilità
degli allievi handicappati, la consumazione dei pasti, l’aiuto per l’espletamento delle funzioni igieniche.”, affidate in ambito scolastico ai collaboratori scolastici e nei servizi alla prima infanzia agli addetti ai servizi generali. Mentre l’amministrazione comunale deve “assicurare la disponibilità del personale educativo, sociale e
specialistico (..) previsto nel PEP. Il Comune pertanto specifica che anche le prestazioni professionali fornite
dal personale dipendente comunale inquadrato con la qualifica di “Insegnante”, presso gli Istituti, sono da
intendersi in ambito educativo assistenziale e non nell’ambito della funzione docente di sostegno che deve
essere in ogni caso garantita dalla scuola”.
1.2.2. La legislazione scolastica
Concludiamo la nostra trattazione citando una Circolare e una Nota del Ministero della Pubblica Istruzione
che, a nostro parere, contribuiscono alla lettura del quadro normativo di riferimento, in cui si inserisce la figura dell’educatore che opera a favore dell’integrazione scolastica dei minori in situazione di handicap.
La Circolare Ministeriale del 3 settembre 1985 n. 250 con oggetto “Azione di sostegno a favore degli alunni
portatori di handicap” ribadisce la necessità di individuare per ogni alunno in situazione di handicap un
“progetto educativo individualizzato ben inserito nella programmazione educativa e didattica” attraverso “l’analisi e la conoscenza delle potenzialità del soggetto”.
“Tale programma personalizzato di integrazione e di apprendimento dovrà essere finalizzato a far raggiungere a ciascun alunno portatore di handicap in rapporto alle sue potenzialità, attraverso una progressione di traguardi intermedi ed utilizzando metodologie e strumenti differenziati e diversificati, obbiettivi di autonomia, di
acquisizione di competenze e abilità (motorie, percettive, cognitive, comunicative, espressive) e di conquista
degli strumenti operativi basilari (linguistici e matematici).”. A questo fine sono previste per la scuola elementare attività che prevedono il “superamento di rigidi riferimenti ad un gruppo-classe e della scansione
annuale del lavoro scolastico, per garantire all’alunno ritmi di attività più distesi e maggiori opportunità di
successo e di esperienze gratificanti sul piano psicologico”.
La parte dedicata all’integrazione scolastica e ai bisogni educativi si conclude richiamando l’attenzione sulla
necessità di verificare periodicamente il lavoro svolto al fine di adeguare il progetto educativo individualizzato ai risultati raggiunti, anche in collaborazione con gli “operatori delle altre strutture territoriali”, e “sull’opportunità di stabilire delle intese fra Provveditorato agli studi, Ente locale e UU.SS.LL., ai sensi della Circ. Min. n.
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258 del 22 settembre 1983, finalizzate proprio a garantire l’impostazione, l’attuazione e le verifiche di piani
educativi individualizzati nel quadro della programmazione didattica di classe, di sezione, di circolo, sorrette da una programmazione dei servizi coordinati a livello territoriale”.
Un altro aspetto importante a nostro avviso della Circolare riguarda la responsabilità dell’integrazione dell’alunno in situazione di handicap e dell’azione educativa svolta nei suoi confronti che “è, al medesimo titolo,
dell’insegnante di sostegno, dell’insegnante o degli insegnanti di classe o di sezione e della comunità scolastica
nel suo insieme”. Viene trattato anche il tema degli alunni in situazione di handicap gravi e a questo proposito viene ripreso il ruolo degli enti locali:“In presenza di alunni handicappati gravi “bisognosi di una specifica continua assistenza” (Circ. Min. 258/1983 par. 3.4) il coinvolgimento degli operatori del territorio (Enti Locali
e UU.SS.LL) garantisce alla scuola, oltre alle necessarie competenze specialistiche, anche opportuni interventi assistenziali e terapeutico-riabilitativi che, se adeguatamente raccordati con l’attività della scuola, rappresentano un indispensabile sostegno all’attuazione del ‘progetto educativo individualizzato’”.
Più dettagliata sui ruoli professionali e sulle diverse competenze in tema di assistenza agli alunni in situazione di handicap appare la Nota del Ministero della Pubblica Istruzione del 30 novembre 2001 con oggetto
“Assistenza di base agli alunni in situazione di handicap”.
Il testo si occupa in primis di chiarire le competenze in materia di assistenza di base, che è “parte fondamentale del processo di integrazione scolastica e la sua concreta attuazione contribuisce a realizzare il diritto allo
studio costituzionalmente garantito”, e il ruolo dei collaboratori scolastici.
L’assistenza di base è di competenza della scuola e “va intesa come primo segmento della più articolata assistenza all’autonomia e alla comunicazione personale prevista dall’art. 13, comma 3, della legge 104/92.
L’assistenza di base gestita dalle scuole è attività interconnessa con quella educativa e didattica: queste tre tipologie di azioni devono concorrere tutte insieme alla integrazione della persona disabile secondo un progetto unitario che vede coinvolti tutti gli operatori (dirigenti scolastici, docenti, collaboratori scolastici, genitori, tecnici della riabilitazione, ecc.) in un unico disegno formativo che la norma definisce come Piano
Educativo Individualizzato”.
Le mansioni del collaboratore scolastico prevedono quindi, a fronte dell’attribuzione di specifiche funzione
aggiuntive:
1. l’ausilio materiale agli alunni portatori di handicap nell’accesso dalle aree esterne alle strutture scolastiche
e nell’uscita da esse, in cui è ricompresso lo spostamento nei locali della scuola.
2. l’attività di cura ed ausilio materiale nell’utilizzo dei servizi igienici e nella cura dell’igiene personale dell’alunno disabile, nelle scuole di ogni ordine e grado.
All’ente locale rimane il compito di garantire l’assistenza specialistica:“L’obiettivo prioritario di garantire l’effettiva realizzazione dei servizi di integrazione scolastica per gli alunni disabili, si realizza anche attraverso la
cooperazione dei vari soggetti istituzionali nelle rispettive aree di competenza, senza soluzione di continuità. Tale obiettivo va concretamente perseguito attraverso gli accordi di programma previsti dall’art. 13,
comma 1, lettera A, della l. 104/92, già in atto in modo efficace in molte realtà territoriali.
Rimane all’Ente Locale il compito di fornire l’assistenza specialistica da svolgersi con personale qualificato sia
all’interno che all’esterno della scuola, (Protocollo d’Intesa del 13/9/2001) come secondo segmento della più
articolata assistenza all’autonomia e alla comunicazione personale prevista dall’art. 13, comma 3, della legge
104/92, a carico degli stessi enti. Si tratta di figure, quali, a puro titolo esemplificativo, l’educatore professionale, l’assistente educativo, il traduttore del linguaggio dei segni o il personale paramedico e psico-sociale
(proveniente dalle ASL) che svolgono assistenza specialistica nei casi di particolari deficit”.
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1.3. LA STORIA DELLA RICERCA
di Lucia Marrocchi
1.3.1. Premessa
La storia di questa ricerca inizia nel 2003 e si colloca in un più ampio contesto di fermenti e di iniziative scaturite in occasione dell’Anno europeo delle persone con disabilità, durante il quale nel territorio bolognese
si realizzano importanti occasioni di confronto sulle tematiche dell’integrazione scolastica e sociale dei minori in situazione di handicap.
In questo clima di dibattiti e riflessioni, in virtù della ormai considerevole esperienza maturata nel tempo, si
fa strada all’interno di Società Dolce la volontà di portare un contributo concreto, che nasce in primo luogo
dall’esperienza quotidiana degli educatori che da molti anni svolgono interventi educativi all’interno delle
scuole bolognesi e poi, in secondo luogo, dalla ormai consolidata attività come gestori dei servizi scolastici
di assistenza handicap, in convenzione con i quartieri del Comune di Bologna. Al contempo, si sviluppa anche una forte percezione del crescente valore del patrimonio documentale che la cooperativa costantemente e nel corso del tempo ha prodotto e raccolto in anni di attività.
Matura così l’esigenza di rendere visibile l’entità numerica e la qualità complessiva offerta dalla cooperativa
nei servizi scolastici di assistenza handicap per la città di Bologna. In particolare, ci si propone di dare voce e
risonanza al lavoro degli educatori che svolgono la loro attività all’interno delle istituzioni scolastiche di
ogni ordine e grado e che concorrono in modo significativo, insieme ad altre figure professionali, al processo di integrazione scolastica degli alunni con disabilità.
L’idea che ne scaturisce parte dalla convinzione che bisogna partire dalla quantità per arrivare alla qualità e
nella persuasione che il dato quantitativo sia di per se un dato qualitativo perché fornisce un primo indicatore sulla qualità del servizio offerto, nonché importanti elementi da cui partire per correggere e adeguare
le risposte, si costituisce il primo gruppo di lavoro e si avvia la riflessione sulla scelta dei dati da rilevare, raccogliere e analizzare.
Il progetto che nasce compiutamente alla fine del 2003, elaborato dall’allora coordinatore dei servizi di assistenza handicap per la città di Bologna, si propone innanzitutto di realizzare una ricognizione sull’esistente
e una mappatura del patrimonio documentale che Società Dolce ha raccolto nel corso degli anni nei servizi
scolastici di assistenza handicap.
Il piano di raccolta e razionalizzazione della documentazione ha come campo di indagine la città di Bologna ed è finalizzato alla realizzazione di un database elettronico, inteso come sistema di monitoraggio, ra-
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zionalizzazione e valorizzazione dei dati, che sia in grado di archiviare i dati sui minori con disabilità forniti
dagli educatori e di poterli restituire a seconda delle diverse finalità di fruizione che si possono evidenziare
nel corso del tempo. La ricerca prende dunque le mosse dall’esigenza di avere un quadro chiaro ed aggiornato per poter delineare in serie storica le caratteristiche e la tipologia dei servizi gestiti dalla cooperativa.
La costruzione dell’Archivio Informatico Handicap e la presentazione pubblica dei risultati della ricerca rispondono però anche ad un’altra esigenza fortemente sentita, quella cioè di rendere testimonianza del lavoro di integrazione scolastica svolto dagli educatori a favore dei minori in situazione di handicap inseriti
nelle scuole del sistema scolastico bolognese, secondo quanto previsto dalla Legge 104 del 1992.
In considerazione della complessità del progetto e del particolare campo di indagine della ricerca, nonché
della impegnativa costruzione del database, si ipotizzano fin dall’inizio tempi di lunga durata per la realizzazione completa del progetto. Nel 2004 viene costituito stabilmente il gruppo di lavoro, di cui fanno parte
il responsabile dell’area scuola infanzia e il responsabile del settore scuola, un educatore professionale per
la raccolta e l’inserimento dei dati e due tecnici informatici, per la costruzione del database.
Il piano di lavoro prevede come prima fase la ricognizione e la mappatura del patrimonio documentale
conservato nell’archivio cartaceo handicap. Qui il sistema di catalogazione e archiviazione già da tempo in
uso permette di riordinare e di predisporre agevolmente il materiale cartaceo per il lavoro di organizzazione e selezione della documentazione.
Definito l’arco temporale di indagine, si decide che gli elementi più rilevanti e significativi, capaci di dare risalto e adeguata rappresentatività ai servizi di sostegno scolastico, sono contenuti nelle relazioni finali che gli
educatori elaborano a fine anno, al termine di ogni intervento educativo svolto a scuola. Da qui si stabiliscono
le procedure e le metodologie per il rilevamento e la raccolta di questi dati, attività per le quali verrà individuata un’apposita scheda di rilevamento, per raccogliere le informazioni dapprima in forma cartacea poi al
computer. Inoltre, vengono parallelamente selezionate le tipologie di informazioni ritenute più significative.
Ma la fase più complessa riguarda, senza dubbio, l’ideazione e la costruzione del database elettronico. Gli
incontri periodici con i tecnici informatici sono finalizzati a definire i criteri di strutturazione del programma
e la costruzione delle maschere e delle tabelle in base ad un elenco di tipologie di dati predefinite in fase di
raccolta delle informazioni. In attesa della realizzazione del programma, che richiede un complesso e laborioso adattamento dei modelli cartacei ai parametri informatici, si procede al trasferimento dei primi dati
raccolti in formato elettronico con le schede di rilevamento in una macro in excel contenente più di 500 file, informazioni che saranno successivamente convertite e importate nel database ultimato.
All’inizio del 2005 il programma dell’A.I.H. è finalmente realizzato, ma per testarne la piena efficienza e funzionalità si susseguono nel corso dell’anno continue verifiche, adeguamenti e integrazioni che ampliano, in
alcuni casi, le funzionalità originarie previste dal programma. Si procede inoltre a predisporre le prime
“query” di analisi sulle informazioni inserite per estrapolare le informazioni ritenute maggiormente significative e di sicuro rilievo.
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Al contempo continua regolarmente l’inserimento dei nuovi dati sui servizi appena conclusi e l’aggiornamento o la correzione di quelli già immessi.
Il lavoro si può considerare definitivamente concluso ad aprile del 2006 e i dati sottoposti alla rilevazione
che inizialmente avevano riguardano solo due anni scolastici, dal 2002 al 2004, alla fine del lavoro di mappatura e archiviazione informatica investiranno complessivamente quattro anni scolastici, dal 2002 al 2006.
Da questo momento si avvia la fase di rielaborazione e analisi dei dati rilevati, i cui primi risultati sono presentati sinteticamente in questa sede.
1.3.1.1. Gli strumenti e le modalità di rilevazione utilizzati
Riconsiderando e approfondendo gli aspetti maggiormente caratterizzanti il progetto sul riordino del patrimonio documentale è interessante ricordare a questo punto come è stata organizzata nel dettaglio la fase di ricognizione sull’esistente, la mappatura della documentazione e la raccolta dei dati.
In particolare, la definizione degli indirizzi generali, degli indicatori chiave e dei livelli di approfondimento
dell’indagine, nonché la valutazione, l’analisi e la verifica in itinere dello stato di avanzamento della ricerca e
della documentazione sottoposta a rilevazione è stata stabilita con un piano di lavoro che ha riguardato indicativamente i seguenti ambiti:
- Pianificazione delle procedure operative, delle metodologie, dei tempi e delle risorse per la ricognizione
sull’esistente e la mappatura della documentazione.
- Organizzazione del piano di raccolta dei dati e delle informazioni, individuazione ed elaborazione degli
strumenti di rilevamento e raccolta dei dati in forma cartacea e in forma elettronica, compilazione delle
schede di rilevamento e inserimento dei dati in formato elettronico.
- Analisi ed elaborazione dei dati raccolti: lettura incrociata degli strumenti individuati, analisi e valutazione dei risultati ottenuti.
Nella fase operativa ci si è avvalsi di strumenti particolari, la cui individuazione si è orientata su due livelli:
“Strumenti di gestione dei servizi” e “Strumenti di rilevamento dei dati”.
1.3.1.2. Strumenti di gestione dei servizi
Le ricerche vengono avviate a partire dagli strumenti in uso nella gestione corrente dei servizi scolastici, in
primis dal patrimonio cartaceo dell’archivio handicap, catalogato in appositi fascicoli e costituito da diversi
strumenti, che gli educatori sono soliti compilare nel corso dell’anno scolastico. A questa documentazione
si aggiungono, inoltre, i materiali elettronici in formato riepilogativo presenti nell’archivio informatico corrente dell’area scuola infanzia.
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Tra i documenti conservati nell’archivio del settore scuola della cooperativa vi è la Scheda di osservazione e
valutazione finale dell’intervento educativo, che viene redatta dall’educatore alla fine di ogni intervento scolastico realizzato a favore di ciascun minore in situazione di handicap. Come già dichiarato, proprio su di essa e
su alcuni aspetti definiti come indicatori chiave viene centrata alla fine tutta la ricerca e la raccolta dei dati.
La scheda è costituita da due parti distinte. La prima sezione è caratterizzata da una serie di domande chiuse, le cui risposte sono previste in maniera predeterminata attraverso il rilevamento di aspetti positivi e
aspetti critici. Una volta redatta dall’educatore, la scheda finale consente di raccogliere svariate informazioni sui seguenti ambiti: monte ore di assistenza assegnato all’educatore, dati anagrafici del minore, diagnosi
funzionale, tipologia del deficit, eventuale utilizzo di ausili e somministrazione di farmaci, tipologia dell’intervento educativo svolto, caratteristiche del progetto di integrazione scolastica e attività previste, strumenti e risorse ambientali, grado di integrazione da parte del contesto scolastico, rapporti instaurati e livello di collaborazione tra l’educatore, la scuola e la famiglia.
La seconda sezione è caratterizzata, invece, da una struttura aperta, nella quale la risposta non è prevista a
priori. Qui l’educatore, rispetto al lavoro educativo svolto a scuola, è invitato a selezionare gli elementi ritenuti più significativi, che siano in grado di rendere conto delle cose fatte, in base alla specificità del contesto
in cui egli si è trovato ad operare. L’educatore rende così testimonianza tangibile dell’intero percorso educativo svolto durante l’anno scolastico.
Nel suo complesso la relazione finale rappresenta quindi per l’educatore un importante momento di riflessione sul proprio agire educativo, in essa infatti l’educatore organizza le informazioni e valuta il processo di
integrazione: fissa cioè le esperienze vissute nel rapporto con il minore con handicap, rende memoria del
lavoro svolto dagli adulti per individuare le proposte educative e per organizzare un contesto accogliente e
integrante, racconta le strategie messe in atto per aiutare il minore in difficoltà, descrive le proprie scelte
metodologiche e quelle del Gruppo Operativo.
Proprio per questa quantità di informazioni il campo d’indagine viene perciò delimitato alla raccolta e alla
sistematizzazione dei dati provenienti dalle relazioni finali e più precisamente dalla prima sezione con domante chiuse e risposte predeterminate. Tutte informazioni queste ultime che per la loro estrema ricchezza
e varietà sono sicuramente rappresentative della complessità del lavoro educativo svolto all’interno delle
scuole e del servizio erogato dalla cooperativa a favore dei minori con disabilità. Rimangono a supporto, riscontro e integrazione tutti gli altri strumenti individuati.
I dati provenienti dalle schede finali hanno però anche un’altra importante caratteristica, attraverso di essi
l’educatore esprime le proprie valutazioni sul minore con disabilità in carico e sul suo processo di integrazione. Proprio per questo alcuni di questi dati non sono da considerarsi puramente “oggettivi” e incontrovertibili, anzi sono dichiaratamente legati alla specifica soggettività dell’educatore, al suo “modus videndi”,
se così si può dire, ma non per questo essi sono meno rivelatori e indicatori di particolare evidenza del punto di vista dell’educatore sulla qualità del percorso di integrazione dei minori con handicap, che si realizza
nelle scuole anche attraverso il suo contributo attivo e quotidiano.
26
Fig. 1. Scheda di Osservazione e Valutazione finale dell’intervento educativo (prima pagina)
27
1.3.2. Strumenti di rilevamento dei dati
Per la fase operativa di rilevamento e raccolta dei dati provenienti dalle relazioni finali ci si è avvalsi in primis di uno strumento specifico: la Scheda di rilevazione dei dati.
Progettata con l’obiettivo di supportare il lavoro dell’addetto alla ricerca e alla raccolta, essa offre informazioni riepilogative sui dati contenuti in ogni relazione finale di ciascun utente con handicap. Utilizzata
esclusivamente nella prima fase della raccolta, l’addetto si è avvalso di questa scheda in excel per registrare
tutti i dati, dapprima a mano poi inserendoli direttamente nelle tabelle al computer 11.
Fig. 2. Scheda di rilevazione dei dati (particolare)
11.
Per tutto il lavoro di ricognizione sull’esistente, mappatura della documentazione e raccolta dei dati ci si è avvalsi della preziosa e
valente collaborazione della Dott.ssa Simona Gorni, educatrice professionale per Società Dolce.
28
Al fine di organizzare in modo razionale e funzionale i dati via via raccolti e di predisporre una fruizione permanente degli stessi, come già descritto, viene progettato il database dell’Archivio Informatico Handicap.
Sino ad allora l’attività di registrazione delle informazioni sui servizi scolastici di assistenza handicap veniva
effettuata nelle tabelle in excel delle Schede di rilevamento ed aveva coperto due anni scolastici 2002 al
2004, invece, con la realizzazione del nuovo database cambia decisamente la modalità di rilevamento e di
raccolta dei dati.
Non appena il programma elettronico è perfezionato si procede innanzitutto a trasferire i dati acquisiti attraverso le schede nelle tabelle del nuovo database, mentre le nuove informazioni da raccogliere dalle
schede finali vengono da questo momento in poi registrate direttamente nell’archivio informatico senza
utilizzare più il passaggio intermedio della registrazione nelle schede di rilevamento.
L’Archivio Informatico Handicap così sviluppato nasce all’interno del programma gestionale “Palomar”, da
tempo in uso all’interno della cooperativa. La progettazione e la costruzione del database specifico è esemplata sul modello della Scheda di osservazione e valutazione finale dell’intervento educativo. Come già abbiamo avuto modo di ricordare, il lavoro di adattamento ai parametri informatici è lungo e laborioso, specie
per la fase riguardante la realizzazione delle maschere e delle schede.
La costruzione del programma inizia fin dal 2004 con la stesura dell’elenco delle tipologie di dati da includere e con la redazione di particolari strumenti di lettura delle informazioni, finalizzati a convertire in chiave
informatica gli indicatori provenienti dalle relazioni finali. Ma alla fine, apportate tutte le revisioni e i perfezionamenti possibili alle funzionalità del programma, l’Archivio Informatico Handicap prende consistenza e
diviene lo strumento principale per il rilevamento e la registrazione dei dati sui servizi scolastici di assistenza handicap.
Fig. 3. Archivio Informatico Handicap – Albero di accesso
29
Entrando in una descrizione più dettagliata delle specifiche funzionalità del programma, l’A.I.H. è accessibile
tramite l’albero di accesso della finestra principale del programma gestionale della cooperativa. Dall’albero
di accesso è possibile visualizzare, inserire e modificare le informazioni relative ai servizi scolastici di assistenza handicap registrati, a seconda del livello dei permessi di accesso alle informazioni garantiti agli utenti.
A titolo esemplificativo riportiamo qui di seguito alcune immagini delle maschere e le schede principali del
programma con una descrizione sintetica 12.
Fig. 4. Archivio Informatico Handicap – Maschera Gestione utente disabile – Scheda Identificativi.
In questa scheda vengono inserite le informazioni utili ad identificare l’utente destinatario del servizio di
assistenza handicap.
12. Tutte le maschere, le schede e le didascalie riportate nelle pagine successive sono tratte dalla guida “Palomar - Area servizi assistenza
handicap. Manuale per l’uso”, curata dal Dott. Paolo Malucelli, consulente informatico per Società Dolce.
30
Fig. 5. Archivio Informatico Handicap – Maschera Gestione servizio assistenza handicap – Scheda Generale.
In questa scheda vengono inserite le informazioni generali del servizio di assistenza handicap erogato dalla
cooperativa.
31
Fig. 6. Archivio Informatico Handicap – Maschera Gestione servizio assistenza handicap – Scheda Tipologia di
servizio.
In questa scheda vengono inserite le informazioni relative alla tipologia del servizio di assistenza handicap
effettuato. È possibile specificare più di una tipologia.
32
Fig. 7. Archivio Informatico Handicap – Maschera Gestione servizio assistenza handicap – Scheda Ore di servizio.
In questa scheda vengono inserite le ore di servizio effettuate nell’ambito del servizio di assistenza handicap. Le ore vengono specificate in base al tipo di ore e all’educatore che le ha effettuate.
33
Fig. 8. Archivio Informatico Handicap – Maschera Gestione integrazione disabile – Scheda tipologia di deficit.
In questa scheda vengono inserite le tipologie di deficit degli utenti specificati. È possibile specificare più di
una tipologia.
Fig. 9. Archivio Informatico Handicap – Maschera Gestione integrazione disabile – Scheda Dettagli.
In questa scheda vengono inserite le informazioni aggiuntive relative agli utenti specificati.
34
Fig. 10. Archivio Informatico Handicap – Maschera Gestione intervento educatore – Scheda Educatori.
In questa scheda vengono specificati gli educatori del servizio di assistenza handicap selezionato a cui si riferiscono le informazioni riportate di seguito. È possibile specificare più di un educatore.
35
Fig. 11. Archivio Informatico Handicap – Maschera Gestione intervento operatore - Scheda Tipologia di intervento
In questa scheda vengono inserite le informazioni relative alla tipologia di intervento effettuato dagli educatori specificati. E’ possibile specificare più di una tipologia..
36
Fig. 12. Archivio Informatico Handicap – Maschera Gestione intervento operatore - Scheda Aspetti.
In questa scheda vengono inserite le informazioni relative agli aspetti dell’intervento effettuato dagli educatori specificati.
37
Fig. 13. Archivio Informatico Handicap – Maschera Riepilogo archivio informatico handicap.
Questa ultima maschera contiene le informazioni di riepilogo sul numero di servizi inseriti in “Palomar” anno per anno e indica, eventualmente, i servizi per i quali non sono state inserite le informazioni nelle schede integrazione handicap e/o intervento operatore, maschera quest’ultima di grande utilità per avviare
qualsiasi modifica o integrazione.
38
1.4. LO STATO DELL’INTEGRAZIONE
di Lucia Marrocchi
1.4.1. Premessa
Nella convinzione che analizzare e monitorare il dato quantitativo può consentire di disporre non solo di
un quadro diacronico in continuità, ma anche di costruire una memoria dell’andamento del percorso di integrazione scolastica dei minori con disabilità e con esso degli interventi educativi di assistenza handicap
attivati dalla cooperativa, si presenta in questo capitolo la rilevazione statistica dell’esistente, che si riferisce
come già dichiarato a sette quartieri della città di Bologna: Navile, San Donato, San Vitale, Santo Stefano, Saragozza, Porto, Borgo Panigale.
Rispetto all’arco temporale la ricerca è concentrata invece agli ultimi quattro anni di gestione dei servizi
educativi di assistenza handicap, dall’anno scolastico 2002-2003 fino all’anno 2005-2006.
A livello preliminare si ritiene però importante delineare in modo sintetico il contesto entro cui si inseriscono queste rilevazioni e valutazioni intorno alla ormai quasi ventennale attività di Società Dolce e dei suoi
educatori all’interno delle scuole bolognesi.
A trent’anni dalla promulgazione della legge 577 del 1977, che ha dato avvio al processo di integrazione
dei minori con handicap nelle scuole dell’obbligo, si può innanzitutto affermare che i risultati conseguiti a
livello nazionale e regionale mostrano buoni livelli di inserimento e inclusione.
L’andamento dei dati storici, confermateci da più fonti e riferiti ad oltre un decennio, evidenzia, infatti, un
costante aumento delle presenze degli studenti in situazione di handicap nelle scuole, attestandosi ad oltre
172.000 il numero degli alunni con disabilità che frequentano le scuole statali e rappresentando il 2% circa
dell’intera popolazione degli studenti in Italia 13, secondo i dati fornitici dal sistema informativo del Ministero della Pubblica Istruzione, in una rilevazione effettuata alla data del 23 ottobre 2006.
13.
Incidenza che raggiunge nell’a.s. 2005-2006 la percentuale del 2,3 in Emilia Romagna, dove il dato negli ultimi cinque anni tende progressivamente ad aumentare, specie nella scuola statale, fenomeno motivato anzitutto dall’accesso sempre più numeroso degli studenti
con handicap negli istituti secondari superiori. Cfr. per questi aspetti U.R.S., I.R.R.E., Regione Emilia Romagna, Emilia Romagna. Una scuola tra
autonomia ed equità. Rapporto regionale 2006 sul sistema di istruzione e formazione.Tecnodid editrice, Napoli, 2006, pp. 11-13, 106-107.
39
Stima quest’ultima peraltro del tutto approssimativa, in quanto a livello nazionale non si è ancora giunti ad
un insieme organico e completo di dati, soprattutto perché quantificare il numero dei bambini con disabilità richiede fonti informative al momento non ancora disponibili 14.
Addentrandoci a livello locale e più precisamente nella città di Bologna, centro della nostra indagine, si possono trovare ampie conferme riguardo all’andamento rilevato a livello nazionale e regionale 15.
Nell’anno scolastico 2005-2006 i bambini con handicap inseriti nelle scuole dell’infanzia della città di Bologna rappresentano l’1,5% degli iscritti. Nelle scuole elementari gli alunni con disabilità rappresentano invece il 2,6% sul totale degli iscritti. Nelle scuole secondarie di primo grado i minori in situazione di handicap
sono il 3,2% degli alunni. Infine, nelle scuole secondarie di secondo grado gli studenti con disabilità sono
l’1,6% sul totale dei ragazzi. Complessivamente, quindi, i minori in situazione di handicap rappresentano il
2,1% sul totale della popolazione scolastica bolognese 16.
Spostandoci invece sul versante delle risposte messe in campo nel corso del tempo dalle diverse istituzioni
per assicurare la piena integrazione dei minori con handicap nelle scuole, così come previsto dalla legge
104 del 1992, è possibile sostenere con sicurezza che nel corso di questi ultimi quindici anni lo sforzo maggiore da parte dell’amministrazione scolastica e degli enti locali è stato quello di provvedere all’organizzazione e alla messa in opera delle forme di sostegno previste per l’integrazione, a partire dall’istituzione dei
docenti specializzati 17, fino alle forme particolari di sostegno, assicurate dagli enti locali, meglio specificate
queste ultime come «assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli alunni con handicap
fisici o sensoriali» 18.
14. A proposito della disomogeneità delle fonti informative, si ricorda che lo strumento di rilevazione della disabilità utilizzato dall’Istat nell’indagine intorno a “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari” consente di rilevare informazioni sui bambini solo a partire dai sei anni di età. Anche la fonte istituzionale del numero delle certificazioni scolastiche non risolve del tutto il problema, sia perché non sono
compresi i bambini in età prescolare, sia perché non vi è obbligo di iscrizione alla scuola dell’infanzia, per cui i bambini con disabilità certificati dai tre ai cinque anni sono sicuramente sottostimati rispetto al numero reale. Infine, i dati provenienti dal Sistema Informativo del Ministero della pubblica istruzione, dell’università e della ricerca (SIMPI), che da alcuni anni pubblica i dati relativi agli alunni in situazione di
handicap, sia per quanto riguarda le scuole di gestione statale che quelle non statali, non sono aggiornati, infatti gli ultimi dati disponibili
sono riferibili all’anno scolastico 2003-2004.
Per tutti questi aspetti si vedano i siti web: www.disabilitaincifre.it; www.miur.it; www.pubblicaistruzione.it.
15. Per un quadro d’insieme a livello regionale sul sistema dell’istruzione si consulti: Regione Emilia Romagna, Osservatorio Infanzia e Adolescenza - Campioni L., Finelli A., Tagliavento M.T. (a cura di), Crescere in Emilia-Romagna. Primo rapporto sui servizi e sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, Edizioni Junior, Azzano San Paolo (Bg), 2005. Inoltre, per un approfondimento mirato in chiave diacronica cfr. anche U.R.S., I.R.R.E., Regione Emilia Romagna, Emilia Romagna. Una scuola alla prova. Rapporto regionale 2005 sul sistema di istruzione e formazione, Tecnodid editrice, Napoli, 2005, pp. 170-180.
16. La Fonte principale utilizzata per il reperimento dei dati qui riportati (numero iscritti e minori con handicap) è il fascicolo: Comune Bologna - Assessorato Scuola, Formazione e Politiche delle differenze - Settore Istruzione, L’integrazione delle bambine/i e delle alunne/i in situazione di handicap nei nidi e nelle scuole di Bologna. A.S. 05-06, Eurocopy, Bologna, 2006. Per avere un quadro numerico complessivo sulla popolazione scolastica locale e regionale, altra fonte consultabile è rappresentata dal sito web www.scuolaer.it del Sistema Informativo Scolastico – R.E.R., che espone rilevazioni su dati forniti dall’Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia Romagna (www.istruzioneer.it).
17. Riguardo ai risultati raggiunti in questo ambito si devono ricordare però brevemente le forti criticità che ancora permangono riguardo
alla cronica precarietà del personale docente specializzato sia per il passaggio ogni anno nelle cattedre ordinarie sia per le assunzioni con
contratti a termine, che provoca una significativa mancanza di continuità del sostegno didattico nei diversi ordini scolastici. A ciò si aggiunge spesso l’insoddisfacente formazione del personale docente di sostegno, che a tutt’oggi manca ancora in larga misura di un titolo
di specializzazione adeguato.
18. Legge 5 febbraio 1992 n. 104 “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone in situazione di handicap”, Art. 13.
40
Proprio in questo contesto si inserisce l’attività di Società Dolce e degli educatori della cooperativa, che rappresentano nel territorio bolognese senza dubbio una peculiarità e una risorsa di valore 19.
A conferma di quanto dichiarato e al fine di fornire un primo quadro conoscitivo che possa servire da sfondo alle rilevazioni numeriche e alle analisi qualitative introdotte nei paragrafi successivi, si reputa importante presentare qui un iniziale approfondimento comparativo sul quadro complessivo riferito all’anno scolastico 2005-2006 degli studenti con disabilità iscritti nelle scuole bolognesi e dei minori con disabilità seguiti da Società Dolce con interventi educativi di assistenza handicap.
In questa prima rilevazione, emerge innanzitutto il valore molto positivo del dato numerico ed espresso in
percentuale, sia a livello assoluto che analitico, dei minori in situazione di handicap in carico alla cooperativa. Risalta, in particolare, la quota percentuale del 35% dei bambini con disabilità seguiti nelle scuole elementari con interventi educativi di sostegno e quella relativa ai ragazzi seguiti dalla cooperativa negli istituti superiori nella misura di un 32%, di poco sopra al dato percentuale riguardante gli alunni in situazione
di handicap in carico nella scuola media, che registra invece un 28% di studenti seguiti.
Grafico 0 - Quadro comparativo degli studenti in situazione di handicap iscritti nelle scuole della città di Bologna
in rapporto ai minori con disabilità seguiti dalla cooperativa - a.s. 2005 - 2006
350
n° alunni con
handicap iscritti
nelle scuole
bolognesi
300
250
n° alunni con
handicap seguiti
dalla cooperativa
200
150
100
50
0
nido
infanzia
elementare
secondaria
di 1 grado
secondaria
di 2 grado
19.
Fenomeno senza dubbio caratteristico della regione Emilia Romagna, dove il livello di integrazione dei minori con handicap raggiunto
si presenta a distanza di tempo molto elevato, anche grazie alle molteplici risorse messe a disposizione per il sostegno degli allievi con
handicap. È da rilevare però che nelle diverse realtà scolastiche si assiste ancora, in taluni casi, a situazioni frammentate e differenziate,
specie nell’impiego coordinato delle risorse, nella capacità cioè da parte delle diverse istituzioni coinvolte di individuare azioni comuni negli interventi e risposte omogenee nelle varie forme di assistenza erogate a favore degli allievi in situazione di handicap.
41
Esaminando il dato numerico trasposto in forma grafica, si confermano con particolare evidenza le valutazioni appena espresse e già da queste prime rilevazioni si può affermare che gli interventi realizzati dagli
educatori della cooperativa nelle scuole bolognesi contribuiscono in maniera importante al processo di integrazione scolastica, sostenendo quotidianamente il 28% dei minori in situazione di handicap sul totale
degli studenti con disabilità presenti nelle scuole della città di Bologna.
1.4.2. La presenza sul territorio dei servizi di assistenza handicap nei quartieri della città e
nelle scuole bolognesi
Come primo elemento di analisi si propongono i dati che rilevano nel tempo la presenza sul territorio dei
servizi scolastici di assistenza handicap attivati dalla cooperativa negli ultimi quattro anni scolastici 20.
Traducendo le sequenze numeriche in grafico e analizzando il dato complessivo nel tempo, si evidenzia
con maggior chiarezza l’aumento costante e sistematico del numero degli interventi scolastici di assistenza
handicap affidati in gestione alla cooperativa dall’amministrazione comunale. Interventi che nel 2005-2006
crescono nella misura del 15% in più rispetto all’anno precedente e arrivano al considerevole numero di
300 servizi educativi attivati all’interno delle scuole bolognesi.
A livello analitico, l’andamento sempre in crescita si mostra con particolare evidenza nel quartiere Navile,
che registra nel 2003-2004 un primo consistente incremento del 25% rispetto al precedente anno scolastico. L’avanzamento si assesta poi nel successivo periodo e nell’anno 2005-2006 la crescita riprende raggiungendo il 14% in più nelle richieste di attivazione di interventi educativi da parte del quartiere.
Dal punto di vista territoriale, oltre alla sostanziale stabilità del quartiere San Donato, si riscontra inoltre nel
tempo una sensibile variabilità del numero degli interventi educativi realizzati nei quartieri Porto, San Vitale e
20. Al fine di agevolare la lettura della tabella qui di seguito riportata, si precisa che per ogni quartiere il dato esprime il numero medio di
ore settimanali di intervento per quartiere per ciascun minore con handicap che ha usufruito di un servizio nell’anno. La riga “Totali” esprime il numero medio di ore settimanali di intervento per i minori su tutti i servizi nell’anno (se un minore ha usufruito di servizi su più
quartieri la media totale è superiore).
42
Saragozza, che registrano tutti una forte crescita nell’anno scolastico 2004-2005, il primo rispettivamente del
25%, il secondo del 22% e il terzo del 24% in più, cui segue un sostanziale assestamento nell’anno successivo.
Interessanti, infine, risultano gli andamenti nel 2005-2006 di due quartieri. Risalta innanzitutto il quartiere
Borgo Panigale per il notevole aumento dei servizi educativi nella misura del 67% in più 21. Ma una crescita
ancor più significativa si regista nel quartiere Santo Stefano, dove il numero degli interventi aumenta del
114%, incremento motivato in primis dal trasferimento di sede nel 2005-2006 dell’Istituto Statale d’Arte dal
quartiere Porto al quartiere Santo Stefano.
Grafico 1 - Serie storica degli interventi educativi di assistenza handicap per anno scolastico
80
Borgo Panigale
70
Navile
60
Porto
50
San Donato
40
San Vitale
30
Santo Stefano
Saragozza
20
10
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Come secondo approfondimento, si ritiene interessante, proporre la rilevazione numerica relativa a come si
distribuiscono gli interventi educativi di assistenza handicap attivati da Società Dolce nei diversi ordini scolastici e nel tempo 22.
21. Incremento dovuto prioritariamente all’attivazione nell’anno scolastico 2005-2006 di un maggior numero di interventi educativi di sostegno all’handicap presso le scuole medie ed elementari dell’istituto comprensivo n. 14 “Biancolelli” e presso le scuole elementari della
direzione didattica del XI circolo.
22. In riferimento alla tabella riportata di seguito si precisa che per ogni ordine scolastico il dato esprime il numero di scuole in cui si è svolto almeno un servizio nell’anno per quel ordine. La riga “Totali” esprime il numero di scuole in cui si sono svolti i servizi nell’anno (le scuole
aventi più ordini vengono conteggiate solo una volta).
43
Emerge in questa sequenza numerica, resa ancor più evidente dal grafico, la preponderante e rilevante presenza dei servizi scolastici della cooperativa nella scuola elementare. Qui, infatti, si svolgono il maggior numero degli interventi educativi e si registra nell’anno scolastico 2005-2006 un sostanziale aumento di un
11% in più rispetto al precedente periodo, raggiungendo il ragguardevole numero di 42 scuole primarie sedi dei servizi gestiti dalla cooperativa 23.
Segue la scuola secondaria di primo e secondo grado, ben al disotto dei dati della prima rilevazione e con
andamenti che mostrano lievi variazioni e oscillazioni, ma sostanzialmente stabili nel tempo. Appare sicuramente interessante il dato in costante crescita relativo alla scuola dell’infanzia, statale 24, comunale 25 e privata 26, nella misura di un 17% in più nell’anno scolastico 2005-2006 e all’attivazione dei primi interventi
educativi di assistenza handicap al nido d’infanzia comunale 27.
Grafico 2 - Serie storica delle scuole sedi dei servizi di assistenza handicap per anno scolastico e tipo di scuola
50
Nido
Infanzia
40
Elementare
Media
30
Superiore
20
10
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Ultimo aspetto da rilevare riguarda il numero complessivo delle scuole in cui si svolgono i servizi di assistenza handicap. A questo proposito è importante segnalare che rispetto ai 122 istituti scolastici presenti in
tutta la città di Bologna, nel 2005-2006 il numero delle scuole in cui si realizzano gli interventi educativi di
Società Dolce risultano essere nei sette quartieri in numero complessivo di 83 scuole, pari al 68% di tutti gli
istituti scolastici presenti nella città. Un dato questo che non va trascurato, perché indice, senz’altro significativo, di una presenza oramai radicata nel territorio bolognese dei servizi di assistenza handicap gestiti
dalla cooperativa.
23. Le scuole elementari, in cui si svolgono i servizi scolastici nel 2005-2005, sono nei diversi quartieri dove la cooperativa opera tutte statali,
eccetto che nel quartiere Santo Stefano (scuola privata “Bastelli”) e nel quartiere Borgo Panigale (Istituto “Sacro Cuore”).
24. Si possono annoverare nel 2005-2006, come sedi dei servizi svolti dalla cooperativa, le seguenti scuole dell’infanzia statali: nel quartiere
Navile le scuole “Girotondo” e “Nuova Navile”; nel quartiere San Donato le scuole “Gualandi” e “Panzini”; nel quartiere San Vitale le scuole
“Villetta Mattei” e “Scandellara”; nel quartiere Porto la scuola “De Amicis”; nel quartiere Santo Stefano la scuola “Marconi”; nel quartiere Saragozza la scuola “Manzolini”.
25. Le scuole dell’infanzia comunali in cui nel 2005-2006 si sono svolti i servizi di assistenza handicap della cooperativa si trovano, invece,
nel quartiere Borgo Panigale (“Villa May”) e nel quartiere San Donato (“Tobagi”).
26. Nel 2005-2006 gli educatori di Società Dolce hanno realizzato interventi educativi di sostegno a favore di minori con handicap presso
le seguenti scuole dell’infanzia private: Borgo Panigale (Istituto “Sacro Cuore”) e Porto (Istituto “San Vincenzo de Paoli”).
27. Ad ulteriore precisazione, questi servizi educativi di sostegno all’handicap sono stati attivati negli ultimi due anni nel quartiere San Vitale
presso il nido d’infanzia “XVIII Aprile 1945” e nel quartiere Porto presso il nido d’infanzia “Marzabotto” con mediatori della comunicazione.
44
1.4.3.La presenza sul territorio dei minori con disabilità in carico nei servizi di assistenza handicap
Riguardo alla presenza dei minori in situazione di handicap, seguiti dagli educatori nei servizi scolastici della cooperativa, analizzando i dati in tabella, si può in prima istanza trovare conferma su quanto già rilevato e approfondito nel paragrafo precedente,sia a livello complessivo nel tempo,sia a livello analitico su ogni singolo quartiere.
All’aumento costante e sistematico del numero complessivo dei minori con handicap seguiti nei servizi di assistenza handicap, che nel 2005-2006 arriva al numero complessivo di 287 studenti con disabilità in carico, pari
al 15% in più rispetto al precedente anno scolastico, fanno riscontro a livello territoriale le singole situazioni e i
diversi andamenti dei quartieri della città, come si evidenzia con chiarezza anche nella raffigurazione grafica.
Grafico 3 - Serie storica dei minori con disabilità in carico nei servizi di assistenza handicap
80
70
Borgo Panigale
60
Porto
50
San Donato
40
San Vitale
30
Santo Stefano
Navile
Saragozza
20
10
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Innanzitutto, anche qui è possibile notare il persistente incremento nel tempo del quartiere Navile e l’andamento con sensibili variazioni nei quartieri Porto, San Vitale e Saragozza, i quali registrano tutti una forte crescita degli interventi educativi attivati nell’anno scolastico 2004-2005 e un sostanziale assestamento nel successivo periodo. Infine, si registra nel 2005-2006 il rilevante aumento di nuovi interventi educativi di assistenza
handicap realizzati nei quartieri Borgo Panigale e Santo Stefano 28, per le ragioni già esposte in precedenza.
28.
Come elemento di particolare peso e complessità, si ritiene importante porre in evidenza che i ragazzi con disabilità in carico presso l’Istituto Statale d’Arte (ISART), che ha trasferito nel 2005-2006 la propria sede nel quartiere Santo Stefano, risultano essere nell’insieme 15
minori, seguiti nel corso dell’anno con interventi educativi di assistenza handicap da 20 educatori della cooperativa, per un totale complessivo di 199 ore settimanali di intervento educativo.
45
1.4.4. La distribuzione dei minori con disabilità in carico nei servizi di assistenza handicap
nei quartieri e per tipo di scuola
Proseguendo l’analisi quantitativa e qualitativa intorno agli studenti in situazione di handicap seguiti dalla
cooperativa, appare a questo punto importante presentare ed esaminare i dati che rilevano in quali tipo di
scuole i minori con disabilità si distribuiscono nei diversi quartieri della città.
Ad ulteriore riprova di quanto già rilevato precedentemente, si può in primo luogo affermare che in tutti i
quartieri il maggior numero dei minori con handicap, presi in carico dagli educatori di Società Dolce, frequenta la scuola elementare. Seguono gli studenti della scuola media, ma si registrano in alcuni territori
presenze numeriche importanti di allievi con disabilità anche negli istituti secondari di secondo grado. Dati
che superano in taluni casi, come nel quartiere Porto, quelli riguardanti la scuola primaria o quelli relativi alla scuola media, come nel quartiere Navile.
46
Infine, si presenta interessante, seppur di tono minore, il dato relativo ai servizi extrascolastici di accompagnamento educativo e di accompagnamento individuale sui mezzi di trasporto, che fa registrare nell’arco
dei quattro anni scolastici rilevati un complessivo di 48 interventi educativi di assistenza handicap attivati.
Passando alla rappresentazione grafica, si confermano le tendenze già esaminate nella rilevazione numerica e risaltano con maggiore evidenza le caratteristiche di ogni singolo quartiere, per ognuno dei quali si
espongono qui di seguito i singoli andamenti.
Grafico 4 - Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola
6
Infanzia
Elementare
5
Media
4
Superiore
3
Extrascuola
2
1
Quartiere
Borgo Panigale
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Come prima caratteristica, si può notare innanzitutto nel quartiere Borgo Panigale l’alta percentuale, seppur con andamento discontinuo nei diversi anni scolastici, dei minori con handicap seguiti nella scuola elementare 29. Sostanzialmente stabile e costante invece, anche se in numero molto ridotto rispetto al dato
precedente, il dato numerico degli studenti con disabilità in carico nella scuola media e negli istituti superiori 30. Interessante infine, sia l’andamento in crescita riguardante le presenze nella scuola dell’infanzia, sia
quello dei minori con handicap seguiti nei servizi extrascolastici di accompagnamento educativo.
29. Nel territorio del quartiere Borgo Panigale si contano complessivamente 4 scuole elementari statali, facenti capo all’istituto comprensivo n. 14 Biancolelli (elementare “Mazzini”) e alla direzione didattica del XI circolo (elementari:“Due Agosto”,“Fiorini” e “Lipparini”).
30. È importante ricordare che, eccettuata la scuola media “Volta”, gli altri due istituti superiori in cui si svolgono da tempo gli interventi
educativi della cooperativa, sono dislocati in altre zone del territorio bolognese: la scuola media “Zanotti” nel quartiere Reno e il liceo
scientifico “Leonardo da Vinci” a Casalecchio di Reno. In questo caso e come peraltro accade anche in tutti gli altri quartieri della città, il minore rimane in carico al quartiere di residenza, che ne garantisce l’accesso ai servizi per il diritto allo studio erogati dal comune anche in
altri territori diversi da quello dove risiede.
47
Grafico 5 - Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola
40
Infanzia
35
Elementare
30
Media
25
Superiore
20
Extrascuola
15
10
5
Quartiere
Navile
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Anche nel quartiere Navile si conferma in modo preponderante la presenza dei bambini presi in carico nelle
scuole elementari 31, in aumento del 23% nell’anno 2005-2006, a cui fanno seguito però, a livello numerico,
gli studenti seguiti dagli educatori della cooperativa negli istituti superiori, che nel 2004-2005 crescono di un
consistente 38% e si assestano poi nell’anno successivo aumentando comunque di un ulteriore 11% 32. Seguono con lievi variazioni i ragazzi con handicap frequentanti le quattro scuole medie del territorio. Si confermano, infine, nel corso del tempo i minori presi in carico nelle due scuole dell’infanzia e i servizi extrascolastici di accompagnamento educativo.
31.
Le scuole elementari presenti nel quartiere Navile fanno capo a cinque grandi istituti comprensivi: l’istituto n. 3 Lame, il comprensivo n. 4.,
l’istituto n. 5 e il comprensivo n. 15, che nel 2005-2006 hanno annoverato ben 10 scuole elementari sedi dei servizi di assistenza handicap
della cooperativa, per un totale di 36 minori in situazione di handicap in carico. Da segnalare, infine, l’istituto comprensivo di Castel Maggiore
come scuola elementare fuori territorio in cui viene seguito per conto del quartiere Navile un minore con handicap da diversi anni scolastici.
32. Si ricorda a questo proposito, la rilevante presenza nel quartiere di sei scuole secondarie di secondo grado: l’istituto commerciale “Rosa
Luxemburg”, il liceo scientifico “Sabin”, l’istituto “Aldini Valeriani” e “Sirani”, l’istituto professionale “Malpighi” (IPSIA) e l’istituto tecnico “Serpieri” (ITAS) che, posti in ordine di numero rispetto ai minori seguiti, nel 2005-2006 contano complessivamente 18 studenti con disabilità
di cui due con handicap sensoriale in carico alla cooperativa. A questi si aggiungono, infine, i ragazzi che residenti a Navile frequentano,
però scuole dislocate in altri territori, presso cioè l’istituto tecnico commerciale “Mattei” di San Lazzaro di Savena e l’Istituto professionale
“Scappi” di Castel San Pietro.
48
Grafico 6 - Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola
25
Nido
Infanzia
20
Elementare
Media
15
Superiore
Extrascuola
10
5
Quartiere
Porto
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Analizzando l’andamento del quartiere Porto risalta immediatamente, come si era già evidenziato in premessa, l’alta presenza dei ragazzi seguiti negli istituti superiori, presenza motivata in primis dalla dislocazione nel territorio del quartiere di due importanti scuole secondarie di secondo grado 33.
Seguono in numero ridotto ma stabile nel tempo gli studenti presi in carico presso la direzione didattica
del I circolo 34. Di scarsa incidenza il dato relativo alla scuola media, che diminuisce progressivamente nel
corso degli anni, a partire dal 2004-2005. Caratteristica invece e in aumento è la presenza di minori seguiti
al nido comunale e alle due scuole dell’infanzia.
Grafico 7 - Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola
25
Nido
Infanzia
20
Elementare
Media
15
Superiore
Extrascuola
10
5
Quartiere
San Donato
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
33.
Ci si riferisce all’istituto professionale “Aldrovandi Rubbiani” che nel 2005-2006 annovera 17 studenti con disabilità in carico e all’istituto
professionale “Fioravanti” che conta 5 allievi con handicap, per un totale di 22 minori in carico agli educatori della cooperativa, di cui due
seguiti da mediatori della comunicazione.
34. Nel territorio del quartiere Porto si contano complessivamente 3 scuole elementari statali, facenti capo alla direzione didattica del I circolo (“Monterumici”,“Guidi” e “De Amicis”), nelle quali nel 2005-2006 sono stati seguiti complessivamente 13 minori in situazione di handicap.
49
Peculiarità del territorio di San Donato è invece la cospicua presenza, con lievi oscillazioni, ma sempre elevata, di allievi con disabilità seguiti in primo luogo nella scuola elementare, tendenza che registra nel 20042005 un aumento del 20% rispetto al periodo precedente. Seguono poi i dati numerici relativi alla scuola
media, che annovera nel corso degli anni, sempre con andamento abbastanza stabile, molti minori in carico
nei servizi di assistenza handicap della cooperativa 35.
Risultano invece confermati, seppur in lieve flessione nel 2005-2006, gli interventi a sostegno dei bambini
con handicap nelle tre scuole dell’infanzia del quartiere. È interessante, infine, anche se con andamento discontinuo nel tempo, la sequenza numerica relativa alla scuola secondaria di secondo grado 36, che nel
2005-2006 appare sostanzialmente rafforzata e ritorna alla situazione delineata nell’anno scolastico 20022003, per numero di ragazzi in situazione di handicap seguiti dalla cooperativa.
Grafico 8 - Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola
16
Nido
14
Infanzia
12
Elementare
10
Media
8
Superiore
6
Extrascuola
4
2
Quartiere
San Vitale
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Situazione similare con quote numeriche più limitate, appare anche nel quartiere San Vitale, dove però risalta in aumento percentuale costante nel tempo il dato relativo ai minori seguiti nelle tre scuole medie del
territorio, che con un 33% in più nel 2003-2004 e con un 17% nel 2005-2006 sopravanza, seppur di poco,
quello relativo alle presenze dei minori con handicap presi in carico nelle sei scuole elementari presenti nel
quartiere, dove nell’anno scolastico 2004-2005 crescono i minori seguiti del 27% 37. Meno rilevante e più ridotto, si presenta invece il numero dei ragazzi con disabilità in carico negli istituti superiori 38.
35. Nel 2005-2006 i minori con handicap presi in carico dalla cooperativa nei servizi di assistenza handicap, risultano essere complessivamente in numero di 40, distribuiti in cinque scuole elementari (“Gualandi”,“Chiostri”,“Garibaldi”,“Romagnoli”,“Don Minzoni”) e in due scuole
medie (“Besta” e “Saffi”), facenti capo ai due grandi istituti comprensivi n. 10 e n. 11.
36. Alla tradizionale presenza di un minore seguito presso il liceo scientifico “Copernico” con un mediatore della comunicazione, si aggiungono nel 2005-2006 i ragazzi con disabilità in carico presso l’istituto tecnico “Mattei” di San Lazzaro di Savena.
37. I minori seguiti dagli educatori di Società Dolce nel 2005-2006 frequentano le seguenti scuole elementari:“Ercolani”,“Scandellara”,“Giordani”,“Don Bosco”,“Mattiuzzi Casali” e “Zamboni”. Negli istituti secondari di primo grado gli interventi a favore dei ragazzi in carico si svolgono, invece, nelle scuole medie:“Irnerio”,“Jacopo della Quercia” e “Guido Reni”.Tutte le scuole appena citate fanno capo all’istituto comprensivo n. 6, n. 7, n. 16 e alla direzione didattica del X circolo.
38. Anche qui, come già rilevato nei quartieri Navile e San Donato, si segnala nel 2005-2006 un minore con handicap seguito dalla cooperativa presso l’istituto commerciale “Mattei” di San Lazzaro di Savena. Un altro intervento educativo di assistenza handicap lo si ritroverà
anche nel quartiere Santo Stefano.
50
Sicuramente importante, infine, il dato in crescita dei bambini seguiti nelle due scuole dell’infanzia e nel nido comunale.
Grafico 9 - Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola
18
Infanzia
16
Elementare
14
Media
12
Superiore
10
8
6
4
2
Quartiere
Santo Stefano
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Ritorna invece nel quartiere Santo Stefano la ormai tradizionale presenza dei minori in situazione di handicap in carico alla cooperativa nelle scuole elementari delle due direzioni didattiche presenti sul territorio 39.
In andamento abbastanza stabile nel tempo si conferma, infatti, come dato numerico di importanza anche
nel 2005-2006, che viene però superato, seppur di poco, dalle nuove presenze degli studenti con disabilità
seguiti presso l’Istituto d’Arte. Con andamento discontinuo, ma fondamentalmente stabile, si presenta il dato relativo ai minori seguiti nelle due scuole medie presenti nel quartiere, dato che nel 2005-2005 cresce di
un significativo 43% 40.
Grafico 10 - Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola
25
Infanzia
Elementare
20
Media
Superiore
15
Extrascuola
10
5
Quartiere
Saragozza
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
39.
Questi minori in situazione di handicap presi in carico frequentano le tre scuole elementari della direzione didattica dell’VIII° circolo
(“Carducci”,“Fortuzzi” e “Cremonini Onagro”) e due scuole elementari della direzione didattica dell’XIII circolo (“Tambroni” e “Don Milani”).
40. Ci si riferisce alle scuole secondarie di primo grado “Pepoli”e “Rolandino de Passeggeri”, in cui per il 2005-2006 risultano in carico 10 studen-
ti con disabilità seguiti dagli educatori della cooperativa nei servizi di assistenza handicap, di cui uno con un mediatore della comunicazione.
51
Interessante, infine, l’andamento delle presenze dei minori con disabilità seguiti nel quartiere, Saragozza,
che nel tempo presenta in lieve flessione i dati numerici relativi alle quattro scuole elementari presenti sul
territorio 41 e in forte ascesa, invece, quelli riguardanti i ragazzi in carico negli istituti superiori. In queste
scuole nel 2004-2005 si raddoppia il dato e nell’anno successivo aumenta ancora del 50%, avanzamento
dovuto in primo luogo alla ormai consolidata presenza nel tempo dei minori seguiti al liceo socio pedagogico “Laura Bassi” 42. In conclusione, si rileva come costante nei diversi anni scolastici il numero dei minori
presi in carico nei servizi di assistenza handicap presso le due scuole medie del quartiere “Carracci” e “Guinizzelli” e presso la scuola dell’infanzia.
A conclusione di questa sezione, si ritiene importante presentare un quadro riassuntivo relativo all’anno
scolastico 2005-2006, in cui si evidenzia con dati percentuali la distribuzione dei minori con handicap presi
in carico dalla cooperativa su tutti i quartieri e suddivisa in base agli ordini scolastici.
Grafico 11 - Distribuzione dei minori con handicap per tipo di scuola - Scuola dell’infanzia - a.s. 2005-2006
7% Saragozza
7% Santo Stefano
13% Borgo Panigale
13% Navile
27% San Vitale
13% Porto
20% San Donato
In riferimento alle rilevazioni riguardanti la scuola dell’infanzia, risalta immediatamente il quartiere San Donato, dove sono dislocati nella misura di un 20% il maggior numero dei bambini in situazione di handicap
seguiti dagli educatori della cooperativa, cui segue San Vitale con una percentuale del 27% e successivamente con un 13% i tre quartieri di Borgo Panigale, Navile e Porto.
41.
I minori in situazione di handicap in carico frequentano le tre scuole elementari della direzione didattica dell’III° circolo (“Armandi Avogli”,“XXI Aprile” e “Manzolini”) e una scuola elementare dell’istituto comprensivo VIII (“Longhena”).
Alla presenza dei minori con disabilità assistiti presso l’istituto “Laura Bassi”, che nel 2005-2006 annovera 14 studenti con handicap, si
aggiungono i ragazzi seguiti presso l’istituto tecnico “Pier Crescenzi Pacinotti”. A questo proposito si rileva nel 2005-2006 anche la presenza di un minore seguito presso l’istituto professionale “Scappi” di Castel San Pietro. È interessante rilevare, inoltre, che sempre presso questo istituto superiore risultano attivati nel medesimo anno scolastico altri interventi educativi di sostegno all’handicap per i quartieri Navile, Porto e Santo Stefano.
42.
52
Grafico 12 - Distribuzione dei minori con handicap per tipo di scuola - Scuola elementare - a.s. 2005-2006
12% Saragozza
12% Santo Stefano
5% Borgo Panigale
32% Navile
11% San Vitale
18% San Donato
10% Porto
Considerando invece la distribuzione dei minori nella scuola elementare nell’anno scolastico 2005-2006, la
percentuale maggiore degli allievi con handicap seguiti dalla cooperativa si trova nel quartiere Navile con
un 32%, seguono poi distanziati di molto il quartiere San Donato con 18% e Santo Stefano e Saragozza con
12 punti percentuali.
Grafico 13 - Distribuzione dei minori con handicap per tipo di scuola - Scuola media- a.s. 2005-2006
11% Saragozza
15% Santo Stefano
6% Borgo Panigale
17% Navile
3% Porto
23% San Vitale
25% San Donato
Riguardo ai dati relativi agli studenti con disabilità seguiti nella scuola media il dato numerico più rilevante
si colloca qui nel quartiere San Donato con un sostanzioso 25%, cui fa seguito con una percentuale di poco
inferiore nella misura del 23% il quartiere San Vitale. Distaccati di molto si presentano quindi con una percentuale del 17% il quartiere Navile e del 15% il quartiere Santo Stefano.
53
Grafico 14 - Distribuzione dei minori con handicap per tipo di scuola - Scuola superiore - a.s. 2005-2006
2% Borgo Panigale
21% Saragozza
23% Navile
20% Santo Stefano
26% Porto
2% San Vitale
6% San Donato
Analizzando, infine, la presenza dei ragazzi in situazione di handicap nella scuola superiore, risalta innanzitutto con un 26% di studenti in carico il quartiere Porto, come già segnalato, seguono poi con una percentuale del 23% il quartiere Navile, con 21% il quartiere Saragozza e infine con 20% il quartiere Santo Stefano.
1.4.5. La presenza sul territorio degli educatori della cooperativa nei servizi di assistenza
handicap
A conclusione di questo breve excursus, si presentano in questi ultimi due paragrafi le rilevazioni riguardanti la presenza nei quartieri della città degli educatori della cooperativa, che svolgono interventi educativi nei servizi di assistenza handicap.
Tutti aspetti questi che saranno approfonditi con maggiore dettaglio e accuratezza nei capitoli successivi e
che qui si espongono sinteticamente.
54
Colpisce innanzitutto, come peraltro già rilevato nella presentazione, il dato numerico globale in costante
crescita degli educatori impegnati nei servizi scolastici, con un picco crescente di 188 operatori nell’anno
scolastico 2005-2006, pari al 20% in più rispetto all’anno scolastico precedente.
Grafico 15 - Serie storica degli educatori nei servizi di assistenza handicap per anno scolastico e quartiere
60
Borgo Panigale
Navile
50
Porto
40
San Donato
30
San Vitale
Santo Stefano
20
Saragozza
10
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Altri importanti aspetti riguardano l’andamento delle presenze nei singoli quartieri. Il maggior incremento
percentuale di personale educativo si riscontra, in primis, nel quartiere Borgo Panigale, che nel 2005-2006
raddoppia il numero degli educatori in servizio presso le scuole del territorio, passando da 9 a 18. Per le medesime ragioni già note, aumentano del 67% in più anche gli educatori nel quartiere Santo Stefano.
Un andamento in rialzo, con un 24% in più, è presente anche nel quartiere Saragozza con 31 educatori in
servizio e nel quartiere Navile, che aumenta sempre in modo costante e nel tempo il numero degli educatori in servizio sul suo territorio, raggiungendo nell’anno scolastico 2005-2006 il numero ragguardevole di
56 educatori impegnati nei servizi scolastici.
Dati sostanzialmente stabili, seppur in lieve diminuzione, presentano invece a partire dal 2004-2005 i quartieri San Donato e Porto, con una tendenza maggiore in negativo per il secondo quartiere sull’ultimo periodo. Nel medesimo anno il quartiere San Vitale presenta, invece, un importante incremento di educatori impegnati nelle scuole del suo territorio, aumento che raggiunge il 27% e si assesta poi nel periodo successivo su questi valori percentuali.
55
1.4.6. Le ore complessive settimanali di intervento educativo assegnate ai minori con
disabilità nei servizi di assistenza handicap
È interessante presentare, infine, come ultimo elemento di riflessione la sequenza numerica e in grafico della distribuzione delle ore complessive settimanali di intervento educativo assegnate dai quartieri ai minori
con handicap nei servizi scolastici della cooperativa.
Un primo aspetto sicuramente importante da indagare riguarda il dato numerico complessivo del monte
ore che nel 2005-2006 assomma a 3.831 ore settimanali assegnate dai quartieri ai minori con disabilità registrando un cospicuo aumento del 19 %.
Grafico 16 - Serie storica delle ore settimanali di intervento educativo assegnate ai minori con disabilità nei
servizi di assistenza handicap per anno scolastico e quartiere
1200
Borgo Panigale
Navile
1000
Porto
800
San Donato
600
San Vitale
Santo Stefano
400
Saragozza
200
0
56
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
In evidenza, come si può vedere con chiarezza nella rappresentazione grafica, il cospicuo e ingente monte
ore settimanale assegnato dal quartiere Navile, che aumenta in modo stabile nel tempo e nel 2005-2006
assomma a 1.120 ore settimanali di interventi educativi, che vengono destinate a favore di 71 minori in situazione di handicap seguiti da 56 educatori della cooperativa.
Dal punto di vista territoriale si riscontra poi nel quartiere San Donato un secondo andamento in rialzo,
sempre omogeneo nei diversi anni scolastici, che nel 2005-2006 registra un incremento delle ore settimanali del 15%, raggiungendo le 603 ore settimanali di intervento, che vengono assegnate a 46 studenti con
disabilità seguiti da 27 educatori.
Nel quartiere Santo Stefano, analogamente alle valutazioni espresse nelle altre rilevazioni, riscontriamo
inoltre un considerevole aumento percentuale delle ore medie settimanali di intervento, che nel 2005-2006
passano da 257 a 607 ore con un aumento pari al 136%, destinate a 43 minori con handicap.
Anche nel quartiere Borgo Panigale si registra nello stesso periodo, seppur con un dato complessivo molto
inferiore pari a 148 ore, una crescita del 61%, ore settimanali che vengono assegnate a 14 studenti con disabilità seguiti da 18 educatori della cooperativa.
Un andamento in rialzo pari al 29% presenta invece nel 2004-2005 il quartiere San Vitale, che raggiunge
nell’anno scolastico successivo un significativo monte ore settimanale pari a 517 ore, destinato a 35 minori
con handicap che vengono presi in carico durante l’anno da 28 educatori.
Infine, nel 2005-2006 si segnala una lieve flessione nelle ore settimanali dei quartieri Porto e Saragozza, registrando però il secondo un importante aumento nel 2004-2005 del 17% in più rispetto al periodo precedente. In questo ultimo caso, entrambi i quartieri nel 2005-2006 assegnano 418 ore settimanali, rispettivamente a 40 e 41 minori con disabilità nelle scuole del territorio, che sono seguiti con interventi educativi di
assistenza handicap da 21 e 31 educatori della cooperativa.
57
1.5. LA QUALITÀ DELL’INTEGRAZIONE
di Lucia Marrocchi
1.5.1. Premessa
Intorno al tema della qualità negli ultimi decenni si è sviluppato in Italia un ampio dibattito, che ha coinvolto anche la scuola e i servizi alla persona, ma individuare cosa sia la qualità si rivela sempre un’operazione
alquanto ardua. Ciò che emerge dai diversi tentativi di definizione che si sono susseguiti nei tempi passati e
recenti è che la qualità, proprio per via del suo carattere relativo, si può definire solo “in relazione a…”, perché essa non appartiene alle cose in sé, ma è piuttosto un attributo che viene assegnato alle cose in base a
determinati criteri di apprezzamento. La qualità, dunque, non va considerata come un concetto statico ma
processuale e sempre vista in relazione al tempo e al luogo e in rapporto ai destinatari delle azioni e alle
circostanze 43.
Passando dalle concezioni alle pratiche e attenendoci all’ambito di indagine di questa ricerca e al suo particolare osservatorio, si cercherà in questo capitolo di mettere in luce quelli che dal nostro punto di vista possono
essere degli indicatori di qualità non puramente quantitativi, ma anche qualitativi, sia del percorso di integrazione scolastica dei minori con disabilità seguiti dagli educatori, sia dei servizi di assistenza handicap gestiti
dalla cooperativa, nonché delle condizioni professionali in cui si trova ad operare la figura dell’educatore.
Per misurare la qualità complessiva sono stati scelti degli indicatori che coinvolgono da vicino alcuni soggetti istituzionali. Ci si riferisce in particolare al quartiere, alla cooperativa e alla scuola, tutti enti che a diverso titolo si adoperano quotidianamente con azioni mirate di coordinamento degli interventi per garantire
un’offerta educativa di qualità agli studenti in situazione di handicap.
Richiamandoci, infine, ai contenuti e agli impegni espressi nell’Accordo Provinciale di Programma e nell’Accordo Territoriale di Bologna, si evidenzia che l’intento di questo approfondimento è anche quello di promuovere una più ampia riflessione sui temi dell’impiego coordinato delle risorse e dell’omogeneità delle risposte, come già ampiamente esposto in altre occasioni pubbliche cittadine 44.
43.
Per una definizione del concetto di qualità cfr. U. Galimberti, Dizionario di psicologia, UTET, Torino, 1994, p. 793 e P. Bertolini, Dizionario di
pedagogia e scienze dell’educazione, Zanichelli, Bologna, 1996, p. 475.
44. Ci si riferisce in particolare al Gruppo di Lavoro Interistituzionale Comunale per l’integrazione scolastica degli alunni in situazione di
handicap di Bologna (GLIC), nato in ottemperanza a quanto previsto dagli Accordi Territoriali, dove in occasione del secondo incontro, tenutosi il 26 gennaio 2005, le cooperative sociali hanno portato un contributo alla discussione proprio su questi argomenti.
58
In merito a questi aspetti è importante ricordare che nelle scuole bolognesi vengono solitamente impiegate diverse figure professionali per l’integrazione scolastica degli studenti con handicap (insegnanti di sostegno, educatori comunali, educatori di cooperative, formatori, collaboratori scolastici, obiettori etc.), ma i criteri di distribuzione e di utilizzo delle risorse spesso risultano essere poco omogenei e coerenti. Non è, infatti, infrequente all’interno di uno stesso intervento scolastico l’assegnazione di più tipi di assistenza, definita non solo in base ai bisogni educativi del minore. Tutte figure queste che rischiano di creare, da un lato,
una possibile “barriera” all’integrazione e dall’altro, una confusione di ruoli e di disorientamento per il minore con handicap riguardo ai punti di riferimento. A questo si aggiunge, come si avrà modo di approfondire
in questo capitolo attraverso specifiche rilevazioni, la variabilità dei monte ore per l’assistenza, assegnati in
base a svariati criteri non sempre attinenti ai livelli di gravità e alle esigenze del minore con disabilità.
In base alle riflessioni e agli esiti scaturiti da questa ricerca si ritiene quindi importante riaffermare anche in
questa sede l’importanza di individuare con i soggetti coinvolti azioni comuni di coordinamento degli interventi e delle competenze, trovando un accordo con tutti gli enti su criteri e soluzioni metodologiche
omogenee e funzionali per l’uso ottimale e qualificato delle risorse in tutti quartieri della città. Risorse che,
si ricorda, sono da utilizzare soprattutto in base alle esigenze e ai bisogni educativi dei minori con disabilità,
assicurando il più possibile la qualità e l’omogeneità dei servizi educativi di assistenza handicap nelle diverse realtà scolastiche.
1.5.2. Le ore medie settimanali di intervento educativo assegnate ai minori con disabilità
dai quartieri nei servizi di assistenza handicap
Riprendendo le valutazioni introdotte nell’ultima parte del capitolo precedente intorno all’erogazione delle risorse da parte dei quartieri, si introduce come prima analisi la rilevazione sulle ore medie settimanali di intervento educativo assegnate ai minori con disabilità dai quartieri nei servizi scolastici di assistenza handicap 45.
45. Al fine di agevolare la lettura della tabella riportata, si precisa che per ogni quartiere il dato esprime il numero medio di ore settimanali
di intervento educativo per ciascun minore con handicap che ha usufruito di un servizio nell’anno. La riga “Totali” esprime il numero medio di ore settimanali di intervento per i minori seguiti su tutti i servizi nell’anno (se un minore ha usufruito di servizi su più quartieri la
media totale è superiore).
59
Analizzando in tabella l’andamento complessivo nel tempo si pone subito in evidenza la sostanziale stabilità, seppur con un’oscillazione temporanea in rialzo nel 2003-2004, del numero medio di ore settimanali, assegnate dai quartieri agli studenti con handicap assistiti, che nell’arco di quattro anni da 15 ore aumenta di
una unità raggiungendo la media di 16 ore settimanali per ciascun minore seguito.
Si ritiene importante sottolineare a questo proposito che il dato numerico medio presentato qui non è certo in grado di rilevare la variabilità che spesso si riscontra nei monte ore assegnati ad ogni singolo minore
con disabilità, monti ore che possono oscillare da 30 ore a 4-6 ore settimanali per un intervento educativo
di assistenza handicap. Le motivazioni di tale varietà sono da ricercarsi in primo luogo nei criteri di assegnazione, che possono prevedere una maggiore o minore presenza dell’educatore e o del docente di sostegno
a seconda del tipo e del livello di gravità del deficit dell’alunno con handicap e una richiesta di copertura
totale dell’orario, soprattutto nei casi considerati gravi o gravissimi.
I criteri di attribuzione, a partire dalle risorse finanziarie rese disponibili dai bilanci comunali e di quartiere,
devono dunque tener necessariamente conto della Diagnosi Funzionale, del Profilo Dinamico Funzionale e
del livello di gravità del minore, delle sue esigenze di crescita e di sviluppo, certificate dai tecnici dell’Azienda USL e non ultimo del Progetto Educativo Personalizzato elaborato dagli insegnanti della scuola in riferimento agli obiettivi didattici ed educativi da acquisire.
È da aggiungere, però, che queste oscillazioni delle ore di assistenza handicap, specie in notevole ribasso o
anomalo rialzo da un anno all’altro, talvolta scaturiscono da criteri di attribuzione particolari, che non sempre sono attinenti ai bisogni del minore, ma risultano piuttosto legati a situazioni di emergenza, o di difficoltà nell’accoglienza e nel sostegno agli allievi più gravi, o ancora per sopperire alle diverse carenze delle
altre figure professionali di sostegno che operano all’interno delle scuole.
Il dato è dunque sicuramente da osservare con maggiore attenzione, in quanto presenta differenziazioni interessanti nelle rilevazioni numeriche dei singoli quartieri,come ben si evidenzia nei due grafici qui di seguito proposti.
Grafico 17 - Serie storica delle ore medie settimanali di intervento assegnate ai minori con disabilità nei
servizi di assistenza handicap per anno scolastico e quartiere
25
Borgo Panigale
20
Navile
Porto
15
San Donato
San Vitale
10
Santo Stefano
Saragozza
5
0
60
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
A livello dei singoli territori della città si può innanzitutto rilevare che nei quartieri di Navile, San Vitale, Santo Stefano e Saragozza l’andamento sui quattro anni scolastici si presenta fondamentalmente stabile.
Un aumento importante nel 2005-2006 registrano invece due quartieri: Borgo Panigale, che passa da 13 ore
alla considerevole media di 20 ore settimanali per minore, con un rialzo nell’ultimo anno del 51% e San Donato, che da 11 ore passa a 14 ore settimanali di intervento educativo, con un 18% in più rispetto al precedente periodo.
Si mostra, infine, in tendenza negativa il quartiere Porto, che dalla media di 17 ore settimanali per studente
con handicap del 2002-2003 passa a 12 ore settimanali del 2005-2006, con un decremento del 20% e del
13% in meno negli ultimi due anni scolastici.
Grafico 18 - Serie storica delle ore medie settimanali di intervento in percentuale assegnate ai minori con
disabilità nei servizi di assistenza handicap - a.s. 2005- 2006
14% San Donato
12% Porto
16% San Vitale
17% Santo Stefano
18% Navile
13% Saragozza
20% Borgo Panigale
Prendendo, infine, in esame le ore medie settimanali relative al solo anno 2005-2006, si possono qui notare
in rilievo positivo per numero di ore assegnate i quartieri Borgo Panigale e Navile con una media rispettivamente di 20 e 18 ore di intervento educativo per i minori con disabilità. Ad essi fanno seguito i quartieri
Santo Stefano e San Vitale, con una media ciascuno di 17 e 16 ore settimanali. Chiudono la serie con un
monte ore che varia dalle 14 alle 12 ore i quartieri San Donato, Saragozza e Porto.
1.5.3. Le ore medie settimanali di intervento educativo assegnate agli educatori dalla
cooperativa nei servizi di assistenza handicap
Si ritiene utile presentare poi in successione le rilevazioni che analizzano in questo caso il numero delle ore
medie settimanali di intervento educativo che vengono assegnate dalla cooperativa agli educatori nei servizi scolastici di assistenza handicap. Tale dato, come si avrà modo di approfondire, costituisce un termine di
raffronto importante per delineare con maggior chiarezza il contesto di riferimento professionale e l’ambito lavorativo nel quale si trova ad operare l’educatore della cooperativa.
61
Come è possibile rilevare in tabella e indi nel grafico, anche qui la sequenza numerica complessiva sui quattro anni scolastici evidenzia un andamento abbastanza costante. Partendo nel 2002-2003 da una media di
24 ore settimanali di interventi educativi assegnati a ciascun educatore e con una lieve oscillazione in rialzo
di un punto negli anni scolastici centrali, l’andamento si stabilizza nel 2005-2006 su una media finale sempre di 24 ore settimanali. Tutto ciò implica chiaramente per ogni singolo educatore la presa in carico di più
interventi educativi di assistenza handicap.
Rispetto alle valutazioni espresse in precedenza è importante evidenziare che in questo ambito le oscillazioni dei monte ore settimanali assegnati dalla cooperativa, che anche qui non sono immediatamente visibili, ma che possono andare da un minimo di 10 ore a un massimo di 38 ore settimanali affidate a ogni educatore, hanno motivazioni legate a ragioni diverse.
Innanzitutto una prima variabilità scaturisce dalla tipologia stessa dei servizi scolastici di assistenza handicap, in quanto l’assegnazione degli incarichi operata dalla cooperativa è necessariamente di tipo annuale,
in base cioè alle richieste di assistenza handicap che ogni anno vengono avanzate dalle istituzioni scolastiche ai coordinamenti pedagogici dei quartieri, i quali stabiliscono le ore di assistenza e, in accordo con lo
staff di coordinamento della cooperativa, definiscono annualmente le modalità di attivazione degli interventi educativi.
Inoltre, pur rispettando i criteri di assegnazione interni alla cooperativa, che nella maggior parte dei casi garantiscono di anno in anno la continuità dell’educatore sui minori già seguiti o all’interno dello stesso plesso scolastico, in coerenza con gli obblighi contrattuali e le prassi lavorative che la cooperativa ha nei confronti degli enti committenti e di ogni singolo lavoratore, le variazioni delle ore settimanali assegnate possono avere molteplici motivazioni anche nel corso dell’anno: dal semplice cambio di ordine scolastico o di
istituto del minore seguito, alla cessazione del servizio, alla riduzione o all’incremento delle ore per uno o
più allievi in carico.
Vi sono poi anche i fattori esterni legati alla scuola, da cui dipende funzionalmente l’educatore per l’organizzazione del suo intervento sia a livello orario sia di progettazione educativa. Su altre possibili variazioni delle
ore settimanali assegnate, specie in ribasso, può influire infatti anche l’organizzazione oraria dell’intervento.
62
Lavorando l’educatore su più studenti con handicap, all’interno dello stesso plesso scolastico ma talora anche in più scuole dislocate in territori diversi, l’organizzazione oraria di tutti gli interventi può risultare complessa, sia in caso di interventi in scuole con ordini diversi (es. elementare e medie/superiori), sia anche in
relazione alle svariate esigenze orarie degli insegnanti di sostegno e specie nelle scuole secondarie secondo le materie scolastiche, con le quali l’educatore deve supportare il minore in carico.
Grafico 19 - Serie storica delle ore medie settimanali assegnate agli educatori dalla cooperativa nei servizi di
assistenza handicap per anno scolastico e quartiere
30
Borgo Panigale
Navile
25
Porto
20
San Donato
15
San Vitale
Santo Stefano
10
Saragozza
5
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
L’andamento nel tempo dei singoli quartieri presenta invece caratteristiche peculiari. Innanzitutto, il primo
dato che colpisce è rappresentato dalla tendenza che si riscontra sempre in positivo nel quartiere San Donato, dove nel 2005-2006 Società Dolce incrementa il numero delle ore medie assegnate del 20% in più.
Nel quartiere Borgo Panigale, pur registrando nel 2005-2006 un importante aumento del 26% delle ore affidate agli educatori, si annota, invece, una loro sostanziale diminuzione rispetto al 2002-2003, con un dato
numerico di 3 punti percentuali in meno. Si segnala una lieve flessione anche nel quartiere Porto. Eguale risultato presenta il quartiere Saragozza, con un andamento in diminuzione nell’ultimo periodo con 7 punti
in meno di ore mediamente affidate agli educatori.
Al contrario, una tendenza fondamentalmente stabile nel tempo e con segno positivo si segnala infine nei
tre quartieri di Navile, San Vitale e Santo Stefano, che registrano tutti, nei quattro anni scolastici rilevati, un
lieve incremento nella media delle ore assegnate.
Oltre alle considerazioni appena espresse è doveroso aggiungere quali possono essere, invece, gli elementi
che influiscono in modo positivo sulle oscillazioni di ore assegnate dalla cooperativa di anno in anno. Alcuni
di questi fattori riguardano le scuole e in particolare le modalità di coordinamento degli interventi educativi
di assistenza handicap, attuate dalla dirigenza scolastica (dirigente scolastico e referenti handicap in primis).
A garantire una certa stabilità e una minore variabilità nelle ore assegnate dalla cooperativa rimane, infatti,
63
a tutt’oggi utile la prassi adottata all’interno di alcune scuole di definire, prima dell’avvio della scuola e in
modo collegiale con lo staff di coordinamento della cooperativa, il gruppo degli educatori che lavorerà a
tempo pieno solo in quel plesso scolastico e su tutti i minori in carico. In tal modo si ottimizzano le risorse,
garantendo una maggiore stabilità del personale educativo e un’organizzazione oraria coerente e funzionale ai bisogni degli studenti con disabilità seguiti. Un esempio fra tutti è possibile riscontrarlo nel quartiere Santo Stefano presso l’Istituto Statale d’Arte.
In negativo, la frammentazione oraria degli interventi e del numero dei minori in carico porta il più delle volte a ridotti monte ore settimanali per gli educatori, molti dei quali, tenuto conto anche degli altri elementi di
precarietà inerenti la stessa tipologia di lavoro, tendono ad orientarsi verso altre professioni più stabili.
Grafico 20 - Serie storica delle ore settimanali di intervento assegnate agli educatori nei servizi di
assistenza handicap - a.s. 2005-2006
18% Saragozza
25% Santo Stefano
20% San Vitale
17% Borgo Panigale
23% Navile
23% Porto
24% San Donato
Volendo approfondire, infine, in modo esclusivo l’anno scolastico 2005-2006 si può osservare che il numero
maggiore di ore settimanali assegnate agli educatori dalla cooperativa lo si riscontra nei quartieri Santo
Stefano e San Donato, con una media rispettivamente di 25 ore e di 24 ore settimanali. Seguono i quartieri
Navile e Porto con 23 ore e in successione San Vitale, Saragozza e Borgo Panigale, il quale chiude la sequenza con una media di 17 ore settimanali di interventi educativi affidati alla cooperativa.
Come ultima segnalazione rispetto al tema già ampiamente discusso sulle oscillazioni delle ore settimanali
di intervento, si precisa che a questi monti ore vanno solitamente aggiunti gli altri incarichi lavorativi che
gli educatori svolgono all’interno della cooperativa per completare l’orario di lavoro e raggiungere un tempo pieno.
Ci si riferisce in particolare ai servizi integrativi scolastici, dove si organizzano attività ludico-ricreative per
gruppi di bambini, soprattutto delle scuole elementari, che coinvolgono in altri momenti della giornata
molti educatori che operano con i minori con disabilità nel tempo scuola. Da ciò possono scaturire, a seconda dei casi, sensibili variazioni delle ore settimanali assegnate in positivo o in negativo, a seconda se che si
riesca a far coesistere gli interventi orari di entrambi i servizi educativi.
64
1.5.4. I minori con disabilità seguiti in continuità dalla cooperativa e nei passaggi di ordine
scolastico nei servizi di assistenza handicap
A conferma di quanto sin qui dichiarato e per testimoniare in concreto la continuità dell’azione educativa
realizzata nel tempo dagli educatori della cooperativa nelle scuole, è interessante mostrare a questo punto
la rilevazione riguardante i minori con disabilità seguiti in continuità da società Dolce nel corso degli ultimi
quattro anni scolastici.
Ad una prima lettura generale, risalta subito con particolare evidenza il dato numerico complessivo di tutti i
quartieri, dove su un totale di 987 studenti con handicap in carico negli anni scolastici che vanno dal 2002
al 2006 si annoverano ben 558 minori con disabilità seguiti in continuità dalla cooperativa, con una percentuale molto positiva che raggiunge il 57% sul totale degli studenti seguiti, come si può osservare con chiarezza anche nella rappresentazione grafica riportata di seguito.
65
Grafico 21 - Continuità dei minori con disabilità seguiti dalla cooperativa nei servizi di assistenza handicap
dati complessivi 2002-2006
57% Minori con handicap
seguiti in continuità
43% Nuovi minori con handicap
presi in carico
Richiamandoci invece alla flessibilità della figura dell’educatore come nuovo aspetto da approfondire, si reputa importante esporre qui di seguito i dati che registrano nel tempo i passaggi nei diversi livelli di scolarità seguiti dagli educatori della cooperativa dei minori con disabilità.
66
Il dato, pur non avendo caratteristiche di particolare consistenza, risulta in ogni caso significativo, soprattutto perché l’educatore, accompagnando il minore con disabilità nel successivo livello di scuola e portando
con sé la memoria storica del percorso scolastico precedente, rappresenta un importante elemento di stabilità per il minore e garantisce un prezioso collegamento e un passaggio di informazioni tra i diversi ordini
scolastici.
Grafico 22 - Serie storica dei passaggi di ordine scolastico dei minori con handicap seguiti dagli educatori
della cooperativa
46% da Elementare a Media
42% da Media a Superiore
1% da Nido a Infanzia
11% da Infanzia a Elementare
Addentrandoci con maggiore dettaglio nella sequenza numerica, come emerge dal grafico, è inoltre interessante notare che gli ordini scolastici in cui si trovano il maggior numero di passaggi degli studenti con
disabilità sono quelli dalla scuola elementare alla scuola media, con una percentuale del 46% e poi quelli
dalla scuola media alla scuola superiore, con una percentuale del 42%.
67
1.5.5. Il possesso del PEP e le informazioni fornite dalla scuola all’educatore nei servizi di
assistenza handicap
Si presentano infine qui di seguito due indagini che coinvolgono più da vicino le attività organizzate dalla
scuola, a partire dalla consegna all’educatore della Programmazione Educativa Personalizzata (PEP) e dalle
informazioni ricevute al momento della presa in carico del minore con disabilità da parte dell’educatore.
È da precisare che la rilevazione trae origine da due precisi punti della relazione finale sui servizi di assistenza handicap, in merito ai quali viene chiesto all’educatore di dichiarare con risposte predeterminate se all’inizio dell’anno scolastico ha avuto informazioni sulla programmazione educativa personalizzata prevista
per il minore con handicap in carico e se gli insegnanti gli hanno consegnato una copia della documentazione del Pep.
68
Grafico 23 - Possesso dei pep e informazioni fornite dalla scuola all’educatore nei servizi di assistenza handicap
Dati complessivi per anno scolastico
80
Sì - Sì
70
Sì - No
60
No - Sì
50
No - No
40
Dati Incompleti
30
20
10
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Volendoci soffermare in particolare sui dati complessivi e sui totali parziali, analizzando le sequenze numeriche nel tempo anche attraverso il grafico, è interessante notare, come primo dato positivo, che nel 20052006 su 188 educatori che lavorano all’interno delle scuole bolognesi il 42% ha ricevuto informazioni e
possiede una copia della Programmazione Educativa Personalizzata.
A fronte di questo importante risultato va però riscontrato parallelamente che ben il 19% sul totale degli
educatori con un notevole rialzo nel 2005-2006, pur avendo avuto informazioni sulla programmazione didattico-educativa personalizzata non ha ricevuto in copia il Pep.
Questa percentuale sopravanza addirittura il dato numerico relativo agli educatori che non hanno ricevuto
informazioni e non possiedono il Pep, attestato intorno al 10%. Da rilevare, infine, come significativa anche
la sequenza numerica relativa ai dati incompleti, in rialzo nel tempo e con una incidenza considerevole pari
al 36% sul totale degli educatori della cooperativa.
Quindi, provando a trarre alcune considerazioni, si può osservare che questi dati evidenziano, da un lato
con la percentuale dei dati incompleti, come l’educatore sia ancora scarsamente consapevole dell’importanza e della documentazione tecnico-progettuale sul minore in carico, dall’altro con i dati relativi al non
possesso del Pep, come ci sia tuttora all’interno della scuola, pur essendo l’educatore una figura che mantiene il segreto professionale sui dati sensibili degli allievi seguiti e sul proprio ambito di lavoro, una non
comprensibile reticenza a consegnare all’educatore la documentazione necessaria per la progettazione del
proprio intervento educativo a favore del minore con handicap in carico.
69
1.5.6. La partecipazione dell’educatore agli incontri del Gruppo Operativo convocato dalla
scuola nei servizi di assistenza handicap
A conclusione di questa ultima sezione si espongono i dati numerici in tabella e in grafico che rilevano la
partecipazione dell’educatore agli incontri del Gruppo Operativo, convocati dalla scuola nel corso del tempo e nei diversi quartieri della città.
Analogamente a quanto già spiegato in precedenza, anche in questo caso ci si è avvalsi per questa rilevazione delle risposte fornite dall’educatore nella relazione finale dei servizi di assistenza handicap, nella quale viene chiesto all’educatore di segnalare se durante l’anno scolastico il Gruppo Operativo è stato convocato dalla dirigenza scolastica e se ha partecipato agli incontri di verifica con il team di lavoro (insegnanti di
classe e docenti specializzati, educatore dell’ente locale e tecnici sanitari).
70
Grafico 24 - Partecipazione agli incontri del gruppo operativo da parte dell’educatore nei servizi di
assistenza handicap - Dati complessivi per anno scolastico
180
Sì - Sì
160
Sì - No
140
No - No
120
Dati Incompleti
100
80
60
40
20
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Emerge chiaramente in questo grafico, che mostra i dati complessivi dei quartieri nel tempo, il dato numerico estremamente positivo di chi ha risposto in modo affermativo a entrambe le domande, con una percentuale molto alta pari all’85% sul totale degli educatori.
Si evidenzia poi, anche qui attestato intorno al 10%, il dato numerico degli educatori con risposte negative,
che hanno cioè segnalato che il Gruppo Operativo non è stato convocato e che non hanno partecipato agli
incontri collegiali. È da rilevare, infine, la sequenza numerica relativa ai dati incompleti, che qui ha un’incidenza meno consistente, pari al 20% sul totale degli educatori.
A differenza della rilevazione numerica esaminata nel paragrafo precedente, in quest’ultimo caso si può
trovare, invece, una prima e importante dimostrazione tangibile del coinvolgimento attivo dell’educatore e
della sua partecipazione oramai consolidata nel tempo ai momenti collegiali e istituzionali di verifica sugli
interventi educativi realizzati a favore dei minori con disabilità.
71
1.6. IL RUOLO DELL’EDUCATORE
di Caterina Segata
1.6.1. Premessa
L’ultimo capitolo è dedicato a fornire la nostra lettura del ruolo che svolge l’educatore che opera in ambito
scolastico a favore dell’integrazione dei minori con disabilità. Le domande a cui tenteremo di rispondere
sono: chi è l’educatore e qual è il suo ruolo nella scuola.
L’educatore nella scuola è, in primo luogo, una risorsa: è una figura professionale che opera in ambito scolastico, e non solo, accompagnando e sostenendo gli alunni con disabilità nel loro percorso di inserimento e
integrazione nel contesto scolastico.
Mette in campo competenze educative e metodologie di lavoro che contribuiscono alla lettura dei bisogni
dei bambini e dei ragazzi e all’individuazione di soluzioni progettuali adeguate. Abbiamo scelto con attenzione il termine ‘contribuiscono/contribuire’ per mettere in luce una caratteristica fondamentale del lavoro
dell’educatore: l’educatore lavora insieme.
Lavora insieme agli insegnanti e alla famiglia, lavora insieme al neuropsichiatra e a tutte le figure professionali che a diverso titolo sono coinvolte nella realizzazione del progetto di vita del minore seguito. Questa
caratteristica evidenzia la necessità di saper lavorare insieme, mettendo in comune osservazioni, riflessioni,
idee e soluzioni, capacità e competenze.
Perché possa funzionare il lavoro del gruppo impegnato a favore del percorso di integrazione scolastica degli alunni con disabilità, è condizione necessaria che tutte le figure siano impegnate e fortemente coinvolte
nella realizzazione dei progetti e che ne condividano gli obiettivi.
Questa condizione necessaria si realizza anche attraverso l’individuazione di tempi dedicati alla costruzione
del lavoro comune. Ci riferiamo innanzitutto all’importanza di individuare tempi di lavoro non frontali con i
minori, che consentano la programmazione e la verifica collegiale degli interventi educativi e didattici.
In secondo luogo, riteniamo fondamentale, anche richiamandoci ai contenuti espressi all’art. 14 della Legge
104/92 e all’art. 5 dell’Accordo Provinciale di Programma (vedi capitolo 2 Il quadro normativo), la realizzazione di percorsi di aggiornamento e formazione che coinvolgano tutte le figure che a vario titolo sono impegnate nel percorso di integrazione (insegnanti curricolari, docenti di sostegno, educatori, collaboratori
scolastici, formatori etc.).
72
La proposta è quella di individuare risorse e una possibile metodologia di raccordo tra i diversi enti interessati per l’organizzazione e la gestione di tali attività, che potrebbero configurarsi, ad esempio, come brevi
iniziative seminariali ad inizio dell’anno scolastico o come percorsi formativi specifici sui temi della disabilità e dell’integrazione scolastica.
La finalità generale di questi percorsi, oltre quella di approfondire tematiche di carattere specifico per la riduzione e il superamento dell’handicap, è quella di informare e sostenere il lavoro quotidiano delle figure
coinvolte attraverso una conoscenza reciproca dei diversi ruoli e competenze.
La formazione congiunta in situazione è, dal nostro punto di vista, uno degli strumenti più efficaci per il raggiungimento di percorsi di integrazione di qualità, attraverso un impiego coordinato delle risorse.
Un ultimo aspetto, che preme sottolineare, riguarda il rapporto tra il ruolo dell’educatore e il tempo di vita dei
minori con disabilità. Quando parliamo di integrazione scolastica corriamo il rischio di limitare il nostro campo visivo al progetto educativo che viene realizzato nella scuola. Una vera integrazione però non è solo scolastica, ma è sociale, così come il progetto educativo è parte di un più ampio progetto di vita, che lo ricomprende e con il quale è necessariamente integrato.
L’educatore è la figura privilegiata in tutte quelle situazione dove si evidenzia la necessità di garantire una
continuità educativa. E’ in questo senso una professionalità flessibile, che può accompagnare i minori nel
delicato passaggio tra i diversi gradi scolastici e tra il mondo scolastico e il mondo del lavoro e garantire coerenza tra l’esperienza vissuta a scuola e l’esperienza vissuta nel tempo extrascolastico.
1.6.2. Gli educatori dei servizi assistenza handicap
Riteniamo utile aprire questo capitolo riprendendo la tabella 5 che mette in evidenza il numero totale degli
educatori, che hanno lavorato nei servizi di assistenza handicap gestiti dalla cooperativa a Bologna suddivisi per quartiere e per anno scolastico.
73
Grafico S2 - Serie storica degli educatori nei servizi di assistenza handicap
300
200
100
144
149
+3%
157
+5%
188
+20%
0
2002/2003
2003/2004
2004/2005
2005/2006
Aggiungiamo inoltre i dati che riguardano la continuità degli educatori anno per anno. La tabella suddivide
il totale degli operatori tra nuovi inserimenti sui servizi ed educatori che hanno lavorato in continuità con
l’anno scolastico precedente.
I dati evidenziano che il 66% circa degli educatori impegnati nei servizi ha lavorato in continuità, anche a
fronte dell’aumento del numero totale degli educatori.
Grafico 25 - Continuità degli educatori sui servizi di assistenza handicap per anno scolastico
120
Educatori nuovi
100
80
Educatori
in continuità
60
40
20
0
2003-2004
74
2004-2005
2005-2006
1.6.3. Anzianità di servizio
Riteniamo importante partire dal mettere in luce le caratteristiche professionali di questi operatori, presentando i dati relativi ai titoli di studio, agli attestati professionali e all’anzianità di servizio degli educatori della cooperativa, che hanno lavorato nei servizi di assistenza handicap a Bologna negli ultimi quattro anni
scolastici.
La tabella 14 mette in evidenza per ogni quartiere l’anzianità di servizio degli educatori che hanno svolto
almeno un intervento educativo negli anni scolastici presi in considerazione.
L’anzianità degli educatori è espressa in anni solari, e quindi 2 anni corrispondono a 24 mesi di lavoro in
servizi analoghi. La riga Totali esprime l’anzianità media degli educatori su tutti i servizi nell’anno (chi ha effettuato servizi su più quartieri viene conteggiato solo una volta).
Grafico S5 - Anziatà media degli educatori impiegati nei servizi di assistenza handicap
5,00
4,00
3,40
3,00
3,97
3,40
3,01
2,00
1,00
0,00
2002/2003
2003/2004
2004/2005
2005/2006
Il dato complessivo, che viene ripreso nel grafico S5, evidenzia un andamento tendenzialmente: una media
di 3,5 anni solari di anzianità, pari a 42 mesi, che corrispondono a 4 anni scolastici. Questo dato appare ancora più positivo se messo in relazione all’aumento del numero di educatori che si è verificato di anno in
anno. Dal grafico S3, riportato in premessa, vediamo infatti che ogni anno scolastico gli educatori sono aumentati mediamente del + 9%.
75
Il mantenimento nel tempo di una media superiore ai tre anni di anzianità del personale educativo, a fronte
di un aumento unitario medio del + 9%, evidenzia quindi una forte stabilità del personale, elemento fondamentale nei servizi alla persona e obiettivo prioritario della cooperativa.
1.6.4. Titoli di studio
Passando ora ai titoli di studio posseduti dagli educatori, che hanno lavorato a Bologna negli ultimi 4 anni
scolastici, partiamo da una prima lettura che suddivide il totale degli educatori tra chi ha conseguito un diploma di maturità e chi ha conseguito un diploma di laurea.
Con il passare del tempo gli educatori in possesso di una laurea sono aumentati costantemente fino a superare gli educatori con un diploma di scuola secondaria superiore: nell’anno scolastico 2002-2003 i laureati rappresentano il 31% degli educatori, nel 2005-2006 raggiungono il 51% del totale.
Grafico 26 - Titoli di studio degli educatori dei servizi assistenza handicap per anno scolastico
100
Laureati
80
Non laureati
60
40
20
0
2002-2003
2003-2004
2004-2005
2005-2006
Per fornire un’analisi sulle competenze che gli educatori che operano a scuola mettono al servizio del loro
lavoro riteniamo utile approfondire l’analisi dei titoli di studio attraverso una lettura dell’attinenza all’ambito educativo dei diplomi di maturità e di laurea.
76
Come è possibile vedere nella tabella 16 la percentuale di attinenza stretta all’ambito educativo delle lauree conseguite dagli educatori supera la media del 54% ogni anno, a cui si aggiungono le lauree in discipline umanistiche, che superano il 32%. Alle lauree non attinenti rimane il solo 14%. I diplomi di laurea presi in
considerazione nell’analisi dell’attinenza sono quelli in pedagogia (ex magistero), scienze della formazione
e psicologia. Mentre le lauree in discipline umanistiche sono in scienze politiche e lettere e filosofia.
Per dare una lettura delle diverse tipologie nell’insieme delle lauree attinenti e in discipline umanistiche,
forniamo i dati relativi al solo 2005-2006. Emerge chiaramente una predominanza delle lauree in scienze
della formazione. Aggiungiamo che il 90% (40 su 45) delle lauree conseguite presso le facoltà di scienze
della formazione sono lauree in scienze dell’educazione, indirizzo educatore professionale.
Grafico 27 - Analisi lauree attinenti e lauree in discipline umanistiche - a.s. 2005-2006
10% Psicologia
7% Pedagogia
11% Scienze Politiche
53% Formazione
19% Lettere e Filosofia
Passiamo brevemente ai dati sui diplomi di scuola superiore e ci accorgiamo che, anche in questo caso, i diplomi attinenti all’ambito educativo in senso stretto sono la maggioranza (42% media nei quattro anni), a
cui si aggiungono i diplomi di maturità classica, scientifica e linguistica (25%) e le maturità artistiche (8%). I
diplomi non attinenti sono pari al 26% medio nei quattro anni.
I diplomi di scuola superiore presi in considerazione nell’insieme “magistrale e affini” sono: diploma di maturità magistrale, diploma di maturità rilasciato dal liceo socio-psico-pedagogico, diploma di dirigente di
comunità, diploma di tecnico dei servizi sociali e assistente di comunità infantile 46.
46.
L’accordo di programma territoriale area nord all’art. 16.2 “Figure Professionali Sociali” individua un elenco di titoli di studio e di requisiti che devono essere in possesso degli educatori che operano nelle scuole di quel territorio. Si tratta a livello territoriale dell’unico documento che entra nel merito dei requisiti di questa figura professionale, fornendo un orientamento agli enti locali per le procedure di selezione dell’ente gestore.
77
1.6.5. Qualifiche professionali
Un ultimo approfondimento riguarda il possesso di attestati di qualifica professionale o di corsi di specializzazione.
Al fine di rendere il più snella possibile la lettura dei dati abbiamo riunito i diversi attestati in categorie, trattandosi di un ambito dove le differenze di denominazione sono molte, anche a fronte della provenienza regionale di ogni titolo specifico.
Gli attestati di qualifica di educatore professionale rappresentano il 30% medio degli attestati nei quattro
anni presi in considerazione, superato solo dai diversi attestati (qualifiche professionali e corsi di specializzazione) conseguiti dagli educatori per raggiungere le competenze necessarie per svolgere interventi di
mediazione della comunicazione a favore di minori con deficit sensoriali.
Operano nei servizi anche alcuni educatori che, oltre al diploma di scuola superiore, sono in possesso di
qualifiche professionali specifiche dell’ambito dei servizi socio assistenziali: Operatore Socio Sanitario, Assistente di Base, Infermiere Professionale e Assistente Sociale.
Questo è il risultato delle politiche del lavoro messe in atto dalla cooperativa, che facilitano le mobilità orizzontali e verticali dei soci che prestano la loro opera nei diversi settori della cooperativa. Oltre ai servizi
educativi e scolastici rivolti ai minori, Società Dolce infatti opera nell’ambito dell’assistenza agli anziani e
dell’integrazione sociale delle persone che vivono situazioni di disagio e di handicap.
Quando un socio, che opera da anni in un settore, ritiene di volere “cambiare”, i coordinatori sostengono, nei
limiti delle disponibilità lavorative e dopo un’attenta valutazione delle capacità e delle competenze, il percorso di mobilità, consapevoli del fatto che nell’arco della vita lavorativa è necessario per alcune persone
trovare una rinnovata motivazione cambiando contesto lavorativo.
1.6.6. Inquadramento del ruolo
L’integrazione scolastica e sociale è un processo che si fonda sulla centralità della persona con disabilità insieme alla sua famiglia, nella globalità dei suoi bisogni, delle sue caratteristiche e delle sue potenzialità.
78
Porre al centro dell’attenzione e dell’intervento la persona è il presupposto per la costruzione del progetto
di vita, alla cui realizzazione concorrono attraverso un lavoro di rete integrato tutti i soggetti, istituzionali e
non, che a vario titolo sono coinvolti.
Per rispondere efficacemente ai bisogni educativi speciali che si possono prospettare è indispensabile, inoltre, che ogni figura coinvolta nel processo, anche esterna alla scuola, abbia una specificità di ruolo e di funzione, riconosciuti e legittimati reciprocamente, in un’ottica di corresponsabilità nella costruzione di un’azione coordinata e di una comunità educativa integrante.
Ogni figura costituisce, quindi, una risorsa fondamentale per contribuire ad elaborare una visione il più possibile globale della realtà della persona in situazione di handicap. Dal punto di vista metodologico e operativo si tratta di passare dalla logica del sostegno individuale a quella della rete dei sostegni, costituita sia
dagli apporti delle figure presenti nella scuola, sia dalle risorse esterne. Tra le figure professionali che in modo significativo concorrono al processo di integrazione vi è l’educatore che svolge la propria attività all’interno delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado.
Il suo ruolo è caratterizzato da autonomia professionale: osserva, progetta e verifica il proprio intervento, attraverso specifiche competenze tecniche e di tipo progettuale, propone e collabora attivamente nell’individuazione dei bisogni dell’alunno e dei contesti, contribuendo in particolare all’individuazione di strategie e
strumenti adeguati per rispondere a bisogni specifici e valorizzare le potenzialità del minore con handicap.
L’educatore possiede competenze tecniche, relative a specifiche metodologie di lavoro e abilità, competenze relazionali, legate alla costruzione e alla gestione della relazione di aiuto, competenze sociali, finalizzate
al lavoro all’interno di un gruppo di persone, alla lettura e analisi dei contesti, all’attivazione di risorse e alla
costruzione di una rete di collegamento tra i diversi interventi.
Il lavoro dell’educatore è infatti complementare a quello di altre figure impegnate nel processo di integrazione e, in questo senso, collabora in modo collegiale e coordinato con i soggetti coinvolti nella programmazione e nella realizzazione del progetto didattico-educativo per il minore disabile, realizzando interventi
educativi individualizzati in un ruolo di supporto a tutta la classe e non solo al minore con handicap inserito, in coerenza con l’obiettivo della più ampia integrazione possibile. Nella presa in carico e cura delle situazioni che si creano nel contesto scolastico e che coinvolgono inevitabilmente tutti i componenti del gruppo, l’educatore, assume pertanto un ruolo attivo all’interno del gruppo-classe, configurandosi sempre più
come risorsa con competenze specifiche, che progetta e realizza percorsi educativi finalizzati al benessere e
allo sviluppo non solo del minore con disabilità, ma anche del suo gruppo di appartenenza.
È molto importante sottolineare che ogni progetto di sostegno educativo si differenzia in base agli obiettivi da raggiungere, ma sempre l’educatore accompagna l’utente nel suo percorso di crescita e cambiamento per un tempo determinato e assume su di sé il processo di “educazione” nel significato etimologico, attraverso un’azione educativa intenzionale.
79
Egli non è un sostituto genitoriale né un amico, tentazioni spesso presenti nelle professioni di aiuto. È colui
che si trova a vivere quotidianamente a contatto con il minore e quindi a rispondere in termini immediati ai
suoi bisogni, svolgendo una funzione primaria di accoglienza e di ascolto. La centralità del minore, l’equilibrio tra risorse e conoscenze/capacità dell’educatore, il lavoro di gruppo sono gli elementi fondamentali
della metodologia di lavoro dell’educatore.
Una parte rilevante del suo intervento è dedicata al lavoro di cura e relazione di aiuto svolta con il minore
disabile nei seguenti ambiti: autonomia personale, integrazione nel gruppo classe e nelle attività scolastiche, relazione e supporto alla costruzione dell’identità, integrazione tra scuola e territorio, connessione tra
attività didattiche e vita di relazione.
L’educatore offre, inoltre, un importante elemento di flessibilità per la continuità educativa in diverse situazioni ed i passaggi di grado scolastico degli alunni con handicap. Si configura in questo senso come una figura privilegiata che attraverso una professionalità flessibile può accompagnare il minore disabile nel delicato passaggio tra i diversi livelli di scolarità, tra il mondo scolastico e il mondo del lavoro e tra la scuola e
gli altri contesti extrascolastici di vita quotidiana, rappresentando un importante elemento di stabilità e di
continuità dell’azione educativa.
In altri casi, attraverso progetti scolastici formativi più complessi, l’intervento dell’educatore può fornire una
risposta a bisogni educativi diversi che originano da condizioni di disagio sociale, svantaggio o differenze
linguistiche e culturali, realizzando percorsi educativi che prevedono, ad esempio, attività laboratoriali integrate rivolte non solo al singolo minore con handicap.
L’azione dell’educatore, che interviene di solito in situazione di grave disabilità, può rappresentare infine
anche un importante supporto all’interno della famiglia in caso di ricoveri o malattie frequenti del minore
disabile, attraverso l’attuazione di progetti ponte, che trasferiscono le risorse educative previste in ambito
scolastico presso le abitazioni dei minori disabili.
L’educatore concorre, pertanto, a sostenere attivamente l’integrazione tra progetto di vita e progetto educativo scolastico, fornendo i supporti educativi necessari a garantire completezza e continuità al percorso
di socializzazione e di autonomia dei minori disabili.
1.6.7. Le aree di intervento
Nel percorso d’integrazione scolastica dei minori con handicap, l’educatore trova una sua specificità nell’ambito dell’assistenza, dello sviluppo dell’autonomia e della comunicazione; questa tipicità consente di
collocare l’intervento educativo sia nella forma diretta: lavoro con il minore, sia in quella sociale e relazionale: lavoro nel contesto scolastico.
Queste due forme richiedono modalità differenziate: nel primo caso si tratta un’azione mirata all’aiuto individuale e alla proposta di strategie per dare risposta ai bisogni, mentre nel secondo viene assunta una funzione mediatrice bidirezionale tra il minore con handicap e il contesto scolastico. In questo ultimo aspetto,
80
l’azione dell’educatore si colloca in primis all’interno dell’istituzione scolastica: questo comporta la necessità di interagire con le norme, le regole, i tempi di tale organizzazione e soprattutto di partecipare e gestire
le relazioni con i soggetti che ne fanno parte (dirigenza, personale docente e non docente, segreteria). Ciò
richiede un alto investimento nell’interazione e richiede atteggiamenti collaborativi e cooperativi, competenze nella comunicazione, nelle modalità di negoziazione e condivisione delle decisioni.
Apertura al dialogo e al confronto, scambio comunicativo che l’educatore deve saper rivolgere anche alla
famiglia, componente irrinunciabile del processo di integrazione scolastica, la cui collaborazione viene invocata da più parti nei termini di coordinamento, partnership, dialogo aperto e costruttivo. È necessario sviluppare con i familiari un buon livello di fiducia reciproca per superare diffidenze e resistenze, per elaborare
un linguaggio e basi concettuali comuni, per un coinvolgimento propositivo e impegnato della famiglia nel
percorso educativo scolastico e nella realizzazione degli obiettivi educativi. Collaborazione operativa (partnership educativa) che significa lavorare, con le diverse competenze e ruoli, per uno stesso obiettivo a casa
e a scuola.
L’azione dell’educatore a scuola si colloca, dunque, all’interno di una progettazione educativa aperta, che
trova nella condivisione e nella cooperazione i presupposti della sua attuazione. Il suo intervento, in un ottica di costante ricerca, si definisce e si concretizza così all’interno del campo sociale, inteso come area dei bisogni espressi nella interazione con un contesto sociale e all’interno del campo educativo, come azione
tendente a produrre un cambiamento nel minore e/o nel gruppo e nel contesto in cui si colloca.
Le strategie concrete di intervento che l’educatore mette in atto sul versante sociale ed educativo si esplicano specificandosi nelle seguenti aree:
Area dell’autonomia
La partecipazione di un minore alle attività di un gruppo che non sia la famiglia comporta la necessità di
apprendere determinate competenze attinenti la gestione del proprio corpo e delle proprie cose, l’orientamento spaziale e la gestione dello spazio circostante. L’alimentazione, l’abbigliamento, la cura e la sicurezza
della persona rappresentano i contenuti pertinenti all’area dell’autonomia personale e ne costituiscono il
segmento iniziale. Infatti, il minore disabile che li acquisisce o che ne limita le difficoltà riesce a ridurre l’amplificazione della connotazione sociale dell’handicap. Un minore che presenta importanti deficit nell’autonomia richiede quindi un progetto ed un intervento mirati, continuativi e coordinati in modo da far ridurre
la dipendenza del minore dagli altri e favorire un “saper fare” autonomo. Questo ultimo aspetto è il principio ispiratore dell’intervento, il cui fine è il progressivo distanziamento del minore dall’adulto attraverso
l’acquisizione di abilità e l’utilizzo di facilitatori/ausili (mezzi e strumenti per la deambulazione, sussidi visivi,
acustici, informatici e software per l’apprendimento e l’integrazione).
Area relazionale
Questo obiettivo è strettamente collegato ai precedenti ed un soddisfacente raggiungimento di esso può
derivare solo da una sua corretta impostazione. Esso fa riferimento all’acquisizione e all’apprendimento
delle capacità relazionali rispetto all’ambiente, agli oggetti, agli altri minori, agli adulti. L’autonomia sociale
81
può essere costruita attraverso il potenziamento di abilità interpersonali, che permettono al soggetto di
avere una relazione adeguata e significativa con le persone che interagiscono con lui. In quest’area potremmo individuare due settori: normativo, relativo al rispetto delle regole di un contesto; interrelazionale, relativo alle forme sociali di saluto, di presentazione e di richiesta.
Area senso-percettiva
L’educazione dei sensi, lo stimolo ovvero dell’attività psichica attraverso gli organi di senso, è indispensabile nell’educazione dei minori con handicap in genere e in modo particolare dei minori con disturbi mentali,
per ristabilire una piena armonia senso-percettiva, come fondamento di tutto il successivo processo di sviluppo. I disturbi, le alterazioni senso-percettive, l’assenza delle vie relazionali di cui l’io dispone alterano infatti tutta la fisionomia psichica del minore e modificano sia la sua attività mentale sia la sua condotta pratica, talvolta in forma lieve e temporanea, talvolta in forma grave e durevole.
Area psicomotoria
Lo sviluppo della persona umana dipende dalla capacità e dalla possibilità di acquisire, organizzare e utilizzare tutta una serie di informazioni essenziali riguardo a se stessi. È in questo modo che le persone familiarizzano con il proprio corpo e imparano ad usarlo. Tuttavia vi sono persone che, per i motivi più vari, hanno
difficoltà nel ricevere ed elaborare queste informazioni. La loro interazione con l’ambiente circostante risulta limitata e, di conseguenza, l’immagine che sviluppano del proprio corpo può essere distorta. Per rompere questo potenziale circolo vizioso occorre rafforzare la consapevolezza del proprio corpo, attraverso il potenziamento delle abilità relative alla psicomotricità (esperienze di movimento strutturate per lo schema
corporeo e per il coordinamento delle abilità grosso/fini motorie e oculo-manuali).
Area cognitiva e linguistico-espressiva
Nell’ottica di un intervento volto a favorire un armonico sviluppo cognitivo e la relazione con l’ambiente
circostante è estremamente importante potenziare nel minore l’acquisizione di competenze in merito all’uso dei diversi linguaggi (del corpo, simbolici, dell’ambiente) e quindi al livello del comunicare. Gran parte
dei minori in situazione d’handicap presentano difficoltà linguistiche e comunicative: in alcuni casi, il linguaggio verbale e quello mimico-gestuale sono del tutto assenti e le stesse abilità di decodificazione sono
ridottissime. In altri, il linguaggio è presente, ma è scarsamente comunicativo e poco comprensibile, perché
non correttamente articolato. È necessario, dunque, progettare attività didattico-educative ampie e articolate sulle abilità linguistiche e, più in generale, su repertori di estrema importanza per la vita sociale. Avere
la possibilità di comunicare bisogni, sensazioni, desideri e possedere abilità e competenze nella decodifica
di testi scritti, nella comprensione di messaggi orali, nella sfera logico-matematica si configurano infatti come acquisizioni fondamentali per consentire al minore un adeguato sviluppo delle abilità cognitive e degli
apprendimenti sul versante didattico-disciplinare.
82
1.7. INDICE TABELLE
Tab. 0
Quadro comparativo relativo agli studenti iscritti nelle scuole della città di Bologna e ai minori
con handicap seguiti dalla cooperativa - a.s. 2005-2006
Tab. 1
Serie storica dei Servizi di Assistenza Handicap per anno scolastico e quartiere
Tab. 2
Serie storica delle scuole sedi dei Servizi di Assistenza Handicap per anno scolastico e tipo di scuola
Tab. 3
Serie storica dei minori con handicap in carico nei Servizi di Assistenza Handicap per anno scolastico e quartiere
Tab. 4
Distribuzione dei minori con handicap in carico nei Servizi di Assistenza Handicap per anno scolastico, quartiere e tipo di scuola
Tab. 5
Serie storica degli educatori nei Servizi di Assistenza Handicap per anno scolastico e quartiere
Tab. 6
Serie storica delle ore settimanali di intervento educativo assegnate ai minori con handicap nei
Servizi di Assistenza Handicap per anno scolastico e quartiere
Tab. 7
Serie storica delle ore medie settimanali di intervento educativo assegnate agli educatori nei Servizi di Assistenza Handicap per anno scolastico e quartiere
Tab. 8
Serie storica delle ore medie settimanali di intervento educativo assegnate agli educatori nei Servizi di Assistenza Handicap per anno scolastico e quartiere
Tab. 9
Serie storica dei dei minori con disabilità seguiti in continuità dalla cooperativa nei Servizi di Assistenza Handicap per anno scolastico e quartiere
Tab. 10
Serie storica dei passaggi di ordine scolastico dei minori con handicap seguiti dagli educatori della cooperativa
Tab. 11
Possesso del PEP e informazioni ricevute da parte dell’educatore nei Servizi di Assistenza Handicap per anno scolastico e quartiere
Tab. 12
Partecipazione agli incontri del Gruppo Operativo da parte dell’educatore nei Servizi di Assistenza Handicap per anno scolastico e quartiere
Tab. 13
Continuità degli educatori sui servizi di assistenza handicap per anno scolastico
Tab. 14
Anzianità media degli educatori impiegati nei servizi di assistenza handicap per anno scolastico e
quartiere
83
Tab. 15
Titoli di studio degli educatori per anno scolastico
Tab. 16
Analisi di attinenza dei diplomi di laurea per anno scolastico
Tab. 17
Analisi di attinenza dei diplomi di scuola superiore per anno scolastico
Tab. 18
Analisi di attinenza degli attestati di qualifica professionale e degli attestati di corsi di specializzazione per anno scolastico
1.8. INDICE GRAFICI
Graf. 0
Quadro comparativo degli studenti in situazione di handicap iscritti nelle scuole della città di Bologna in rapporto ai minori con disabilità seguiti dalla cooperativa - a.s. 2005-2006
Graf. 1
Serie storica dei servizi di assistenza handicap per anno scolastico e quartiere
Graf. 2
Serie storica delle scuole sedi dei servizi di assistenza handicap per anno scolastico e tipo di scuola
Graf. 3
Serie storica dei minori con handicap in carico nei servizi di assistenza handicap
Graf. 4
Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola. Borgo Panigale
Graf. 5
Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola. Navile
Graf. 6
Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola. Porto
Graf. 7
Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola. San Donato
Graf. 8
Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola. San Vitale
Graf. 9
Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola. Santo Stefano
Graf. 10 Distribuzione dei minori con handicap per anno scolastico e tipo di scuola. Saragozza
Graf. 11 Distribuzione dei minori con handicap per tipo di scuola, scuola dell’infanzia - a.s. 2005-2006
Graf. 12 Distribuzione dei minori con handicap per tipo di scuola, scuola elementare - a.s. 2005-2006
Graf. 13 Distribuzione dei minori con handicap per tipo di scuola, scuola media - a.s. 2005-2006
Graf. 14 Distribuzione dei minori con handicap per tipo di scuola, scuola superiore - a.s. 2005-2006
Graf. 15 Serie storica degli educatori nei servizi di assistenza handicap per anno scolastico e quartiere
84
Graf. 16 Serie storica delle ore medie settimanali di intervento assegnate ai minori con handicap nei servizi di assistenza handicap per anno scolastico e quartiere
Graf. 17 Serie storica delle ore medie settimanali di intervento in percentuale assegnate ai minori con
handicap nei servizi di assistenza handicap - a.s. 2005-2006
Graf. 18 Serie storica delle ore settimanali di intervento assegnate agli educatori nei servizi di assistenza
handicap - a.s. 2005-2006
Graf. 19 Serie storica delle ore medie settimanali assegnate agli educatori dalla cooperativa nei servizi di
assistenza handicap per anno scolastico e quartiere
Graf. 20 Serie storica delle ore settimanali di intervento assegnate agli educatori nei servizi di assistenza
handicap - a.s. 2005-2006
Graf. 21 Continuità dei minori con disabilità seguiti dalla cooperativa nei servizi di assistenza handicap dati complessivi 2002-2006
Graf. 22 Serie storica dei passaggi di ordine scolastico dei minori con handicap seguiti dagli educatori della cooperativa
Graf. 23 Possesso dei pep e informazioni ricevute da parte dell’educatore nei servizi di assistenza handicap - dati complessivi per anno scolastico
Graf. 24 Partecipazione agli incontri del gruppo operativo da parte dell’educatore nei servizi di assistenza
handicap - dati complessivi per anno scolastico
Graf. 25 Continuità degli educatori sui servizi di assistenza handicap per anno scolastico
Graf. 26 Titoli di studio degli educatori dei servizi di assistenza handicap per anno scolastico
Graf. 27 Analisi lauree attinenti e lauree in discipline umanistiche a.s. 2005-2006
Graf. S1 Serie storica degli interventi educativi nei servizi di assistenza handicap
Graf. S2 Serie storica degli educatori nei servizi di assistenza handicap
Graf. S3 Ore medie settimanali assegnate ai minori nei servizi di assistenza handicap
Graf. S4 Comparazione tra le percentuali di aumento relative a monti ore settimanali di intervento, numero di educatori e numero di interventi educativi
Graf. S5 Anzianità media degli educatori impiegati nei servizi di assistenza handicap
85
1.9. BIBLIOGRAFIA
Testi
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U.R.S., I.R.R.E., Regione Emilia Romagna, Emilia Romagna. Una scuola alla prova. Rapporto regionale 2005 sul
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Medeghini R. e Cavagnola R., L’assistente educatore nella scuola. Ad personam… un ruolo da ripensare, Vannini
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86
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Pergolotti P. e Gianferrari L. (a cura di), Per un’integrazione di qualità. Il contributo degli Accordi di Programma,
Franco Angeli, 2004.
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Normative
Costituzione della Repubblica Italiana.
Legge 8 novembre 2000, n. 328 Legge Quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi
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Legge 5 febbraio 1992, n. 104 Legge Quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.
Legge Regionale 8 agosto 2001, n. 26 Diritto allo studio ed all’apprendimento per tutta la vita. Abrogazione
della Legge Regionale 25 maggio 1999, n. 10.
Provincia di Bologna, 2001, Accordo Provinciale di Programma per l’integrazione scolastica e formativa degli
studenti in situazione di handicap.
Comune di Bologna, 2004, Accordo Territoriale per l’integrazione scolastica e formativa degli alunni in situazione di handicap.
Internet
www.disabilitaincifre.it
www.edscuola.it www.istruzioneer.it www.miur.it
www.provincia.bologna.it/handicap/accordo_programma.html www.pubblicaistruzione.it.
www.scuolaer.it www.superabile.it
87
88
2. “METTERSI IN GIOCO OGNI GIORNO”
1
Inchiesta tra gli educatori nelle scuole di Bologna
Anna Laura Diaco, Sebastiano Miele
appendice di Valerio Romitelli
Gruppo di ricerca di etnografia del pensiero
Dipartimento di discipline storiche - Università di Bologna
“Questa intervista mi ha fatto pensare cose
che sinceramente non avrei pensato, sono contenta,
perchè qualcuno ci ha dato modo di parlare.
In quanto educatrice, mi ha dato modo
di ragionare sulla figura dell’educatore.
Mi affido a voi, sperando che riusciate
a fare sentire il nostro urlo”
(Educatrice scuola media
Jacopo Della Quercia,
30-11-05)
89
Tutti i diritti sono riservati a Grep – Dipartimento di Discipline Storiche - Università di Bologna piazza San Giovanni in Monte, 2 - Bologna.
È vietata la riproduzione non autorizzata.
90
2.1. INTRODUZIONE
di Anna Laura Diaco
La ricerca di cui saranno qui esposti i risultati è stata commissionata e sostenuta dalla Cooperativa Sociale Società Dolce di Bologna nell’ambito di un progetto volto alla valorizzazione della figura, complessa quanto poco definita e riconosciuta, dell’educatore operante nei servizi di integrazione scolastica degli alunni disabili.
Ne sono autori due componenti del Grep, Gruppo di ricerca di Etnografia del pensiero, attivo presso il Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna e diretto da Valerio Romitelli, docente di Metodologia delle Scienze Sociali per le Facoltà di Lettere e Filosofia e di Lingue e Letterature straniere della
stessa Università. Il Grep si occupa di svolgere inchieste sulle parole e il pensiero di chi compie lavori esecutivi o affronta esperienze difficili, comunque con ruoli subordinati, all’interno di luoghi come fabbriche, centri di servizi sociali, associazioni di volontariato, scuole, cooperative sociali, con la finalità ultima di trarne
delle prescrizioni utili a migliorarne le condizioni 2. Al centro di queste inchieste stanno delle soggettività,
legate a un determinato reale, che si svolge in un determinato luogo, nel quale una determinata esperienza, dura, problematica, è resa possibile da tali soggettività. Strumento principale delle inchieste del Grep è
un questionario a risposta aperta, formulato in modo da essere passibile di rilanci e da costituire, dunque,
una sorta di guida per l’intervista, che viene così a configurarsi come un colloquio. Presupposto di questo
colloquio è che in esso si realizzi un incontro tra le due soggettività qui coinvolte: quella dell’intervistato e
quella dell’intervistatore, il quale si assume la responsabilità della riuscita dell’incontro stesso, intendendolo
come incontro tra due pensieri. Un incontro, dunque, tramite il quale egli si impegna a pensare il pensiero
di coloro su cui indaga, con la convinzione che la realtà sociale non sia qualcosa di oggettivo da scovare nei
discorsi altrui, ma che possa invece scaturire solo dal rapporto con l’altrui pensiero; che questo pensiero costituisca pura possibilità soggettiva, indagabile solo avendo la massima fiducia nelle parole e scommettendo che alcune di esse siano più importanti di altre, in quanto esse stesse problematizzano la realtà: non il
discorso che le lega. Per questo motivo, durante le interviste non interviene nessun supporto tecnico per la
1.
Citazione tratta dall’intervista ad un’educatrice in una scuola elementare di Bologna.
In questo testo si farà ampio uso di simili citazioni, poiché “per contenere il rischio di sacrificare le parole degli intervistati a profitto del
discorso che le riporta, non c’è che un modo: rispettare il più rigorosamente possibile alla lettera gli enunciati delle risposte, fare del rapporto una composizione i cui elementi costitutivi non sono che le parole degli intervistati” (Valerio Romitelli (a cura di), Etnografia
del pensiero. Ipotesi e ricerche. Roma, Carocci 2005, p. 129).
Gli enunciati degli intervistati saranno contraddistinti dal carattere corsivo.
2. I risultati di alcune delle inchieste condotte dal Grep sono consultabili, insieme a un’ampia introduzione metodologica, in Valerio Romitelli (a cura di), Etnografia del pensiero. Ipotesi e ricerche. Op. cit.; altro materiale è stato recentemente pubblicato su Inchiesta.Trimestrale di
ricerca e pratica sociale n.151, gennaio-marzo 2006, edizioni Dedalo.
91
registrazione, come il magnetofono o la videocamera, ma la trascrizione delle risposte avviene immediatamente e manualmente, o su supporto cartaceo, o tramite videoscrittura: in tal modo si investe l’intervistato
della massima responsabilità per le parole che usa, lo si invita a rilasciare delle dichiarazioni, non si cerca di
catturare ciò che alcuni definiscono “metasegni” 3, codici paralinguistici che vanno a integrare le parole (come tono di voce o gestualità), proprio perché non si scommette su altro che sulle parole con cui gli intervistati parlano della propria esperienza.
Le interviste agli educatori sono state realizzate durante l’anno scolastico 2005 - 2006, tra novembre e maggio, sui luoghi di lavoro, quindi all’interno di diverse scuole di Bologna, e non durante l’orario di lavoro, come prefiggerebbe la metodologia del Grep, ma a margine di esso, per motivi di ordine pratico, come l’impossibilità di lasciare solo un alunno assistito o di procedere all’intervista in una classe durante le lezioni.
Ogni intervista ha richiesto un tempo medio di due ore, quasi il doppio rispetto a quanto rilevato in altre inchieste simili. Questo può essere motivato sia dalla particolare complessità dei temi emersi, sia dall’eccezionale accoglimento da parte degli educatori dell’iniziativa come occasione unica in cui essere interpellati in
prima persona sul proprio lavoro e avere dunque una rara opportunità di poterci pensare su, nonché di
considerare l’utilità del pensarci su: in alcune risposte alla domanda “cosa pensa di questa intervista?”, che è
stata posta a tutti gli intervistati a fine colloquio, le parole “pensare”,“ragionare”,“riflettere”,“chiarificare” riferite alla propria esperienza danno la misura di questa necessità. Le risposte di due educatrici: Mi ha fatto pensare cose che sinceramente non avrei pensato; sono contenta, perchè qualcuno ci ha dato modo di parlare, in
quanto educatrice, mi ha dato modo di ragionare sulla figura dell’educatore. Mi affido a voi, sperando che riusciate a fare sentire il nostro urlo. E le risposte di due educatori: È utile riflettere anche su degli aspetti di cui
non ho mai riferito a nessuno; un momento di inquadramento, di chiarificazione da parte mia, nel momento in cui devi spiegare a un altro qualcosa. Si tornerà più avanti su questi enunciati.
Poiché si è deciso di lavorare su un campione piuttosto ristretto (20 su 319 educatori che lavorano per Società Dolce nelle scuole della provincia di Bologna), il campionamento ha comportato che si operassero numerose scelte, differentemente da come si è proceduto per altre inchieste del Grep, in cui la composizione
del campione è stata casuale, poiché ottenuta sulla sola base della partecipazione volontaria degli intervistati. Per mantenere comunque il principio di volontarietà, si sono scelti più soggetti per ogni “tipo” individuato, in modo da poter proporre al maggior numero possibile la collaborazione alla ricerca.
In prima battuta il campo d’indagine è stato ristretto ai soli sette quartieri di Bologna di competenza di Società Dolce (quindi a 188 educatori), escludendo dunque la provincia.
Lavorando su dati forniti dalla stessa cooperativa, è stato possibile operare sui seguenti parametri: sesso; livello contrattuale (V: educatore “non professionale”,“senza titolo” o “generico” 4 e VI: educatore professionale); tipo di contratto (a tempo determinato o a tempo indeterminato); anzianità di servizio (pur essendo il
3.
Cfr. Paolo Diana, Paolo Montesperelli, Analizzare le interviste ermeneutiche, Roma, Carocci 2005
In modi simili vengono designati gli educatori che lo sono di fatto, cioè che svolgono questa professione senza aver conseguito un titolo
specifico, ma avendo acquisito una formazione sul campo. Cfr. ad esempio CDH Bologna e CDH Modena (a cura di), con la collaborazione
di A. Canevaro, M.L. Giovannini, P. Sandri, Bambini, imparate a fare le cose difficili. Alunni disabili e integrazione scolastica, Edizioni Erickson
2003, un testo, rarissimo in letteratura, in cui viene contemplata la figura dell’educatore nella scuola, e in cui altresì si specifica che meno di
un terzo degli educatori scolastici possiede un titolo professionalizzante.
Nelle interviste nessun educatore si è definito o ha definito altri con analoghe locuzioni.
4.
92
dato disponibile solo nel caso degli educatori assunti con contratto a tempo determinato); distribuzione
nei quartieri; tipo di scuola (materna, elementare, media, superiore).
Tuttavia è da segnalare che il campione ottenuto a conclusione della fase inchiestante è risultato anche da
revisioni che si sono rese necessarie in itinere a causa di diverse difficoltà organizzative impostesi.
La rilevanza di tali difficoltà sta nel fatto di aver messo in luce già in fase preliminare sia alcune peculiarità
del lavoro di questi educatori nella scuola, come la fitta rete organizzativa e burocratica in cui si inserisce, o
la problematica identificazione del “datore di lavoro”: la realizzazione di ciascuna intervista ha comportato
che si informasse tramite lettera il pedagogista del Quartiere interessato; che si cercasse personalmente il
direttore didattico di ogni scuola per ottenere l’autorizzazione all’ingresso, o almeno che si ottenesse questa autorizzazione per interposta persona, facendo comunque recapitare una lettera di presentazione al dirigente (così è andata nella maggior parte dei casi, dopo numerosi tentativi falliti di ricerca di un contatto
diretto); che si contattasse telefonicamente ogni educatore rientrato nel campione per proporgli l’intervista
(operazione che solitamente non si compie nel caso della partecipazione volontaria, poiché in tal caso le
adesioni sono conseguenti alla divulgazione dell’iniziativa da parte dei dirigenti della realtà interessata). Le
reazioni negative ed i rifiuti ai contatti telefonici hanno condizionato nei tempi e nei modi l’inchiesta.
Il campione, che anche in conseguenza dei necessari rimaneggiamenti, si è cercato di far aderire il più possibile ai dati disponibili, risulta, infine, così composto:
12 donne, 8 uomini;
14 inquadrati contrattualmente con il V livello (educatori “non professionali”), 6 con il VI (educatori professionali);
7 assunti con contratto a tempo determinato, 13 con contratto a tempo indeterminato;
l’anzianità di servizio al momento dell’intervista è risultata essere compresa tra 1 e 15 anni, più in particolare svolge da 1 anno il lavoro di educatore nella scuola: 1, da 2 anni: 1, da 3 anni: 5, da 4 anni: 2, da 5 anni: 3,
da 6 anni: 3, da 7 anni: 1, da 8 anni: 1, da 9 anni: 2, da 15 anni: 1;
7 intervistati lavorano nel quartiere Navile, 4 nel quartiere San Donato, 3 nel quartiere Santo Stefano, 3 nel
quartiere San Vitale, 2 nel quartiere Porto, 1 nel quartiere Saragozza, il quartiere Borgo Panigale è stato
escluso per mancanza di disponibilità;
12 operano in scuole elementari, 5 in scuole secondarie superiori, 3 in scuole medie, le scuole materne sono
state escluse in base all’esiguità del numero e alla particolarità del lavoro rispetto alle scuole di altro livello;
dato rilevato a posteriori è l’età, compresa tra 22 e 47 anni;
anche il titolo di studio è un dato ottenuto dalle interviste: 7 possiedono una laurea non attinente al lavoro
di educatore, 7 un diploma di scuola superiore (2 di questi sono laureandi in Educatore professionale), 4
una laurea in Educatore professionale e 2 possiedono l’attestato di Educatore professionale rilasciato dalla
Regione Emilia Romagna;
in 10 non hanno esperienze lavorative precedenti all’attuale, mentre gli altri 10 hanno svolto attività distanti da quella odierna, prevalentemente nell’ambito di attività commerciali.
Il lavoro di inchiesta intrapreso col campione fin qui sommariamente descritto ha prodotto un materiale
corposo, di cui si cercherà di dare conto in queste pagine.
93
2.2. “CHE CI SIA UNA RETE DI RAPPORTI, È
QUELLO CHE IO CERCO”
di Anna Laura Diaco
2.2.1.“Quando dico che lavoro a scuola come educatore...”
“Assistenza domiciliare ad anziani, handicappati, malati di aids, minori; assistenza ai minori disabili a scuola
e in centri diurni; assistenza in casa di riposo di anziani; attività ricreativo-culturali; interventi in carcere con
adulti e minori; centri di accoglienza; centri di aggregazione giovanile; centri di iniziativa locale per l’occupazione; centri diurni di sostegno educativo per minori e per il recupero scolastico; centri semiresidenziali e
comunità per tossicodipendenti; comunità per adolescenti sottoposti a provvedimenti del Tribunale per i
minorenni; comunità per alcoolisti, per anziani, per disabili psichici adulti e minori, per malati di aids, per minori, per ragazze madri; consultorio familiare, consultorio geriatrico e per adolescenti e giovani; cooperative
integrate di lavoro; corsi di formazione per adulti; counselling; dormitori pubblici, asili notturni e mense
pubbliche; «educativa territoriale» con minori; formazione professionale con giovani drop-out; gruppi di auto aiuto (tra alcolisti, tra malati di aids, tra sieropositivi hiv, tra tossicodipendenti) gruppi di promozione sociale; informagiovani; iniziative sportive; interventi di prevenzione del disagio; istituti per anziani, per disabili, per minori; lavoro di strada con minori, con adolescenti, con tossicodipendenti; lavoro nel territorio; progetti adolescenti e progetti giovani; reinserimento sociale e lavorativo; reparti ospedalieri con minori; residenze protette; soggiorni estivi; interventi a favore degli immigrati. Questo elenco costituisce una mappa
sufficientemente attendibile della presenza attiva dell’educatore professionale nell’ambito di servizi sociali,
assistenziali, sanitari, culturali promossi dalle diverse articolazioni dello Stato e da organizzazioni di tipo privatistico e solidaristico” 5. Questo elenco è anche uno dei rari documenti in cui è esplicitamente contemplata l’attività degli educatori nella scuola. La ricerca bibliografica sul tema ha dato scarsissimi risultati: in un
modo che ci è apparso paradossale rispetto alla nostra ricerca, quando si parla della professione di educatore, si parla di educazione “extrascuola” 6 e alcuni corsi di Laurea attivati dalle Facoltà di Scienze della Formazione sono denominati “Educatore professionale extrascolastico”. Anche se il riferimento è semplicemente ad un’attività educativa ulteriore e complementare rispetto a quella scolastica, il ricorrere di questo “extra” è suggestivo di quanto nel panorama variegato del mestiere di educatore, segnato da uno scarso riconoscimento sociale 7, ricoprire questo ruolo dentro la scuola sia ancor più misconosciuto.
5.
tratto da Manifesto sugli educatori, consultabile su www.edscuola.it, Educazione&Scuola. Rivista telematica di educazione e formazione.
ad esempio A. Mongelli, La costruzione della professionalità dell’educatore, Franco Angeli, Milano 1997, dove, appunto l’educatore è
“educatore professionale extrascolastico”.
7. come lo sono, più in generale, le nuove professioni sociali (Cfr. Diaco, Miele, Peruzzi, Sarebbe il lavoro del futuro, in V. Romitelli (a cura di),
Etnografia del pensiero. Ipotesi e ricerche, op. cit., pp.266-271).
6. Cfr.
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Come lamenta un’educatrice in una scuola media, l’educatore anche a livello nazionale non è ben chiaro, è
considerato quello che lavora nelle strutture protette, nei centri diurni… Però non c’è ancora questa cultura dell’educatore scolastico, perché è tutto concentrato sul resto.
Nelle parole di questa educatrice professionale il proprio ruolo acquista la definizione di “educatore scolastico”: l’“extra”, che designa un’esclusione, cade, per lasciare il posto ad un’asserzione di inclusione nell’ambito scolastico, che comporta una quantità di differenze e particolarità rispetto ad altri ambiti. Innanzitutto,
lavorare come educatore dentro le scuole implica una difficoltà nell’affermare il proprio ruolo più accentuata che in altri contesti educativi.
Nelle interviste troviamo enunciati come quello di un’educatrice professionale in una scuola elementare:
C’è chi ci prende per ‘dade’... Non farei tutto quello che faccio se fossi una ‘dada’... c’è anche l’assistenza nel mio lavoro, ma non è solo questo; o quello di un’educatrice in un’altra scuola elementare: La cosa che mi colpisce di
più è che, quando dico che lavoro a scuola come educatore, mi dicono: «fai l’insegnante di sostegno»... No, faccio
un’altra cosa. Dunque non è mero timore di vedere sminuita la propria figura, ma desiderio di essere riconosciuti nella propria specificità di educatore, né più, né meno. Anzi, l’autrice dell’ultimo enunciato citato, a
maggior accentuazione di tale specificità, propone, anche ironicamente, di “cambiare nome” all’educatore
scolastico: Voglio cambiare il nome educatore: voglio essere un facilitatore dell’apprendimento e dell’integrazione, dello sviluppo delle capacità del bambino, educatore sembra un precettore austriaco...
Più avanti approfondiremo questo punto. Per ora ci preme notare che a monte della confusione del ruolo dell’educatore nella scuola sta il fatto che gli stessi riferimenti giuridici siano in materia poco espliciti. Citiamo a
proposito il già menzionato testo a cura di CDH Bologna e CDH Modena, in cui si riassume chiaramente la situazione:“Non esiste nella normativa alcun riferimento che espliciti in modo univoco il profilo richiesto per questo tipo di operatore all’interno delle istituzioni scolastiche. La stessa legge quadro sull’handicap, n. 104 del
1992 quando afferma che «spetta agli Enti Locali fornire assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli alunni con handicap fisici o sensoriali che frequentano la scuola» (L. 104/92, art. 13), non specifica il tipo di figura professionale che svolge tale funzione. [...] Successivamente la nota ministeriale del 30 novembre
2001, nell’affermare che l’assistenza di base agli alunni disabili è competenza della scuola, specifica anche che
spetta ai Comuni il «compito di fornire l’assistenza specialistica da svolgersi con personale qualificato sia all’interno che all’esterno della scuola, come secondo segmento della più articolata assistenza all’autonomia e alla
comunicazione» prevista dall’art. 13 della L. 104, individuando, a puro titolo di esempio, «figure quali [...] l’educatore professionale, l’assistente educativo, il traduttore del linguaggio dei segni o il personale paramedico psicosociale (proveniente dall’ASL), che svolgono assistenza specialistica nei casi di particolari deficit»” 8.
Aggiungiamo che, riguardo al caso specifico, neanche nella Legge Regionale dell’Emilia Romagna n. 26
dell’8 agosto 2001, in materia di diritto allo studio, si nomina l’educatore, ma si parla, nell’art. 5, di “personale
aggiuntivo”; l’Accordo Provinciale di Programma per l’Integrazione scolastica e formativa degli studenti in
situazione di handicap fa invece riferimento a “figure professionali sociali”. Ma, concretamente, i compiti previsti dalla Legge 104/92 sono attualmente svolti da educatori, soci-lavoratori di cooperative sociali, le quali
gestiscono gli interventi nelle scuole dati in appalto dal Comune. A Bologna le principali cooperative sociali
che forniscono questo servizio sono A.P.A.D. e Cooperativa Sociale Società Dolce.
8.
CDH Bologna, CDH Modena, Bambini, imparate a fare le cose difficili, op cit., p. 106
95
I Quartieri sono gli organismi cittadini che direttamente gestiscono i servizi scolastici e che dunque si occupano anche di bandire le gare d’appalto per l’assegnazione degli interventi stabiliti in accordo con le ASL e
con le scuole. Società Dolce, al momento della conclusione delle nostre interviste, gestiva i servizi educativi
scolastici in sette dei nove quartieri bolognesi.
2.2.2. “Vieni a contatto con tante figure, tanti ambiti... in più, tu chi sei?”
Questo semplificato quadro serve a dare le coordinate in cui collocare i “nostri” educatori: un’altra particolarità che comporta l’ambito scolastico, infatti, oltre alla già accennata confusione dei ruoli, è la molteplicità
di enti di riferimento che ruota intorno all’educatore.
I tre che risultano influire sulle condizioni di lavoro degli educatori intervistati sono Quartiere, Scuola e Cooperativa:
Il Quartiere viene nominato, quasi nella totalità delle interviste, come responsabile di un problema enunciato da molti con l’impeto della denuncia, dunque non possiamo esimerci dal riportare, come tale, alcune
delle risposte alle nostre domande “cosa pensa potrebbe migliorare le condizioni del suo lavoro?”, o “c’è un
problema in particolare che vorrebbe vedere risolto?”:
un educatore in una scuola superiore del quartiere Navile: Una cosa molto brutta è che alcuni educatori devono staccare dal servizio dopo sei giorni che il ragazzo non è a scuola (non riguarda il mio Quartiere) e non vengono pagati. Questa è una cosa molto brutta che dovrebbe essere trattata con lo sputo... l’ingiustizia per antonomasia;
un educatore in una scuola media del quartiere San Vitale: Fondamentale, relativa a questo Quartiere, San Vitale, e a qualcun altro, che noi educatori non veniamo pagati quando l’utente è assente. Se il bimbo è assente per
due settimane?! Tu salti;
un’educatrice in una scuola elementare del quartiere Santo Stefano: Che quando il bambino è assente mi facciano rimanere lo stesso a disposizione, invece se il bimbo che seguo io sta a casa, io sto a casa... ringrazio che sono bambini con la salute di ferro. San Donato e Navile pagano sei giorni -dipende dal Quartiere , non dalla cooperativa-, ho fatto il conto che sono i Quartieri con più casi sociali, zingari... forse è per quello, hanno più bisogno;
un educatore in una scuola elementare del quartiere Navile: Dipende da Quartiere a Quartiere: questo Quartiere ha la messa a disposizione per 6 giorni, la cooperativa dopo il sesto giorno ti dà altre destinazioni, ma se
non avviene, tu non hai sussidi e non vieni pagato: ufficialmente non sei disoccupato perché hai un contratto a
tempo indeterminato. Questo è un problema serio.
Per un’educatrice professionale in una scuola media del quartiere San Vitale dal Quartiere dipendono le
sorti stesse del lavoro di educatore: Il futuro ci potrebbe essere... dipende solo da quello, da quanti soldi può
spendere il Quartiere.
Precarietà e scarso riconoscimento economico, aspetti che paiono costitutivi del lavoro sociale in genere, risultano dunque, nel caso degli educatori a scuola, aggravati anche da questa problematica.
Ma i rapporti degli educatori col Quartiere passano anche attraverso la figura della/del pedagogista che si
occupa, fra l’altro, dell’assegnazione dei casi nelle scuole.
La riflessione che emerge dalle interviste su questa figura coinvolge anche altri attori, come il neuropsichiatra dell’Azienda USL e gli altri componenti del “Gruppo Operativo”: si tratta della necessità di maggior con-
96
fronto e supporto della propria attività da parte degli educatori. Nel punto seguente analizzeremo più in
dettaglio questa necessità.
La Scuola è il luogo dove i “nostri” educatori rendono possibile la loro esperienza e, come ci spiega chiaramente il più anziano tra loro, che fa l’educatore professionale in una scuola elementare, il rapporto con il
luogo incide sull’efficacia del lavoro: Perchè il lavoro sia efficace... bisogna intervenire su tutta la classe, su tutta
la scuola in pratica, mettendo in gioco le proprie competenze e attitudini... serve anche all’educatore ad individuare il proprio ruolo in una comunità, riconosciuto da tutti, e questo favorisce la considerazione che il bambino
può avere di lui e quindi l’influenza dell’educatore sul bambino.
“Individuare il proprio ruolo”, far sì che sia “riconosciuto da tutti” attraverso “competenze e attitudini”: dunque, l’affermazione della propria professionalità come strumento indispensabile alla riuscita degli interventi. “L’autorità professionale è anche strumento di definizione delle modalità di instaurare rapporti corretti
sia con l’utente sia con gli altri professionisti” 9, ma abbiamo già accennato a quanto il riconoscimento da
parte di “tutti” manchi. Una delle questioni più scottanti per i nostri intervistati è che manchi anche nella
scuola stessa:
La scuola non è abituata ancora a questa figura, è imbarazzante dice un’educatrice professionale in una scuola elementare e un’altra drammaticamente aggiunge: Noi educatori siamo ancora una categoria inesistente,
quindi cerco di tenermi in vita, di tenere in vita questo lavoro con qualsiasi cosa.
Ciò comporta anche poca chiarezza nelle mansioni, tanto che un’educatrice in una scuola media definisce
l’educatore un “tuttologo”: Il problema da risolvere è il riconoscimento della figura dell’educatore. Praticamente
in ogni scuola è un tuttologo: deve saper fare italiano, francese…, cambiare il bambino… invece nel mansionario della scuola c’è scritto che non deve fare didattica. Allora cerchiamo di riconoscere questa figura che non si sa
ancora bene cos’è.
Un’altra educatrice in una scuola media parla di “identità”, un’identità che faticosamente deve procurarsi il
riconoscimento da parte della molteplicità di figure che le ruotano intorno:
Bisogna lavorarci tanto affinché la tua identità sia riconosciuta... La cosa particolare degli educatori scolastici è
proprio questa... tu vieni a contatto con tante figure, tanti ambiti: quello dell’insegnante, quelli che si occupano
dell’integrazione a scuola, che sono gli insegnanti di sostegno... questa varietà di passaggi... in più, tu chi sei?...
Devi essere in grado di percorrere questi cammini concettuali, usare linguaggi diversi.
Tentiamo allora un’analisi dei rapporti che si instaurano nella scuola con i “colleghi”:
esclusi due casi, che danno precedenza agli altri educatori, quando gli intervistati parlano dei colleghi,
menzionano in primo luogo gli insegnanti “curriculari”, “di classe”, distinguendoli da quelli “di sostegno”, che
risultano avere un ruolo a sé stante. Il rapporto con gli insegnanti, che naturalmente annoveriamo fra le
particolarità del fare l’educatore dentro la scuola, costituisce una questione di grande rilevanza e assume
svariate sfumature.
A quanto pare il “riconoscimento”, con le accezioni diverse che vedremo, per i nostri intervistati manca anche
da parte degli insegnanti: Quello che consiglierei è di considerare la specificità di questo lavoro... E che gli altri,
come gli insegnanti, riconoscano questa specificità dice un educatore professionale in una scuola elementare.
9.
A. Mongelli , La costruzione della professionalità dell’educatore, op. cit., p. 25
97
Rispetto a quanto sembra avvenire nelle scuole elementari, nelle scuole medie e superiori il mancato riconoscimento della specificità dell’educatore da parte degli insegnanti assume, nelle parole degli intervistati,
quasi i contorni dell’ostilità:
Poi la figura dell’educatore è sempre stata vista come figura secondaria da insegnanti di sostegno e curriculari,
afferma un’educatrice in una scuola superiore e un’altra, educatrice professionale in una scuola media: Non
sempre ho trovato disponibilità da parte degli insegnanti. Ho avuto delle situazioni che proprio non ci volevano
in classe.
Un’educatrice che lavora sia in una scuola media che in una elementare, teorizza chiaramente questa differenza fra elementari e medie: Per quanto riguarda le insegnanti delle elementari, c’è un buon rapporto, di lavoro. Per quanto riguarda le insegnanti della scuola media, c’è un rapporto più freddo. Non ho idea da cosa dipenda... è un handicap che hanno tutti gli educatori: le maestre, le prof si credono sempre superiori. Se c’è qualche richiesta, la fanno all’educatore se non è il bidello: siamo usati come l’ultima ruota del carro. C’è questa differenza
fra elementari e medie.
E non è la sola a teorizzarlo esplicitamente: un altro educatore, che esercita sia alle elementari che alle medie, espone la propria tesi a riguardo, ravvisando un comune interesse per “l’elemento educativo” con gli insegnanti delle scuole elementari, contrapposto a un disinteresse per tale “elemento” da parte di chi insegna
nelle scuole medie. Riportiamo l’intero brano che spiega nitidamente questa idea:
Specialmente alle elementari, prima, seconda e terza, non so più di quanto si possa diversificare [il ruolo dell’insegnante da quello dell’educatore, n.d.r.], perchè l’elemento educativo e quello didattico si accompagnano, è
difficile scinderli. Invece alle medie, che hanno sicuramente cadenze di tempi e una struttura molto diverse dalle
elementari e ci sono molte più figure… molti professori… tante sensibilità diverse…: non gliene importa proprio
niente dell’elemento puramente educativo, guardano solo all’elemento di trasmissione di conoscenze e basta,
cosa che causa molti problemi, perché poi i preadolescenti hanno bisogno di essere molto seguiti, specialmente
in certe aree, lì è tutto in mano alla sensibilità dei prof … ci sono quelli con una grossa esperienza, che hanno
sensibilità e riesci a fare un lavoro interessante, sia prettamente educativo, ma anche didattico; con altri non succede, a volte diventi una sorta di guardiano/buttafuori degli elementi più aggressivi che ci sono in classe, cambia
da ora a ora, dipende dai prof, a volte diventi solo un escamotage: «prendi questi ragazzini e portali fuori prima
che li butto io fuori dalla finestra».
Da notare che questo intervistato usa la parola “diversificare” quando fa riferimento al contesto delle elementari, parla di un’impossibilità di “diversificare” il proprio ruolo di educatore da quello degli insegnanti in
quel contesto, introducendo così un’altra delle accezioni cui alludevamo riguardo allo scarso riconoscimento in ambito scolastico.
Ciò che sembra verificarsi nelle scuole elementari è spesso una sorta di idillio fra educatori ed insegnanti,
dovuto, tuttavia, a una specie di confusione dei ruoli, che, come spiega l’educatore appena citato, qui si verifica più facilmente che ad altri livelli. Un chiaro esempio viene dall’enunciato di una educatrice, naturalmente in una scuola elementare, che apprezza di sentirsi “messa alla pari” dalle maestre:
[I colleghi sono, n.d.r.] gli insegnanti di classe (con l’insegnante di sostegno non lavoro): sono soprattutto i rapporti con loro, sono buoni con tutti, anche perché mi trovo in un… lo chiamano team qui, di tutte persone giovani, tutte ragazze, non ti fanno sentire che sei diversa dalla maestra, è anche capitato che mi dicessero «vuoi fare
tu lezione?», sei messa alla pari loro, i bambini ti chiamano maestra”; similmente un educatore professionale,
in un’altra scuola elementare, parla di “equiparazione”:“Nell’immaginario collettivo nella scuola veniamo equi-
98
parati agli insegnanti perchè svolgiamo gli stessi compiti, avendo molte responsabilità, anche se queste non
vengono molto riconosciute. Per esempio, agli occhi dei bambini non c’è molta differenza.
Di fronte a questo però c’è chi rivendica un riconoscimento di specificità, come due educatrici in due diverse scuole elementari, che dicono, una: Qui danno molta fiducia e richiedono il tuo sostegno, l’educatore è una
figura che serve, diversa dalla maestra, che entra in rapporto con il bambino molto più direttamente, un rapporto più da amico, e l’altra: Come educatore, io penso di dovere avere un ruolo diverso, l’insegnante c’è già.
L’aspetto sotto il quale viene invece rivendicata una parità a tutti i livelli è quello del trattamento economico, nodo problematico per tutti gli intervistati: I colleghi sono insegnanti ed educatori: c’è distinzione solo di
stipendio, afferma un educatore in una scuola elementare e un’educatrice in una media: Le mie utenti sono
sempre in classe e quindi seguiamo una programmazione didattica. Sotto questo aspetto non c’è differenza con
gli insegnanti, se non sotto altri aspetti che possono essere quello economico; un’educatrice professionale in
una scuola media aggiunge, con le sue parole, questa disparità alle differenze comportate dal lavoro di
educatore dentro la scuola rispetto ad altri ambiti: Ti senti meglio in un posto dove si è tutti della cooperativa
Dolce, dove si è tutti pagati uguale, come una casa protetta.
È d’obbligo, a questo punto, un brevissimo cenno al tema del riconoscimento economico, incontestabilmente scarso per tutti gli intervistati, di cui riassumiamo con gli enunciati di due educatori, in due diverse scuole
elementari, le posizioni: Il problema della retribuzione... in quello sono incazzati, ma in tanti... è un grande problema, siamo sottopagati, lavoriamo il doppio delle ore, siamo pagati la metà [rispetto agli insegnanti, n.d.r.];
La cooperativa è palese che paga poco, tutti lo vedono, tutti lo tastano... ma questo poi si va a ricollegare con il discorso sulla figura dell’educatore... io non mi sento di dire che i colpevoli di tutto questo siano solo le cooperative.
Diamo per assodata la gravità di questo problema che pesa sul lavoro sociale in genere, auspicando che un
futuro maggior riconoscimento professionale dell’educatore scolastico, come delle altre figure che operano
nel sociale, porti con sé un conseguente riconoscimento economico.
Per tornare al tema altrettanto delicato che stavamo trattando, punto cruciale per tutti gli intervistati è che,
se gli insegnanti sono considerati colleghi prima di chiunque altro, significa che, in un modo o nell’altro, sono parte integrante del loro lavoro ed “agire di concerto” con loro fa parte del lavoro stesso, come spiega un
educatore professionale in una scuola elementare: È molto importante riuscire ad agire di concerto con loro
[gli insegnanti, n.d.r.], avere con loro uno scambio di vedute costante e quindi riuscire ad agire insieme senza
contraddirsi, ma è molto difficile; saper lavorare con gli insegnanti fa parte della capacità dell’educatore di
“tenere insieme tutti i pezzi”, come dice un’educatrice in un’altra scuola elementare: Penso che gli educatori
lavorano molto anche cogli insegnanti e c'è un rapporto anche con loro da creare, non è facile, bisogna capire
loro cosa s’aspettano, cosa mobilitare per far fare il percorso al bambino. Penso che l’educatore ha futuro se è capace di tenere insieme tutti i pezzi, ascoltare e entrare in rapporto con tutti questi e mi sembra molto difficile. Entrambi concordano sulla difficoltà di questo compito. Difficoltà che sicuramente è da ricercarsi nel lavoro
stesso di mediazione che caratterizza l’attività dell’educatore, come spiegano ad esempio un educatore in
una scuola elementare: Il mio lavoro sta nel mediare tra bambino, compagni e insegnanti e un educatore professionale in un’altra scuola elementare: Principalmente consiste nel mediare tra alunni, docenti...
Ma è da ricercarsi anche, come abbiamo visto e continueremo ad analizzare, nell’ambiguità dei ruoli, nell’incertezza di identità, che ostacolano il riconoscimento professionale di questi lavoratori.
I rapporti tra gli educatori e gli insegnanti di sostegno, abbiamo detto, sembrano costituire un capitolo a
parte: la questione in gioco in questo caso, al di là del riconoscimento, ma certamente con esso connessa,
99
pare essere “le ore” di lavoro. Ecco una descrizione data da un’educatrice professionale in una scuola elementare: L’educatore è la figura che ha più ore rispetto all’insegnante di sostegno, che non può svolgere 24 ore a
settimana: allora mi dovete spiegare perchè gli educatori possono svolgere 36-38 ore... io sono umana come
un’insegnante di sostegno statale, mi stanco uguale, ho lo stesso grado di tolleranza, però l’educatore deve tappare e fa risparmiare allo Stato, che non ha i soldi.
L’educatore come “tappabuchi” è un ritratto che ricorre nelle interviste: Sono a disposizione degli insegnanti
di sostegno, perché hanno una priorità a livello orario... prima l’insegnante di sostegno inserisce le proprie ore e
poi i buchi vengono coperti dall’educatore. Non ci troviamo mai insieme in classe, spiega, ad esempio, un’educatrice in una scuola superiore; lo definirei il completamento delle ore di sostegno, afferma un’altra, nel descrivere il proprio lavoro.
Per alcuni, invece, avere a disposizione un maggior numero di ore rispetto all’insegnante di sostegno diviene motivo di affermazione di un rapporto “diverso” con utenti, genitori e insegnanti: un’educatrice in una
scuola elementare dice: Il mio lavoro in realtà consiste nell’affiancare un po’ la figura dell’insegnante di sostegno, con la differenza che noi facciamo molte più ore e quindi abbiamo un rapporto diverso e con l’utente e con i
genitori e con gli insegnanti e un’altra, educatrice professionale in una scuola media, addirittura dichiara: Noi
siamo affiancati da insegnanti di sostegno statali, però con questi bambini hanno poche ore loro.
Non vogliamo negare che a proposito dell’insegnante di sostegno serpeggi tra gli intervistati una sorta di
legittima invidia del posto fisso, come tra l’altro emerge da una lucida analisi politico-economica proposta
da un educatore in una scuola elementare, che rileva un intento di alcuni educatori di uniformarsi a un’ideologia protezionista, vigente, a suo avviso, nel mondo della scuola:
Spesso ho sentito dire da maestri che tutto dovrebbe essere statale, con tutta una serie di protezioni nell’ambito
lavorativo, con quantità a livello remunerativo, tutto statale… questa è una posizione ideologica che c’è all’interno della scuola, per cui la cooperativa è vista come il nuovo sporco e brutto capitalista e alcuni educatori
sposano questa visione qua, anche perché c’è l’idea di entrare nella scuola e diventare gli ‘eletti’… non essere
mai licenziati.
Tuttavia ci sembrerebbe riduttivo fermarci a questo, poiché dalle interviste emergono altre due questioni
che paiono influire sul rapporto degli educatori con gli insegnanti di sostegno: i nomi di queste due questioni sono “isolamento” e “progettazione”.
Tra coloro che si pensano come “tappabuchi” rispetto all’insegnante di sostegno, abbiamo visto che una in
particolare specifica: Non ci troviamo mai insieme. Condizione che si verifica nella maggior parte dei casi,
tranne in quelli di particolare gravità, in cui è necessaria una certa compresenza di insegnante di sostegno
ed educatore. Abbiamo potuto notare come cambi radicalmente, in situazioni di collaborazione, la percezione della figura dell’insegnante di sostegno per gli educatori: Mi trovo a lavorare con lei [l’insegnante di
sostegno, n.d.r.], c’è un rapporto di massima collaborazione e condivisione, ci dice un’educatrice professionale in una scuola elementare; il che può anche migliorare la qualità del lavoro, che viene svolto con maggior
“serenità”, come ci spiega un educatore in una scuola superiore: In questo periodo si sta lavorando bene, si è
sereni e ci si consiglia, ho un buon rapporto con l’insegnante di sostegno, con la mia collega.
Invece nella maggior parte dei casi l’attività degli educatori è segnata da condizioni di “isolamento”, che pesano sullo svolgimento del lavoro stesso: La cosa più difficile è l’isolamento secondo me, perché molte volte si
esce dall’aula: a seconda della gravità dell’handicap, si passano ore e ore fuori dalla classe: è isolamento anche
dell’educatore, non solo dell’handicap... [passiamo queste ore, n.d.r.] nell’auletta handicap, da soli, confessa
100
un’educatrice in una scuola superiore e un educatore in una scuola elementare chiarisce: Lavorando di solito con un rapporto uno a uno, è difficile avere occasioni di confronto.
Spesso sono dunque l’assenza, l’impossibilità di “confronto” i nodi attraverso i quali passa il rapporto con
l’insegnante di sostegno e con i colleghi in genere.
La “solitudine”, altro argomento da annoverare tra le particolarità del lavoro di educatore dentro la scuola,
tornerà, fra poco, anche a proposito dei rapporti con i colleghi della cooperativa. Al momento, restiamo ancora sul capitolo insegnanti di sostegno per aprire una digressione sul ruolo dei “nostri” educatori rispetto
al tema della “progettazione”.
“Il ruolo dell’educatore è caratterizzato, o dovrebbe esserlo, da autonomia professionale: osserva, progetta e
verifica il proprio intervento; possiede, quindi, specifiche competenze tecniche e di tipo progettuale” 10. La
realtà, per quel che risulta dalle nostre interviste, è ben diversa:
un educatore in una scuola elementare parla di una “discrezionalità”, dipendente dalla “sensibilità” dei singoli,
che agisce sulle “regole” riguardanti la progettualità, chiarendo: Lavori integratamente col sostegno statale e
insieme porti avanti un progetto che è quello del sostegno statale: anche lì dipende dalle sensibilità, ci sono alcuni
che concertano con te il lavoro, ti consultano molto, altri che si fanno i fatti loro, te lo presentano e buonanotte.
Non ci sono regole ben precise o ci sono, ma la discrezionalità vale molto, specialmente quella degli statali;
anche un’educatrice professionale in una scuola elementare, riferendosi alla programmazione, dice: L’insegnante di sostegno è responsabile della programmazione, ha più responsabilità verso il dirigente didattico, io
faccio le stesse cose che fa lei, ma ho meno responsabilità, praticamente io eseguo quanto l’insegnante di sostegno ha stabilito a livello di programmazione.
Un’altra educatrice professionale in una scuola elementare parla di “mani legate”:
Purtroppo noi abbiamo le mani legate: noi educatori sembra che non possiamo fare progetti educativi, ci vuole
sempre la firma di qualcuno che spesso non è d’accordo con te e subentra la sedentarietà, si finisce sempre per
fare le stesse cose: vorrei più spazio, anche per accrescere la figura dell’educatore, perchè sembra che siamo i primi a fare questo percorso;
e c’è chi, convinto che dovrebbe spettargli almeno un ruolo di consulenza nella progettazione, prende l’iniziativa di sostituire l’insegnante di sostegno nell’elaborazione del Piano Educativo Personalizzato, come
un’educatrice in una scuola superiore, che spiega: L'insegnante di sostegno ha meno ore rispetto all’educatore, quindi sono quella che lo conosce meglio [il ragazzo, n.d.r.], frequento più materie, l’insegnante di sostegno
alla fine... non è così, e trovo giusto che non sia così. Come educatrice alla fine mi ritrovavo io a fare il P.E.P. [Piano
Educativo Personalizzato, n.d.r.], che spetta unicamente all’insegnante di sostegno, ma a livello di stesura l’educatore dovrebbe dare la sua opinione, un suo obiettivo, ma a livello progettuale spetta all’insegnante. Alla fine
l’educatore non viene pagato neanche per quello, alla fine uno lo fa per buon senso e per l’utente.
È a questo proposito che possiamo riprendere l’accenno alla figura del pedagogista di Quartiere, come figura rappresentante, insieme al neuropsichiatra dell’ASL, degli Enti di riferimento per gli educatori. Queste
figure compongono infatti, insieme al Dirigente scolastico e agli insegnanti, curriculari e di sostegno, anche
con la partecipazione dell’educatore interessato, il Gruppo Operativo (previsto dall’Accordo di Programma
Provinciale 11) responsabile della progettazione.
10.
11.
CDH Bologna, CDH Modena (a cura di), Bambini, imparate a fare le cose difficili, op. cit., p.109
Accordo di Programma della Provincia di Bologna, Cap. II, Art.12.
101
Tuttavia le riunioni dei Gruppo Operativo sono scarse durante l’anno (mediamente tre). Ma è proprio sulla
progettazione che molti degli intervistati, come, ad esempio, un’educatrice professionale in una scuola elementare, vorrebbero maggior confronto e informazioni costanti, più “collaborazione”, non solo da parte dell’insegnante di sostegno, ma anche da parte delle figure appena citate: La cosa più difficile è trovare collaborazione con altri operatori, le maestre, gli Enti, l’Asl, parlare di progetti... non si ha collaborazione da parte delle figure che lavorano con l’educatore. Un altro, educatore in una scuola elementare, chiede di dare più valore alla
figura dell’educatore, organizzando più incontri e colloqui con chi è al di sopra di noi nella cooperativa: referenti
di Quartiere, la responsabile dell’handicap...
Ricordiamo che stiamo parlando di un lavoro che non è un lavoro come gli altri, come afferma la stessa educatrice appena citata, è un lavoro in cui è difficile trovare sempre stimoli nuovi per il ragazzo, in cui a volte non
si sa se si fa bene o si fa male, in cui la cosa più difficile è trovare il modo giusto di intervenire, in cui ti senti frustrato, perchè magari quel giorno senti che il tuo lavoro non ha prodotto nessun risultato…Ti pone degli interrogativi anche sulla tua persona, ti mette in discussione, non so come spiegarmi.... Un lavoro nel quale avere il
maggior numero di informazioni possibile, essere almeno messi totalmente a parte dei progetti, se non
partecipare alla loro formulazione, avere dei supporti, incontrare delle persone che hanno seguito casi simili o
esperti, comunque avere maggiori informazioni su casi simili…oppure magari che ci fosse qualcuno, non so chi,
che ti dicesse stai procedendo bene, non ti devi preoccupare troppo, persone che magari ti rassicurano sul tuo
operato sarebbe decisivo, inciderebbe fortemente sulla sua stessa efficacia 12.
Prima di chiudere il punto dedicato alla scuola e passare a quello riguardante la cooperativa, vogliamo soffermarci su una questione che sta a cavallo tra l’uno e l’altro: il rapporto fra colleghi educatori. Abbiamo già
detto che due soli intervistati danno priorità a “gli altri educatori” nel parlare di colleghi. Semplice motivo
ne è il fatto che raramente accade che in una stessa scuola si crei un gruppo di educatori e, anche laddove
lavorano più educatori, come abbiamo già visto, lavorando di solito con un rapporto uno a uno, è difficile avere occasioni di confronto.
Infatti, quando, durante le interviste, stupiti dal fatto che non fossero menzionati i colleghi educatori, abbiamo posto domande dirette a riguardo, abbiamo ricevuto risposte come quella di un’educatrice in una scuola superiore: Questo è il primo anno con altri educatori, perché nell’altra scuola non ne avevo…; quella di un
educatore professionale in una scuola elementare: Non condivido molte esperienze, a parte un caso in cui eravamo in tre per necessità; o quella di un educatore in una scuola superiore: Da un punto di vista degli altri educatori, ho pochi rapporti, non tanto nel momento di lavoro... faccio due chiacchiere, ma neanche troppo... puoi parlare dei problemi che hai con la cooperativa, lamentele....
Facciamo cenno a questo aspetto per inserirlo nel novero delle particolarità del lavoro di educatore nella
scuola rispetto ad altri contesti, dove solitamente ci si trova ad operare in gruppi di lavoro, come esemplifica l’enunciato di un educatore in una scuola elementare: In senso stretto i colleghi ufficiali sarebbero gli educatori al sesto livello nella scuole, ma con quelli non ci lavoro... I campi estivi, i campi solari sono le occasioni in
cui lavoriamo insieme: lì c’è un referente e poi abbiamo tutti lo stesso status giuridico, lì si può parlare di rapporti
con colleghi, invece ora quelli col mio stesso status li vedo una volta al mese.
12. Gli enunciati riportati in questo brano appartengono, in ordine, a: un’educatrice in una scuola elementare (il primo), un educatore in
un’altra scuola elementare (il secondo e il terzo), un’educatrice professionale in una scuola elementare (il quarto e il quinto).
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La Cooperativa costituisce, per i nostri intervistati, quel “datore di lavoro” dall’identità vaga cui ci riferivamo
all’inizio. Spiegano chiaramente cosa intendiamo con ciò un’educatrice e un educatore, entrambi in scuole
elementari: l’una dichiara: La cooperativa è un datore di lavoro come potrebbe essere un qualsiasi altro ufficio,
uno potrebbe essere anche un libero professionista e sarebbe uguale; l’altro afferma: Questo lavoro in se stesso
ti dà, diciamo, anche una discreta libertà d’azione, perché tu fai parte di una cooperativa, ma di fatto lavori in
una struttura che è altra: un po’ buffo perché ti aggiri come una sorta di libero professionista in una struttura di
salariati statali… Quindi il rapporto con la cooperativa è minimo.
La “discreta libertà d’azione” di cui parla questo educatore non è tuttavia priva di conseguenze problematiche per la maggior parte degli intervistati: nuovamente si presenta il tema della carenza di supporti sul lavoro, perchè, per molti, lavorare “in una struttura che è altra” da quella cui si apparterrebbe comporta una
difficoltà nel trovare dei riferimenti chiari e immediatamente disponibili. C’è chi addirittura sente la mancanza di un “capo”, come un’educatrice in una scuola elementare, che lamenta: Gli insegnanti il loro capo ce
l’hanno, perché è qui il dirigente, ma il dirigente non è il mio capo. Le scarse relazioni che, inoltre, paiono intercorrere tra scuola e cooperativa creano un ulteriore vuoto nella soggettività degli educatori, che, come dice
una di loro, si sentono “allo sbando”: così siamo allo sbando. Noi abbiamo dei punti di riferimento, però mi sembrano delle frasi costruite; Sembra infatti che le altre figure che ruotano intorno all’educatore, oltre quelle già
menzionate, rappresentate da coordinatori e referenti della cooperativa, risultino, con le dovute eccezioni,
di difficile reperimento e che raramente entrino direttamente in contatto con la sfera scolastica: Mi piacerebbe che ci fossero degli scambi tra referenti, insegnanti di sostegno, insegnanti... invece vedo che tra scuola e
cooperativa non c'è molta comunicazione, dice un’educatrice professionale in una scuola elementare. Un’altra chiarisce con maggior precisione quali carenze crei questa scarsa comunicazione, proponendo anche
l’inserimento di una nuova figura “intermedia”: Potrebbe essere importante che ci fosse più contatto tra la
scuola e il referente, una figura intermedia che ci conoscesse direttamente: manca il contatto tra un mio referente e la scuola, un momento in cui io posso avere una persona anche più formata di me che venga a fare una supervisione a scuola insieme a me, per sapere come lavoro, cosa faccio, per conoscermi meglio, ma anche per avere un riscontro, un aiuto: questo sarebbe importante. Siamo un po' dati in prestito all’esterno come concetto, dopo veniamo lasciati lì, si poterebbe fare di più secondo me.
La necessità di una figura che monitori l’andamento del lavoro, che si occupi di avere una conoscenza diretta dell’attività di ogni singolo educatore, in modo da potergli fornire un supporto, viene dichiarata da più
parti: un’educatrice in una scuola superiore, ad esempio, lamenta: Il coordinatore della Dolce mi ha detto
«una volta in un anno veniamo a scuola a chiedere come andate»... Io non ho mai visto nessuno, e un’educatrice professionale in una scuola elementare conclude la sua intervista dicendo: Spero che le problematiche
emerse vengano visionate dal coordinatore del coordinatore che non sa chi sono.
Altro aspetto problematico riguardante la cooperativa è il suo ruolo rispetto alla formazione. Questo tema è
complesso e controverso: vi dedicheremo la seconda parte del rapporto. Per ora accenniamo soltanto che
l’aleatorietà del sapere formativo esistente giustifica sia gli atteggiamenti critici o cinici a riguardo, riscontrati da più parti, sia idee vagamente esoteriche sul tema, come pare dal racconto riportato da un’educatrice professionale in una scuola elementare: Quando ho cominciato, ho chiesto al mio referente «ma cosa fa l’educatore?» e lui mi ha risposto «una volta che inizierai, lo capirai da sola».
Se della formazione parleremo, dunque, più avanti, cerchiamo ora di dipanare la risposta sibillina di questo
coordinatore analizzando cosa gli intervistati pensano del proprio lavoro.
103
2.2.3. “L’opportunità di metterci te stesso”
Lo abbiamo chiesto esplicitamente ai “nostri” educatori cos’avesse di particolare il loro lavoro rispetto agli
altri e in molti casi la risposta a questa domanda ha implicato i momenti di maggior riflessione.
Trovo che questo lavoro ti dà l’opportunità di metterci te stesso, che non è mica poco, ha esordito un educatore
in una scuola elementare, spiegando poi che la differenza sta nello “spazio” lasciato alla “soggettività”: È un
lavoro che lascia discretamente spazio alla propria soggettività, puoi apportare e mettere nelle relazioni ciò che
sei e ciò può arricchire chi ti sta davanti, mentre a mio avviso molti lavori, se sei salariato, sei solo un funzionario
d’apparato, sei solo funzionale a un meccanismo produttivo, la tua soggettività non esiste, anzi, se la metti in
campo, può dar fastidio.
Inverte l’ordine un’educatrice in un’altra scuola elementare, la cui soggettività è invece oggetto di arricchimento: Di diverso c’è che oltre che avere un lavoro, accresci anche un po’ la tua vita.
Questa alternanza mette in luce un altro degli aspetti peculiari, che è lo scambio all’interno della relazione
fra educatori e ragazzi, il “dare-avere” di cui parla un altro educatore in una scuola elementare: Non è solo un
dare, è un dare-avere, questo lavoro ti chiede tanto, ma ti dà anche parecchio umanamente.
È evidente, perciò, che le caratteristiche speciali di questo lavoro sono indissolubilmente legate al rapporto
con i ragazzi che gli educatori seguono.
Un inciso necessario a questo proposito riguarda il taglio di genere (al femminile) che sovente si dà alle
analisi del lavoro sociale in generale, in quanto connotato come lavoro di cura. Solitamente evitiamo questo tipo di approccio, poiché riteniamo che spesso le categorie di genere sacrifichino le questioni del pensiero a distinzioni di tipo biologico, che il pensiero stesso si trovi ridotto a questione biologica. In questo caso sfioriamo il tema dando voce a un’educatrice in una scuola elementare, che, parlando proprio del rapporto con alcuni ragazzi, in un certo senso sfata il mito della “femminilizzazione” di questo lavoro: afferma
che in un’attività come la sua ci sono casi in cui una “figura maschile” diventa necessaria e andrebbe sostituita a quella femminile - prevalente - nella “gestione” di specifiche situazioni: Il problema più grave... diciamo la gestione dei ragazzini più grandi, di 4 o 5 elementi più grandi, che sono veramente... raggiungono dei livelli quasi da patologia secondo me… detto proprio ...
- Come lo risolveresti?Con una figura maschile, con la presenza di un educatore maschile che si dedichi unicamente a loro, una figura
maschile avrebbe molta più presa su di loro e dovrebbe coinvolgerli in attività come giocare, ma sempre controllati. Qui sono sempre circondati da donne che non hanno alcuna presa su di loro.
Tornando alla questione complessiva del rapporto dei nostri intervistati con i ragazzi che seguono, troviamo
che le parole che essi usano a riguardo sono poche, essenziali e condivise: varietà, pazienza, coinvolgimento/equilibrio, attesa, miglioramento = soddisfazione. Quasi un compendio di una filosofia dell’educatore:
· Varietà
La varietà del lavoro di educatore, il fatto che ogni giorno sia diverso dall’altro, che ogni relazione sia diversa dall’altra, pare esserne uno degli elementi non solo più caratteristici, ma di maggior fascino.
“Un mondo nuovo” si apre per ogni caso, secondo un educatore in una scuola elementare: Non dico che devi
ripartire sempre da zero, ma ogni caso, ogni utenza nuova è un mondo nuovo; “un laboratorio” per un educatore in una scuola superiore: Io penso che questo lavoro sia, se vuoi, il meno ripetitivo, un laboratorio in cui puoi
inventare continuamente le soluzioni per i ragazzi. Rispetto a chi lavora in un call center o in un’officina, qua è
abbastanza libero, ci puoi mettere del tuo;“assolutamente unico” ogni intervento di questo educatore profes-
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sionale in una scuola elementare: La peculiarità è il fatto che ogni intervento è un fatto a sé stante, assolutamente unico e individuale; tutto il giorno è diverso, secondo un’educatrice in una scuola elementare; e ogni
giorno bisogna “mettersi in gioco” secondo un’altra, che afferma: La cosa particolare... Forse il fatto di doversi
mettere in gioco ogni giorno, non poter mai affrontare le situazioni nello stesso modo, dover sempre ponderare
la situazione e comportarsi di conseguenza.
Entusiasta di poter variare anche con la creatività nella didattica questo educatore professionale in una
scuola superiore: La cosa più particolare è che si va dal bricolage alla meccanica quantistica, secondo i bisogni
dell’utente e magari, se lui può... presentare la meccanica quantistica attraverso il bricolage. Avete presente quelli che nelle piazze fanno i giochi con i palloncini? Alcuni di quelli che fanno possono rappresentare degli orbitali
atomici.
· Pazienza
È la pazienza che lo differenzia da altri lavori dichiara con nettezza un’educatrice in una scuola media. Costantemente nelle interviste la pazienza emerge come qualità imprescindibile per affrontare la professione
educativa, dunque La pazienza o ce l’hai di natura o te la fai venire, come afferma un’educatrice in una scuola
elementare.
Cosa sia però ha provato a spiegarcelo solo una delle educatrici in una scuola elementare, che al pari della
pazienza mette anche il “sapersi adeguare”. Le sue parole: Armarsi di pazienza, tanta pazienza. Direi che la
qualità principale è questa, la pazienza e sapersi molto adeguare alle situazioni, non bisogna assolutamente essere rigidi, altrimenti hai vita breve, non ce la fai, ma anche a livello psicologico. - Cosa intendi per sapersi adeguare? - Devi sempre calibrare l’atteggiamento in base al bambino con cui interagisci… - E per pazienza cosa
intendi? - Un livello di sopportazione elevato… aggiungerei anche il lasciare un po’ perdere: se all’inizio riprendevi o sottolineavi qualsiasi comportamento che sembri pericoloso, adesso la tolleranza è diventata più ampia,
altrimenti si starebbe tutto il tempo a richiamare i bambini.
· Coinvolgimento/Equilibrio
Trovare il proprio equilibrio nel coinvolgimento emotivo non serve all’educatore solo per vivere in modo
equilibrato le situazioni problematiche che ci si trova, per lavoro, ad affrontare, come dice un educatore professionale in una scuola elementare, ma anche per rivestire il ruolo più efficace nel rapporto con l’assistito, come aggiunge un altro educatore in una scuola elementare: Bisogna avere anche la forza di staccare, di non
farsi coinvolgere emotivamente, il coinvolgimento emotivo ci deve essere, ma relativo: se è totale, come quello
dei genitori, allora non ci sarebbe bisogno di una persona terza.
Devi sempre rimanere lì lì, confonderti e non confonderti, consiglia un altro ancora, educatore in una scuola
superiore. E un’educatrice in una scuola elementare fa un esempio pratico, raccontando del bambino che
segue: È importante tenere anche la distanza giusta con lui, non lasciarmi coinvolgere troppo dai suoi stati d’animo, cioè quando lui è arrabbiato, se dovessi stare veramente a come si comporta, sarebbe da prendere e mettere a distanza perchè è davvero odioso, quando invece è dolcissimo, sarebbe da tenere lì ore e ore. È più il fatto
di riuscire a capire che le carezze e i baci vanno bene, sono manifestazioni buone per lui, però non sono da prendere troppo sul serio, come quando si arrabbia.
Alcuni parlano anche di “controllo”, variando leggermente sul tema, che si sposta così sulla difesa degli altri
dai propri “stati emotivi”, come fanno un educatore in una scuola superiore: Rispetto ad altri lavori che ho fatto... un po’ in fabbrica... c’erano altri rapporti, anche se uno era stanco, un po’ depresso, riusciva a portare avanti il
lavoro lo stesso, anche se otto ore al giorno, invece qui non puoi, devi controllare i tuoi stati emotivi, è un po’ più
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pericoloso avere a che fare con altre persone se non sei proprio sereno, puoi fare dei danni e un’educatrice in
una scuola elementare: Controllare le proprie emozioni: spesso si è troppo coinvolti, spesso ci si arrabbia veramente. A prescindere da tutte le attività, loro possono avere dei comportamenti che fanno scattare molta rabbia.
· Attesa
La specificità dei questo lavoro può anche voler dire far di tutto, ma è una specificità questa. E nel fare di tutto ci
metto anche il fare niente: se non si può fare qualcosa di buono, è meglio non fare niente, dice un educatore
professionale in una scuola elementare.
L’“attesa”, il “non far niente”, i “tempi morti” (definizione di un’altra educatrice professionale in una scuola elementare) rappresentano un vero e proprio momento educativo per attuare il quale bisogna ricorrere a una
strategia in cui di nuovo torna proficuo il “controllo delle emozioni”: Poi c’è da considerare che ci sono tanti
momenti di attesa in questo lavoro. Se un bambino fa fatica a scrivere, se non sai aspettare, è un bel tormento, è
una tortura aspettare che uno faccia una cosa che tu faresti in 30 secondi. Ma non serve che lo faccia io. Bisogna
fare la cosa giusta al momento giusto, non aver paura di sembrare uno che ruba lo stipendio: non intervengo? C’è
un motivo. Bisogna non intervenire se si ritiene opportuno non intervenire (lo stesso educatore professionale).
· Miglioramento = Soddisfazione
La soddisfazione, vero vincolo degli educatori al proprio lavoro, è sempre nominata, nelle interviste, accanto
a un’altra parola: miglioramento.
Uno dei momenti più soddisfacenti è quando fai un resoconto e vedi dei miglioramenti dovuti al tuo lavoro, afferma ad esempio un educatore in una scuola elementare.
Spesso, tuttavia, il percorso che porta a un “miglioramento” nell’assistito è segnato da frustrazioni, da paura
di sbagliare, alleviata infine da un successo, “che arriva sempre” secondo questo educatore in una scuola
elementare: A me piace vedere che il ragazzo che seguo cambia completamente, succede spesso che si vedono i
miglioramenti, non subito... ma magari a metà anno sembra che sbagli... ci si butta giù, invece c’è sempre il miglioramento, alla fine si vede il lavoro fatto e dà soddisfazione.
Toni eccezionali assume la soddisfazione quando, in casi di particolare gravità, si riesce a fare piccoli passi
avanti, di cui solo chi quotidianamente si relaziona all’assistito ha la misura, come spiega l’enunciato di
un’educatrice professionale in una scuola media: La cosa più importante sono quei piccoli, impercettibili miglioramenti, che magari gli altri non vedono: sono quelle piccole soddisfazioni...! Tanto da stupire anche uno
“specialista”: in un mese e mezzo di frequenza aveva acquisito una tale sicurezza nei movimenti da lasciare ammutolita una specialista, una fisioterapista mi sembra, come racconta un educatore professionale in una
scuola superiore.
A conclusione di questa rapida scorsa a quelli che ci sono parsi gli enunciati più significativi o distintivi, nelle interviste, in merito alla questione dei rapporti con gli assistiti (argomento che più di ogni altro già trova
spazio in letteratura), menzioniamo infine l’ennesima “figura” presente nella sfera dell’educatore scolastico:
la famiglia dell’assistito.
La gestione dei rapporti con i familiari degli assistiti, a quanto emerge dagli enunciati dei nostri intervistati,
rientra nella strategia educativa: il rapporto con la famiglia deve sempre essere positivo, come spiega estesamente un educatore professionale in una scuola elementare: Un conto è quello che si pensa dei familiari e
la loro influenza sul minore, un conto è che con loro bisogna sempre avere il miglior rapporto possibile, mai mettersi contro i genitori... Bisogna trovare il modo di indurre un cambiamento positivo senza arrivare allo scontro,
106
perchè con lo scontro i cambiamenti possono essere solo negativi: il rischio può essere ad esempio l’abbandono
scolastico.
Quello che succede nel rapporto coi genitori si rispecchia nel bambino: questo vale per tutti, dalla direttrice al bidello... se l’educatore è in una situazione di conflitto con la famiglia, la famiglia scredita l’educatore agli occhi del
bambino e questo rende impossibile la relazione e quindi l’intervento educativo.
Tuttavia, sembra che questo rapporto sia condizionato anche dalla qualità della presenza dei genitori nella
vita degli assistiti stessi, come emerge dalle parole di un educatore in una scuola elementare: I genitori hai
occasione di incontrarli nelle assemblee di classe, in più a me capita di lavorare con bambini che provengono da
situazioni familiari molto disagiate e i genitori non si presentano nemmeno in quelle occasioni lì, e da quelle, di
segno contrario, di un’educatrice in un’altra scuola elementare: Quella del bambino è una mamma presentissima, disponibilissima, stravede per ‘sto bambino ed è molto comprensiva anche nei nostri confronti... ora il bimbo legge ed è contenta.
Altro elemento che pare influire sul rapporto educatore – familiari è il numero di ragazzi che si seguono: l’educatore sopra citato spiega: Se sei un educatore che ne segue uno con grossi problemi, allora il rapporto coi
genitori è quotidiano e anche molto profondo, sei una figura di riferimento. In certi casi alcuni colleghi mi hanno
detto di situazioni abbastanza asfissianti... però io, avendo sempre avuto tanti e mai handicap nel senso stretto,
tanti interventi, con le famiglie ho un rapporto estremamente rarefatto. Quindi è molto importante questa differenza fra avere un singolo bambino o averne diversi, cambia molto con i familiari.
In ogni caso, è da rilevare come la specificità del ruolo dell’educatore venga affermata anche in questo ambito: Non ho tantissimi rapporti con i familiari, ma mi sento di essere un ruolo importante perché non sono una
maestra e penso di lasciare aperto un ascolto... posso esserci per ascoltare anche cose che sono più legate alla
particolarità del bambino, meno scolastiche, dice un’educatrice in una scuola elementare.
Concludiamo questa prima parte con un enunciato utile a introdurre la seconda, in cui l’analisi delle interviste sarà affrontata nell’ottica del complesso tema della formazione: come racconta un’educatrice professionale in una scuola elementare, la famiglia dell’assistito può anche aiutare a “imparare”: I primi giorni quando
la mamma mi ha spigato come imboccarla, prenderla... ho dovuto imparare da zero, anche il rapporto tra madre e figlia mi ha aiutato perchè vedevo come la mamma comunicava con la figlia.
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2.3. “TRASMETTERE ESPERIENZA”
di Sebastiano Miele
2.3.1.“Educatore? Cosa vuol dire?”
Il 9 dicembre 1987 e il 14 marzo 1988 si svolsero a Bologna dei seminari di studio sulla formazione degli
Educatori Professionali, promossi dall’Assessorato al Lavoro e formazione professionale in collaborazione
con gli Assessorati ai Servizi Sociali e alla Sanità della Regione Emilia-Romagna.
Gli atti di questi seminari sono stati raccolti nel testo L’educatore professionale. Dall’esperienza al progetto,
Milano 1990 13. Nell’introduzione del testo i curatori spiegano che lo «scopo dei Seminari è stato quello di
aprire un dibattito con gli amministratori locali, le forze sociali, le Regioni e i Ministeri competenti sulla formazione dell’Educatore Professionale al fine di sollecitare un riconoscimento in sede nazionale dei processi
formativi necessari allo sviluppo di questa professione» (pag. 9).
E nella quarta di copertina si può leggere chiaramente: «il riconoscimento dell’esistenza della professione
dell’Educatore si è finalmente concretizzato sul piano normativo ed istituzionale». Sicuro riferimento di tale
affermazione è principalmente il D.M. 10 febbraio 1984 in cui l’allora Ministro della Sanità identificava i profili professionali, ovvero decretava l’istituzione di quattro nuove figure fra cui, al punto terzo, quella di Educatore Professionale 14.
A distanza di circa venti anni da quegli episodi, molte delle affermazioni degli educatori da noi intervistati
ci hanno a dir poco stupito. Infatti, soffermandosi sulle parole di un educatore professionale che lavora in
Società Dolce da più di dieci anni, sembrerebbe che il riconoscimento di cui parla il sopraccitato testo sia rimasto unicamente al piano normativo ed istituzionale. Rispondendo alla domanda “Cosa pensa potrebbe
migliorare le condizioni del suo lavoro?” egli ne fa principalmente una questione di informazione: Un’informazione alla cittadinanza di chi siamo e cosa facciamo. Tipicamente: “che lavoro fai?”“Educatore”.“Cosa vuol dire?”... Spiego e normalmente la reazione è di ammirazione, di estrema gratificazione sociale. Quindi penso che se
fossimo più conosciuti tutto andrebbe meglio. E alla fine dell’intervista lo stesso intervistato, rispondendo alla
domanda “Cosa pensa di questa intervista?”, ribadisce la sua idea della necessità di essere meglio conosciuti: Se alla fine può contribuire a farci conoscere meglio, ben venga. Questa e altre cento!
13. Il volume, curato da Alberto Tinarelli e Gina Pietrantonio, contiene tutti gli interventi delle due giornate seminariali. Delle due sezioni di
cui si compone la prima, relativa alla prima giornata, è dedicata all’esperienza formativa della Regione Emilia-Romagna. Nella parte relativa alla seconda giornata, invece, il confronto si allarga ai Ministeri competenti e ad altre Regioni quali il Piemonte, la Lombardia, la Liguria,
il Friuli-Venezia-Giulia.
14. Nel paragrafo dal titolo “Chi ha il diploma fa la stessa cosa: spiegami la differenza..” ci soffermeremo più a lungo sul significato di Educatore Professionale rispetto a quello di Educatore non professionale.
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Ma se questo educatore lamenta una scarsa conoscenza della sua figura da parte, in generale, della “cittadinanza”, altre interviste ci permettono di notare come il problema sia a volte molto più interno alla loro realtà. È il caso di una giovane educatrice che lavora da tre anni in Società Dolce. Descrivendoci l’aspetto più
particolare del suo lavoro rispetto ad altri tipi di lavoro ci ha parlato di “isolamento”: È l’isolamento secondo
me, perché molte volte si esce dall’aula: gli altri ragazzi della classe non riescono a capire che figura è l’educatore
e quindi non si avvicinano, oppure altri che chiedono aiuto per le cose più svariate, problemi con i genitori e via
dicendo...
Si va dunque dalla cittadinanza al contesto della stessa classe in cui l’educatore lavora. Ma a confermare
che l’educatore, quello scolastico in particolare, è figura poco chiara a vari livelli, ci pensa un’altra intervistata. Si tratta di un’educatrice che ha iniziato a lavorare in ambito scolastico più di 25 anni fa, la quale aggiunge il “livello nazionale”, parlando delle condizioni che potrebbero migliorare il suo lavoro: …L’educatore anche a livello nazionale non è ben chiaro, è considerato quello che lavora nelle strutture protette, nei centri
diurni…
Si tratta di un’intervista che sottolinea particolarmente la poca chiarezza della figura dell’educatore soprattutto a scuola. Più avanti, infatti, parlando di un corso di riqualifica 15 da lei frequentato, nota come: … qualsiasi docente… erano sempre educatori dei centri disagio, case protette, educatori delle carceri… l’educatore
scolastico era quasi inesistente… e subito dopo lamenta la mancanza di una “cultura” dell’educatore scolastico in Italia: … non c’è ancora questa cultura dell’educatore scolastico, perché è tutto concentrato sul resto.
Sono ancora gli enunciati di questa educatrice che ci spingono ad approfondire la nostra riflessione. In particolare la parte finale della risposta alla domanda “C’è un problema in particolare che vorrebbe vedere risolto?”, in cui afferma: Il riconoscimento della figura dell’educatore. Praticamente in ogni scuola è un “tuttologo”
(deve saper fare italiano, francese…, cambiare il bambino…) invece nel mansionario della scuola c’è scritto che
non deve fare didattica. Allora cerchiamo di riconoscere questa figura che non si sa ancora bene cos’è.
Due le parole di questi enunciati su cui vorremmo concentrare l’attenzione:“riconoscimento” e “tuttologo”.
Innanzitutto notiamo come venga usato direttamente il termine “riconoscimento”, quello stesso riconoscimento ormai da anni «concretizzato sul piano normativo ed istituzionale». Il tema del riconoscimento dei
lavoratori della cooperazione sociale 16 in generale ci sembra questione di grandissimo rilievo politico e sociale, ma anche, come abbiamo già avuto modo di dire, 17 di notevole portata scientifica. Dunque, anche riguardo agli educatori, ci auguriamo di poter contribuire col nostro lavoro all’aspirazione di questa educatrice, certamente condivisa da tutti gli altri nostri intervistati: cercare di “riconoscere questa figura che non si
sa ancora bene cos’è”.
15.
Per i corsi di riqualifica come quello cui si fa qui riferimento si veda la nota 13.
Negli ultimi anni, infatti, è in atto un tentativo di miglioramento delle condizioni del lavoro sociale cooperativo. Espressione di questo
processo è, ad esempio, la costruzione di un Patto per la valorizzazione del lavoro sociale nella Provincia di Bologna , documento di cui sono
promotrici le stesse cooperative del bolognese. Il documento dovrebbe costituire uno strumento che veda cooperative sociali, sindacati e
pubbliche amministrazioni nella Provincia di Bologna uniti nel ripensare il ruolo del lavoro sociale, la sua tutela e le sue condizioni di esistenza futura.
17. Ecco quanto già affermavamo in un nostro testo riguardante un’inchiesta tra operatori sociali della cooperativa sociale Cadiai: <<...abbiamo assunto la parola riconoscimento come chiave dei nostri risultati […] pensando […] di dare a questi operatori, attraverso il nostro
lavoro, un riconoscimento del tutto particolare, […]: un riconoscimento intellettuale. Abbiamo pensato cioè di riconoscere a chi svolge
l’attività di operatore sociale all’interno di una cooperativa la dignità di chi esercita un lavoro il quale merita di essere conosciuto e pensato in termini problematici nuovi e singolari, quanto nuove e singolari sono le difficoltà cui si trovano davanti questi operatori…>> Diaco
A. L., Miele S., Peruzzi E., Sarebbe il lavoro del futuro in Etnografia del pensiero, op. cit., (pag. 268)
16.
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Provare a farlo nel migliore dei modi significa per noi continuare a «pensare il pensiero altrui» 18, in questo caso
il pensiero dei nostri educatori, attraverso le loro parole. Per questo il nostro prossimo paragrafo prende le mosse da una parola: quel “tuttologo”, usato nel senso di “saper fare italiano, francese…, cambiare il bambino…”
2.3.2. “Fai l’insegnante di sostegno...no, faccio un’altra cosa...”
Oggi, nella letteratura di settore, molti definiscono il misconoscimento di questa figura in relazione alla sua
confusione con altri ruoli più “classici” nei vari ambiti in cui l’educatore si trova a lavorare. Citiamo solo qualche esempio. Luigi Rigogliosi e Giuseppe Scaratti, in un loro testo del 2002, 19 parlando di figure come quella
dell’educatore, affermano che «questi nuovi operatori si sono progressivamente inseriti in contesti dominati
da sempre dal sapere medico e psicoterapeutico […] ovvero in comunità tradizionalmente affidate al volontariato […] o ancora in progetti innovativi privi di una consolidata tradizione operativa». Esempio ancora più
lampante si trae dal testo Le competenze dell’Educatore professionale, Roma 2004, 20 in cui Walter Brandanti,
presidente del Centro Studi ANEP (Associazione Nazionale Educatori Professionali), afferma: «Sul ruolo che
l’educatore gioca […] diviene interessante analizzare le forme che se ne ricavano dai diversi contesti di riferimento. Lo si confonde con il terapeuta in ambito sanitario, con l’insegnante di sostegno nella scuola, con l’amico più grande o col genitore sostitutivo per la gente comune, con l’animatore…e ogni volta l’educatore
resiste alla definizione perché avverte il pericolo di una riduzione della propria professionalità, tutto sommato ancora da decifrare a partire dalle carte effettivamente giocate». Ad una prima lettura sembrerebbe che la
“tuttologia” di cui parlano i nostri intervistati, e il misconoscimento che ne deriva, si riferisca proprio a questi
aspetti di confusione di ruoli. In effetti, dato il contesto scolastico, sono in molti a lamentare chiaramente la
confusione con l’insegnante di sostegno. Una delle educatrici più giovani del nostro campione, parlando del
rapporto coi colleghi, è molto chiara in proposito e nota come gli stessi docenti a volte contribuiscano a creare “fraintendimenti”: …in questa scuola i docenti anche il primo giorno mi hanno presentata come una collega…
anche da qui il fraintendimento di che cos’è un educatore… Un’altra giovane educatrice, in Società Dolce da cinque anni, nel rispondere alla domanda “Cosa pensa di questa intervista” ci ha spiegato che essere scambiata
per insegnante di sostegno è ciò che la “colpisce di più”: È interessante comunque parlare di una situazione, è
utile, anche fare conoscere un po’ di più... penso che già palarne… La cosa che mi colpisce di più è che quando dico che lavoro a scuola come educatore... mi dicono ‘fai l’insegnante di sostegno’... no, faccio un’altra cosa... Più se ne parla, meglio è. C’è anche chi, questa confusione, la constata senza lamentarsene, semplicemente prendendone atto. È il caso di un educatore entrato in Società Dolce nel ’98 che, descrivendoci in cosa
consiste il suo lavoro, ad un certo punto ha affermato chiaramente:
18. Il riferimento è alla seconda delle cosiddette quattro ipotesi, contenute nella prima parte del testo Etnografia del pensiero, op. cit., ispirate dall’antropologia di Sylvain Lazarus (per approfondimenti rimandiamo al suo Antropologie du nom, Paris 1996, e alla raccolta di saggi da
lui curata per il n. 3 di Ethnographie française, Paris 2001).
Secondo questa ipotesi per conoscere la realtà sociale occorre pensare il pensiero altrui, ovvero ammettere che non esiste realtà sociale che
non risulti dal rapporto col pensiero altrui. Non esiste cioè realtà sociale, se non in rapporto a quella del ricercatore, ovvero essa non esiste
a prescindere dal mio io ricercatore ma solo in rapporto a me ricercatore.
19. Rigogliosi L., Scaratti G., Il consulente del lavoro socioeducativo. Formazione, supervisione, coordinamento. Carocci, Roma 2002 (pag. 13)
20. Brandanti W., Zuffinetti P., a cura di, Le competenze dell’Educatore professionale, Carocci, Roma 2004 (pag. 38). Il testo sottolinea come la
figura dell’educatore professionale sia basata su competenze multidisciplinari. Sarebbero necessari dunque, alla metodologia educativa
contributi derivanti da diverse “aree” (ad ogni area è dedicato un capitolo): pedagogica, psicologica, economica, giuridica, informatica e
della comunicazione multimediale, medica, socio-antropologica, del servizio sociale, degli scenari filosofici e sociologici.
110
In sintesi io e l'insegnante di sostegno facciamo quasi le stesse identiche cose.
Ed un’altra educatrice constata come la sua figura abbia “preso il posto” dell’insegnante di sostegno comunale. Alla domanda “Pensa che l’educatore abbia un futuro nelle scuole di Bologna?”, ha risposto:
Penso di sì, perché alla fine l’educatore ha preso il posto dell’insegnante di sostegno comunale, che non esiste più
e che affiancava l’insegnante di sostegno statale, che ora affianchiamo noi.
Come già rilevato nella prima parte di questo rapporto, ribadiamo dunque come questo contesto non presti il fianco solo alla confusione con l’insegnante di sostegno.
Un’educatrice laureata in Scienze dell’educazione parla di scarso riconoscimento in Italia rispetto ad altri
paesi europei: Credo che sia il lavoro meno retribuito. Paragonabile a una persona che va a lavare i piatti. Dovrebbe essere riconosciuto come negli altri paesi europei, che sembra il top. E continua affermando addirittura
che nel nostro paese gli educatori sono confusi con le “dade”: L’educatore non è valorizzato come figura. In
Italia… se sono scambiati per dade... figurati!
2.3.3.“È questa ambiguità del ruolo che è tipica dell’educatore, che non è né questo né quello”
Se, ad una prima lettura, il misconoscimento della figura dell’educatore è sembrato anche a noi legato
principalmente alla confusione con altre figure più radicate nell’immaginario collettivo, approfondendo l’analisi degli enunciati ci è sembrato di scorgere, fra le parole dei nostri intervistati, qualcosa di più complesso ma altrettanto interessante ai fini della nostra riflessione.
Ci è parso infatti di cogliere una contraddizione negli enunciati dei nostri intervistati. Da un lato, un aspetto
molto evidente accomuna tutti: prima o poi nel corso di ogni intervista si sottolinea che quella dell’educatore
è una figura nuova e ancora poco conosciuta. Abbiamo già citato frasi simili a quella di un’intervistata di provenienza sarda la quale vorrebbe: …che il ruolo dell’educatore fosse maggiormente riconosciuto a livello istituzionale perché è una figura nuova e spesso mi è capitato che l’educatore sia considerato l’inserviente della scuola.
D’altro canto i nostri stessi intervistati definiscono tutti in maniera abbastanza differente il loro lavoro: in
particolare abbiamo notato una singolare varietà negli incipit delle risposte alla domanda “Ci può descrivere in cosa consiste il suo lavoro?”.
Prima di proseguire l’analisi in questo senso, va precisato che, nel corso del lungo spazio dato a queste risposte da tutti i nostri intervistati, sicuramente dei tratti comuni emergono. Vi sono essenzialmente due
aspetti che vale la pena sottolineare. Il primo (più diffuso, accomuna ben 5 educatori) è legato al precisare
la diversità del lavoro a seconda dei casi affidati. Due intervistati parlano di differenze a seconda del “caso
handicap”. La prima, un’educatrice di una scuola elementare, si è così espressa: Il nostro lavoro differisce a seconda del caso handicap che seguiamo: in alcuni casi è lavoro assistenziale, in altri, come il mio, è didattico educativo perché le mie utenti sono sempre in classe e quindi seguiamo una programmazione didattica;
il secondo, educatore in una scuola media: Il mio lavoro varia in base ad ogni caso: un handicap diverso: un
modo di lavorare diverso.
Altri due parlano di differenze in base alle “problematiche” dell’“utente”: Varia a seconda dell’utente che devo
gestire… afferma la prima, educatrice in una elementare. Il suo collega, educatore sia in una elementare che
una media, aggiunge: Allora, poi logicamente ogni intervento si differenzia rispetto a un altro a seconda delle
problematiche dell’utente…
Per un educatore in un istituto superiore, infine, dipende dall’ “anno”: Quindi dipende da anno a anno, a seconda di chi ti danno, hai problemi completamente diversi.
111
Il secondo aspetto è legato all’utilizzo di alcuni verbi ricorrenti in queste descrizioni. Il più frequente è “affiancare”. C’è chi, come questa educatrice di provenienza campana, lo usa riferendolo all’insegnante di sostegno: Il mio lavoro in realtà consiste nell’affiancare un po’ la figura dell’insegnante di sostegno e chi lo riferisce agli utenti: il mio lavoro è affiancare il bambino portatore di handicap (una giovane educatrice bolognese); Io qui a scuola affianco alunni che hanno difficoltà di vario genere (un educatore di un istituto superiore).
Altro verbo utilizzato in più casi è “mediare”:
Il mio lavoro sta nel mediare tra bambino, compagni e insegnanti afferma un giovane educatore di origini pugliesi, a Bologna da ormai venti anni. Un educatore con le stesse origini, a Bologna da 32 anni, aggiunge altri elementi: Principalmente consiste nel mediare tra alunni, docenti... mediare i contenuti dell’apprendimento in
generale, quindi non solo delle singole discipline, ma anche a livello di regole di comportamento sociale…
Infine è da segnalare l’utilizzo di un verbo che appare meno tecnico:“seguire”: Consiste nel seguire ragazzini
certificati da neuropsichiatri (un educatore laureato in statistica), oppure, una delle intervistate con maggiore anzianità di servizio: Noi seguiamo dei bambini disabili, che di solito sono abbastanza gravi. Noi siamo affiancati da insegnanti di sostegno statali, però con questi bambini hanno poche ore loro.
Ma, dicevamo, ci ha stupito come quasi tutti utilizzino espressioni abbastanza differenti per definire il loro
lavoro. 21 Vediamo, dapprima, due educatori che danno definizioni, per così dire, più tecniche. Questo intervistato, ex studente di un Istituto Alberghiero, ci ha detto: Allora, a me vengono assegnati dei casi: alcuni
bambini certificati ai quali vengono assegnati degli educatori dalla cooperativa che vince la gara d’appalto; la
cooperativa mi spiega la diagnosi, che possono essere problematiche fisiche, Down, ritardi, difficoltà motorie oppure handicap, oltre che fisico, comportamentale, comportamento troppo agitato. Da “casi assegnati” passiamo ad “assistere un ragazzo”, come afferma più sinteticamente questo educatore con precedenti studi al
conservatorio: A livello pratico, assisto un ragazzo con sindrome di Down, si cerca di farlo arrivare...
L’estrema varietà si accentua ancora nella definizione di un’altra educatrice con precedenti studi artistici: Lo
definirei il completamento delle ore di sostegno… visto che nei miei casi non faccio assistenza, ma sto con l’alunna in classe e poi mi viene fornito del materiale per la programmazione, la didattica.
Ma è passando alle spiegazioni più filosofiche che il panorama si fa totalmente singolare. Per un ex studente di giurisprudenza si tratta di “trovare un ruolo di facilitazione”: Il mio lavoro consiste nel trovare un ruolo di
facilitazione per il bimbo con difficoltà nell’ingresso a scuola. Sostanzialmente io cerco di fare da tramite nelle
difficoltà del bambino con l’insegnamento, la didattica del resto della classe… Finalità ultima: far star bene il
bambino a scuola cercando di fare in modo che sia un’esperienza il più possibile positiva per lui che può trovarsi
in difficoltà….
Un educatore che dà anche lezioni di chitarra, particolarmente positivo nel corso di tutta l’intervista, esordisce parlando di “non monotonia”: Principalmente... è molto vario: è uno dei suoi aspetti più belli, non è per
nulla monotono.
21. Nel manifesto sugli Educatori - Zancan a proposito di questo tema si parla di <<estrema differenziazione delle rappresentazioni (modi di
raffigurarsi il ruolo e le attese sociali) che sono andate costruendosi sull’educatore sia da parte degli educatori stessi (al punto da non riuscire spesso ad esprimere compiutamente in modo condiviso un pensiero, consapevole, su se stessi) sia da parte delle altre professioni sociali.
In un altro testo di Angela Mongelli, La costruzione della professionalità dell'educatore, Franco Angeli, Milano 1997, si parla di “identificazione”: <<L'educatore, dunque, incontra serie difficoltà nel processo d'identificazione professionale, in sostanza perché lo fonda sulla tensione esistente tra identità attuale (poco e mal definita) e i vari livelli ideali della professione (desideri, speranze, attese)>>. Qui, senza sostare
su concetti come rappresentazione o identificazione, ci interessa riflettere sulla singolare varietà delle parole con cui gli educatori nominano il proprio lavoro, non alla luce di un presupposto modo ideale di raffigurarsi o identificarsi in questo ruolo…
112
Un’educatrice laureata in Scienze Politiche, sforzandosi di cercare il termine adatto, lo trova in “maternage”:
Allora, ho sia una parte relativa all’assistenza materiale e quindi tutto ciò che è relativo... ecco, il termine esatto è maternage,un’attività di cura,sia ho obiettivi più prettamente didattici,relativi alla scuola,è un lavoro a tutto tondo.
Una giovane educatrice da pochi anni laureata in Scienze dell’Educazione resta inizialmente sbigottita dalla
nostra domanda “Ci può descrivere in cosa consiste il suo lavoro?”: Mi hai fatto una domanda...! È molto
complesso, molto individuale, in base a come lo vivo io. In base al deficit si instaura la relazione educativa e quindi il lavoro. Ha diversi versanti: lavoro sull’autonomia o sul piano didattico.
Ad aspetti “didattici” fa cenno anche questo educatore, l’ex restauratore, che definisce suo compito quello
di “cercare una sorta di codice”: Io fondamentalmente mi occupo degli aspetti educativi più che di quelli didattici, avendo noi a che fare con ragazzi con problemi di relazione… il mio compito è quello di cercare una sorta di
codice, di regole di comportamento. In questo enunciato si nota, per la prima volta, l’utilizzo del monema dell’educazione. Sotto forma di aggettivo lo usa anche un intervistato, fra i pochi a svolgere interventi in più di
una scuola: Io svolgo un intervento di tipo... sia qua alle Aldini che alle Malpighi e adesso anche in una scuola
elementare... un intervento di tipo didattico ed educativo.
E solo in due utilizzano, per descrivere il proprio lavoro, la parola “educatore” seguita, comunque, da spiegazioni abbastanza dissonanti. La prima, la nostra ex studente di giurisprudenza, lo fa alla fine di una precedente dissertazione che abbiamo in parte citato sopra:
Sono un educatore, quindi svolgo un ruolo educativo, di appoggio alla didattica ed anche di sostegno su alcuni
bambini più gravi in modo che questi possono esser inseriti nella classe dei pari.
Un educatore con precedenti studi universitari di storia e un’esperienza di diversi lavori alle spalle: solo lui
sembra essere tanto coraggioso da esordire come, per usare il gergo teatrale, il pubblico si aspetterebbe: Io
sono educatore sull’ handicap…
Ma lui stesso immediatamente precisa che si tratta di un’affermazione “molto generalizzata”: detta così, è
un’affermazione molto generalizzata, di fatto l’educatore lavora da handicap gravi, psicofisici, fino a ritardi di
apprendimento o casi di carattere comportamentale… quindi lo spettro è abbastanza vasto.
Piuttosto che la confusione con altri ruoli, l’estrema singolarità e varietà di questi enunciati 22 sembra far
emergere un’ambiguità inscritta nella figura stessa di educatore: a nostro parere è qui che inizia ad emergere effettivamente tutta la complessità, la vera novità di questa figura. “Educatore”, letto alla luce di simili
enunciati non è qualcosa di equivocabile, da chiarire, precisare, ma qualcosa ancora da definire o, forse, la
cui poca definibilità potrebbe rappresentare una sua caratteristica tipica. Un’educatrice è molto eloquente
riguardo questa ambiguità; interessante notare come per lei rappresenta sì una difficoltà ma, al contempo,
anche qualcosa di stimolante.
22. Ulteriore prova della singolarità di queste risposte si può avere considerando una nostra precedente inchiesta tra operatori sociali della Cooperativa sociale Cadai, il cui report d’inchiesta “Sarebbe il lavoro del futuro” è contenuto nel volume Etnografia del pensiero. Ipotesi e ricerche, op.cit. In quel caso la maggioranza dei nostri intervistati era operatore ADB (assistente di base): tra assistenti anziani in centri diurni,
assistenti disabili in gruppi appartamento e assistenti domiciliari erano ben 49. Tra questi, la stragrande maggioranza, circa 40, dava una
definizione del suo lavoro ricorrendo fin da subito al monema dell’assistenza: riportiamo solo qualche citazione a titolo esemplificativo:
alla domanda “Ci può descrivere in poche parole in che cosa consiste il suo lavoro?” Qualcuno rispondeva semplicemente: Assistenza domiciliare qualcun altro parlava di “cura assistenziale”: Mi occupo della cura sia assistenziale (igiene) che educativa (attività) dei disabili dai 27 ai
55 anni e del mantenimento delle loro autonomie altri di “assistenza agli anziani”: Consiste nell'assistenza agli anziani, inizialmente comprendeva tra le altre cose l'alzata e la rimessa a letto, poi col passare del tempo si è passati anche alla spesa e alla passeggiata… o ancora di “assistere persone con problemi”: Il mio lavoro consiste nell'assistere persone con problemi, in particolare anziani ma anche adolescenti…
113
Alla domanda “qual è la cosa che considera più difficile, la più problematica del suo lavoro?”, risponde:
Non avere un ruolo definibile: essere un’insegnante ma non essere un’insegnante. Come educatore, io penso di
dovere avere un ruolo diverso, l’insegnante c’è già. La difficoltà è questa ambiguità del ruolo che è tipica dell’educatore, che non è né questo né quello: è un tramite, è tra questo e quello. Credo che sia costitutivo, tipico, è la
caratteristica di essere poco inquadrabile in un ruolo, perchè dipende dalle situazioni, anche perché cambia il
bambino, devi essere molto variabile, penso che sia un lavoro di ascolto di tutti e questo è un po’ difficile… Difficile e stimolante, estremamente faticoso, è più facile avere un ruolo più chiaro, dire “io sono questo”. Il mio è un
ruolo molto ambiguo. E più avanti, dicendoci cosa pensa del futuro dell’educatore nelle scuole di Bologna,
ribadisce l’importanza della sua figura proprio perché “non definita”: Però penso che il ruolo dell’educatore sia
fondamentale, questa figura non definita, intermedia, penso sia importante che ci sia… poi se abbia dello spazio... questo non lo so, sicuramente non è facile.
2.3.4.“Chi ha il diploma fa la stessa cosa: spiegami la differenza...”
Come sappiamo, i nostri educatori hanno due differenti qualifiche. La maggior parte di essi, infatti, ha la
“qualifica” di educatore “non professionale”, mentre altri di educatore professionale. Vorremmo ora cercare
di capire se l’opposizione professionale/non professionale può risultare elemento utile a comprendere la
complessità e la novità di questa figura “non definita, intermedia” che siamo andati scoprendo sinora. Bisogna anzitutto segnalare la netta prevalenza, al momento in cui abbiamo campionato i nostri intervistati (ottobre/novembre 2005), di educatori non professionali: in quel periodo gli educatori scolastici della Società
Dolce non professionali risultavano essere circa 2/3 del totale. 23
Gli educatori professionali, come già accennato, sono inquadrati contrattualmente al sesto livello, mentre
quelli “non professionali” al quinto livello. Ne deriva, chiaramente, una differenza di trattamento economico.
Un’educatrice afferma di aver sospeso i suoi studi in filosofia, iscrivendosi a Scienze dell’Educazione, unicamente per “avanzare di livello”: …a dirla tutta voglio laurearmi in educatore sociale unicamente per avanzare
di livello all’interno della cooperativa: per un livello superiore…ho il quinto. Ma non sembra poi così interessata all’aumento retributivo, ne ignora addirittura la cifra: So che è maggiore, quindi… non è neanche un peso
studiare, mi piace quello che studio… mi interessano le materie, poi se serve anche per una retribuzione maggiore, ben venga. Non penso sia un aumento esorbitante comunque.
A parte questa differenza di trattamento economico (molto probabilmente non “esorbitante”), non siamo
riusciti a trovare, nelle parole dei nostri educatori scolastici, nessun altro elemento che segnali una qualche
diversità tra le due qualifiche quanto a ruoli ricoperti, mansioni, responsabilità o altro. Un’educatrice laureata in Scienze dell’educazione afferma, un po’ seccata, che non c’è differenza, si fa “la stessa cosa”: …non ci
vuole la laurea per fare l’educatore: anche chi ha il diploma fa la stessa cosa: spiegami la differenza... facciamo
lo stesso lavoro.
23.
La prevalenza di educatori non professionali in questo contesto è un dato molto diffuso; si veda quanto detto in proposito in CDH Bologna e CDH Modena, a cura di, Bambini imparate a fare le cose difficili, op. cit.:
<<Per quanto riguarda gli educatori che operano all'interno del contesto scolastico, non esiste una formazione specifica che dia accesso a
tale ruolo. Dall' esperienza emerge, che all'interno della scuola lavorano persone con titoli di studio differenti: non sempre sono in possesso del diploma di educatore professionale (più frequentemente si tratta del titolo conseguito attraverso i corsi di qualificazione in servizio,
attivati in accordo con le stesse cooperative sociali); sono presenti anche"molti diplomi generici di scuola secondaria superiore, a volte,
molto lontani da un orientamento di tipo pedagogico>> pp. 106-107
114
Nel testo curato da CDH Bologna e CDH Modena 24 si definisce operatore generico, non professionale «un
operatore che di solito si è formato sul campo e non ha frequentato corsi di formazione specifici o abilitanti». I nostri educatori non professionali non sembrano,“di solito” essersi formati sul campo. Nel loro passato
vi sono in fatti le più disparate esperienze lavorative e/o universitarie. Si va da lauree o studi in filosofia, storia contemporanea, statistica, musica, arte, legge, a lavori d’ufficio, dal restauratore al commerciante fino all’allevatore. In solo un paio di casi, però, abbiamo esperienze di lavoro che possono far presumere una precedente “formazione sul campo”. Un educatore che fa anche il clown lavorava: coi ragazzi all’esterno, come
animatore o accompagnatore ai centri estivi, così... E parla semplicemente di “esperienza del lavoro precedente coi bimbi” un’educatrice di una scuola elementare. Diversa è la situazione per la qualifica di educatore
professionale. Infatti, fino a qualche anno fa, questa qualifica in Emilia Romagna si otteneva frequentando
dei corsi detti di riqualifica per chi era già educatore di fatto (è il caso di tre dei nostri educatori). 25 Oggi
questa possibilità non esiste più. Negli ultimi anni, invece, questa qualifica si può ottenere solo grazie al
conseguimento della laurea triennale in Scienze dell’educazione, indirizzo educatore professionale (tra i
nostri intervistati ve ne sono due). Queste constatazioni ci inducono a una considerazione, a nostro parere,
davvero interessante. La “professionalità” che i nostri educatori vorrebbero tanto vedersi riconosciuta sembra totalmente altra da quel “professionale” contenuto nel titolo di “educatore professionale”. Fa molto riflettere che un intervistato in una scuola elementare parli della qualifica di non professionale come una “definizione che fa scappar da ridere”; parlando delle condizioni che potrebbero migliorare il suo lavoro ha detto:
Innanzitutto dovremmo essere... la maggior parte degli educatori dovrebbe essere professionalmente più riconosciuta... per esempio la maggior parte, come me, sono non professionali, definizione che fa scappar da ridere,
perché i professionali sono quelli usciti ad un certo punto da un corso che aveva fatto la Regione... bisognerebbe
che un bel po' di gente che da anni lavora nella scuola con una discreta professionalità fosse maggiormente riconosciuta. Più che vedersi riconosciuta la propria figura, essere riconosciuti a livello scientifico: questa la richiesta che ci pare emergere lentamente tra le parole dei nostri enunciati.
La “professionalità” di cui parla questo educatore non sembra proprio provenire dai canali “istituzionali” di formazione: è il senso stesso di teoria che sembra messo in discussione. La realtà dell’educazione scolastica non
sembra reggersi sui saperi che si acquisiscono nei canali per conseguire la qualifica di educatore professionale. Analizzeremo, quindi, nel prossimo paragrafo come gli educatori dicono di aver imparato il loro lavoro.
2.3.5.“Quando lo fai, la realtà è diversa”
La nostra ipotesi che l’attività dell’educatore sia molto legata ad un saper fare che si consegue con l’esperienza, abbastanza lontano da quei saperi che si acquistano nei canali formativi “tradizionali”, deriva in particolare dall’analisi delle parole utilizzate dagli intervistati per spiegarci come hanno imparato il loro lavoro.
Si nota innanzitutto come gli educatori che dichiarano di non aver mai fatto studi inerenti utilizzano parole
24.
CDH Bologna e CDH Modena, a cura di, Bambini imparate a fare le cose difficili, op. cit.
Ecco com’è presentato uno di questi corsi (“ Progetto Apris”) nel sito della Regione Emilia-Romagna: «Per garantire alle imprese del settore socio-assistenziale - che si occupano dell'assistenza ai disabili, agli handicappati e a domicilio - professionalità adeguate ai requisiti
previsti dalle direttive regionali sulla qualità dei servizi, la Giunta regionale ha varato un piano straordinario - come prima fase di intervento - per qualificare un significativo gruppo di educatori professionali privi del titolo di qualifica, che esercitano da tempo il ruolo corrispondenze all'interno dei servizi».
25.
115
molto legate all’esperienza, quali, ad esempio “lavorare”, “fare”, “starci dentro”. La nostra prima intervistata,
che in precedenza gestiva un’attività commerciale di famiglia, dichiara seccamente di aver imparato questo
lavoro: Lavorando. E basta.
Quest’altro educatore, laureato in statistica, parla anche di “consigli” e introduce una questione molto interessante che riprenderemo più avanti: la “relatività” del verbo imparare in questo lavoro:
Standoci dentro, solo standoci dentro; e con consigli di colleghi e insegnanti vari.
Dire “imparato” è relativo, posso pensare di saperlo [fare, n.d.r.], come altri possono pensare di saperlo, certi soggetti
secondo me li riesco a tenere, a occhi diversi magari no. Posso pensare di poterlo fare nella maniera migliore, invece
ci potrebbero essere metodi migliori…non essendo una catena di montaggio... è sempre una situazione nuova.
A proposito di consigli, un’altra educatrice, ex cassiera in un centro commerciale, inizialmente dice di aver
“sentito” dalle “esperienze” della mamma che svolgeva un lavoro simile: Facendolo. All’inizio, avendo la mamma in casa, magari sentivo tante cose delle sue esperienze…
Subito dopo sottolinea l’importanza di quel “facendolo” soprattutto in relazione alle difficoltà che si incontrano all’inizio di un caso: 26
Però penso che questo lavoro lo impari facendolo, quando uno conosce un portatore di handicap, all’inizio non è
mai bravo, devi iniziare a capire quale deve essere il tuo comportamento, devi iniziare ad andare in sintonia: sono uno diverso da quell’altro. Quando capita un bambino con problemi psicologici, devi imparare a vedere dalle
sue espressioni come sta. Magari, finiti questi casi, mi capiteranno degli altri e non sarò capace di gestirli… questi ce la facciamo… poi gli altri vedremo…
Ancora un educatore, che aveva precedentemente lavorato come “accompagnatore” in centri estivi sottolinea, oltre al “fare”, il “chiedere agli altri”: Facendolo, alla fine, chiedendo agli altri educatori, agli insegnanti, provandoci…
Una delle parole, però, che ricorre in maniera più frequente fra coloro i quali non hanno fatto studi sull’educazione è sicuramente “campo”. Si veda questa ex studente di giurisprudenza che, oltre ad affermare, ancora
una volta, l’importanza di “parlare con altre persone”, parla anche di “momenti di confronto”: Con l’esperienza del lavoro precedente coi bimbi… quindi l’ho imparato sul campo molto, parlando con altre persone al di
fuori del mio datore di lavoro, che hanno più esperienza di me, momenti di confronto e formazione che non c’entrano con la cooperativa e che ho cercato fuori.
Un laureato in filosofia è convinto che questo lavoro si impari “esclusivamente sul campo” e lo paragona al
mestiere dell’“allevatore”, occorre “tastare”: Questo è un lavoro che si impara solo ed esclusivamente sul campo,
è un po’ come fare l'allevatore, devi tastare il polso... come l’aiuti non lo impari sui libri, poi possono essere d’aiuto tante cose...
Alcuni di questi educatori, parlando sempre di “esperienza sul campo”, dichiarano la loro sfiducia proprio
nella possibilità dell’insegnamento di questo lavoro. Uno, ex cameriere, parla in generale di “ scuola” e fa un
paragone con l’Istituto alberghiero da lui frequentato: L’ho imparato sul campo semplicemente, non ho fatto
di sicuro la scuola adatta e comunque anche con la scuola…se l’avessi fatta, non impari così. Anche all’alberghiero non è che ho imparato a fare il cameriere prima di uscire: come tutte le cose, si imparano facendole, la
teoria serve fino a un certo punto, serve anche la predisposizione.
26.
116
Il tema delle difficoltà che si incontrano all’inizio di un caso è stato trattato in particolare nel paragrafo 3.
Parla in particolare di “Scienze dell’ educazione” una ex studente di belle arti, che ha però fatto un corso e
uno stage di pedagogia e didattica dell’arte.
Esperienza sul campo: in poche parole da subito ho fatto molte sostituzioni per 3 mesi, quindi ho girato un po’
tutte le scuole di Bologna, tutti i tipi di handicap, gravi, meno gravi…
[…] Poi penso che l’indirizzo di laurea di Scienze dell’ educazione non prepari assolutamente, per esperienza personale di altri educatori che ho conosciuto…
e conclude: non c’è Facoltà che prepari a questo lavoro.
A scuola non s’impara, la Facoltà non prepara. Doveroso, a questo punto, prendere in considerazione le parole di chi ha fatto studi inerenti l’educazione. Se, tra chi non a fatto simili studi, la “teoria” deve lasciare ampio spazio a parole quali “lavorare”, “fare”,“chiedere”,“esperienza sul campo”, ci si potrebbe aspettare che essa
recuperi sul terreno dei più “formati”. Ed è qui, invece, che l’analisi dei nostri enunciati sorprende maggiormente. Citiamo dapprima due educatori che hanno preso la qualifica di educatore professionale frequentando il corso regionale 27: le loro risposte alla domanda “Come lo ha imparato?” mostrano, prima di tutto,
che parole come “fare” o “esperienza” non sono affatto meno utilizzate. La prima, educatrice in una scuola
media, afferma: In principio... a parte che ho preso il diploma di educatore professionale e quello della Regione,
che adesso non c’è più, poi un po’ alla volta, facendo qualche supplenza, conoscendo i vari casi... e poi così, con
l’esperienza, piano piano.
Il secondo, educatore di un istituto superiore, ha imparato “facendolo” e, soprattutto, da “autodidatta”: Inizialmente facendolo, figurati... un laureato in agraria che formazione può avere in queste cose... La formazione è
avvenuta dopo, in corso d’opera. Nel ’98 c’è stato il progetto Apris per chi come me era già educatore di fatto, ci
ha permesso di conseguire un titolo... E poi molto, soprattutto, da autodidatta.
C’è, sicuramente, anche chi afferma che la formazione le è stata d’aiuto, ma sembra accordare comunque
maggior importanza all’esperienza. È il caso di una giovane laureata in Scienze dell’educazione.
Allora, il corso di studi, la formazione universitaria mi ha aiutato, però comunque l’esperienza insegna. Credo
che comunque avere delle basi metodologiche sia importante. E poi anche il confronto coi colleghi di lavoro e
l’esperienza che ti viene anche dall’avere relazioni cogli utenti perché comunque ti misuri.
Chiedendole poi il senso di questo “misurarsi”, ci ha spiegato:
finché sei studente, non sai come ti comporterai con un utente con difficoltà di relazione, che magari ti scaglia
contro degli oggetti... impari le tue reazioni, è come se facessi una maggiore conoscenza di te stessa in base alla
situazione. Approfondendo la lettura degli enunciati si nota come tra questi educatori più “formati”, prevalga l’uso di un termine che solitamente indica proprio l’opposto della teoria: la “pratica”. Il nostro intervistato
più positivo ed entusiasta, che ha preso la qualifica di educatore professionale col corso della Regione, ha
cercato di mantenere sullo stesso piano i due piatti della bilancia: In parte svolgendolo, in parte studiando; in
parte con la pratica, in parte con la teoria.
Ma al nostro rilancio “qual’è la parte più significativa?”, dopo un attimo di titubanza, ha ceduto alla pratica:
Sinceramente non lo saprei dire... mi verrebbe da dire la pratica, perchè il fatto di dover quotidianamente risolvere dei problemi porta a fare esperienza e a migliorare.
Una studente di Scienze dell’educazione la quale afferma che il corso di studi le ha dato un “filone”, ma è an-
27.
Cfr. paragrafo precedente, nota 14.
117
cora la pratica a prevalere: Scienze dell’educazione un filone me l’ha dato. Poi tanta, tanta pratica…
Un’altra educatrice, invece, è molto più decisa: Con la pratica. Tutta pratica. Disponibilità ad incontrare, ogni
volta che cambi scuola, le persone nuove alle quali andrai incontro, voglia di conoscere. Questo sì.
Quest’ultima ha fatto addirittura un master universitario il quale, dice, le ha mostrato le “teorie” ma non le è
stato utile a migliorare quella che lei definisce “manualità: …lì ho visto quali sono le teorie, come funziona l’integrazione, le leggi che la regolano. A scuola io però ho sempre avuto servizi in cui serviva un buona manualità
sulla persona. Allora, posso avere una buona idea di progetto, posso avere tanti progetti, ma devo prima avvicinarmi alla persona con la manualità e in questo ho visto che riesco a cavarmela in genere.
Il senso della teoria è dunque completamente rimesso in discussione, ma sono soprattutto le “teorie”, così come vengono insegnate nei diversi canali formativi (corsi regionali non più attivi, master, corsi di laurea…), ad
apparire molto slegate dalla pratica quotidiana del mestiere di educatore. Due enunciati particolarmente efficaci ci pare possano concludere questa riflessione nella maniera migliore. Spiegandoci che il suo momento
più difficile al lavoro è stato l’inizio, la nostra educatrice professionale di provenienza pugliese ci ha detto:
Quando ho cominciato, ho chiesto al mio referente “ma cosa fa l’educatore?” e lui mi ha risposto “una volta che
inizierai, lo capirai da sola”, non mi ha detto “l’educatore è... e ha queste funzioni”. Da nessuna parte esiste... neanche quando ho studiato... ho letto un libro... un conto è quando lo leggi, ma quando lo fai, la realtà è diversa.
E parla di “libri” anche questo educatore, ex studente di storia contemporanea; la sua risposta alla nostra
domanda “Che consigli darebbe a qualcuno che volesse iniziare il suo lavoro?” è davvero uno degli enunciati più eloquenti: Prima di tutto dipende da che situazione proviene...prima di tutto, ma questo per tutte le attività professionali fatte magari dopo un periodo di studi... mettere abbastanza da parte tutta la fase delle conoscenze teoriche, che può creare delle grosse distorsioni, e metterci il più possibile la propria umanità, se vuoi, costruirsela anche… che sia chiaro: più una persona culturalmente si arricchisce, anche con studi di ambito psicologico, pedagogico, accidenti, va benissimo, però è anche vero che quando entri nel campo operativo, i bambini
o gli handicap che ci sono sui libri sono ben diversi o non ci sono….
2.3.6.“Che ti sappiano trasmettere esperienza”
La critica della teoria consolidata, l’insoddisfazione delle conoscenze disponibili è pensata da molti intervistati come una sorta di sfiducia nella possibilità di “imparare” questo lavoro. Vi accennavamo già nel paragrafo precedente con questa citazione:
Dire “imparato” è relativo, posso pensare di saperlo [fare, n.d.r.], come altri possono pensare di saperlo, certi soggetti secondo me li riesco a tenere, a occhi diversi magari no. Posso pensare di poterlo fare nella maniera migliore, invece ci potrebbero essere metodi migliori…non essendo una catena di montaggio... è sempre una situazione nuova.
L’educatrice che ha interrotto gli studi in filosofia per intraprendere Scienze dell’educazione, alla nostra domanda su come pensa di aver imparato il lavoro, riferisce addirittura che “non pensa di averlo imparato”:
Che domanda! …Non penso di averlo imparato, penso sia più che altro una tua disposizione e poi in base a questo riesci più o meno a relazionarti coi tuoi utenti.
Subito dopo afferma di “imparare ogni giorno”, ma non di “aver imparato”: è strano dire ho imparato il lavoro… non è un lavoro prettamente tecnico, allora puoi dire “ho imparato a fare questo pezzo”, qui cambia ogni
giorno… il rapporto con i bimbi, con le maestre, ogni giorno posso dire di imparare… posso dire di aver conosciuto realtà differenti, però imparato….no.
118
Altri, come l’ex cameriere di origini pugliesi, ne fanno principalmente una questione di “predisposizione”:
come tutte le cose, si imparano facendole, la teoria serve fino a un certo punto, serve anche la predisposizione.
Per altri si possono imparare solo alcune cose, altre no. È il caso della nostra ex cassiera per la quale “essere
pazienti” non s’impara, anche se si può imparare, per esempio, ad “adeguarsi alle situazioni”:
Quello sì, essere paziente no, o lo sei... Comunque è difficile anche sapersi adeguare…
Data questa insoddisfazione della teoria pensata come impossibilità, saremmo indotti a pensare che i nostri educatori non considerino importante o utile la formazione. Emerge, invece, una contraddizione molto
forte, perché, nelle risposte alle domande su cosa potrebbe migliorare le sia le condizioni sia l’efficacia del
lavoro, la formazione viene indicata come un aspetto prevalente. Secondo questa educatrice ex studente di
giurisprudenza per migliorare le condizioni del suo lavoro: Sarebbe utile se la cooperativa, la Società Dolce riuscisse ad aver dei momenti di formazione, […] andiamo a cercare informazioni all’esterno.
E per migliorarne l’efficacia: Formazione, possibilità di andare a convegni non in orario scolastico, […] anche
che mandassero qualcuno a prendere materiale, se viene fatto durante l’orario scolastico. Questo manca o io
non sono a conoscenza… Formazione, formazione, formazione!
Per un educatore di un istituto superiore occorrerebbe, per aumentare l’efficacia: Studiare, studiare, studiare.
La formazione. Il problema è che per avere uno stipendio 28 pieno bisogna lavorare 36 ore la settimana, se ci
metti anche la famiglia e tutto il resto, quand’è che uno studia?
Il nostro ex restauratore, educatore in una elementare, sulle condizioni afferma deciso: La formazione. Assolutamente.
E riguardo l’efficacia ribadisce il concetto e aggiunge il bisogno di “strumenti”: La formazione. E io ho bisogno di strumenti. E se non me li può dare la scuola per motivi che non sto neanche a sindacare... Io ho bisogno di
questo a lavorare.
Per migliorare le condizioni del suo lavoro, il nostro educatore ed insegnante di chitarra parla, oltre che di
formazione, anche di “ricerca”, “programmazione”, “preparazione del materiale”, “approntamento dei luoghi”e
propone un “fifty fifty”: 50% formazione, 50% lavoro: Un maggiore monte ore dedicato alla formazione, alla ricerca, alla programmazione sugli interventi. Una maggiore formazione permanente e un maggior numero di ore
dedicato alla programmazione con gli insegnanti, la preparazione del materiale, l’approntamento dei luoghi...
darebbe maggior libertà.[…] Le ore dovrebbero essere dedicate tanto alla formazione quanto al lavoro, fifty fifty,
solo che dovrebbe essere fatta in orario di lavoro, perchè non c’è tempo. La formazione è importantissima…
Rispetto all’insoddisfazione della teoria pensata come impossibilità, questa grande importanza attribuita
alla formazione appare molto più legata alla necessità di apprendere “esperienze” legate alla realtà piuttosto che “teorie generali”. Soprattutto nelle risposte alle domande su “Cosa pensa della formazione che riceve? Come si potrebbe migliorarla?” nei nostri enunciati, si fa costantemente allusione a questa necessità.
Ancora la ex studente di filosofia iscritta a Scienze dell’educazione. Spiegandoci cosa pensa della sua attuale formazione universitaria, usa delle parole che sono davvero eloquenti: “trasmettere esperienza”: Premessa: Scindo il mio interesse da quello che poi viene trasmesso. Tanti corsi sono inutili per chi vuole diventare educatore. Io farei molto più tirocinio, certo, serve anche la teoria, però... Magari farei corsi più specifici, magari tenuti
proprio da educatori che ti sappiano trasmettere esperienza…
28.
A nostro avviso, la mancanza di riferimenti allo stipendio (su questo problema rimandiamo al paragrafo 2.2) in alcune risposte a simili
quesiti dà ancor più la misura di quanto sia ritenuto prioritario l’aspetto della formazione.
119
Un educatore in una elementare fa esempi molto concreti e auspica proprio una formazione “legata alla
realtà”: …Poi ci sono alcune cose che non mi piacciono: ci fanno fare formazione di cui non ce ne può fregare di
meno… poca formazione e fatta male... corsi di decoupage... Io voglio sapere come comportarmi, cosa faccio
con una crisi epilettica, non come incollare la carta! Io voglio una formazione legata alla realtà, a quello che facciamo qui.
Più avanti afferma che si potrebbe migliorare facendo formazione in maniera “mirata”: Facendola, innanzitutto. Ma in maniera mirata, vedere che utenza c’è, altrimenti è uno spreco di soldi[…] potrebbero vedere che tipo di utenza c’è. I referenti dovrebbero andare là e vedere che bisogni ci sono, vai là e ti informi: allora, al Navile,
ci sono 60 casi: che problemi ci sono?
Parla di “autoformazione” una delle due educatrici laureate in Scienze dell’educazione, autoformazione derivante dal confronto con “esperienze simili”: La formazione che ricevo è autoformazione, nasce anche dal confronto, dalla comunicazione con altri colleghi che fanno esperienze simili.
La novità massimale di questa figura dell’educatore, a nostro parere, si coglie solo leggendola come punto
che, per esser valorizzato, richiede una riorganizzazione del sapere esistente per dar corpo e senso a una
nuova figura. In questo modo si darebbe senso pieno alla frontiera che questa figura può rappresentare. Le
parole dei nostri intervistati ci hanno convinto dell’esistenza di una forma di conoscenza diretta sul campo.
Nostro auspicio sarebbe di innescare un processo che tenti di “depositare” queste conoscenze, questi saperi
che si acquistano nell’esperienza dell’educatore. Gli spunti non mancano: gli educatori stessi spesso non risparmiano precisi consigli a chi volesse intraprendere tale lavoro. L’ex cameriere educatore in una elementare afferma, per esempio, che per “fare le scelte giuste”.
Devi avere più informazioni possibili sul bambino, dopodichè una linea certa a priori da attuare non è possibile… non esiste una linea... tu la puoi attuare, ma non puoi essere sicuro che è giusta...perchè poi i bambini prendono le cose come gli adulti.
E, fra gli altri, l’ex studente di giurisprudenza consiglia, volendo intraprendere il suo stesso lavoro: Di prepararsi al fatto che non c'è niente di fermo, che non si arriva mai, e di rimamene aperto a ascoltare un po’ tutti senza cercare troppe teorizzazioni, senza far sì che questo momento diventi l’applicazione di una teoria…
Prepararsi a un lavoro di ascolto sostanzialmente, rimanere aperti a tutte le informazioni, anche involontarie,
anche cose non dette che devi essere pronto a recepire, non presentarsi con una assoluta idea su come trattare il
bambino, ma ascoltare le difficoltà del bambino, la classe, il contesto, le difficoltà della famiglia…
Un processo che tenti di depositare questa forma di conoscenza diretta sul campo potrebbe prendere corpo in varie forme (schede valutative, resoconti di esperienze,“diari di bordo”). Noi crediamo possa costituire
un strumento molto utile la realizzazione di un “Libro dell’educatore”, un libro fatto di resoconti e di consigli
degli educatori. Libro che potrebbe anche aprire la strada ad un riconoscimento scientifico di questa figura
In conclusione, ancora una citazione dell’educatrice professionale di provenienza pugliese: ...Quando ho cominciato, ho chiesto al mio referente “ma cosa fa l’educatore?” e lui mi ha risposto “una volta che inizierai, lo capirai da sola”, non mi ha detto “l’educatore è... e ha queste funzioni”. Da nessuna parte esiste... neanche quando
ho studiato... ho letto un libro... un conto è quando lo leggi, ma quando lo fai, la realtà è diversa.
E il nostro educatore laureato in filosofia, parlando di cosa pensa del rapporto col suo utente, afferma proprio:
Ci vorrebbe un libro!
120
2.4. APPENDICE
“È un laboratorio in cui puoi inventare continuamente
le soluzioni” 29 Sulla verità euristica dell’educatore
di Valerio Romitelli
In ogni ricerca su un luogo del sociale è sempre bene cercare di precisare quali possano essere i reciproci
interessi, delle scienze sociali per quel luogo e, viceversa, di quel luogo per le scienze sociali.
Ora, ciò che questa relazione vuole mostrare è proprio la profondità e lo spessore dei possibili interessi intercorrenti tra una cooperativa, come Società Dolce, che organizza gli educatori professionali, e le ricerche
sociali, quali quelle che sono condotte in nome dell’Etnografia del pensiero. Il campo di problematiche
emerse nelle pagine precedenti è tale da stimolare non solo una, ma una serie di più ricerche etnografiche,
dalle quali per altro è legittimo attendersi risultati del tutto utili ad affrontare i succitati problemi.
Tra di essi, ce n’è uno già da noi ampiamente testato nel corso delle ricerche compiute presso la Cadiai,
nonché seguendo i lavori e le riflessioni per il “Patto per la valorizzazione del lavoro sociale”. Si tratta del “riconoscimento”. Il riconoscimento della figura dell’operatore sociale. Infiniti sono gli aggettivi che, stando a
quanto dicono gli stessi diretti interessati, si possono dare questo termine: retributivo, giuridico, politico, informativo, formativo e così via. Né lo stipendio, né il diritto, né la politica, né l’informazione, né la formazione, né altro paiono adeguati a far capire in un modo universalmente trasmissibile ciò che questa figura si
trova a fare e a pensare nel corso del suo lavoro. Quest’ultimo si trova dunque a compiersi quasi come sottovuoto, in gran parte isolato e poco e male compreso dal resto della realtà sociale, anche da quella con cui
è “gomito a gomito”. Ma c’è qualcosa di ancora peggiore. Come spesso succede, anche in questo caso, la non
comprensione e l’ignoranza, prima di essere ammesse e affrontate come tali, con lo sforzo di provare a capire e saperne di più, vengono rimosse e coperte da luoghi comuni e pregiudizi. In effetti, sulla figura dell’educatore c’è un vero e proprio campionario di luoghi comuni e pregiudizi che circolano. Una ricerca da fare
potrebbe censirli e catalogarli. Ma una loro origine importante è subito e facilmente individuabile. Essa sta
in un fatto molto profondo, di carattere storico. Il fatto che le funzioni oggi svolte dall’educatore sociale siano state tradizionalmente appannaggio di due altre dimensioni: da un lato, quella pubblica, dall’altro, quella famigliare. Gli insegnanti di sostegno e i genitori fino a qualche decennio fa sono state le figure incaricate di risolvere i problemi dei ragazzi, di cui oggi invece sono incaricati gli educatori organizzati dalle cooperative. Questa mutazione non è stata voluta da nessuno, ma si è imposta come una mutazione antropologica dalle complesse condizioni e dalle vaste implicazioni. Al centro di tutto è in ogni caso individuabile la crisi congiunta sia dello Stato sociale, sia della famiglia. Una questione di portata generale, questa, che in Italia
29.
Enunciato tratto da un’intervista a un educatore in una scuola superiore di Bologna.
121
è aggravata dal fatto che lo Stato, per tradizione, ha sempre avuto l’inclinazione a delegare alle famiglie non
poche funzioni, altrove considerate invece di diretta spettanza pubblica. Con la conseguenza maggiore di
sovraccaricare queste ultime di tante funzioni sociali da deprimere quella che le è più propria: procreare e
allevare. Sintomo maggiore di ciò è il calo demografico che contraddistingue il nostro paese e che è particolarmente significativa nella nostra regione e ancora di più a Bologna. Ma altro sintomo lo si può anche
rintracciare nelle lamentele sempre più ricorrenti sulle difficoltà di rapporti tra genitori e figli.
È dunque anzitutto per le mancanze di Stato e famiglia nei confronti del sociale che oggi si apre lo spazio
per nuovi tipi di interventi e figure come quelli degli educatori organizzati da cooperative. Ma è altrettanto
chiaro che tali interventi e figure pagano il prezzo che inevitabilmente sempre paga ogni novità.
Anzitutto, quello dovuto alle nostalgie per un passato tanto più passibile di rimpianti quanto meno efficace
nell’attualità. In altre parole, è chiaro che di fronte ai problemi dei ragazzi oggi presi in carico dagli educatori
è molto meno facile apprezzarne l’esperienza in gran parte inedita, che volere ritornare ai tradizionali metodi
pubblici e famigliari. Il fatto che questi ultimi siano ben conosciuti fa sì che la loro sembri l’unica conoscenza
possibile. E che rinunciarvi anche solo in parte sia la perdita di ogni conoscenza. Le difficoltà ad andare oltre
e incontro alla figura dell’educatore in tutta la sua novità la si riscontra nelle stesse difficoltà pubbliche, giuridiche, ministeriali, ma anche d’opinione pubblica nel nominarli. La loro stessa designazione come educatore
non può non suonare antiquata, da “precettore austriaco” come ci ha detto una nostra intervistata.
In una tale incertezza storica e linguistica è chiaro che può passare di tutto. Anche quella che è, bisogna
ammetterlo senza ipocrisie, l’accusa più antipatica e ricorrente nei confronti degli educatori: di avere poca o
nulla preparazione, scarse conoscenze del loro lavoro. Il che, portato all’estremo, vorrebbe dire che non sanno quello che fanno.
Il fatto è che gli echi di tale accusa li abbiamo senti risuonare anche tra gli enunciati di alcuni degli educatori da noi intervistati. Ma, si badi bene, in un senso del tutto particolare. Non certo come ammissione d’irresponsabilità. Ché, anzi, la piena quand’anche sofferta assunzione di responsabilità, la sua rivendicazione accanita, anche con accenti polemici, è uno dei tratti più costanti e convinti di tutti i nostri intervistati. Il “non
sapere” da parte di alcuni di loro è ammesso solo nel senso del “non sapere” come accumulare la propria
esperienza in un modo che sia anche trasmissibile ad altri. Più o meno esplicitamente c’è l’allusione a qualcosa di essenzialmente indicibile, innominabile e incomunicabile che starebbe al cuore del loro lavoro. Di
qui, l’insistenza della pratica, del fare, del “mettersi in gioco ogni giorno” come unica fonte di conoscenza inspiegabile e inaccessibile, se non da parte dello stesso educatore e del suo stesso pensiero. La riflessione, la
meditazione, l’elaborazione intellettuale in merito alla singolarità delle situazioni molto spesso diverse in
cui ci si ritrova: anche questo è in effetti un tema ricorrente di tutte le nostre interviste.
Se ne potrebbe rapidamente concludere che gli educatori fondano e orientano il loro lavoro anzitutto sulle
loro capacità intellettuali individuali, ricorrendo ad operazioni mentali mai eguali tra loro, perché stimolati da
una realtà pratica sempre mutevole. Si dovrebbe ammettere allora che essi pensano il proprio lavoro come
un mestiere. Si ricordi infatti che “mestiere” non è altro che una traslitterazione di “mistero”, di “segreto”, cosicché farne la qualità prima di un lavoro significa soprattutto rivendicarne il tratto inimitabile, da artigiani, quali quelli che hanno per altro fatto da sempre la fortuna dell’Italia. Tuttavia, non è certo il caso di vedere negli
educatori una sorta di nuova figura di artigiani dell’assistenza a ragazzi problematici. Non fosse altro perché
è proprio la crisi delle tradizioni artigianali ciò che attualmente crea le maggiori difficoltà del nostro paese
nello stare al passo con la globalizzazione. Ma soprattutto perché il segreto è ciò di cui l’artigiano è per defi-
122
nizione geloso, mentre è chiaro che i nostri educatori vi vedono solo dei problemi. Quelli connessi appunto
al loro scarso se non addirittura mancato riconoscimento. L’unica conclusione che se ne può trarre è quindi
che quest’ultimo non è solo un problema esterno agli stessi diretti interessati, ma comincia proprio da essi:
dalle loro difficoltà dichiarate di non sapere come trasmettere o spiegare ad altri la loro esperienza di lavoro. In altri termini, se è vero che in tutta la società non esistono riconoscimenti adeguati di chi è e cosa fa un
educatore sociale, è chiaro che anche lo stesso educatore non sa come e dove rivolgersi per comunicare la
propria esperienza. Qui può valere l’esempio del caso in cui si vorrebbe inviare un messaggio, ma non sapendo a chi destinarlo, anche la stessa formulazione del messaggio diviene impossibile. Insomma, mi parrebbe proprio il caso di ammettere che il mestiere di educatore resta quanto meno un po’ misterioso anche
per chi lo svolge. Il che - sia chiaro - nulla toglie, anzi rende più che mai interessante il lavoro compiuto in
suo nome, il quale designa così un margine ancora in parte sconosciuto della realtà sociale. Il facilitare all’interno di una scuola la presenza e l’apprendimento di ragazzi problematici, senza essere docenti né famigliari, merita quindi di essere riconosciuto come un vero e proprio esperimento di tipo nuovo, compiuto da
soggetti che meritano la qualifica di sperimentali. Così come le cooperative che tali soggetti organizzano
meritano di essere considerate dei veri e propri laboratori sperimentali.
Ma non si deve equivocare. Occorre infatti tenere ben presente che termini simili, che richiamano quello di
“sperimentazione”, possono suscitare più di una perplessità. Il fatto è che molto spesso con tale lessico a livello ministeriale si designano dei modi incerti di governare tanto facili da proclamare quanto difficili da
verificare e quindi agevolmente revocabili con un nulla di fatto.
La responsabilità maggiore di tali dubbi che gravano sulla sperimentalità non deve però essere attribuita
tanto alle politiche governative, quanto alle scienze sociali, per quello che sono e nei modi in cui funzionano nel nostro paese. La crisi della modernità, di cui a partire dalla fine degli anni Settanta si è fatto un gran
parlare, ha avuto infatti, oltre che i tanti effetti euristicamente stimolanti, un’implicazione assai regressiva.
Quella di dar adito al proliferare di teorie della società come sistema funzionale o organo vivente, le quali
alla fin fine si rifanno ad un’idea tanto antiquata della scienza da credere che il suo compito principale sia
sempre quello, al fondo risalente alla tradizione teologica, di spiegare tutto in nome di un ordine superiore.
È a causa di simili prospettive sistemiche e organiche che la dimensione sperimentale si è trovata relegata
ai margini di quelle che invece sono state ritenute le vere questioni sociali. Molto significativo da questo
punto di vista è la preminenza quasi assoluta nel lessico delle scienze sociali di termini come “integrazione”,
“inclusione”, “partecipazione” o “empowerment”. Termini, tutti questi, che hanno implicito fondamento in un
supposto sistema o organismo sociale al quale ogni pezzo o soggetto della realtà sociale, per quanto singolare e/o locale, dovrebbe appunto integrarsi, includersi, partecipare o trovare maggior potere. E ciò malgrado anche che altre teorie e analisi, di grande autorevolezza, costringano a ritenere che il nostro paese non
sia per nulla assimilabile ad un sistema né tanto meno ad un organismo. Giuseppe De Rita, Segretario Generale del Censis, nonché raffinato analista dei fenomeni sociali, proprio per evitare l’uso di “sistema” o “organismo” a proposito dell’Italia, preferisce infatti parlarne come di un contenitore assai informe e permeabile di frammenti sociali tra loro assai eterogenei. In ogni caso, è solo non avendo come priorità di dover ricondurre ogni aspetto all’ordine di un tutto che la sperimentazione scientifica può avvenire. Solo calandosi
dentro un pezzo della realtà, come Galileo dentro il pezzo di cielo selezionato dal suo cannocchiale, che se
ne può cogliere la profondità, per verificarne eventualmente l’infinità e la portata universale.
Cosa c’entra tutto ciò con gli educatori? C’entra, eccome. Sì, perché quando parlo della sperimentalità della
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figura dell’educatore e delle cooperative che li organizzano è in questo modo scientifico e moderno che intendo parlarne. In effetti, qui credo stia una condizione fondamentale per cui le loro esperienze dirette sul
campo, le loro operazioni intellettuali, le loro riflessioni non restino solo del momento o disperse come
semplici patrimoni intimi ed individuali. Perché invece abbiano il riconoscimento auspicato, perché prendano il corpo di una conoscenza ben formulata e trasmissibile, non credo infatti che bastino solo delle leggi, delle politiche governative adeguate, delle campagne d’informazione e degli aumenti salariali. Tutto ciò
è sacrosanto che venga, ma credo si avrà la certezza che venga solo se ci saranno delle ricerche scientifiche
capaci di accreditare la novità di questo lavoro come nuova frontiera sociale. Una frontiera sulla quale né le
istituzioni pubbliche, né la famiglia in quanto tali si dimostrano in grado di spingersi.
Tutto il problema da questa angolatura sta nel modo di condurre tali ricerche.
Molto schematicamente si possono considerare due metodi.
Uno, ampiamente dominante, consiste nel legittimare il lavoro dell’educatore inserendolo nel contesto delle conoscenze già acquisite a proposito di lavori e realtà sociali simili a quelle che egli affronta. Una delle categorie più utilizzate in questa prospettiva è quella di relazione di aiuto. L’educatore, dunque, analizzato come aiutante di tipo particolare all’interno della ben più vasta dimensione delle relazioni di aiuto che intessono le società. Si tratta di un riconoscimento di indubbia portata. La categoria di aiuto è infatti strumento
essenziale per dimostrare quello che è uno dei fondamenti della sociobiologia statunitense: l’importanza
dell’altruismo per lo sviluppo sociale. Il fatto poi che questo tipo di sociologia sia egemone tra le scienze
sociali contemporanee alimenta l’impressione edificante che, anche in questo campo, l’egoismo e l’individualismo non sono oramai più difesi da nessuno.
Ciò può sembrare in flagrante contraddizione rispetto ad alcuni macroscopici fenomeni del nostro tempo.
Ad esempio, al fatto che il divario tra ricchi e poveri su scala planetaria sta aumentando come mai: fino al
punto che pochi consigli d’amministrazione detengono un potere economico e finanziario pari a quello di
un’intera fascia di paesi tanto indigenti da non essere neanche più detti “in via di sviluppo”. Ma si tratta di
una contraddizione relativa. Data questa distanza montante tra le vette della ricchezza e il mare della povertà, è chiaro infatti che è sempre meno attendibile identificare il singolo individuo come centro motore
della società. In effetti, la visione classicamente liberale del mondo è tramontata da un pezzo e oramai
ovunque domina ciò che si chiama l’opinione neoliberale. Ad essere esaltate da essa sono infatti proprio
quelle stesse categorie come l’altruismo, la cooperazione e appunto l’aiuto, teorizzate dalla sociobiologia. È
per questo che oggi la figura dell’educatore sociale, quando è sociologicamente riconosciuta, lo è soprattutto come figura funzionale all’aiuto sociale.
Per farsi un’idea del senso di questo riconoscimento sociologico, bisogna dunque risalire a riferimenti
scientifici fondamentali della sociobiologia. A ciò dedico dunque una digressione, che spero comunque
renda più chiaro il modo in cui solitamente oggi le scienze sociali si occupano di educatori sociali e perché
risultino spesso non del tutto soddisfacenti.
Ora, la sociobiologia che dà tanto risalto alle relazioni sociali d’aiuto è nata a metà degli anni ’70 al seguito
di un nuovo orientamento che si è fatto strada nella concezione biologica dell’evoluzione e che si chiama
neodarwinismo, per distinguerlo dal darwinismo più tradizionale. Seguendo Richard Lewontin, che è uno
dei più autorevoli critici dell’attuale uso ideologico di tali rivolgimenti scientifici, il loro significato può essere sintetizzato in poche frasi.
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Anzitutto, fissiamo che il presupposto fondamentale della sociobiologia neodarwiniana è tratto dalla genetica e riguarda l’ereditarietà dei geni. Suo problema principale sta nello stabilire i modi in cui tale ereditarietà viene assicurata.
Ora, secondo il darwinismo classico a provvedervi sono soprattutto gli effetti della procreazione, cioè la
quantità di figli che un individuo può generare: in altre parole, più figli ha un individuo, più i geni che egli
possiede hanno probabilità di essere ereditati; e, viceversa, meno figli ha, meno sono tali probabilità. La lotta individualistica - ed egoistica nel caso degli esseri umani - per la sopravvivenza è così identificata come
condizione necessaria per una maggiore prolificità e quindi per la conservazione di un patrimonio genetico. Così come pure si è confermata la funzione sociale cruciale della famiglia riunita attorno al suo capo.
Col neodarwinismo si è fatta invece maggior attenzione agli altri: a quegli essere naturali, a quegli individui
dal comportamento non individualistico, né egoistico. Quegli uccelli ad esempio che rinunciano a figliare e
si espongono ad ogni rischio pur accudire il nido dove è alloggiata la prole di altri uccelli. Analogo è il caso
di quegli esseri umani che mettono a repentaglio la propria vita per salvare quella di altri da un pericolo.
Delle eccezioni insomma rispetto alle regole individualistiche con le quali il primo darwinismo definiva la
lotta per la sopravvivenza. Il fatto è però che il neodarwinismo in tali eccezioni non vede che la conferma di
quelle stesse regole, la cui portata e il cui significato si trovano così anche maggiormente raffinate ed estese. Per giungere a tale risultato, il procedimento è presto detto. Si ipotizza infatti che, se degli uccelli e degli
esseri umani si dimostrano altruistici, in realtà non lo sono veramente: e ciò perché negli altri, per cui si sacrificano, essi identificherebbero i loro stessi geni. Il fine dei comportamenti altruistici sarebbe dunque lo
stesso di quelli individualistici: garantire l’ereditarietà dello stesso patrimonio genetico. A cambiare sarebbero solo i modi: o per via diretta, di lotta per l’autoconservazione e di procreazione, oppure per via indiretta, di aiuto alla procreazione e all’accudimento della prole di altri.
Ove il condizionale è d’obbligo, perché è chiaro, come sempre insiste Lewontin, che nessun esperimento è
mai stato fatto, né sarà mai possibile su simili ipotesi. Il fatto è che da provare non sarebbe che gli uccelli
aiutanti di nido abbiano dei geni identici a quelli dei piccoli da loro protetti: ma da provare sarebbe il modo
e la misura in cui tale fatto sia la causa determinante del suddetto comportamento altruistico. Il che è impossibile per il semplice fatto che nessuno ha mai minimamente provato in generale neppure l’esistenza di
rapporti tra patrimonio genetico e comportamenti. Se dunque un simile discorso si vuole scientifico, è solo
perché suppone la scienza in modo non sperimentale, ma come sapere che teorizza un ordine superiore
con cui mettere ordine tra fenomeni in realtà disparati. Qui l’ordine superiore è evidentemente quello di
una supposta comunità in cui esseri altruistici condividono e attuano lo stesso scopo degli esseri individualisti, cioè la trasmissione della stessa eredità genetica.
Ritornando alla figura dell’educatore sociale, ora è forse più chiaro cosa comporta il suo riconoscimento come figura funzionale alle relazioni d’aiuto nella società. Si tratta di un riconoscimento esteriore, che parte
da presupposti estranei al lavoro e all’esperienza di tale figura per applicarveli e darle così senso. Finché è
questo l’approccio con cui le scienze sociali riconoscono il valore degli educatori, non deve dunque stupire
se poi questi non se ne sentono del tutto soddisfatti.
Un altro approccio di ricerca, tra i tanti altri possibili, è quello dell’Etnografia del pensiero per cui mi impegno. Nostro punto di partenza è evitare ogni definizione a priori, come appunto l’inquadramento dell’educatore sociale come funzionale alle relazioni d’aiuto necessarie alla società. Questa definizione, come ogni
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definizione che inquadra un fenomeno sociale prima di incontrarlo direttamente, deriva da un metalinguaggio da specialisti. Che pone gli specialisti di scienze sociali in una posizione di esteriorità e superiorità
rispetto ai soggetti su cui la ricerca è condotta. L’Etnografia del pensiero ipotizza che sia possibile una conoscenza scientifica della realtà sociale anche senza ricorrere ad alcun linguaggio da specialisti, mantenendosi ad un livello di linguaggio corrente. Affrontando le questioni degli educatori sociali, abbiamo sempre
provato, come sempre proviamo, ad attenerci al loro stesso linguaggio, quello da loro più correntemente
utilizzato. Anzi, scopo principale della nostra ricerca è proprio far risultare le frasi, i detti, le parole più significative che vengono impiegati per dire ciò che in un determinato luogo, come le scuole o le cooperative sociali, determinati soggetti, come gli educatori sociali, fanno. In che senso, più significative? Ebbene, più significative del luogo stesso e dei suoi possibili miglioramenti dal punto di vista degli stessi soggetti interpellati. Solo così, la ricerca sociale può riconoscere nell’esperienza degli educatori ciò che loro stessi pensano e dicono. L’idea generale è che soggetti come gli educatori sociali sottostanno inevitabilmente a decisioni prese da altri, da chi ha le responsabilità e le competenze per governare, in questo caso la cooperativa,
la scuola e gli enti locali. E che il loro pensiero, che pur rende possibile l’erogazione del servizio, ha occasioni di concentrasi, di manifestarsi e di contare sempre inferiori a quello che sarebbe auspicabile. In effetti, il
gap tra il pensiero e il linguaggio di chi governa e il pensiero e il linguaggio di chi è governato riteniamo sia
una delle caratteristiche del nostro tempo. Per cui nostro proposito è tentare di ridurlo. Ma non pretendendo di porci esattamente in una posizione intermedia, bensì dal lato di coloro che la nostra ricerca, per scelta
metodologica, privilegia: cioè i governati, quelli che il lavoro lo fanno, più che organizzarlo e deciderne le
strategie. La realtà sociale per questo nostro approccio è così anzitutto come un foglio a due facce, di cui
l’una è rappresentata da noi ricercatori, l’altra dagli stessi lavoratori, in questo caso gli educatori: di questo
foglio alla fin fine risulta ciò che viene scritto da noi nel rapporto finale d’inchiesta, che però è redatto attenendosi alle parole che sono sull’altra faccia del foglio, quella rappresentata dalla raccolta degli enunciati
dei lavoratori. Pensare la realtà come fatta di fogli, come del resto si fa in astrofisica, implica che se ne possa
studiare approfonditamente solo uno alla volta, ma implica anche che il contesto sia da concepire come un
insieme infinito di fogli: senza alcun preciso ordine superiore o inferiore, solo più o meno vicini o lontani.
Cosicché l’altro foglio di cui tenere anzitutto conto è quello rappresentato, da un lato sempre dai ricercatori, dall’altro, nel nostro caso, dai responsabili della cooperativa sociale. È con essi che concordiamo infatti come rendere più efficaci i risultati della nostra inchiesta.
L’essenziale per l’Etnografia del pensiero è che lo stesso soggetto indagante debba rendere esplicita la sua
presenza e le sue responsabilità nella stessa realtà sociale. Presenza e responsabilità che, se efficaci, sono
sempre inevitabilmente anche pratiche e politiche.
Come ogni pratica, ogni politica deve avere degli obiettivi. Anche noi proponiamo i nostri, primo fra tutti,
quello di fare un libro. Il libro dell’educatore. Le esperienze più interessanti e significative di lavoro, i consigli
che ciascun educatore si sentirebbe di dare ai suoi colleghi, i problemi più urgenti e le soluzioni magari trascurate o ostacolate: questi i temi principali che tale libro dovrebbe contenere. La speranza con cui ci impegniamo è che esso potrebbe essere utile sia all’esterno, per contribuire a quel riconoscimento della figura
dell’educatore tanto auspicato, sia all’interno, per coadiuvare la formazione degli stessi educatori a partire
dalle loro stesse parole e dal loro stesso pensiero.
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3. GLI INTERVENTI DELLA TAVOLA ROTONDA
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3. GLI INTERVENTI DELLA TAVOLA ROTONDA
3.1. Valerio Romitelli
Docente di Metodologia delle Scienze Sociali - Università di Bologna
Romitelli
La relazione che è stata fatta da Anna Laura Diaco e Sebastiano Miele spero abbia dato l’indicazione del nostro approccio, che vuole perseguire gli obiettivi dell’integrazione, come titola il convegno, non deducendo
le esigenze da un presunto sistema che bisognerebbe semplicemente estendere, ma partendo invece dalla
frontiera dell’esperienza così come è vissuta da coloro che la fanno esistere. Proprio per mantenere fede a
questo approccio, delego volentieri i miei dieci minuti di intervento ad una lettura diretta di uno spezzone
di intervista con una sorta di drammatizzazione. L’intervista verrà letta da Sebastiano Miele e Anna Laura
Diaco: tratta di temi politici che mi sembra siano assolutamente adeguati a quelli di cui dobbiamo discutere da qui in avanti.
Anna Laura Diaco
L’intervista è stata fatta nel dicembre del 2005 ad un educatore all’interno di una scuola elementare del
quartiere San Donato. Partiamo dall’intervista (domande/risposte):
Anna Laura
Per lei come soggetto, qual è la cosa che considera più interessante del suo lavoro?
Sebastiano
È difficile poter dire un'unica caratteristica: sono un insieme di cose... innanzitutto lavorare nella scuola con i
bambini è un bello specchio di quello che è il mondo, della vita, degli altri, vieni a conoscenza di un bel po’
di condizioni esistenziali delle altre persone, tramite i bambini si arriva agli adulti. Hai anche a che fare col
dolore, che è una cosa che deve essere conosciuta a mio avviso, la fatica… il dolore non così in genere: che
proviene da diverse situazioni, e poi può essere un diletto puramente intellettuale farsi tutta una propria
casistica socioculturale. Una bella fonte di conoscenza della realtà che ti circonda a mio avviso. E poi lavorare insieme a dei bambini, i tuoi casi ma anche tutti gli altri bambini, è una cosa che fa piacere... finché non ti
stanchi, non ti stressi...
Anna Laura
E la più importante?
Sebastiano
Diciamo che è un lavoro che, se lo affronti bene, ti modifica, perché porti comunque un aiuto, anzi è un rap-
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porto di aiuto, aiuti anche te stesso.
Anna Laura
In che modo?
Sebastiano
Ti aiuti perchè vedendo qualcuno che sta davanti a te che deve riuscire a fare tutta una serie di cose che
comportano molta fatica... ci si confronta... uno pensa a un periodo della propria vita in cui ha dovuto affrontare situazioni che paragonate a quelle che deve affrontare un handicap grave non sono niente o sono
molto meno difficoltose e non risolvevi magari solo per pigrizia intellettuale… quindi è per quello che ti
aiuta. Lo consiglio per chi nella vita ha fatto un po’ troppo il fenomeno, invece di andare dallo psicologo,
spende meno soldi. Per me è importante.
Anna Laura
E la più particolare rispetto ad altri lavori?
Sebastiano
Sono cose molto molto diverse… sebbene devi comunque stare all’interno di alcune, diciamo, regole
deontologiche, per cui devi avere un certo tipo di atteggiamento, è un lavoro che lascia discretamente spazio alla propria soggettività, puoi apportare e mettere nelle relazioni ciò che sei e ciò può arricchire chi ti
sta davanti, mentre a mio avviso molti lavori, se sei salariato, sei solo un funzionario d’apparato, sei solo funzionale a un meccanismo produttivo, la tua soggettività non esiste, anzi, se la metti in campo può dar fastidio… problema che io ho avuto in qualsiasi luogo prettamente produttivo… ero anche molto giovane...
più romantico... Qui apriamo tutto un discorso… comunque trovo che questo lavoro ti dà l’opportunità di
metterci te stesso, che non è mica poco.
Anna Laura
Qual è la cosa che considera più difficile, la più problematica del suo lavoro?
Sebastiano
In certi casi, mantenere l’autocontrollo, poi c’è una discreta responsabilità, perché in certi casi con figure
molto difficili è facile che si creino situazioni abbastanza di tensione, in cui si entra proprio in contatto fisico...parlo di preadolescenti che ti mettono le mani addosso, insultano, sei fortemente responsabilizzato e se
sbagli qualcosa scattano le denunce. A volte uno pensa che a fronte delle responsabilità che hai, diciamolo,
il riconoscimento sociale del nostro lavoro e anche quanto viene pagato è veramente basso... quindi chi dopo 3 o 4 anni si guarda allo specchio e dice che non ce la fa più, lo capisco.
Anna Laura
C’è un problema in particolare che vorrebbe vedere risolto?
Sebastiano
Che la professionalità dell’educatore sia qualcosa di più chiaro e di più precisato e che venga un po' più
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allo scoperto, a volte ho la sensazione che non è né carne né pesce... per chi lavora all’interno della scuola
eh!... Gli altri ambiti sono molto più esplicitamente chiari, già mi farebbe piacere questo… a parità di ore di
salario… sarebbe anche più... sentirsi sempre dire “ma tu questo lavoro per quanto lo vuoi fare?” dalle maestre... i bidelli... non fa mica piacere… sembra che...!
Anna Laura
Cosa pensa dell’organizzazione della cooperativa Società Dolce?
Sebastiano
Evidentemente sul piano della ricerca di lavori, di espansione della propria attività, sono organizzati molto
bene, si muovono bene: per riuscire ad espandersi in continuazione negli anni, non penso che è perchè
vanno solo al ribasso, come dicono molte malelingue, secondo me è una visione abbastanza offensiva, nata
a mio avviso specialmente all’interno delle scuole dal rapporto che gli educatori hanno con gli operatori
statali, i quali hanno una visione della condizione lavorativa, di un modo di fare economia che va molto in
contrasto… spesso ho sentito dire da maestri che tutto dovrebbe essere statale, con tutta una serie di protezioni nell’ambito lavorativo, con quantità a livello remunerativo, tutto statale… questa è una posizione
ideologica che c’è all’interno della scuola, per cui la cooperativa è vista come il nuovo sporco e brutto capitalista e alcuni educatori sposano questa visione qua, anche perché c’è l’idea di entrare nella scuola e diventare gli “eletti”… non essere mai licenziati…
A mio avviso è chiaro che la cooperativa, come anche altre, sia sotto gli occhi di tutti… è palese che paga
poco, tutti lo vedono, tutti lo tastano, e che nel passato, sia in Società Dolce che in altre, con la qualità si sia
un po' troppo azzardato... con la qualità del personale bisognerebbe guardarci di più... ma questo poi si va a
ricollegare con il discorso sulla figura dell’educatore… io non mi sento di dire che i colpevoli di tutto questo siano solo le cooperative.
Anna Laura
Pensa di continuare a fare questo lavoro?
Sebastiano
Per i prossimi anni penso di sì, anche perché ho la mia visione...: se posso, dentro un’azienda non ci entro
più, è una scelta esistenziale proprio... entrare in un ambiente tecnico-produttivo a me non piace.
Anna Laura
Pensa che l’educatore abbia un futuro nelle scuole di Bologna?
Sebastiano
Secondo me è tutto collegato alla possibilità che le strutture pubbliche da cui arrivano i soldini abbiano nel
futuro la possibilità di potersi permettere di avere degli educatori… in alcune regioni non esistono neanche... dipende da come sarà gestita la situazione economica in generale… sicuramente in tutta la struttura
che gira intorno al sociale ho la sensazione che siamo le figure più deboli… se fanno un taglio alle spese,
noi siamo i primi ad andare casa... ho questa percezione, poi magari non è così.
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3.2. Fulvia Righi
Pedagogista, Comune di Bologna.
Buongiorno a tutti, sono Fulvia Righi e come è stato detto intervengo in sostituzione della Dott.ssa Maria
Rosa Bonomi, che presso il Settore Istruzione del Comune di Bologna ha un ruolo specifico: è una figura di
pedagogista che entra in contatto con tutti gli Enti coinvolti per l’integrazione (scolastica e sociale) dei
bambini e dei ragazzi con deficit.
Il mio ruolo è diverso, in quanto opero come pedagogista presso un quartiere e coordino alcuni servizi educativi territoriali e di scuola dell’infanzia.
Pertanto qui posso portare la mia esperienza: da pochi mesi sono entrata a far parte del coordinamento pedagogico del quartiere Navile, e in precedenza ho lavorato anche in altri territori: 10 anni nel coordinamento pedagogico del quartiere Saragozza, prima ancora 5 anni nel quartiere San Vitale; sono ‘transitata’ alcuni
mesi al quartiere San Donato….. Ma prima ancora nasco anch’io come educatrice.
Penso all’inizio della mia attività lavorativa, prima come educatrice per l’Anfass nei soggiorni estivi, poi in
diversi corsi di formazione professionale organizzati dalla Provincia di Bologna (formazione in situazione,
formazione integrata ad indirizzo ceramico…), ed in uno dei primi bienni propedeutici a carattere sperimentale per l’orientamento professionale. Quest’ultimo, in particolare, si costituiva all’interno della scuola
media ma al termine dell’obbligo scolastico, per valutare le possibilità di inserimento nella formazione professionale in base alle capacità e potenzialità degli adolescenti con deficit.
Tutto questo, come educatrice e poi pedagogista, per parecchi anni prima di diventare una “salariata fissa”1
dell’amministrazione comunale, dove sono approdata all’età di 41 anni: ho anch’io vissuto tutto il percorso
della libera professione, detto bene, o meglio del precariato, perché di fatto ogni anno o ad ogni biennio si
trattava di iniziare una nuova avventura.
Quindi porto qui la mia esperienza personale, che è qualcosa di diverso dalla teoria, ci tengo a dirlo: l’esperienza è qualcosa che ognuno di noi matura nel tempo, coniugando quella che è la formazione iniziale insieme alla formazione da autodidatti, che ricerchiamo per un’esigenza vitale, proprio per essere vivi come
educatori, come formatori, come professionisti, per rimettere continuamente in gioco i nostri saperi e per
‘essere aperti’ a quello cui andiamo incontro (un educatore nell’intervista lo esprimeva molto bene).
Prendo le mosse per il mio intervento in particolare a partire dal tema della formazione dell’educatore e
dell’immagine del proprio ruolo, perché mi sembra che nelle interviste questo sia stato il nocciolo, il punto
focale, in cui si determina anche quell’area di ambiguità che il ruolo dell’educatore professionale oggi ci
porta a indagare o ad interrogare.
Con queste interviste, la metodologia dell’ etnografia del pensiero tenta di capire l’immagine del ruolo di
educatore proprio attraverso le parole che utilizzano gli educatori stessi, per descrivere quello che fanno
quotidianamente. Ci rendiamo conto di come una serie di connotati, che derivano da dati oggettivi e concreti, caratterizzano il lavoro dell’educatore: può essere “chi paga le ore del contratto che viene firmato,
qual è il luogo fisico dove ci si trova a lavorare, quali sono le altre figure professionali con cui lavora e per
1. l’uso del termine “salariata fissa” allude in questa sede all’espressione di un educatore professionale intervistato, in merito alla condizione
di precariato che differenziava il suo vissuto rispetto allo status degli insegnanti assunti e di ruolo.
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quante ore lavora”, quindi questi sono dati oggettivi e concreti.
Nella ricerca, che è stata presentata prima, ci veniva detto che i luoghi possono andare dalla scuola dell’infanzia fino alla scuola secondaria superiore, inoltre che le altre figure con cui si interfaccia l’educatore professionale sono figure che hanno diversi status giuridici e contrattuali e diversi obiettivi di lavoro, o almeno diverse mansioni o funzioni da svolgere.
Questi sono quindi elementi che concorrono alla definizione dell’immagine -che gli altri hanno dell’educatore- e delle aspettative che hanno verso questi, ma anche che l’educatore ha verso se stesso.
Poi ci sono anche le immagini di sé che si maturano in un ambito esistenziale e che, tra l’altro, si collegano al
tipo di formazione precedente acquisita. L’ aver scelto già all’inizio, per propria vocazione, un percorso formativo nell’ambito educativo (che siano state le magistrali, che siano le lauree in scienze della formazione…) non è la stessa cosa per chi non ha mai svolto un ruolo di tipo educativo e si trova quindi, per la prima volta, a fare l’educatore all’interno di una scuola, quando magari le sue precedenti esperienze formative
o lavorative sono state in agraria o in giurisprudenza o in storia contemporanea, o ancora nell’aver lavorato
come cameriere o cassiera o… restauratore.
E’ chiaro che, a seconda della storia precedente, ognuno si è costruito un’immagine del proprio percorso
professionale - lavorativo.
E’ stato messo in risalto nelle interviste come le persone, gli educatori che non avevano una formazione
specifica valutino la preponderanza, la significatività della pratica rispetto ad una formazione più di tipo accademico e allora nella prima parte delle interviste, alle domande in merito emerge l’opinione che questo
“è un lavoro che non si può imparare a scuola”, all’università e così via… Chi invece ha fatto un percorso attinente dice che sì, è stato utile avere delle basi metodologiche, ma poi la realtà va affrontata momento per
momento, bisogna “mettersi in gioco”.
Quindi da un lato c’è il convenire sulla pregnanza del mettersi in gioco, dall’altro lato apparentemente c’è
sfiducia nella formazione.
Sappiamo anche che i canali formativi attraversati dagli educatori non sono omogenei, sappiamo che tutta
la formazione pecca spesso di lontananza dall’ambito reale in cui poi si devono calare i saperi; però ho letto
molto positivamente quella che mi è sembrata una convergenza finale, al termine delle interviste dove, al di
là del rammarico rispetto alle diversità, alle fatiche di tollerare e farsi carico della flessibilità, delle diversità,
alla fine ho trovato degli educatori motivati perché, quando poi alla resa dei conti viene chiesto “che cosa
può migliorare la tua posizione lavorativa?”, tutti rispondevano con l’esigenza di una formazione specifica.
Formazione che può avere tante facce, non soltanto a una dimensione, non solo una formazione accademica… Viene specificato: una formazione “in situazione”, perché la formazione in situazione è quella che prevede un tempo per riflettere su ciò che sto vivendo, sui problemi che quotidianamente mi si pongono davanti
e sulle soluzioni e le strategie che cerco di adottare, per vedere quello che ho messo in campo, che cosa, di
nuovo, può rimettere in gioco.
E’ quella possibilità di essere consapevoli dell’esperienza che si sta maturando, è quel passaggio dall’urlo
(sembra sia stato detto “vorremmo che qualcuno ascoltasse il nostro urlo”). Ecco, l’urlo è la sintesi di un’emozione forte, una fatica forte, una difficoltà, ma anche la voglia di farsi sentire che può essere, può tradursi in
una consapevolezza del proprio ruolo.
Mi sembra siamo proprio qui, vedete, abbiamo iniziato questo percorso proprio per riflettere ed essere consapevoli del ruolo.
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E’ emerso che l’educatore ha un ruolo ambiguo…. ma credo che un’educatrice abbia colto la caratteristica
di questo ruolo, cioè l’ambiguità in senso positivo, nel senso che non è definibile, non possiamo fare un
mansionario, non possiamo dire dove si deve svolgere e come.
L’ambiguità è costitutiva di questo ruolo, ne sono convinta.
Per la mia esperienza, la figura dell’educatore nasce in effetti dapprima in contesti extra- scolastici, o almeno prevalentemente extra-scolastici. Ricordo che il termine “extra” nelle interviste suonava quasi male come
se fosse un essere sminuiti, avere meno valore: fra scuola ed extrascuola, l’extra suona male, sembra quasi
abbia minor valore.
Dobbiamo recuperare il valore di quel “extra”.
Noi diciamo che una carenza della scuola è quella di essere scollegata dal mondo circostante, quella di perseguire soltanto alcuni codici e alcuni saperi e di dimenticarne altri, che poi magari sono quelli fondamentali per i bambini con deficit (non è un caso che da decenni lamentiamo come l’orientamento al dopo
scuola dell’obbligo è qualcosa ancora da costruire, da sostenere, da perseguire intensivamente e non soltanto in un breve progetto mirato a questo).
Allora dobbiamo recuperare il senso, credo, che ha la figura dell’educatore, che mi sembra svolga proprio
questo ruolo di anello di congiunzione tra la scuola, la famiglia, il territorio, proprio perché il territorio deve
entrare nella scuola e la scuola deve usare il territorio per tutte le risorse che offre e perché non possiamo
aspettare la fine della scuola dell’obbligo, che so, per lavorare sulla capacità di scegliere il percorso con l’autobus, per andare in un determinato posto, riconoscere che ore sono, saper cucinare un pranzo, coltivare
dei fiori…
Ecco, gli educatori professionali hanno, secondo me, la possibilità di introdurre tutti quei linguaggi di cui la
scuola è molto carente. E’ il lavoro per laboratori, laboratori che possono essere dentro la scuola, ma molto
più facilmente si trovano fuori dalla scuola. C’è una parola che un’educatrice ha utilizzato: la “manualità”.
Quando l’ho letto ho pensato “forse voleva dire qualcos’altro, forse voleva dire ‘pratica’?!” e poi ho pensato
“No, che cosa fa l’educatore a scuola? L’educatore a scuola fa proprio quel lavoro che diceva un educatore: fa
il facilitatore, media, amplia le relazioni, consente al bambino-ragazzo di stare a scuola e non di esserne buttato fuori (non soltanto lui ma a volte anche con qualche altro collega….!). Perché la scuola non riesce a rispondere a tutti i bisogni, in particolare i bisogni di relazione, non riesce a far vivere delle esperienze di successo, ma sembra rimarcare sempre quello che non funziona. E noi sappiamo che con i bambini-ragazzi con
difficoltà di comportamento, ad esempio perché non sanno relazionarsi, perché non sanno programmare il
loro tempo scolastico e le cose che fanno, l’educatore fa da sponda, fa da sostegno, riesce a guidare, riesce a
mediare, riesce a fare questo lavoro di ponte. Certo deve anche mettere in gioco dei saperi, perché se ad
esempio un educatore ne sa di agraria può proporsi, e non al bambino/ragazzo singolo, in un lavoro individualizzato, ma può dare questo contributo di cui si parla al PEP (progetto educativo personalizzato), proponendo per la classe o per la scuola proprio il lavoro anche manuale legato, ad esempio, al giardino, all’orto,
o se sa di falegnameria…
E questo mettersi in gioco mi fa pensare proprio che un educatore può prendere l’iniziativa e non solo seguire, si usa questa parola “seguo il bambino con deficit”…. eh sì, perché se l’ambiguità e la confusione di
ruolo porta l’educatore a pensare di essere una fotocopia dell’insegnante di sostegno probabilmente dovrà
seguire. Potrà lavorare con molte fotocopie anche materialmente, ma se l’educatore professionale ha delle
competenze, dei saperi che possono essere suoi, oppure può sapere dove andarli a trovare, può contribuire
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ad inserire delle proposte, dei progetti dentro al PEP, che si svolgano dentro la scuola, ma si possano svolgere anche fuori. Chiaramente per poter aver questa autorevolezza occorre intanto che ogni educatore sappia
individuare i propri saperi, il proprio saper fare, quel ‘segreto professionale’ a cui si faceva riferimento e che
non è facile da spiegare o raccontare ad altri.
Il professor Andrea Canevaro, tra i tanti strumenti che ha dato a chi lavora nell’integrazione scolastica dei
bambini con deficit, se vi ricordate, ci diede il suggerimento dell’”Istruzione al sosia”, che è questa capacità di
raccontare e descrivere il proprio lavoro, che tanti hanno chiesto a Don Milani. Gli chiedevano:“Ma tu come
fai a fare la scuola in questo modo 24 ore su 24?” e lui non ha mai scritto questo metodo didattico, ha detto:
“Venite a vedere”.
Anche gli educatori dicono: “Venite a vedere sul campo che cosa facciamo”; ecco allora che la competenza
fulcro dell’educatore è quella di mettersi in comunicazione, in ascolto, in relazione con i colleghi, perché il
valore dell’integrazione del bambino con deficit si misura effettivamente a specchio da quanto sono integrati fra di loro gli adulti che lavorano con lui, dalla consapevolezza del proprio ruolo, dal dare un senso al
proprio ruolo e dal saperlo mettere in relazione con i ruoli degli altri senza pensare di dover essere e fare le
stesse cose degli altri. E’ vero che quindi una risorsa importante per lavorare bene è quella del lavoro di
gruppo. Ricerche non recentissime sui lavori di aiuto -lavori che portano molto facilmente alle sindromi di
burnout- individuano come una delle risorse per contrastare il burnout, prima tra tutte, il lavoro di gruppo.
Il lavoro in team, perché così non sono da solo a condividere il mio senso di impotenza, la mia frustrazione,
quando non vedo miglioramenti, ma intanto le fatiche le condividiamo insieme.
Quindi il lavoro di gruppo è, insieme alla formazione, una delle modalità che deve far parte del lavoro, perché quando quella educatrice diceva: “per me è stato importante sentirmi alla pari, quando ad esempio mi
hanno chiesto di fare lezione”…cos’è questo? E’ confusione dei ruoli? Secondo me, no.
Ma se l’educatrice a volte si fa carico lei del gruppo classe (con varie proposte come la drammatizzazione o
altro) e c’è l’insegnante di classe che si fa carico del bambino o dell’allievo con deficit, cosa stiamo comunicando ai compagni? Che noi non deleghiamo in toto la relazione e gli apprendimenti ad una persona specifica, ma ce ne prendiamo cura, ce ne facciamo carico con tempi diversi, facendo cose diverse, ma lo facciamo un po’ di tutti.
Questo è un altro messaggio che mi premeva sottolineare. Grazie!
137
3.3. Alessandra Francucci
Dirigente scolastico Direzione Didattica n. 10 e Istituto Comprensivo n. 3 di Bologna
Buongiorno, sono Alessandra Francucci dirigente scolastica della scuola di base: dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di primo grado. Gioco un doppio ruolo, quest’anno, perché gli istituti che dirigo sono
due: uno nel Quartiere Navile, Istituto Comprensivo n°3 e l’altro nel Quartiere San Vitale, 10° Circolo.
Ho fatto i compiti, non potevo esimermi dato il mio ruolo, e sono stata affascinata dai materiali offerti da
queste ricerche. Non me ne vogliano le bravissime curatrici, Caterina Segata e Lucia Marrocchi, ma per cultura, formazione ed interessi sono stata sicuramente più attratta dalla parte “qualitativa” della ricerca, per il valore che viene dato dal Grep (Gruppo di ricerca di Etnografia del Pensiero – Dipartimento Discipline Storiche
dell’Università di Bologna) alla dimensione narrativa e soggettiva e quindi alla capacità degli educatori di
raccontarsi e raccontare il proprio ruolo. Devo ammettere che mi sono sentita anche un po’ in colpa, come dirigente scolastica, poi con un “guizzo pragmatico” mi sono detta:“Bene, cerchiamo di cogliere gli stimoli che le
parole dei ragazzi e delle ragazze, educatori, hanno lanciato” e così ho iniziato:“i materiali sono tanti, gli stimoli
sono tanti, su cosa posso soffermare la mia attenzione? Cosa privilegiare? E soprattutto, come utilizzare le riflessioni degli educatori per farne uno stimolo al miglioramento sia del contesto scuola, sia delle interazioni con il
contesto e dentro il contesto”? Ho individuato due elementi, che mi sono sembrati i più interessanti, due condizioni spesso richiamate dalle parole degli educatori: l’isolamento e la di crisi di identità del ruolo.
Due elementi, due dimensioni che sono incorniciate e fortemente condizionate da un ulteriore aspetto dominante che sembra essere uno specifico del mestiere di educatore: la precarietà. Per la remunerazione
non sempre adeguata e soddisfacente, per la fatica emotiva e per l’incertezza delle condizioni, questo lavoro è molto spesso considerato di transito, molti ragazzi e ragazze lo iniziano ma poi cercano e approdano a
qualcosa di percepito come migliore.
I dati quantitativi presentati al riguardo sono espliciti, però credo possano esserci alcune strade percorribili e
non onerose, per limitare il senso di precarietà di questo lavoro e per approdare ad una maggiore stabilità.
Torniamo alle due dimensioni sulle quali volevo fare un minimo di riflessione.
L’isolamento: mi sembra proprio che gli educatori si sentano soli. Dalla ricerca emergono moltissime frasi
in cui il senso di solitudine, di isolamento viene rimarcato, ne recito una tra le più significative: “siamo allo
sbando, non abbiamo punti di riferimento, siamo una categoria inesistente; gli insegnati il loro capo ce l’hanno è
qui, è il dirigente, ma non è il mio capo”.
Un isolamento che sembra determinato da due aspetti: la mancanza di rapporto tra i pari, che sicuramente
è in gran parte condizionato dalla tipologia del rapporto che gli stessi educatori hanno a scuola con i ragazzi che è 1:1, e un isolamento dal contesto.
1° aspetto- Gli educatori hanno poco tempo per incontrasi, per confrontarsi, per programmare, per progettare, e questo sia per motivi contrattuali: non hanno ore da attribuire a ciò, sia, come dicevo prima, per la natura stessa del loro lavoro che spesso li vede soli con le allieve e gli allievi loro affidati.
2° aspetto- Vivono un isolamento dal contesto e, come emerge dalla ricerca, gli educatori si sentono, e probabilmente a volte sono, considerati e vissuti come una figura a parte, decentrata rispetto al sistema scolastico. Sono privi di stabilità, privi di linee di indirizzo, sembrano non avere un centro di gravità nel mondo
della scuola.
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In effetti, la scuola è ormai un’organizzazione molto complessa, l’educatore ne è parte integrante, ne è parte importante, ma non è un interlocutore dell’istituto. Questo è il problema centrale. La gran parte degli
educatori non interagisce con alcuna struttura organizzativa della scuola, si rapporta ai ragazzi, si rapporta
con gli insegnanti di classe, si rapporta con il consiglio di classe, spesso in forma troppo esigua, ma non partecipa a momenti fondamentali di progettazione: non è nelle commissioni, non è nei gruppi di lavoro, non
è nei gruppi disciplinari, è isolato rispetto all’organizzazione della struttura in cui è inserito e quindi diventa
un non interlocutore.
L’altro aspetto che prevale ed emerge con insistenza dalle parole degli educatori, e poi veniamo ad una piccola proposta, è l’ambiguità del ruolo, una sorta di crisi di identità professionale. Non sembrano esistere
funzioni e mansioni specifiche che determino e configurino il ruolo dell’educatore. Dalle interviste sembra
quasi che gli educatori, individuino il proprio ruolo e le mansioni che gli sono proprie, attraverso un confronto con la funzione docente, attivando meccanismi di identificazione o di differenziazione. Alcuni ragazzi
nelle interviste esprimono con chiarezza tale vissuto: “Beh, io sto bene, faccio in fondo ciò che fanno gli insegnati di sostegno”; altri: “faccio tutto ciò che loro non fanno”. Come nei processi di crescita: identificazione e
differenziazione, ecco la mancanza di una certezza professionale.
E’ chiaro che il ruolo dell’educatore è per sua natura flessibile, deve rispondere a situazioni e condizioni speciali, guai se perdesse flessibilità. Il problema è che troppo spesso la flessibilità può diventare ambiguità,
un’ambiguità vissuta come negativa e non positiva, come invece potrebbe essere. A determinare questa
condizione contribuisce la modifica che il ruolo di educatore subisce a seconda dei contesti in cui si trova
ad operare. L’educatore a scuola fa determinate cose, l’educatore in un centro per gli anziani ne fa altre, l’educatore che opera sul territorio altre ancora, l’educatore di una comunità di adolescenti ha altre mansioni,
altri ruoli specifici… Quindi, credo che individuare modalità per stare nel contesto in cui opera e cercare
chiavi e strategie per un’interazione adeguata con il contesto lavorativo possa essere una delle strade possibili per quel piccolo miglioramento di cui parlavo all’inizio, per il tentativo di modificare almeno in parte la
condizione e la percezione professionale di ciascuno. Credo che il miglioramento possa andare in una direzione, alla ricerca della stabilità.
Il Comune e la cooperativa hanno già fatto molto in questi anni per garantire continuità: il dato del 57% di
continuità sui casi è abbastanza rincuorante e positivo, si sta cercando, e lo dico da operatore della scuola,
di garantire il più possibile una presenza continua dello stesso operatore sui ragazzi speciali, ma ritengo
non basti e i vissuti professionali degli educatori raccolti dalla ricerca stanno a dimostrarlo.
Non basta perché la continuità sui casi non garantisce rapporti con il contesto, non garantisce crescita professionale nel contesto in cui si opera, per lo meno non sempre. Quindi, la piccola sfida che si dovrebbe percorrere e compiere è passare dalla continuità alla stabilità, che non vuol dire superamento della precariato, non mi permetterei mai un pensiero così positivo ed ardito…, significa creare almeno una sorta, utilizzo
espressioni specifiche del mondo statale, di organico di diritto degli educatori. Creare un organico di diritto
significa attribuire ad un istituto un gruppo di educatori stabili. Questo gruppo è di numero sempre leggermente inferiore al numero complessivo di operatori che serviranno ogni anno ad un istituto. Facciamo un
esempio: in uno degli Istituti da me diretti ruotano 8 educatori, di questi 8 educatori almeno 4 potrebbero
essere stabili, avere un monte ore aggiuntivo da utilizzare in ore non frontali, e mi sembra che in apertura
del convegno sia stata espressa questa volontà da parte della Cooperativa, mantenere quindi non solo una
continuità sui casi bensì con la “struttura” un numero di ore che gli permettano di partecipare alle attività di
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progettazione della scuola, consentendogli di diventare un interlocutore dell’ istituzione in cui opera.
Un gruppo stabile di educatori crea raccordo con le istituzioni, sarebbe a conoscenza di tutti i casi, degli
specifici bisogni dei ragazzi e delle ragazze, dei bambini e delle bambine in situazione di handicap, potrebbe garantire una forma di accoglienza e tutoraggio agli altri educatori che immancabilmente ogni anno si
aggiungono per l’instabilità numerica e di condizioni degli alunni da tutelare. Creare una condizione di stabilità almeno per una parte degli operatori potrebbe essere quel piccolo passo che, credo, potrebbe garantire maggiormente gli alunni, gli educatori stessi e contribuire ad implementare il raccordo tra scuola e territorio. Come diceva prima la collega, Fulvia Righi, se un gruppo di ragazzi operasse stabilmente in un istituto per qualche anno anche l’istituzione scolastica ne avrebbe un vantaggio enorme soprattutto nel rapporto con il territorio.
Uno degli educatori in una frase ha espresso perfettamente quello che io intendo:“perché il lavoro sia efficace
… bisogna intervenire su tutta la classe, su tutta la scuola in pratica mettendo in gioco le proprie competenze e
attitudini… serve anche all’educatore ad individuare il proprio ruolo in una comunità, riconosciuto da tutti, e questo favorisce la considerazione che il bambino può aver di lui e quindi l’influenza dell’educatore sul bambino”.
Il problema è trovare la strada per essere riconosciuti dalla comunità, per essere visti come parte integrante
dalla comunità scolastica. Ovviamente anche la scuola deve fare passi avanti in questa direzione superando
alcune rigidità e stereotipi che a volte la fossilizzano, ma credo che questo percorso possa condurre al superamento dell’isolamento, almeno in parte, e possa anche aiutare nell’interessante e dinamica strada di
costruzione dell’identità dell’educatore, una figura aperta al possibile e flessibile, sempre un po’ ambigua,
che a me piace definire figura speciale per bambini e bambine speciali, per ragazzi e ragazze speciali.
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3.4. Giancarlo Rigon
Direttore Unità Operativa di Neuropsichiatria e Psicologia dell’Età evolutiva dell’Azienda USL Bologna Centro
In qualità di coordinatore delle Unità Operative di neuropsichiatria infantile che nella Azienda USL di Bologna fanno parte del Dipartimento di Salute Mentale, mi è possibile fare riferimento, almeno per alcuni dati,
a tutta l’area della nostra provincia, fatta eccezione per Imola. Sarà interessante valutare questi dati anche
in relazione alla possibilità che in un futuro essi possano essere messi in relazione con quelli in possesso
della Cooperativa, in quanto Società Dolce opera non solo sul Comune di Bologna, ma anche in aree esterne ad esso.
Società Dolce mi ha positivamente sorpreso stamattina. Avevo letto i materiali che mi erano stati mandati,
conoscevo quindi i contenuti che sarebbero stati proposti alla discussione (si tratta di due interessanti documenti, uno in particolare, quello relativo alla ricerca “Mettersi in gioco ogni giorno”, sicuramente più attraente e l’altro di carattere prettamente documentativo relativo ai diversi tipi di intervento e alle attività
svolte), eppure,come dicevo, sono rimasto positivamente sorpreso dalla Cooperativa perché ha saputo
proporre in modo forte, coinvolgente e puntuale la nostra attenzione sulla questione degli educatori.
Una questione a cui tengo particolarmente, anche perché ho avuto occasione di organizzare e dirigere la
prima scuola per educatori avviata circa 20 anni fa in ambito sanitario. E’ stata un’esperienza di grande interesse, che ha avuto un peso anche nelle mie successive scelte di orientamento professionale e di direzione.
Ad esempio, quando nel 1996 ho avviato la semiresidenza per adolescenti con disturbi psichiatrici, e quando più tardi, nel 2000, ho attivato il day hospital per adolescenti con disturbi psico-patologici gravi, la scelta
è stata quella di operare con la collaborazione di educatori, non di infermieri, come avviene per tradizione
in psichiatria. Scegliemmo quindi di operare all’interno della sanità con una figura professionale che con la
psichiatria aveva sempre avuto poco a che fare direttamente, e questo incrocio tra pedagogia, psichiatria e
psicologia è stato uno dei confronti per me più interessanti.
Ragionando di figure professionali, voglio citare la vostra ricerca, in particolare la nota finale a cura del prof.
Romitelli dove si segnala come una delle prospettive secondo cui leggere la figura dell’educatore è l’educatore all’interno del sistema; ciò che io porto come esperienza è sicuramente un esempio di educatore all’interno del sistema; anche la dottoressa poco fa, nella sua relazione segnalava l’educatore all’interno del sistema scuola dell’obbligo; nel caso del mio lavoro, siamo all’interno del sistema sanità, di un campo speciale della sanità che è quello della salute mentale.
Nei materiali della vostra ricerca c’è una cosa che, invece, mi ha sorpreso: leggendo ed ascoltandovi questa
mattina, sembra che dopo 20 anni di lavoro in comune fra educatori e clinici sul campo della integrazione
dei disabili, non sia cambiato granché. Ho ascoltato e letto infatti di una grande incertezza sino all’ambiguità circa il ruolo e i compiti dell’educatore, di una fragilità metodologica: all’apparenza sembra che non si sia
depositato nulla di tutto ciò che in questi 20 anni è stato fatto; ma questo non mi convince, e quindi mi
chiedo dove invece si trova questo sapere che ci e vi deriva dall’esperienza fatta. Emerge una frammentazione così caleidoscopica delle immagini di sé che viene presentata nelle interviste degli educatori, tanto
da costringerci – per andare a sintesi – ad utilizzare una chiave di lettura troppo ampia, ed anche questo
non mi convince, se penso che esiste una pratica ben consolidata.
Possiamo dire che queste incertezze e fragilità nella proposizione professionale di sé da parte dell’educatore
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derivano forse dal prevalere del fare sul saper fare, sul saper essere; eppure mi piacerebbe approfondire questo discorso perché l’ipotesi appena fatta non mi convince del tutto, così come non mi convince il fatto che
quando sono tornato a frequentare le scuole per occuparmi di alcuni bambini disabili o con disturbi del
comportamento, mi sono sentito fare le domande di sempre: “ma che cos’ha questo bambino?” “ e noi cosa
possiamo fare?” Anche in questo caso, sembra che l’esperienza fatta in comune nell’arco di questi 30 e più
anni sia trascorsa invano. No, questa ipotesi non convince, neppure pensando che, almeno in parte, le molte
positive esperienze fatte siano state opacate dalla routine, da una sorta di burocratizzazione del processo
di integrazione.
Un approfondimento del fenomeno è indubbiamente necessario. Così come è necessario fare un approfondimento sui dati, sulle competenze, su molte cose che anche Segata diceva oggi nella sua introduzione, relative agli impegni che devono assumere anche dal punto di vista formale ciascuno degli Enti che concorrono, anche economicamente, a costruire e a favorire l’integrazione scolastica e dunque sociale. Come viene ben ricordato nell’introduzione dei vostri documenti, credo che questo sia un impegno a cui siamo chiamati anche formalmente; ricordo al riguardo, che è in corso il rinnovo degli Accordi Provinciali di Programma attuativi della Legge 1\04/92, rinnovo che va fatto entro quest’anno. Questa è sicuramente l’occasione
in cui noi dobbiamo riconsiderare le sinergie esistenti tra le diverse istituzioni ed i compiti ad esse assegnati. Questo è un problema non piccolo se visto in un quadro più generale caratterizzato dalla di riduzione di
risorse disponibili.
Porto qualche dato aggiuntivo rispetto a quelli che avete presentato voi, perché riguarda il tipo di interventi che l’Azienda USL attraverso il nostro Servizio di neuropsichiatria e psicologia dell’età evolutiva svolge
noi facciamo direttamente a supporto dell’integrazione.
Per questi dati mi riferisco ora alla realtà della Unità Operativa dell’Area Centro che coincide con l’area del
Comune di Bologna. Ebbene, dovete considerare che in questa area quest’anno, 2007, risultano certificati ai
sensi della Legge 104, 1.004 bambini, il che rappresenta una crescita di circa il 10% rispetto allo scorso anno, quando i minori certificati risultarono essere 915. Questo dato ci propone uno dei punti di riflessione
che dobbiamo aprire: in base a quali criteri vengono fatte le certificazioni?
Per dirvi ora cosa facciamo come supporto più diretto alla integrazione, mi riferisco ai dati del 2005. Avevamo allora, come detto sopra, 915 minori certificati ai quali forniamo direttamente gli interventi di riabilitazione logopedica e fisioterapica.
Per quello che riguarda gli interventi educativo terapeutici che realizziamo nel cosiddetto “extrascuola”, abbiamo due diversi sistemi secondo cui questi interventi vengono organizzati; il primo fa perno sulla struttura “Parco Cedri” e caratterizza storicamente l’area Est, mentre il secondo, caratteristico della zona Ovest, va
sotto il nome di “Laboratori in Rete” ed utilizza spazi e laboratori delle scuole.
Nella zone Est riusciamo così a seguire con degli interventi individuali qualcosa come 102 bambini con rapporto 1:1, e 180 in piccoli gruppi che prevedono un massimo di 5 bambini per gruppo. Nella zona Ovest, lo
scorso anno abbiamo attivato 40 Laboratori in rete, attraverso i quali abbiamo seguito 68 ragazzi certificati,
106 con disagio psico-sociale, 90 stranieri, 774 senza particolari problemi o difficoltà, che sono stai coinvolti
nei lavori dei laboratori secondo la logica e la pratica della integrazione.
Tutto questo è costato alla Azienda USL poco meno di 664.000 euro. A questo dobbiamo aggiungere il costa derivante dall’inserimento dei minori seguiti dal nostro Servizio in strutture semiresidenziali o residenziali; la cifra relativa è stata lo scorso anno pari a 575.000 euro.
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A questa va ad aggiungersi la cifra relativa al lavoro terapeutico che noi facciamo per gli adolescenti con
disturbi psichiatrici attraverso anche gli interventi di educatori nelle nostre semiresidenze e nel day hospital; il tutto si traduce in una spesa complessiva di 922.000 euro.
Possiamo dunque dire che la spesa è consistente, gli interventi sono consistenti, il numero dei ragazzini seguito è consistente; ciò significa che Bologna mantiene, e non solo per quel che ci compete direttamente,
un alto livello di attenzione e di qualità di intervento in questo ambito. Eppure, nonostante un forte, qualificato e variegato intervento, noi registriamo un fenomeno fortemente preoccupante, rappresentato dalla
crescita costante delle richieste di collocazione in strutture semiresidenziali e residenziali dei bambini disabili.
Questo fenomeno potrebbe essere la spia, come molti ritengono, di movimenti sociali più ampi, come la
moltiplicazione delle famiglie monoparentali, o come la settorializzazione e sanitarizzazione delle risposte
assistenziali, oppure ancora, come la frammentazione della rete di sostegno sociale. Qualunque sia la risposta, siamo di fronte ad un segnale di allarme sul quale occorre rifletter con serietà.
Intanto, credo sia utile, anche a questo fine, cogliere l’occasione degli Accordi Provinciali i Programma per
rivedere con più puntualità ed efficacia quello che stiamo facendo perché, appunto, abbiamo segnali di un
inaridimento e impoverimento del sistema, sia all’interno della scuola che all’esterno.
Come dicevo, la ricerca che avete presentato è molto interessante; questo è stato detto da tutti e non posso
che aggiungere testimonianza del mio interesse.
Riferendomi infine soltanto ad uno dei molti punti di possibile discussione evidenziati dalla vostra ricerca,
voglio ricordare l’importanza del lavoro in équipe, sia come supporto al lavoro del singolo, sia come occasione di supervisione e quindi di formazione, sia come occasione di superamento del senso di isolamento,
che viene segnalato più volte come uno dei sentimenti più diffusi tra gli operatori.
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3.5. Giovanni Battista Pesce
Presidente Consulta Comunale per il superamento dell’handicap Comune di Bologna
Buongiorno, mi chiamo Giovanni Battista Pesce. Sono stato invitato quale Presidente della Consulta delle
Associazioni per il superamento dell’handicap. Non posso parlare a questo titolo perché proprio il regolamento me lo vieta, per cui se mi è concesso parlo a mio nome.
Per prima cosa vorrei ringraziare Caterina Segata dell’invito, che ho accettato proprio per la relazione e crescita personale che ci accomuna e di sviluppo delle realtà associative e cooperative, nel tentativo di sviluppare il già positivo rapporto tra le due realtà.
Tra congiuntamente i risultati oggettivi che abbiamo conseguito vi sono “la continuità” dell’intervento dell’educatore, non solo nei vari al succedersi dei vari anni scolastici, ma anche rispetto agli interventi in corso
dell’anno scolastico e dei campi estivi. Non approfondisco le questioni relative agli aspetti “positivi” e “ negativi” circa la continuità di un operatore nel percorso integrativo di un alunno. Mi limito a dire che il tema
non può essere affrontato limitatamente alla tutela sindacale dell’operatore e va mantenuta sempre la
priorità riferita al progetto educativo personalizzato definito sull’alunno. Insomma la centralità di questo
soggetto, anche in relazione alla continuità o alternarsi degli operatori non su logica sindacale ma di realizzazione di progetto personalizzato.
In buona sostanza, procedendo per gradi, mi verrebbe prima da rispondere, come sociologo, su una parte
delle ricerche. E relativamente a questo volevo segnalare che io non riesco bene a distinguere il quantitativo dal qualitativo, come fatto in diversi interventi che mi hanno preceduto. Mi hanno insegnato che le note
musicali sono quantità che messe assieme per fare armonia fanno qualità, per cui è, o meglio, mi sembra,
un approccio abbastanza vizioso. Il contributo che hanno dato entrambe le relazioni, a mio parere, è stato
di buona musica.
Nella relazione più discorsiva, quella più antropologica, mi sembrava ci fosse un elemento che non è emerso oggi nella discussione: il tema delle famiglie. A mio parere, è emerso pochino. Lo dico francamente, e
quando emerge, emerge in questa situazione: bisogna stare attenti a parlare con le famiglie perché se no si
innervosiscono e rischi di perdere il lavoro. Questa è una considerazione che viene riportata e credo vada
sottolineata proprio per far maturare il ruolo dell’educatore.
C’è un'altra sollecitazione, più sostanziale, che andrebbe sottolineata. Dalla cooperazione, dagli educatori,
anche dalla anche dalla scuola stessa, un lamento comune sintetizzato dall’affermazione di uno degli educatori:“ma quando il bambino si ammala noi perdiamo il lavoro”. Come genitore ritengo errato la prospettiva stessa di tale lamentazione. Non solo in termini di gradi di priorità ma anche di efficacia di soluzioni. Come genitore, ma anche come referente associativo, ma pure come semplice cittadino dico: “ma quando il
bambino si ammala è il bambino che è ammalato” e il resto delle azioni deve essere rivolto a che le risorse
su di questo impegnate contribuiscano a che questo momento sia superato al meglio, anche in riferimento
all’interrompersi del suo rapporto – educativo come pure emotivo – con la comunità scolastica.
Sono sicuro che i dirigenti delle vostre cooperative ben sanno quanto ha fatto il sottoscritto perché negli
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anni fosse inserito negli accordi di programma (che sono già scaduti da un anno e stiamo pagando un rinnovo privo di verifiche) che l’educatore fosse il tramite tra la scuola e la lunga assenza per malattia. Voi vi ritroverete senza stipendio, le nostre famiglie si trovano isolate dalla scuola. Grazie alle associazioni è stato
inserito nell’accordo di programma della provincia di Bologna la possibilità, cosa che non viene spesso utilizzata, di proseguire gli interventi a casa nel momento delle assenze.
L’educatore è una delle figure che è all’interno del gruppo operativo, partecipa a pari diritto e a pari diritto
deve partecipare al piano educativo personalizzato producendolo assieme a tutti gli attori ovvero alla famiglia. Partecipa alla sua costruzione e deve anche sottoscriverlo: è un contratto che tutti gli educatori fanno.
Se gli educatori non hanno il progetto educativo personalizzato, si devono domandare perché non hanno
partecipato, perché non lo hanno richiesto, se è la scuola a non darglielo… Devono domandarsi anche perché, spesso, i gruppi operativi (il 35%) non vengono fatti diciamolo, perchè la presenza nei gruppi operativi
delle figure degli Enti Istituzionali che partecipano, della stessa AUSL, è scarsa. Abbiamo ricerche specifiche
e se volete diamo i dati quantitativi. Ma è così anche per gli insegnanti, di cui a volte ai gruppi operativi partecipa solo l’insegnante di sostegno, l’educatore e la famiglia. A volte la famiglia non li frequenta neanche...
Migliorare si può con il coinvolgimento di tutti fuori da particolarismi corporativi e trincee di mansionario.
L’educatore è una delle figure, ed è vero che non è una figura estremamente definita, ma ce n’è anche
un’altra che è fondamentale per l’integrazione scolastica che è il docente di sostegno. Di questa figura a
mio parere poco ne parliamo e poco se ne è parlato in questa ricerca, se non nel limite dello stipendio e nel
limite della professionalità che spesso non hanno. Su questo ultimo punto le famiglie a volte benedicono la
continuità degli educatori a fronte di un indecoroso e vergognoso balletto protetto da logiche sindacali
che coprono i lavoratori e non le famiglie, dei docenti di sostegno. Le associazioni, il 14 febbraio, hanno presentato in Parlamento con gli onorevoli di tutto l’arco costituzionale un progetto di legge che rimuova questa vergogna, che porta ad una logica di tamponamento oggettivo da parte degli educatori.
Dovrebbe essere ben presente a tutti che nella fase di rinnovo degli accordi di programma è necessaria la
verifica degli inadempimenti: quanti dei 60 Comuni della Provincia di Bologna hanno realizzato la mappa
delle opportunità extrascolastiche prevista dagli accordi di programma, e che doveva essere comunicata
dalle scuole alle famiglie per sapere cosa facciamo dopo che siamo usciti dalle scuole?
Le attività extrascolastiche rappresentano un’opportunità di consolidamento anche della figura dell’educatore, che, come bene hanno detto meglio e prima Caterina Segata, ha un ruolo che non si limita solo al tamponamento, all’affiancamento allo sviluppo esistenziale a scuola, ma si estende su un progetto di vita. I nostri figli, spesso, usciti da scuola sono nell’isolamento delle mura anche domestiche.
Detto questo, mi piacerebbe che le famiglie, le associazioni, gli educatori, le associazioni degli educatori oggi urlassero sì nel loro desiderio di stipendio consolidato e quanto altro, ma urlassero anche rispetto ad un
ministro, Giuseppe Fioroni, che si permette di rimuovere i limiti nella definizione delle classi con alunni con
disabilità. Cosa che neanche il ministro Moratti si era permesso e che, se l’avesse fatto il Ministro Moratti, ci
vedrebbe oggi tutti per la strada.
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La circolare n°19 del 13 febbraio, resa pubblica pochi giorni fa, attende pari urlo che per il vostro precariato,
pari urlo delle vostre cooperative assieme a quello delle famiglie. E’ gravissimo. Qui si sta parlando di richieste di consolidamento delle proprie figure mentre c’è lo smantellamento della struttura integrativa, del cardine del progetto di vita.
Nell’evoluzione dell’integrazione si è esteso il progetto educativo personalizzato, che abbiamo portato negli accordi di programma previsti dalla legge, dalla scuola al lavoro. Dal 2000 rivendichiamo con pietà ai politici l’adempimento della legge. Abbiamo richiesto, assieme ai presidenti dei quartieri del Comune di Bologna, sette punti, che però in parte ricordano le conquiste che le nostre associazioni e le vostre cooperative
hanno fatto. Uno tra i più importanti riguardava la conoscenza dei dati della popolazione. Ma che bello che
Società Dolce si doti di un archivio informatico sull’handicap.
Non sarebbe opportuno che l’amministrazione comunale e provinciale facessero funzionare gli archivi previsti dagli accordi di programma? Ci sapessero dire non solo quanti alunni sono nelle classi, non solo proporre di suddividerli per genere, non solo suddividerli tra ciechi, sordi e psicofisici ... ma in relazione ad una
classificazione scientifica che superi la rappresentanza di superati privilegi corporativi di associazioni del
settore. L’amministrazione comunale, dividendo, nei suoi elaborati la popolazione degli studenti con invalidità in queste 3 categorie banalizza il percorso integrativo delle nostre famiglie. Questo obbiettivo, la conoscenza razionale e comparata dei dati, non l’ha chiesta solo le associazioni. L’ha chiesta anche la Conferenza
dei Presidenti dei Quartieri della nostra città. Presidenti che da anni ci chiedono la mappa delle opportunità
extrascolastiche, la contestuale definizione degli accordi di programma scuola/lavoro, la funzione dell’educatore extrascolastico di passaggio, ecc. Obbiettivi previsti dalla legge, perché i nostri governi locali non ci
permettono di realizzarli?
Il terzo punto: i docenti di sostegno. La fatica che fate voi nel relazionarvi con gli altri operatori della scuola,
le nostre famiglie la vivono con il dolore come nel caso che si vada dal dentista, ti operi un dente e ti faccia
male. Gli chiedi “perché mi fa male?” e lui ti risponde “non sono mica laureato in medicina, mi hanno chiesto
di venir qua perché manca qualcun altro”. Sui nostri figli circa il 50% dei docenti di sostegno opera privo di
specializzazione. Questo è un danno alla scuola pubblica oltre che all’erario.
E’ un danno grave e irreparabile sulle nostre famiglie, ma è un danno grave anche sugli educatori e sulle
amministrazioni comunali che sono tenuti a tamponare a volte risorse insufficienti nel numero e nella professionalità. Avendo ben presente ed apprezzando da sempre il contributo positivo dato dai numerosi insegnanti di sostegno che hanno scelto tale carriera non per opportunismo, qui mi riferisco all’aspetto critico a
loro non imputabile.
In buona sostanza, la continuità dell’incarico siamo riusciti a conquistarla grazie alle vostre cooperative che
hanno dialogato con le associazioni e abbiamo avuto amministrazioni comunali che hanno recepito la necessita di continuare a fronte di un balletto indecoroso che coinvolge fino a 16 insegnanti di sostegno l’anno.
Fuori i dati, vogliamo i dati su questo balletto. Il problema della continuità non lo si può vedere solo nella
questione alterniamo l’offerta educativa al bambino così non lo leghiamo sempre a quella figura e lo facciamo crescere.
Parliamo di cose concrete, interrompiamo il balletto vergognoso, sindacalmente protetto, degli insegnanti
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di sostegno privi di specializzazione. Oggi, sulla questione della supplenza dell’organico di insegnanti di sostegno da parte delle amministrazioni comunali abbiamo un offerta del ministero ridotta. Voi i dati li conoscete meglio di me. Prendete il numero di ore che il ministero dà alle scuole e avete un certo numero di ore
per ogni alunno. Se qualcuno di voi andasse a verificare le ore comune per comune, vedrebbe che 59 comuni della provincia di bologna hanno un eguale monte ore ad alunno certificato, il Comune di Bologna
meno. Perché? Perché dà più educatori! Andiamo a vedere questi dati, quelle risorse che il Comune di Bologna dà di tamponamento di una diminuzione, per il solo Comune di Bologna, delle ore dell’insegnante di
sostegno sono private a noi famiglie sull’extrascolastico. Abbiamo diritto a vivere anche oltre il tempo
scuola. Ringrazio la pedagogista comunale che nel suo intervento, sottolineando la sua provenienza dall’Anfass, ha riconosciuto piena cittadinanza non solo ai diritti sindacalmente protetti dei lavoratori, ma anche, a quelli, più utilizzati nella letteratura che nella prassi, delle nostre famiglie.
Ricordo ai presenti ed anche a chi ha fatto la ricerca che il rinnovo degli accordi di programma fatti nel
2001 era preceduto da una puntuale verifica con questionari anche alle famiglie dove c’è un bel pezzo sugli
operatori ed il confronto dei dati di questa ricerca con quella attuale poteva e può essere la continuità del
prossimo intervento. Ricordiamo, però, che c’erano anche ottimi lavori nel ’92 che non ci dividevano in ciechi, sordi e psicofisici io mi vergognerei, se fossi un’amministrazione comunale a pubblicare, oggi, dei dati di
questo tipo.
Ringrazio gli organizzatori ed i presenti per l’occasione di confronto e l’attenzione prestatami.
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3.6. Raffaele Tomba
Responsabile Area Servizi alle persone, alle famiglie, alla comunità e politiche delle differenze
Comune di Bologna
Sono personalmente coinvolto in questa discussione, dato che nei primi 15 anni di lavoro sono stato un
educatore. Conosco quindi molto bene la sensazione di non avere una identità professionale definita, come
anche gli intervistati hanno lamentato. Anch’io ho vissuto la sensazione di essere considerato dagli insegnati ad un gradino professionale inferiore e ho sentito l’insufficienza di una formazione di base. Devo però
dire che spesso siamo abituati a vedere il lato negativo della situazione e a non considerare invece il lato
positivo.
Senza nascondere i problemi che sicuramente interessano la professione di educatore e che devono essere
sicuramente affrontati, bisogna considerare che noi percepiamo come ambiguo un ruolo professionale che
in realtà può assumere diverse sfaccettature.
La realtà, a mio giudizio, è che l’educatore professionale può assumere caratteristiche professionali diverse,
secondo la situazione, il contesto e il target di utenti che si trova ad affrontare. Quindi dovremmo parlare di
flessibilità, piuttosto che di ambiguità e, di conseguenza, non possiamo inseguire una formazione di base
che sia buona per tutto l’arco della vita professionale. La competenza professionale invece deve continuamente essere contestualizzata, rispetto al ruolo che l’educatore via via assume, con un conseguente aggiornamento della formazione e dell’addestramento.
Anche il senso di isolamento che a volte coglie l’educatore, dipende spesso dal fatto che il contesto lavorativo richiede una elevata autonomia professionale. L’educatore si sente solo, ma in realtà questo dipende
dal fatto di godere di una ampia delega e di una notevole responsabilità rispetto al caso o alla situazione
che gli è affidata.
Se ripercorro la mia esperienza all’interno del Comune di Bologna, ricordo che è dal ’74 che esiste la figura
professionale dell’educatore; precedentemente non era distinta da quella dell’insegnante. Infatti ho cominciato a fare il lavoro dell’educatore con la qualifica di insegnante e solo successivamente, nel 74, sono stato
inquadrato come educatore. Nella scuola, il Comune di Bologna iniziò a sostenere l’integrazione degli allievi
in situazione di handicap esclusivamente attraverso docenti di sostegno. Il DPR 517 del ‘77 legittimava la
presenza di insegnanti di sostegno comunali all’interno della scuola e il Comune di Bologna si spese molto
in questa direzione: a metà degli anni ‘80 c’erano circa 200 insegnanti di sostegno comunali, che integravano l’organico dei docenti di sostegno dello stato. Oggi restano ancora 70 insegnanti di sostegno comunali
nella scuola dell’obbligo, ma è nella scuola dell’infanzia comunale, che resiste l’impostazione originaria di
integrare gli allievi handicappati esclusivamente con insegnanti di sostegno.
Dall’88 il Comune ha iniziato ad utilizzare per l’integrazione scolastica anche educatori professionali e fu
appunto la Cooperativa Società Dolce la prima ad essere incaricata di questo tipo di intervento.
L’educatore professionale, come risorsa per l’integrazione scolastica, oggi è legittimato da un pacchetto legislativo che va dalla legge 104 alla legislazione regionale e nazionale sul diritto allo studio. Questo ruolo
professionale integra e completa l’azione dell’insegnante di sostegno e mai deve essere interpretato come
una soluzione di supplenza o di ripiego. Anzi, credo che la politica del Comune, nel privilegiare l’azione di
integrazione attraverso l’educatore, sia motivata di fatto dalla ribellione al ruolo di supplenza, in cui potreb-
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be essere stretto rispetto all’insufficiente organico di insegnanti di sostegno statali. L’intervento del Comune quindi, non è limitato dalle esigenze didattiche, ma deve essere considerato in una visione più complessiva dell’integrazione, che supera le mura scolastiche, collegando scuola, famiglie e territorio, tempo di
scuola e tempo libero, nella prospettiva di un progetto di vita dell’allievo handicappato.
L’educatore è il rappresentante all’interno della scuola di questa politica dell’Ente locale. L’azione dell’educatore mira a creare una discriminazione positiva nei confronti di allievi che hanno meno risorse di altri, per
disabilità o per insufficienti supporti educativi familiari. Mira alla costruzione dell’autonomia personale, alla
tessitura di reti relazionali attorno all’allievo, a facilitare la comunicazione interpersonale e quindi la socializzazione.
Il ruolo dell’educatore, quale rappresentante della politica comunale, deve essere sostenuto con una sua
maggiore presenza nella programmazione educativa personalizzata, superando le criticità che sono state
anche da voi riportate nelle ricerche. L’assenza dell’educatore nella programmazione del PEP e addirittura
la sua non conoscenza di questa programmazione non sono accettabili. L’educatore deve partecipare alla
programmazione dell’intervento con pari dignità rispetto agli insegnanti e agli specialisti dell’AUSL.
E’ anche opportuno che l’educatore sia supportato maggiormente dai pedagogisti dei Quartieri e quindi
non operi in una situazione di isolamento, ma piuttosto in un contesto di collegialità, assieme agli altri educatori dell’istituzione scolastica, coordinati dal pedagogista.
Non voglio sottovalutare, per quanto riguarda l’educatore, le questioni di tipo contrattuale. Prima di tutto
bisogna sottolineare che la legge 328, la riforma del welfare, aveva riservato allo Stato solamente due funzioni: identificare i livelli essenziali delle prestazioni e l’individuazione dei ruoli professionali degli operatori
coinvolti negli interventi sociali. Entrambe i compiti non sono stati portati a termine.
Questa mancata caratterizzazione delle figure professionali sociali ed educative porta attualmente ad una
situazione di contraddittorietà. Gli operatori laureati dalla Facoltà di Scienze della Formazione, che dovrebbero essere gli educatori professionali per le politiche sociali, non sono riconosciuti in ambito sanitario, che
invece riconosce solo gli educatori formati dalla facoltà di medicina. C’è quindi a monte una carenza di tipo
normativo.
Ulteriori problematiche sono di tipo contrattuale. Non sottovaluto la questione economica, ma se gli educatori delle cooperative vedono come punto di riferimento la condizione contrattuale degli operatori dipendenti dal Comune, il Comune stesso subisce una continua emorragia di operatori che vanno a lavorare
presso le AUSL o presso il Ministero di Grazia e Giustizia, perché lì si guadagna di più.
Quindi enti locali e cooperative debbono sostenere con forza l’obiettivo di un contratto unico per il comparto delle politiche sociali. Se fosse un contratto unico delle politiche sociali e socio sanitarie, andrebbe
ancora meglio.
In attesa che venga raggiunto questo obiettivo, la vera priorità, il vero punto di attacco deve essere la lotta
alla precarizzazione. Bisogna perlomeno fare in modo che gli educatori che si occupano delle politiche sociali o delle politiche del diritto allo studio, abbiano una sicurezza occupazionale che oggi molte volte non
hanno. Il contrasto della precarizzazione è possibile e doverosa, anche sulla base degli indirizzi del Governo.
Negli ultimi anni sono andati in pensione i miei colleghi, assunti alla fine degli anni ’60, che hanno fatto tutta una vita lavorativa come educatori. Quindi fare l’educatore non è un lavoro che può essere fatto solamente per una certo periodo, perché è troppo logorante. Basta creare una situazione di stabilità nel lavoro,
per dare all’operatore la possibilità di accumulare esperienza per tutta l’arco della vita lavorativa. Solo attra-
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verso una stabilizzazione del lavoro è possibile venire incontro alle esigenze dei genitori, che ricordava anche Giovanni Pesce: evitare la continua rotazione di operatori nei confronti del singolo allievo. Pesce citava
un episodio che è la punta dell’iceberg, 14 insegnanti di sostegno in un anno per un allievo, ma è prassi che
ad ogni passaggio di grado scolastico ci sia essere un cambio dell’insegnante di sostegno. Non mi sembra
proprio che sia una cosa positiva, nell’ottica di un progetto vita.
Un altro degli elementi contrattuali da affrontare è il riconoscimento del titolo di studio. La definizione dei
titoli di studio dovrebbe essere fatta a livello nazionale, collegato con il profilo professionale. Dato che questo non sta avvenendo, bisogna che ci ricordiamo di questa questione nel rinnovo degli accordi di programma sull’integrazione scolastica degli allievi handicappati, attualmente in corso. Bisogna generalizzare
nell’accordo di programma quello che è già operante nell’accordo territoriale di una zona della Provincia di
Bologna: definire quali sono i titoli di studio degli educatori impegnati nell’integrazione.
Un ulteriore strumento che può migliorare le condizioni di vita professionale degli educatori questi operatori è il capitolato d’appalto, che se fatti nella forma della concessione, dà la possibilità di definire rapporti
contrattuali più lunghi, riconoscere il tempo da dedicare alla formazione, il tempo per le attività non frontali
ed evitare la sospensione del lavoro in caso di malattia del bambino.
Su queste questioni, che avete messo a fuoco oggi, ci deve essere una produzione normativa che consenta
di migliorare la situazione contrattuale degli educatori.
Non penso però che si debba semplicemente migliorare l’ambito che abbiamo considerato. E’ invece il momento per avere il coraggio di fare un salto. Se consideriamo il numero degli educatori che lavorano a Bologna a vario titolo, sicuramente superiamo le 250 unità: educatori dell’integrazione scolastica, operatori dei
servizi sociali del Comune, operatori dei servizi della AUSL, operatori che il Comune assume per le istituzioni educative estive, operatori delle attività educative extrascolastica. Questo rilevante insieme educatori
che lavora a Bologna non produce quella visibilità, quell’identità, quella forza d’intervento che invece potrebbe avere se fosse vissuta in termini di servizio integrato. Oggi invece gli operatori sono frammentati in
servizi ed ambiti isolati tra di loro, anche per effetto delle forme di selezione dei fornitori, anch’esse estremamente frammentate.
Per poter raggiungere gli obiettivi che oggi abbiamo richiamato, bisogna ricomporre l’intervento educativo
nella città. I tempi sono maturi per progettare a Bologna un servizio educativo unitario, vale a dire un servizio
che senza porsi obiettivi poco realistici, come la pubblicizzazione di tutti i rapporti di lavoro, concepisca in
termini progettuali questo ambito di attività come un servizio e non come un insieme di prestazioni.
Se si va verso il superamento della frammentazione e quindi verso una ricomposizione organica dell’intervento, possiamo ottenerere anche una ricomposizione orizzontale e verticale dell’intervento nei confronti
di questi ragazzi: una ricomposizione lungo tutto il percorso della loro vita, un superamento delle barriere
tra intervento di inserimento scolastico, intervento socio-assistenziale, intervento socio-sanitario, intervento
educativo extrascolastico. In tal modo avremmo anche punti di riferimento professionali stabili nei confronti di questi minori, che quindi possono essere seguiti lungo tutto il corso dell’anno per i diversi tipi di intervento, per un periodo di tempo lungo e quindi ottenere quegli obiettivi di qualità che tutti noi auspichiamo.
Molte delle questioni tecniche ed operative che sono state presentate oggi, con il progetto di servizio educativo possono essere superate, ad esempio la disomogeneità d’intervento tra i diversi quartieri, ognuno
dei quali ha propri criteri, proprie metodologie.
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E’ altrettanto importante la formalizzazione delle procedure operative e dei protocolli professionali. L’operatività del servizio non può più essere lasciato alla discrezionalità di ogni singolo operatore, che può anche
far bene, ma se fa bene, poi la sua buona pratica non è diffusa, non è standardizzata. Per assicurare la qualità dell’intervento servono manuali organizzativi aggiornati e migliorati continuamente, formazione ed addestramento sulle specifiche procedure di lavoro.
Da ultimo ritengo che un’attività che è così sviluppata, articolata e costosa, non possa non avere un monitoraggio. Il problema della disponibilità dei dati è un dato estremamente critico negli interventi sull’handicap. Non c’è un sistema informativo generalizzato, non c’è un sistema di monitoraggio delle attività, i diversi interlocutori istituzionali che progettano e programmano queste attività non hanno basi solide su cui
decidere. Grazie quindi a Società Dolce che ci ha dato la possibilità di riflettere su questi temi. producendo
fra l’altro elementi statistici che ci aiutano a confermare o metter in discussione le nostre percezioni.
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4. GALLERIA FOTOGRAFICA
4.1. I Relatori
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Maria Virgilio
Assessore scuola, Formazione
e Politiche delle differenze
Comune di Bologna
Lucia Marrocchi
Coordinatore Responsabile
Servizi Scolastici
Cooperativa Sociale
Società Dolce
Pietro Segata
Presidente
Cooperativa Sociale
Società Dolce
Anna Laura Diaco
Ricercatrice Gruppo di Ricerca
di Etnografia del Pensiero
Dipartimento Discipline
Storiche - Università di
Bologna
Caterina Segata
Responsabile Area Scuola
Infanzia
Cooperativa Sociale
Società Dolce
Sebastiano Miele
Ricercatore Gruppo di Ricerca
di Etnografia del Pensiero
Dipartimento Discipline
Storiche - Università di
Bologna
Valerio Romitelli
Docente di Metodologia delle
Scienze Sociali
Università di Bologna
Giancarlo Rigon
Direttore Unità Operativa di
Neuropsichiatria e Psicologia
dell’Età evolutiva
Azienda USL Bologna Centro
Fulvia Righi
Pedagogista
Comune di Bologna
Giovanni Battista Pesce
Presidente Consulta
Comunale per il superamento
dell’handicap
Comune di Bologna
Alessandra Francucci
Dirigente scolastico
Direzione Didattica n. 10 e
Istituto Comprensivo n. 3
di Bologna
Raffaele Tomba
Responsabile Area Servizi
alle persone, alle famiglie,
alla comunità e politiche
delle differenze
Comune di Bologna
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4.2. Testimonianze fotografiche convegno
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appunti:
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La presente pubblicazione è stata interamente realizzata nel rispetto della natura utilizzando carte
ecologiche, e più precisamente:
• Copertina: Carta Freelife Woodstock Arachide 280 gr.
(Prodotta e distribuita in Italia da Fedrigoni)
Carta di lunga durata non patinata ottenuta dall’impasto riciclato ecologico composto per l'80% da fibre
post-consumer di pura cellulosa deinchiostrata e da un 20% di pura cellulosa E.C.F. (elemental chlorine free),
è completamente biodegradabile e ricilabile. Utilizza fibre provenienti da foreste a coltivazione integrata sostenibile, in cui viene effettuata una politica di taglio controllato e riforestazione. É conforme alla direttiva
C.E. 94/62 che stabilisce il livello massimo di metalli pesanti e si avvale di processi di produzione “Acid Free”.
• Interno: Carta Cyclus offset 100gr.
(Prodotta in Danimarca da Dalum e distribuita in Italia da Polyedra)
Cyclus è una carta realizzata impiegando interamente fibre riciclate post-consumer (100% Riciclato). Nulla di
ciò che viene utilizzato nel processo produttivo viene eliminato e, anche gli scarti provenienti dalla lavorazione sono a loro volta riutilizzati per la combustione, la produzione di fertilizzanti e di materiali per l’edilizia.
Cyclus è certificata Ecolabel.
La copertina non è stata volutamente plastificata per non invalidare la riciclabilità delle carte scelte.
Il nostro è un piccolissimo sforzo per dimostrare che, se lo vogliamo, ognuno di noi nelle scelte quotidiane
può fare qualcosa per migliorare il nostro pianeta.
Finito di stampare nel mese di luglio 2007
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