Business People - Joe Bastianich

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Business People - Joe Bastianich
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Joe bastianich
La ricetta
del mio successo
La svela il Restaurant Man italo-americano.
Che, tra la terza edizione di MasterChef
e un nuovo progetto imprenditoriale
che unisce musica e Tv,
sta preparando anche un disco.
E ci spiega perché, dalla sua prospettiva
Quando ci accoglie nella sua casa milanese, vicino a Parco Sempione, è piena
estate. Joe Bastianich è appena rientrato dal Marocco: in Africa è andato per registrare una prova in esterna della terza edizione di MasterChef Italia. Con lui
c’è l’inseparabile cane Quattro, che per tutta l’intervista aspetta il suo padrone in
un’altra stanza, tra teneri guaiti («Sta piangendo perché è geloso», spiega Bastianich, non senza una punta di orgoglio).
Cibo, vino, televisione, musica. Mondi che da anni ruotano attorno all’universo del Restaurant Man (per citare il titolo del suo libro, edito da Rizzoli), nato ad
Astoria, nel Queens, 45 anni fa da genitori di origini istriane, Felice e Lidia.
La madre è diventata molto popolare negli Usa, dove oggi è seguita da oltre 50
milioni di telespettatori e firma una propria linea di pasta e sughi naturali.
Proprietario di 26 ristoranti a livello globale e tre aziende vinicole in Italia, il giudice di MasterChef Usa e Italia – algido solo in apparenza – è socio di Oscar Farinetti nella gestione del negozio Eataly sulla Fifth Avenue, a New York. Ad agosto
ha inaugurato il suo primo albergo-ristorante italiano a Cividale del Friuli (Ud), all’interno della sua azienda agricola. Intanto sta lavorando anche a un disco: lui,
che sogna un futuro da cantautore, è voce e chitarra di una band, The Ramps,
con cui si esibisce il 15 settembre al Blue Note di Milano. Da sempre ama i Led
Zeppelin e da sempre, tra gli italiani, apprezza Claudio Baglioni, ma soprattutto
Pino Daniele. E proprio alla nostra musica nazionalpopolare dovrebbe essere dedicato un nuovo programma Tv che realizzerà per Sky Arte.
Dinamico, versatile e poliedrico, Bastianich ha attinto lo spirito dell’uomo
privilegiata, ancora oggi il made in Italy
resta «il migliore marketing plan
mai concepito al mondo»
di Domenico Aliperto e Cristina Penco
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Joe Bastianich, classe 1968, è nato ad Astoria, nel Queens,
da genitori friulani. Da loro impara fin da piccolo
cosa significa lavorare in un ristorante e viene a contatto,
inizialmente suo malgrado, con le tradizioni e la cucina
italiana. Dopo un’esperienza al New York Stock Exchange
come broker, la folgorazione sulla via di Damasco:
durante un viaggio in Italia si innamora del vino
e della gastronomia e, tornato in America, comincia
la sua attività di imprenditore nel campo della ristorazione.
Oggi è a capo di 26 locali e tre aziende vitivinicole,
socio e amico di Oscar Farinetti, con cui ha aperto
l’Eataly della Grande Mela, oltre che severissimo
giudice del talent su Sky Uno MasterChef Italia
(da dicembre in onda la terza edizione) e Usa
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d’affari e affinato le capacità imprenditoriali tra le mura domestiche, quelle di ristoratori immigrati negli Usa estremamente dediti al lavoro e con il “dovere di farcela”, come ricorda lui ancora oggi. Facendo i compiti, da bambino, sulle cassette di pomodori, aiutando il padre a trasportare vasche di polli congelati – tutt’oggi tra i suoi incubi – seguendo i genitori nei viaggi lungo il Vecchio Continente
alla (ri)scoperta dell’enogastronomia europea. Soprattutto italiana. Una passione,
quest’ultima, cresciuta a tal punto che, poco più che ventenne, dopo un anno e
mezzo passato tra i boss della finanza di Wall Street, ha lasciato tutto per girare la
Penisola in lungo e in largo, a bordo di un maggiolone. «Dietro ogni vino c’è una
storia familiare. Anche gustando un piatto conosci il carattere delle persone».
Bastianich, alla radice di molte sue scelte professionali c’è la storia della sua
famiglia…
Il mio approccio a molte delle attività di cui mi occupo nasce dall’osservazione del mondo italiano, secondo la prospettiva di un italo-americano. È vero, i
miei erano “immigranti”. Dopo la Seconda guerra mondiale andarono da Istria
a Trieste, in un campo profughi. Da lì, nel 1953, giunsero a New York, al seguito di un’organizzazione caritatevole. In America la mia famiglia cominciò a lavorare facendo quel che aveva imparato in Italia, ovvero a occuparsi di tutto quel
che accadeva dentro un ristorante. Gente come loro, che ha attraversato l’Oceano per sfuggire alla povertà ha in mente una sola cosa: impegnarsi al massimo
per avere successo. Una vera ossessione. L’alternativa non esiste. O meglio, l’alternativa è la miseria. Le persone che hanno patito la fame vivono il mondo in
modo drastico e drammatico. Ed è per questo che i miei genitori hanno davvero fatto i salti mortali per aprire il primo ristorante, nel ‘68, nella periferia di New
York, il Buonavia.
Cosa ricorda di quei momenti?
La vita ruotava intorno al ristorante: lì si lavorava, lì si mangiava, lì potevo stare
con i miei genitori, visto che erano impegnati tutto il giorno. Mentre io, da classico figlio di “immigranti”, vivevo a casa con i nonni, e con loro parlavamo in dialetto triestino tutto il giorno. Anche se stavamo nel Queens, casa nostra era una
specie di “Little Italy”.
È vero quel che avrebbe dichiarato, che da figlio di immigrati viveva quasi con
vergogna la sua condizione?
Forse vergogna è una parola un po’ forte. Ma certo non mi piaceva l’idea di dover mangiare cibo “strano” rispetto a quello americano, di avere una vita che non
fosse assimilata allo stile a stelle e strisce. Avevamo una casa piccola, che più che
un appartamento sembrava una piccola fattoria italiana: mio nonno preparava
aceto, vino e pelati in garage, mia nonna coltivava una fazzoletto di terra anche
se non eravamo in campagna, e si continuava a parlare italiano. Invece intorno a
noi – e penso soprattutto alle famiglie ebraiche che stavano molto bene economicamente – vivevano veri nativi americani. Con un’esistenza diversa dalla mia e che
desideravo.
Poi, però, tutto ciò che aveva e che le stava un po’ stretto si è trasformato nella chiave del suo successo…
Sì. Ironia della sorte.
Per lei oggi invece cosa è il successo?
Un concetto diverso. Sono riuscito a fare tante cose nella
mia vita. Dai ristoranti alle aziende vinicole, fino all’avventura in televisione. Per me
avere successo significa trovare una sfida,
affrontarla e arrivare alla fine, raggiungere
l’obiettivo. E questo vale anche quando si
ha una famiglia, si devono gestire tre bambini, così come quando si scrive un libro o
si progetta un programma Tv, esprimendo
la propria vena creativa in tutto quel che si
fa. Credo che questa idea valga per tante persone, soprattutto per coloro che nella vita hanno realizzato molte cose. Non è solo questione di denaro. I soldi sono
sempre importanti, ma si sta affermando un nuovo standard di lusso che il denaro non può comprare.
Tutte queste riflessioni come sono confluite nella sua attività imprenditoriale,
cosa le ha permesso di vincere le sue sfide?
La squadra di persone di cui mi sono circondato, innanzitutto. Ora che dal punto di vista lavorativo mi sono spostato in un altro mondo, la mia azienda continua
comunque a crescere perché è composta da tante persone che vogliono migliorarla e migliorarsi sempre. Trovare i collaboratori giusti è fondamentale e, se posso, me ne occupo io personalmente quando si tratta di selezionare nuove risorse.
Da chi ha imparato, chi l’ha aiutata a scegliere i talenti?
Non ho mai avuto un capo, un “apprentice”, un mentore. Ho sempre fatto tutto
da solo nelle varie attività di cui mi sono occupato, dalla Borsa di Wall Street fino
ai ristoranti in America – il primo che ho aperto da solo a New York nel 1992,
Becco, così come quelli che gestisco oggi col mio socio, Mario Batali – passando per l’enologia in Italia. Tutto questo fino a quando mi sono messo a cercare un
partner d’affari per una società che volevo aprire nella Grande Mela. Sono andato una sera a cena con mia madre e con questo imprenditore italiano per discutere del progetto Eataly. A un certo punto, lui si alza e va alla toilette, e mia madre mi guarda e mi dice: «Hai appena trovato il primo capo della tua vita. Andrai
a lavorare per lui…». Io replico: «Impossibile».
E invece…
Naturalmente sto parlando di Oscar Farinetti, veramente un grande. Siamo soci,
io e Oscar, ma devo dire che è la prima persona da cui ho imparato e imparo tantissime cose, è un imprenditore italiano di altissimo livello. Non solo ha le
idee, ma ha pure la capacità di farle diventare reali, è unico. E trovo straordinario
quel che ha fatto per il vostro Paese nel mondo.
Un vero leader, insomma. In generale, lei come definirebbe la leadership?
Il leader è colui che sa ispirare la gente, che ha tanta visione, che promuove le
capacità dei collaboratori, e poi dà loro spazio, lasciandoli lavorare. Nel mio
mondo ho incontrato tante persone gelose dei successi dei propri collaboratori,
che per questo impediscono loro di crescere. Oscar Farinetti incarna l’opposto di
tale prospettiva.
E sul fronte della Tv, chi indicherebbe?
Gordon Ramsey, un altro grande. Sa fare televisione come pochi al mondo. È stato per me un maestro che mi ha insegnato molto, e una persona molto importante nella mia vita.
Il percorso televisivo sta migliorando la sua immagine di businessman?
Cerco di tenere separati i due ambiti. Ma certamente
diventare un personaggio pubblico aiuta. Era comunque una realtà che conoscevo già: mia madre Lidia è
sempre stata in Tv, così come il mio socio Mario. Per
me lavorare in televisione è stata più che altro un’occasione per uscire dal ruolo che ho avuto per anni. E
se da un lato mi ha permesso di essere più creativo,
dall’altro, adesso, sto cercando l’opportunità di fare
imprenditoria anche all’interno di quel mondo.
Creando nuovi format? Ha intenzione di
aprire una casa di produzione?
Sì, il mio Dna mi spinge a provarci. Sarà il
prossimo passo.
Saranno sempre progetti collegati all’universo del cooking?
Direi di no, meglio diversificare. Vorrei dedicarmi principalmente alla musica, che è la
mia grande passione al di là del lavoro.
Si sta affermando un nuovo
standard del lusso. I soldi
sono comunque importanti,
ma sempre meno
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Per quel che ha potuto sperimentare, che differenze ci
e siamo diventati amici. Il motivo per cui il programsono tra il modo di vivere e fare Tv americano e quelma ha un impatto così forte sul pubblico è perché, anlo italiano?
che a costo di un coinvolgimento nostro molto intenso,
La differenza è soprattutto culturale: in America si giole situazioni sono tutte estremamente reali. Giriamo per
ca tantissimo sulle diversità culturali, e nei format deditre-quattro mesi, sei giorni su sette, 12-14 ore al giorno
cati alla cucina ne risentono anche le
per 25 puntate da un’ora ciascuna. Alricette. Anche perché l’offerta di cibo
l’inizio con otto-11 telecamere addosè estremamente diversificata, a seconso, microfonati in 28 individui… Non
da della provenienza etnica dei parteè finzione, l’evoluzione dei cuochi, e
cipanti. In Italia siete tutti “molto itadel rapporto con loro, è assolutamente
liani”: molto simili tra di voi, vi vestivero. E la qualità del programma è basate alla stessa maniera e avete un atta su quello.
teggiamento “democristiano”. ParlaE con la vincitrice Tiziana Stefanelte sempre bene degli altri… Negli Usa
li, “l’avvocato”: anche di lei è diventale persone sono più scatenate, meno
to amico?
educate. E poi l’italiano, che ha impaL’ho vista l’ultima volta a Vinitaly. È una
rato in un contesto familiare con nonbrava donna, intelligente. Alla fine ha
na e mamma, cucina meglio. In MasterChef America fa più scalpore l’ingrediente
vinto… In questo format capita che anche il più bravo possa perdere per una sola
di qualità, particolare, tipico. Prodotti che nel Belpaese sono quasi dati per sconprova ed essere fuori. Un meccanismo che risulta fastidioso, alle volte, ma che
tati. Per dire, si mette un pomodoro sul tavolo e tutti si stupiscono… Infine, all’itacrea anche una tensione interessante: non conta quello che si è realizzato fino ad
liano piace il gioco basato sulla tenerezza, sulla simpatia, sull’emozione, l’ameriallora, nessuno può sentirsi al sicuro.
cano preferisce lo choc, uno spettacolo fatto di contrasti. Del resto è il bello di un
In un’intervista a La3 Tv ha dichiarato che caccerebbe Berlusconi dal suo ristotalent come MasterChef, che non a caso funziona in 50 Paesi in tutto il mondo.
rante. Conferma?
Cosa ne pensa dell’imitazione che fa di lei Maurizio Crozza?
Non ho mai detto questo. Quella frase è stata estrapolata da un discorso più amChi?
pio, tagliato in fase di montaggio… È andata così. Si parlava di gestire i ristoranti
Quello dei tormentoni cult “Io muoro”, “Mi stai diludendo”…
con democrazia. E poi di alcuni uomini di potere che li frequentano. «E se anche
Non ho proprio idea di chi sia. (ride) È davvero molto bravo. Ci siamo conosciuuno di questi clienti facesse casino nel locale, lo cacceresti?», mi è stato chiesto.
ti personalmente e siamo diventati anche amici. Lui però non è un imitatore, è un
E io ho risposto di sì. «Pure se si trattasse di Silvio Berlusconi?», mi è stato poi doartista. Interpreta i personaggi sotto il profilo culturale. Il risultato comico che otmandato. E io ho risposto di nuovo di sì. Ma tengo a precisare che io non caccetiene deriva dalla sua intelligenza, e dalla capacità di osservare la cultura popolarei nessuno dal mio ristorante, a meno che non avesse un comportamento offenre e mediatica.
sivo nei confronti degli altri clienti.
Con la sua interpretazione Crozza l’ha lanciata nel cuore del pubblico italiano,
E il discorso sulla ristorazione democratica?
che forse la riteneva, almeno all’inizio del programma, un po’ troppo cattivo...
Ritengo che un grande ristorante non cucini al massimo solo per i clienti imporIo penso che il mio ruolo in quella trasmissione consista nell’osservare la votanti, ma allo stesso livello per tutti. La questione del trattamento migliore riservastra cultura dalla prospettiva di chi conosce gli italiani, pur non essendo italiato ai Vip mi sta un po’ sulle palle…
no. Sono e mi sento molto americano. Dico e
Come giudica le stelle Michelin?
faccio cose che uno di voi non direbbe o faÈ uno standard universalmente riconosciuto. A
rebbe mai. È un approccio un po’ punk-rock,
volte mancano certi elementi nella valutazioil mio: la prima volta che lo vedi è choccanne, d’accordo, ma è il più grande parametro
te, poi capisci che nasce da una serie di peninternazionale. Io lo rispetto e ne tengo conto
sieri ed emozioni ben ponderati. È tutto un
quando cerco un ristorante. Le stelle mi piacgioco tra due pulsioni. Ed è un ruolo che vociono anche perché qualificano a livello gloDa chi o cosa non si separerebbe mai?
glio sviluppare perché so che è qualcosa a
bale e danno importanza al nostro lavoro.
Dal mio cane Quattro
cui il pubblico televisivo tiene.
E cosa pensa dell’importanza che vi attribuiUna prerogativa solo sua e di MasterChef o
scono i clienti quando fanno le loro recensioCosa non è ancora riuscito a fare
di quel che sognava di realizzare?
un’evoluzione che riguarda tutti i cooking
ni on line?
Vivere della musica che creo
show?
La situazione sta cambiando in tutto il mondo.
Non saprei rispondere. Non guardo molta Tv.
Assistiamo a una vera dicotomia, con il decliCome definisce il successo?
Ma gli altri format sulla cucina mi dicono che
no di tante guide blasonate e la crescita delTrovare una sfida, affrontarla e arrivare fino alla fine
fanno abbastanza cagare…
la democrazia di Internet. Con la nascita dei
Il pregio che le manca?
Un giudizio punk-rock... E, a proposito di
blogger ci sono stati veri momenti di anarchia,
La pazienza
empatia e tenerezza tipicamente italiane, ci
una situazione squilibrata in cui l’opinione di
sono stati momenti che l’hanno particolarpochi influenzava l’azione di molti. Oggi è diLa musica ideale da suonare in un ristorante?
Quella che fa vivere al cliente un’esperienza estrema, ma non
mente emozionata nel programma?
verso: se cerchi bene on line capisci facilmena tal punto da farlo alzare e andare via
Ce ne sono stati diversi durante l’ultima edite qual è l’opinione media di un gran numezione. Andrea, per esempio, (Marconetti, arro di clienti. È l’essenza di Internet. E seconI suoi punti di riferimento?
Lidia Bastianich, Oscar Farinetti e Gordon Ramsey
rivato terzo, ndr) è una persona molto cara,
do me questo comporta che un ristoran-
Sembra che in Italia manchi
l’orgoglio del futuro. Una persona
che vuole sognare da voi
non può farlo, va via. E la capisco
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Il libro
autobiografico
di Joe Bastianich,
Restaurant Man,
edito da Rizzoli,
ripercorre le tappe
che hanno portato
un ragazzo figlio di
emigranti italiani
nel mondo dell’alta
ristorazione
internazionale
mentalità italiana. Prepararti per i casini che senz’altro arriveranno, e metterli in conto nel budget, e poi andare avanti.
Questo momento di difficoltà che sta
vivendo l’Italia ha provocato una nuova forma di emigrazione. Stavolta assistiamo alla fuga dei cervelli. Che differenze ci sono tra i vecchi e i nuovi
migranti italiani?
Dopo la guerra l’intera situazione globale era drammatica, e in particolare il governo italiano non poteva gestire e risolvere in breve tempo l’emergenza: si emigrava per mangiare. Ora
i cervelli vanno via perché non vogliono rimanere in un Paese governato da
vecchi che si ostinano a mantenere le loro posizioni di potere, di cui sono estremamente gelosi, creando ostacoli, impedendo all’Italia che fu grande 40 anni fa
di investire sui giovani. Io non sono un esperto di queste questioni, ma da fuori sembra proprio che qui manchi l’orgoglio del futuro. Così si creano barriere sociali per mantenere lo status quo, e la stratificazione sociale è bestiale. Una persona che vuol sognare ha difficoltà a farlo e va via. E io la capisco. Oltretutto è
un atteggiamento in contrasto con quel che è sempre stato l’italiano in passato, che ha fatto di tutto e di più, dal business all’arte fino alla cultura: ha costruito
ponti e strade, creato imprese, arricchito l’economia in tutto il mondo. Forse è un
momento di pausa, un momento difficile.
Lei che ha sempre vissuto a contatto con i cuochi:
è vero, come ha dichiarato, che sono tutti matti?
No, ho detto che una persona che vuol diventare
cuoco deve essere per forza un po’ matta. È un lavoro che ti sottopone continuamente a un giudizio
altrui. Chi si mette in quella posizione o è un matto o è un egocentrico o è un insicuro. Ma è da personalità come queste che nascono i grandi artisti.
E chi vuol fare l’imprenditore, che
tipo di persona è?
Anche nei momenti difficili deve
saper credere nel proprio progetto,
senza perdere lucidità, e mantenendo la capacità di comunicare con
gli altri. È una persona che ha il coraggio di sognare l’impossibile, e
P
poi di crearlo.
La mia idea di leadership? Saper
credere in un progetto anche nei
momenti difficili, senza perdere
lucidità e capacità di condivisione
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te debba sempre lavorare al meglio, aumentando il livello del proprio servizio, per soddisfare tutti i potenziali recensori.
Lei su quale delle due voci fa più affidamento, guide o recensioni on line?
Entrambe.
Qual è il legame che ha con il territorio
italiano oggi?
Fortissimo. Si tratta di un rapporto fondamentale: nessun altro Paese nel mondo ha diversità così marcate sotto il profilo culturale e politico, oltre che gastronomico. In Italia si incontrano aspetti che potrebbero essere tipici del Nord
Africa come della Svizzera, un numero infinito di vitigni, minestre la cui ricetta cambia se ci si sposta di 3 km, e
una varietà di materie prime, per quanto riguarda il cibo, impressionante. Poter consumare cibi e vini che “crescono” insieme, parallelamente, è qualcosa
di molto potente: la mozzarella di bufala con un Coda di volpe, o il prosciutto
San Daniele con un Friulano… Stiamo
parlando della vera ricchezza di questo Paese. Quello dell’export alimentare
è uno dei pochi settori che continua a
crescere. Non bisogna mettere in ginocchio l’artigiano e il contadino, che sono
i veri punti di forza dell’Italia, e sono strettamente collegati alla ristorazione. Che
se va in crisi, li trascina nel baratro.
Dalla sua prospettiva privilegiata: il made in Italy all’estero ha ancora il valore
di un tempo?
Il made in Italy è il più grande marketing plan mai concepito e realizzato a livello
mondiale. Considerando che nel 1860 l’Italia non era nemmeno un Paese, è pazzesco pensare che in 150 anni qualcuno sia riuscito a creare l’immagine di uno
Stato che va da Pantelleria a Bolzano, unendo tutte queste diverse culture sotto
un’unica bandiera; quella del “fatto bene”, del “bello”, che accomuna cibo, vino,
design, moda, automobili.
Lo è stato o lo è ancora un grande marketing plan?
Continua a esserlo. E anche se siete in un momento difficile, io che viaggio molto posso dire che c’è sempre più
richiesta dei vostri prodotti. Tutti vogliono “consumare Italia”, la vostra è la cultura che suscita il più grande interesse nel mondo. Certo, se non viene gestito bene, questo
Paese rischia di diventare una sorta di Disney World, dove
la gente da fuori viene in visita e quelli che ci vivono fanno qualche prodotto da esportare. E intanto il sistema produttivo, l’economia
reale che dà benessere alla gente, rischia di scomparire.
Con le sue imprese qui in Italia riscontra i problemi che i nostri imprenditori
denunciano, a partire dalla burocrazia?
Certo, li vediamo tutti quanti, e anche
più. Per lavorare qui, devi entrare nella