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MODULO 2 La cultura come adattamento, conoscenza e identità Finestra Le tecniche di accensione del fuoco Philip K. Bock nell’opera, Antropologia culturale moderna, parlando delle diverse fonti di energia, parla del fuoco, di come il fuoco liberi l’energia immagazzinata nei combustibili e soprattutto delle difficoltà che alcune popolazioni trovano nell’accensione. “[…] e il fuoco deve essere avviato mediante un’applicazione locale di calore (accensione). Sono pochi i gruppi umani che non possiedono alcuna tecnica di accensione. Per esempio, Allan Holmberg riferisce: ‘Fra i Siriono (della Bolivia orientale), la produzione del fuoco è un’arte che è andata perduta. Ma è stato detto dai più anziani dei miei informatori che si soleva produrre il fuoco (táta) facendo roteare un bastoncino fra le mani, ma io non l’ho visto generare nemmeno una volta in questo modo. Il fuoco viene trasportato da un accampamento all’altro con un tizzone fatto di spadice di palma. Questo legno spugnoso mantiene il fuoco per lunghi periodi di tempo. Quando la banda è in viaggio, almeno una donna per ogni famiglia piuttosto grande porta con sé il fuoco. Ho perfino visto delle donne nuotare in un corso d’acqua con un tizzone acceso, tenendolo al di sopra dell’ac- © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2012 qua con una mano mentre con l’altra nuotavano’ [A. R. Holmberg, Nomads of the Long Bow, University of Chicago press, Chicago 1960, p. 11]. La conoscenza delle tecniche di accensione e l’abilità nell’applicarle sono evidentemente di grande importanza per la sopravvivenza dell’uomo. Soltanto pochi popoli, fra quelli conosciuti, non possiedono tali abilità (i Siriono, gli abitanti delle isole Andatane, e certi gruppi di Pigmei africani); ma è probabile che essi abbiano soltanto dimenticato le tecniche. Questo può accadere perché sembra che tutti i popoli preferiscano conservare un fuoco acceso in continuazione, piuttosto che accenderlo ogni volta che serve. Le fondamentali tecniche di accensione sono semplici ma, come abbiamo osservato sopra, richiedono abilità. Lo sfregamento di due pezzi di legno produce il fuoco soltanto se i bastoncini sono abbastanza secchi e se vengono sfregati nel modo opportuno. Si può anche far ruotare rapidamente un bastoncino fra le palme, con l’estremità poggiata in un foro circondato di paglia; alla fine si accenderà una fiamma”. (Tratto da: Philip K. Bock, Antropologia culturale moderna, Einaudi, Torino, 1978, pp. 299-300). Luigi D’Isa, Franca Foschini - Scienze umane - Secondo biennio 1 MODULO 2 La cultura come adattamento, conoscenza e identità Finestra Il genere di vita degli indiani Nambikwara I Nambikwara sono una popolazione che vive negli stati brasiliani del Mato Grosso e Rondonia, nella zona centro-occidentale. Si conoscono i loro usi, costumi e tradizioni grazie agli studi etnografici condotti presso di loro tra il 1935 e il 1939 dall’antropologo belga Claude Lévi-Strauss, raccolti nell’opera La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara. In questo brano lo studioso tratteggia il tipo di vita molto primitivo condotto dai Nambikwara. “Essi vivono nudi, specie le donne che portano solo un esile filo di perle di buriti intorno alla vita, orecchini, collane intorno al collo o a tracolla, braccialetti ricavati dalla coda dell’armadillo e, talvolta, nastri di cotone intessuti dai mariti, o di paglia di buriti, strettamente serrati intorno ai bicipiti e alle caviglie. Oltre a questi stessi ornamenti, gli uomini inalberano talvolta una sorta di nappa di paglia attaccata alla cintura sopra i genitali. […] La completa ignoranza dell’amaca e l’uso dei Nambikwara di dormire sulla nuda terra […] stimolano da un pezzo l’interesse degli etnologi; tale interesse è condiviso dalle tribù vicine, e i Paressi, evocando questa singolarità, chiamano i Nambikwara Uaikoakoré, ‘quelli che dormono per terra’. Dobbiamo dividere l’anno nambikwara in due distinti periodi. Durante la stagione piovosa (da ottobre a marzo) ogni gruppo si stabilisce su una piccola altura sovrastante un corso di acqua; gli indigeni costruiscono allora grossolane capanne di cui la forma e i materiali presentano curiose variazioni. Essi aprono degli spiazzi nella foresta-galleria che occupa il fondo umido della valle, e vi piantano e coltivano orti in cui figurano soprattutto il manioco (dolce e amaro) e il tabacco, e talvolta fagioli, cotone, arachidi e lunghe zucche (Lagenaria sp.). Si grattugia il manioco su tavole incrostate di spine di palma, lo si preme con l’aiuto di un pezzo di scorza ritorto. Il giardinaggio fornisce risorse alimentari sufficienti per una parte del periodo sedentario, e anche utilizzabili più tardi: i Nambikwara © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2012 conservano il manioco sotterrando forme di polpa grattugiata nel suolo. Con l’arrivo della stagione secca, si abbandona il villaggio o piuttosto il luogo di residenza temporanea, e ogni gruppo ‘esplode’, per così dire, in parecchie bande nomadi. Per circa sette mesi, queste bande errano attraverso la savana, alla ricerca di selvaggina, di animaletti come larve, ragni, cavallette, roditori, serpenti, lucertole, ecc., e di frutti, semi, radici o miele selvatici, insomma, di tutto ciò che può evitar loro di morire di fame. I loro accampamenti, installati per uno o più giorni, talvolta per qualche settimana, consistono in tanti ripari sommari quante sono le famiglie, e tali ripari sono costituiti da palme o da rami fissati in semicerchio nella sabbia e legati in cima. È l’epoca in cui la ricerca alimentare assorbe tutte le attività. Le donne si armano del bastone da scavo, e gli uomini cacciano con arco e freccia, arma di cui bisogna distinguere molti tipi. […] Oltre all’arco e alle frecce, gli uomini impiegano una mazza che assume spesso la forma di uno spiedo e il cui uso è riservato alle operazioni magiche e guerresche. Le materie prime dell’industria indigena consistono in legnami svariati, cera di api selvatiche, resina, fibre di palme buriti e tucum (Astrocaryum tucuma), ossi di scimmia, denti e unghie di mammiferi […]. Come utensili hanno coltelli fatti con schegge taglienti di bambù, pietra grossolanamente intagliate […]”. (Tratto da: Claude Lévi-Strauss, La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara, Giulio Einaudi editore, Torino, 1970, pp. 24-26). w buriti frutto di una delle palme più grandi della Amazzonia, Mauritia vinifera w armadillo mammifero americano con testa e tronco protetti da un’armatura formata di placche ossee Luigi D’Isa, Franca Foschini - Scienze umane - Secondo biennio 1 MODULO 2 La cultura come adattamento, conoscenza e identità Finestra L’usanza della couvade L’antropologa ed educatrice britannica Sheila Kitzinger (Tauton, Sommerset 1929), favorevole alla pratica del parto naturale, non ospedalizzato, si è occupata del tema della nascita in numerosi lavori. Nell’opera Donne come madri, di cui riportiamo un brano significativo, confronta come la figura del padre sia presente alle pratiche del parto e il suo ruolo in alcune culture. “La presenza del padre al parto è una questione più complessa. In molte culture viene applicata rigidamente la regola che il padre debba starsene lontano. L’elemento maschile e quello femminile devono essere tenuti separati. Ma anche dove non è ammessa la presenza del padre, spesso si crede che la salute e la vita del piccolo dipendano in gran parte dalle sue azioni. Se scappa con un’altra donna, lucida la sua lancia, mette in pericolo la vita del suo piccolo. Stando attento a quello che fa, contribuisce alla riuscita del parto. Così vi partecipa attivamente pur non essendo fisicamente presente. Nel Corano si legge che il padre deve propiziare con preghiere la nascita del figlio, ed è lui a fornirgli il primo contatto con il mondo ponendogli un pezzetto di dattero sulla bocca. Dove è il padre a far venire alla luce il piccolo, come succede tra i Bang Chang dell’Asia sudorientale, deve proteggersi in modo particolare dalle forze femminili. Per introdursi nel mondo sacro in cui avviene la nascita, egli prende in mano incenso, fiori e una candela accesa. Poi prega, invocando l’aiuto degli spiriti perché rafforzino i venti della nascita nel suo corpo, poiché non è lui, ma sono i venti a far nascere il bambino, ed egli è lì soltanto per riceverlo. Nell’usanza della couvade, il marito partecipa alla nascita del figlio, simulando il travaglio contemporaneamente alla moglie o dopo, oppure giacendo a letto nel periodo post-natale. Un padre arapessh, ad esempio, aspetta di conoscere il sesso del figlio, e dopo or- © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2012 dina ‘lavatelo’ oppure ‘non lavatelo’ secondo che desideri o no che viva. Se il bambino viene tenuto in vita, egli porta un fascio di foglie morbide alla moglie perché ne foderi il sacco di rete in cui il piccolo viene sospeso in posizione accovacciata, un guscio di noce di cocco pieno d’acqua per bagnare il piccolo e foglie spinose per tenere il male fuori della capanna. Porta anche con sé il suo cuscino di legno e giace accanto alla moglie; entrambi non bevono e non mangiano il primo giorno del parto, e si limitano a compiere riti magici per il benessere del bambino. Restano isolati per cinque giorni. Il padre non deve toccare né il proprio corpo né il tabacco. Deve mangiare ogni cibo col cucchiaio finché non viene compiuta la cerimonia di purificazione rituale in una speciale capanna di foglie costruita ai bordi di uno stagno. Anche allora la sua dieta è soggetta a restrizioni e la carne gli è vietata finché il bambino non ha superato un mese di vita. Così facendo molte società danno al padre un ruolo ben definito nel parto. Allo stesso tempo lo proteggono con un accurato rituale dalla svirilizzazione che potrebbe conseguire dal suo coinvolgimento in una attività che è essenzialmente femminile. Quando tale coinvolgimento è terminato, il padre viene reiniziato alla virilità con riti analoghi a quelli usati quando un ragazzo diventa uomo, con la differenza che ora è un uomo che è riuscito a mettere al mondo un figlio. Se il padre può essere chiamato a svolgere questo ruolo, e possono intervenire dei maghi quando le cose sembrano andare per il peggio, nelle società primitive l’uomo non viene generalmente coinvolto in un travaglio normale in qualità di specialista del parto, non esiste cioè alcun ruolo maschile corrispondente a quello dell’ostetrico nella civiltà occidentale. Questa funzioni spetta esclusivamente alle levatrici”. (Tratto da: Sheila Kitzinger, Donne come madri, Bompiani, Milano, 1980, pp. 102-103). Luigi D’Isa, Franca Foschini - Scienze umane - Secondo biennio 1 MODULO 2 La cultura come adattamento, conoscenza e identità Finestra Nomi di luogo e orientamento spaziale In questo brano l’antropologo Philip K. Bock descrive i criteri con cui molti popoli illetterati assegnano un nome ai luoghi e gli accorgimenti che li rendono in grado di orientarsi nel loro ambiente in un modo che a noi sembra sorprendente. “Tutti gli uomini hanno il senso della propria collocazione all’interno un mondo sociale, e apprendono le categorie e le dimensioni di questo mondo insieme al resto della loro cultura. Come abbiamo visto, è più facile apprendere una categoria quando le si associa un’etichetta verbale; il linguaggio è un fattore essenziale dell’orientamento spaziale, per gli esseri umani. Molte popolazioni tribali hanno sistemi estremamente dettagliati di nomi di luogo. Gli indiani Micmac del Canada orientale, per esempio, hanno differenti nomi di luogo per ogni piccola collina, isola, corso d’acqua, capo, baia, che sia situata lungo la costa in prossimità dei loro stanziamenti. Alcuni di questi nomi fanno riferimento a caratteristiche geografiche rilevanti, e si possono tradurre, per esempio, ‘piccolo promontorio roccioso’, oppure ‘dove si innalzano i pini’. Altri nomi di luogo indicano i tipi di attività che di consuetudine si svolgono in quelle zone: ‘dove si aspettano le barche (le canoe)’, ‘dove si pesca il salmone di notte con le torce’, ‘il posto delle trappole per le anguille’. Altri nomi ancora indicano associazioni storiche o leggendarie: ‘casa del gigante’, ‘dove i nani scivolano giù (lungo il fianco della montagna)’, ‘combattimento’. Apprendendo i nomi di luogo usati dai membri della sua società, un individuo impara anche come muoversi nel suo ambiente. Con ciò intendiamo quello che normalmente si chiama orientamento spaziale (sapere dove ci si trova), e anche i progetti associati con le differenti parti di tale ambiente – quali tipi particolari di comportamento sono appropriati a specifici luoghi, socialmente riconosciuti. Il sistema dei nomi di luogo dà ai membri di un gruppo la possibilità di comunicare le credenze e le aspettative comuni circa il loro ambiente geografico, e di impregnare il paesaggio di significato sociale. Sono ancora in circolazione ridicole storie circa il fatto che i ‘selvaggi’ avrebbero una specie di istintivo senso della direzione o di orientamento spaziale, e che riuscirebbero a trovare la via senza alcuna indicazione esplicita. Per lo straniero, che dipende strettamente dalle mappe e dalla bussola, e dai cartelli stradali, c’è veramente qualcosa di misterioso nel modo in cui gli © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2012 Esquimesi viaggiano attraverso lande sconfinate senza piste, o nel modo in cui i navigatori polinesiani si spingono in mare aperto con le loro canoe a bilanciere fino a perdere di vista la terra, senza alcun mezzo meccanico come ausilio alla navigazione. Ma un’indagine approfondita rivelerà che i sistemi culturali di questi gruppi forniscono un insieme ingegnoso di categorie e progetti, che mettono in grado i membri di quel gruppo di sfruttare piccole differenze ambientali per mantenere il senso dell’orientamento. Allontanati dal territorio a loro familiare, i ‘selvaggi’ perdono rapidamente i loro pretesi istinti. A. I. Hallowell ha studiato i fattori culturali dell’orientamento spaziale presso gli indiani Salteaux del Canada centrale. Egli riscontrò che la considerevole abilità degli Indiani nel viaggiare attraverso zone disabitate dipendeva dalla profonda conoscenza del terreno della loro località cui si aggiungeva l’uso dei nomi di luoghi e di mappe indigene, e una profonda attenzione alle caratteristiche topografiche generali e a ogni cambiamento di direzione del vento. Egli sottolinea che ‘gli indizi topografici sono […] così importanti che, se [sono] mascherati dalla neve, un individuo può perdere la via anche su un terreno familiare’, mentre ‘se manca la possibilità di orientamento direzionale per mezzo del vento non c’è altro da fare che accamparsi e aspettare che le condizioni meteorologiche cambino, permettendo l’uso degli indizi abituali’. Questo per quanto riguarda l’istinto direzionale. Ma Hallowell si spinge oltre, trattando un argomento ancora più importante: ‘Forse la caratteristica più singolare della spazializzazione che l’uomo compie sul suo mondo è il fatto che essa non appare mai limitata esclusivamente al livello pragmatico dell’azione e dell’esperienza percettiva. Luoghi e oggetti di varie classi sono concepiti come aventi una reale esistenza in lontane regioni. Anche se l’individuo non ne ha mai alcuna esperienza percettiva diretta, [...] tali regioni costituiscono, tuttavia, una parte integrante del complessivo mondo spaziale, verso il quale l’individuo è orientato dalla sua cultura. Perché, in ogni parte della terra, l’uomo formula concetti di natura cosmica; si orienta in un universo che ha dimensioni spaziali’. Ogni cultura, quindi, fornisce a coloro che l’acquisiscono delle credenze riguardanti il mondo che li circonda. Se vogliamo, non dico prevedere, ma anche solo comprendere il comportamento umano, dobbiamo riconoscere l’importanza di queste immagini del mon- Luigi D’Isa, Franca Foschini - Scienze umane - Secondo biennio 1 2 La cultura come adattamento, conoscenza e identitàApprofondimento MODULO do derivate e trasmesse dalla cultura. Infatti, i modi in rale, non dalla sua esperienza personale. Quanti, tra i cui gli uomini agiscono sono influenzati da queste immagini, siano o no corrispondenti a qualche realtà empirica. Considerate l’enorme effetto prodotto sul comportamento umano dalla credenza nell’esistenza dei seguenti ‘luoghi’: Paradiso e Inferno, le Città dell’Oro, il Confine del Mondo, un Passaggio a NordOvest, Atlantide, la Terra Promessa. I nomi di luogo sono etichette indicanti categorie di spazio, reale o immaginario. Fino a poco tempo fa, nell’ambito di ogni popolazione, soltanto una percentuale ristretta di persone si allontanava dal territorio familiare. Anche attualmente, le conoscenze di un individuo circa l’aspetto del mondo derivano primariamente dalla sua tradizione cultu- 2 Luigi D’Isa, Franca Foschini - Scienze umane - Secondo biennio lettori di questo libro, hanno mai visto la città di Varsavia? La maggior parte di noi accetta il fatto della sua esistenza come parte della nostra tradizione culturale, e da tale tradizione possiamo apprendere qualcosa circa la sua collocazione, la sua forma, la sua storia. Se fossimo cresciuti in un’altra società, forse la nostra cultura non ci direbbe nulla di Varsavia, ma potrebbe insegnarci dettagliatamente com’è il Regno dei Morti o la Casa del Dragone Marino. Ed è probabile che noi accetteremmo l’esistenza di questi ‘luoghi’, e orienteremmo di conseguenza il nostro comportamento”. (Tratto da: Philip K. Bock, Antropologia culturale moderna, Einaudi, Torino, 1978, pp. 193-195). © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2012 MODULO 2 La cultura come adattamento, conoscenza e identità Caso Non toccare la donna d’altri Giorgio lavora come operaio specializzato in una fabbrica: i suoi turni di lavoro sono flessibili, per cui spesso ha occasione di portare ai giardini pubblici del proprio quartiere la figlia Maria, così come l’accompagna e la va a riprendere alla scuola infantile. È un uomo simpatico ed esuberante, conosce tutti i genitori degli amici e dei compagni della figlia e si rivolge loro in tono abbastanza confidenziale. Recentemente è stata inserita nella scuola infantile una bambina, figlia di una coppia di sposi iraniani stabilitisi in Italia da qualche anno, e Giorgio ha conosciuto la madre. Un giorno Giorgio vede la donna al mercato vicino a una bancarella: la saluta con il suo vocione allegro toccandola sulle spalle. La donna risponde con un po’ di imbarazzo, poco distante c’è il marito che è il proprietario della bancarella e che Giorgio non conosce. Il giorno dopo l’iraniano si reca ai giardini pubblici per incontrare Giorgio che sta con la figlia e altri genitori con i rispettivi bambini. Subito lo redarguisce in modo molto aspro perché “ha osato toccare sua moglie”. Giorgio cerca di spiegare che non era sua intenzione offenderlo e che il gesto da lui fatto in Italia non è ritenuto sconveniente, ma l’iraniano appare ancora più furibondo ed ha parole offensive anche per le donne italiane in genere. Giorgio capisce che non è il caso di insistere e la cosa finisce lì. L’iraniano e Giorgio hanno poi una seconda occasione per incontrarsi, ma non riescono a intendersi: il primo lo invita sempre in modo assai aspro a girare alla larga dalla moglie e Giorgio, pur assicurando che quando la incontrerà farà finta di non averla nemmeno vista, dice all’iraniano che è lui a essere ospite in Italia e quindi è lui a doversi adeguare ai costumi del Paese ospitante, altrimenti sarà costretto a mettere al collo della moglie un cartello con tutti i relativi divieti. L’iraniano si infuria e ribadisce con parole infuocate la propria opinione. Dopo questo episodio l’iraniano continua a guardare in cagnesco Giorgio che, a sua volta, è molto seccato per l’atteggiamento dell’iraniano. © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2012 Arriva il giorno del compleanno della figlia della coppia iraniana, che invita tutti i bambini della sua sezione per una festicciola, tranne la figlia di Giorgio, che è però molto dispiaciuta per essere stata esclusa. Se esaminiamo questo caso con gli strumenti conoscitivi delle scienze sociali forse sarebbe possibile scoprire che l’atteggiamento aggressivo dell’iraniano verso Giorgio non deriva solamente dal modo diverso delle due culture di considerare il rapporto tra uomini e donne. Il problema è costituito anche dalle modalità scelte per comunicare e dal significato attribuito ai rispettivi atteggiamenti. Tra i due non ci sono stati solo scambi di parole, ma anche scambi di messaggi non verbali e, probabilmente, l’atteggiamento di Giorgio sarà stato interpretato dall’iraniano non certo come una richiesta di scuse, ma come l’atteggiamento arrogante di chi si ritiene “nel giusto” e considera la mentalità dell’altro errata. Questa ipotesi appare confermata nel secondo incontro, dove Giorgio ironizza apertamente sui costumi del suo interlocutore. Luigi D’Isa, Franca Foschini - Scienze umane - Secondo biennio 1 MODULO 2 La cultura come adattamento, conoscenza e identità Finestra Gli individualisti Navajo “Spesso, le premesse di un sistema di credenze non vengono enunciate esplicitamente da coloro che detengono tali credenze ed è compito dell’antropologo scoprirle. Come ha detto Clyde Kluckhohn, la ‘filosofia implicita‘ di un popolo, in larga parte, ‘è un costrutto induttivo, basato sulle conformità riscontrabili nei modelli di pensiero e di azione osservati‘. Dopo molti anni di studi etnografici e linguistici, Kluckhohn ha tentato di presentare la filosofia implicita dei Navajo, nei termini delle sue premesse di base e come ‘leggi di pensiero‘, che egli riteneva caratterizzassero i Navajo. Ne riportiamo alcuni passi. ‘1. L’universo è ordinato: tutti gli eventi hanno una causa e sono fra loro correlati. a) Conoscere è potere. b) Bisogna fondamentalmente andare alla ricerca dell’armonia. c) L’armonia si può ristabilire mediante procedure ordinate. d) Il prezzo del disordine, in termini umani, è la malattia. 2. L’universo tende a essere personalizzato. a) La causalità si può intendere in termini personalistici. 3. L’universo è pieno di pericoli. [...] 7. I rapporti umani si basano sulla premessa dell’individualismo della famiglia. 8. Gli eventi hanno un valore primario, non gli attori o le qualità‘. Kluckhohn elabora ognuno di questi punti, e dimostra quali conseguenze hanno sull’azione sociale. Per esempio, il numero 7, la premessa dell’individualismo familistico, viene spiegata nel modo seguente. ‘I Navajo, specialmente se messi a confronto con i Pueblo e con certi altri gruppi orientati in senso comunitario, sono sicuramente degli individualisti. Le conoscenze cerimoniali si acquisiscono – dietro pagamento – da parte dell’individuo. Certi animali della mandria familiare appartengono a persone ben definite. © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2012 Alcuni riti danno un largo spazio all’autoespressione individuale. Altrettanto certamente, però, questo non è l’individualismo romantico della cultura americana. Nessun Navajo, se non ha subito acculturazione, si considera abbastanza indipendente da poter rompere con i suoi parenti [...]. Nella sua rappresentazione cognitiva del proprio mondo, il Navajo insiste sul fatto che la vita familiare è il centro dei rapporti interpersonali. Egli non si considera primariamente un membro della comunità locale, e nemmeno della tribù [...]. Il primo sentimento di attaccamento di un individuo non è rivolto a se stesso né alla società in senso astratto, ma piuttosto ai propri parenti biologici e di clan, con un intensità che si attenua man mano che la parentela si fa più lontana‘. Oltre a queste premesse di base, Kluckhohn enuncia anche quattro leggi generali di pensiero, che egli ritiene siano utilizzate dai Navajo per trarre le conclusioni dalle loro premesse. ‘a) Il simile produce il suo simile (per esempio, l’aquila vola veloce, per cui chi corre può benissimo farla discendere). b) Una parte può stare per il tutto (per esempio, gli stregoni possono operare su qualche capello o frammento di unghia proprio come se operassero effettivamente sulla vittima stessa). c) Post hoc ergo propter hoc (per esempio, l’erba non cresce più così alta come ai vecchi tempi, quando i tabù erano strettamente rispettati; pertanto, l’impoverimento della vegetazione è causato dalla trascuratezza nell’osservare le regole). d) Ogni esperienza soggettiva deve avere un correlato dimostrabile nel mondo dei sensi (per un Navajo, non basta dire ‘So che uno stregone mi segue’. Bisogna trovare le tracce dello stregone, oppure deve cadere misteriosamente dello sporco dal tetto della capanna durante la notte. Tutte le interpretazioni devono essere documentate in termini di reali eventi sensoriali.’ ” (Tratto da: Ph. K. Bock, Antropologia culturale moderna, Einaudi, Torino, 1978 (1969), pp. 369-370). Luigi D’Isa, Franca Foschini - Scienze umane - Secondo biennio 1