M2 - Hoepli Scuola

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La cultura come adattamento, conoscenza e identità
Finestra
Le tecniche di accensione del fuoco
Philip K. Bock nell’opera, Antropologia culturale moderna, parlando delle diverse fonti di energia, parla
del fuoco, di come il fuoco liberi l’energia immagazzinata nei combustibili e soprattutto delle difficoltà che
alcune popolazioni trovano nell’accensione.
“[…] e il fuoco deve essere avviato mediante un’applicazione locale di calore (accensione).
Sono pochi i gruppi umani che non possiedono alcuna tecnica di accensione. Per esempio, Allan Holmberg riferisce:
‘Fra i Siriono (della Bolivia orientale), la produzione
del fuoco è un’arte che è andata perduta. Ma è stato
detto dai più anziani dei miei informatori che si soleva produrre il fuoco (táta) facendo roteare un bastoncino fra le mani, ma io non l’ho visto generare nemmeno una volta in questo modo. Il fuoco viene trasportato da un accampamento all’altro con un tizzone
fatto di spadice di palma. Questo legno spugnoso
mantiene il fuoco per lunghi periodi di tempo. Quando la banda è in viaggio, almeno una donna per ogni
famiglia piuttosto grande porta con sé il fuoco. Ho
perfino visto delle donne nuotare in un corso d’acqua
con un tizzone acceso, tenendolo al di sopra dell’ac-
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qua con una mano mentre con l’altra nuotavano’ [A.
R. Holmberg, Nomads of the Long Bow, University of
Chicago press, Chicago 1960, p. 11].
La conoscenza delle tecniche di accensione e l’abilità
nell’applicarle sono evidentemente di grande importanza per la sopravvivenza dell’uomo. Soltanto pochi
popoli, fra quelli conosciuti, non possiedono tali abilità
(i Siriono, gli abitanti delle isole Andatane, e certi
gruppi di Pigmei africani); ma è probabile che essi abbiano soltanto dimenticato le tecniche. Questo può
accadere perché sembra che tutti i popoli preferiscano conservare un fuoco acceso in continuazione, piuttosto che accenderlo ogni volta che serve.
Le fondamentali tecniche di accensione sono semplici ma, come abbiamo osservato sopra, richiedono abilità. Lo sfregamento di due pezzi di legno produce il
fuoco soltanto se i bastoncini sono abbastanza secchi
e se vengono sfregati nel modo opportuno. Si può
anche far ruotare rapidamente un bastoncino fra le
palme, con l’estremità poggiata in un foro circondato
di paglia; alla fine si accenderà una fiamma”.
(Tratto da: Philip K. Bock, Antropologia culturale
moderna, Einaudi, Torino, 1978, pp. 299-300).
Luigi D’Isa, Franca Foschini - Scienze umane - Secondo biennio
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La cultura come adattamento, conoscenza e identità
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Il genere di vita degli indiani Nambikwara
I Nambikwara sono una popolazione che vive negli
stati brasiliani del Mato Grosso e Rondonia, nella zona
centro-occidentale. Si conoscono i loro usi, costumi e
tradizioni grazie agli studi etnografici condotti presso
di loro tra il 1935 e il 1939 dall’antropologo belga
Claude Lévi-Strauss, raccolti nell’opera La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara. In questo
brano lo studioso tratteggia il tipo di vita molto primitivo condotto dai Nambikwara.
“Essi vivono nudi, specie le donne che portano solo
un esile filo di perle di buriti intorno alla vita, orecchini, collane intorno al collo o a tracolla, braccialetti ricavati dalla coda dell’armadillo e, talvolta, nastri di cotone intessuti dai mariti, o di paglia di buriti, strettamente serrati intorno ai bicipiti e alle caviglie. Oltre a questi stessi ornamenti, gli uomini inalberano talvolta una
sorta di nappa di paglia attaccata alla cintura sopra i
genitali. […] La completa ignoranza dell’amaca e l’uso dei Nambikwara di dormire sulla nuda terra […] stimolano da un pezzo l’interesse degli etnologi; tale interesse è condiviso dalle tribù vicine, e i Paressi, evocando questa singolarità, chiamano i Nambikwara
Uaikoakoré, ‘quelli che dormono per terra’.
Dobbiamo dividere l’anno nambikwara in due distinti
periodi. Durante la stagione piovosa (da ottobre a
marzo) ogni gruppo si stabilisce su una piccola altura
sovrastante un corso di acqua; gli indigeni costruiscono allora grossolane capanne di cui la forma e i materiali presentano curiose variazioni. Essi aprono degli
spiazzi nella foresta-galleria che occupa il fondo umido della valle, e vi piantano e coltivano orti in cui figurano soprattutto il manioco (dolce e amaro) e il tabacco, e talvolta fagioli, cotone, arachidi e lunghe zucche
(Lagenaria sp.). Si grattugia il manioco su tavole incrostate di spine di palma, lo si preme con l’aiuto di
un pezzo di scorza ritorto. Il giardinaggio fornisce risorse alimentari sufficienti per una parte del periodo sedentario, e anche utilizzabili più tardi: i Nambikwara
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conservano il manioco sotterrando forme di polpa
grattugiata nel suolo.
Con l’arrivo della stagione secca, si abbandona il villaggio o piuttosto il luogo di residenza temporanea, e ogni
gruppo ‘esplode’, per così dire, in parecchie bande nomadi. Per circa sette mesi, queste bande errano attraverso la savana, alla ricerca di selvaggina, di animaletti
come larve, ragni, cavallette, roditori, serpenti, lucertole, ecc., e di frutti, semi, radici o miele selvatici, insomma, di tutto ciò che può evitar loro di morire di fame. I
loro accampamenti, installati per uno o più giorni, talvolta per qualche settimana, consistono in tanti ripari
sommari quante sono le famiglie, e tali ripari sono costituiti da palme o da rami fissati in semicerchio nella
sabbia e legati in cima. È l’epoca in cui la ricerca alimentare assorbe tutte le attività. Le donne si armano
del bastone da scavo, e gli uomini cacciano con arco e
freccia, arma di cui bisogna distinguere molti tipi. […]
Oltre all’arco e alle frecce, gli uomini impiegano una
mazza che assume spesso la forma di uno spiedo e il
cui uso è riservato alle operazioni magiche e guerresche.
Le materie prime dell’industria indigena consistono in
legnami svariati, cera di api selvatiche, resina, fibre di
palme buriti e tucum (Astrocaryum tucuma), ossi di
scimmia, denti e unghie di mammiferi […]. Come
utensili hanno coltelli fatti con schegge taglienti di
bambù, pietra grossolanamente intagliate […]”.
(Tratto da: Claude Lévi-Strauss, La vita familiare
e sociale degli indiani Nambikwara, Giulio Einaudi
editore, Torino, 1970, pp. 24-26).
w buriti
frutto di una delle palme più grandi della Amazzonia,
Mauritia vinifera
w armadillo
mammifero americano con testa e tronco protetti da
un’armatura formata di placche ossee
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L’usanza della couvade
L’antropologa ed educatrice britannica Sheila Kitzinger
(Tauton, Sommerset 1929), favorevole alla pratica
del parto naturale, non ospedalizzato, si è occupata
del tema della nascita in numerosi lavori. Nell’opera
Donne come madri, di cui riportiamo un brano significativo, confronta come la figura del padre sia presente alle pratiche del parto e il suo ruolo in alcune
culture.
“La presenza del padre al parto è una questione più
complessa. In molte culture viene applicata rigidamente la regola che il padre debba starsene lontano.
L’elemento maschile e quello femminile devono essere tenuti separati. Ma anche dove non è ammessa
la presenza del padre, spesso si crede che la salute e
la vita del piccolo dipendano in gran parte dalle sue
azioni. Se scappa con un’altra donna, lucida la sua
lancia, mette in pericolo la vita del suo piccolo. Stando attento a quello che fa, contribuisce alla riuscita del
parto. Così vi partecipa attivamente pur non essendo
fisicamente presente. Nel Corano si legge che il padre
deve propiziare con preghiere la nascita del figlio, ed
è lui a fornirgli il primo contatto con il mondo ponendogli un pezzetto di dattero sulla bocca.
Dove è il padre a far venire alla luce il piccolo, come
succede tra i Bang Chang dell’Asia sudorientale, deve
proteggersi in modo particolare dalle forze femminili.
Per introdursi nel mondo sacro in cui avviene la nascita, egli prende in mano incenso, fiori e una candela
accesa. Poi prega, invocando l’aiuto degli spiriti perché
rafforzino i venti della nascita nel suo corpo, poiché
non è lui, ma sono i venti a far nascere il bambino, ed
egli è lì soltanto per riceverlo.
Nell’usanza della couvade, il marito partecipa alla nascita del figlio, simulando il travaglio contemporaneamente alla moglie o dopo, oppure giacendo a letto
nel periodo post-natale. Un padre arapessh, ad esempio, aspetta di conoscere il sesso del figlio, e dopo or-
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dina ‘lavatelo’ oppure ‘non lavatelo’ secondo che desideri o no che viva. Se il bambino viene tenuto in vita, egli porta un fascio di foglie morbide alla moglie
perché ne foderi il sacco di rete in cui il piccolo viene
sospeso in posizione accovacciata, un guscio di noce
di cocco pieno d’acqua per bagnare il piccolo e foglie
spinose per tenere il male fuori della capanna. Porta
anche con sé il suo cuscino di legno e giace accanto
alla moglie; entrambi non bevono e non mangiano il
primo giorno del parto, e si limitano a compiere riti
magici per il benessere del bambino. Restano isolati
per cinque giorni. Il padre non deve toccare né il proprio corpo né il tabacco. Deve mangiare ogni cibo col
cucchiaio finché non viene compiuta la cerimonia di
purificazione rituale in una speciale capanna di foglie
costruita ai bordi di uno stagno. Anche allora la sua
dieta è soggetta a restrizioni e la carne gli è vietata finché il bambino non ha superato un mese di vita.
Così facendo molte società danno al padre un ruolo
ben definito nel parto. Allo stesso tempo lo proteggono con un accurato rituale dalla svirilizzazione che potrebbe conseguire dal suo coinvolgimento in una attività che è essenzialmente femminile. Quando tale
coinvolgimento è terminato, il padre viene reiniziato
alla virilità con riti analoghi a quelli usati quando un ragazzo diventa uomo, con la differenza che ora è un
uomo che è riuscito a mettere al mondo un figlio.
Se il padre può essere chiamato a svolgere questo
ruolo, e possono intervenire dei maghi quando le cose sembrano andare per il peggio, nelle società primitive l’uomo non viene generalmente coinvolto in un
travaglio normale in qualità di specialista del parto,
non esiste cioè alcun ruolo maschile corrispondente a
quello dell’ostetrico nella civiltà occidentale. Questa
funzioni spetta esclusivamente alle levatrici”.
(Tratto da: Sheila Kitzinger, Donne come madri,
Bompiani, Milano, 1980, pp. 102-103).
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Nomi di luogo e orientamento spaziale
In questo brano l’antropologo Philip K. Bock descrive
i criteri con cui molti popoli illetterati assegnano un
nome ai luoghi e gli accorgimenti che li rendono in
grado di orientarsi nel loro ambiente in un modo che
a noi sembra sorprendente.
“Tutti gli uomini hanno il senso della propria collocazione all’interno un mondo sociale, e apprendono le
categorie e le dimensioni di questo mondo insieme al
resto della loro cultura. Come abbiamo visto, è più facile apprendere una categoria quando le si associa
un’etichetta verbale; il linguaggio è un fattore essenziale dell’orientamento spaziale, per gli esseri umani.
Molte popolazioni tribali hanno sistemi estremamente dettagliati di nomi di luogo. Gli indiani Micmac del
Canada orientale, per esempio, hanno differenti nomi
di luogo per ogni piccola collina, isola, corso d’acqua,
capo, baia, che sia situata lungo la costa in prossimità
dei loro stanziamenti. Alcuni di questi nomi fanno riferimento a caratteristiche geografiche rilevanti, e si
possono tradurre, per esempio, ‘piccolo promontorio
roccioso’, oppure ‘dove si innalzano i pini’. Altri nomi
di luogo indicano i tipi di attività che di consuetudine
si svolgono in quelle zone: ‘dove si aspettano le barche (le canoe)’, ‘dove si pesca il salmone di notte con
le torce’, ‘il posto delle trappole per le anguille’. Altri
nomi ancora indicano associazioni storiche o leggendarie: ‘casa del gigante’, ‘dove i nani scivolano giù
(lungo il fianco della montagna)’, ‘combattimento’.
Apprendendo i nomi di luogo usati dai membri della
sua società, un individuo impara anche come muoversi nel suo ambiente. Con ciò intendiamo quello
che normalmente si chiama orientamento spaziale
(sapere dove ci si trova), e anche i progetti associati
con le differenti parti di tale ambiente – quali tipi particolari di comportamento sono appropriati a specifici
luoghi, socialmente riconosciuti. Il sistema dei nomi di
luogo dà ai membri di un gruppo la possibilità di comunicare le credenze e le aspettative comuni circa il
loro ambiente geografico, e di impregnare il paesaggio di significato sociale.
Sono ancora in circolazione ridicole storie circa il fatto
che i ‘selvaggi’ avrebbero una specie di istintivo senso della direzione o di orientamento spaziale, e che
riuscirebbero a trovare la via senza alcuna indicazione
esplicita. Per lo straniero, che dipende strettamente
dalle mappe e dalla bussola, e dai cartelli stradali, c’è
veramente qualcosa di misterioso nel modo in cui gli
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Esquimesi viaggiano attraverso lande sconfinate senza piste, o nel modo in cui i navigatori polinesiani si
spingono in mare aperto con le loro canoe a bilanciere fino a perdere di vista la terra, senza alcun mezzo
meccanico come ausilio alla navigazione. Ma un’indagine approfondita rivelerà che i sistemi culturali di
questi gruppi forniscono un insieme ingegnoso di categorie e progetti, che mettono in grado i membri di
quel gruppo di sfruttare piccole differenze ambientali
per mantenere il senso dell’orientamento. Allontanati
dal territorio a loro familiare, i ‘selvaggi’ perdono rapidamente i loro pretesi istinti.
A. I. Hallowell ha studiato i fattori culturali dell’orientamento spaziale presso gli indiani Salteaux del Canada
centrale. Egli riscontrò che la considerevole abilità degli Indiani nel viaggiare attraverso zone disabitate dipendeva dalla profonda conoscenza del terreno della
loro località cui si aggiungeva l’uso dei nomi di luoghi
e di mappe indigene, e una profonda attenzione alle
caratteristiche topografiche generali e a ogni cambiamento di direzione del vento. Egli sottolinea che ‘gli
indizi topografici sono […] così importanti che, se [sono] mascherati dalla neve, un individuo può perdere
la via anche su un terreno familiare’, mentre ‘se manca la possibilità di orientamento direzionale per mezzo del vento non c’è altro da fare che accamparsi e
aspettare che le condizioni meteorologiche cambino,
permettendo l’uso degli indizi abituali’.
Questo per quanto riguarda l’istinto direzionale. Ma
Hallowell si spinge oltre, trattando un argomento ancora più importante: ‘Forse la caratteristica più singolare della spazializzazione che l’uomo compie sul suo
mondo è il fatto che essa non appare mai limitata
esclusivamente al livello pragmatico dell’azione e dell’esperienza percettiva. Luoghi e oggetti di varie classi
sono concepiti come aventi una reale esistenza in
lontane regioni. Anche se l’individuo non ne ha mai
alcuna esperienza percettiva diretta, [...] tali regioni costituiscono, tuttavia, una parte integrante del complessivo mondo spaziale, verso il quale l’individuo è orientato dalla sua cultura. Perché, in ogni parte della terra,
l’uomo formula concetti di natura cosmica; si orienta
in un universo che ha dimensioni spaziali’.
Ogni cultura, quindi, fornisce a coloro che l’acquisiscono delle credenze riguardanti il mondo che li circonda. Se vogliamo, non dico prevedere, ma anche solo
comprendere il comportamento umano, dobbiamo riconoscere l’importanza di queste immagini del mon-
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2 La cultura come adattamento, conoscenza e identitàApprofondimento
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do derivate e trasmesse dalla cultura. Infatti, i modi in rale, non dalla sua esperienza personale. Quanti, tra i
cui gli uomini agiscono sono influenzati da queste immagini, siano o no corrispondenti a qualche realtà
empirica. Considerate l’enorme effetto prodotto sul
comportamento umano dalla credenza nell’esistenza
dei seguenti ‘luoghi’: Paradiso e Inferno, le Città dell’Oro, il Confine del Mondo, un Passaggio a NordOvest, Atlantide, la Terra Promessa. I nomi di luogo
sono etichette indicanti categorie di spazio, reale o
immaginario.
Fino a poco tempo fa, nell’ambito di ogni popolazione, soltanto una percentuale ristretta di persone si allontanava dal territorio familiare. Anche attualmente,
le conoscenze di un individuo circa l’aspetto del mondo derivano primariamente dalla sua tradizione cultu-
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lettori di questo libro, hanno mai visto la città di Varsavia? La maggior parte di noi accetta il fatto della sua
esistenza come parte della nostra tradizione culturale,
e da tale tradizione possiamo apprendere qualcosa
circa la sua collocazione, la sua forma, la sua storia. Se
fossimo cresciuti in un’altra società, forse la nostra cultura non ci direbbe nulla di Varsavia, ma potrebbe insegnarci dettagliatamente com’è il Regno dei Morti o
la Casa del Dragone Marino. Ed è probabile che noi
accetteremmo l’esistenza di questi ‘luoghi’, e orienteremmo di conseguenza il nostro comportamento”.
(Tratto da: Philip K. Bock, Antropologia culturale
moderna, Einaudi, Torino, 1978, pp. 193-195).
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Caso
Non toccare la donna d’altri
Giorgio lavora come operaio specializzato in una fabbrica: i suoi turni di lavoro sono flessibili, per cui spesso ha occasione di portare ai giardini pubblici del proprio quartiere la figlia Maria, così come l’accompagna
e la va a riprendere alla scuola infantile. È un uomo
simpatico ed esuberante, conosce tutti i genitori degli
amici e dei compagni della figlia e si rivolge loro in tono abbastanza confidenziale.
Recentemente è stata inserita nella scuola infantile
una bambina, figlia di una coppia di sposi iraniani stabilitisi in Italia da qualche anno, e Giorgio ha conosciuto la madre. Un giorno Giorgio vede la donna al mercato vicino a una bancarella: la saluta con il suo vocione allegro toccandola sulle spalle. La donna risponde
con un po’ di imbarazzo, poco distante c’è il marito
che è il proprietario della bancarella e che Giorgio non
conosce. Il giorno dopo l’iraniano si reca ai giardini
pubblici per incontrare Giorgio che sta con la figlia e
altri genitori con i rispettivi bambini. Subito lo redarguisce in modo molto aspro perché “ha osato toccare
sua moglie”. Giorgio cerca di spiegare che non era sua
intenzione offenderlo e che il gesto da lui fatto in Italia non è ritenuto sconveniente, ma l’iraniano appare
ancora più furibondo ed ha parole offensive anche
per le donne italiane in genere. Giorgio capisce che
non è il caso di insistere e la cosa finisce lì.
L’iraniano e Giorgio hanno poi una seconda occasione
per incontrarsi, ma non riescono a intendersi: il primo
lo invita sempre in modo assai aspro a girare alla larga dalla moglie e Giorgio, pur assicurando che quando la incontrerà farà finta di non averla nemmeno vista, dice all’iraniano che è lui a essere ospite in Italia e
quindi è lui a doversi adeguare ai costumi del Paese
ospitante, altrimenti sarà costretto a mettere al collo
della moglie un cartello con tutti i relativi divieti. L’iraniano si infuria e ribadisce con parole infuocate la propria opinione. Dopo questo episodio l’iraniano continua a guardare in cagnesco Giorgio che, a sua volta, è
molto seccato per l’atteggiamento dell’iraniano.
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Arriva il giorno del compleanno della figlia della coppia iraniana, che invita tutti i bambini della sua sezione per una festicciola, tranne la figlia di Giorgio, che è
però molto dispiaciuta per essere stata esclusa.
Se esaminiamo questo caso con gli strumenti conoscitivi delle scienze sociali forse sarebbe possibile scoprire che l’atteggiamento aggressivo dell’iraniano verso Giorgio non deriva solamente dal modo diverso
delle due culture di considerare il rapporto tra uomini
e donne. Il problema è costituito anche dalle modalità scelte per comunicare e dal significato attribuito ai
rispettivi atteggiamenti. Tra i due non ci sono stati solo scambi di parole, ma anche scambi di messaggi
non verbali e, probabilmente, l’atteggiamento di Giorgio sarà stato interpretato dall’iraniano non certo come una richiesta di scuse, ma come l’atteggiamento
arrogante di chi si ritiene “nel giusto” e considera la
mentalità dell’altro errata. Questa ipotesi appare confermata nel secondo incontro, dove Giorgio ironizza
apertamente sui costumi del suo interlocutore.
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Gli individualisti Navajo
“Spesso, le premesse di un sistema di credenze non
vengono enunciate esplicitamente da coloro che detengono tali credenze ed è compito dell’antropologo
scoprirle.
Come ha detto Clyde Kluckhohn, la ‘filosofia implicita‘
di un popolo, in larga parte, ‘è un costrutto induttivo,
basato sulle conformità riscontrabili nei modelli di
pensiero e di azione osservati‘.
Dopo molti anni di studi etnografici e linguistici,
Kluckhohn ha tentato di presentare la filosofia implicita dei Navajo, nei termini delle sue premesse di base
e come ‘leggi di pensiero‘, che egli riteneva caratterizzassero i Navajo.
Ne riportiamo alcuni passi.
‘1. L’universo è ordinato: tutti gli eventi hanno una
causa e sono fra loro correlati.
a) Conoscere è potere.
b) Bisogna fondamentalmente andare alla ricerca
dell’armonia.
c) L’armonia si può ristabilire mediante procedure ordinate.
d) Il prezzo del disordine, in termini umani, è la
malattia.
2. L’universo tende a essere personalizzato.
a) La causalità si può intendere in termini personalistici.
3. L’universo è pieno di pericoli.
[...]
7. I rapporti umani si basano sulla premessa dell’individualismo della famiglia.
8. Gli eventi hanno un valore primario, non gli attori
o le qualità‘.
Kluckhohn elabora ognuno di questi punti, e dimostra
quali conseguenze hanno sull’azione sociale. Per
esempio, il numero 7, la premessa dell’individualismo
familistico, viene spiegata nel modo seguente.
‘I Navajo, specialmente se messi a confronto con i
Pueblo e con certi altri gruppi orientati in senso comunitario, sono sicuramente degli individualisti. Le conoscenze cerimoniali si acquisiscono – dietro pagamento – da parte dell’individuo. Certi animali della mandria familiare appartengono a persone ben definite.
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Alcuni riti danno un largo spazio all’autoespressione
individuale. Altrettanto certamente, però, questo non
è l’individualismo romantico della cultura americana.
Nessun Navajo, se non ha subito acculturazione, si
considera abbastanza indipendente da poter rompere
con i suoi parenti [...]. Nella sua rappresentazione cognitiva del proprio mondo, il Navajo insiste sul fatto
che la vita familiare è il centro dei rapporti interpersonali. Egli non si considera primariamente un membro
della comunità locale, e nemmeno della tribù [...]. Il
primo sentimento di attaccamento di un individuo
non è rivolto a se stesso né alla società in senso
astratto, ma piuttosto ai propri parenti biologici e di
clan, con un intensità che si attenua man mano che
la parentela si fa più lontana‘.
Oltre a queste premesse di base, Kluckhohn enuncia
anche quattro leggi generali di pensiero, che egli ritiene siano utilizzate dai Navajo per trarre le conclusioni
dalle loro premesse.
‘a) Il simile produce il suo simile (per esempio, l’aquila vola veloce, per cui chi corre può benissimo
farla discendere).
b) Una parte può stare per il tutto (per esempio, gli
stregoni possono operare su qualche capello o
frammento di unghia proprio come se operassero effettivamente sulla vittima stessa).
c) Post hoc ergo propter hoc (per esempio, l’erba
non cresce più così alta come ai vecchi tempi,
quando i tabù erano strettamente rispettati; pertanto, l’impoverimento della vegetazione è causato dalla trascuratezza nell’osservare le regole).
d) Ogni esperienza soggettiva deve avere un correlato dimostrabile nel mondo dei sensi (per un Navajo, non basta dire ‘So che uno stregone mi segue’. Bisogna trovare le tracce dello stregone, oppure deve cadere misteriosamente dello sporco
dal tetto della capanna durante la notte. Tutte le
interpretazioni devono essere documentate in termini di reali eventi sensoriali.’ ”
(Tratto da: Ph. K. Bock, Antropologia culturale
moderna, Einaudi, Torino, 1978 (1969),
pp. 369-370).
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