Parte IX

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Parte IX
psicologia Ges
processi cognitivi men
memoria
ESTENSIONI WEB
Parte IX
Processi cognitivi, creatività
e pensiero divergente
gruppi
concetti
Capitolo 1 - La scienza della psicologia
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1. La scienza della psicologia
1.1 La psicologia filosofica
La psicologia, scienza che studia il comportamento e l’attività mentale, dischiude una serie di questioni teoriche dalle valenze filosofiche.
Un problema molto dibattuto riguarda il metodo di accesso al campo d’indagine specifico: ci si chiede, infatti, in che modo debba essere esaminata
la realtà psichica. A questo proposito si possono distinguere gli psicologi di
orientamento meccanomorfico, i quali assimilano l’oggetto delle loro ricerche ad un fatto ricostruibile secondo parametri sperimentalistici, dagli psicologi di orientamento antropomorfico, i quali riconoscono all’evento psichico
una struttura specifica, che richiede una partecipazione interiore.
Ci si interroga inoltre riguardo alla natura della psiche, al suo essere un’entità astorica oppure un prodotto sociale, e riguardo al concetto di normalità
psichica, all’esistenza di un confine tra la salute mentale e il comportamento
deviante. Il problema che concerne i legami tra lo psichico e il neurofisiologico innesca un’accesa polemica tra gli psicologi riduzionisti e antiriduzionisti, lasciando affiorare una gamma di posizioni intermedie, mentre la questione relativa all’eventuale possibilità di tradurre in costrutti misurabili i dati
psichici contrappone due schieramenti, i quantificazionisti e gli antiquantificazionisti. Inoltre, il rapporto tra l’individuo e l’ambiente costituisce una
dicotomia tra gli ambientalisti, che sottolineano l’importanza delle influenze ambientali sulle strutture comportamentali, e gli innatisti, che affermano
l’ereditarietà di tali strutture. Un altro problema, che si ricollega a tutta la tradizione filosofica classica e che non cessa di porre interrogativi agli psicologi
stessi, è quello relativo alla libertà: ciò che tradizionalmente si chiama libertà
esiste oppure si tratta di un vecchio mito distrutto dalle scienze umane?
Il pensiero degli psicologi
È possibile, e in che senso, un’auto-programmazione razionale della condotta umana? Il terapeuta può far uso di nozioni come quelle di «progetto», «scelta» e «responsabilità», oppure deve abolirle dal suo linguaggio? Come si può notare, quesiti
di questo tipo […] mostrano come la psicologia attuale, contrariamente a quanto si
afferma talora, sia ben lontana dall’aver rotto i ponti con la filosofia, in quanto suscita essa stessa degli «interrogativi» che non possono fare a meno, a certi livelli,
di «coinvolgere la filosofia».
(Abbagnano N., Fornero G., Filosofi e filosofie nella storia, vol. III, Paravia, Torino, 1992)
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Parte IX - Processi cognitivi, creatività e pensiero divergente
La psicologia si è costituita dapprima in ambito filosofico, grazie al greco
Aristotele (384-322 a.C.) che, nel De Anima, aveva raccolto i pareri espressi
dai suoi predecessori sul tema dell’anima. L’oggetto di studio era rappresentato dalla natura, dalla sostanza e dalle determinazioni accidentali dell’anima,
intesa come il principio degli esseri viventi, la sostanza necessaria dalla quale
si possono dedurre i fenomeni particolari.
Per oltre duemila anni la filosofia ha indagato l’animo umano, ponendo problemi che non conducevano a soluzioni definitive e non consentivano di analizzare la mente in maniera scientifica. Lo sviluppo della psicologia scientifica
era, tra l’altro, inibito anche da remore di tipo ideologico e religioso: il pensiero
cristiano medievale, infatti, riteneva l’uomo un essere superiore rispetto al resto
del creato, e quindi non ne consentiva l’esame né del corpo né della mente.
Grazie a René Descartes (1596-1620) si affermò poi la concezione che
l’anima, entità spirituale, abitasse il corpo, concepito come una sorta di macchina e dunque possibile oggetto di analisi, e si rese esplicita la distinzione tra
res cogitans, l’anima, e res extensa, il corpo, separando le caratteristiche materiali, che l’uomo condivideva con gli animali, da quelle mentali, che, invece, gli
erano proprie. Questa soluzione permise a Descartes di condurre sperimentazioni con animali senza entrare in contrasto con le autorità ecclesiastiche.
Successivamente, i filosofi empiristi sostennero che le idee e i contenuti
mentali non fossero innati, ma acquisiti con l’esperienza e, dunque, potevano
essere analizzati come tutti gli altri fenomeni. Il Saggio sull’intelletto di John
Locke (1632-1704), pubblicato nel 1690, in cui l’autore progettava una scienza della mente basata sul metodo delle scienze naturali applicato alle attività
cognitive, rimase però un tentativo isolato nella storia della filosofia e non
riuscì a scardinare il veto della tradizione.
Le prevalenti concezioni filosofiche e biologiche ostacolarono la possibilità dell’uomo di osservarsi con la stessa obiettività impiegata nello studio di
altri eventi naturali fino alla seconda metà del XIX secolo, quando i notevoli
progressi compiuti in campo biologico, anatomico e fisiologico lasciarono che
l’essere umano apparisse come parte integrante della natura. Nella sua opera
L’origine della specie, pubblicato nel 1959, Charles Darwin (1809-1882) mostrò come l’evoluzione modellasse non solo l’anatomia e la fisiologia dei viventi, ma anche i comportamenti e le emozioni, ponendo l’uomo in un continuum
con gli animali inferiori e delineando i primi tratti di una scienza naturale che
ne potesse studiare il comportamento adattivo.
1.2 La psicologia scientifica
Nel linguaggio contemporaneo la parola «psicologia» ha il senso di psicologia
scientifica, di disciplina che analizza, usando i metodi delle altre scienze, la
fenomenologia della vita psichica, allo scopo di venire a conoscenza dei modi
più reconditi attraverso i quali essa si attua e delle leggi che la conducono.
Capitolo 1 - La scienza della psicologia
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La psicologia scientifica ebbe inizio grazie all’opera di scienziati naturali, fisici, fisiologi, medici che condussero, soprattutto in Germania, ricerche
sui processi mentali più elementari, in particolare su quelli alla base delle
sensazioni e delle emozioni. La teoria di Wilhelm Maximilian Wundt (18321920), che dominò inizialmente la psicologia scientifica moderna, creò una
psicologia sperimentale su vasta scala, poco tempo dopo che Gustav Theodor
Fechner (1801-1887) aveva mostrato le possibilità d’impiego dell’esperimento
e dell’osservazione empirica esatta. Wundt fondò a Lipsia, nel 1879, il primo
laboratorio per l’indagine sperimentale dei processi psichici, evento considerato da molti come l’inizio della psicologia come scienza autonoma, tracciando inoltre un vasto sistema della nuova scienza, compresa tra la psicofisiologia sperimentale e la psicologia dei popoli.
Nel XX secolo il centro scientifico internazionale si spostò negli Stati Uniti, dove gli studiosi rifiutarono l’idea che la psicologia dovesse occuparsi della
mente e affermarono l’antimentalismo, promuovendo la corrente del comportamentismo, che avrebbe dominato la psicologia per oltre quarant’anni. I comportamentisti sostennero che la psicologia avrebbe potuto liberare sé stessa e
ampliare la propria sfera d’azione facendo del comportamento il proprio campo
d’indagine, evitando complesse teorizzazioni sui processi mentali e attenendosi
a ciò che è obiettivo e osservabile dall’esterno, i comportamenti manifesti.
Il manifesto del comportamentismo è costituito da un articolo dello psicologo americano John Broadus Watson (1878-1958), apparso nel 1913, La
psicologia così come la vede il comportamentista, in cui è sottolineata la necessità che i dati della psicologia siano aperti all’indagine e al controllo. Sebbene
molti correttivi siano stati introdotti, il comportamentismo ha influenzato a
lungo la psicologia, in particolare attraverso l’opera di un altro psicologo statunitense, Burrhus Frederic Skinner (1904-1990).
La psicologia stimolo-risposta, che era precedente al comportamentismo,
fu rapidamente incorporata in questa corrente. Secondo il modello del riflesso
fisiologico, un tipico riflesso, quale può essere la costrizione pupillare in presenza di una luce brillante, costituisce una risposta relativamente diretta allo
stimolo, intendendosi per «stimolo» qualsiasi forma di energia fisica specifica
che colpisce un recettore sensibile a quel tipo di energia oppure qualunque
evento oggettivamente osservabile, esterno o interno all’organismo, che sia
l’occasione per il manifestarsi di una risposta.
Il fisiologo russo Ivan Petrovich Pavlov (1848-1936) introdusse la nozione di riflesso condizionato, un riflesso appreso, secondo cui una risposta si
abbina a un nuovo stimolo che precedentemente non la provocava. Studiando
le secrezioni della ghiandola salivare dei cani lo studioso notò che esse iniziavano prima del contatto con il cibo. È noto il suo classico esperimento: accompagnando, per un certo numero di volte, la presentazione ai cani della carne
con un suono di campanello, alla fine quest’ultimo poteva da solo determinare
la salivazione negli animali, provocandola dunque artificialmente.
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I concetti di stimolo e di risposta fornivano una spiegazione per la formazione delle abitudini e dell’apprendimento, gratificando l’aspirazione comportamentista di disporre di un’unità analitica che consentisse di spiegare il
comportamento: se lo stimolo responsabile della reazione poteva essere identificato, allora quest’ultima poteva essere prevista, e, attraverso un condizionamento, tenuta sotto controllo.
La visione comportamentista, ritenuta troppo angusta per comprendere
l’estrema ricchezza dei dati psicologici, nel secondo dopoguerra subì un indebolimento, mentre si delineò una rinascita dello studio scientifico dei processi
mentali, attraverso il consolidamento della psicologia cognitiva o «psicologia
del conoscere», che studia le attività mentali umane, analizzando il funzionamento della mente a livello astratto e occupandosi di modelli di riconoscimento, di distorsioni nella percezione della realtà, della linea sfumata esistente tra
attenzione e disattenzione.
L’area cognitiva è il campo di studi avente per oggetto di analisi la mente. Un ambito disciplinare costituito, oltre che dalla psicologia cognitiva, che
rimane uno dei fondamenti della psicologia contemporanea, anche dalla psicologia fisiologica e dalla neurofisiologia, specializzazioni al confine con le
neuroscienze, e da altre discipline appartenenti a diversi ambiti del sapere,
quali la filosofia, l’etologia, l’informatica.
La mente può essere considerata un sistema operativo, vale a dire un apparato che svolge determinati compiti attraverso determinate operazioni, analizzabili sul piano sia della concretezza sia dell’astrazione. Mentre nel cervello si
realizzano trasformazioni chimiche ed elettriche, a livello astratto si svolgono
processi cognitivi, vale a dire insiemi di operazioni concatenate, in cui vengono trattate informazioni possedute come simboli e rappresentazioni mentali.
La psicologia cognitiva utilizza metodi oggettivi di verifica dei suoi risultati
mediante la ripetizione o la sistematica variazione delle condizioni e non insiste sull’analogia dell’arco riflesso, usata dalla psicologia stimolo-risposta, ma
su altre analogie, quale ad esempio quella di un computer che, piuttosto che
rispondere ad un impulso, elabora le informazioni ricevute e produce una
risposta basata su questo procedimento complesso.
La psicologia fisiologica, che si origina dall’incontro di psicologia cognitiva,
anatomia e fisiologia del sistema nervoso, studia il funzionamento della mente
a livello materiale, tentando di comprendere, attraverso il lavoro sperimentale, i
processi anatomo-fisiologici sottostanti ai processi cognitivi. La possibilità della
psicologia di definirsi unicamente come studio dell’azione del cervello rappresenta un problema vivacemente discusso, ma interessante, poiché appare ineludibile l’esistenza di un legame vincolante tra attività cerebrale ed esperienza.
La neuropsicologia, che scaturisce dalla confluenza della psicologia cognitiva e della neurologia, studia gli effetti cognitivi di lesioni cerebrali, verificando ipotesi sul funzionamento della mente attraverso l’analisi delle prestazioni mentali di pazienti con lesioni cerebrali. L’esistenza della percezione
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subliminale – quella in cui il soggetto percepisce uno stimolo senza averne
consapevolezza – è confermata, ad esempio, da sindromi cliniche generate da
lesioni cerebrali e caratterizzate da percezioni senza coscienza.
L’etologia classica, considerata una branca dell’etologia, attraverso confronti sistematici tra specie animali differenti, studia le origini e l’evoluzione
dei comportamenti. Da circa un trentennio si è affermata l’etologia cognitiva,
che rivela i processi biologico-evolutivi dei fenomeni mentali.
Gli studiosi di intelligenza artificiale si propongono di progettare e realizzare macchine pensanti. Lo storico seminario interdisciplinare, svoltosi nel
1956 al Dartmouth College di Hannover, nel New Hampshire, che segnò l’atto
di nascita ufficiale di questa disciplina, partiva dal presupposto che si potesse
simulare ogni caratteristica dell’intelligenza. Nel simposio fu fondato il campo
di ricerca dell’intelligenza artificiale dura, in cui gli studiosi mirano a costruire macchine dalle prestazioni rapide, accurate ed esenti da errori, ignorando il
funzionamento della mente umana e badando ai risultati indipendentemente
da come sono ottenuti, e il campo di ricerca dell’intelligenza artificiale morbida, in cui i ricercatori si propongono di costruire macchine operanti secondo
le stesse modalità di ragionamento dell’uomo.
La scienza cognitiva che studia i sistemi intelligenti – siano essi umani,
animali o artificiali – si concentra sulla natura della conoscenza e sull’architettura della mente. Per i teorici del modularismo, la mente è formata da una
serie di moduli periferici, che trattano le informazioni in arrivo e le trasformano in rappresentazioni trasmesse ad un elaboratore centrale. Una diversa
concezione della struttura della mente è stata proposta dai teorici del connessionismo o delle reti neurali, secondo i quali nel cervello umano esistono
molte unità operative, i neuroni, e non una sola centrale operativa, come la
CPU (Central Processing Unit) presente nel computer, in grado di lavorare sulle
informazioni in entrata e in uscita attinte dalla memoria, e di controllare l’intero processo di funzionamento. I confessionisti hanno costruito intelligenze
artificiali basate su reti di unità come quelle del cervello umano, caratterizzato
da un’architettura parallela, capace dunque di sfruttare le connessioni tra le
numerose unità e di riuscire a fare contemporaneamente più operazioni. Poiché, secondo quest’approccio, i fenomeni mentali corrispondono ai fenomeni
fisici del cervello, è legittimo affermare che la teoria delle reti neurali ripropone la concezione filosofica del riduzionismo materialista.
1.3 I metodi per lo studio della mente
È possibile rubricare svariate metodologie che consentono di compiere
un’analisi della mente da diverse prospettive.
L’introspezione, caratterizzata dalla concentrazione dell’attenzione sull’attività mentale, è un metodo di osservazione che centra i fenomeni del mon-
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do interiore. I ricordi, i desideri, i piaceri e i dolori individuali si iscrivono
sull’orizzonte della coscienza, accessibile all’autosservazione e costituita da
eventi di cui solo la persona stessa è pienamente consapevole. Dopo l’avvento
della psicologia cognitiva, l’introspezione è stata oggetto di critiche, poiché i
processi mentali possono essere automatici, come nelle attività di facile esecuzione, o complessi, come in passaggi cruciali che conducono alla scoperta
di idee geniali, sfuggendo, in entrambi i casi, alla consapevolezza. I resoconti
verbali dei soggetti, inoltre, sono in genere ricostruzioni che descrivono accadimenti mentali avvenuti nel passato, e, per questa ragione, non dotati di
assoluta affidabilità.
Le metodologie di indagine inferenziali sono tese a individuare indizi
esterni grazie ai quali ricostruire ciò che accade all’interno della mente. Tra
questo tipo di procedimenti è possibile annoverare il metodo dei tempi di
reazione, basato sulla misurazione esatta del tempo che occorre per fornire
una risposta ad uno stimolo, e la tecnica del doppio compito, in cui si chiede
al soggetto di svolgere contemporaneamente due compiti, il compito primario
oggetto di studio e il compito secondario, destinato a far raccogliere indizi sui
processi mentali del compito primario.
La simulazione è un metodo che consente di mettere alla prova ipotesi
sul funzionamento della mente cercando di riprodurre le attività mentali sul
calcolatore.
Lo studio dei singoli casi, che vanta una lunga tradizione in psicologia
clinica, suggerisce ipotesi da verificare grazie a ricerche più approfondite. I
casi studiati in neuropsicologia diventano dimostrativi: il fatto che alcuni pazienti con lesioni cerebrali presentino un blindsight, descrivendo oggetti collocati nel proprio campo visivo senza vederli, testimonia l’eventualità di una
percezione senza coscienza.
Tra le indagini descrittive si ricorda la ricerca correlazionale, che consente di rintracciare legami tra eventi, e la ricerca demoscopica, che permette di conoscere le opinioni della gente. Le indagini vengono condotte prendendo in esame delle variabili e mettendole in relazione tra loro. Una variabile si
dice «indipendente» quando è sottoposta a controllo sperimentale e quando
con essa vengono messe in correlazione le variazioni studiate nell’esperimento; è «dipendente», invece, quando le sue modificazioni, opportunamente misurate, vengono attribuite a modificazioni della variabile indipendente o vi
corrispondono. Il metodo fondamentale per scoprire se tra le variabili esiste
una relazione consiste nell’individuare un’associazione tra loro secondo una
modalità regolare, ricorrente, ossia una correlazione che indichi l’intensità
della relazione, espressa da un numero detto coefficiente di correlazione.
Quest’ultimo è uguale a zero quando tra due variabili non intercorre alcuna
logica relazione, corrisponde invece a 1,0 quando esiste una correlazione positiva perfetta, e a – 1,0 quando la presenza di una variabile è sempre associata
all’assenza dell’altra. Per esempio, alla domanda se le potenzialità mnemoni-
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che mutano con l’avanzare dell’età, si può rispondere mettendo alla prova la
memoria di persone di età diverse e correlando prestazioni di memoria ed età.
Le indagini descrittive sono condotte con interviste, questionari, focus
group e diari.
1.4 Apprendimento e maturazione
Per poter comprendere i processi psicologici dell’adulto, dalle percezioni alle
motivazioni, dalle emozioni ai conflitti, è necessario conoscere come essi si
originano. La questione del rapporto tra gli aspetti propri della crescita, o maturazione, e l’influenza dell’esperienza, o apprendimento, è stata affrontata
in vari settori della psicologia.
Per «maturazione» si intende l’insieme dei processi di crescita articolati
in regolari modificazioni del comportamento, la cui successione temporale,
per quanto possa richiedere un insieme di stimolazioni ambientali, è relativamente indipendente dall’esercizio e dall’esperienza. Il termine «apprendimento», invece, indica le trasformazioni comportamentali persistenti derivate
dalla pratica, il processo per cui emerge un comportamento inedito o alterato,
quale risultato delle precedenti risposte, purché i cambiamenti non possano essere ritenuti il prodotto della maturazione o di alterazioni temporanee
dell’organismo, come per esempio gli effetti sortiti dalle droghe.
La regolarità dello sviluppo prenatale fornisce un chiaro esempio di ciò
che si intende per maturazione, poiché la crescita procede in modo ordinato
e prevedibile anche per i bambini nati prematuri e tenuti in incubatrice, che
si sviluppano con lo stesso ritmo di quelli rimasti nell’utero fino al termine.
Anche durante la prima infanzia, molti tipi di comportamento, come l’acquisizione della stazione eretta, la deambulazione o la fonazione, si svolgono
secondo una sequenza ordinata difficilmente influenzabile dall’ambiente.
Nonostante la maturazione crei le condizioni favorevoli all’apprendimento, il comportamento risulta però dall’azione combinata di entrambi, come
dimostra lo sviluppo motorio in un bambino che, impossibilitato a camminare durante la fase appropriata della crescita, incontrerà successivamente
molte difficoltà. Vari studi hanno comprovato che anche lo sviluppo sensoriale,
pur dipendendo dalla maturazione, per funzionare correttamente necessita di
un’adeguata quantità di stimolazione. D’altro canto, se è vero che i bambini
traggono beneficio da un ambiente ricco di sollecitazioni, è anche vero che
un aumento di stimoli non provoca un’accelerazione dello sviluppo fino a che
non si raggiunge lo stadio sufficiente di maturazione. Diversi esperimenti
hanno dimostrato che un addestramento particolare sortisce effetti temporanei e che, per poter superare una fase, non solo deve aver luogo un adeguato
apprendimento, ma devono intervenire processi collegati a trasformazioni interne.
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Lo sviluppo psicologico sembra seguire un percorso lineare in cui uno stadio succede all’altro e, ad ogni svolta, il semplice accumularsi meccanico dei
cambiamenti si interrompe per dar luogo a vere e proprie ristrutturazioni. Il
principio di periodo critico presuppone che la mancata risoluzione di particolari problemi evolutivi legati a un determinato stadio ostacoli il passaggio
allo stadio successivo.
1.5 Gli stadi del percorso evolutivo
Il dispiegamento del pensiero e dell’intelligenza del bambino, secondo il pedagogista svizzero Jean Piaget (1896-1980), uno degli studiosi del XX secolo
che ha maggiormente contribuito ad analizzare la natura infantile, percorre
quattro stadi fondamentali, ognuno dei quali è caratterizzato da un tipo particolare di operazione:
> lo stadio sensomotorio, che dura dalla nascita all’età di due anni e consente
>
>
all’intelligenza di esprimersi solo attraverso il contatto sensorio e fisico con
l’ambiente. Prima che sia raggiunto il livello del linguaggio i significati vengono definiti attraverso la manipolazione. Un effetto dell’attività manipolatoria
del bambino è il conseguimento dell’oggetto, l’acquisita consapevolezza
cioè che un oggetto visto da differenti angoli visuali costituisce una realtà duratura, perché l’oggetto rimane invariato. Per esempio, quando impara a reggere il biberon, se questo gli viene presentato capovolto il bambino cerca di
poppare dal fondo, ma successivamente, quando riconoscerà l’oggetto come
qualcosa di persistente, lo raddrizza e comincia a succhiare dalla sommità;
lo stadio preoperazionale, che si prolunga dai due ai sette anni e che appare
caratterizzato, sotto il profilo sia della conoscenza sia della morale, da un tratto
particolare, l’egocentrismo. Il soggetto inizia con il comprendere e il sentire attraverso sé stesso, prima di riuscire a operare una distinzione tra ciò che appartiene alle cose o agli altri e ciò che proviene dal proprio universo intellettivo e
affettivo. Il bambino, dunque, non può divenire cosciente del proprio pensiero,
poiché la coscienza di sé comporta un confronto continuo tra l’io e l’altro. Nel
periodo dai cinque ai sette anni si sviluppa progressivamente il principio della
conservazione della massa, del peso e del volume degli oggetti;
lo stadio delle operazioni concrete, che dura dall’età di sette anni all’età
di undici, in cui si alterna il primitivo egocentrismo all’accettazione passiva dei giudizi altrui. Fino all’età di sette anni, dato che il rapporto con
gli adulti, innanzitutto con i genitori, appare predominante e segnato dalla
soggezione e dalla coercizione, il pensiero e la coscienza morale sono ancora esterni al bambino, che li riceve incondizionatamente dagli altri soggetti
significativi del suo ambiente. Durante questa fase, i fanciulli sono capaci di
trattare il mondo concreto quasi con la stessa abilità cognitiva di un adulto,
possono assumere i ruoli degli altri e giudicare ponendosi nella prospettiva
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di costoro. Il bambino diventa capace di usare operazioni logiche, come
la reversibilità in aritmetica, la classificazione, cioè l’organizzazione di
oggetti in gerarchie di classi, e successivamente la seriazione, ossia l’organizzazione di oggetti in serie ordinate. Appare un’altra forma di relazione
sociale, quella fondata sulla cooperazione, instaurata tramite il contatto
con compagni coetanei, che consente di comprendere la diversità e la complementarità delle funzioni nel gioco collettivo e quindi della molteplicità
dei punti di vista. Si perviene all’autonomia solo attraverso la discussione,
che, ingenerando riflessioni, verifiche e critiche, permette di passare al vaglio idee e categorie, regole e principi;
lo stadio delle operazioni formali, che comincia con l’inizio dell’adolescenza, caratterizzato dall’acquisita capacità del soggetto di concettualizzazione e di formulazione di un ragionamento ipotetico-deduttivo.
Il processo di sviluppo cognitivo, secondo Piaget, presenta un carattere
universale, poiché in tutte le società si attraversano gli stessi stadi con lo stesso ordine, anche se il contenuto, a seconda delle diverse visioni del mondo,
varia da una cultura all’altra. Una scarsa esposizione al pensiero formale, inoltre, fa sì che non tutti i soggetti raggiungano lo stadio conclusivo, bloccandosi
a quello delle operazioni concrete.
Il fondatore della psicanalisi, Sigmund Freud (1856-1939), ha riconosciuto l’importanza fondamentale per lo sviluppo delle prime esperienze infantili
e ha descritto i rapporti del bambino con i genitori mostrandone le radici sessuali, definite «libidiche»: il contatto fisico con la madre, o con chi la sostituisce, procura il primo piacere. I vari periodi della crescita individuale possono
essere definiti come fasi dello sviluppo psicosessuale, in rapporto alla diversa
localizzazione corporea delle fonti di piacere nelle varie età, fino ad arrivare
alla gratificazione della sessualità adulta. Freud ha distinto:
> lo stadio orale, corrispondente ai primi due anni di vita, durante il quale la
>
>
>
>
gratificazione avviene attraverso la stimolazione delle labbra e della regione
orale, come accade nell’allattamento e nella suzione del pollice;
lo stadio anale, che corrisponde all’età compresa tra i due e i quattro anni,
durante il quale la gratificazione è ottenuta attraverso la ritenzione o l’espulsione delle feci;
lo stadio fallico, compreso tra i quattro e i sei anni, durante il quale la gratificazione si realizza attraverso la stimolazione degli organi sessuali;
lo stadio di latenza, fase che si prolunga dai sei ai dieci anni, durante il
quale gli stimoli sessuali si placano, ma non scompaiono;
lo stadio genitale, durante il quale gli interessi sessuali si delineano in maniera definita.
Nella prospettiva di Lev Semënovič Vygotskij (1896-1934), il maggior
esponente della scuola cognitiva russa, lo sviluppo della psiche è soprattutto
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un riflesso delle condizioni materiali e appare guidato dal contesto storicosociale in cui il bambino vive. L’aspetto caratterizzante dello sviluppo è la socialità, poiché il piccolo cresce nell’interazione con gli altri, in primo luogo
con gli adulti significativi del suo ambiente. Di centrale importanza appaiono
la comunicazione e l’educazione nel processo di umanizzazione dell’uomo
e di acquisizione, da parte dell’individuo, delle caratteristiche fondamentali
della comunità di appartenenza. Esistono due livelli di sviluppo nel percorso
di crescita del soggetto: il primo, definito effettivo, concerne ciò che è stato
conseguito come risultato di uno specifico processo formativo già realizzato;
il secondo, definito potenziale, riguarda invece ciò che il bambino può raggiungere inizialmente solo con l’aiuto di un adulto.
Erik Homburger Erikson (1902-1994) descrive una successione di stadi
psicosociali durante i quali il fanciullo si trova, ad ogni svolta, ad affrontare
problemi specifici, tessendo una rete sempre più complessa di interazioni, che
parte dal rapporto con la madre per comprendere progressivamente le relazioni
con entrambi i genitori, con l’intero nucleo familiare, con il vicinato, con i compagni di scuola, con gli amici, con i colleghi, fino a giungere all’intera società.
1.6 Lo studio dell’intelligenza
L’individuo, pur essendo il prodotto della serie di influenze esercitate dalla
famiglia, dalla scuola e dalla collettività, conserva la propria unicità. Conoscere l’entità delle diversità tra gli esseri umani, e i metodi per valutarle, si
rivela profondamente utile, dato che i membri di ogni comunità espletano i
vari compiti sociali in base alle irripetibili caratteristiche e capacità personali.
Lo psicologo utilizza i test di abilità per lo studio delle differenze soggettive: i test attitudinali mirano a predire il successo in qualche attività, i test
di profitto misurano il livello delle capacità raggiunto dopo un periodo di
addestramento. Gli studi sull’attendibilità dicono se i punteggi dei test sono
stabili, mentre quelli sulla validità dicono se un test misura ciò che dovrebbe
misurare e se le previsioni coincidono con un criterio accettabile.
I più conosciuti tra i test di attitudine generale sono i test d’intelligenza, derivati dalle scale, elaborate in Francia nel 1905 da Alfred Binet (18571911), a cui si deve il concetto di età mentale, in base al quale i ragazzi poco
dotati dal punto di vista intellettivo furono considerati in ritardo nello sviluppo, mentre i bambini dotati dal punto di vista intellettivo furono considerati in
anticipo. Per ogni livello di età cronologica, determinata dalla data di nascita,
furono stabilite delle prove il cui risultato avrebbe indicato l’età mentale. I
punteggi medi di età mentale corrispondevano all’età cronologica. Il test di
Binet si fondava sul principio che le prestazioni nei test di intelligenza miglioravano con il progredire dell’età, per cui un punteggio di età mentale sarebbe
rimasto valido almeno durante l’infanzia.
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La revisione più conosciuta subita dai test originariamente elaborati da Binet, è stata quella indicata come Stanford-Binet, costruita nel 1916 dall’americano Lewis Madison Terman (1877-1956), che introdusse il quoziente d’intelligenza (Q.I.), indice usato per esprimere i risultati di un test di intelligenza
dato dal rapporto tra età mentale ed età cronologica. Il numero 100, utilizzato
come moltiplicatore, eguagliava a 100 il quoziente intellettivo medio, ottenuto
quando l’età mentale risultava uguale all’età cronologica.
Sono stati definiti molti tipi e gradi diversi di ritardo mentale, il quale può
essere dovuto a cause endogene, se il soggetto non presenta malattie o lesioni
che possono aver danneggiato il suo sviluppo, o esogene, se il soggetto presenta un deficit mentale dovuto a malattie, lesioni o incidenti. Joy Paul Guilford
(1897-1987) ha ampliato il concetto d’intelligenza al di là di quello rappresentato dal comune quoziente intellettivo, differenziando una produzione divergente, il pensiero creativo, da una produzione convergente, identificabile nella soluzione logica per la formulazione dell’unica possibile risposta corretta.
Un elevato Q.I. non garantisce in un soggetto la presenza della creatività, che,
tuttavia, è sempre associata a un alto Q.I.
La normalità di un individuo è, ovviamente, qualcosa di più dei punteggi
ottenuti rispondendo a un test di intelligenza, concetto che è oggetto di riflessione filosofica fin dall’antichità.
Negli studi sull’intelligenza emergono diverse tradizioni:
> l’approccio psicometrico, che si basa sulla pratica dei test di misura
>
>
dell’intelligenza e sull’osservazione delle capacità dimostrate e che ha fornito strumenti per la selezione del personale in vari campi;
l’approccio cognitivo, che ricostruisce i processi mentali che sottendono
le prestazioni;
l’approccio funzionale, che considera l’intelligenza uno strumento adattivo e attribuisce importanza alle abilità non solo cognitive, ma anche emotive o sociali.
Il pensiero degli psicologi
Nel giudicare l’intelligenza noi europei siamo più inclini a dare la preminenza al
pensiero originale. Potremmo dire con Rohracher in una nuova formulazione della
definizione di intelligenza data da William Stern: «L’intelligenza è il grado potenziale
delle funzioni psichiche cooperanti al superamento di nuove situazioni». Condizione determinante è che la situazione sia nuova e cioè che non possa riferirsi a
tipi di comportamento innati, né appresi. In questo senso Karl Bühler ha distinto
l’intelligenza dall’istinto e dall’addestramento. Se una disposizione all’intelligenza
si è potuta constatare in molti animali, nel senso della facoltà di risolvere problemi,
tuttavia il suo grado più alto, il pensiero espresso, è proprio dell’uomo.
(Bühler C., 1962, La psicologia nella vita del nostro tempo, Garzanti, Milano, 1964)
14
Parte IX - Processi cognitivi, creatività e pensiero divergente
1.7 Charles Spearman e l’intelligenza bifattoriale
Per lo studioso Charles Spearman (1863-1945) l’intelligenza non è un concetto astratto ma un modello bifattoriale: non esiste, nell’individuo, solamente
un’intelligenza generale bensì anche fattori intellettivi specifici.
Per saperne di più
Secondo Spearman rendimento individuale di ognuno è la somma di due fattori: il
contributo di un fattore generale (g) e il contributo di un fattore specifico (s).
Il primo è presente, anche se in maniera diversa, in ogni prestazione intellettiva; il
secondo è caratteristico di ogni singola prestazione.
La sua opera principale è: Le capacità umane, loro natura e misurazione (1927).
Spearman ha, infatti, ipotizzato nel 1904, in un articolo titolato L’intelligenza generale determinata e misurata oggettivamente, che alla base di numerosi compiti che l’uomo deve risolvere nei test ci sarebbero anche:
> l’intelligenza generale;
> i fattori specifici.
L’intelligenza generale è il fattore generale (g). I fattori specifici sono costituiti dalle abilità mentali o da altri tipi di intelligenze che ogni soggetto possiede. Tali fattori sono indicati con la lettera s. Ambedue, fattore di intelligenza
generale (g) e fattori specifici (s), spiegano la teoria bifattoriale. Quanto più il
grado del valore intellettivo è elevato tanto più l’intelligenza è considerevole
in un soggetto. Spearman, mettendo in correlazione il fattore generale (g) e il
fattore specifico (s), ha dimostrato che, attraverso l’analisi fattoriale, i soggetti, quando conseguono un punteggio alto in un test di una determinata abilità
mentale tendono a raggiungere lo stesso punteggio in test di un’altra abilità
dello stesso genere.
Quando sussistono delle differenze, ciò dipende dal fattore di intelligenza
generale (g). Ciò avviene quando non c’è correlazione tra il fattore generale
(g) e il fattore specifico (s); il soggetto, in quanto a rendimento, viene, infatti,
influenzato dalle abilità specifiche.
Il primo fattore (g) è esposto come intelligenza generale proprio perché ha
influenza nella risoluzione dei test mentali; il secondo fattore (s) è, invece, detto specifico, perché individua le differenze nel calcolare il punteggio dei test.
Il fattore dell’intelligenza generale presume delle capacità cognitive; il fattore specifico presuppone, invece, delle abilità mentali.
1.8 Louis Leon Thurstone e l’intelligenza multifattoriale
Lo psicologo e studioso americano Louis Leon Thurstone (1887-1955) ha fornito un contributo significativo con le sue ricerche alla soluzione, nell’ambito
Capitolo 1 - La scienza della psicologia
15
della psicologia sperimentale, dei problemi metrici, e si è posto, come già Spearman, l’obiettivo di conoscere, attraverso l’algoritmo dell’analisi fattoriale, la
struttura dell’intelligenza.
Thurstone ha superato la teoria bifattoriale, sostenendo che non può essere l’intelligenza generale ad influenzare il risultato che il soggetto ottiene
nei vari test, piuttosto tale influenza è attribuita alle abilità primarie, che lo
studioso, in seguito, ha indicato con le lettere dell’alfabeto:
>
>
>
>
>
>
>
abilità numerica (fattore N);
comprensione verbale (fattore V);
fluidità verbale (fattore W);
memoria meccanica o associativa (fattore M);
ragionamento (fattore R);
velocità percettiva (fattore P);
visualizzazione spaziale (fattore S).
Le abilità primarie specificano, nel combinarsi tra loro, l’intero processo
intellettivo di un individuo.
Thurstone, nel considerare l’inutilità del fattore dell’intelligenza generale
e di altri fattori specifici (ipotesi avanzata da Spearman) ha introdotto la teoria multifattoriale o centroide. Le diverse entità psicologiche sono stimate
come altrettanti fattori, che, posti sullo stesso piano, vengono visti in base
all’intensità dei relativi contributi per adempiere il risultato intellettivo, tutti
in maniera diversa.
Per saperne di più
Le opere principali di Thurstone sono:
• Analisi multifattoriale (1931).
• Capacità mentali fondamentali (1938).
La teoria multifattoriale di Thurstone studia ed esamina le discrepanze
tra le connessioni di test, concernenti le abilità mentali; essa cerca di scoprire
e di circoscrivere gruppi di test, ben messi in relazione tra loro all’interno di
ciascun singolo gruppo, e non collegati, o scarsamente collegati, con test di
gruppi diversi.
1.9 Le competenze su creatività e pensiero divergente
Joy Paul Guilford (1897-1987) ha elaborato un modello multifattoriale e creativo dell’intelligenza, strutturalmente diverso da quello di Thurstone. Egli
nega che un individuo possa essere abile o meno in numerosi compiti differenti. Non c’è correlazione tra le diverse capacità: un individuo che possiede
un’eccellente memoria potrebbe fallire in altre prestazioni.
16
Parte IX - Processi cognitivi, creatività e pensiero divergente
Guilford ha individuato tre categorie intellettive comprendenti ognuna un
certo numero di abilità. Tali categorie sono:
> le operazioni mentali, che costituiscono l’aspetto cognitivo e valutativo,
>
>
come la cognizione, l’ipotesi, la memoria, la capacità di scelta e di verifica,
la produzione del pensiero convergente e, soprattutto, la produzione del
pensiero divergente;
i prodotti, che sono operazioni mentali, applicate ai contenuti. Essi si suddividono in unità, in classi, in relazioni, in sistemi, in trasformazioni, in
relazioni ed in implicazioni;
i contenuti ideativi, che si configurano non solo come schemi (colore, suono e forma della realtà) o come simboli (disegni, lettere dell’alfabeto, segni convenzionali e così via), ma anche come forme semantiche (contenuti
espressi in parole) e come schemi comportamentali (intenzioni, azioni, sentimenti e così via).
Le combinazioni possibili tra le operazioni, i prodotti e i contenuti sono
120 e corrispondono ai fattori dell’intelligenza.
Per saperne di più
Le opere principali di Guilford sono:
• Natura dell’intelligenza (1967).
• La struttura dell’intelligenza (1969).
Il modello guilfordiano della struttura multifattoriale dell’intelligenza viene rappresentato come un cubo in forma tridimensionale. Ogni tipo di pensiero può, in tal modo, essere collegato simultaneamente a tutti gli altri elementi
dell’intera struttura.
contenuti
figurativi
uditivi
simbolici
semantici
comportamentali
prodotti
operazioni
Cubo di Guilford
unità
classi
relazioni
sistemi
trasformazioni
implicazioni
valutazione
produzione convergente
produzione divergente
memoria
cognizione
Capitolo 1 - La scienza della psicologia
17
Uno studio particolare volto alla comprensione della creatività va compiuto all’interno della categoria “operazioni” e soprattutto sulla produzione del
pensiero divergente.
Per Guilford, infatti, nella misurazione dell’intelligenza, bisogna tener conto anche delle capacità e delle abilità del pensiero divergente; anzi, quest’ultimo è indipendente da quello convergente.
Si potrebbe, perciò, verificare che in un soggetto siano particolarmente
sviluppate le capacità e le abilità del pensiero divergente e che pertanto la persona sia molto creativa anche se non riesce ad ottenere risultati soddisfacenti
nella misurazione dei test del Quoziente Intellettivo.
*
*
*
*
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*
*
*
*
Esperimento di Paul Watzlawick sull’intelligenza creativa
(congiungere i nove punti con quattro linee rette,
senza mai staccare la penna o la matita dal foglio).
Lo psicologo americano, nell’analizzare il pensiero divergente, l’ha scomposto nei seguenti fattori:
> fluidità o speditezza del pensiero (un soggetto, che sa esprimere facil>
>
mente le proprie idee e descrivere eventi con un linguaggio ricco e fluido, è
indubbiamente molto creativo);
flessibilità di pensiero o facilità ideativa (un soggetto, che è pronto ad
abbandonare schemi ripetitivi e consueti di pensiero per incamminarsi in
nuove direzioni, è sicuramente creativo);
originalità o stranezza nel comportamento (un soggetto, che si fa guidare da polarità anomali e che con facilità offre risposte intelligenti a situazioni difficili ed intricate, certamente è creativo);
È perciò, originale, flessibile e dotato di una certa fluidità del pensiero chi,
in contrasto con coloro che sono inclini ad atteggiamenti inattivi e conformistici, produce e crea idee nuove e non condivise.
Il pensiero degli psicologi
Per Sigmund Freud ci sono due tipi principali di processi che regolano le idee:
processi primari e processi secondari. I processi primari sono liberi dalla logica,
mentre quelli secondari sono strettamente razionali e logici. Ciò che succede ad
18
Parte IX - Processi cognitivi, creatività e pensiero divergente
un individuo che matura è proprio il fatto che egli è sempre obbligato a dipendere
dal processo secondario, man mano che apprende dalla sua cultura come vanno
le cose, che cosa è permesso e che cosa non lo è e così via. Il processo primario,
che permette di mettere insieme delle idee apparentemente del tutto distinte,
la tolleranza delle contraddizioni, tale che ogni idea possa coesistere con un’altra
(senza riguardo alla loro reciproca esclusività) e la formazione di connessioni molto
ampie fra le idee, sono fermamente respinti dalla maggior parte delle persone ed
il pensiero diviene, in tal modo, molto logico, razionale, conformistico. I pensatori creativi, d’altro canto, mantengono la capacità di ammettere il materiale del
processo primario nel loro pensiero, che è in tal modo notevolmente arricchito di
legami tra le idee, legami che sono del tutto repressi nelle persone dominate dai
processi secondari.
A. Cropley, Creativity, Longmans, London 1967
I soggetti che possiedono un’intelligenza convergente si orientano a dare
un’unica risposta ad un problema e arrivano con una certa facilità alla soluzione. Anzi, spesso i test di intelligenza sono formulati, con item che prevedono una sola risposta corretta. L’intelligenza creativa si fonda, invece, sul
pensiero divergente.
Nella società contemporanea la creatività, come quasi tutte le altre attività
dell’uomo, è soggetta ad un continuo processo di evoluzione. Se non si tenesse
conto di questo aspetto, si rischierebbe di entrare in dissonanza con le nuove
idee elaborate da soggetti originali e creativi. Però anche chi è creativo ha
bisogno di una certa sicurezza psicologica senza la quale l’uomo non solo non
riuscirebbe a mobilitare le sue energie (fisiche, cognitive e socio-affettive), ma
non potrebbe nemmeno guardare positivamente verso il futuro. Egli avrà la
probabilità, dunque, di essere creativo, allorquando vivrà una situazione sia di
sicurezza che di libertà psicologica; diversamente il suo pensiero diventerà ripetitivo. Ciò non vuol dire, però, che la persona per essere creativa non debba
soffrire ed avere ostacoli da superare, anzi la sofferenza e le contrarietà sono
il sale della creatività.
Le competenze su creatività e pensiero divergente si basano su:
> un’adeguata sensibilità verso le problematiche quotidiane;
> la capacità, le abilità e l’attitudine a determinare concretamente le proble>
>
>
>
matiche della vita;
la capacità provata, nell’esaminare un problema, di rinviare nel tempo il
giudizio;
un’adeguata capacità critica per ipotizzare modi diversi di pensare;
la capacità di emettere dei giudizi sui propri comportamenti, per valutare
le situazioni nuove;
la capacità, le abilità e l’attitudine ad organizzare un piano per arricchire le
proprie idee;
Capitolo 1 - La scienza della psicologia
19
> la capacità, attraverso un’attenta osservazione, di scoprire gli eventi quotidiani;
> la capacità e le abilità di trasformare le idee assurde e strane in modelli
concreti ed utili per la vita;
> la capacità e l’attitudine a servirsi, per scoprire nuove idee, di tecniche adeguate ed efficaci.
Il soggetto creativo intrattiene, comunque, con la società un rapporto conflittuale dal momento che, essendo quasi sempre un soggetto rivoluzionario,
spesso le società tendono a reprimere le sue istanze creative. Per spiegare questi legami la psicologia e le altre scienze sociali si sono interessate, soprattutto
negli ultimi tempi, allo studio della creatività. Esse hanno, anzi, dimostrato
che la creatività è un’attitudine che non appartiene soltanto agli artisti e ai
ricercatori scientifici oppure alle persone intelligentissime e geniali, ma è presente in tutti gli esseri umani.
La creatività, soprattutto quella artistica, è difficile, poi, pure definirla.
Essa suppone di organizzare la realtà, pur desiderando di esprimerla compiutamente, sempre in forme diverse. Ne deriva che è creativo non solo chi in
rapporto a se stesso e agli altri è originale e sa utilizzare le proprie conoscenze
riorganizzandole continuamente per superare le difficoltà, ma anche chi, sentendosi libero da ogni limite, sa utilizzare tutte le risorse a sua disposizione
per risolvere i problemi.
1.10 Creatività e nevrosi
I regni delle attività psicologiche, sottostanti alla coscienza, sono, andando oltre
la teoria del pensiero divergente, sostanzialmente due:
> il preconscio del pensiero interiore;
> l’inconscio della materia.
Il primo è in stretto legame con il gioco infantile e con l’arte; il secondo è
la meccanica e sorda forza dell’istinto. Ambedue sono esenti dalla riflessione
critica e dal pensiero razionale.
Si può, quindi, affermare che la creatività, nel campo dell’arte, è insieme
stato ed essere del primo regno. Cesare Pavese ha, a tal proposito, scritto nel
suo diario Il mestiere di vivere che essa “non è un senso ma uno stato, non è
un capire ma un essere”. Nella creatività artistica, infatti, il bello è una realtà
così leggera ed impalpabile da risultare sfuggevole, come un sogno mai pienamente vissuto, a chi vuole farne oggetto di possesso materiale e di descrizione
empirica. L’arte ha, dunque, la capacità di far emergere la funzione creativa,
per cui l’intelletto conosce solo per creare ed il risultato di tale creatività è
l’opera che si sprigiona dall’interiorità dell’artista. Questa libera creatività che
non riesce ad avere punti di riferimento determina, però, un eccessivo stato
20
Parte IX - Processi cognitivi, creatività e pensiero divergente
di conflitto tra gli artisti e la società in cui vivono. In tale situazione gli individui creativi sviluppano una tensione crescente, una forte ansia e un senso di
inadeguatezza a vivere nell’ambiente sociale che li circonda. Il percorso che
conduce alla nevrosi, classico disturbo del comportamento, diventa, così, breve. La nevrosi è un disturbo abbastanza serio e spesso richiede l’intervento di
esperti e addirittura l’ospedalizzazione. Essa risulta, nelle società industrialmente avanzate, in costante aumento ed è ormai ampiamente diffusa in quasi
tutti gli strati della popolazione. È, perciò, diventato importante analizzarne
e comprenderne le cause.
Il pensiero degli psicologi
Il soggetto nevrotico, perciò, resta legato ad uno schema di risposta che, oltre a
non ridurre l’ansia, gli crea nuovi problemi di adattamento.
Alla base di tutte le forme nevrotiche sono individuabili sentimenti d’inadeguatezza
e di ansia; possiamo perciò chiederci che cosa determina i sintomi particolari che
un certo soggetto sviluppa. Per quale motivo, di fronte ad una situazione conflittuale, un soggetto è perseguitato da pensieri ossessivi e un altro manifesta, invece,
una paralisi al braccio?
Non siamo in grado di fornire una risposta esauriente. La spiegazione più plausibile
è che i sintomi nevrotici rappresentino le forme estreme di quei modelli di risposta
che il bambino acquisisce nella prima infanzia attraverso l’interazione con la figura
significativa del suo ambiente. Spesso tali modelli, adeguati alla situazione nella
quale sono stati appresi, si dimostrano invece assolutamente inadatti se applicati a
circostanze della vita successiva. Ad esempio, il genitore che circonda di eccessive
attenzioni il proprio bambino, quando è ammalato e lo incoraggia a restare a casa
da scuola al minimo segno d’indisposizione, può favorire la sua tendenza da adulto
a rifugiarsi nella malattia di fronte a qualunque tipo di difficoltà”.
E. Hilgard, R. Atkinson, L. Atkinson, Introduction to Psychology, New York 1953
I sintomi della nevrosi sono risposte che l’individuo utilizza, da un lato, per
difendersi dagli stati di ansietà e, dall’altro, per riappropriarsi della sicurezza
psicologica. All’inizio tali risposte risultano adeguate, ma con il passar del
tempo, quando non si riesce più a gestire la tensione e le proprie ansie, allora
si è costretti a raddoppiare gli sforzi difensivi che, essendo sproporzionati alle
circostanze, diventano però inefficaci.
Un altro esempio si ha quando i genitori attribuiscono molta importanza
ai comportamenti positivi dei figli, instillando in loro, nel momento in cui
deviano dalle aspettative dei modelli proposti, sentimenti di colpa. Ciò può
far insorgere in età adulta disturbi come la nevrosi. Tale disturbo è, dunque,
alimentato nella nostra società da concrete situazioni di vita che, producendo
paure, sofferenze ed angosce, si riflettono con conseguenze anche drammatiche sull’esistenza dell’uomo sia a livello biologico che psicologico. Dunque
l’inconscio, è vero, non può essere totalmente controllato; ciò è, tuttavia, an-
Capitolo 1 - La scienza della psicologia
21
che una fortuna. Infatti rendere dominante, in modo eccessivo, la razionalità
potrebbe provocare nell’uomo guasti sia temporanei che definitivi non solo al
suo sistema nervoso, ma anche alla sua integrità psicofisica.
1.11 L’insicurezza e la creatività
I soggetti creativi, essendo molto sensibili, si emozionano facilmente. Essi
possiedono, inoltre, una vigile e pronta curiosità che, al momento opportuno,
fanno scattare. I creativi, secondo i parametri più accreditati, hanno un quoziente intellettivo variabile: la maggioranza ha un’intelligenza normale, alcuni
al di sopra della media, altri al di sotto. Ciò significa che lo sviluppo della
creatività non è dipendente soltanto dall’intelligenza; lo spirito creativo,
dunque, deve essere promosso e sviluppato soprattutto con l’educazione.
Ogni genitore e insegnante, pertanto, dopo aver compreso l’importanza della
creatività nello sviluppo della personalità del figlio o dell’allievo, devono, per
stimolare l’attività creativa, predisporne a tutti i livelli le condizioni. È bene
che nell’ambito dell’istituzione scolastica l’alunno in possesso del pensiero
divergente e creativo non venga visto come personaggio scomodo, piuttosto
il docente deve, attraverso il processo educativo, incoraggiare una creatività
consapevole a favore delle sue potenzialità, assicurandogli, indipendentemente dalle condizioni del momento, una profonda fiducia. L’allievo, percependo,
così, questo clima di sicurezza, acquisisce autostima e si abitua, da un lato,
a superare gradualmente gli stati dei disagi psicologici, di cui è in possesso,
e, dall’altro, a realizzare, attraverso delle attività creative, la sua personalità,
senza alcuna inibizione. L’insegnante deve anche evitare, in qualche modo,
apprezzamenti e valutazioni affrettate nei confronti dei discenti. Quando un
giovane s’impegna in un’attività nella quale sa di non essere valutato e giudicato, si esprime liberamente ed agisce con maggiore naturalezza. In una parola
diventa più creativo. È, quindi, necessario che il docente comprenda, a livello
psicologico, l’allievo ed instauri con lui un rapporto empatico. Ovviamente
anche i genitori devono facilitare, nel contesto familiare, l’esplicazione del
pensiero divergente. I figli, infatti, che vivono in famiglie tolleranti ed aperte al
dialogo, sicuramente diventeranno in età adulta soggetti creativi ed autonomi;
non avranno, quindi, paura di esprimere e di discutere le proprie idee anche
nel contesto sociale. In tal modo ognuno sicuramente svilupperà al massimo
la creatività e, nello stesso tempo, riuscirà a debellare anche ogni forma di
disturbo nevrotico. Tale patologia è appunto causata da inibizioni che si sviluppano nell’individuo non solo per l’insicurezza psicologica e la sfiducia nelle
proprie capacità, ma anche per un’educazione autoritaria e incanalata entro
schemi precostituiti. Tali fattori fanno crescere un soggetto che è più portato
a svalutare le nuove esperienze anziché ad utilizzarle per ulteriori ricerche
e scoperte. Le persone non creative hanno, infatti, la tendenza al conformi-
22
Parte IX - Processi cognitivi, creatività e pensiero divergente
smo e ad operare quasi sempre seguendo tracce già note. Esse, accettando in
modo stereotipato gli stessi modelli, diventano, così, incapaci di creatività e
sono, pertanto, costrette a recuperare continuamente le forme convenzionali,
per vivere socialmente. Una società composta da uomini non creativi è, però,
destinata non solo a vivere una quotidianità istituzionale, ma anche forse, a
lungo andare, a subire forme sclerotiche.
1.12 La creatività artistica
L’arte è un’attività creativa ed operativa della mente umana e, come processo
più generale, è il prodotto dell’intercomunicazione tra l’essenza delle cose e
l’espressività interiore dell’artista. Essa è creazione libera e se l’uomo non può
rivendicare a sé un’assoluta libertà, affrancata da ogni limite e condizionamento, può, in ogni modo, riconoscere a se stesso una libertà di azione e di
aspirazione. La creatività artistica ha, perciò, un’efficacia catartica, perchè è
liberatrice ed emancipatrice. Essa è in antitesi al determinismo naturale, che
è fornito dal mondo minerale e vegetale, e al determinismo sociale, che è reso
dal conformismo e dalla scomparsa della libertà. Bisogna, inoltre, distinguere
la creatività orientale da quella occidentale.
La creatività artistica del mondo orientale sembra far porre in disparte l’io
dell’artista. Egli tende, infatti, a dimenticare se stesso: osserva le cose, meditando sul loro mistero e sul loro aspetto visibile ed inconscio. Questo aspetto
proprio della creatività artistica del mondo orientale si oppone all’individualismo dell’artista occidentale.
La creatività artistica dell’Occidente riconosce il privilegio non delle cose
e degli oggetti, ma dell’uomo nel regno della bellezza; essa asserisce che il
corpo umano è l’oggetto più bello della natura e si prostra ad adorare, così, la
figura umana, analizzandola fino in fondo e sminuzzandola. Si può, perciò,
affermare che per la concezione della creatività artistica orientale, al contrario
di quella occidentale, non ci può essere spazio per le malattie mentali e per i
disturbi del comportamento, come la nevrosi.
Per la creatività vi sono due specie d’inconscio o attività psicologiche. C’è
il preconscio del pensiero, attività libera e creativa, e c’è l’inconscio della materia, che si manifesta per mezzo degli istinti, delle tendenze e dei desideri repressi. Il primo si può anche definire inconscio o preconscio artistico-musicale ed il secondo inconscio automatico o meccanico. In verità anche se queste
due specie di vita inconscia sono completamente diverse, tuttavia risultano tra
loro in stretto rapporto ed in comunicazione.
Per rendersi conto che esiste effettivamente un mondo profondo di attività inconsapevole sia per l’intelletto sia per la volontà, è significativo, infatti,
pensare al modo in cui si prendono delle libere decisioni. È da queste, sostanzialmente, che si fanno derivare lo sviluppo e l’affermarsi dell’esistenza di ogni
Capitolo 1 - La scienza della psicologia
23
essere umano. Al di sotto di tutto questo c’è la creatività artistica, che è celata
dall’intima vitalità. Per tale motivo bisogna riconoscere l’esistenza del preconscio e dell’inconscio ed essere grati a Freud per averci messo in condizione di
riconoscerli.
1.13 Strategie creative nella lingua parlata
Nella comunicazione, la lingua parlata rispetto a quella scritta è un processo
dinamico di costruzione, di retroazione, di cui non si ha sempre consapevolezza e dal quale emergono le regole del particolare contesto culturale a cui
si appartiene. Vi è un lungo addestramento sul verbale, sull’uso appropriato e
sull’acquisizione delle regole che lo sostengono; tale linguaggio è direttamente
legato ai contenuti che si vogliono esprimere, ma anche alla relazione, cioè al
rapporto che si forma con gli interlocutori.
In tale contesto, sono da considerare significative tre funzioni linguistiche,
soprattutto in ambito aziendale e commerciale:
> espressiva, centrata sull’emittente;
> conativa, orientata verso il ricevente;
> referenziale, centrata sull’argomento.
La funzione più usata è quella referenziale, quando il verbo viene usato in
terza persona, conferendo un carattere oggettivo alle informazioni; c’è poi la
funzione espressiva, che è centrata sull’emittente, su colui che esprime il messaggio, quando il verbo è usato in prima persona e conferisce carattere soggettivo alle informazioni; vi è infine la funzione conativa, centrata sul ricevente,
sul destinatario del messaggio, con la quale sono possibili più espressioni del
verbo a seconda del codice o registro linguistico che si usa con l’interlocutore.
Se lo scopo è quello di approfondire un certo problema, l’uso della funzione referenziale è senz’altro efficace; ma se su un certo argomento si vuole far
percepire chiaramente un proprio punto di vista, la funzione espressiva coniugata in prima persona contribuisce alla chiarezza; infine, se si vuole inviare un
messaggio che spinga il destinatario all’azione, la funzione esplicita conativa
semplifica il raggiungimento dello scopo.
Con il linguaggio verbale è possibile una duttile organizzazione dei contenuti e delle informazioni finalizzate a scopi diversi, appresa attraverso addestramenti fatti nei diversi gruppi professionali e privati, che indicano non solo
come utilizzare la costruzione linguistica verbale adeguata, ma anche come
esporla secondo obiettivi e con scopi diversi. Oltre alle funzioni linguistiche,
dobbiamo in questa prospettiva considerare le seguenti varietà linguistiche
situazionali e geografiche:
> i sottocodici, cioè varietà situazionali che si creano nella lingua parlata in
ambiente organizzativo. Essi sono legati soprattutto al linguaggio tecnico
24
>
>
Parte IX - Processi cognitivi, creatività e pensiero divergente
(ad esempio il sottocodice informatico, quello medico e così via), e contribuiscono a stabilire il senso di appartenenza tra i membri che ne fanno
parte. Ma la funzione dei sottocodici da aggregativa può anche diventare
separativa, quando alcuni gruppi all’interno dell’organizzazione tendono a
chiudersi nel loro linguaggio (sottocodici specifici), rendendo difficile il dialogo con altre funzioni aziendali;
i registri, sono un’altra varietà della lingua parlata e si caratterizzano per
l’utilizzazione di alcuni elementi del codice piuttosto che di altri. Il registro
più noto è quello che si muove lungo la polarità formale/informale da scegliere ogni volta nei confronti dell’interlocutore, ad esempio dando del tu o
del lei, il che riduce o aumenta il peso gerarchico nella relazione con l’altro.
La decisione di usare un tipo di registro piuttosto che un altro dipende da
una serie di valutazioni fatte sul ruolo di chi parla e del destinatario e diventa in tal senso un filtro fondamentale per stabilire il tipo di rapporto;
le espressioni dialettali, sono spesso presenti nella comunicazione con alcuni interlocutori e in alcuni contesti regionali. Il dialetto veicola molti stati
emozionali ed è talora usato come rinforzo o sintesi di un discorso o di
un accordo, anche in contesti professionali. L’espressione dialettale, anche
se riferita ad una sola battuta, può servire a far condividere una comune
condizione che riduce le differenze; inoltre, la battuta in dialetto conferma
l’appartenenza al proprio gruppo culturale.
Non esiste, per le espressioni linguistiche descritte, una forma giusta o sbagliata, ma diverse forme possibili che possono ottenere effetti diversi a seconda
dei contesti e degli interlocutori che le esprimono ed anche in funzione dello
stile del soggetto che comunica. Infatti, se incontriamo un interlocutore che
parla in modo formale e ridondante, mentre noi ci riteniamo caratterizzati da
uno stile più sintetico e informale, l’efficacia delle espressioni verbali utilizzate sarà legata alla capacità di essere attenti a trovare una soluzione comunicativa che rispetti il proprio modo d’essere, ma che tenga conto della diversità
e quindi rispetti lo stile dell’altro, il quale è più a suo agio con modalità di
incontro diverse dalle nostre.
1.14 Strategie creative nel linguaggio cinesico e non verbale
Nella comunicazione la gestualità ha un ruolo fondamentale, ma ogni Paese
ha le sue regole, per cui bisogna porre particolare attenzione nell’utilizzare
solo quei gesti la cui interpretazione è ritenuta condivisa. Infatti, in una situazione interculturale possono nascere problemi di omomorfia (gesto uguale ma
con significato diverso), responsabile di fraintendimenti.
Caratteristica prettamente latina è la forte gestualità, che accompagna,
sottolinea e mima gran parte del discorso; però tali gesti, del tutto spontanei
per noi, sono spesso incomprensibili per gli stranieri.
Capitolo 1 - La scienza della psicologia
25
Può essere utile individuare degli elementi della gestualità da confrontare
nelle varie culture per poter avere un’idea della complessità e della ricchezza
di significati di questo linguaggio.
La bocca è circondata da un’infinità di piccoli muscoli ed è anch’essa
un’inestimabile miniera di informazioni aggiuntive. Quando si cerca di nascondere la verità, ci si sforza di sottrarre la bocca alla vista: si può fare apertamente, coprendola con la mano, o in modo più sfumato, toccando la punta
del naso con l’indice in modo così veloce da sfuggire allo sguardo.
Ci sono poi micro-segnali subliminali che sono gesti automatici e incontrollati e che possono essere di accoglienza o di rifiuto: un micro-segnale di
piacere è l’avvicinamento, o il movimento in avanti; un micro-segnale di rifiuto, invece, è il movimento indietro o la smorfia della bocca.
Anche la postura può indicare un atteggiamento più o meno di rifiuto
o di accoglienza. Quando s’incrociano le braccia o le gambe, ci si pone in
un atteggiamento di chiusura, come anche quando ci si sposta con la spalla
all’indietro o si guarda altrove rispetto a chi parla. Al contrario, un atteggiamento di apertura può essere quello di protrarsi in avanti e guardare negli
occhi chi parla.
La mano è una parte a cui diamo un gran rilievo; è, infatti, la parte terminale del braccio, e facilita la produzione di molte figure; inoltre, essendo
in coppia simmetrica, permette un arricchimento delle possibilità espressive.
La testa e in particolare il viso, è una parte del nostro corpo particolarmente
adatta alla comunicazione. La faccia, infatti, ci mette in diretto contatto con il
nostro interlocutore e le sue componenti sono controllate da un sistema neuromuscolare piuttosto fine. Con il capo, quindi, mandiamo diversi messaggi, tra cui:
> dire no roteando la testa da destra a sinistra e viceversa;
> dire sì sollevando ed abbassando in successione il capo;
> esprimere dubbio e perplessità scuotendo la testa.
Con gli occhi e con lo sguardo, invece, comunichiamo il contatto psicologico; di solito mandiamo messaggi combinando l’uso di occhi, palpebre,
sopracciglia e fronte, ad esempio se strizziamo l’occhio, se spalanchiamo o
sbarriamo gli occhi, o, infine, se inarchiamo le sopracciglia verso l’alto.
Molto diffuse sono anche le combinazioni mano-testa-viso; ad esempio
lanciare un bacio con un gesto della mano, mettersi le mani nei capelli o accostare l’indice al lobo frontale per indicare intelligenza o pazzia.
Il corpo nel suo complesso permette un’infinità di messaggi ed è evidente
che ciò condiziona notevolmente l’intero processo comunicativo.
Parlare fluentemente, in modo colorito ed avendo la battuta pronta, è legato all’espressività e alla quantità dei gesti che facciamo durante il dialogo.
Si suppone da tempo che il linguaggio abbia avuto origine dai gesti e le
osservazioni sull’acquisizione della parola sembrano sostenere questa ipotesi,
ma solo in tempi recenti ci si è accorti che l’espressione verbale ha tutt’altro
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Parte IX - Processi cognitivi, creatività e pensiero divergente
che soppiantato i gesti e che proprio questi ultimi sono parte integrante della facoltà di parlare con scorrevolezza; anzi, pare che il movimento anticipi
sempre la parola.
In un recente studio in cui i soggetti erano immobilizzati, si è constatato
come questi ultimi, parlando, avessero difficoltà ad esprimersi e provassero
molto spesso la sensazione di avere una parola sulla punta della lingua.
Da altri studi è stato invece messo in luce come il numero e la tipologia dei
gesti cambi in relazione all’argomento di conversazione: sono minori, quando
ci si riferisce ad un concetto astratto, mentre sono più vivaci ed espressivi se
si descrivono scene, azioni oppure oggetti concreti.
Le posture sono le posizioni che ciascuno assume con il corpo e che mantiene per un periodo di tempo. Le posizioni del corpo possono riflettere lo stato emotivo nell’andamento della relazione e possono anticipare le espressioni
verbali. Le posture maggiormente osservabili sono seduta o eretta, simmetrica
o asimmetrica (possono riferirsi a posizioni delle braccia, delle mani, delle
gambe e dei piedi) ed inclinata o diritta (riferita sia alla testa rispetto all’asse
del collo che alla schiena). La simmetrica viene percepita come controllo della
situazione; quella asimmetrica come libertà espressiva, mentre la postura inclinata viene percepita come posizione di sottomissione nella relazione. Altri
aspetti riguardano la polarità fissa/mobile della postura e lo stato di contrattura dei muscoli interessati.
Le posture mantenute fisse a lungo possono indicare sia sicurezza e controllo della situazione che rigidità e difesa del proprio punto di vista: cambiamenti di postura moderati possono indicare che la persona si trova a proprio
agio, ma se il cambio di postura è frequente, può invece diventare indice visibile di ansia.
La nostra psiche deve continuamente relazionarsi con la realtà esterna e
il nostro corpo, camuffandosi e assumendo maschere e fisionomie diverse,
negozia il nostro apparire agli altri. Il nostro corpo, cioè, ci tradisce, perché il
nostro io si esprime attraverso di esso.