Assaggio - Sillabe, casa editrice

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Assaggio - Sillabe, casa editrice
Gaio Plinio Secondo
Storia naturale
Libro XXXV
I colori minerali
traduzione e note di
Chiara Lefons
s i l l a b e
PREMESSA
È stato giustamente scritto che l’opera di Plinio non fu mai perduta né mai riscoperta.
Eppure non si può certo dire che la sua fortuna e la sua diffusione siano state costanti o abbiano proceduto di pari passo1. Anzi, l’intermittente circolazione della Naturalis Historia appare in contrasto con la varietà della sua ricezione e della sua valutazione2. E ciò si deve non solo alle dimensioni, ma anche al fatto che essa è stata spesso letta e utilizzata come fonte seguendo blocchi tematici autonomi, uno dei quali è
costituito appunto dagli ultimi cinque libri sull’arte antica.
Fin dal secolo II la Naturalis Historia fu apprezzata da autori come Aulo Gellio e Apuleio e, successivamente, la sua conoscenza si deve in prevalenza a compendi, antologie e sinossi. L’opera pliniana si presentava infatti come un vastissimo deposito di conoscenze, il sostituto di una perduta biblioteca dell’antichità.
All’inizio dell’epoca medioevale la Naturalis Historia fu utilizzata soprattutto da
astrologi e studiosi di medicina e, grazie alla paziente trascrizione del Venerabile Beda
(673-735), essa poté sopravvivere nella sua integrità passando ben presto sul continente dove fu largamente conosciuta e utilizzata nei monasteri, anche come ausilio
nei commenti biblici. Con il diffondersi dei pellegrinaggi, dei viaggi e dei commerci, cioè con il progressivo allargamento dei confini geografici e culturali, la Naturalis
Historia suscitò l’interesse di coloro che erano attratti da fenomeni, da curiosità
naturali e da paesi sconosciuti. Nell’opera di Plinio le descrizioni botaniche, zoologiche, geografiche racchiudono infatti una miniera di notizie su contrade remote, animali fantastici e mostruosi e informano sui caratteri e la ricorrenza di una serie di
fenomeni naturali (terremoti, maree e così via).
Parallelamente, la Naturalis Historia continuò a rappresentare un punto di riferimento
per la compilazione del sapere e per l’ordinamento delle conoscenze sul mondo. Come
Plinio scrive nell’epistola dedicatoria a Vespasiano Tito – “[…] descrivo la natura,
cioè la vita, e per giunta nei suoi aspetti più umili […] inoltre il mio cammino si svolge per una via non percorsa da altri autori […]” – l’opera si presenta infatti anche
come un modello per la compilazione delle enciclopedie del sapere.
Ma già all’inizio del secolo XIV i filologi, gli studiosi di arte e gli storici ne additarono l’importanza, cercando non solo di riappropriarsi del testo ma anche di interpretarlo e utilizzarlo per scopi ulteriori. Non a caso nel 1350 Petrarca acquistò un codice dell’opera prefiggendosi di annotarla e di emendarla. Così per il primo Umanesimo Plinio costituì sempre più un autore attraverso il quale era possibile farsi un’idea
della civiltà romana, delle sue città e dei suoi monumenti. Poco a poco la parte dedicata all’arte fu considerata – assieme all’opera di Vitruvio – la fonte fondamentale
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per la conoscenza dell’arte antica.
Alcuni anni fa Giovanni Becatti e Ernst Gombrich3 hanno dimostrato che proprio
questi libri sono stati la fonte principale di ispirazione per i teorici dell’arte rinascimentale. Non per nulla tra il 1469 e il 1500 furono pubblicate ben quindici edizioni della Naturalis Historia e nel 1476, sette anni dopo la comparsa dell’Editio princeps, Cristoforo Landino curò la prima fortunatissima edizione in volgare che fino
al 1543 fu ristampata ben sei volte4.
Almeno fino agli inizi del secolo XIX i libri di Plinio sull’arte antica rappresentarono
anche una sorta di manuale spesso utilizzato nelle università.
Nella seconda metà del secolo XIX, nell’ambito del dibattito aperto soprattutto in Germania sul valore, l’uso e l’importanza delle fonti, questi ultimi cinque libri dellaNaturalis Historia furono ritenuti da molti studiosi un’opera meramente compilativa,
utile al solo scopo di identificare e ricostruire i capolavori perduti o distrutti. Solo
nel 1897 Friedrich Münzer pubblicò un saggio che doveva segnare l’inizio di un rinnovato interesse non solo antiquario per questa parte dell’opera5. Del resto, un anno
prima era apparsa quella che si può considerare la prima edizione moderna commentata dei libri di Plinio sull’arte antica6.
Doveva però trascorrere ancora mezzo secolo prima che, nel 1946, Silvio Ferri pubblicasse una ricerca che avrebbe segnato un’ulteriore svolta nella interpretazione di
questi fondamentali libri7. A Ferri fece eco alcuni anni dopo Wilhelm Kroll che, redigendo per la Pauly-Wissowa la voce Plinio il Vecchio, sottopose questa parte della
Naturalis Historia ad una nuova analisi. Nello stesso anno Giovanni Becatti fornì alcune linee interpretative decisive che costituiscono tuttora un punto di riferimento8.
Da allora in poi sono state pubblicate diverse traduzioni9. Resta comunque assodato che i libri di Plinio dedicati all’arte costituiscono la fonte fondamentale per chiunque, specialista o meno, intenda comprendere l’influsso duraturo che l’arte antica
ha avuto sul mondo moderno.
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1
I.
Metallorum, quibus opes constant, adgnascentiumque iis natura
indicata propemodum est, ita conexis rebus, ut inmensa medicinae silva
officinarumque tenebrae et morosa caelandi fingendique ac tinguendi subtilitas simul dicerentur. Restant terrae ipsius genera lapidumque vel numerosiore serie, plurimis singula a Graecis praecipue voluminibus tractata.
Nos in iis brevitatem sequemur utilem instituto, modo nihil necessarium
aut naturale omittentes,
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(1) primumque dicemus quae restant de pictura, arte quondam nobili – tunc cum expeteretur regibus populisque – et alios nobilitante, quos
esset dignata posteris tradere, nunc vero in totum marmoribus pulsa, iam
quidem et auro, nec tantum ut parietes toti operiantur, verum et interraso
marmore vermiculatisque ad effigies rerum et animalium crustis. Non placent iam abaci nec spatia montes in cubiculo dilatantia: coepimus et lapide
pingere. Hoc Claudii principatu inventum, Neronis vero maculas, quae
non essent in crustis, inserendo unitatem variare, ut ovatus esset
Numidicus, ut purpura distingueretur Synnadicus, qualiter illos nasci
optassent dee. Montium haec subsidia deficientium, nec cessat luxuria id
agere, ut quam plurimum incendiis perdat.
3
I.
Abbiamo definito1 in modo pressoché esaustivo la natura dei metalli,
su cui si fondano le ricchezze, e dei loro affini, creando al contempo le connessioni adatte per parlare anche della sterminata foresta della medicina, dei
foschi ricettacoli delle officine e della scrupolosa precisione necessaria al cesellatore, allo scultore, al colorista. Tocca ora – anche se l’elenco è alquanto lungo
– alle specie di terra vera e propria e di pietre, a ciascuna delle quali sono
stati dedicati (in particolare dai Greci) un gran numero di trattati2. Noi, qui,
ci atterremo a una stringatezza funzionale al piano generale dell’opera senza
tuttavia trascurare nulla di necessario o conforme alle leggi di natura.
1
(1) Incominceremo dunque con quel che resta da dire a proposito della
pittura: arte nobile un tempo – quando costituiva oggetto di brama da parte
di re e popoli – e in grado, a sua volta, di conferire nobiltà a coloro che giudicava degni di tramandare ai posteri; ai nostri giorni, invece, essa è stata completamente soppiantata dai marmi, e ormai persino dall’oro non tanto per
coprirne completamente le pareti, ma addirittura per decorarle con marmo
traforato e con mosaici che rappresentino oggetti e animali1. Ormai non ci
piace più il marmo in lastre né di dimensioni tali che i monti sembrano dilatarsi all’interno di una camera da letto1: abbiamo incominciato a dipingere
persino con la pietra2. Quest’uso è stato inventato sotto il principato di Claudio; sotto Nerone si è addirittura escogitato il modo di introdurre variazioni nell’uniformità inserendo nei rivestimenti marmorei le macchie di colore
di cui erano sprovvisti, così che il marmo di Numidia risultasse maculato come
la superficie delle uova e quello di Synnade fosse punteggiato di porpora,
esattamente come un gusto molle e raffinato preferirebbe fossero per natura. Così si rimediano i difetti dei monti! E lo sfrenato amore per il lusso persevera nel condursi in modo tale da subire, nel caso di incendi, il maggior
danno possibile.
2
§1
Plinio si riferisce ai libri precedenti, XXXIII e XXXIV della Naturalis Historia in cui, per l’appunto si è occupato dei metalli.
2
In effetti, la trattazione delle terre e delle pietre sarà il tema non solo del XXXV, ma anche
dei libri XXXVI e XXXVII.
1
§2
1
Con vermiculatae crustae Plinio sembra riferirsi a un mosaico di lastre dalle forme sinuose. I primi mosaici con rappresentazioni di oggetti e animali risalgono al IV secolo a.C. In quell’epoca, a Pella, si componevano mosaici con scene di caccia a cervi e leoni.
§3
1
Forse un’allusione all’effetto illusionistico creato dalle superfici marmoree che sembrano
“cancellare” le pareti.
2
Riferimento all’opus sectile marmoreum: tecnica per decorare con intarsi di forma geometrica i pavimenti o le pareti.
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adeguato. Vi sono anche altri esempi della sua ingegnosità come il quadretto di un Ciclope dormiente. Dal momento che voleva dare l’impressione della
sua enormità gli dipinse, di lato, dei Satiri che gli prendevano la misura del
pollice servendosi del tirso. Perciò solo nelle opere di questo autore si capisce molto più di quel che è stato dipinto1 e anche se la sua arte è veramente
grande essa è superata dal suo ingegno. Fece anche il ritratto di un Eroe, opera
di assoluta perfezione, riunendo in essa la stessa arte di dipingere figure maschili. Quest’opera si trova ora nel tempio della Pace2.
In quella stessa epoca Eussinada ebbe come allievo Aristide, artista famosissimo, mentre Eupompo1 ebbe come allievo Panfilo2, a sua volta maestro
di Apelle3. Di Eupompo abbiamo il Vincitore di una gara ginnica con la palma
in mano. La sua autorità fu tale che dette origine a un’ulteriore differenziazione dei generi pittorici. Mentre prima di lui esistevano due generi: l’ellenico e l’asiatico, dopo di lui, che era nato a Sicione, si giunse, suddividendo
l’ellenico, a tre generi: ionico, sicionio e attico4. Di Panfilo si hanno una Famiglia, la Battaglia di Fliunte con la vittoria degli Ateniesi, l’Ulisse sulla zattera. Era di provenienza macedone ma…, fu il primo pittore che ebbe conoscenza di tutte le scienze, soprattutto l’aritmetica e la geometria senza le quali,
asseriva, l’arte non poteva raggiungere la perfezione. Non dava lezioni a nessuno per meno di un talento – 500 denari l’anno – e tanto gli corrisposero,
infatti, sia Apelle che Melanzio. La sua autorità fece sì che, prima a Sicione
poi in tutta la Grecia, ai ragazzi nati liberi fosse insegnata per prima cosa l’arte grafica (cioè la pittura su legno) e che tale arte rientrasse nel primo livello delle arti liberali. Il suo prestigio era così alto che il suo esercizio era riservato agli uomini liberi, e dopo un po’ anche di rango elevato: fu sempre proibito, invece, che fosse insegnato agli schiavi. Perciò non raggiunsero mai la
celebrità le opere di nessun pittore o scultore di stato servile.
Durante la 107a olimpiade furono famosi Ezione e Terimaco. Fra le pitture celebri di Ezione annoveriamo un Bacco ed anche la Tragedia e la Commedia, Semiramide, ascesa dal servaggio al trono, una Vecchia con le fiaccole e una Sposa novella rimarchevole per la pudicizia del suo atteggiamento.
Ma chi, invero, superò tutti i pittori passati presenti e futuri fu Apelle di
Cos durante la 112a olimpiade. Da solo ha egli contribuì al progresso della
pittura più di tutti gli altri messi insieme e pubblicò anche dei libri in cui espo§ 74
Cfr. supra, § 73.
2
Sulle opere d’arte presenti nel tempio della Pace cfr. XXXIV. 84; infra, §§ 102; 109 e XXXVI.
102.
1
§ 75
1
Cfr. supra, § 64. Sui rapporti fra Eupompo e Lisippo v. XXXIV. 61.
2
Cfr. infra, § 76.
3
Cfr. infra, §§ 79 sgg.
4
La scuola attica e quella sicionia derivavano dal genere ellenico, la ionica dall’asiatico.
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se le sue teorie. Particolarissima fu la bellezza della sua arte in un periodo in
cui peraltro operavano pittori sommi. Pur ammirandone le opere e lodando
tutti gli altri pittori, diceva che tuttavia essi mancavano di quella grazia che
gli era propria, in greco la chiamano charis: essi avevano certamente raggiunto
ogni altro tipo di perfezione, ma nessuno gli era pari in quella. Si attribuì anche
un’altra gloria. Mentre ammirava un’opera di Protogene1 eseguita con enorme impegno e con una scrupolosità sconfinata, affermò infatti che per tutto
quegli gli era pari, o persino superiore, ma che lui lo sopravanzava per una
qualità: egli sapeva bene quando si doveva togliere la mano da un quadro. Ed
è invero un precetto memorabile che spesso l’eccessiva meticolosità può essere controproducente! La sua semplicità non la cedeva in nulla alla sua arte.
Melanzio gli era superiore nella disposizione delle figure, Asclepiodoro2 nelle
misure, cioè nella capacità di stabilire le esatte distanze fra gli oggetti.
Protogene e Apelle furono protagonisti di un divertente episodio1. Protogene viveva a Rodi e quivi approdò Apelle, desideroso di veder personalmente le sue opere, da lui conosciute solo per fama, e si diresse alla sua bottega. Protogene era assente, ma c’era una vecchia a custodia di un quadro di
grandi proporzioni posto sul cavalletto. La vecchia rispose che il pittore era
fuori casa e, a sua volta, chiese chi dovesse riferire che lo cercava. “Costui”,
disse Apelle e, arraffato un pennello, tracciò una linea colorata sottilissima
che attraversava il quadro. Al ritorno di Protogene, la vecchia gli fece vedere quel che era successo. Si dice che allora il pittore, guardata attentamente
la sottigliezza del tratto disse che il visitatore doveva essere Apelle e che nessun altro era in grado di compiere niente di così perfetto. Lui stesso, allora,
sovrappose a quella una linea di un altro colore ancora più sottile e, andandosene, ordinò che, se l’altro fosse tornato, gliela si mostrasse aggiungendo
che quello era l’uomo cercato. Così avvenne. Infatti Apelle tornò e, vergognandosi di essere stato sconfitto, tagliò le linee con un terzo colore, senza
lasciare spazio a un tratto più sottile. Allora Protogene si dichiarò vinto e si
precipitò al porto per cercare l’ospite. Si decise di tramandare alla posterità
il quadro così composto, come un oggetto da mostrare alla meraviglia, di tutti
certo, ma soprattutto degli artisti. Mi consta che il quadro finì bruciato
durante il primo incendio della casa di Cesare al Palatino. Io stesso, prima,
ho avuto modo di contemplarla: su tutta la superficie non conteneva altro
che delle linee che quasi sfuggivano alla vista. Fra le opere egregie di tanti
artisti, questo quadro assomigliava piuttosto a uno spazio vuoto e per questo attirava di più gli sguardi ed era più rinomato di qualsiasi altra opera.
§ 80
Cfr. infra, §§ 81; 101 sgg.
2
Cfr. infra, § 107.
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§ 81
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Per aneddoti simili cfr. supra, § 79.
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Apelli fuit alioqui perpetua consuetudo numquam tam occupatum
diem agendi, ut non lineam ducendo exerceret artem, quod ab eo in proverbium venit. Idem perfecta opera proponebat in pergula transeuntibus
atque, ipse post tabulam latens, vitia quae notarentur auscultabat, vulgum
diligentior eum iudicem quam se praeferens; feruntque reprehensum a sutore, quod in crepidis una pauciores intus fecisset ansas, eodem postero die
superbo emendatione pristinae admonitionis cavillante circa crus, indignatum prospexisse denuntiantem, ne supra crepidam sutor iudicaret, quod et
ipsum in proverbium abiit. Fuit enim et comitas illi, propter quam gratior
Alexandro Magno frequenter in officinam ventitanti – nam, ut diximus, ab
alio se pingi vetuerat edicto –, sed in officina imperite multa disserenti
silentium comiter suadebat, rideri eum dicens a pueris, qui colores tererent.
Tantum erat auctoritati iuris in regem alioqui iracundum. Quamquam
Alexander honorem ei clarissimo perhibuit exemplo. Namque cum dilectam sibi e pallacis suis praecipue, nomine Pancaspen, nudam pingi ob
admirationem formae ab Apelle iussisset eumque, dum paret, captum
amore sensisset, dono dedit ei, magnus animo, maior imperio sui nec minor
hoc facto quam victoria aliqua. Quippe se vicit, nec torum tantum suum,
sed etiam adfectum donavit artifici, ne dilectae quidem respectu motus,
cum modo regis ea fuisset, modo pictoris esset. Sunt qui Venerem anadyomenen ab illo pictam exemplari putent. Apelles et in aemulis benignus
Protogeni dignationem primus Rhodi constituit.
Sordebat suis, ut plerumque domestica, percontantique, quanti liceret
opera effecta, parvum nescio quid dixerat, at ille quinquagenis talentis poposcit famamque dispersit, se emere, ut pro suis venderet. Ea res concitavit
Rhodios ad intellegendum artificem, nec nisi augentibus pretium cessit.
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omnes contulit, voluminibus etiam editis, quae doctrinam eam continent.
Praecipua eius in arte venustas fuit, cum eadem aetate maximi pictores
essent; quorum opera cum admiraretur, omnibus conlaudatis deesse illam
suam venerem dicebat, quam Graeci cavrita vocant; cetera omnia contigisse, sed hac sola sibi neminem parem. Et aliam gloriam usurpavit, cum
Protogenis opus inmensi laboris ac curae supra modum anxiae miraretur;
dixit enim omnia sibi cum illo paria esse aut illi meliora, sed uno se praestare, quod manum de tabula sciret tollere, memorabili praecepto nocere
saepe nimiam diligentiam. Fuit autem non minoris simplicitatis quam artis.
Melanthio dispositione cedebat, Asclepiodoro de mensuris, hoc est quanto
quid a quoque distare deberet.
Scitum inter Protogenen et eum quod accidit. Ille Rhodi vivebat, quo
cum Apelles adnavigasset, avidus cognoscendi opera eius fama tantum sibi
cogniti, continuo officinam petiit. Aberat ipse, sed tabulam amplae magnitudinis in machina aptatam una custodiebat anus. Haec foris esse
Protogenen respondit interrogavitque, a quo quaesitum diceret. «Ab hoc»,
inquit Apelles adreptoque penicillo lineam ex colore duxit summae tenuitatis per tabulam. Et reverso Protogeni quae gesta erant anus indicavit.
Ferunt artificem protinus contemplatum subtilitatem dixisse Apellen venisse, non cadere in alium tam absolutum opus; ipsumque alio colore tenuiorem lineam in ipsa illa duxisse abeuntemque praecepisse, si redisset ille,
ostenderet adiceretque hunc esse quem quareret. Atque ita evenit. Revertit
enim Apelles et vinci erubescens tertio colore lineas secuit nullum relinquens amplius subtilitati locum. At Protogenes victum se confessus in portum devolavit hospitem quaerens, placuitque sic eam tabulam posteris tradi
omnium quidem, sed artificum praecipuo miraculo. Consumptam eam
priore incendio Caesaris domus in Palatio audio, spectatam nobis ante,
spatiose nihil aliud continentem quam lineas visum effugientes, inter egregia multorum opera inani similem et eo ipso allicientem omnique opere
nobiliorem.