Indice - Sillabe, casa editrice

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PRESENTAZIONI
Cristina Acidini
Bruno Santi
Michele Gremigni
Monica Bietti
9
11
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IL TEMPO DI FERDINANDO I
L’ALTARE DI FERDINANDO I
Ferdinando I, il granduca delle città
Cristina Acidini
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Ferdinando I e le arti figurative:
regesto cronologico (1587-1609)
Maria Letizia Strocchi
28
Politica estera e strategia matrimoniale di Ferdinando I nei primi anni del suo principato
Roberta Menicucci
34
La Cappella dei Principi: un sogno incompiuto
Vincenzo Vaccaro
Schede 25-26
132
L’altare di Ferdinando I: meraviglia inattuata
Claudia Przyborowski
134
Repertorio dei manifattori di Ferdinando I
Patrizia Urbani
144
Schede 27-44
LE NOZZE DI FERDINANDO I E CRISTINA DI LORENA
126
RIFLESSI
DI UN ALTARE INVISIBILE Schede 45-49
148
174
La ‘metamorfosi’ di Firenze per le nozze del 1589: un programma di politica culturale
Anna Maria Testaverde
50
Calendario dei festeggiamenti
Anna Maria Testaverde
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Un’affascinante vicenda: l’insuccesso editoriale di Raffaello Gualterotti Silvia Castelli, Anna Maria Testaverde
60
L’altare del XX secolo: ultima fase di una storia secolare?
Annamaria Giusti
204
63
Verbale della riunione tenutasi in data 3 febbraio 2009 presso il Museo delle Cappelle Medicee
a cura di Annamaria Giusti e Cristina Gabbrielli
210
Bibliografia
215
Scheda 1a-b
Narrare per immagini: l’album di nozze di Cristina e Ferdinando
Silvia Castelli
Schede 2-10
Le tele, manifesti di propaganda dinastica
Monica Bietti
Dall’effimero al permanente: il progetto per la facciata della cattedrale di Santa Maria del Fiore
Anna Maria Testaverde
Schede 11-24
68
70
88
100
106
LE VICENDE SUCCESSSIVE DELL’ALTARE
I progetti lorenesi per l’altare della Cappella dei Principi
Annamaria Giusti
Schede 50-62
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“Dieci innamorate per un granduca”. Non è il titolo di un’operetta fin-de-siècle o di un film brillante, ma il
risultato della preparazione di questa mostra, dedicata a Ferdinando I de’ Medici nel quarto centenario della
sua morte. Forse dieci, o forse più, o forse meno, ma certo tutte innamorate, le tante professioniste dei beni
culturali che hanno concepito, progettato, sviluppato la mostra: a partire da Monica Bietti, che dirige con
competenza ed energia il Museo delle Cappelle Medicee, sede della mostra, dove resta esimia testimonianza
dell’impulso dato da Ferdinando alla promozione della dinastia attraverso l’arte; Annamaria Giusti, che ha
messo a disposizione la sua straordinaria conoscenza della Cappella dei Principi e della “Galleria dei Lavori”
negli Uffizi stabilmente ordinata nel 1588 da Ferdinando, germe del futuro Opificio delle Pietre Dure; Maria
Letizia Strocchi, che ha provveduto, con le sue ricerche attraverso la sterminata bibliografia, a una varia e
ricca cronologia di eventi. E così le altre, che ringrazio – da chi ha studiato e scritto, a chi ha progettato la
mostra, a chi ha stampato il catalogo – per l’appassionata partecipazione all’impresa. Quanto a me, fu sin
troppo facile al tempo della preparazione delle Mostre Medicee del 1980, nella quale ebbi ruoli di retrovia
che nondimeno ricordo volentieri, guadagnarmi il soprannome di “Cristina di Lorena”. E gli uomini della
squadra della mostra? Anche loro entusiasti, sollecitati dal tema e dal luogo.
Era impossibile non affezionarsi a quest’uomo, fattivo e solare quanto il suo predecessore e fratello maggiore Francesco I era stato sofistico e segreto, quasi un marito rassicurante laddove sull’altro vien semmai
da fantasticare come su un amante inquieto. Forse prevedibile fino alla noia nei suoi ritmi di viaggi per il
granducato, lavoro a tavolino e cacce in villa; e tuttavia decisivo, col suo immenso impegno, perché la Toscana divenisse quella che è stata, e che è.
La mostra è dedicata al periodo della vita di Ferdinando compreso tra il 1587, anno in cui lasciò in fretta
Roma e poi il cardinalato per succedere nel trono di Toscana al fratello (scomparso repentinamente e senza
eredi), e il 1609, anno della morte. I materiali espositivi si incardinano attorno a due capisaldi singolarmente
diversi eppure complementari: la rievocazione delle nozze del 1589 e specialmente di quei fastosi apparati
effimeri che, per quanto creati con ingegno e sapienza manuale, erano destinati a un’esistenza brevissima (e
solo la solerzia conservatrice degli addetti alla Guardaroba della corte fiorentina ne ha fatto giungere fino a
noi qualche suggestivo lacerto); e la Cappella dei Principi in San Lorenzo, impresa al contrario concepita per
sfidare l’eternità, che tuttavia non giunse a conclusione né sotto i Medici, né sotto i loro successori.
Appunto questo stato di non-finito della Cappella, che ancora negli anni Sessanta del Novecento fu teatro di un intervento di completamento attuato dall’Opificio delle Pietre Dure quale erede naturale dei tagliatori e commettitori medicei di materiali lapidei, ha ispirato una rinnovata e fresca considerazione del grande
progetto incompiuto in essa, l’altare in pietre dure e marmi policromi. Quello oggi visibile, assemblaggio
di ornati di eterogenea fattura corrispondenti a progetti diversi, ch’era da intendersi come sistemazione
temporanea in un’intelaiatura lignea, genera un disagio estetico che alla lunga ha disturbato l’acuta sensibilità delle curatrici della mostra Bietti e Giusti, l’una portavoce dell’esigente genius loci della Cappella
dei Principi richiedente pregio e perennità, l’altra interprete della vocazione formale dei lavori in pietre dure
poggiante sui medesimi valori. Da questo disagio ha preso slancio, in positivo, un’ampia ricognizione sto-
Cristina Acidini
Ferdinando I, il granduca delle città
IL TEMPO DI FERDINANDO I
sioni consistente in quattro fogli stampati da un solo lato e incollati insieme, di cui si conoscono
oggi soltanto cinque esemplari. A partire dal XVII secolo l’esaltazione dell’araldica barberiniana
riuscì a promuovere anche la ricerca scientifica sulle api che, come sugli altri insetti, fu enormemente agevolata dal microscopio messo a punto – per osservazioni in campo biologico – da Anton
van Leeuwenhoek. Un rinnovato slancio alla diffusione delle api nell’araldica, in specie civica,
venne oltre un secolo più tardi dalle scelte di Napoleone Bonaparte, che ne ebbe costellato il manto
dell’incoronazione. In qualsiasi contesto, le api simboleggiano l’operosità degli abitanti.
Quanto a Ferdinando, gli appartennero anche altre due immagini simboliche, sempre desunte
dalla fauna: il leone dal freno in bocca col motto “Dies et ingenium” (simile alla marca tipografica
delle Rime del Petrarca commentate dal Vellutello, Venezia 1573; motto appartenuto anche a Giuseppe Antonio Canaceo) e il toro bianco col motto “Fructus ex laboribus” (il motto, da Hieroglyphica
di Pierio Valeriano, Basilea 1556). Se il leone frenato significa il dominio delle passioni (ma rinvia
anche al Marzocco fiorentino, all’avo Leone X e al segno zodiacale), il toro–bue allude alla ricompensa dopo la dura fatica.
Le città, il territorio, il mare
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Quando Don Lorenzo, settimo figlio di Ferdinando, decise di far dipingere a fresco i sottoportici
della villa a lui assegnata, la Petraia, con Fatti dei duchi e granduchi Medici, suo padre era morto da
ventotto anni. Il ciclo, magnificamente dipinto da Baldassarre Franceschini detto il Volterrano tra il
1637 e il 1648, inizia con i capitani e duchi del primo Cinquecento Lorenzo e Giuliano, e termina con
Cosimo II, fratello maggiore del padrone di casa. Tutti i sovrani Medici – compresi i due papi e le
due regine di Francia, Caterina e Maria – vi sono effigiati in carne ed ossa, tranne uno, per l’appunto Ferdinando, evocato entro il soggetto allegorico del Predominio della Toscana sul mare. Il padre del
committente vi compare nelle sembianze della statua bronzea di Giovanni Bandini, già completata
da Pietro Tacca con i Quattro mori, nel monumento di Livorno: gli rendono omaggio dalle onde marine il dio Nettuno e, sulla terraferma, le personificazioni della Toscana e di Firenze. Fu il suggeritore
del programma iconografico, Pier Francesco Rinuccini, a proporre quella singolare fuga nel mondo
dell’allegoria, del mito, della magnificenza a futura memoria? O fu Don Lorenzo stesso a immaginare il padre (perduto quando aveva dieci anni) come un’autorevole presenza inanimata, riverita
da entità simboliche, quasi un ‘convitato di bronzo’ ai banchetti del figlio in villa? Poco importa ormai, se non per fornire densa materia d’indagine agli psicologi d’oggi, che peraltro debbono ancora
accorgersene. Certo è che quell’immagine sorte il suo scopo, di alludere con una sintesi folgorante
agli incessanti provvedimenti di Ferdinando I per Firenze, per le città costiere Pisa e Livorno, per la
Toscana tutta e per la sicurezza sul mare, compresa la propaganda ‘politica’ tramite l’arte, che aveva
Fig. 2 - Jacques Callot, Ferdinando I che ordina le
fortificazioni di Livorno (cat. 7, tav. 2)
Fig. 3 - Jacques Callot, Ferdinando I che ordina i
Condotti dell’Acqua nel piano di Pisa (cat. 7, tav. 3)
dato luogo a un’intensa disseminazione di monumenti pubblici per mano di artisti di fiducia.
Della dimensione urbanistica e territoriale delle migliorie introdotte da Ferdinando – che in
senso non militare né politico, bensì organizzativo fu il vero creatore della Toscana moderna – dà
simbolicamente la misura lo spostamento a nord della foce dell’Arno di 1,5 km circa, per proteggere Pisa da allagamenti in caso di forti libecciate costiere. Il piccolo fortilizio costruito alla nuova
foce fu il germe della futura Marina di Pisa. L’impresa, degna dei grandi potenti del passato e del
presente (se si pensa ai ciclopici progetti di modifiche dei regimi fluviali intraprese ai nostri giorni,
ad esempio, in Egitto, in Cina o in Brasile), avvenne nel 1606, quasi al termine della vita di Ferdinando e di quel ventennio di fattiva, vien da dire frenetica, dedizione a città e campagne, fortezze
e coste che aveva cambiato il volto dello stato di Toscana.
Nello sviluppo delle sue iniziative, il terzo granduca non poteva non imbattersi sovente nell’eredità dei primi due: un’eredità fatta di intenzioni, progetti, decisioni prese, opere avviate, realizzazioni parziali, ma anche di persone – funzionari, cortigiani, artisti – che erano stati al servizio
dei suoi predecessori. Con questo lascito, immateriale e materiale insieme, egli dovette confrontarsi scegliendo caso per caso la continuità o la discontinuità. A rischio di generalizzare, si può far
notare una sua ricorrente tendenza a proseguire e incrementare i disegni paterni, e a trasformare
invece o ad accantonare le intraprese del fratello.
In Firenze, il primo e in questo caso imbarazzante lascito di Francesco con cui Ferdinando si
trovò a misurarsi fu lo stato della facciata del Duomo, rustica e disadorna dopo che era stato smantellato il rivestimento di marmi, mosaici, statue applicato di Arnolfo di Cambio fino all’altezza dei
portali, salvando alcune figure (ma distruggendo il resto, con disapprovazione popolare), tra il
gennaio e il luglio del 1587. Francesco avrebbe fatto costruire una nuova facciata su progetto del
suo architetto di fiducia, Bernardo Buontalenti; in alternativa al modello buontalentiano, ve ne
era uno di Giovanni Antonio Dosio, artista prediletto del consigliere Niccolò Gaddi. Continuava
in tal modo l’ingerenza dei Medici nella Cattedrale, che aveva avuto sotto Cosimo due interventi
fondamentali con il coro marmoreo di Baccio Bandinelli (1547-1555) e con l’avvio della dipintura
del Giudizio Universale in cupola (1572).
Questo fu uno dei rari casi di cui Ferdinando non venne a capo. La necessità di sistemare degnamente la facciata, in vista delle imminenti nozze con Cristina di Lorena, fu risolta ricorrendo all’addobbo effimero: una struttura di ordine corinzio decorata con immagini e storie di santi, pontefici,
vescovi in collegamento con Firenze e la Toscana, che non solo vi rimase a lungo, ma fu restaurata
per le nozze per procura di Maria de’ Medici nel 1600, poi riadattata in varie riprese e sostituita da altri apparati posticci. Solo nel 1887, ben dopo l’Unità d’Italia, sarebbe stata ultimata la facciata attuale,
in stile neogotico, su progetto di Emilio De Fabris. All’interno, in occasione delle nozze Giovanni
21
Ferdinando I. Maiestate Tantum
3
Scipione Pulzone, detto il Gaetano
(Gaeta 1546 ca - Roma 1598)
Ritratto di Ferdinando I de’ Medici
(1549-1609)
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Come il padre Cosimo I, Ferdinando I fu uomo
di grande ingegno politico e sostenitore delle
arti intese non solo per il loro valore intrinseco, ma anche come mezzo di promozione e
glorificazione della dinastia medicea. Per questo motivo fondò la Galleria dei Lavori presso
gli Uffizi, primo germe dell’Opificio, e, parallelamente, iniziò la costruzione della Cappella
dei Principi, che si distingueva per ricchezza e
magnificenza. La nuova terza cappella, situata
accanto alla Sagrestia Nuova di Michelangelo,
grandiosa e splendente di marmi rari e preziosi, veniva ad assumere il ruolo di mausoleo celebrativo della famiglia.
Il ritratto qui presentato che Scipione Pulzone
eseguì per Ferdinando I era destinato, insieme
a quello della moglie Cristina, a far parte della Serie Aulica. Il Chiarini parla del dipinto nel
recente catalogo (M. Chiarini, in Firenze 2002)
dedicato alla mostra su Michelangelo e sottolinea come lo Sposalizio con Cristina di Lorena rientrasse in quel piano politico che avrebbe
permesso di elevare ulteriormente i Medici al
livello delle famiglie regnanti europee. Cristina
era, infatti, nipote di Caterina de’ Medici, regina di Francia, in quanto nata dal matrimonio
della figlia Claudia con Carlo III di Lorena e la
commissione dei due dipinti, datati l’anno successivo alle nozze, testimonia la volontà di rappresentare i granduchi nella loro veste ufficiale.
Le due tele dovevano dunque sostituire, nella
Serie Aulica, quella commissionata da Francesco I al Naldini che raffigurava Ferdinando in
vesti cardinalizie. Il De Marchi (1997, p. 338),
nel citare il ritratto del Pulzone, sostiene che il
dipinto del Naldini sia oggi perduto, o ancora
da rintracciare, e che quello facente parte della
Serie Aulica sia invece da identificare con quello eseguito dall’Allori, attualmente conservato
nel Palazzo Reale di Pisa. La Butters (1999) nomina il dipinto del Pulzone mettendo in evidenza l’aumento di peso di Ferdinando e il suo
disagio in abiti laici; proprio sul peso e sulla
gotta che lo affliggevano, in una lettera datata
29 aprile 1589, alla vigilia dell’entrata di Cristina di Lorena a Firenze, il granduca scherzava
affermando: “Guardate s’io sarò un bel sposo”.
M.C.
Bibliografia: Langedijk 1980-1986, vol. II, pp. 730733; De Marchi 1997, p. 338; H. Butters, in Roma
1999, pp. 39, 45, nota 189; M. Chiarini, in FirenzeChicago-Detroit 2002@, pp. 176-177; Dern 2003,
pp. 153-155; Inventario 1890, ed. on line 2009, n.
2243
LE NOZZE DI FERDINANDO I E CRISTINA DI LORENA
1590
olio su tela, cm 142 × 120
iscrizioni: Scipione da Gaeta faciebat l’1590
Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 2243
Il ritratto del Pulzone rappresenta il granduca
con una mano appoggiata sull’elmo, sul quale
in bassorilievo è raffigurata “La lotta dei centauri e dei lapiti”. Ferdinando è ritratto nelle vesti
di cavaliere di Santo Stefano, ordine a lui molto
caro di cui volle celebrare le imprese vittoriose
nella Sala di Bona a Palazzo Pitti affrescate dal
Poccetti. È interessante notare come, sia nel ritratto di Ferdinando, sia nel suo pendant raffigurante Cristina di Lorena, il Pulzone abbia creato
una sorta di quadro nel quadro su cui poggia
un drappo di colore azzurro-viola cangiante intenso, creando una sorta di trompe-l’œil. Questa
opera commissionata per essere il suo ritratto
ufficiale fu più volte ripetuta e copiata, come testimonia anche la Langedijk (1980-1986, vol. II,
pp. 730-733): due fra queste sono da attribuire
al Marucelli, una del 1602 (oggi perduta), e una
del 1603 conservata a Roma all’Istituto Latino
Americano, proveniente dalle Gallerie Fiorentine (inv. 1890, n. 5164). Vi è testimonianza di
altre numerose riproduzioni di questo ritratto
e si conoscono anche tre disegni (cfr. Inventario
1890, ed. on line 2009).
Catalogo
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Ferdinando I. Maiestate Tantum
Catalogo
6
Manifattura granducale
Stemma Medici-Lorena
1589 ca
mosaico di pietre tenere, cm 38 × 29
Firenze, Museo dell'Opificio delle Pietre Dure, inv. n. 262
invece il ciborio della Cappella dei Principi: in
una descrizione del 1637 vi figura uno stemma
con le insegne dei due sposi, campite su fondo
nero di paragone, riutilizzato poi nel Settecento
per l’altare maggiore della basilica di San Lorenzo. Forse era stato preparato per il ciborio in
sostituzione di questo, che composto con pietre
tenere dai colori primaverili dovette sembrare
antiquato, quando dopo la scomparsa di Ferdinando si affermò nelle pietre dure il gusto per
i vividi stacchi cromatici, valorizzati dai fondi
notturni del paragone di Fiandra.
A.G
Bibliografia: C. Przyborowski, in Firenze 1988, cat.
21, p. 124, con bibliografia precedente; Giusti 1995,
p. 30; A. Giusti, in Firenze 1997, cat. 142, p. 181; A.
Giusti, in Firenze-Chicago-Detroit 2002, cat. 24, p.
264; A. Giusti, in Firenze 2005, cat. I.46, pp. 103; A.
Giusti, in Memphis 2004, p. 159; A. Giusti, in Budapest 2008, p. 249
LE NOZZE DI FERDINANDO I E CRISTINA DI LORENA
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Lo stemma, che unisce le insegne delle casate
Medici e Lorena sormontate dalla corona
granducale, allude alle nozze di Ferdinando I
de’ Medici con Cristina di Lorena, celebrate nel
1589, ed è probabile che risalga ad epoca prossima a quella data. L’eleganza fantasiosa dell’incorniciatura dello stemma sembra rinviare
alla sofisticata inventiva del Buontalenti, principale regista dei festeggiamenti che in Firenze
celebrarono l’evento nuziale, al quale potrebbero riferirsi le due cornucopie beneauguranti
che affiancano l’insegna.
Ma ciò che più convince a datare lo stemma entro i primi anni ’90 è l’analogia con le insegne
delle città del granducato di Toscana, in lavorazione dal 1589 per il rivestimento interno della
Cappella dei Principi: anche queste sono intarsiate su fondo bianco, e composte da marmi di
vivace coloritura, in prevalenza archeologici,
punteggiati da inserti opalescenti di madreperla. È questo un gusto che caratterizza il primo
periodo di attività della manifattura granducale, quando Ferdinando continuò a coltivare la
predilezione per i marmi archeologici, appresa
negli anni del suo soggiorno romano, mentre
contemporaneamente andava promuovendo i
primi e già eccelsi saggi di commessi in pietre
dure, destinati a diventare incontrastati protagonisti dei mosaici fiorentini.
Il tema araldico fu d’altronde un soggetto ricorrente nei primi mosaici della manifattura: compariva ad esempio nel celebre piano di tavolo
ultimato per Rodolfo II d’Asburgo nel 1597, ed
è il protagonista di un tavolo mediceo, riferibile
al tempo di Ferdinando, tuttora conservato al
Museo degli Argenti (A. Giusti, in Baldini-Giusti-Pampaloni Martelli 1979, pp. 257-258).
Forma pendant con lo stemma Medici-Lorena uno stemma di papa Paolo V Borghese nel
Museo dell’Opificio (A. Giusti, in Giusti 1978,
p. 286), di necessità successivo al 1605, anno di
inizio del pontificato di Camillo Borghese: nel
1610 si progettava (Przyborowski 1982, p. 263),
ma senza seguito, di inserire entrambi gli stemmi e un cartiglio con dedica a Ferdinando I,
morto l’anno precedente, in una tavola lapidea
ideata dal Nigetti, da murare sopra l’altare della Sacrestia Nuova. È probabile che la primitiva
destinazione dello stemma Medici-Lorena fosse
83
Ferdinando I. Maiestate Tantum
59
Manifattura granducale
Sei formelle con tralci di fiori
1829-1830 ca
rilievi di pietre dure su fondi di paragone,
cm 10,5 × 50,5
Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure,
inv. 651
Le sei fasce offrono altrettante variazioni sullo
stesso tema, quello di una doppia voluta centrale di foglie di acanto, realizzate nella colorazione pallidamente dorata del diaspro di Volterra, dalle quali si diramano simmetricamente
tralci di fiori di pietre dure policrome.
La sottile eleganza grafica dei tralci fioriti e dell’acanto, la sapienza dell’intaglio a bassorilievo, e il gusto cromatico dei rilievi, valorizzato
dal fondo nero, hanno fatto in precedenza attribuire questi rilievi all’ultimo periodo mediceo (P. Mazzoni, in Giusti 1978, cat. 204-209, p.
3, Dall’anno 1830 a tutto il 1832, ins. 1, fo. 16).
I tralci, che mancano nel modello del 1821 per
l’altare (cat. 53), compaiono invece in quello
databile verso il 1830 (cat. 55), e sono mantenuti nell’ultimo progetto del 1860 (cat. 62),
che ne prevede otto, quattro come scansioni
verticali del fronte del paliotto e quattro sulle fiancate. Conoscendo la costante intenzione
del direttore Carlo Siries di mantenere viva e
vitale la manifattura, può non sorprendere la
scelta, in luogo di servirsi di pezzi antichi di
reimpiego, di realizzare ex-novo elementi di
stile tardo barocco. Una tale scelta era in linea
d’altronde con il nascente storicismo, che caratterizza anche altri lavori della Galleria nel
secondo quarto dell’Ottocento, e consentiva
inoltre il recupero di quell’abilità glittica che
era stata vanto della Manifattura per tutto il
periodo mediceo, per essere poi quasi abbandonata in epoca neoclassica.
A.G.
Bibliografia: P. Mazzoni, in Giusti 1978, p. 298; Giusti 1995, p. 37
60
Manifattura granducale
Quattro formelle con trionfi di
frutta e fiori
1861
mosaico di pietre dure su fondi di paragone,
cm 18 × 60
Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure,
inv. 689
I quattro commessi sono da annoverare fra gli
ultimi elementi eseguiti per l’altare progettato
nel secondo periodo lorenese per la Cappella dei
Principi, e che fu in lavorazione dal 1821 fino ai
primi anni ’60, senza che si arrivasse alla conclusione della laboriosa impresa. Ne furono causa
in parte i numerosi cambiamenti introdotti durante la sua attuazione, a opera soprattutto del
direttore della Manifattura granducale, Carlo
Siries, che cercò via via di adeguare i decori per
l’altare ai mutamenti del gusto. Ne sono esempio anche questi quattro pannelli, citati nel 1860,
ormai dopo la fine del granducato di Toscana,
fra i lavori che saranno ultimati l’anno seguente
(AOPD, Filza 21, Anno 1860).
Le quattro fasce avrebbero dovuto bordare i
margini superiore e inferiore dei due pannelli con emblemi liturgici sul fronte del paliotto:
questo almeno è quanto si arguisce da due modelli su tela conservati nei depositi dell’Opificio, dove i decori naturalistici delle quattro
fasce sono fedelmente riprodotti, mentre nel
progetto grafico per l’altare del 1860 (cat. 62)
non appaiono esattamente corrispondenti alla
versione a commesso di lì a breve ultimata.
Può sorprendere che si pensasse di accostare alla
smagliante bicromia azzurro e oro dei pannelli
con emblemi i ben diversi accordi cromatici di
queste fasce, ispirate nei decori naturalistici come
nell’acceso colorismo a modelli di epoca medicea. Ma verso la metà del secolo, la Manifattura
si apre all’eclettismo che comincia ad affermarsi
all’epoca nelle arti applicate, e torna inoltre a recuperare quei temi naturalistici che a lungo erano
stati il carismatico leit-motiv dei mosaici fiorentini.
Ne era stato esempio recente e ammiratissimo la
Tavola con uccelli, fiori e frutta, ultimata nel 1855 e
tuttora presso l’Opificio (A. Pampaloni Martelli,
in Giusti 1978, cat. 15, pp. 277-278), dove sul fondo scuro torna a sbocciare una natura primaverile, pietrificata per magia. Allo stesso gusto, che
guida con pari maestria la squisita valorizzazione della tavolozza lapidea, rispondono le quattro
formelle, che poco dopo si progettava di destinare all’altare.
A.G.
Bibliografia: A. Pampaloni Martelli, in Giusti 1978,
catt. 200-203, p. 298; Giusti 1995 p. 37
LE VICENDE SUCCESSIVE
200
298; Giusti 1995, p. 37). In realtà non sembra di
poterli individuare fra i vari pezzi antichi pervenuti dalla Guardaroba alla Manifattura, “per
servizio dell’altare” dal 1827 al 1829 (AOPD,
Inventario del 1789, aggiunte), mentre una più
attenta rilettura delle filze ottocentesche della
Manifattura, induce a riconoscerli almeno in
parte fra i lavori di “moderna fattura” segnalati nel dicembre 1828 (AOPD, Filza 2, Dall’anno
1827 a tutto il 1829, ins. 105). Nella “Descrizione” di tali lavori sono registrate “quattro foglie
di acanto eseguite a bassorilievo in diaspro giallo di Volterra, servono per completare l’ornato
di 2 pezzi di bassorilievo, che formano parte di
quelli del paliotto”.
Fra le spese del dicembre 1829, sotto la voce “lavoro di pietre dure a bassorilievo per il paliotto
del’altare della R. Cappella di san Lorenzo” è
allegata la ricevuta dell’artefice Giovanni Pucci,
“per avere eseguito in lavoro di bassorilievo un
grumolo [sic] composto di diaspro giallo di Volterra , calcedonio e lapislazzuli per il lavoro… che
deve servire di contorno al paliotto (AOPD, Filza
Catalogo
201